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Archivio della Categoria 'PERPLESSITA', POLEMICHE, PETTEGOLEZZI E BURLE'

lunedì, 19 settembre 2011

HOMO INTERNETICUS. QUANDO INTERNET DIVENTA UNA DROGA

Continua la nostra navigazione tra i pro e i contro di Internet…
Dopo aver discusso – negli anni e nei mesi scorsi – del colosso Google, di rivoluzione Internet, della responsabilità legale della scrittura in rete, del tema scottante della pedofilia on line, degli aspetti positivi e negativi di Facebook, vorrei concentrare la mia e la vostra attenzione su altre problematiche connesse alle nostre vite “sempre più on line”, cogliendo gli stimoli forniti da due libri molto interessanti.

http://img3.libreriauniversitaria.it/BIT/795/9788806207953g.jpgIl primo, è un libro pubblicato da Einaudi e intitolato “Quando internet diventa una droga. Ciò che i genitori devono sapere” di Federico Tonioni (ricercatore universitario per il settore scientifico-disciplinare di psichiatria che afferisce all’Istituto di Psichiatria e Psicologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e in qualità di dirigente medico presso il Day Hospital di Psichiatria e Tossicodipendenze del Policlinico Gemelli). Si tratta di un testo che si pone come obiettivo principale quello di fornire risposte sul tema della “dipendenza da Internet” (vera e propria patologia).
Per darvi un’idea più precisa sui contenuti del libro, vi riporto la scheda:
Federico Tonioni in questo volume spiega e svela con estrema chiarezza le patologie che, soprattutto nel mondo degli adolescenti, sono legate alla straordinaria diffusione di internet. Il libro è cosí uno strumento prezioso per aiutare i genitori che, appartenendo a generazioni «pre-digitali», spesso non sono abituati all’uso del computer e alla navigazione in rete, e si scoprono impreparati alla comprensione dei disturbi che internet può arrecare ai loro figli. Allo stesso modo viene trattata la dimensione on-line del gioco d’azzardo e dei siti per adulti, patologie compulsive che coinvolgono persone di ogni età. Quando internet diventa una droga rappresenta cosí una guida chiara ed efficace sui rischi della dipendenza da internet.
Scrive l’autore: «Mi occupo di dipendenze patologiche da diversi anni e nel corso del mio lavoro ho avuto modo di ascoltare e condividere storie sofferte, rivelazioni sconcertanti, idee deliranti; ma qualche ringraziamento autentico e spontaneo ha reso improvvisamente leggero il peso delle responsabilità che sono chiamato a sostenere. Ho imparato che chi manifesta una dipendenza patologica non vuole soffrire per forza ma vuole soffrire di meno, e che la droga per il tossicodipendente, come la cioccolata per la bulimica o il video poker per il giocatore d’azzardo, non sono desideri ma bisogni, che a volte travalicano la forza di volontà e la logica del pensiero».

http://www.maremagnum.com/extimages/immdef/978889666531.jpgIl secondo, è un libro pubblicato da Piano B edizioni e intitolato Homo Interneticus. Restare umani nell’era dell’ossessione” di Lee Siegel (saggista e critico culturale per il “New York Times”, “Harpers”, “The New Republic” e “New Yorker). Si tratta di un volume uscito negli States all’incirca tre anni fa, dove l’autore (forse “condizionato” anche da ragioni personali, come vedremo) assume una posizione molto critica – quasi “ostile” – nei confronti della rete e dei suoi effetti.
La versione italiana è tradotta da Alessandra Goti e contiene una lunga e succosa prefazione firmata da Luca De Biase.
Riporto, di seguito, la scheda:
Incalzante, lucido, provocatorio, Homo Interneticus prova a mettere in discussione il mezzo tecnologico più esaltato e venduto degli ultimi dieci anni: Internet. La retorica di democrazia e libertà che circonda la Rete viene sfidata nelle sue questioni fondamentali: che tipo di interessi nasconde la Rete? Come e quanto sta influenzando la cultura e la vita sociale? Come stiamo imparando a relazionarci agli altri on line? Qual è il costo psicologico, emotivo e sociale della nostra affollata solitudine high-tech?
Homo Interneticus non è un manifesto contro Internet, ma un’analisi tagliente su come la quotidianità della Rete ha cambiato il ritmo delle nostre vite e il modo in cui percepiamo noi stessi e gli altri. Per Siegel, il lato oscuro della Rete sta rivoluzionando radicalmente la nostra società: il dissolvimento del confine fra pubblico e privato, la trasformazione da cittadino a utente e da utente a prosumer, la mercificazione di privacy e tempo libero, la libertà di consumare confusa con la libertà di scegliere, la riduzione della propria vita a bene da esporre, promuovere, impacchettare e vendere.
Prosumerismo, blogofascismo, il passaggio da cultura popolare a cultura della popolarità, la riduzione della conoscenza a informazione e dell’informazione a chiacchiera, l’autoespressione confusa con l’arte. I molti temi toccati dalle duecento pagine di Homo Interneticus riescono a porre questioni, temi e domande che attendono ancora di essere discusse. Al di là dell’entusiasmo incondizionato che circonda apriori tutto ciò che è Internet e web 2.0, Siegel prova a centrare l’attenzione sui reali interessi che circondano l’enorme massa di nuovi clienti da informare, consigliare e a cui vendere oggetti o stili di vita. Ricco di punti di vista originali e pieni di genio,
Homo Interneticus ci obbliga a riflettere sulla nostra cultura e sull’influenza del web in un modo completamente nuovo.

Vorrei discutere con voi delle tematiche affrontate dai due libri (che, per certi versi, si intrecciano). Proverò a coinvolgere nel dibattito anche i citati Federico Tonioni e Luca De Biase.
Per favorire la discussione vi propongo alcune domande estrapolate (o ispirate) dalle schede dei due libri. Come sempre, vi invito a fornire le “vostre” risposte.
(continua…)

Pubblicato in EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, PERPLESSITA', POLEMICHE, PETTEGOLEZZI E BURLE, SEGNALAZIONI E RECENSIONI   140 commenti »

lunedì, 25 luglio 2011

LA CENSURA “AUTOMATICA” DI FACEBOOK

LA CENSURA “AUTOMATICA” DI FACEBOOK

Chi mi segue su Letteratitudine è al corrente del mio entusiasmo rivolto alla rivoluzione Internet (come non riconoscere, per esempio, il ruolo importante che di recente il web ha giocato nel rovesciamento di un paio di regimi dittatoriali in Nord Africa). Questo entusiasmo, tuttavia, non mi ha mai impedito di stigmatizzare gli aspetti negativi della rete (che pur ci sono). Sin dai “primissimi tempi” ho messo in risalto i rischi che potevano derivare dal monopolio di Google. Insieme all’amica Simona Lo Iacono ho puntato l’indice sulla piaga della pedofilia on line, e ho evidenziato che anche la scrittura in rete implica l’assunzione di responsabilità.
Tempo fa, nel post che potete leggere di seguito, ho anche cercato – insieme a voi – di analizzare i pro e i contro di Facebook: il più frequentato social network di questi anni.
Vorrei aggiornare il suddetto post, raccontandovi un episodio che è capitato proprio a me.
Giorno 16 luglio, ho provato a inserire nel mio profilo Facebook (e in quello di Letteratitudine) il link di un nuovo post (in genere riporto i link senza “taggare” – cioè “invitare alla discussione” – nessuno… proprio per evitare di disturbare). Scopro, con enorme sorpresa, che il link non è pubblicabile. Nel momento, infatti, in cui clicco sull’apposito pulsante, appare una finestra contenente il testo che riporto di seguito: “In questo messaggio sono presenti dei contenuti bloccati che sono già stati contrassegnati come offensivi o spam. Facci sapere se ritieni che si tratti di un errore”.
Cliccando sulle parole “Facci sapere”, si apre una nuova finestra dove mi si dà conferma che i contenuti di Letteratitudine sono stati segnalati come offensivi. Anche in questo caso riporto il testo che appare sulla finestra: “Il contenuto che stai tentando di pubblicare su Facebook è stato segnalato come offensivo. Compila questo modulo se ritieni che questo contenuto sia stato bloccato per errore”.
Nonostante abbia compilato il suddetto modulo decine e decine di volte (forse anche centinaia), e nonostante le numerose mail inviate all’help desk di Facebook, la censura non è stata sbloccata. Non solo: non mi è mai stata data alcuna spiegazione.
Ancora oggi (sono trascorsi dieci giorni, all’incirca) non è possibile pubblicare link di Letteratitudine. E, ripeto, senza che ne conosca le ragioni. Non solo non posso farlo io, ma non può farlo nessuno degli utenti di Facebook (500 milioni di persone, sparse per il pianeta).
Ovviamente la cosa mi dispiace, intanto per il fatto (paradossale) che uno dei principi fondanti di Letteratitudine (come ben sa chi mi segue) coincide con il rispetto dell’altro e delle altrui idee (altro che contenuti offensivi!), ma anche per il fatto che nessuno degli amici di questo blog (e in tanti hanno provato a farlo) possono pubblicare sui loro profili link di origine letteratitudiniana.
Per fortuna il danno arrecato non è particolarmente rilevante, giacché Letteratitudine ha una sua autonomia ed è del tutto indipendente da Facebook. Tuttavia ho deciso ugualmente di “denunciare” l’episodio dato che qualcosa del genere potrebbe capitare a chiunque. Anche perché i “buontemponi dalla segnalazione facile” (chiamiamoli così) sono sempre esistiti e sempre esisteranno. E forse è pure inutile prendersela con loro.
È bene che sappiate – cari utenti di Facebook – che, se qualcuno dovesse cominciare a segnalare i contenuti dei vostri blog (che linkate sui vostri profili) come offensivi (al di là del fatto che lo siano davvero), prima o poi verrà applicata questa forma di censura “automatica” (che opera, cioè, senza che si sia proceduto a una previa verifica dei contenuti) anche a vostro danno. Del resto non è capitato solo a me (so di persone che, da un giorno all’altro, e senza spiegazioni, si sono visti cancellare il loro profilo).
Vi garantisco che vedersi censurati (o eliminati) senza motivo, senza preavviso e senza spiegazioni è tutt’altro che piacevole.
http://giano.luiss.it/files/2009/09/Il-processo.jpgMi viene in mente l’incipit del noto romanzo postumo di Franz Kafka, “Il processo”: Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., poiché un mattino, senza che avesse fatto nulla di male, egli fu arrestato (traduzione di Primo Levi, Einaudi, 1983).

Ora, partendo dal presupposto che i “buontemponi dalla segnalazione facile” (continuiamo a chiamarli così) sono sempre esistiti e sempre esisteranno, credo che chi dovrebbe evitare che accadano episodi del genere sia proprio il social network.
Capisco che controllare i contenuti messi on line da 500 milioni di utenti è piuttosto complesso e gravoso, tuttavia quando un sito web (proprio grazie al numero esorbitante dei propri iscritti) raggiunge il valore aziendale di 50 miliardi di dollari (è il caso di Facebook) credo che il problema debba essere affrontato in maniera più seria.
Anche perché, a dirla tutta, è paradossale sentire le lagnanze dei manager di questi colossi della Rete quando si lamentano della difficoltà a penetrare nei paesi assediati da un regime dittatoriale, mentre poi loro stessi – al loro interno – applicano metodi sbrigativi che, in alcuni casi, sfociano in forme di censura automatica di “stampo sovietico”.

Il consiglio che vi do, dunque, è di prendere consapevolezza del fatto che, all’interno di un social network come Facebook (utilissimo, per carità: ti aiuta a connetterti e rimanere in contatto con le persone della tua vita!), siamo tutti assoggettati alle decisioni (e agli automatismi censori) di un deus ex machina.

Meglio mantenersi indipendenti, dunque. Se possibile.
Scusate lo sfogo!

Massimo Maugeri
(25 luglio 2011)

P.s. Attendo, ovviamente, le vostre opinioni in merito.
P.p.s. Sarei grato se le notizie inserite in questo post potessero “circolare”. Magari può essere utile per sbloccare la censura. Perciò, linkate e scrivete (se potete). Grazie in anticipo.

(continua…)

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lunedì, 20 giugno 2011

L’E-BOOK E (È?) IL FUTURO DEL LIBRO

Vorrei riprendere la discussione sull’e-book già avviata a partire da questo post, offrendo come spunto per ulteriori riflessioni (e per un approfondimento del dibattito) la pubblicazione di questo nuovo volumetto che ho realizzato per i tipi della piccola casa editrice “Historica” (disponibile, ovviamente, anche in formato elettronico). Il titolo è già un punto di domanda: “L’e-book e (è?) il futuro del libro”.
L’intento non è quello di fornire approfondimenti tecnici sull’e-book, ma di divulgare opinioni emotive sull’argomento. Per far ciò ho coinvolto alcuni tra i più rappresentativi addetti ai lavori del mondo del libro – scrittori, editori, editor, critici letterari, giornalisti culturali – che hanno gentilmente messo a disposizione il loro parere (da qui il sottotitolo…).
Ho chiesto loro di ragionare sul “fenomeno e-book” ed esprimere un’opinione facendo riferimento alle seguenti domande: Cosa ne pensa dell’e-book? Come immagina il futuro dell’editoria e della letteratura tenuto conto del “peso crescente” delle nuove tecnologie? E cosa ne sarà dei libri di carta? C’è il rischio che possano diventare “pezzi da collezione”?
Dopo una parte introduttiva sulla evoluzione del libro elettronico e sugli e-book readers, e dopo una sintetica analisi di mercato, questo piccolo volume offre le “opinioni emotive” sull’e-book fornite da: Roberto Alajmo, Marco Belpoliti, Gianni Bonina, Laura Bosio, Elisabetta Bucciarelli, Ferdinando Camon, Daniela Carmosino, Antonella Cilento, Paolo Di Stefano, Valerio Evangelisti, Vins Gallico, Chiara Gamberale, Manuela La Ferla, Nicola Lagioia, Filippo La Porta, Gianfranco Manfredi, Agnese Manni, Diego Marani, Dacia Maraini, Daniela Marcheschi, Michele Mari, Raul Montanari, Antonio Paolacci, Romana Petri, Antonio Prudenzano, Giuseppe Scaraffia, Elvira Seminara, Filippo Tuena, Alessandro Zaccuri.

Vorrei coinvolgere nello sviluppo della discussione anche voi, proponendo come sempre alcune domande (e invitandovi a fornire la vostra risposta, se potete)…

1. L’e-book è davvero il futuro del libro?

2. Se sì, fino a che punto?

3. Che cos’è un libro: un supporto cartaceo, o il suo contenuto? O entrambi?

4. Tra un volume rilegato di fogli bianchi e un romanzo leggibile su un e-book reader, quale dei due è… più libro?

5. Come immaginate il futuro dell’editoria e della letteratura tenuto conto del “peso crescente” delle nuove tecnologie?

6. Cosa ne sarà dei libri di carta? C’è il rischio che possano diventare “pezzi da collezione”?

7. Una diffusione “significativa” dell’e-book  potrebbe favorire l’incremento della lettura?

La discussione on line proseguirà – per chi potrà partecipare – alla Feltrinelli Libri e Musica di Catania (via Etnea, n. 285 ) giovedì 30 giugno 2011, alle h. 18.

Vi aspettiamo!

Massimo Maugeri

P.s. Ne approfitto per segnalare questo post di Lipperatura incentrato sull’attuale crisi dell’editoria determinata dal decremento della vendita dei libri (il post riprende un articolo pubblicato su Repubblica, con dichiarazioni di Marco Polillo – presidente dell’Aie – anche sul “fenomeno e-book”)

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martedì, 3 maggio 2011

LETTERATITUDINE BOOK AWARD 2010: dedicato a Ernesto Sábato

Dedico questo spazio alla memoria di Ernesto Sábato, scomparso il 30 aprile 2011. Il suo capolavoro “Sopra eroi e tombe” ci ha fatto discutere nel corso del 2010 (nell’ambito del gioco che abbiamo chiamato Letteratitudine book award). L’esito finale della discussione ha sancito che il suddetto libro, secondo i partecipanti di questo forum, è il miglior romanzo straniero pubblicato nel 2009 in Italia.
Ciao, Ernesto. A te il nostro pensiero e la nostra gratitudine.
Massimo Maugeri

POST DEL 21 OTTOBRE 2010: Ernesto Sábato, con “Sopra eroi e tombe”, vince il LBA 2010

Sopra eroi e tombeIl libro vincitore dell’edizione 2010 del Letteratitudine Book Award è: “Sopra eroi e tombe” (Einaudi) di Ernesto Sábato.

Ultimata la fase finale del LBA, che si è svolta dal 1° al 20 ottobre.

Sopra eroi e tombe” (Einaudi) di Ernesto Sábato ha conseguito 150 voti, seguito da “Indignazione” (Einaudi) di Philip Roth, che ha raggranellato 145 voti, e da “Invisibile” (Einaudi) di Paul Auster (40 voti).
A questo punto, vi invito ad avviare un dibattito sulla figura di Ernesto Sábato.

Seguono la scheda del libro e una nota biografica dell’autore. Di seguito, le notizie sulle varie fasi del gioco.

La scheda del libro
Per la prima volta tradotto integralmente, “Sopra eroi e tombe” è una storia d’amore, mistero e follia che passa attraverso le vicende dei singoli personaggi (alcuni, come Alejandra, indimenticabili), quelle di una famiglia «maledetta», quelle di alcune fasi della storia argentina. È soprattutto un romanzo che racconta l’inestricabile compresenza nella vita di luce e buio, di sentimenti radiosi e perversioni, di lunghe angosce e attimi di felicità.
Un libro che mescola tutti i generi romanzeschi, dal gotico al sentimentale, dal filosofico alla satira sociale, ma che alla fine può essere classificato solo, come ha scritto Gombrowicz, «nel genere sospetto di quei romanzi che si leggono d’un fiato e quando li abbiamo finiti ci si accorge che sono le quattro del mattino».

Alejandra è una ragazza affascinante ma enigmatica e scostante. Epilettica, sonnambula, sembra possedere attitudini paranormali, oppure è solo agitata da forze più grandi di lei, che non riesce, o non vuole, dominare.
E nasconde un inconfessabile mistero.
Martín, invece, è un innamorato possessivo e un po’ noioso. Per lui stare con Alejandra è un’esperienza sconvolgente in tutti i sensi, che lo può portare dall’estasi all’angoscia in pochi minuti.
Bruno è un intellettuale dal carattere contemplativo, tendente alla malinconia e al rimpianto, alla ricerca di un’impossibile saggezza.
Fernando è un paranoico ossessionato dall’idea che tutti i ciechi facciano parte di una setta demoniaca destinata alla conquista del mondo. Percorre il suo viaggio nei territori del male e della perversione con la più raffinata e paradossale lucidità.
Ma tutta la sua famiglia, gli Olmos, depositari di antichi valori, sono toccati dalla tara della follia e del decadimento. In attesa di una tragica e spettacolare purificazione.

Nota biografica dell’autore
[1226580615_0.jpg]
Ernesto Sábato è nato a Rojas, vicino a Buenos Aires, nel 1911.

Negli anni Trenta si laurea in fisica e diventa un dirigente del Partito Comunista argentino, dal quale viene inviato in Europa, prima a Bruxelles poi a Parigi, dove frequenta l’ambiente dei surrealisti.

Nel 1940 ritorna in Argentina come professore di fisica all’Universidad de la Plata di Buenos Aires. Dal 1941 inizia a collaborare alla rivista «Sur» insieme a Borges, Silvina Ocampo e Bioy Casares. Dal 1945 abbandona la carriera scientifica per dedicarsi interamente alla letteratura e alla pittura.

Nel 1948 pubblica il suo primo romanzo, El túnel. Negli anni Cinquanta scrive principalmente saggi e scritti politici, e prepara il suo romanzo-capolavoro: “Sobre héroes y tumbas”, che esce nel 1960. Nel 1983 il governo di Alfonsín lo nomina presidente della Commissione nazionale sui desaparecidos. Nel 1998 pubblica “Antes del fin”, autobiografia e testamento politico-letterario.
Vive a Santos Lugares, nei pressi di Buenos Aires.

Massimo Maugeri
(continua…)

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lunedì, 17 gennaio 2011

RITORNA L’INDICE DEI LIBRI PROIBITI

Il caso Battisti ha fatto discutere e fa discutere. Ci sono opinioni contrapposte, certo. È legittimo pensarla in maniera diversa. La democrazia, del resto, si fonda sul confronto delle opinioni… ma leggere le parole di un amministratore locale che inserisce in una sorta di “indice dei libri proibiti”, e poi propone di mettere al bando, i libri di scrittori che la pensano in maniera diversa da lui mi sembra assurdo e incredibile.
Mi sembra da Medioevo (anche come semplice provocazione).
Antonio Prudenzano riassume molto bene i termini della questione su Affari Italiani.
Segnalo questo post e quest’altro pubblicato da Loredana Lipperini su Lipperatura. E questo, pubblicato da Stefania Nardini su Strade.

Massimo Maugeri
* * *

AGGIORNAMENTO del 19/01/2011

Aggiorno il post, sottolineando che – a mio avviso – il caso Battisti, in questa vicenda, ormai, c’entra pure poco. E lo sostiene uno che non ha mai firmato alcun appello in suo favore. C’entra poco perché la questione è un’altra. E va pure oltre l’essere di destra e di sinistra. Lo scrive anche Fabio Deotto su Panorama.it (magazine non certo di sinistra). Ne riporto alcuni passaggi: “Un’idea tanto semplice quanto brutale, che rievoca i numerosi roghi di libri e le innumerevoli liste nere che hanno costellato la storia dell’uomo: mettere al bando dalle biblioteche tutte le opere di quegli intellettuali che nel 2004 hanno firmato un appello contro l’estradizione di Cesare Battisti. (…) I promotori dell’iniziativa parlano di boicottaggio civile, ma sarebbe più corretto parlare di lista di proscrizione. (…) Sì, perché se si volesse solo boicottare alcuni autori si potrebbe semplicemente evitare di comprare i loro libri, invece Speranzon invita le biblioteche a “ritirare dagli scaffali”. Il risultato sarebbe che nelle biblioteche il lettore potrebbe ancora trovare il Mein Kampf di Hitler, ma non La fata carabina di Daniel Pennac, La cura del gorilla di Sandrone Dazieri o Stabat Mater di Tiziano Scarpa (vincitore del premio Strega 2009). Episodi come quelli del pastore Terry Jones in America ci ricordano che non è mai prudente abbassare la guardia e che esisterà sempre qualcuno, negli anni ‘40 come nel 2011, a cui i libri fanno paura”.
Alcuni aggiornamenti:
- Sul blog di Stefania Nardini: lettera aperta alla Presidente della Provincia di Venezia e il commento di Luis Sepulveda
- Su Lipperatura: Il contesto, Dagli scaffali si tolga Saviano, Le reazioni.

Come dicevo, il caso Battisti in questa vicenda (secondo me) c’entra pure poco (così come i libri oggetto dell’epurazione non hanno nulla a che fare con Battisti). È “il metodo”, l’approccio usato per “punire” i firmatari di quell’appello, che lasciano interdetti…
Massimo Maugeri

p.s. ho preferito disabilitare i commenti perchè in questi giorni sono quasi sempre offline e avrei difficoltà a moderare adeguatamente la discussione che potrebbe nascere da un tema così delicato…

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martedì, 11 gennaio 2011

GIUDIZIO UNIVERSALE SULLA TV CHE VORRESTE

Qualche settimana fa ho ricevuto una mail da Dario De Marco, della redazione di Giudizio Universale.

Nella mail Dario mi proponeva di organizzare una discussione sulla “Tv ideale” partendo da alcuni articoli – pubblicati sulla rivista – predisposti da alcuni scrittori e intellettuali (tra cui frequentatori e amici di questo blog come Roberto Alajmo, Antonella Cilento, Carlo D’Amicis, Michela Murgia, Sandra Petrignani).

Accolgo con molto piacere l’invito di Dario e di Giudizio Universale, ma – come sempre – l’esito di questo dibattito (su “la Tv che vorreste/vorremmo”) dipenderà dalla vostra partecipazione…
Peraltro, sarebbe interessante (almeno, secondo me) provare a tracciare – in breve – la storia della televisione in generale e della televisione italiana in particolare. E poi potremmo riflettere su alcune citazioni in tema che saranno inserite nel corso della discussione.
Ecco, intanto, una serie di domande (siete tutti invitati a rispondere).

Che tipo di rapporto avete con la Tv?

Quali sono, in generale, i pro e i contro della televisione?

Che tipo di contributo ha dato la televisione italiana alla cultura?

Quali sono i programmi di oggi che guardate con maggior piacere?

Quali programmi del passato vi piacerebbe che venissero rimessi in onda?

In generale: che tipo di televisione vorreste? Che tipo di programmi vi piacerebbe vedere?
(Provate, magari, a proporre una sorta di format).

Gli interventi più interessanti, inseriti tra i commenti, potrebbero rimbalzare sulle pagine di Giudizio Universale.
Vi ringrazio in anticipo per la collaborazione.

Massimo Maugeri

Extrapost: ringrazio Marilù Oliva per la pubblicazione di questa intervista su Thriller magazine


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mercoledì, 15 aprile 2009

SCRITTURA SENZA GENERE

no-gender-in-the-language.JPGL’Unione europea ha sempre avuto a cuore il tema delle pari opportunità, anche – e soprattutto - tra i generi. Di recente, il Gruppo di alto livello sulla parità di genere e la diversità del Parlamento europeo ha pubblicato un opuscolo che sta facendo discutere, giacchè si parla di bandire ogni riferimento sessista dalle lingue europee.
Come mi scrive Diego Marani in una mail: “queste direttive linguistiche sono unicamente interne, rivolte ai parlamentari e ai funzionari. E hanno suscitato pesanti critiche proprio di un gruppo di eurodeputate italiane”.
Tuttavia il segnale lanciato è importante e significativo.
Il Domenicale del Sole24Ore del 22 marzo 2009 fa ha dedicato la prima pagina all’argomento con due articoli firmati da Diego Marani (già citato) e Giuseppe Scaraffia. Intrigante, il sottotitolo: la Ue vuole cancellare le differenze di genere nelle lingue europee. Cosa accadrà ai personaggi della letteratura, dalla Bovary a Maigret?
“Dovremo abolire qualche dottoressa e non potremo più fare un complimento a una tardona chiamandola signorina”, scrive Marani. “Anzi, perderemo anche la tardona e addio sogni erotici adolescenziali. Ma per il resto usciremo quasi indenni dalla castrazione linguistica europea. L’inglese invece avrà vita dura. Ogni fireman dovrà trasformarsi in fireperson, a portare le lettere sarà il postperson, e nella city saranno tutti businesspersons. La First Lady sarà degradata a First Woman e chissà come la si metterà con la girlfriend”.
Giuseppe Scaraffia va oltre e immagina l’applicazione delle suddette regole in letteratura. La versione purgata del più celebre romanzo di Flaubert si dovrebbe intitolare Bovary. “Tutto fila liscio”, scrive Scaraffia: Spesso, quando Bovary era fuori, Bovary andava a prendere nell’armadio il portasigari di seta verde. Lo guardava, lo apriva, annusava perfino l’odore della fodera che sapeva di verbena e di tabacco. A chi apparteneva?. Certo, se arretriamo di qualche riga, la situazione si complica. Infatti Bovary ha appena raccolto il portasigari e ha detto: Ci sono dentro due sigari. Andranno bene per questa sera dopo cena. Al che Bovary ha ribattuto: Ma come, tu fumi?, facendosi rispondere, sempre da Bovary: Qualche volta, quando capita l’occasione”.
Come ho scritto in premessa, l’orientamento del Gruppo di alto livello sulla parità di genere e la diversità del Parlamento europeo in tema di parità di genere nelle lingue sta facendo discutere.
Mi piacerebbe conoscere la vostra opinione in proposito.
Cosa ne pensate?
Fino a che punto, a vostro avviso, la diversità di genere nelle lingue andrebbe combattuta?

E poi… annullare il genere nelle lingue può davvero favorire le pari opportunità?
È possibile immaginare una scrittura – anche letteraria – senza genere?

Ringrazio Diego Marani e Giuseppe Scaraffia per avermi inviato gli articoli citati (li potrete leggere di seguito) e la redazione di Domenica del Sole24Ore per avermi autorizzato a pubblicarli.
Ne approfitto per segnalare i due nuovi libri di Marani e Scaraffia (entrambi hanno a che fare con le donne):
L’amico delle donne” di Diego Marani (Bompiani)
Cortigiane. Sedici donne fatali dell’Ottocento” di Giuseppe Scaraffia (Mondadori).

Massimo Maugeri

(continua…)

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mercoledì, 8 aprile 2009

L’ITALIA IRRAZIONALPOPOLARE. Luca Mastrantonio, Francesco Bonami

Tempo fa Enrico Manca, nel ruolo di Presidente della Rai, marchiò Pippo Baudo con l’epiteto di nazionalpopolare.
Luca Mastrantonio (scrittore e responsabile delle pagine cultura e spettacoli del «Riformista») e Francesco Bonami (curatore internazionale di arte contemporanea, direttore della Biennale di Venezia nel 2003, critico d’arte) sono andati oltre coniando un neologismo poi sfociato nella scrittura di un saggio a quattro mani edito da Einaudi: Irrazionalpopolare (pag. 288, euro 17,50).
Il riferimento è a tutti quei casi in cui il successo di qualcuno o di qualcosa non è spiegabile razionalmente. Sul libro aleggia questa frase: “Siamo una quasi nazione che vive una perenne condizione irrazionalpopolare. Dove l’apocalisse è sempre presente e la verità è un’altra versione dei fatti”.
Un libro pungente, critico, a tratti sferzante dove non manca l’elenco dei personaggi (ma anche degli oggetti) che – a detta degli autori – hanno beneficiato di un successo inspiegabile o ingiustificato. Dunque, irrazionalpopolare.
Come si evince dal libro, nell’irrazionalpopolare è bello ciò che piace senza un motivo. Anzi, è proprio la mancanza apparente di un motivo a rendere qualcosa incredibilmente piú bella.
Gli autori colgono l’occasione per raccontare un’Italia in crisi dove la tecnologia è la nuova teologia, le città sono centri di ragionata follia e quelli commerciali un reality urbanistico. Una “società dello spettacolo” dove c’è informazione piú che formazione, situazione e non circostanza, divertimento piú che intendimento, de-costruzione e non invenzione (le frasi in corsivo sono tratte dalla scheda del libro).
Ce ne parla più in dettaglio Francesca Giulia Marone (che mi aiuterà ad animare e coordinare il post) nell’articolo che segue.
A me interessera tentare di scoprire con voi – e con il supporto degli autori del volume – i meccanismi (arcani?) che portano alla irrazionalpopolarità… magari prendendo spunto per tentare di capire – ancora una volta – l’Italia di oggi e confrontarla con quella del passato.
Per favorire la discussione pongo qualche domanda:
- Convenite sull’esistenza di fenomeni… irrazionalpopolari nella società italiana?
- A vostro avviso questi fenomeni riguardano solo (o principalmente) l’Italia, o sono generalizzati?
- Secondo voi cosa è “irrazionalpopolare”?

(Potremmo tentare di fare un elenco degli oggetti più irrazionalpopolari)
- Quali meccanismi nascosti decretano l’immagine del successo agli occhi della massa?
- Siamo sicuri che l’Italia di oggi sia più irrazionalpopolare e meno nazionalpopolare di quella di ieri?

A voi la parola.
Massimo Maugeri
(continua…)

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giovedì, 26 marzo 2009

LA POESIA: SPECIALITA’ DEI PERDENTI?

La poesia è una specialità dei perdenti?
Ripropongo con questa domanda secca uno dei miei post permanenti dedicati alla poesia. Questo post treva origine da un articolo del 2007 pubblicato da Berardinelli sul Domenicale de Il Sole24Ore. Credo che sia ancora attualissimo.
In coda potrete leggere un’intervista in tema che mi ha rilasciato Renzo Montagnoli.
Dunque… la poesia è una specialità dei perdenti?
A voi.
Massimo Maugeri

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Post dell’11 giugno 2007

La poesia annoia? La poesia è ghettizzata? La poesia è in crisi? Sono in crisi i lettori di poesia?

Qualche giorno fa, per l’esattezza il 27 maggio, Alfonso Berardinelli ha pubblicato un articolo sul Domenicale de Il Sole24Ore. Un articolo che ha fatto molto discutere. Il titolo è emblematico: “Togliamo la poesia dal ghetto”.

Ancora una volta, partendo dallo spunto offerto da Berardinelli, potremmo tornare a domandarci cosa si intende per poesia e chi è poeta. La discussione, per la verità, ha toccato altri punti. Per esempio: Chi legge poesia? E, soprattutto, chi è davvero in grado di valutare un testo di poesia?

Scrive Berardinelli: “Chi si accorge che un libro di poesia è brutto o inesistente sono sì e no cento persone. Di queste cento, quelle che lo dicono sono una ventina. Quelle che lo scrivono sono meno di cinque.”

Ma prima ancora di giungere a questa conclusione si domanda: “chi conosce a memoria un paio di testi scritti dalle ultime generazioni di poeti?”

È pessimismo o realismo, quello di Berardinelli?

Vi riporto quest’altro stralcio dell’articolo, che coincide con una ulteriore serie di domande:

“Chi potrebbe credere oggi che fino a vent’anni fa “testo poetico” era sinonimo di testo letterario e che tutta la teoria della letteratura, da Jakobson in poi, ruotava intorno alla nozione di “funzione poetica del linguaggio”? Ora i teorici, quando ci sono, si occupano di romanzi. La poesia sembra  diventata la specialità dei “perdenti” e i critici che se ne occupano dimostrano un’inspiegabile vocazione al martirio. Chi li inviterà mai a un convegno? Quale giornale recensirà i loro libri?”

Spunti, domande e considerazioni che giro a voi, amici di Letteratitudine.

Cosa ne pensate?

Ha ragione Berardinelli?

C’è qualcuno, tra voi, che ritiene di rientrare nel ristretto gruppo di cento persone in grado di accorgersi che un libro di poesia è brutto o inesistente?

La parola è vostra.

(continua…)

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martedì, 27 gennaio 2009

PUBBLICARE SENZA LIMITI? IL CASO CÉLINE

Mentre sono ancora in corso le polemiche sul “negazionismo“, e il “giorno della memoria” volge al termine, vi propongo una discussione su un argomento di natura letterario-editoriale che considero piuttosto spinoso e che ha per protagonista Céline.
Vi riporto l’incipit di un articolo di Cristina Taglietti pubblicato sul Corriere della Sera del 10 dicembre 2008:
“Torna in Francia il Céline impubblicabile, quello dei pamphlet antisemiti, scritti dal 1937 al ‘41 e rinnegati in vita dallo stesso autore. “Les éditions de La Reconquête”, casa editrice nata nel 2006 sotto l’egida di Léon Bloy che pubblica testi ultrareligiosi e classici del collaborazionismo francese come Léon Degrelle e Lucien Rebatet, ufficialmente registrata in Paraguay, ha tirato 5.010 copie di “Les beaux draps”, ultimo dei quattro pamphlet (gli altri sono “Bagatelle pour un massacre”, “L’ école des cadavres” e “Mea culpa”), accompagnato da una introduzione di Robert Brasillach su «Céline profeta». Il ritorno, sessantasette anni dopo la sua comparsa nelle “Nouvelles Éditions Françaises”, di un testo alla cui riedizione si sono sempre opposti la vedova dello scrittore, Lucette Destouches (che detiene i diritti) e il suo avvocato François Gibault (biografo dell’ autore di “Viaggio al termine della notte”) ha suscitato in Francia un dibattito che ha diviso la cultura.
Propongo di avviare una discussione anche qui.
Sul caso in questione Alessandro Piperno (lo scopriamo dal suddetto articolo della Taglietti) sostiene che “un testo come questo andrebbe pubblicato con un briciolo di responsabilità contestualizzandolo storicamente. Personalmente (aggiunge Piperno) non c’è quasi nulla che reputi impubblicabile, ma non c’è figura che mi ripugna di più del fanatico ideologizzato, a cui mi sembra sia indirizzato questo genere di operazione. Mi disgusta l’uso che in un certo sottobosco estremista viene fatto di Céline e di altri autori politicamente scorretti”. Moravia – ci ricorda la Taglietti – “in un elzeviro sul «Corriere», all’epoca della pubblicazione in Italia, nell’81, lo bollò come libro infame oltre che noioso e malscritto”, mentre per Giulio Ferroni “dopo molti anni, i documenti degli scrittori, se non sono stati distrutti, possono essere pubblicati”. Erri De Luca, pur considerando Céline “una persona spregevole”, dichiara di essere “favorevole a qualunque tipo di pubblicazione (non posso permettermi di essere contrario a nessuna parola scritta)”. Per Massimo Onofri, invece, “il rifiuto di Céline non è di ordine moralistico, ma si basa sul fatto che la debolezza del pensiero che innerva i suoi romanzi, la sua ideologia così povera, piccina, che allinea tutti i luoghi comuni del più becero antisemitismo non possano produrre grandi libri. La cattiva ideologia non è un reato contro la morale ma contro la letteratura stessa”.
E voi… cosa ne pensate? Provo a porre qualche domanda…

Ritenete che debba esserci un “limite etico” alla pubblicazione di testi?

La “cattiva ideologia” deve trovare spazio in letteratura?

Un testo disconosciuto dallo stesso autore, è di per sé censurabile?

E fino a che punto è possibile separare un testo dal suo autore?

A voi le risposte…
Di seguito potrete leggere l’intero articolo di Cristina Taglietti.

Massimo Maugeri
(continua…)

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lunedì, 23 giugno 2008

QUOTE ROSA IN LETTERATURA? IL CASO CAMPIELLO

La giuria del Campiello, presieduta da Gianni Letta, ha selezionato i cinque libri che si contenderanno l’ambìto premio letterario:
- Eliana Bouchard, con Louise. Canzone senza pause (Bollati Boringhieri)
- Benedetta Cibrario, con Rossovermiglio (Feltrinelli)
- Paolo Di Stefano, con Nel cuore che ti cerca (Rizzoli)
- Chiara Gamberale, con La zona cieca (Bompiani)
- Cinzia Tani, con Sole e ombra (Mondadori).
La giuria, all’unanimità, ha indicato Paolo Giordano per La solitudine dei numeri primi (Mondadori) come vincitore del riconoscimento Opera Prima. Si dovrà attendere il 30 agosto per conoscere il vincitore assoluto del Premio Campiello che sarà scelto da una giuria di 300 lettori nel corso di una cerimonia al Teatro La Fenice di Venezia.

Questa, la cronaca.
Ora… pare che, in prima istanza, la giuria del Premio avesse deciso di selezionare una cinquina di sole donne. E che la presenza di Paolo Di Stefano non fosse – come dire – prevista.
Insomma… polemiche.
Seguono un pezzo caustico di Nico Orengo (pubblicato su Tuttolibri) e un altro di Giuliano Zincone (pubblicato sul Domenicale del Sole24Ore) dove l’autore si finge uno scrittore disposto a cambiar sesso pur di rientrare nella cinquina del Premio.

Mi domando (e vi domando)…
Il mondo della letteratura italiana necessita, forse, di “quote rosa”?
Ritenete che le scrittrici siano state (e siano tuttora) penalizzate?
Se sì, cosa fare per assicurare un maggiore “equilibrio”?
Siete d’accordo con le scelte della giuria del Campiello?

A proposito: Chi vincerà il Campiello 2008?

Massimo Maugeri

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Dalla rubrica FULMINI di Nico Orengo (pubblicato su Ttl del 14/6/2008)

Campiello affonda la critica

Mentre allo Strega si attende la vittoria di Rea con «Napoli Ferrovia», sul Campiello ci sono acque volutamente agitate. Volutamente perché la nuova gestione cerca scandalo e visibilità. Lo si è visto nelle due ultime edizioni con la retrocessione di Buttafuoco e Fruttero. Ora, parte della giuria, quella più lontana dalla letteratura, ha deciso che i finalisti fossero solo donne. C’è scappato un maschio ma è decisamente un Campiello al femminile. Strano criterio che lascia fuori scrittori come Vitali e Longo. Ci si chiede cosa ci stiano a fare critici come Nigro, Beccaria e Mondo.
Nico Orengo

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L’oppossum di Giuliano Zincone (pubblicato sull’inserto “Domenica” de Il Sole24Ore del 15/6/08)

Alla Spett. Giuria Tecnica del Premio Campiello. Sede.

Gentile Giuria, apprendo dalla stampa che avevate deciso di scegliere una cinquina femminile per il vostro stimato premio letterario. Poi, forse per sbaglio, avete nominato anche un maschio, uno solo. Quote rosa o dittatura rosa? Adesso si spiega la mia esclusione. Mi chiamo Fabio Zumbo e vi avevo sottoposto il mio ultimo romanzo, “Gino & Daniela” (ed. Fichidindia). Sono sicuro che non l’avete nemmeno guardato. E’ la storia forte e delicata della relazione tra una signora cinquantenne (Daniela) e un opossum di nome Gino. La scintilla è innescata dalla noia esistenziale aggravata dalla solitudine urbana e dai guasti dell’anomia capitalistica. Entra in gioco l’ottusa e violenta gelosia del marito di lei, Ugo, del tutto insensibile all’ansia di libertà della moglie, e al suo diritto a vivere la propria vita. Gino, invece, è single e, come spesso accade ai “diversi”, s’impegna in compiti che gli italiani rifiutano. Qui appare la necessità di contemperare il dovere dell’accoglienza con la necessità della sicurezza, oltre all’eterno conflitto tra solidarietà ed egoismo. Tolleranza e dialogo. Queste cose, insomma.
In una drammatica sequenza, il mio romanzo non manca di sottolineare che anche i nostri connazionali furono discriminati, quando la miseria li spinse a viaggiare verso lidi stranieri. Gino, del resto, è perfettamente integrato e produttivo. Grazie alla sua coda prensile, l’opossum è capace di esercitare mille mestieri e, nella seconda metà del libro, si riscatta dalla sua condizione sottoproletaria, associandosi con il procione Fabrizio (detto anche Orsetto Lavatore), nella gestione precaria della lavanderia “Stira & Ammira”. Non vorrei sembrare immodesto, ma credo proprio che il mix degli incontri clandestini tra gli amanti, la robusta denuncia della xenofobia, dell’inettitudine della casta politica, della sostanziale assenza delle istituzioni e della carenza di strutture (palestre e piscine) adatte agli svaghi degli opossum e dei procioni, facciano del mio romanzo non certo un banale thriller, ma soprattutto un documento che spiega la violenza/indifferenza che deprime la nostra società e che la condanna alla decadenza morale. C’è una via d’uscita? Mistero. Un barlume s’accende quando, nel libro, Monsignor Martinho (Teologia della Liberazione) sorride all’opossum e alla signora, benedicendoli: “Amor omnia vincit”. Sarà proprio così? La mia opera è aperta.
Signori della Giuria, voi avete bocciato il mio libro perché sono un maschio. Rimedierò. Vi scrivo da Casablanca, dove sono in lista d’attesa, ascoltando canzoncine tipo “You must remember this”, per diventare una Ingrid Bergman che si chiamerà Fabia Zumba, e che potrà concorrere senza handicap al prossimo premio letterario. Ho già in mente lo scoop: Sansone era femmina, per questo aveva i capelli lunghi. E Dalila era maschio, per questo glieli ha tagliati. Io mi rassegno e mi adeguo, qui a Casablanca. Però voi riflettete un momento, rispettabili Giurati. Ve la immaginate una Oriana Fallaci che accetta di entrare in cinquina soltanto perché è donna? Lo sapete che cosa vi avrebbe abbaiato e dove vi avrebbe mandati? Io aspetto il delicato intervento, accanto al pianoforte del vecchio Sam. Però mi ricordo un pomeriggio del 1966, a Mantova. Si consegnavano i premi “Isabella d’Este”, riservati a dodici donne eccezionali. C’era anche la principessa-sarta Irene Galitzine, che non disprezzava affatto i maschi. E c’era Maria Bellonci: un drago, una vipera. Qualcuno osò chiamarla Signora. E lei si ribellò: “Macché signora e signora! Io sono Maria Bellonci e basta!”. Domani avrò il mio bisturi, qui a Casablanca. Ma non diventerò come la grande Maria. Anzi, perderò qualcosa.
Giuliano Zincone

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giovedì, 8 maggio 2008

Fiera del libro di Torino 2008: tra polemiche e bellezza

Si apre la nuova edizione della Fiera Internazionale del libro di Torino (dall’8 al 12 maggio 2008)… tra non poche polemiche per la verità (ne avevamo già parlato qui).

Tra voi c’è qualcuno che avrà la possibilità di andare?

Mi piacerebbe che questo post venisse usato come contenitore dove:

- scrivere le impressioni personali sulla fiera

- inserire articoli o stralci di articoli, ovviamente sulla fiera, pescati in rete (che potremmo commentare).

Inoltre vi segnalo questo post dell’anno scorso.

Buona Fiera del libro di Torino a chi potrà andarci!

Gli altri, tra cui io, la osserveremo da qui.

Segue la nota diramata dall’ufficio stampa della fiera sul tema dell’edizione 2008, che è il seguente: ci salverà la bellezza (?)

Emergono una serie di domande sulle quali potremmo discutere anche noi:

Che cosa può rispondere oggi ai canoni della Bellezza, in letteratura come nelle arti, nella musica, nelle scienze?

Che cosa si richiede a un’opera?

Dove passano i confini del bello e del brutto?

Come sono cambiati nei secoli i criteri estetici, e quali sono i loro rapporti con l’etica?

E quali i rapporti della bellezza con gli oggetti industriali prodotti su larga scala?

La bellezza è lo splendore del vero, diceva Platone: è un anelito alla speciale «verità» umana e poetica dell’arte, che può risultare anche scomoda e difficile, perché implica sempre la tensione insoddisfatta della ricerca. Ma se vedere è un atto creativo, come è stato detto, che cosa siamo capaci di «vedere», oggi?

Quale potrebbe essere oggi il canone del romanzo?

A voi…

Massimo Maugeri

IL TEMA DELL’EDIZIONE 2008:

CI SALVERÀ LA BELLEZZA

La bellezza salverà il mondo? La domanda che un personaggio dell’Idiota pone al principe Myskin, protagonista del romanzo di Dostoevskij implica una sfida: misurarsi con la Bellezza, riuscire a metabolizzarla significa avviare dentro di noi una metamorfosi spirituale, il tentativo di raggiungere una sfera superiore di conoscenza e di autocostruzione.

La Bellezza, motivo conduttore dell’edizione 2008, è uno sviluppo di quello del 2007, i Confini. Abbiamo più che mai bisogno di ridefinire territori, disegnare nuove mappe, di capire il confine che separa il bello dal brutto, il buono dal cattivo, perché l’estetica è strettamente connessa all’etica.

La Bellezza sfugge alla definizioni (Picasso respingeva con fastidio la sola domanda), ma quando ci sorprende la riconosciamo immediatamente, con emozione e gratitudine. Perché gli uomini hanno sempre sentito la necessità di dare un senso alla loro esistenza attraverso qualcosa che li superi, quel «più» che solo la letteratura, l’arte, la musica, la filosofia possono esprimere.

Che cosa può rispondere oggi ai canoni della Bellezza, in letteratura come nelle arti, nella musica, nelle scienze? Che cosa si richiede a un’opera? Dove passano i confini del bello e del brutto? Come sono cambiati nei secoli i criteri estetici, e quali sono i loro rapporti con l’etica? E quali i rapporti della bellezza con gli oggetti industriali prodotti su larga scala? La bellezza è lo splendore del vero, diceva Platone: è un anelito alla speciale «verità» umana e poetica dell’arte, che può risultare anche scomoda e difficile, perché implica sempre la tensione insoddisfatta della ricerca. Ma se vedere è un atto creativo, come è stato detto, che cosa siamo capaci di «vedere», oggi?

A queste domande risponde una fitta serie di «lezioni magistrali», di conversazioni e di dialoghi che vedranno impegnati filosofi come Remo Bodei (l’uomo di fronte agli spettacoli naturali), Sergio Givone (la difficoltà di pensare e vivere la Bellezza, oggi), Giovanni Reale (che prende a paradigma una tavola di Grünewald), antichisti come Luciano Canfora e lo storico dell’arte Paul Zanker in dialogo con Franco La Cecla, antropologo e architetto; maestri dell’architettura come Mario Botta, scrittori come Raffaele La Capria (l’arte moderna si configura come un abuso di potere?), Erri De Luca e Domenico Starnone («La parola, la tagliola»), l’etologo Danilo Mainardi. Vittorio Sgarbi dimostrerà che il bello non coincide affatto con quel che piace. Silvia Ronchey e Giuseppe Scaraffia si interrogheranno sull’uso improprio della Bellezza. Verterà sulle bellezze della lettura la conversazione dello scrittore argentino Alberto Manguel. Quale potrebbe essere oggi il canone del romanzo? Ne discuteranno Alfonso Berardinelli, Andrea Cortellessa, Giorgio Ficara, Filippo La Porta, con Paolo Mauri.

Valerio Massimo Manfredi racconterà i canoni della Bellezza del mondo greco-romano, mentre Khaled Fouad Allam, il filosofo algerino Shaker Laibi e l’antropologa tunisina Lilia Zaouali ci parleranno della Bellezza nell’arte e nella letteratura islamica.

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martedì, 22 aprile 2008

NANNI BALESTRINI, IL MERCATO EDITORIALE, IL CINEMA, LA CULTURA DI MASSA

Nanni Balestrini (nella foto) è un poeta e romanziere, nato a Milano il 2 luglio 1935. Vive attualmente tra Parigi e Roma. Agli inizi degli anni ‘60 fa parte dei poeti “Novissimi” e del “Gruppo 63″, che riunisce gli scrittori della neoavanguardia. Nel 1963 compone la prima poesia realizzata con un computer. E’ autore, tra l’altro, del ciclo di poesie della “signorina Richmond” e di romanzi sulle lotte politiche del ‘68 e degli anni di piombo come Vogliamo tutto e Gli invisibili. Ha svolto un ruolo determinante nella nascita delle riviste di cultura “Il Verri”, “Quindici”, “Alfabeta”, “Zoooom”. Attivo anche nel campo delle arti visive, ha esposto in numerose gallerie in Italia e all’estero e nel 1993 alla biennale di Venezia.

Sabato scorso, su Tuttolibri (cfr. Ttl del 19/4/08, pagg. VI-VII), ha rilasciato un’interessante intervista ad Andrea Cortellessa.

Ho estrapolato alcune frasi sulle quali – a mio avviso – si potrebbe discutere (di seguito, però, potrete leggere l’intera intervista). I temi sono mercato editoriale, cinema italiano , cultura di massa. 

- c’è una concorrenza sfrenata, indotta dallo strapotere del mercato. Ha ragione Arbasino, che senso ha sapere qual è il libro più venduto? Allora il ristorante migliore è McDonald’s! 

- una volta pubblicare libri senza mercato era un investimento sul futuro, nelle case editrici avevano gran peso gli intellettuali. 

- una cosa mi colpisce, nel cinema italiano di oggi: che non ci sono più cattivi. Sono tutti buoni! Ma senza cattivi non c’è dramma, non c’è narrazione che tenga. 

- non sopporto la moda della cultura di massa. Una cosa è studiarla, o appropriarsene al quadrato; altro questo godimento snobistico che ha avuto effetti deleteri sul gusto. In fondo è buonismo pure questo. Rassicurare tutti, convincerli che i loro gusti vanno benissimo, che non vanno educati in alcun modo. 

Avete letto? Bene. Cosa ne pensate? 

Di seguito troverete una nota sul Gruppo 63 (fonte Wikipedia Italia), la suddetta intervista, e la successiva punzecchiatura (rivolta a Balestrini) da parte delle Vespe del Domenicale de Il Sole 24Ore (cfr. pag. 33 de Il Sole 24Ore di domenica 20/4/08). 

Massimo Maugeri 

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Il Gruppo 63, definito di neoavanguardia per differenziarlo dalle avanguardie storiche del Novecento, è un movimento letterario che si costituì a Palermo nell’ottobre del 1963 in seguito a un convegno tenutosi a Solanto da alcuni giovani intellettuali fortemente critici nei confronti delle opere letterarie ancora legate a modelli tradizionali tipici degli anni Cinquanta. Del gruppo facevano parte poeti, scrittori, critici e studiosi animati dal desiderio di sperimentare nuove forme di espressione, rompendo con gli schemi tradizionali.
Il Gruppo 63 si richiamava alle idee del marxismo e alla teoria dello strutturalismo. Senza darsi delle regole definite (il gruppo non ebbe mai un suo manifesto), diede origine a opere di assoluta libertà contenutistica, senza una precisa trama, (ne è un esempio Alberto Arbasino) talvolta improntate all’impegno sociale militante (come gli scritti di Elio Pagliarani), ma che in ogni caso contestavano e respingevano i moduli tipici del romanzo neorealista e della poesia tradizionale, perseguendo una ricerca sperimentale di forme linguistiche e contenuti.Ignorato dal grosso pubblico, il gruppo suscitò interesse negli ambienti critico-letterari anche per le polemiche che destò criticando fortemente autori all’epoca già “consacrati” dalla fama quali Carlo Cassola e Vasco Pratolini, ironicamente definiti “Liale”, con riferimento a Liala, autrice di romanzi rosa.

Il Gruppo 63 ebbe il merito di proporre e tentare un rinnovamento nel panorama piuttosto chiuso della letteratura italiana, ma il suo aristocratico distacco dal sentire comune e la complessità dei codici di comunicazione ne fecero un movimento elitario, accusato di ‘cerebralismo’.

Alcuni autori del Gruppo 63 furono il già citato Arbasino, Luciano Anceschi, Nanni Balestrini, Alfredo Giuliani, Gianni Celati, Giorgio Celli, Corrado Costa, Roberto Di Marco, Umberto Eco, Angelo Guglielmi, Giorgio Manganelli, Giulia Niccolai, Elio Pagliarani, Antonio Porta, Lamberto Pignotti, Edoardo Sanguineti, Adriano Spatola, Patrizia Vicinelli, Alberto Gozzi. Il gruppo, che si sciolse nel 1969, diede vita alle riviste Malebolge, Quindici e Grammatica. 

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Incontro con la «voce» del Gruppo ’63: ripropone la rivista «Quindici» e fustiga i vizi italiani

“NON CI SONO PIÙ I CATTIVI” 

Da Tuttolibri (cfr. Ttl del 19/4/08, pagg. VI-VII) 

di ANDREA CORTELLESSA

Non se n’è mai stato con le mani in mano, Balestrini. Ma a settantatré anni vive un periodo di straordinario dinamismo. Ora ripropone con Feltrinelli la rivista Quindici, dopo aver pubblicato da DeriveApprodi un altro reperto dei più fulgidi Sixties, il «romanzo multiplo» Tristano, remigato in più di tremila esemplari ciascuno diverso dall’altro. Esperimento sul quale si interrogano filosofi, semiologi, giuristi ed economisti. Poi, sempre forbici alla mano, continua la sua sorprendente attività di artista visivo. L’ho incontrato a Roma nella sua casa di Via Merulana.

Perché di nuovo «Quindici»?

«Avremmo dovuto farlo già da un pezzo. C’è voluta l’occasione dei quarant’anni del Sessantotto: la rivista fu tra le prime a ospitare i documenti delle proteste studentesche, ma fu anche molto altro. Non mi dispiace però che l’antologia venga letta anche come un libro sul Sessantotto, al riguardo sono uscite soprattutto testimonianze soggettive… quando invece fu un’esperienza squisitamente collettiva. Neppure al cinema s’è visto granché. A parte quella terribile Meglio gioventù, anche Bertolucci o Belloccio si sono fermati al privato. Invece bisogna restituire lo spirito pubblico, collettivo, che a quel tempo ci prese tutti».

Di riviste ne hai fatte tante. Ma dalla fine di «Alfabeta» sono passati vent’anni.

«Il rinnovamento seguente è quello degli Ottonieri, Voce, Nove, Scarpa…»

.…da un lato il «Gruppo ‘93», dall’altro i «Cannibali». Due gruppi che però si disgregano subito…

«Non è più tempo di gruppi: c’è una concorrenza sfrenata, indotta dallo strapotere del mercato. Ha ragione Arbasino, che senso ha sapere qual è il libro più venduto? Allora il ristorante migliore è McDonald’s!Una volta pubblicare libri senza mercato era un investimento sul futuro, nelle case editrici avevano gran peso gli intellettuali. Questa debolezza dei gruppi si vede meglio nelle arti basate sulla collaborazione. Ai tempi di Quindici quello teatrale era il discorso trainante, oggi invece… ci sono artisti interessanti – Antonio Rezza, Valdoca, l’Accademia degli Artefatti – ma non hanno visibilità. Il cinema, poi… una cosa mi colpisce, nel cinema italiano di oggi: che non ci sono più cattivi. Sono tutti buoni! Ma senza cattivi non c’è dramma, non c’è narrazione che tenga».

Insomma, manca tensione drammatica perché è stata espulsa la dimensione del conflitto. Anche nella campagna elettorale sembrava che di cattivi in Italia improvvisamente non ce ne fossero più.

«Il motto è: Vogliamoci tutti bene. E torniamo alla famiglia, o alla Chiesa. Che sono lì appunto per assolverci. Gli italiani non vogliono fare i conti con loro stessi, con la propria storia. Il fascismo non ha mai fatto niente di male, e anche papà era un buon diavolo.Una cosa che mi piaceva dei Cannibali era che di fronte al negativo non si tiravano indietro. Oggi invece chi si rifà a modelli collaudati non rischia niente. Di nuovo quest’idea del romanzo “ben scritto”, alla Piperno… o al contrario la mania del noir… lo apprezzo in quanto paraletteratura, ottima per passare il tempo in treno. Ma i meccanismi di genere forniscono un’unica chiave di lettura del reale, in questo caso il crimine».

L’opposto dell’eliminazione dei cattivi nella narrativa neoborghese: ci sono solo cattivi. Un altro modo per evadere dal conflitto.

«Non sopporto la moda della cultura di massa. Una cosa è studiarla, o appropriarsene al quadrato; altro questo godimento snobistico che ha avuto effetti deleteri sul gusto. In fondo è buonismo pure questo. Rassicurare tutti, convincerli che i loro gusti vanno benissimo, che non vanno educati in alcun modo».

Cosa sia stato il berlusconismo lo sappiamo; ora è il veltronismo che fa sentire i suoi effetti.

«L’ho anche votato, Veltroni, mala cultura che propone… Berlusconi è simpatico ma esprime la vigliaccheria, la cialtronaggine, l’arroganza, la menzogna, il vittimismo aggressivo che abbiamo tutti dentro. Tutto ciò che l’educazione e la cultura servivano a reprimere».

Ma è quello che dicono i berlusconiani intelligenti: che è democratico aver capito gliitaliani, averli giustificati. Senza reprimerli moralisticamente.

«Ma è un bene, reprimerli! Cos’abbiamo contro la morale?».

Fa l’elogio della morale pubblica?

«C’è chi ha proposto che a scuola gli alunni tornino ad alzarsi quando entra l’insegnante. Mi pare normale, quando entra qualcuno mi alzo e lo saluto. Cos’abbiamo contro l’educazione? Guarda come la gente cammina per strada, come guida l’automobile, come parla al telefono in treno!».

Vivere in società significa assumersi la responsabilità dei propri comportamenti. Mentre berlusconismo e veltronismo concordano in questo: che non si debba mai pagare il conto.

«Il motto di Berlusconi è: Così fan tutti. Ci aveva già provato Craxi ma non funzionò. Alloraci fu una bella reazione contro l’arroganza del potere. Oggi ci restano solo i giudici».

Che proprio lei faccia l’elogio della magistratura è il colmo!

«D’accordo, ai tempi del processo “7 aprile” non usarono mezzi molto corretti. Però nella sostanza non avevano torto: io ero davvero un sovversivo, e dal loro punto di vista andavoperseguito come tale».

Non come un terrorista, però.

«Infatti da quello sono stato assolto. Lo voglio proprio dire: in Italia la cosa migliore sono igiudici. La famiglia ci assolve,
la Chiesa ci assolve, restano solo loro. Non a caso Berlusconi li odia, gli vuole fare l’esame psichiatrico».

Proprio lui ha detto la cosa più stalinista che si sia sentita da decenni! Abbiamo cominciato con «Quindici», vorrei finire con «Tristano».

«Mi piacerebbe applicarne il procedimento anche al cinema, ricombinando a caso frammenti di sequenze. Ogni spettacolo una storia diversa. Per me è una forma di realismo estremo: ogni giorno fai più o meno le stesse cose ma ogni volta c’è qualche variazione a cui non fai caso. Stavolta però, per restituire questo realismo, a differenza che su carta dove prelevavo frammenti da testi altrui, bisognerebbe girare i frammenti ex novo. Altrimenti è un’altra cosa, come La verifica incerta di Baruchello e Grifi alla quale s’è ispirato Grezzi per Blob. Lo scriva: cerco un produttore». 

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Dal Domenicale de Il Sole 24 Ore (pag. 33 de Il Sole 24Ore di domenica 20/4/08)Rubrica Vespe

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Nessun pasto è gratis. Per essere colti bisogna soffrire, digiunare, indossare il cilicio, ingurgitare polpette indigeste, patire coliche epatiche e vomitare quando è il caso. Già lo sapevamo, ma ora il profeta dell’Avanguardia per eccellenza, Nanni Balestrini, ce lo ricorda in un’intervista a Tuttolibri della Stampa. Non è più tempo di gruppi: c’è una concorrenza sfrenata, indotta dallo strapotere del mercato. Ha ragione Alberto Arbasino, che senso ha sapere qual è il libro più venduto? Allora il ristorante miglior è McDonald’s? Come dire, che peso specifico hanno le forchette di un ristorante, o le stelle di un albergo?

Una volta – continua Balestrini – pubblicare libri senza mercato era un investimento sul futuro, nelle case editrici avevano gran peso gli intellettuali. Gli intellettuali? Ormai seguono gli insegnamenti di Haruki Muratami (Kafka sulla spiaggia, Einaudi) secondo cui la fitness muscolare è più importante dello stile di scrittura, e quindi è meglio andare in palestra, o a correre al parco, che compulsare il dizionario della Crusca. Quindi il peso (culturale) degli intellettuali è proporzionale alle ore di jogging o di Pilates. Avendo in mente gli scrittori italiani, la loro stazza e le maniglie dell’amore di cui fanno ampio sfoggio sulla spiaggia di Caparbio, il loro peso è inesorabilmente decrescente. Se questa legge fosse vera, molti giornalisti e intellettuali, a cominciare da Giuliano Ferrara, sarebbero condannati ad almeno sei mesi di totale astinenza, gastronomia e non solo, in nome del rispetto della vita. E il prestigio culturale sarebbe inversamente proporzionale al peso-forma.In realtà non è così. Il Pantheon del sapere non è collegato alla massa muscolare. Spesso è in relazione inversa.

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mercoledì, 2 aprile 2008

È PICCOLA LA LETTERATURA DELLA GRANDE RETE? LA LETTERATURA DOPO LA RIVOLUZIONE DIGITALE

Nelle scorse settimane è sorto un grande dibattito intorno al saggio di Arturo MazzarellaLa grande rete della scrittura. La letteratura dopo la rivoluzione digitale” (Bollati Boringhieri, 2008, pagg. 128, € 15). Mazzarella insegna Letterature comparate nell’Università Roma Tre e si è a lungo occupato di vari temi riguardanti la letteratura e l’estetica otto-novecentesca. Tra le sue pubblicazioni più recenti va ricordata La potenza del falso. Illusione, favola e sogno nella modernità letteraria (Donzelli, Roma 2004).

Di cosa si occupa il saggio di Mazzarella?Mi affido a un estratto della scheda del libro, giusto per fornirvi un’idea.

Secondo Mazzarella “la contrapposizione sempre più marcata tra vecchi e nuovi media è un luogo comune che, dopo la definitiva affermazione della rivoluzione digitale, appartiene ormai al patrimonio delle certezze collettive. L’espansione della virtualità prodotta dai nuovi media sembra relegare tra le reliquie del passato quelle pratiche comunicative, come la letteratura, attraverso le quali la civiltà occidentale ha scandito il suo progresso. Ma è un’impressione di superficie. Considerata fuori dalla retorica che ancora l’avvolge in numerose sedi istituzionali, sgombrata da ipoteche etico-pedagogiche o estetiche, proprio la scrittura letteraria rivela oggi una insospettabile contiguità con l’universo dei media elettronici, mostrando il suo originario, costitutivo, carattere virtuale. È quanto esibiscono senza falsi pudori alcune tra le esperienze letterarie più vitali e innovative dell’ultimo ventennio: da Calvino, Celati e Tondelli a Kundera, Ballard, DeLillo, Ellis, Marias, Amis e Houellebecq. Grazie a loro gli incroci che si vengono a stabilire tra la letteratura e la videoarte, o il cinema digitale, i videogame e i videoclip diventano tutt’altro che uno scenario avveniristico”.

Credo che la tesi di Mazzarella si evinca già piuttosto chiaramente dalla breve scheda che vi ho proposto.

Vi accennavo al dibattito. Sì, perché questo libro ha già fatto parlare di sé sulle pagine dei più illustri quotidiani: dal Corriere della Sera a La Stampa.

Partiamo da La Stampa che ha pubblicato in contemporanea (il 17 gennaio) due articoli correlati firmati da Marco Belpoliti e Mario Baudino.

Baudino sostiene che “Tutto cominciò negli Ottanta, quando Pier Vittorio Tondelli, giovane maestro per almeno due generazioni di scrittori italiani, ripeteva di sentirsi più debitore verso la musica rock che verso i libri. O forse prima, secondo Filippo La Porta. Il critico che ha appena licenziato, fra grandi discussioni, il suo Dizionario della critica militante scritto per Bompiani con Giuseppe Leonelli, ricorda una battuta di Wim Wenders, regista da lui molto amato: «Devo tutto al rock». Vennero poi i Cannibali, e si disse che i loro territori di partenza erano le giungle della cultura pop, dei fumetti, del cinema d’azione, anche se poi avevano un retroterra letterario. Pare che la mamma di Niccolò Ammaniti, ad esempio, gli facesse leggere Cechov in dosi massicce. E ora? Ora un narratore come Pietro Grossi confessa a Ttl, di dovere ai «librogame» la sua passione per la letteratura, perché leggere è sempre stata una fatica, «lo scotto da pagare per tentare di riuscire a scrivere qualcosa di decente». Alfonso Berardinelli, in Casi critici (Quodlibet) celebra la fine del postmoderno e annuncia, riprendendo un saggio del ‘97, l’Età della Mutazione, quella in cui, «dopo aver diffidato per circa un secolo della comunicazione», la letteratura vorrebbe oggi «essere comunicazione di cose già comunicate». È lo scenario in cui stanno Grossi e i suoi coetanei? Coloro che addobbarono i predecessori con ossa umane, e cioè il duo Severino Cesari-Paolo Repetti, inventori di Einaudi-Stile Libero, non sono d’accordo. «All’inizio degli anni Novanta cominciammo a leggere testi – dicono – dove le merci e la cultura popolare costituivano l’enciclopedia di riferimento». Con una differenza, però: «La lezione dei classici, in autori come Ammaniti, Nove, Scarpa o Simona Vinci, era ben presente. Forse era sparita la gerarchi dei valori. Ma l’idea del giovane scrittore che arriva dai fumetti è spesso caricaturale». (…) Il romanzo, aggiunge Berardinelli, non è mai stato, del resto, «un genere intellettuale. Il suo terreno è il senso comune di un’epoca. Se quello attuale è fondato sulla cultura di massa e sulle subculture giovanili, si parte di lì». Non è una novità, non è neanche una «mutazione». «Esistono due tipi di senso comune: quello sentimentale dei più adulti, e quello dei monellacci sado-maso. Due nomi: Sandro Veronesi per la prima categoria, Tiziano Scarpa per la seconda, o almeno lo Scarpa degli esordi. Lo scopo è analogo: acchiappare una fetta di lettori “nuovi” in contatto con la realtà attuale». Questo, aggiunge, se ragioniamo in generale. Se invece guardiamo al risultato, cominciano i guai.
«Nella mescolanza tra alto e basso, credo che conti il clima morale del Paese. E allora penso che gli autori Usa siano messi meglio perché lì le cose avvengono sul serio; i nostri meno, perché qui tutto è di riporto». Eccola, la mutazione. «Prima c’era un super-io culturale, la società letteraria. Ora non c’è più, tant’è vero che la critica non conta nulla ed è pure detestata».”

Belpoliti cita McLuhan, il quale nel 1964 scrisse “che uno dei fenomeni più significativi dell’età elettrica consiste nel creare una rete globale che somiglia al nostro stesso sistema nervoso, «il quale non è soltanto una rete elettrica ma un campo unificato di esperienza». La profezia non tarda ad avverarsi. Ben prima della comparsa del computer, prima di Internet e dei nuovi media, a indicare come la rete dei possibili e l’esperienza possano coniugarsi positivamente provvede la letteratura. Nel ‘67 esce Cibernetica e fantasmi di Italo Calvino, vero e proprio manifesto della nuova letteratura; tuttavia ad accorgersene sono in pochi. Su questa strada, che coniuga comunicazione e letteratura, moltiplicazione del punto di vista e virtualità, si sono già mossi Beckett e Borges, seppur con esiti diversi e persino opposti. E, prima di loro, Henry James ha messo a punto alcune delle svolte decisive del Novecento. Sono passati quarant’anni, ma gran parte di coloro che si occupano professionalmente di letteratura in Italia, sulle pagine dei quotidiani, nelle case editrici, nelle università e altre istituzioni culturali, non sembrano essersene accorti. A suonare di nuovo il campanello, ad avvisare della trasformazione provvede Arturo Mazzarella, studioso di letterature comparate, in un piccolo e appuntito libro: La grande rete della scrittura. La letteratura dopo la rivoluzione digitale (Bollati Boringhieri, pagg. 128, €15). Secondo l’autore, per orgoglio di casta personaggi come Franco Fortini e Pietro Citati hanno continuato a riconfermare il paradigma incontrastato del sapere umanistico, anche quando appariva ormai privo di rilevanza. Sostenitori della letteratura come unico viatico di conoscenza piena e assoluta appaiono, a detta di Mazzarella, Asor Rosa, Giulio Ferroni, Claudio Magris, George Steiner, Marc Fumaroli, vestali di un’idea di «Belle lettere» tramontata da un pezzo. Mentre scrittori come Kundera e DeLillo, dopo Calvino e Borges, e poi Martin Amis, Houellebecq – ma anche Manganelli, Landolfi, Volponi e Gianni Celati – hanno dimostrato la fine dell’unico punto di vista, la dissoluzione della visione cartesiana, evidenziando nel contempo la porosità del reale e l’idea del caos non come disordine, bensì velocità di scorrimento del reale stesso, le istituzioni letterarie continuano a perpetuare un’idea conservatrice, se non proprio reazionaria. Usando Deleuze e Pierre Levy, sostenitori di una visione progressiva del virtuale («la virtualizzazione non è una derealizzazione, ma un cambiamento di identità»), Mazzarella scrive che la letteratura che non indaga tanto la realtà, quanto l’esistenza. Già Barthes nel 1970 parlava del testo come rete, luogo dalle molteplici entrate, senza gerarchie prefissate, in cui i codici si profilano «a perdita d’occhio». Il punto essenziale del libro consiste nel coniugare insieme letteratura e mondo visivo. Non necessariamente l’arte d’avanguardia – ormai annessa nel tempio della cultura, a cent’anni dal debutto – quanto piuttosto il «visivo» reputato di serie B: videogiochi, videoclip, l’arte mediale in Internet e nel web. La letteratura, fondata sulla lettura, sull’occhio, ha predisposto i tracciati su cui si è sviluppata l’idea contemporanea di visione, al di là degli stessi confini del libro. La proposta di Mazzarella è di riconfigurare l’interrelazione tra vecchi e nuovi media, come ci ha proposto Bolter in un volume cui nessun quotidiano, o pagina culturale italiana, sembra aver dato il peso che merita al momento della sua pubblicazione: Remeditation.
Per nostra fortuna, questa ibridazione di visivo e scritto, di letteratura e nuovi media, è entrata nelle pratiche di alcuni dei saggisti e critici più giovani. Non tutto è perso”.

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Cosa succede dopo?

Succede che Giorgio De Rienzo, legittimamente, sulle pagine de Il Corriere della Sera di sabato 19 gennaio 2008 interviene manifestando perplessità sul libro di Mazzarella e sul sostegno ricevuto da La Stampa attraverso gli articoli di Belpoliti e Baudino.-Vi riporto l’articolo di De Rienzo:

“Fa discutere il saggio di Arturo Mazzarella sulla letteratura dopo la rivoluzione digitale secondo il quale una serie di scrittori – Fortini e Magris tra gli altri – continuano a coltivare un’idea della scrittura letteraria, germinata dalla lettura di altri libri, come un viatico della conoscenza. Mentre altri indicano una via diversa in cui letteratura e comunicazione si toccano nella descrizione del caos non come disordine, ma come velocità di scorrimento del reale. Discorso complicato, la cui sostanza è questa: è in atto un mutamento che non si può arrestare, perché il trasformarsi della comunicazione emarginerà la letteratura che preferisce restare chiusa in sé.La Stampa, con servizi di Belpoliti e Baudino, in una rassegna svelta ricorda che Tondelli (maestro di almeno due generazioni di scrittori) dichiarò di “sentirsi più debitore verso la musica rock che verso i libri”. Poi mette in campo la provocazione forte di Pietro Grossi, che confessa di dovere al “libro-game la propria passione per la letteratura, perché leggere libri è stata sempre una fatica”. A spremerne il sugo, nei nuovi scrittori c’è una tendenza in cui la cultura popolare, fatta di canzoni pop e blog, diventa una sorta di enciclopedia di riferimento. Stando ai fatti ci capita oggi di leggere scritti rumorosi di giovani emergenti, che eliminano il silenzio e la lentezza della vecchia letteratura. Confesso: mi sento irrimediabilmente passatista e reazionario. Credo che silenzio e lentezza con cui si scrivono (e leggono) i libri siano beni da salvare, per una sorta di ecologia dell’anima: perché nell’allontanamento dal rumore e dalla velocità ci è rimasta l’unica possibilità di crescere e pensare».

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Il contrappunto di De Rienzo non passa inosservato e, pochi giorni dopo, viene ripreso da Nico Orengo sulla rubrica Fulmini di Tuttolibri del 26 gennaio.

Scrive Orengo: “Melanconico De Rienzo sul «Corriere», incupito dalle tesi di Arturo Mazzarella nel saggio «La grande rete della scrittura». Letteratura addio, non si fa nuova narrazione con la scrittura degli scrittori ma con quella pop, di rete, di blog, di libri-game e canzoni. Ma no, son sempre i vecchi, immutabili sentimenti a guidare la scrittura, che può e anzi deve essere meticciata con talento. Il «canone» non è rigido, altrimenti la letteratura sarebbe morta da tempo. Ogni tanto invece si ripresenta il gioco degli Apocalittici e integrati.”

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Bene vi ho riportato i termini della “questio”.

Vi invito a rifletterci un po’ su e a intervenire provando a rispondere a questa domanda un po’ provocatoria: è piccola la letteratura della Grande Rete?

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E poi, per favorire la discussione, ecco altre domande:

- Ha ragione Mazzarella nel sostenere che la contrapposizione sempre più marcata tra vecchi e nuovi media è un luogo comune che, dopo la definitiva affermazione della rivoluzione digitale, appartiene ormai al patrimonio delle certezze collettive?

- Ha ragione Berardinelli quando sostiene che “prima c’era un super-io culturale, la società letteraria. Ora non c’è più”?

- Siete d’accordo con Belpoliti quando considera che per fortuna, questa ibridazione di visivo e scritto, di letteratura e nuovi media, è entrata nelle pratiche di alcuni dei saggisti e critici più giovani?

- Oppure ha ragione De Rienzo nel sostenere che silenzio e lentezza con cui si scrivono (e leggono) i libri siano beni da salvare, per una sorta di ecologia dell’anima: perché nell’allontanamento dal rumore e dalla velocità ci è rimasta l’unica possibilità di crescere e pensare?

- E cosa pensate della tesi di Orengo, in base alla quale son sempre i vecchi, immutabili sentimenti a guidare la scrittura, che può e anzi deve essere meticciata con talento? (Ovvero: il «canone» non è rigido, altrimenti la letteratura sarebbe morta da tempo)?

A voi.

Massimo Maugeri

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giovedì, 7 febbraio 2008

IGNORANTI A PIENO TITOLO?

Su Repubblica del 6 febbraio è stato pubblicato un articolo di Michele Smargiassi dal titolo: “Nell’Italia dei laureati che non sanno scrivere”. Un articolo amaro che mette in evidenza una realtà piuttosto scoraggiante: un laureato su cinque ha difficoltà a scrivere. Pare però che gli “ignoranti titolati” non si preoccupino più di tanto.

Tullio De Mauro considera il problema come un’emergenza nazionale. Ecco cosa dichiara: “Per il futuro economico del nostro paese migliorare l’italiano degli imprenditori, dei professionisti, dei politici, è perfino più vitale e urgente che migliorare i salari dei dipendenti.”

Però dallo stesso articolo apprendiamo che “il laureato analfabeta non fa necessariamente più fatica a trovare lavoro rispetto ai suoi quattro colleghi più letterati. Le imprese non sembrano granché interessate a selezionare i propri quadri dirigenti sulla base delle competenze linguistiche di base.”

E allora? Che fare? Che dire? Chi ha ragione?

E chi è che, oggi, usa l’italiano vero (che non è quello di Toto Cutugno)?

Secondo Stefano Bartezzaghi “non lo usano certo i personaggi televisivi (la tv, in Italia, è oggi un canale di diffusione di dialetti). I dirigenti d’azienda, gli amministratori, i politici, i ricchi? Non scherziamo. I professori universitari? I giornalisti? Gli scrittori? I medici? Gli avvocati? Nemmeno loro, se non in una quota irrilevante”.

Bartezzaghi vi sembra un po’ supponente? Avete l’impressione che faccia troppo lo Smargiassi?

Io credo che abbia ragione.

E voi?

(Massimo Maugeri)

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AGGIORNAMENTO del 9 febbraio 2008

Provo a rilanciare il dibattito con alcune domande/riflessioni.
1. Secondo voi la “scrittura rapida” tipica dei commenti dei blog può essere considerata come una via di mezzo tra la lingua parlata e quella scritta (considerate in senso tradizionale)?
2. La suddetta “scrittura rapida” ha una valenza negativa (rispetto all’argomento oggetto di questa discussione)?
3. L’ideale della perfezione linguistica è più difficile da raggiungere “oggi” rispetto a “ieri”? (Mi viene in mente la titanica operazione manzoniana di “risciacquatura in Arno”).
4. Siete a conoscenza di opere del passato – divenuti classici – che contengono “errori marchiani” dal punto di vista linguistico?
4. Rispetto al passato, la lingua parlata di oggi “detta” i cambiamenti di quella scritta in misura superiore o inferiore?
5. Quando un errore nella lingua parlata diviene “generalizzato”, può “imporsi” nella lingua scritta al punto tale da divenire “regola” ? Potete fare qualche esempio?

(Massimo Maugeri)

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mercoledì, 6 febbraio 2008

TARIQ RAMADAN CONTRO LA FIERALIBRO

Probabilmente ne siete già al corrente. Tariq Ramadan ha lanciato una sorta di fatwa contro la Fiera del Libro di Torino, con l’invito di boicottarla. Il motivo? Aver tributato a scrittori israeliani il ruolo di ospiti d’onore.

Dall’articolo di Giovanna Favro pubblicato su La Stampa del 3 febbraio apprendiamo quanto segue.

“Nel clima sempre più arroventato, Rolando Picchioni ammette che negli uffici della Fiera sono piovuti, oltre a un fiume di messaggi solidali, pure «insulti, arroganze, fatwe, veti». (…) Ieri Rifondazione Comunista è scesa in campo per la prima volta accanto ai Comunisti italiani, dichiarando inopportuno l’invito di Libropoli nel 60° anniversario della nascita dello Stato d’Israele. E mentre Vincenzo Chieppa (Comunisti italiani) insiste nel chiedere «pari dignità per la Palestina», va nella direzione opposta la lettera che il regista Davide Ferrario ha spedito al direttore Ernesto Ferrero: «nel conflitto medio-orientale non si può che stare con i palestinesi», «per la sua natura di incontro, la Fiera è l’occasione per affrontare la questione. Rispondere col muro del silenzio e del boicottaggio è cadere nella stessa logica di chi i muri li costruisce per dividere i popoli».

Nel gran turbinio scatenato dalla querelle, ieri Fabrizio Cicchitto (Fi) ha definito il boicottaggio «puro antisemitismo», mentre per il sindaco Sergio Chiamparino «sta prendendo piede un fondamentalismo politico prima che religioso». E’ con lui Walter Vergnano, sovrintendente del Regio: «Sarebbe aberrante non poter ospitare liberamente un gruppo di intellettuali. Chi invita una letteratura non è contro un’altra, e rivendico il diritto di leggere libri sia di israeliani che di arabi, ascoltandone gli autori». Pure a Franzo Grande Stevens pare che nelle scelte della Fiera «non ci sia alcun intento discriminatorio», e s’è detto indignato delle polemiche Paolo Bertinetti, il cattedratico che propose la laurea ad honorem ad Abraham Yehoshua: «La scelta della Fiera non può essere messa in discussione per ragioni politiche da chi confonde politica e cultura».
L’Unione araba cittadina, però, è ferma nelle sue posizioni: per Franco Trad «non si può festeggiare l’anniversario di un paese che semina morte e la cui indipendenza è una ferita aperta». Se Tawfik lavora al dialogo («La Fiera ha sempre ospitato autori arabi, è stata fraintesa»), per Ernesto Ferrero «sbaglia chi non scinde politica e cultura, e presenta per l’ennesima volta un’immagine faziosa e intollerante della Palestina». Chi protesta «non sa il significato di “ospite d’onore”: non prevediamo corone fiorite e lanci di caramelle dai balconi, ma incontri con scrittori, per di più critici col governo. Cosa temono gli autori arabi? Vengano a Torino ed espongano democraticamente il loro punto di vista»”.

Vi riporto l’opinione di Riccardo Chiaberge pubblicata sulla sua rubrica “Contrappunto”, in prima pagina del Domenicale de Il Sole24Ore del 3 febbraio, dal titolo “La fiera del libro? Spostiamola al Cairo”:

“Alla Fiera del Libro del Cairo, la più importante del mondo arabo, in corso in questi giorni, succedono cose a dir poco singolari. Per esempio che la polizia egiziana sequestri all’aeroporto pacchi di libri considerati sovversivi o immorali. Come “For Bread Alone” del marocchino Mohamed Choukri, tradotto in inglese da Paul Bowles, e già boicottato in molti paesi musulmani per le sue scene di sesso e droga. Ma anche opere meno scottanti di autori occidentali, come “L’insostenibile leggerezza dell’essere” o “Il libro del riso e dell’oblio” di Milan Kundera. Di fronte a queste prepotenze ci saremmo aspettati qualche reazione della cultura locale: un mugugno, un ohibò, anche solo un colpetto di tosse da parte, tanto per fare un nome, del signor Mohamed Salmawy. Niente. Il giornalista egiziano, presidente dell’Unione degli Scrittori Arabi, non ha fiatato. Era troppo impegnato a indirizzare vibranti lettere di protesta ai responsabili di un’altra Fiera del libro, quella di Torino, colpevoli di aver invitato Israele come Paese ospite. Questa scelta – ha dichiarato Salmawy – è una provocazione nei confronti degli arabi, «che non se ne staranno con le mani in mano». L’intellettuale egiziano ha anche minimizzato l’importanza della «piccola Fiera» torinese, niente di paragonabile alle grandi manifestazioni tipo Francoforte, New York, Montreal e, appunto, Il Cairo. Ma se il Lingotto fosse davvero così irrilevante, perché tanto chiasso? Perché l’appello al boicottaggio, orchestrato da quattro gatti nostrani – forse tirati per la coda da qualcuno – è diventato subito una crociata?

In questo clima surriscaldato, c’è chi è arrivato a parlare di «militarizzazione della cultura». Come se David Grossman, che ha perso un figlio nella guerra in Libano del 2006, o Amos Oz, o Abraham Yehoshua, o quell’Etgar Keret che ha scritto un libro con un palestinese, fossero dei guerrafondai «embedded» nelle truppe di occupazione. Israele è ospite d’onore anche al Salon du Livre parigino, che precede di due mesi l’appuntamento torinese: eppure lì, a parte qualche isolato dissenso, non si sono udite urla sediziose. L’insostenibile leggerezza dell’idiozia dev’essere una prerogativa italiana. Forse è bene ricordare che le aule della Sapienza e i saloni del libro sono luoghi di incontro e di confronto delle idee, non di scontro tra identità armate. E che in quest’era di fondamentalismi dovremmo tutti imparare l’arte del riso e dell’oblio di cui Kundera è maestro. Ma intanto, suggeriamo ai censori della Fiera di Torino di fare un salto al Cairo. Stiano solo attenti a che libri si portano in aereo: lì la cultura non è militarizzata, preferiscono imbavagliarla”.

E infine la provocazione di Aldo Grasso, su Il Corriere della Sera del 5 febbraio, rivolta Fabio Fazio e Serena Dandini, Piero Dorfles, Neri Marcorè e Corrado Augias:

Il Giorno della Memoria, una settimana fa, avete riempito i vostri programmi di toccanti testimonianze sulla Shoah e adesso niente, neanche una parola per condannare il boicottaggio contro gli scrittori ebrei o per prendere le distanze da Tariq Ramadan.

Mi rivolgo a Lei, Fabio Fazio, al suo autore più prestigioso, Michele Serra, a Giovanna Zucconi, che ogni settimana consiglia ottimi libri, mi rivolgo a voi perché «Che tempo che fa», considerata a ragione una delle rare trasmissioni in cui si parla ancora di cultura, non lasci passare sotto silenzio l’appello lanciato da gruppi della sinistra antagonista contro la Fiera del Libro, «colpevole» di aver invitato a Torino gli scrittori di Israele come ospiti d’onore.

Mi rivolgo a lei, Serena Dandini, che ogni domenica sera ospita nel suo salotto televisivo grandi scrittori e artisti famosi, chiedendole di pronunciarsi, dire parole chiare, senza tentennamenti, su questo clima di intolleranza suscitato da alcune minoranze bellicose che amano però riempirsi la bocca della parola «pace».

Mi rivolgo a voi, Piero Dorfles e Neri Marcorè, a voi e al vostro programma domenicale «Per un pugno di libri» perché interveniate a spiegare al vostro giovane pubblico che questi sciagurati boicottaggi non solo confondono in maniera subdola la responsabilità del singolo scrittore con le posizioni politiche di uno Stato ma, sotto sotto, mettono in discussione il diritto stesso all’esistenza di Israele. Mi rivolgo a lei, Corrado Augias, il cui impegno dichiarato, come dice lei, «è solo fare e indurre a fare qualche ragionamento», perché inviti nella sua trasmissione quotidiana i responsabili della Fiera di Torino Ernesto Ferrero e Rolando Picchioni a spiegare la loro scelta. Giorni fa ha chiamato Giulietto Chiesa a raccontare le sue deliranti convinzioni sul complotto dell’11 settembre. Bene. Spero trovi il modo di offrire ospitalità anche a chi ha civilmente deciso di offrire a Israele un proprio stand nazionale, come è successo negli anni passati con altri Paesi, in coincidenza con il 60˚ anniversario della fondazione di quello Stato.

Raitre si distingue per essere una rete ancora attenta ai problemi della cultura ma anche alle Buone Cause, al politicamente corretto, al dialogo, al diritto d’espressione, alla supremazia dei Valori; proprio per questo si ritiene l’ultimo avamposto della tv intelligente e della sinistra progressista. Ecco, sarebbe bello se voi, i conduttori più prestigiosi, buttati al vento gli alibi semantici, senza tante ipocrisie, magari sfidando un po’ di impopolarità, ci diceste se gli scrittori d’Israele sono o non sono degni di essere invitati in Italia a una manifestazione di libri”.

La domanda, naturalmente, è d’obbligo: voi cosa ne pensate?

(Massimo Maugeri)

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AGGIORNAMENTO

Nel nome della letteratura

Israele ospite della Fiera del Libro di Torino 2008

Con questa firma esprimiamo una solidarietà senza riserve nei confronti degli organizzatori della Fiera del libro di Torino, nel momento in cui questo evento di prima grandezza della vita letteraria nazionale viene attaccato per aver scelto Israele come paese ospite dell’edizione 2008.
L’appello a cui aderiamo s’intende apartitico, e politico solo nell’accezione più alta e radicale del termine. Non intende affatto definire uno schieramento, se non alla luce di poche idee semplici e profondamente vissute.
In particolare, l’idea che le opinioni critiche, che chiunque fra noi è libero di avere nei confronti di aspetti specifici della politica dell’attuale amministrazione israeliana, possono tranquillamente, diremmo perfino banalmente!, coesistere con il più grande affetto e riconoscimento per la cultura ebraica e le sue manifestazioni letterarie dentro e fuori Israele. Queste manifestazioni sono da sempre così strettamente intrecciate con la cultura occidentale nel suo insieme, rappresentano una voce talmente indistinguibile da quella di tutti noi, che qualsiasi aggressione nei loro confronti va considerata un atto di cieco e ottuso autolesionismo.

Raul Montanari

Prime adesioni:
Alessandra Appiano, Alessandra C., Andrea Carraro, Gabriella Alù, Cosimo Argentina, Sergio Baratto, Paola Barbato, Antonella Beccaria, Silvio Bernelli, Gianfranco Bettin, Daria Bignardi, Gianni Biondillo, Riccardo Bonacina, Laura Bosio, Elisabetta Bucciarelli, Gianni Canova, Fabrizio Centofanti, Benedetta Centovalli, Piero Colaprico, Giovanna Cosenza, Sandrone Dazieri, Francesco De Girolamo, Girolamo De Michele, Donatella Diamanti, Paolo Di Stefano, Luca Doninelli, Riccardo Ferrazzi, Marcello Fois, Francesco Forlani, Gabriella Fuschini, Giuseppe Genna,Michael Gregorio (Daniela De Gregorio, Mike Jacob),Helena Janeczek, Franz Krauspenhaar,Nicola Lagioia,Loredana Lipperini,Valter Malosti, Antonio Mancinelli, Valentina Maran, Federico Mello, Antonio Moresco , Gianfranco Nerozzi, Chiara Palazzolo, Gery Palazzotto, Paolo Pantani, Leonardo Pelo, Guglielmo Pispisa, Laura Pugno, Luca Ricci, Andrea Raos, Roberto Moroni, Mariano Sabatini, Rosellina Salemi, Flavio Santi,Tiziano Scarpa,Beppe Sebaste, Gian Paolo Serino, Luca Sofri, Monica Tavernini, Annamaria Testa, Maria Luisa Venuta, Andrea Vitali,Vittorio Zambardino,Zelda Zeta (Pepa Cerutti, Chiara Mazzotta, Antonio Spinaci)

Ps. L’appello appare contemporaneamente su Nazione Indiana, Ilprimoamore e Lipperatura

Potete sottoscriverlo su uno dei siti citati.

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AGGIORNAMENTO del 7 febbraio 2008

Segnalo che su Nazione Indiana è stato pubblicato anche questo post che va in direzione opposta a quello che propone la firma dell’appello

(Massimo Maugeri)

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mercoledì, 16 gennaio 2008

LA SAPIENZA SENZA LA TOLLERANZA È COME L’INTELLIGENZA SENZA LA SENSIBILITA’

A volte è difficile interpretare i fatti che succedono in questa nostra Italia. Mi riferisco, in particolare, a quanto accaduto ieri a “La Sapienza” in relazione alla prevista visita che Papa Ratzinger, giovedì 17, avrebbe dovuto recare dietro invito del Rettore della suddetta Università.

Ho letto la lettera dei 67 docenti di fisica (che ricordavano la frase del filosofo Paul Feyerabend, in merito al processo contro Galileo, che Ratzinger citò a Parma nel marzo 1990, quando era cardinale). Posso capire la loro posizione, ma non la condivido per nulla.

Ha fatto bene il Papa a soprassedere all’evento (inviando comunque l’intervento previsto). Ha dato una grande lezione.

Credo l’abbia data anche a Marcello Cini, il quale nei giorni scorsi così scriveva al Rettore:

“Non riesco a capire le motivazioni della Sua proposta tanto improvvida e lesiva dell’immagine de La Sapienza nel mondo. Il risultato della Sua iniziativa, anche nella forma edulcorata della visita del papa (con «un saluto alla comunità universitaria») subito dopo una inaugurazione inevitabilmente clandestina, sarà comunque che i giornali del giorno dopo titoleranno (non si può pretendere che vadano tanto per il sottile): «Il Papa inaugura l’Anno Accademico dell’Università La Sapienza».

Congratulazioni, signor Rettore. Il Suo ritratto resterà accanto a quelli dei Suoi predecessori come simbolo dell’autonomia, della cultura e del progresso delle scienze”.

Congratulazioni Marcello Cini, il Papa non si recherà a La Sapienza e dunque, stia tranquillo, i giornali del giono dopo non titoleranno: «Il Papa inaugura l’Anno Accademico dell’Università La Sapienza». Titoleranno ben altro, i giornali… italiani e del mondo. Perché, sa una cosa?, la Chiesa non è certo esente da colpe (essa stessa lo ha ammesso e lo ammette), e si può essere anche anticattolici e anticlericali, e Benedetto XVI può anche essere meno simpatico di Giovanni Paolo II, meno carismatico; ma oltre a essere a capo di uno Stato e di una religione, Ratzinger, che piaccia o no, è uno studioso, un intellettuale, uno scrittore; una voce importante di questo secolo. Ed è un uomo di pace.

Tappare la bocca a uno studioso, un intellettuale, uno scrittore, a una voce importante di questo secolo, soprattutto se uomo di pace, è sempre sbagliato. Non importa se esso sia il capo della religione cattolica, o il massimo rappresentante della religione ebraica, o dell’Islam o di qualunque altra fede religiosa. Non importa se esso sia il rappresentante di uno Stato “scomodo”. Qualcuno, caro Cini, le avrà detto che il presidente dell’Iran Mahmoud Ahmadinejad ha avuto modo di partecipare a un dibattito con gli studenti all’interno di una Università americana: la Columbia University (pur tra vibranti proteste). Ripeto, il presidente dell’Iran che va negli Usa riesce a parlare agli studenti di una Università americana. Soprattutto dopo l’11 settembre. Vorrà dire qualcosa? Secondo me, sì. Secondo me vuol dire che democrazia significa anche avere il coraggio di dare voce a chi non ci piace. E vuol dire anche che laicità non può essere sinonimo di intolleranza.

Mi compiaccio per il fatto che, almeno una volta, il capo del Governo e il capo dell’opposizione si siano uniti nello sdegno.

Prodi ha dichiarato: “profondo rammarico per la decisione di Benedetto XVI”, “solidarietà forte e convinta alla sua persona” e un invito rinnovato “affinché possa mantenere il programma originario”, poiché “nessuna voce deve tacere nel Paese, e a maggior ragione quella del Papa”. E condanna “i gesti, le dichiarazioni e gli atteggiamenti che hanno provocato una tensione inaccettabile, e un clima che non fa onore alle tradizioni di civiltà e di tolleranza dell’Italia”.

Berlusconi ha detto: “la rinuncia del Papa è il segno dell’intolleranza e di un fanatismo che nulla hanno di autenticamente laico”. Una vicenda che “ferisce e umilia l’Università italiana e in generale lo Stato”, “non in grado di garantire la libertà d’espressione alla massima autorità religiosa”.

All’annuncio della Santa Sede, intorno alle 17 di ieri, quando gli studenti erano riuniti in assemblea per decidere la “settimana anticlericale”, è scoppiato un applauso. “Ha vinto il corpo vivo dell’università”, hanno detto alcuni. Altri, gli studenti cattolici, si sono radunati nella cappella del La Sapienza per una veglia di preghiera. Spero che nelle loro preghiere si ricordino di invocare la benedizione per una Università che, purtroppo, naviga in cattive acque e che offre ai suoi laureati titoli di studio che, nella maggior parte dei casi, non serviranno loro a trovar lavoro. Di questo, sì, bisognerebbe indignarsi.

Secondo me, caro Cini, e cari studenti esultanti, non ha vinto proprio nessuno. Non ha vinto la laicità, non ha vinto La Sapienza e soprattutto – ancora una volta – non ha vinto l’immagine dell’Italia nel mondo.

Massimo Maugeri

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domenica, 16 dicembre 2007

CARA ITALIA, DIMMI COME TI VEDONO E TI DIRÒ CHI SEI

Nei giorni scorsi il New York Times ha dedicato alla nostra Italia un articolo in prima pagina. Un articolo che ha fatto il giro del mondo.

In quell’articolo si sostiene che il nostro paese soffre di una sorta di ”depressione collettiva” che passa dall’economia, alla politica, fino alla società.

Che peccato!, sostiene in estrema sintesi il NYT. Sì, perché l’Italia è un Paese ”che tutto il mondo ama perché è vecchio ma ancora affascinante”. E tuttavia, sebbene sia ”adorato all’estero e nonostante tutti i suoi innati punti di forza, l’Italia non sembra amarsi e gli italiani sono il popolo meno felice dell’Europa occidentale.”

”Per la maggior parte, i problemi non sono nuovi e questo è il problema”, sottolinea il New York Times, secondo cui l’Italia ne è preda da così tanti anni che nessuno sembra sapere ”come cambiare o se sia ancora possibile.” Senza contare che quelli che erano i punti di forza dell’Italia “si stanno trasformando in debolezze”. Sarebbe il caso delle piccole e medie imprese che si trovano, oggi, a dover competere con l’economia globalizzata e con il neocolosso cinese.

Ronald Spogli, ambasciatore americano a Roma, ha avvertito del rischio di un diminuito ruolo internazionale dell’Italia e di difficoltà nel rapporto con Washington: ”Devono tagliare l’edera cresciuta intorno a questo fantastico albero vecchio di 2.500 anni che minaccia di ucciderlo”; ma l’impressione, ha continuato, è che ”il malessere nasca dalle poche speranze di tagliare quell’edera e questo rende gli italiani tristi e arrabbiati.”

Il giornale americano non manca di osservare che di siffatta rabbia si sia fatto portavoce nei mesi scorsi Beppe Grillo con il suo “V-day” e il suo “Basta!” rivolto a tutte le forze politiche e al sistema. E non è un caso, sempre secondo il quotidiano, che i bestseller dell’anno siano stati La Casta e Gomorra.

L’allarme, sostiene il NYT, passa anche dalla questione generazionale. In un contesto del genere, non stupisce più di tanto che ”il 70% degli italiani tra i 20 e i 30 anni vivano ancora a casa, condannando la giovinezza ad un’estesa e improduttiva adolescenza, mentre molti delle menti più brillanti, come i poveri di un secolo fa, lasciano l’Italia”.

E poi… sapete cosa ci rimane dopo la morte di Luciano Pavarotti?

Ce lo spiega un ragazzo intervistato: ”ci sono rimasti solo la pizza e la pasta.”

È proprio così? Non del tutto. Perché, come precisa il giornalista americano, è vero che ”non ci sono nuovi Rossellini, Fellini o Loren, ma ci sono la Ferrari, la Ducati, la Vespa, Armani, Gucci, Piano, Illy, Barolo.”

Certo, il problema è che ”gli imprenditori lamentano di essere soli: i politici offrono poco aiuto per rendere l’Italia competitiva e questo resta l’ostacolo principale. L’imprenditoria vuole meno burocrazia, più leggi sulla flessibilità del lavoro e maggiori investimenti nelle infrastrutture per favorire il movimento delle merci.”

Che destino ci aspetta? Secondo gli amici americani, se non cambiamo rischiamo di fare la fine della Repubblica di Venezia: ”Bloccata dalla grandezza del passato, con gli anziani turisti a fare da incerta fonte di vita.”

Insomma, l’Italia come una sorta di Florida d’Europa.

Secca e schietta la replica del nostro Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: “Scommettete sull’Italia, sulla nostra tradizione e il nostro spirito animale. (…) Ci vuole continuità nella politica di governo in alcuni campi come la difesa, l’università e l’economia. Ciò detto l’Italia è assolutamente un paese forte su cui vale la pena di scommettere”.
Diversa l’opinione di Walter Veltroni, sindaco di Roma e leader del Pd: “Siamo un paese che deve scrollarsi di dosso questa specie di scimmia della paura di ogni cosa nuova perché c’è l’idea che ogni cosa nuova che accade debba spaventare. Quando ci sono delle novità, se sono giuste, fanno bene a tutti.” Secondo Veltroni, il New York Times “non ha scritto cose infondate: il paese ha i fondamentali per farcela, ma è il contesto, la farraginosità del sistema politico e istituzionale, il clima di odio e di contrapposizione che determina lo stato non sereno al quale il quotidiano statunitense ha fatto riferimento. (…) L’Italia ha bisogno obiettivamente di ritrovare fiducia, sorriso, serenità, energia e speranza puntando sui seguenti punti di forza: la grande vita culturale, un meraviglioso sistema delle imprese, ragazzi di primissimo livello, gente che vuole lavorare”.

Ora, pensando agli americani verrebbe da dire: guarda un po’ da che pulpito viene la predica!

Ma non si accorge, il New York Times, che il sogno americano per molti cittadini a stelle e strisce si è trasformato in qualcosa che somiglia molto a un incubo?

Ma che cosa pensano ‘sti americani?

Che sia finito il Bel Paese?

Che gli italiani non siano più Bella Gente?

Che abbiamo lasciato il mandolino ad ammuffire dentro la custodia? Le pizze a bruciare dentro il forno? La pasta a scuocere in pentola?

Domande – queste – che potrebbero essere condivisibili, ma anche banali. E di comodo. E forse le considerazioni di comodo non portano da nessuna parte.

Rimane il fatto che dal di fuori vedono Beppe Grillo come una sorta di “comprensibile e inevitabile rivolta interna” al sistema, e il duo “La casta”-“Gomorra” (che credo siano anche i nostri libri più noti e letti all’estero) come gli anticorpi saggistico-letterari all’italico malessere.

È proprio così?

Siamo davvero così depressi?

Siamo sul serio il popolo meno felice dell’Europa occidentale?

E fino a che punto non ci amiamo più?

E poi, esiste davvero una sola Italia?

Massimo Maugeri

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domenica, 21 ottobre 2007

RISCHI SUL FUTURO DELL’INFORMAZIONE IN INTERNET. NEO-OSCURANTISMO O CIALTRONERIA?

Il titolo del post è molto provocatorio. E l’immagine prescelta pure (se non addirittura peggio). Lo so.

Il fatto è che questa vicenda mi ha fatto seriamente preoccupare.

Soprattutto all’inizio.

Come certamente avrete saputo, il Governo ha recentemente approvato e mandato all’esame del Parlamento un testo che si prefigge di cambiare le regole del gioco del mondo editoriale, per i giornali e anche per Internet. Si tratta di questo disegno di legge (20 pagine e 35 articoli).

Esaminato alla lettera sembrerebbe che chi ha un piccolo sito, perfino chi ha un blog personale, sarà ben presto costretto a ottemperare a obblighi di registrazione, burocrazia, spese impreviste e sanzioni penali più forti in caso di diffamazione.

Proviamo a fare il punto della situazione con l’aiuto degli articoli pubblicato da Repubblica.it

L’articolo 6 del disegno di legge prevede che deve iscriversi al ROC, in uno speciale registro custodito dall’Autorità per le Comunicazioni, chiunque faccia “attività editoriale”. L’Autorità non pretende soldi per l’iscrizione, ma l’operazione è faticosa e qualcuno tra i certificati necessari richiede il pagamento del bollo. Attività editoriale – continua il disegno di legge – significa inventare e distribuire un “prodotto editoriale” anche senza guadagnarci. E prodotto editoriale è tutto: è l’informazione, ma è anche qualcosa che “forma” o “intrattiene” il destinatario (articolo 2). I mezzi di diffusione di questo prodotto sono sullo stesso piano, Web incluso.

Ricardo Franco Levi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e padre della riforma, ha precisato: “Lo spirito del nostro progetto non è certo questo. Non abbiamo interesse a toccare i siti amatoriali o i blog personali, non sarebbe praticabile”.

Chi finirà, allora, nel registro ROC? “Non spetta al governo stabilirlo – continua Levi – Sarà l’Autorità per le Comunicazioni a indicare, con un suo regolamento, quali soggetti e quali imprese siano tenute davvero alla registrazione. E il regolamento arriverà solo dopo che la legge sarà stata discussa e approvata dalle Camere”.

Pare però che, una volta stabilito che un sito web sia tenuto all’iscrizione al ROC, debba anche dotarsi di una società editrice e di un giornalista nel ruolo di direttore responsabile.

Beppe Grillo si è subito fatto sentire dal suo blog. Conseguenza della legge, sostiene il comico, sarebbe la chiusura del 99% dei blog e “il fortunato 1% della Rete rimasto in vita, per la legge Levi-Prodi, risponderebbe in caso di reato di omesso controllo su contenuti diffamatori ai sensi degli articoli 57 e 57 bis del codice penale. In pratica galera quasi sicura”.

Grillo, nonostante le “rassicurazioni” di Levi, ha proposto la cancellazione della legge e annunciato che il prossimo V-day sarà dedicato all’informazione per chiedere due cose:
l’abolizione del finanziamento pubblico all’editoria e l’abolizione dell’ordine dei giornalisti.
Folena, presidente della commissione Cultura della Camera ha chiesto chiarimenti: “Chi fa un blog non è un editore. Quindi non deve sottostare a nessuna regola particolare riguardante la stampa o gli operatori della comunicazione. Anche io ho un blog, e un blog è un diario. Nel quale, certo, si può fare informazione. Così come esistono migliaia di siti. Quindi – conclude – va chiarito che chi fa informazione amatoriale online, così come è oggi, se vuole usufruire dei vantaggi della legge sulla stampa si iscriverà al tribunale, altrimenti non deve iscriversi da nessuna parte. Un conto è la professione, l’impresa, altro è la libera circolazione di idee e informazioni”.

Sergio Bellucci, responsabile Comunicazione e innovazione tecnologica del Prc ha sostenuto: “Le risorse pubbliche devono essere usate per aumentare il pluralismo della comunicazione nella carta stampata e in internet” ma la riforma “dev’essere ispirata al criterio di regalare meno soldi ai grandi gruppi e aumentare le capacità di comunicazione dei piccoli gruppi e dei singoli cittadini”.

Alfonso Pecoraro Scanio ha annunciato che i Verdi presenteranno emendamenti alla legge “per evitare restrizioni per chi apre un blog e consentire a tutti gli utenti di parlare liberamente preservando la democrazia web”. Per il ministro dell’Ambiente, “essendo un disegno di legge, per l’approvazione dovrà passare in Parlamento e lì sarà possibile apportare modifiche e migliorare il testo. Invito tutte le forze politiche a sostenere l’iniziativa dei Verdi per non limitare la possibilità d’espressione in Rete”.

Antonio Di Pietro, fra i primi politici-blogger, è convinto che “il ddl vada bloccato”, perché “metterebbe sotto tutela internet in Italia e ne provocherebbe la fine”. Parla di “una legge liberticida”, e conclude: “Per quanto mi riguarda, questa legge non passerà mai, a costo di mettere in discussione l’appoggio dell’Idv al governo”.

Paolo Gentiloni, ministro delle Comunicazioni, ha ammesso sul suo blog che è giustificato l’allarme suscitato dalla norma sulla registrazione dei siti internet: “L’allarme lanciato da Beppe Grillo e ripreso da molti commenti al mio blog è giustificato”. Poi ha aggiunto che la correzione è necessaria perché la norma in questione “non è chiara e lascia spazio a interpretazioni assurde e restrittive”.

Il ministro riconosce poi (come ha fatto nei rispettivi blog Antonio Di Pietro e pecoraio Scanio), la propria fetta di responsabilità nell’accaduto “per non aver controllato personalmente e parola per parola il testo che alla fine è stato sottoposto al Consiglio dei Ministri”.

“Pensavo – prosegue Gentiloni – che la nuova legge sull’editoria confermasse semplicemente le norme esistenti, che da sei anni prevedono sì una registrazione ma soltanto per un ristretto numero di testate giornalistiche on line, caratterizzate da periodicità, per avere accesso ai contributi della legge sull’editoria”.

Per il ministro delle Comunicazioni, dunque, “va bene applicare anche ai giornali on line le norme in vigore per i giornali, ma sarebbe un grave errore estenderle a siti e blog. (…) Il testo, invece, è troppo vago sul punto e autorizza interpretazioni estensive che alla fine potrebbero limitare l’attività di molti siti e blog”. In definitiva, “meglio, molto meglio lasciare le regole attuali che in fondo su questo punto hanno funzionato. Riconosciuto l’errore, si tratta ora di correggerlo. E sono convinto che sarà lo stesso sottosegretario alla Presidenza Levi a volerlo fare”.

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Prendiamo atto delle scuse presentate da Gentiloni, Di Pietro e Pecoraro Scanio. Le accettiamo.

È anche vero, però, che sarebbe il caso di dire: “meno presenza in Tv e più occhi sulle carte”.

O no?

Voi che ne pensate dell’intera “questione”?

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Aggiornamenti e notizie ulteriori su Lipperatura.

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lunedì, 15 ottobre 2007

COME SONO BELLI I LIBRI CHE NON SI LEGGONO

I dati relativi alla nuova indagine Ipsos su libri e letture non sono certo rassicuranti. Ne ha scritto Mirella Appiotti su Tuttolibri de La Stampa, interagendo con Gian Arturo Ferrari, direttore generale libri Mondadori, e Stefano Mauri, presidente e ad del Gruppo Mauri-Spagnol.

Letture: Solo il 38% del campione legge 1 libro l’anno (nel 2003 il 39%, nel 2005 il 46% «effetto presunto – dice Ferrari – dei libri allegati ai giornali e di best seller tipo Dan Brown»).

Acquisti: il 71% non compra neppure un libro (il 65% del 2005).

Fenomeno generale: Polarizzazione sociale del Paese, forbice che si allarga drammaticamente, la fascia alta della popolazione compra di più, sempre meno l’Italia povera. Di qui, crollo al Sud: -8% di lettori dal 2003. Benino il Centro Italia al +10% di «acquirenti», con Roma «capace di esprimere grande vivacità…»; solo un +2% di lettori al Nord, leggero calo dei «lettori forti».

«Il libro, una perdita di tempo» secondo il 61% degli intervistati.

«La lettura? Pesante» per il 20% del campione perché «gli ricorda la scuola».

«In nessun Paese del mondo l’esperienza scolastica lascia un ricordo così negativo» ha commentato Ferrari. L’uomo più potente dell’editoria italiana, che afferma di non parlare pro domo sua «l’industria editoriale non patendo più di tanto il fenomeno, siamo pur sempre il 6° mercato del mondo», sottolinea comunque come i lettori tra i 25 e i 34 anni siano cresciuti dal 2003 del 4%. «Basterebbero 10 milioni di euro dello Stato per intraprendere tra i bambini una campagna quinquennale di promozione della lettura con frutti sicuri». Stefano Mauri sostiene quanto segue: «Vorrei collegare due cose emerse. La prima, per l’appunto, è l’aumento della lettura tra i giovani dai 25 anni. La seconda è che i non lettori non hanno capito, in gran parte, quale magnifica fonte di svago possa essere un libro»”.

Sullo stesso numero di Ttl compare un articolo di Ferdinando Camon (cfr. Ttl del 13 ottobre 2007, pag. 2, rubrica “L’opinione”) intitolato “Non bastano i libri belli”. Camon cita i dati Ipsos e chiama in causa Corrado Augias. Vi propongo di seguito l’articolo:

“Apro il libro di Corrado Augias Leggere (Mondadori, pp. 120, e 12), davanti al computer acceso, e sul monitor arriva un lancio Ansa: «Leggere? Per gli italiani è tempo perso». Continua: «Il 61% degli italiani non leggono nemmeno un libro all’anno, per il 12% leggere è tempo sprecato, per il 16 nella vita ci sono cose più divertenti, e per il 33 ci sono cose più utili». Nessuna meraviglia se i nostri ragazzi sono meno preparati dei coetanei europei. Ce l’ha appena detto l’Europa, con un’indagine di poche settimane fa. I nostri ragazzi sono messi peggio della media europea, per l’abbandono scolastico e per la percentuale di laureati. Il dato più triste è che dal 2003 ad oggi i lettori, in Italia, sono calati. Ma allora, il successo dei festival letterari? Il festival di Mantova funziona in maniera strana: la gente che ci va è tanta, ma è sempre gente che già legge, non è gente nuova. Adesso vediamo cosa fa Pordenone. Per ora «Pordenonelegge» deve fare se stesso, e ci riesce: fa notizia, attira gente, crea l’evento. Ma tutti questi sono festival di scrittori. La vera festa del libro resta la Fiera di Torino, ineguagliata. Le trasmissioni televisive avevano una loro utilità: sì, lanciavano pochi libri, ma li lanciavano molto. Una fra le migliori era quella di Corrado Augias. Evidentemente, scrivendo questo libro, Augias obbedisce ancora all’istinto missionario di chiamare il pubblico ai libri, perché «i libri ci rendono migliori, più liberi e più allegri». Bisogna leggere, dice, perché «i libri sono belli». E usa, con cenni molto rapidi o presentazioni un po’ più solide, un centinaio circa di libri. C’è anche un capitolo sul leggere che fa male, ma a ben guardare anche quello fa bene: don Chisciotte, Madame Bovary, Paolo e Francesca, Eloisa e Abelardo sono travolti dai libri che leggono, ma in quel travolgimento trovano il senso della vita. Tutto ciò che si fa per far leggere è ben fatto. Ma l’impresa di Augias mi ricorda quella di Thomas Merton: Merton s’è convertito al cattolicesimo perché «le cattedrali cattoliche sono belle», e voleva convertire il mondo spiegando a tutti che «le cattedrali cattoliche sono belle». Dubito che ci sia riuscito: gli altri uomini hanno altre bellezze. Augias vuol convertire i non-lettori spiegando che i libri sono belli. E’ difficile. I non lettori, dice l’Ansa, hanno le loro belle cose da fare”.

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Verrebbe da dire: siamo alle solite.

Commentate l’articolo di Camon, se volete.

Poi vi domando: secondo voi cosa bisognerebbe fare per incentivare la lettura di questi famigerati libri ?

Magari potrebbe venire fuori un’idea innovativa.

Chi lo sa?

A voi!

Massimo Maugeri 

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AGGIORNAMENTO del 17 ottobre 2007

Ringrazio moltissimo Ferdinando Camon per il suo intervento nel dibattito che è nato dopo la pubblicazione del post. Il “perché leggere” che troverete di seguito – un bellissimo spot a favore della lettura – è tratto dal suo libro “Tenebre su tenebre” (Garzanti, 2006, pagg. 355, euro 18)

In questo libro Ferdinando Camon usa una lente che permette di cogliere, oltre il brusio della cronaca, certe onde lunghe che sommuovono nel profondo tanto la realtà quanto noi stessi. La memoria della civiltà contadina e la percezione del mutamento, la scrittura e la psicoanalisi, la famiglia e il sesso, la religione e la religiosità, il corpo e la biologia, la guerra e la morte, il denaro e il potere, la solitudine e i popoli: sono questi gli aspetti dell’esperienza su cui Camon s’accanisce, e al tempo stesso gli strumenti con cui misura il mondo. O, per meglio dire, gli strumenti con cui lo soppesa, in tutta la sua feroce insensatezza. Così, pagina dopo pagina, s’inscrive una diagnosi impietosa del nostro tempo e delle sue perversioni, in un libro di lotta che turba e ferisce.

PERCHÉ LEGGERE

Chi vive, vive la propria vita. Chi legge, vive anche le vite altrui. Ma poiché una vita esiste in relazione con le altre vite, chi non legge non entra in questa relazione, e dunque non vive nemmeno la propria vita, la perde. La scrittura registra il lavoro del mondo. Chi legge libri e articoli, eredita questo lavoro, ne viene trasformato, alla fine di ogni libro o di ogni giornale è diverso da com’era all’inizio. Se qualcuno non legge libri né giornali, ignora quel lavoro, è come se il mondo lavorasse per tutti ma non per lui, l’umanità corre ma lui è fermo. La lettura permette di conoscere le civiltà altrui. Ma poiché la propria civiltà si conosce solo in relazione con le altre civiltà, chi non legge non conosce nemmeno la civiltà in cui è nato: egli è estraneo al suo tempo e alla sua gente. Un popolo non può permettersi di avere individui che non leggono. E’ come avere elementi a-sociali, che frenano la storia. O individui non vaccinati, portatori di malattie. Bisogna essere vaccinati per sé e per gli altri. Perciò leggere non è soltanto un diritto, è anche un dovere. Nelle relazioni tra i popoli, la prima e più importante forma di solidarietà è dare informazioni: mai l’altro dev’essere convertito alla nostra supposta superiorità, ma sempre messo in condizioni di scegliere tra le sue informazioni e le nostre. Quando una cultura si ritiene nella fase di superiorità tale che tutte le altre culture devono apprendere da lei, per il loro bene, e lei non può apprendere da nessuna, comincia la sua decadenza.
Ferdinando Camon

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lunedì, 1 ottobre 2007

LAVORATORI DI OGGI: “RISORSE UMANE” O “RISERVE UMANE” ?

Il titolo di questo post è provocatorio, lo so. Però è anche vero che la situazione del mercato del lavoro è tutt’altro che rosea. Soprattutto a sentir parlare la gente; e i giovani in particolare (e al di là degli esiti delle statistiche ufficiali sulle percentuali di occupati e disoccupati).

Di libri e romanzi che affrontano il problema in maniera più o meno diretta ce ne sono parecchi.

C’è l’ultimo romanzo di Tullio Avoledo (“Breve storia di lunghi tradimenti”, Einaudi, 2007, euro 16,50), per esempio, di cui parleremo prossimamente in maniera più dettagliata, dove – con un tocco di efficace visionarietà – ci vengono presentate banche ultramoderne, ipertecnologiche e disumane (interessante e indicativo il sottotitolo del libro: un grande romanzo sulla fine del lavoro e dell’amore).

C’è il romanzo/antiromanzo del giovane Gianfranco Franchi (“Pagano“, edizioni Il Foglio, euro 10: ne abbiamo già parlato qui), dove si evidenziano le difficoltà delle nuove generazioni a fare i conti con forme di precariato “senza fine” (le virgolette per indicare il doppio senso).

Poi c’è questo libro di Aldo Nove (che non ho avuto modo di leggere ma che ritengo possa “calzare a pennello”).

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La letteratura è vita. A essa si rifà, a essa ritorna.

Giorni fa mi ha scritto uno dei frequentatori di Letteratitudine. Si chiama Benedetto (nick name: Outworks 110). Nella lettera denuncia una situazione di disagio che credo sia comune a molti lavoratori dipendenti.

Vi chiedo di leggerla e di commentarla.

E poi vi pongo alcune domande.

La cosiddetta flessibilità del lavoro – almeno, quella che sembrerebbe vada a danno del lavoratore – è davvero un male necessario e inevitabile come qualcuno sostiene?

Avete aneddoti da raccontare (vissuti in prima persona o che hanno coinvolto persone che conoscete direttamente)?

C’è qualche imprenditore o manager che può fornirci il punto di vista dell’altra “campana”? (Auspicherei in particolare – anche per “controbilanciare” il post – gli interventi di manager e dirigenti dell’azienda dove lavora Benedetto).

Ragioniamo e discutiamo con calma.

Segue la lettera di Benedetto.

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Buongiorno,

lavoro in un call center della Vodafone, quello di Padova per la precisione, e sono una delle 914 persone coinvolte in quello che viene definito in linguaggio asettico una operazione di esternalizzazione. Ho visto durante questi anni nel nord-est, io originario della Puglia, alcune persone a volte manifestare e parlare in televisione a proposito di questa strana bestia: l`esternalizzazione. Ebbene molto spesso li ho ascoltati distrattamente, altre volte faticavo a comprendere di cosa parlavano. Adesso sono coinvolto in prima persona e capisco tutto alla perfezione. Si tratta, in soldoni, di una grande azienda, che come nel caso della mia con conti in ordine e situazione di mercato stabile, decide per mantenere gli utili azionari ad un livello costante se non crescente, di vendere alcuni segmenti della propria azienda ad altre aziende piu` piccole. Sin qui l`operazione farebbe discutere solo per piccoli problemi morali, come ad esempio quello di vendere persone come sacchi di patate semplicemente per mantenere profitti alti, ma della morale non parliamo. Di questi tempi si fa brutta figura a parlare di cose del genere. Sono altri due gli aspetti di cui mi piacerebbe parlare : la strana contiguità di un’azienda come quella cedente Vodafone, che sin dai tempi in cui si chiamava Omnitel, aveva rapporti di stretta collaborazione con l’azienda che acquista i lavoratori: Comdata. E questa azienda guarda caso dovrà quotarsi in borsa nei prossimi mesi. Inoltre detta azienda possiede nella propria banca dati le informazioni riguardanti tutte le compagnie telefoniche. Si parla di concorrenza fra gestori e legge sulla privacy e poi una sola compagnia, neanche telefonica, possiede 3/4 dei dati di tutte le compagnie telefoniche. Un classico esempio di capitalismo arruffato e pasticcione nel quale noi italiani a quanto pare siamo specialisti. Il secondo aspetto del quale volevo parlare è quello che ovviamente riguarda le persone coinvolte in questo “progetto”. Alla sensazione di sgomento e sconforto iniziale subentrano, poi, in modo del tutto irrazionale e schizofrenico sensazioni contrastanti: disperazione, incertezza, qualche piccola speranza che tutto si risolva, e poi ancora disperazione. Non è la vecchia storia di persone abbarbicate alla famosa poltrona, quelli lì in Italia non riesci mai a schiodarli, quanto invece una sensazione mista di delusione nei confronti di un’azienda che ha fatto della sua immagine giovanile e di successo una delle sue carte vincenti, e l’incertezza quanto non la paura per il futuro. L’azienda che acquista, Comdata, garantisce trattamento e sede per soli due anni. Poi persone di quarant’anni e passa, con famiglia e mutuo, potrebbero sentirsi fare delle richieste oscene come lavorare a cottimo o cambi di sede repentini e ripetuti. Questo in un mercato del lavoro, quello di italiano, asfittico in gratificazioni e generoso solo di angosce e precariato. Certo il problema riguarda me e 913 colleghi della Vodafone, ma non sarebbe il caso, ogni tanto ed anche in uno spazio atipico come questo blog parlarne? Giusto per smitizzare questa immagine ottimistica, asettica ed indolore di operazioni finanziarie che hanno il solo pregio di arricchire poche persone e il torto di gettare nell`angoscia migliaia di lavoratori.

Cordialmente,

Benedetto

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Aggiornamento del 2 ottobre 2007

L’aggiornamento del post è finalizzato alla segnalazione di un ulteriore libro. Un libro che va in una direzione diversa rispetto a quella seguita dai tre che ho citato all’inizio. L’autrice è una giornalista del Messaggero: si chiama Angela Padrone. Il titolo del suo libro non è meno provocatorio del titolo di questo post.

Precari e contenti (Marsilio, 2007). Un titolo che a prima vista parrebbe… ossimorico. Il sottotitolo però è più rassicurante: Storie di giovani che ce l’hanno fatta.

Angela Padrone è ufficialmente invitata a partecipare al dibattito.

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martedì, 28 agosto 2007

ANCORA GÜNTER GRASS: OVVERO, “SU COME RIAPRIRE UNA POLEMICA ORMAI SOPITA”

Chi si ricorda del caso Günter Grass esploso l’estate scorsa? Lo noto scrittore tedesco, Premio Nobel per la letteratura, aveva confessato di aver militato in età giovanile nelle SS. Una sorta di scandalo che aveva determinato un lungo strascico di polemiche. Avevamo avuto modo di discuterne in questo post.

Gunter Grass

La vicenda pareva conclusa, dato che non se ne parlava più da un bel po’ di Grass e SS. E invece no. Il caso è riaperto. E sapete perché? Perché c’è chi sostiene che Grass si sia inventato tutto, magari involontariamente o – meglio – inconsciamente.

Vi propongo una parte dell’ articolo di Javier Cercas, intitolato “La confessione di Grass: un atto letterario” apparso su La Stampa di oggi (28/8/2007). Chi lo desidera può leggerlo per intero cliccando qui.

La difficile arte di dire «fine»

Ormai eravamo tutti convinti d’aver ascoltato la parola fine sul tormentone della scorsa estate, ma ho il piacere di comunicarvi che ci sbagliamo. Il tormentone della scorsa estate è stato l’annuncio, avvenuto prima della pubblicazione delle sue memorie, che Günter Grass aveva militato, in gioventù, nelle SS; visto che buona parte dell’opera di Grass indaga sull’incapacità dei tedeschi di metabolizzare il proprio passato nazista e dato che buona parte della sua vita pubblica è stata consacrata a denunciare quest’incapacità, è naturale che alcuni abbiano pensato che Grass non fosse, poi, tanto diverso da una specie di Vito Corleone che avesse trascorso l’esistenza a denunciare le prepotenze della mafia. A un anno dalla confessione sembrava che su questo fatto fosse stato detto tutto il possibile, finché Timothy Garton Ash non ci ha tolto questa convinzione.

In un articolo pubblicato sul The New York Review of Books, Garton Ash ci racconta che quando, un anno fa, è scoppiato lo scandalo, un amico – un tedesco del quale non fa il nome e che ha quasi la stessa età di Grass – gli ha detto: «Sai, io su questa storia ho una teoria: in realtà Grass non è mai stato nelle SS; si è solo convinto d’esserci stato». La teoria fa luce, meglio di qualsiasi altra, su come sia impossibile, per i tedeschi, relazionarsi con il loro impossibile passato, a patto, però, che uno sia sufficientemente spericolato nell’immaginare le premesse dalle quali partirebbe.

Perché Günter Grass imputerebbe falsamente a se stesso un passato così orribile? Una spiegazione – la più povera, la più verosimile – sarebbe di carattere strettamente clinico: preso dall’ossessione di denunciare il passato nazista dei suoi compatrioti, Grass perde la ragione e ricorda un passato fittizio.
Esiste, indubbiamente, un’altra spiegazione: la confessione di Grass è l’atto più radicalmente letterario che lo scrittore abbia mai compiuto: stanco di denunciare vanamente l’ingannevole amnesia dei tedeschi, Grass inventa una propria ingannevole amnesia per dimostrare loro, con la sua vita, quanto non è riuscito a dimostrare con i suoi libri. Inutile dire che questa spiegazione è la più elegante, la più persuasiva e la più ambiziosa, ma la teoria non sarebbe perfetta se l’amico non avesse sconsigliato Garton Ash dal pubblicarla: «Se lo farai Grass ti denuncerà per aver sostenuto che non ha mai fatto parte delle SS». Del resto, forse, non è mai stato sufficientemente sottolineato lo humour che permea l’opera di Grass, anche se il miglior mot d’ésprit contenuto nelle sue memorie è involontario; Grass enumera una serie di motivi per i quali ha scritto il suo libro; l’ultimo è questo: «Per mettere la parola fine».

JAVIER CERCAS

Gunter Grass

Ora, non per pensar male, ma l’impressione è che qualcuno stia cercando di creare un nuovo caso riciclando i residui di quello precedente (per realizzare un disegno un po’ meno carino di quello riportato qui sopra… bello vero?).

C’è puzza di marketing, della serie… cosa non si farebbe per vendere qualche copia in più? O è solo un’ impressione frettolosa la mia?
Secondo voi?

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sabato, 14 luglio 2007

LA SUOCERA DEL ROMANZIERE

Su Tuttolibri de La Stampa di oggi, 14 luglio 2007, a pag. 2, la rubrica L’opinione è occupata da un interessante articolo di Elena Loewenthal dal titolo: “Letterati da Expo”.

Tra le altre cose la Loewenthal precisa quanto segue:

Ha ragione Aldo Grasso quando scrive che c’è una tivù che fa schifo. C’è anche una letteratura che produce il medesimo effetto. Ha ragione quando punta il dito su quei letterati da esposizione culturale che usano i bagn(ett)i di folla da festival come misero surrogato dello share, su quei romanzieri (quasi tutti) che si venderebbero la suocera per una microcomparsata televisiva, foss’anche nelle ore più impervie, quando tutt’al più ti guarda un casellante di turno o un depresso insonne.”

Suocera con in mano copia della più recente opera del genero romanziere (o romanziere degenere)

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Cara Elena, anch’io penso che Aldo Grasso abbia ragione. I letterati da esposizione culturale che usano i bagn(ett)i di folla (o di folli?) da festival come misero surrogato dello share meritano dita puntate (e appuntite) in direzione oculare e con effetto accecante.

Le dirò di più. Secondo me i romanzieri (quasi tutti) venderebbero la suocera non solo per una microcomparsata televisiva, ma anche per una malacomparsata televisiva, foss’anche nelle ore più impervie, e persino in differita, a costo di svolgere il duplice ruolo di protagonista video e telespettatore unico. L’importante è esserci.

Già. Erich Fromm sbagliò il titolo del suo famoso libro. Non “Avere o essere?” doveva denominarlo, ma “Avere o esserci?”.

Per quanto concerne la suocera, poi, a costo di apparire banale o troppo attaccato ai luoghi comuni, le dirò che sono convinto che molti romanzieri (se non quasi tutti) se la venderebbero a prescindere dalle microcomparsate televisive. Anzi, molti la darebbero via proprio gratis (la suocera). E se proprio devo dirla tutta ho l’impressione che la maggior parte dei romanzieri (o forse quasi tutti) sarebbero pure disposti a pagare per levarsela di torno (sempre la suocera); anche se sul piatto della bilancia ci fosse una perfetta solitudine casalinga, anziché comparsate televisive di qualunque genere.

Eh, brutta razza quella dei romanzieri!

Massimo Maugeri

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mercoledì, 11 luglio 2007

IL VALORE MATEMATICO DI AMMANITI

Nei giorni scorsi si è molto parlato del premio Strega. Com’è noto, e com’era nelle previsioni, l’edizione 2007 è stata vinta da Niccolò Ammaniti. In seconda posizione si è piazzato Mario Fortunato.

Niccolò Ammaniti

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Posizioni ribaltate sulla base del voto dei lettori del Domenicale de Il Sole 24Ore (vedi tabella sotto).

LA GIURIA DEL

PREMIO STREGA

I LETTORI

DEL DOMENICALE

DEL SOLE 24ORE

1. Niccolò Ammaniti, “Come Dio comanda”, Mondatori, 144 voti

1. Mario Fortunato, “I giorni innocenti della guerra”, Bompiani, 31% dei voti

2. Mario Fortunato, “I giorni innocenti della guerra”, Bompiani, 79 voti

2. Niccolò Ammaniti, “Come Dio comanda”, Mondatori, 25% dei voti

3. Franco Matteucci, “Il profumo della neve”, 55 voti

3. Milena Agus, “Mal di pietre”, Nottetempo, 22% dei voti

4. Laura Bosio, “Le stagioni dell’acqua”, Longanesi, 43 voti

4. Franco Matteucci, “Il profumo della neve”, 12% dei voti

5. Milena Agus, “Mal di pietre”, Nottetempo, 34 voti

5. Laura Bosio, “Le stagioni dell’acqua”, Longanesi, 10% dei voti

Come sapete non sono mancate le polemiche. C’è chi ha parlato di voti di cordata (presunta alleanza di Feltrinelli con Mondadori per restituire l’appoggio di un paio d’anni or sono determinante per la vittoria di Maggiani). C’è chi (non scrivo il nome, ma solo il cognome: Fortunato), in diretta Rai, nel corso della votazione, ha candidamente dichiarato a Giovanna Zucconi di non apprezzare (uso un eufemismo) il libro di Ammaniti.

Insomma… polemiche!

E qualcuno potrebbe dire: Eh, il Premio Strega non è più quello di una volta!

E invece no. Direi che le polemiche hanno sempre accompagnato le piroette del nostro più importante premio letterario nazionale.

Loredana Lipperini è riuscita a scovare una bellissima lettera (che ha poi postato su Lipperatura del 9 luglio), scritta da Carlo Emilio Gadda il 7 luglio 1952 e indirizzata a Gianfranco Contini. L’oggetto è l’attribuzione dello Strega ad Alberto Moravia.

La riporto qui (da Lipperatura).

Lo Strega è stato conferito a Moravia: giustamente, avuto riguardo al merito generale. Il suo libro è arrivato (a passi felpati) 20 giorni dopo la scadenza del concorso e comprende lavori già editi in volume. Non è giusto accusare di lesa maestà moraviana i concorrenti «ripetutamente invitati» come me. Io non solo mi sono legittimamente iscritto a tempo debito, con libro uscito a tempo debito, ma fino alla scadenza delle presentazione et ultra, ignoravo, come tutti ignoravano, che Moravia avrebbe presentato un libro, auspice la famiglia Cecchi, e col rumoroso codazzo degli strombazzatori di sinistra; i quali hanno pubblicato che le mie Favole sono «sostenute dai preti». Se è Moravia che ha varato questo siluro di tutta puzza, bisogna dire che il suo cervello è quello di un autentico deficiente: e che la spondilite e l’eredolue gli è arrivata alla ipòfisi, o pituita. O è malafede anaria.

Dunque, se Fortunato grugnisce contro Ammaniti possiamo sorridere pensando a quell’altra celebre diatriba. E, anzi, applicando le mie reminiscenze di matematica potremmo goliardicamente costruire un’interessante proporzione sui due suddetti duetti (perdonate la rima):

Moravia sta a Gadda come Ammaniti sta a Fortunato.

Che tradotta in linguaggio matematico diventa:

Moravia : Gadda  = Ammaniti : Fortunato

Bene, questa proporzione (badate, la matematica non è mai un’opinione) permette di calcolare il vero valore letterario del vincitore della più recente edizione del Premio Strega.

Applicando la nota formula si giunge, infatti, alla seguente conclusione:

Ammaniti = Moravia x Fortunato / Gadda (leggasi, Ammaniti uguale Moravia per Fortunato fratto Gadda).

Questo sarebbe il valore matematico di Ammaniti.

Secondo voi è troppo, o troppo poco?

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domenica, 1 luglio 2007

L’INFLUENZA DELLE CELEBRITA’

L’influenza delle celebrità è un disturbo davvero strano per il quale non sono ancora stati trovati rimedi efficaci. È un’influenza che si contrae per via del concorso di quattro fattori – o concause – tra loro strettamente connessi. Il primo di questi fattori è senz’altro il livello dei guadagni, seguito dalla visibilità sul web e dalla presenza su carta stampata e televisioni. L’entità del disturbo è direttamente proporzionale a quella dei suddetti fattori, nel senso che tanto più elevata è la loro incidenza tanto maggiore è l’influenza che ne deriva. Di recente la rivista americana Forbes, dopo attente analisi, ha pubblicato una sorta di classifiche delle influenze, suddividendole in generale e per categorie.

Nella categoria autori l’individuo a cui sono stati diagnosticati i valori più elevati è una donna. Una certa signora J. K. Rowling, madre (letteraria) di un giovanotto che dovrebbe chiamarsi Harry Potter o giù di lì.

La povera Rowling, secondo gli accertamenti effettuati, guadagna qualcosa come 32 milioni di dollari, ha un web rank pari a 42, un press rank pari a 61 e un tv rank pari a 77 (ci scusiamo con i lettori se non indichiamo la forbice relativa ai cosiddetti parametri normali, n.d.r). Dicono che sia più ricca della regina Elisabetta, ma – si sa – la ricchezza non è tutto. Anzi, a volte la ricchezza dà alla testa. Insistenti voci (più di salotto che di corridoio) sostengono che J.K.R. abbia deciso di farla finita con il piccolo (ormai giovane) Harry. Che dire? Non esistono più le madri di una volta!

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Altro individuo a cui sono stati riscontrati valori altissimi – sempre all’interno della categoria autori – è tale Dan Brown.

Secondo alcune voci l’influenza di questo signore dipenderebbe dall’uso improprio di teorie pseudoscandalisticoreligiose (i disturbi gravi sono sempre legati a nomi lunghi e strani, n.d.r. bis). Dalle analisi effettuate risulta che il giocondo Brown guadagna – verdone più, verdone meno – 10 milioni di dollari. I suoi web rank, press rank e Tv rank sono pari a – rispettivamente – 68, 66, 86. Segue al terzo posto – posizione da panchina? – il signor John Grisham (9 milioni di dollari e ranks pari a 67, 76, 87).

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In cima alla classifica generale dell’influenza celebrities compare una donna che risponde al nome di Oprah Winfrey.

È un’influenza di colore (viola), quella della Winfrey. E i valori accertati sono assolutamente fuori norma, da record: vi riporto solo il dato relativo ai guadagni che è pari a – pensate un po’ – 260 milioni di dollari. Peraltro sembra che molti degli affetti da influenza da celebrità bramino la vicinanza della Winfrey con il rischio di far – alla faccia dei paradossi – incrementare ulteriormente i parametri della propria influenza.

Anche in Italia si sta cercando di predisporre un sistema di analisi della celebr-influenza. Per il momento è attivo un servizio che si chiama star control.

Certo, la situazione italiana è meno grave se rapportata a quella statunitense (il primo italiano che compare in graduatoria è Valentino Rossi, al 58° posto: peggio per lui che va sempre in moto!). Da noi più che casi di influenza vera e propria sono stati segnalati i postumi di qualche colpo daria. Ma c’è chi giura che anche in Italy sarebbero in tanti disposti a fare carte false per avvicinarsi ai livelli della Winfrey. Per quanto ci risulti difficile capire le motivazioni di siffatto atteggiamento autolesionista, a costoro va il nostro pensiero e una sorta di invito che ha il sapore di incitamento: care celebrità, mettetevi all’Oprah.

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Massimo Maugeri

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giovedì, 21 giugno 2007

“GOMORRA”, “IL MATTINO” E “NAZIONE INDIANA”

In questi giorni sulle pagine web di Nazione Indiana si sta consumando una polemica piuttosto virulenta a seguito della pubblicazione di articoli sul quotidiano “Il Mattino” da parte di alcuni scrittori, tra cui: Antonella Cilento, Andrea Di Consoli e Antonio Pascale. Articoli finalizzati a fare il punto della situazione sulla Napoli post-Gomorra.

Vi riporto, di seguito, gli articoli di Pascale, Cilento e Di Consoli. Poi vi esporrò il mio parere.

Il Male che bagna Napoli (di Antonio Pascale)

La città di Napoli (e il suo hinterland) ha ormai invaso il nostro immaginario narrativo. Da una decina d’anni a questa parte, scrittori, artisti, intellettuali, registi, sceneggiatori e pure qualche poeta parlano e raccontano Napoli. Si può dire a tutt’oggi che nessuna città italiana ha subito lastre radiografiche così invasive e così continue come Napoli. Certo alcuni hanno preferito racconti superficiali, altri hanno raccontato la città con dolore e con amarezza, altri ancora con troppo dolore e troppa morbosità. Comunque sia, sfumature a parte, ne abbiamo elencato i difetti, le brutture, modi di vivere, le antropologie sociali, gli scempi urbanistici, spesso in presa diretta. Tanto che si può dire senza paura di esagerare che della città sappiamo ormai tutto, vita, morte e miracoli, per citare l’ultimo bel reportage televisivo, andato in onda giorni fa su L7. La domanda a questo punto è lecita: se sappiamo come ormai funziona il sistema camorristico, se la complicità tra politica e malaffare è sulla bocca di tutti che quasi accompagna le nostre discussioni al bar, se la vox populi dice cose molto sensate, se, ancora, abbiamo capito che la struttura economica che fonda e fa girare Napoli è seriamente a rischio crepe e di sicuro l’edificio nel futuro immediato si incrinerà seriamente, se sappiamo tutto questo, come mai a Napoli non cambia niente? Come mai non si prende atto dello stato di macerie e si comincia a ricostruire? Molti narratori, giovani e non, si sono convinti, in questi anni che l’espressione artistica deve per forza tenere conto di tutto quello che si muove sotto i nostri piedi. Qualunque tipo di torre l’artista costruisca, sia d’avorio o altrimenti corazzata, questa (la torre) poggia comunque le fondamenta nel sottosuolo. Non possiamo abbandonare la realtà sismologica e l’impegno che questa comporta. L’arte realistica è, in questo senso, un potente sismografo. Serve in primo luogo a proteggerci, proprio perché ci fa riconoscere l’onda sismica e in secondo luogo, serve, a costruire strutture antisismiche. Il narratore realista crede, in buona o mala fede, con ottimi e cattivi risultati, che questo sia il suo compito, indagare e costruire. Un compito che grava su di noi come una necessità primordiale, da svolgere a tutti i costi, arrivando fino ad invadere il lettore, come sostiene Saviano, prenderlo a pugni, svegliarlo dal torpore. Ebbene, sto sempre più nutrendo il sospetto che questo tipo di rappresentazioni rischia sì di indagare senza però smuovere nulla. E’ un indagine ripetitiva, per così dire. Consolante come tutte le ripetizioni. Quasi come se a risultato ottenuto, a narrazione finita, dopo aver militarmente invaso l’altro, al lettore, davanti a tale apocalisse, non resti che alzare le mani, dichiarare la resa. L’arte, dicono i teorici, deve conservare la tensione, sia quella verso il bene sia quella verso il male, altrimenti risulta mutila. Le rappresentazione che spesso hanno oggetto Napoli indirizzano la tensione verso il male. Anzi, spesso lo riproducono. Voglio dire, qualche volta, c’è nello stile che si adotta una seria complicità con il potere che si vuole contestare. E’ forse questo è un punto problematico per noi che scriviamo di Napoli, troppo spesso le narrazioni su, dentro e fuori Napoli, sono stilisticamente colluse. Oppure contribuiscono a creare una specie di retorica dell’apocalisse che blocca ogni tipo di pensiero vitale. Per molti di noi, Napoli è una città che sta diventando capro espiatorio. Con la narrazione rappresentiamo sì il male ma solo per allontanarlo e per sentirci migliori. Forse è per questo che non cambia nulla. Napoli non ci riguarda, fa troppo schifo, ne siamo fuori. E invece, forse, noi narratori dovremmo a questo punto cambiare tattica. Basta con l’epica della criminalità, perché la narrazione ripetuta con gli stessi stilemi e lo stesso ritmo, crea una sorta di assuefazioni e anche, a volte,la possibilità che si idolatri il criminale. Si pensa,e lo pensano i giovanissimi: quando la vita quotidiana è banale, meglio la forza del male. E invece, al contrario, bisognerebbe adottare un punto di vista meno morboso, meno osceno. Oppure dovremmo, di tanto in tanto, andare nelle scuole, nelle piazze a parlare ai ragazzi di scienza e scienziati, di ricerca medica, genetica, di botanica (perché l’ambiente è importante), di tecniche di costruzioni, dovremmo trovare, cioè, il modo, un modo non pretesco, senza prediche, di raccontare alle nuove generazioni che è meglio denudarsi, dai vestiti di marca, dalle droghe, dalle moto e di tutto quando fa spettacolo, vetrina, siparietto, a Napoli e riuscire insieme ad appassionarsi alla città. La passione verso la conoscenza nasce da qui, da un corpo nudo che vuole umilmente provare nuovi abiti mentali. Forse tocca a noi provare la giusta tessitura narrativa.

pubblicato su Il Mattino il 13 giugno 2007

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L’oleografia del male e i suoi danni (di Antonella Cilento)

La notizia che gira ci distrugge: amici da Londra mi scrivono per chiedermi se è vero che un’epidemia è scoppiata a Napoli. Ma quale epidemia?, chiedo subito, C’è un errore… Ma sì, mi rispondono: epidemia di colera. Allibisco. E’ vero: siamo sui giornali di tutt’Europa con lo scandalo della spazzatura. Con la camorra. Con tutto quel che non funziona. E alla fine l’effetto è lo stesso di un secolo fa: erano gli inglesi o gli americani dipinti da Edith Warthon che non volevano passare per Napoli, focolaio di epidemie.

Non solo, vado a trovare un amico albergatore e quando gli chiedo come va mi risponde: malissimo. Gli italiani e gli stranieri hanno ridotto le presenza turistica in forma radicale e, per di più, le locali istituzioni non sono partite per tempo con la pubblicità del Maggio dei Monumenti.

Che ci piaccia o meno l’enorme campagna stampa e letteraria dell’immaginario che circonda Napoli in questi ultimi tre anni, invece di fare luce, come è già stato detto da Antonio Pascale su queste pagine, crea oscurità. La città se ne cade di problemi, ma attorno a lei, dentro di lei, una colossale campagna di autodistruzione fa perdere di vista la verità dei fatti. E per conseguenza nasce l’oleografia del male, fioriscono i presunti cantori della camorra, che invece di colpire il Sistema, senza volere – o volendo – lo elogiano.

E’ pericoloso di questi tempi nascondersi dietro il Male, è pericoloso creare martiri, non ne abbiamo bisogno. Per tornare a guardare Napoli bisogna viverla e lavorarci dentro, non osservarla da altre città o con gli occhi rivolti al desktop invece che alla strada.

Non abbiamo bisogno di un mercato del racconto truce di Napoli (è roba vecchia, cambiano le forme ma le storie sono le stesse di cento anni fa, proprio come la notizia del colera): alla fine, anche questo, il raccontare il Male compiacendosene, è una forma di camorra.

Abbiamo invece necessità di far vedere le cose attraverso l’esperienza diretta di una città che, certo, non è il paradiso, ma che ha bisogno di pratica e non di teorie per cambiare.

La gratuità del Male che abita Napoli si ritrova bene cantata dai telegiornali, dai libri, dai giornali: il Male si alimenta del Male.

E tutto questo ci solleva dal dover osservare le pratiche quotidiane, i buoni comportamenti, la correttezza dell’uso del denaro, l’educazione stradale, il senso civico che non fanno audience e non vendono copie, ma che più banalmente servono a contrastare l’entropia.

pubblicato su Il Mattino il 17 giugno 2007

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Andare avanti dopo Saviano (di Andrea Di Consoli)

Andrea_di_consoli

Le dure parole di Sergio De Santis, scrittore che è unanimemente riconosciuto equilibrato e mai demagogico, sulle colonne di questo giornale, in data 16 giugno, mi hanno dato l’impressione di un clima che sta cambiando. Ma cosa sta cambiando esattamente a Napoli? A mio avviso sta scricchiolando la dittatura del realismo e del reportage, quella che è stata giustamente definita, su questo giornale, la “retorica dell’apocalisse”.
Che Napoli sia un Far-West lo sanno tutti, lo sa tutto il mondo. Ma raccontare la realtà criminale non significa raccontare tutta l’anima di questa città, né i suoi sentimenti segreti, né il suo dolore. La vera letteratura, si sa, è parola che dura, è un affondo sentimentale di inaudita verticalità. Il realismo, invece, specialmente quello spettacolare, ha un grande impatto emotivo, ma lascia le cose, e le persone, così com’erano in partenza. Il giochetto è semplice: basta puntare vitalisticamente il taccuino, gli occhi e le telecamere sugli zombi della camorra, e l’effetto “pulp” è garantito.

Ma il convitato di pietra di queste discussioni è Roberto Saviano, inutile nasconderlo. Non finiremo mai di parlare bene del suo libro, né di vivere con apprensione la sua condizione di scrittore minacciato dalla camorra. Saviano è, per molti di noi, un amico, un giovane reporter di talento, ma per andare avanti, per non soccombere di fronte alla dittatura del realismo e alla “retorica dell’apocalisse”, di cui lui è il principale “colpevole”, l’unica soluzione, per consentire la rifioritura del racconto di Napoli, della sua anima, della sua anima plurale, è dimenticare Saviano.

Perché diciamoci la verità: tutti gli scrittori napoletani, oggi, vivono il complesso dell’anima bella. Qualsiasi cosa letteraria provenga da Napoli, da un anno a questa parte, sembra esercizio letterario, disimpegno filisteo rispetto alle emergenze napoletane (comunque immondizia, pistole, lavoro nero, contraffazione, sangue, droga e clan ci sono da prima che nascesse Saviano, questo va detto). Invece sappiamo qualcosa di Napoli grazie a tutti, anche grazie agli scrittori che hanno parlato d’altro: di sentimenti, di sogni, di storia, di amore, di utopie, di cose non “invischiate” con la cronaca nera.

Napoli è stata sempre una città “unica”, una città orgogliosa dei propri codici “sballati”, ma adesso è diventata una città-zoo, che i cronisti di tutto il mondo vengono a visitare con la stessa curiosità che si ha quando si vanno a fotografare le scimmie con il sedere rosso. Mi domando: perché i napoletani non sono offesi? Perché non si ribellano a quest’abnorme caricatura a cui certa letteratura e il circo dei media li ha ridotti? Perché insistono a voler vivere con rassegnazione in una città dove tutto è alla rovescia, dove i peggiori elementi di Napoli, i mariuoli, i killer, i camorristi presidiano come talebani il territorio? I politici, purtroppo, saranno poco determinanti in questa battaglia, se mai ci sarà, perché i politici fanno, com’è risaputo, solo ciò che la maggioranza vuole fare. I napoletani devono cambiare con le loro mani, e secondo me questo potrà accadere soltanto se proveranno il sentimento della vergogna e dell’umiliazione. Quanti napoletani, però, conoscono la vergogna e l’umiliazione? E mi domando: Saviano li ha davvero umiliati, tutti i mariuoli di Napoli?

Lo so che dire “dimenticare Saviano” fa male, è doloroso. Ma Napoli è tante altre cose, tanti altri mari, tanti altri linguaggi, tanti altri sentimenti. La camorra si umilia anche così: con la buona letteratura, con la gentilezza, con le belle parole, con il mare, con i sogni, con la cultura che si espande nonostante tutto. Non sono anime belle gli scrittori e le scrittrici che continuano a raccontare “un’altra Napoli”. Hanno pari forza e dignità di chi mette le mani nella bocca del leone. Ma la migliore Napoli, la Napoli della cultura, dell’intelligenza, della gentilezza e della legalità deve fare muro. Ovviamente contro la camorra quotidiana e contro i mariuoli, sia in cravatta che in jeans, ma purtroppo anche contro Saviano che, senza volerlo, ha dettato un canone ingombrante e tirannico. Mi perdoni Saviano, l’amico in pericolo in vita, il grande reporter, l’intelligentissimo scrittore (il Re degli scrittori di camorra), ma Napoli deve andare avanti, riscoprire la sua pluralità, riequilibrare i suoi tanti canoni letterari, i suoi infiniti paesaggi interiori.

pubblicato su Il Mattino il 18 giugno 2007

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Credo che i toni usati su Nazione Indiana siano stati eccessivamente aspri e che Antonella Cilento, Andrea Di Consoli e Antonio Pascale abbiano subito insulti immeritati (forse anche perché il loro punto di vista è stato travisato).

Scrivo di seguito ciò che penso:

“Gomorra” di Roberto Saviano ha avuto meriti indiscutibili nell’indicare e stigmatizzare la cancrena del tessuto sociale ed economico di una certa Napoli. Perché non c’è dubbio che la società e l’economia napoletana abbiano piegato e continuino a piegare la schiena sotto il peso della criminalità organizzata. La camorra esiste – eccome se esiste -, così come esiste la mafia. A Saviano va tributato il merito del coraggio. Il coraggio di rischiare. Il coraggio di vedere e di dire, di scrivere e di descrivere. E il merito di averlo saputo fare con arguzia e talento.

Ma c’è, a mio avviso, un rovescio della medaglia di cui bisogna tener conto.

“Gomorra” si è fatto strada, prima lentamente, poi con forza inattesa fino a raggiungere livelli di fama non facilmente immaginabili. Capita però che, a volte, la fama trasbordi nella mitizzazione. E spesso la mitizzazione può essere causa di offuscamento delle prospettive, di distorsioni o addirittura – in alcuni casi – di effetti fuorvianti.

Vi ricordate il bandito Giuliano? A un certo punto, soprattutto all’estero, per via di un certo processo mediatico, la figura dell’efferato bandito fu idealizzata al punto tale da farla coincidere con l’immagine di un Robin Hood mediterraneo. Eppure Giuliano era solo un efferato bandito.

Ora, la camorra esiste e Saviano ha fatto bene a descriverla in maniera truculenta. Solo che a un certo punto il suo libro è… come dire… esploso.

Certo, se “Gomorra” ha subìto un processo di mitizzazione  non è colpa del suo autore, quanto piuttosto di un sistema mediatico che tende – ripeto – a enfatizzare il successo con effetti omologanti e stereotipanti. È falso e semplicistico identificare Napoli con tarantella, spaghetti e pizza. Ma è altrettanto errato identificarla con la camorra. O soltanto con la camorra. Napoli è anche una città d’arte, di cultura, di atmosfere magiche, di grandi tradizioni. E, d’altro canto, Napoli è una città che presenta grossi problemi spesso non collegati alla criminalità organizzata.

Io non credo che gli articoli di Pascale, Cilento, Di Consoli e di altri scrittori intervenuti sulle pagine de “Il Mattino” mirassero ad attaccare Saviano e la sua opera. Il loro intento, a mio modo di vedere, era finalizzato al ristabilimento di un equilibrio perduto a causa di quel processo di mitizzazione cui facevo riferimento prima. Ma temo che alcuni passaggi di quegli articoli siano stati travisati.

Se Saviano ha sentito il dovere – rischiando la pelle – di descrivere senza veli la Napoli della camorra ha fatto cosa giusta. Se però altri intellettuali hanno sentito la necessità di “correggere il tiro” fornendo punti di vista differenti, ritengo che abbiano fatto altrettanto bene (e che non meritino di essere insultati).

Credo che la crescita intellettuale si basi sul confronto, a volte sulla contrapposizione, di tesi e idee. Ma confronto e contrapposizione genereranno crescita solo se mantenuti entro i margini di una dialettica civile. Le risse verbali tendenti al linciaggio non servono a nessuno. Non servono a Saviano, così come non servono a Pascale, o a Cilento, o a Di Consoli. E soprattutto non servono a Napoli.

Massimo Maugeri

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martedì, 12 giugno 2007

IN DIFESA DEL VAL DI NOTO (di Andrea Camilleri)

Andrea Camilleri

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Non potevo non riprendere, anche qui a Letteratitudine, l’urlo di Camilleri lanciato dalle pagine di Repubblica. (Massimo Maugeri)

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I milanesi come reagirebbero se dicessero loro che c’è un progetto avanzato di ricerche petrolifere proprio davanti al Duomo? Rifarebbero certo le cinque giornate.

E i veneziani, se venissero a sapere che vorrebbero cominciare a carotare a San Marco?

E i fiorentini, sopporterebbero le trivelle a Santa Croce?

I rispettivi abitanti che ne direbbero di scavi per la ricerca del petrolio a Roma tra i Fori imperiali e il Colosseo, a piazza De Ferrari a Genova, sulle colline di Torino, a piazza delle Erbe, a piazza Grande, lungo le rive del Garda?

Non si sentirebbero offesi e scempiati nel più profondo del loro essere?
Ebbene, in Sicilia, e precisamente in una zona che è stata dichiarata dall’Unesco “patrimonio mondiale dell’umanità”, il Val di Noto, dove il destino e la Storia hanno voluto radunare gli inestimabili, irrepetibili, immensi capolavori del tardo barocco, una società petrolifera americana, la “Panther Eureka”, è stata qualche anno fa autorizzata, dall’ex assessore all’industria della Regione Sicilia, a compiervi trivellazioni e prospezioni per la ricerca di idrocarburi nel sottosuolo. In caso positivo (positivo per la “Panther Eureka”, naturalmente) è già prevista la concessione per lo sfruttamento dell’eventuale giacimento.

In parole povere, questo significa distruggere, in un sol colpo e totalmente, paesaggio e storia, cultura e identità, bellezza e armonia, il meglio di noi insomma, a favore di una sordida manovra d’arricchimento di pochi spacciata come azione necessaria e indispensabile per tutti. E inoltre si darebbe un colpo mortale al rifiorente turismo, rendendo del tutto vane opere (come ad esempio l’aeroporto Pio La Torre di Comiso) e iniziative sorte in appoggio all’industria turistica, che in Sicilia è ancora tutta da sviluppare.

Poi l’inizio dei lavori è stato fermato, nel 2003, dal Governatore Cuffaro su proposta dell’allora assessore ai Beni Culturali Fabio Granata, di Alleanza nazionale, in prima fila in questa battaglia.

Ma è cominciato quel balletto tutto italiano fatto di ricorsi all’ineffabile Tar, rigetti, annullamenti, rinnovi, sospensioni temporanee, voti segreti, vizi di forma e via di questo passo ( ma anche di sotterranee manovre politiche che hanno sgombrato il campo dagli oppositori più impegnati).

E si sa purtroppo come in genere questi balletti vanno quasi sempre tristemente a concludersi da noi: con la vittoria dell’economicamente più forte a danno degli onesti, dei rispettosi dell’ambiente, di coloro che accettano le leggi. E i texani, dal punto di vista del denaro da spendere per ottenere i loro scopi, non scherzano.

Vogliamo, una volta tanto, ribaltare questo prevedibile risultato e far vincere lo sdegno, il rifiuto, la protesta, l’orrore (sì, l’orrore) di tutti, al di là delle personali idee politiche?

Per la nostra stessa dignità di italiani, adoperiamoci a che sia revocata in modo irreversibile quella contestata concessione e facciamo anche che sia per sempre resa impossibile ogni ulteriore iniziativa che possa in futuro violentare e distruggere, in ogni parte d’Italia, i nostri piccoli e splendidi paradisi. Nostri e non alienabili.

E ora, please, firmate anche voi (cliccate qui).

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venerdì, 8 giugno 2007

DI CHI VORRESTE SENTIRE “LA VOCE”?

Robbie Williams

Avete saputo che Robbie William parla con il defunto Frank Sinatra?

Oh, sì! Ed è tutto vero, mica una squallida trovata pubblicitaria.

Da Repubblica.it: “Robbie Williams da popstar a medium. Il cantante ha infatti detto di essersi messo in contatto con Frank Sinatra grazie ai suoi poteri paranormali e di aver ottenuto da ‘The Voice’ l’autorizzazione a cantare alcuni suoi grandi classici. (…) "Mi sono messo in contatto con lui quando ero a casa e ha detto che gli piacevano le mie versioni. E’ stato accanto a me quando li ho registrati", ha detto Williams… (…) che è convinto di avere poteri soprannaturali: "Si’, fin da quando sono bambino – ha detto la popstar tra il serio e il faceto -. Quando ero piccolo vedevo delle cose: una volta una luce verde è passata vicino a casa mia".”

A questo punto mi sento sollevato e vi confesso qualcosa che mi pesava come un macigno.

Ehm… ecco… sto scrivendo il mio nuovo romanzo sotto la dettatura di Luigi Pirandello. A dire il vero procediamo un po’ lentamente, dato che lavoriamo prevalentemente di notte. E poi ogni tanto interferiscono Tomasi di Lampedusa e Giovanni Verga. E l’altra notte Sciascia mi ha sussurrato a un orecchio che avrebbe tra le mani un raccontino niente male.

Ogni tanto – con la coda dell’occhio – scorgo D’Arrigo, che però se ne sta in disparte per (mi dicono) lavorare a una nuova stesura dell’Horcynus Orca.

La settimana scorsa, pensate un po’, è venuto a trovarmi Salvatore Quasimodo. Aveva dei versi da proporre. Io gli ho detto che con i versi non ho molta dimestichezza. E allora lui mi ha risposto: "Ma questi sono versi versatili! E comunque versi diversi". Io ho alzato le spalle e in lontananza ho scorto un gruppo di persone. Molti di loro scuotevano la testa, forse in senso di sdegno: ho riconosciuto Capuana, De Roberto, Brancati, Aniante, Addamo, Pizzuto, Patti e – mani in tasca, un po’ più distante – un Bufalino inbufalito.

E poi… be’… non so se confidarvi anche quest’altra cosa, ma tempo fa – sempre di notte – sono stato svegliato da Calvino. Il buon Italo mi chiedeva disponibilità per un aggiornamento delle sue Lezioni americane. Poi però è sopravvenuto Vittorini, l’ha preso a braccetto e gli ha detto che io – in quanto siculo – sono cosa loro. Però ha aggiunto: "Ma non ti credere, non c’è molto da prendere da questo!"

Teneva in mano un numero del Menabò e non ho ben capito se il termine questo fosse riferito a me o alla rivista.

Un’ultima cosa. Anch’io, come Robbie Williams, vedo delle cose (oltre a sentirle): mi capita soprattutto quando sto molto tempo davanti allo schermo del pc. Mi passano davanti agli occhi… come dire… oggetti scuri, piccoli come insetti.

Povero Robbie. Come lo capisco. Credetemi, non è facile essere dotati di poteri paranormali. E poi sentire la voce di uno che era soprannominato The Voice dev’essere particolarmente impressionante.

E meno male che è un cantante anglosassone e non uno scrittore siciliano. Altrimenti, in un momento di ispirazione di natura onomatopeica, Verga avrebbe potuto urlargli: "Robbie mio, vientene con me!"

Magari prendendolo a bastonate.

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P.S. Chissà se, tra voi, c’è qualcuno che condivide l’esperienza dell’ascolto di voci! Secondo me, sì! Dài… chi è che vi appare di notte, magari nei sogni?

Oppure… di CHI vorreste sentire "la voce"?

P.P.S. La foto che ritrae Williams con un paio di slip davanti al volto l’ho pescata dalla rete. Non chiedetemi se abbia significati metaforici. O simbolici.

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domenica, 6 maggio 2007

A CHE (A CHI) SERVE LA LETTERATURA?

Alessandro Piperno

Chi glielo dice ad Alessandro Piperno che questa sua presa di posizione – mantenuta con pervicacia – sulla presunta inutilità della letteratura a qualcuno fa un po’ sorridere?

Chi glielo dice che, pronunciata da lui, la frase “la letteratura non serve a niente” suona – alle orecchie dei più cinici e superficiali – un po’… irriverente? Della serie: da che pulpito… ?

Non so se vi ricordate, ma tempo fa – esattamente il 13 novembre 2006 – scrissi un post su Piperno e sulla sua inutilità della letteratura (che, badate bene, non significa sulla sua letteratura dell’inutilità… non fatemi dire cose che non ho detto, eh?).

Anzi, vi invito a rileggere quel post cliccando qui.

La questione, in verità, diciamolo (anzi, scriviamolo), non è poi così nuova – forse è vecchia come quella relativa alla cosiddetta morte del romanzo – ed già stata ampiamente dibattuta in altri tempi e in altre sedi.

Piperno – però – persevera, si fa paladino della suddetta tesi. La riporta in auge rispolverandola da vecchie incrostazioni e lucidandola – in ottica post-ideologica – con considerazioni che qualcuno potrebbe considerare quantomeno poco convincenti.

Piperno persevera e "lancia", o meglio, "ri-lancia" sulle pagine de L’Espresso. Scurati "raccoglie" e replica sulle pagine de La Stampa. Ne viene fuori una similpolemica che, al di là degli intenti promozionali (Piperno e Scurati si sono incontrati a dibattere sul palco, e sotto i riflettori, di "Officina Italia") merita di essere presa in considerazione come polemica vera, sebbene amicale.

Per quanto mi riguarda, quando sento parlare di inutilità della letteratura e morte del romanzo in genere sorrido. Sorrido e penso che, in fondo, la vacuità di questi dibattiti ha (forse) un valore apotropaico (termine caro a Piperno): fin quando si parlerà di inutilità della letteratura e morte del romanzo, letteratura e romanzo avranno, rispettivamente, utilità e vitalità.

Chiedo venia per il tono scanzonato – forse canzonatorio – e dissacrante delle mie parole. Rimedio subito, però, cedendo la parola ad Antonio Scurati che pochi giorni fa, come già accennato, ha ben replicato allo scrittore dandy (così è stato anche definito Piperno) sulle pagine de La Stampa.

Vi riporto, dunque, l’articolo pubblicato su Tuttolibri del 28 aprile 2007.

Antonio Scurati

Il borghese è l’uomo che ha trovato una sedia. Così parlò, a metà ‘800, Victor Hugo. Per questo motivo, è sempre esistito un romanzo borghese ma mai uno scrittore borghese. Almeno non mentre scriveva. Se mi si passa la boutade, stando a Hugo, un vero scrittore non scrive mai da seduto.

O, almeno, ciò è rimasto vero fino a qualche tempo fa. Lo scrittore, come figura distinta nell’ambito delle professioni intellettuali, nasce proprio nell’800, con il delinearsi del «campo letterario». Dapprima, questo nuovo soggetto serve gli interessi di classe della borghesia all’apice del suo trionfo: le fornisce un capitale culturale, uno strumento di autorappresentazione con il romanzo, un discorso di legittimazione. Molto presto, però, scaricato dalla borghesia, al cui mercantilismo è superfluo, quando non d’intralcio, lo scrittore passa all’antagonismo sociale. Viene marginalizzato e per questo fa del margine la propria collocazione d’elezione. Si separa dal corpo sociale – la sua «sacralità» è funzione della sua separatezza – per poterlo sottoporre a critica costante. Per più di un secolo e mezzo ogni scrittore sarà, perciò, il veleno del suo ambiente sociale. Ma ne sarà anche l’antidoto, proprio grazie alla sua strutturale anti-socialità.

Passata la buriana della lotta per la Storia, l’onda di riflusso del secolo appena estinto lascia sulle nostre rive lo «scrittore borghese». Riconciliato con la società se non con se stesso, beato, compiaciuto, comodo. Al giro del XXI secolo, lo scrittore sembra aver trovato una sedia. E ci si è seduto.
Se rispolvero il vecchio arnese ideologico della polemica antiborghese è perché sono stato tirato in ballo da Alessandro Piperno in un articolo, apparso ieri su
L’Espresso, nel quale si sostiene l’inutilità della letteratura. L’inedito verrà letto il 4 maggio a Milano nel contesto di un nuovo festival letterario – Officina Italia – da me organizzato (www.officinaitalia.net). Forse è per questo che Piperno, nel sostenere che la letteratura non è mai servita a niente, mi parodizza nelle vesti di un rabbino delle lettere che, con prediche persecutorie, lo richiama alla responsabilità sociale di ciò che va scrivendo. Accolgo volentieri la polemica personale come espediente per drammatizzare uno scambio di idee. Piperno ricorre al repertorio classico del disimpegno: azzeramento della coscienza storica (le cose sono sempre andate così), apparentamento della letteratura ai lussi spirituali (la letteratura condivide la sublime irrazionalità della passione amorosa), autodissacrazione dello scrittore (la letteratura come patologia psichica), autocommiserazione crepuscolare («la letteratura è un ripiego per infelici che il tempo ha cronicizzato in vizio»). Tutto questo, però, va a maggior gloria dello scrittore: un «palpito di eroismo» accompagna l’intrinseca moralità della letteratura che, pur rifiutandosi di distinguere il bene dal male, si «configuri come tensione verso l’autentico».
Ora, al di là del fatto che l’autenticità – come Samuel Johnson ebbe a dire del patriottismo – è spesso l’ultimo rifugio delle canaglie (e non mi riferisco certo a Piperno ma, per esempio, agli spacciatori mediatici di real tv, reality show etc. etc.), trovo significativo che a farsi paladino dell’inutilità della letteratura sia proprio chi, in seguito al successo del suo romanzo d’esordio, è divenuto una sorta di incarnazione del nuovo idealtipo di «scrittore borghese», con tanto di servizi sui suoi luoghi di svago esclusivi e cravatte abbinate ai calzini. Lo trovo significativo perché, come tutti sanno, la superiore ideologia del ceto borghese è proprio l’utilità a ogni costo: l’utilità, l’efficacia, la capacità che le cose hanno di funzionare, di produrre reddito, l’autocrazia del successo sono l’unico metro di valore per la cultura borghese. Stando così le cose, o la letteratura non vale niente perché inutile o la tesi della sua inutilità è anti-borghese. Oppure, terza posizione, questa confessione d’impotenza, questa professione di inutilità sono, in verità, del tutto funzionali, sono utili e redditizie per chi le pronuncia, perché agevolano una pacifica reintegrazione dello scrittore all’ordine sociale, qualunque esso sia, e una piena identificazione con l’ordine simbolico delle logica culturale dominante. Come dire: accoglieteci, amateci, divertitevi con noi, fateci guadagnare un sacco di soldi; perché tanto noi scrittori siamo inutili, dunque innocui, non possiamo far bene ma non possiamo nemmeno far male, lasciateci ai nostri giochini e non vi recheremo nessun disturbo, le nostre piccole trasgressioni verbali sfiateranno in flatus vocis, siamo dei bambini che piangono, siamo dei bambini che cercano l’applauso del papà mentre fanno la cacca.

Considero Piperno un autentico scrittore, dunque non gli farò il torto di confonderlo con il suo protagonista, Bepy Sonnino – un commerciante ebreo, estetizzante ed edonista, che nel secondo dopoguerra accumula fortune illecite dopo aver rimosso la tragedia del suo popolo, considerato alla stregua di un imbarazzante parente povero – il cui universo mentale è il regno del kitsch, un cosmo da cui il male è del tutto assente non perché sia stato estirpato ma perché ne è stato espunto. Ma al Piperno ideologo dell’inutilismo cripto-borghese vorrei dire che non ci si può limitare ad affermare l’inutilità della letteratura, bisogna anche testimoniarne l’antiutilità, la disfunzionalità radicale, il suo essere irredenta e irredimibile, sconsolata, disturbante piuttosto che conciliante, struggente piuttosto che compiacente. E’ vero: la letteratura ha sempre preso partito per l’infelicità. In ogni epoca. Ma la sua infelicità non è ripiego, non estensione di una nevrosi ma esercizio di una specifica intelligenza del mondo, agone nel quale lo scrittore scende per la lotta. Nella sua stessa nevrosi d’uomo, d’altronde, lo scrittore legge la diagnosi clinica del proprio tempo. L’autoesilio dello scrittore sull’orlo della società non deve essere cuccia ma pulpito: lì è la fonte della sua autorità a parlare di essa e contro di essa. Antonin Artaud proclamava: io sono un uomo che ha molto sofferto. Poi però aggiungeva: ed è per questo che ho diritto di parlare.

Tutte queste cose lo scrittore Piperno le sa ma l’ideologo le dimentica. «La letteratura non serve a niente», ripete. D’accordo. Ma solo se il verbo «servire» significa «essere servo di». La letteratura non serve perché è sovrana.

A testimone dell’inutilità della letteratura, Piperno chiama la suprema autorità della morte. Dinnanzi a essa, dice, tornano più utili una preghiera, o una bestemmia. Ma la letteratura è quella bestemmia, caro Alessandro. Una bestemmia fervente. Piperno trova il suo campione in Nabokov, il parnassiano, l’inutilista. Lolita sarebbe un grande romanzo d’amore che ha avuto il merito di chiudere in bellezza la tradizione occidentale dell’amore romantico, giunta al capolinea «nell’abitacolo d’una macchina all’interno della quale si sfidano all’ultimo sangue Humbert e la sua ninfetta». Sottoscrivo, caro Alessandro, non ho bisogno di opporti altri campioni. Va bene Nabokov. A patto di ricordare che, come insegna Denis De Rougemont, nella tradizione Occidentale, l’amore romantico non è un insulso sdilinquimento, non uno squittio ma una protesta contro un mondo regolato dal male. Un mondo contro il quale la brama di assoluto degli amanti si scontra con furia ereticale. E vale anche per la letteratura.

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Il post è aperto per i vostri commenti.

A che (a chi) serve la letteratura?

A voi la parola.

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giovedì, 5 aprile 2007

NUOVE POLEMICHE SU “IL PARTIGIANO JOHNNY”

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Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, pubblicato postumo nel 1968, dopo una vicenda editoriale piuttosto travagliata, è stato considerato come uno dei testi più significativi della cosiddetta “letteratura della Resistenza”. Ciononostante attorno a questo libro non sono mancate le polemiche.

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Beppe Fenoglio

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A pag. 762 del volume 18° della Storia della letteratura italiana diretta da Enrico Malato (edizioni Il Sole 24 Ore) leggiamo, in merito al celebre romanzo dello scrittore di Alba, quanto segue:

“Fughe e scontri, vita disagevole e randagia, reazioni e slanci dei giovani «ribelli» che, spesso infantilmente crudeli negli atti di violenza, convivono giornalmente con sofferenze e morte quasi in un indotto stato di trance, costituiscono, proprio perché non enfatizzati, i momenti di un racconto drammatico, teso, che solo una lettura superficiale o una cecità di parte poteva scambiare per intenzionale e quasi goliardica demistificazione del movimento partigiano e del «periodo crudo e miracoloso» della Resistenza.”

Eppure, a quanto pare, le polemiche non si sono sopite.

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Giorgio Bocca in un’intervista  rilasciata a Bruno Quaranta, pubblicata su Tuttolibri de La Stampa del 31 marzo 2007, ha dichiarato (badate che il riferimento era proprio a Il partigiano Johnny): “Fenoglio della Resistenza non ha capito nulla. Io, di quei venti mesi, ho un’idea politica e storica. So qual è stato il valore della Resistenza, so perchè il sogno che la innervava è naufragato. Fenoglio è come Pansa. La sua Resistenza è falsa, un teatro di assassini, di cialtroni, di poveracci.”

Verrebbe da domandarsi: le affermazioni di Bocca hanno un loro fondamento o sono solo frutto di una lettura superficiale o di una cecità di parte ?

Voi che ne dite ?

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lunedì, 26 marzo 2007

IL SUCCESSO EDITORIALE NON FA I LIBRI BUONI… CLASSICI COMPRESI

Fernando Savater è uno dei più noti intellettuali spagnoli di oggi.

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Fernando Savater

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Giorni fa ha pubblicato su El Pais un articolo dove sostiene che il successo editoriale non fa i libri buoni, riferendosi – peraltro – anche ad alcuni dei classici considerati “intoccabili”.

Su La Stampa dell’8 marzo è stata proposta una traduzione di quell’articolo. Io ne riporto, come al solito, uno stralcio con l’obiettivo di avviare un dibattito. Potete leggere l’articolo completo cliccando qui.

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In quell’interminabile zibaldone di pettegolezzi, barzellette, volgarità con lampi di genio che è il Borges raccontato dai diari di Adolfo Bioy Casares, il grand’uomo, un certo 9 luglio, dice al suo paziente cronista: «A questo libro (Sei problemi per don Isidro Parodi) manca una cosa per essere considerato molto buono: gli manca il successo. Io non so se, senza successo, un’opera può essere molto buona». Il giudizio poteva, certo, essere ironico o paradossale – come don Isidro – visto che con Borges non si sa mai. Ma propone un questione interessante. In effetti il criterio più puntuale che noi tutti utilizziamo per determinare se un’opera letteraria sia davvero buona, grande, classica è il successo.

L’Odissea, la Divina Commedia, i Saggi di Montaigne, Amleto, Don Chisciotte, Delitto e castigo o Cent’anni di solitudine hanno ottenuto riconoscimenti formidabili nel campo della letteratura perché hanno avuto un innegabile e solido successo che ha attraversato le generazioni. Non importa che a qualcuno di noi, personalmente, queste opere sembrino poco appassionanti o noiose da morire: ormai sono al di là della nostra possibilità di critica. (…)

Aveva ragione Chesterton quando definiva un autore classico «un re che si può abbandonare, ma che non si può più spodestare». È il peso della porpora del successo, né più né meno.

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Smettete di gridare, sento le vostre proteste: Shakespeare o Cervantes hanno avuto – e hanno – successo perché sono esempi d’eccellenza, non vengono considerati eccellenti perché hanno avuto successo. Lei sta cambiando l’ordine dei fattori per falsificare il risultato. D’accordo, ammetto che in alcune circostanze è davvero così, ma possiamo affermare che lo sia in tutte? La grandezza non può, occasionalmente, essere qualcosa che assomiglia all’eco del successo (i critici e gli «intenditori» che, nel corso degli anni, si sostengono a vicenda) al punto che nessuno abbia più il coraggio di urlare che il re è nudo o non venga ascoltato se le sue urla vanno controcorrente? È da scartare del tutto la possibilità che ci siano romanzi, poemi o drammi migliori di quelli più celebrati, ma che sembrano inferiori proprio perché non sono stati tanto magnificati? C’è un modo per misurare, in maniera oggettiva, il valore di un’opera letteraria se non valutando la sua provata capacità di convincere, in maniera durevole, la maggioranza dei lettori o degli opinion leader della letteratura? E questa maggioranza può sbagliare, qualche volta?

(…)

A me Il Codice da Vinci pare effimero. E se, invece, una persona capace di viaggiare nel tempo mi dicesse che tra 200 anni continuerà a essere considerato un’opera fondamentale proprio come molti lo giudicano oggi? Non mi resterà che adeguarmi? Stendhal ha detto che la letteratura ha qualcosa da spartire con la lotteria: ci sono biglietti premiati e altri no. Allora? Non so, per non sbagliare io torno a Dickens. E mi consolo pensando che l’importante è che non venga mai meno, in un modo o nell’altro, il piacere della lettura.

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E ora… la parola passa a voi!

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domenica, 25 febbraio 2007

LETTERATURA TRA STILE E VERITA’

Non so se ci avete fatto caso, ma qualche giorno fa (per l’esattezza il primo febbraio 2007) La Stampa ha pubblicato un articolo di Javier Cercas dal titolo: Verità, non stile voglio da chi scrive. Il sottotitolo mi è parso ancora più interessante: Un pamphlet contro i preziosismi ridicoli degli autori firmato dal dimenticato Felipe Azaiz si dimostra di straordinaria attualità.

Per farvela breve qualche settimana fa, in un negozio di libri usati, l’autore dell’articolo si imbatte in un opuscolo pubblicato a Tolosa nel 1946 dal titolo Arte di scrivere senz’arte. L’autore è un certo Felipe Alaiz. Cercas acquista il libro, lo legge e ne rimane estasiato.

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Ora vi riporto uno stralcio del succitato articolo (che potete leggere per intero cliccando qui). Poi, se vi va, ne parliamo.

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“L’Arte di scrivere senz’arte (…). Si tratta di un piccolo saggio sullo stile condito, com’è prevedibile, di buone intenzioni e di ingenuità, ma anche, com’è meno prevedibile, di geniali stravaganze (…). Comunque, a me sembra fondamentalmente esatta la sua concezione di stile che, tra noi, continua a essere essenzialmente decorativa. Il lettore, incapace di avere fiducia in se stesso, spesso non si fida del proprio gusto, ma di quello che gli assicurano gli debba piacere, e ciò non è quasi mai l’efficacia o l’emozione, ma esclusivamente l’apparenza o l’ornamento: l’aggettivo desueto, l’acrobazia sintattica, la metafora vanitosa. Questo lettore trova degno di merito che lo scrittore scriva «destriero» invece di «cavallo», «cilestrino» invece di «azzurro», quasi cercasse indizi che gli chiariscano se ciò che legge abbia o no il diritto di piacergli. Questo lettore dimentica che la frase «i consueti accadimenti che si verificano nella via» non è letteratura, mentre lo è la frase «quel che succede in strada»; dimentica che il fine della letteratura non è la bellezza, ma la verità, supponendo che le due cose non siano la stessa; dimentica che quello che sembra letteratura non è mai letteratura, perché scrivere bene è l’opposto di scrivere belle frasi e perché la vera arte è quella che nasconde il trucco (o, come recita il precetto latino: «Ars est celare artem»); dimentica, infine, che bisogna incominciare a darsela a gambe quando uno scrittore viene definito «uno stilista», termine che quasi sempre è sinonimo di inutilità o di verbosità (o delle due cose insieme), perché lo stile vero rasenta quasi sempre l’assenza di stile. Poche persone l’avrebbero detto meglio di Hannah Arendt quando, parlando dello scrittore meno imprescindibile del XX secolo, afferma: «L’unica cosa che attrae e seduce il lettore nell’opera di Kafka è la verità» alla quale egli arriva «con la sua perfezione senza stile», visto che «qualsiasi stile distoglie dalla verità, bella per se stessa».
Questa è l’idea centrale del libricino di Alaiz, che si rifà a Buffon il quale afferma che lo stile è l’uomo, e a Flaubert che sostiene che la forma sta alla profondità quanto il calore sta al fuoco, per poi lanciarsi in un’arringa rabbiosa contro lo stile ornamentale di quelle opere «rese stucchevoli dai preziosismi» schierandosi a favore di un’arte libera da impostazioni, obliqua o ellittica manifestazione della personalità di chi la crea.”

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A questo punto incalzo… e faccio l’avvocato del diavolo. Vi domando: non è che la letteratura italiana, nel suo Dna, sia un po’ malata di stilismo e di accademismo? Non è che sia questo uno dei motivi per i quali all’estero la filano in pochi? Non è che sia questo uno dei motivi per i quali i lettori italiani prediligono spesso la letteratura straniera?

Ho fatto l’avvocato del diavolo, eh? Dunque non insultatemi!

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mercoledì, 31 gennaio 2007

LETTERATURA DI MASSA E CRITICA LETTERARIA

Nel numero di dicembre della rivista L’Indice dei libri del mese, a pag. 33, è comparso un intervento di Alessandro Perissinotto che la dice lunga sul clima un po’ arroventato che si respira di questi tempi negli ambienti letterari nostrani.

Alessandro Perissinotto

Il titolo dell’intervento è: Letteratura di massa e critica letteraria. Il sottotitolo: Rompere il cellophane e collaudare un libro.

Come al solito estrapolo qualche frase dall’articolo. Poi, magari, ne parliamo insieme.

"Mi avvicino alla critica letteraria (terreno a me non familiare, dal momento che insegno Teorie e tecniche della comunicazione di massa) con l’umiltà di quelli che Giulio Ferroni definisce "mediocri professori di evanescenti facoltà universitarie" (…) e con il peccato originale che mi deriva dall’appartenere, come autore, alla folta schiera dei giallisti da mettere "Sul banco dei cattivi" (A proposito di Baricco e di altri scrittori alla moda, pp. 96, € 10,90, Donzelli, Roma, 2006) o dietro alla lavagna o comunque alla berlina. (…)"

"La rete trabocca di recensioni dei lettori, di consigli di lettura, di stroncature senza appello e di dichiarazioni di amore eterno da parte del pubblico ai propri idoli. Ma perché, navigando nel web, assistiamo a una rinascita sotto mutate spoglie di quella critica che proprio i critici di professione danno per morta? (…) E se il dilagare di una critica "dal basso" fosse anche la conseguenza dei molti tradimenti dei critici? È un’ipotesi che, dentro di me, riacquista credibilità ogni volta che mi confronto con un libro di stroncature che pare confezionato con l’intento di sfruttare un po’ di quella notorietà di cui sono colpevolmente macchiati gli stessi autori che vengono stroncati." (…)

"(…) Forse è ora di metterci d’accordo: o noi, autori e lettori di letteratura di massa, troviamo un punto d’incontro con i critici, un punto d’incontro che parta dal rispetto del lavoro reciproco (e soprattutto dell’intelligenza dei lettori), oppure quando le nostre strade si incrociano facciamo finta di non conoscerci."

Ne parliamo?

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mercoledì, 17 gennaio 2007

ANCORA MCEWAN…

Ancora Ian McEwan sotto la luce dei riflettori.

Poco tempo fa, se lo ricordate, abbiamo avuto modo di discutere di McEwan e di un presunto caso di plagio di cui l’illustre scrittore era stato accusato (se non ricordate cliccate qui).

Stavolta la notizia, per certi versi, è ancora più clamorosa.

Appare dal nulla un fratello segreto di Ian McEwan.

Proprio così: da romanzo d’appendice.

Ian McEwan

Leggete qui (da Repubblica.it di oggi 17 gennaio 2007):

«Per vent’anni hanno vissuto a pochi chilometri l’uno dall’altro, tra Oxford e Wallingford, in Inghilterra, ignorando la propria esistenza. Poi il colpo di scena, da vita che insegue la letteratura: lo scrittore pluripremiato Ian McEwan ha scoperto di avere un fratello, che oggi ha 64 anni, di cui non aveva mai sentito parlare.

Quella che oggi raccontano tutti i quotidiani britannici è una storia di amore, abbandono e ritrovamento. David Sharp, il fratello maggiore dell’autore di "Bambini nel tempo" ed "Espiazione", per citare solo alcune delle sue opere più famose, è figlio di Rose Wort. La donna, mentre il marito era in guerra, aveva avuto una storia clandestina con David McEwan ed era rimasta incinta: aveva così deciso di affidare il bambino ad altri, prima del ritorno del marito. Così il piccolo David venne dato a una coppia, Rose e Percy Sharp, quando aveva appena un mese. (…) Ma il marito di Rose non fece mai ritorno dalla Normandia e nel 1947 Rose Wort sposò McEwan: l’anno dopo nacque Ian. (…) A rivelare il segreto a David (…) è stata una vecchia zia. (…) Un bello choc per David Sharp scoprire che il misterioso fratello era uno scrittore di fama internazionale. Lui non aveva idea di chi fosse fino al loro primo incontro in un pub. Ha cominciato ad avere qualche sospetto quando, all’uscita dal locale, sono stati circondati dai fan di McEwan in cerca di un autografo. (…)

Dopo tante emozioni anche Sharp, che fa il muratore, ha deciso di cimentarsi nella scrittura. Metterà la sua storia nero su bianco, ma per scriverla ha bisogno di aiuto. Non l’ha chiesto a suo fratello, ma al ghost writer John Parker. »

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Bello vero?

Visto che in questi giorni torna in onda (ma basta!) la nuova edizione del reality storico che fece la fortuna di Taricone, rispetto al caso sopra esposto verrebbe da dire: signore e signori… dopo McEwan e il plagio, ecco a voi McEwan e il Grande fratello!

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lunedì, 15 gennaio 2007

BORIS PASTERNAK PREMIATO DALLA CIA?

È la notizia letteraria del giorno.

C’è chi sostiene che la Cia abbia messo lo zampino per far vincere il premio Nobel per la letteratura a Boris Pasternak autore del Dr. Zivago. Il motivo? Semplicemente mettere in imbarazzo il Cremlino durante la Guerra Fredda.

Boris Pasternak

Vi propongo l’articolo scritto su Repubblica di oggi (15 gennaio 2007) da Enrico Franceschini.

Ecco qualche stralcio:

« Un aereo con un prezioso manoscritto a bordo fa scalo a Malta. Con una scusa viene bloccato per due ore sulla pista. Agenti della Cia e del servizio segreto britannico approfittano della pausa per aprire una valigia, estrarre il manoscritto, fotocopiarlo, e rimetterlo al suo posto. Il premio Nobel per la letteratura a Boris Pasternak sarebbe stato ottenuto anche grazie a questa operazione, sostiene un ricercatore russo, Ivan Tolstoj (nessuna parentela con l’autore di "Guerra e pace"), che ha appena pubblicato a Mosca un libro sull’argomento, "Il romanzo riciclato", riferiva ieri il Sunday Times.

(…)

Il romanzo fu pubblicato da Feltrinelli a Milano nel 1957, Pasternak vinse il Nobel l’anno seguente (…). Interpellato da Repubblica, suo figlio Carlo commenta: "E’ noto che la Cia ed altri favorirono operazioni di pirateria del libro, ma non c’era bisogno di questo per far vincere il Nobel a Pasternak", visto che comunque esisteva l’edizione in russo fatta stampare da suo padre. La Cia e il "James Bond" britannico a Malta, probabilmente, cercavano soltanto di diffondere l’opera di un dissidente russo, per imbarazzare l’Urss. Si stavano scrivendo i primi capitoli di un altro libro, che sarebbe durato mezzo secolo: il gran "giallo" della Guerra Fredda. »

Però il dubbio sorge. Da esso la domanda (domanda non nuova, per la verità): il premio Nobel per la letteratura è solo il premio letterario più importante e noto del mondo o è anche un premio letterario/politico?

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venerdì, 12 gennaio 2007

INIZIATIVE “LETTERARIOBARBARICHE?” CRESCONO…

Sul fatto che Internet abbia rivoluzionato il nostro mondo non c’è alcun dubbio!

Vi segnalo un articolo apparso oggi (12 gennaio 2007) sul quotidiano Repubblica dove si parla di un singolare e, per certi versi, rivoluzionario concorso letterario proposto negli States. Notate bene che, nell’articolo, l’iniziativa viene commentata in questo modo: "Ora la traballante industria del libro propone la sua trovata populista".

Che sia il primo segnale di (consentitemi di parafrasare il titolo del più recente libro di Baricco) una nuova invasione barbarica in campo letterario?

I barbari

Ecco di che si tratta:

"La Touchstone, un marchio della Simon & Schuster, promette di pubblicare il libro di un autore inedito vincitore del concorso bandito su Gather.com, un sito di contatti personali.
Il concorso, che si chiama "Primi Capitoli" sarà presentato ufficialmente giovedì. Gli scrittori inediti possono partecipare sottoponendo il manoscritto di un loro romanzo. Tutti i primi capitoli delle opere partecipanti saranno pubblicati su Gather.com e votati dai frequentatori del sito. Nella tappa successiva, sarà pubblicato il secondo capitolo dei migliori 20 manoscritti, che verranno votati; in un secondo tempo sarà pubblicato, e votato, il terzo capitolo dei primi 10 classificati. Nel quarto ed ultimo passaggio, l’intero manoscritto dei cinque finalisti sarà sottoposto al giudizio della Commissione giudicatrice del gran premio. (…) Il vincitore avrà in premio un contratto editoriale con la Touchstone e 5.000 dollari da Gather.com.
Il vincitore sarà uno scrittore inedito potenzialmente in grado di portare alla Simon & Schuster migliaia di fan. "

Sulla stessa pagina di Repubblica si pubblica l’opinione dello scrittore Niccolò Ammaniti. Vi riporto qualche frase: "Scrivere può essere una scoperta: i blog e internet danno l’opportunità di conoscere le proprie doti. (…) D’altra parte alcuni casi editoriali sono nati proprio dal web. (…) I consumatori, anche culturali, sono diventati sempre più consapevoli. Orientano mercati e interessi."

Poi però Ammaniti, a mio avviso giustamente, avverte:

"Il mestiere dello scrittore è un’altra cosa dallo scrivere. Credo che si cresca solo se accompagnati da un buon editor e da un continuo confronto con dei professionisti. (…) Di certo un capitolo non basta a dirsi scrittori. Serve anche fiato lungo e fatica."

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Ora, per quanto mi riguarda, se da un lato la suddetta iniziativa mi pare innovativa (e da un certo punto di vista, lodevole) dall’altro, però, non nascondo qualche perplessità. La principale è questa: fino a che punto è giusto, per un editore, chinarsi di fronte ai presunti gusti di un potenziale target di lettori?

A voi la parola!

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mercoledì, 10 gennaio 2007

SCIASCIA VENT’ANNI DOPO: TRA «SCUSISMO» E «QUAQUARAQUA’»

Post lungo, ma che vi prego di leggere. Vi consiglio di salvare la pagina, leggere con calma e intervenire successivamente… se ne avrete voglia (N.d.A.)

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Il 10 gennaio del 1987 è una data da ricordare per la carta stampata italiana. Sulle pagine del Corriere della Sera (in terza pagina) apparve un articolo di Leonardo Sciascia dal titolo I professionisti dell’antimafia. Quell’articolo scatenò il putiferio. Spezzò l’Italia in due. Fiumi di parole si riversarono sulle pagine di quotidiani e riviste. E fa impressione constatare che, trascorsi vent’anni, la ferita è rimasta aperta; che la forza prorompente di quel j’accuse ritorna oggi con la stessa intensità di allora, rimbalzando – ancora una volta – da un quotidiano all’altro.

Allora, vent’anni fa, non c’era Internet, non c’erano i portali web, non c’erano i blog. Per fortuna!, potrebbe commentare qualcuno.

Voglio provare a ricostruire la vicenda qui, su questo luogo virtuale, partendo da allora per arrivare ai nostri giorni.

Leonardo Sciascia

Ciò che spinse Sciascia a scrivere quell’articolo (o che comunque gli fornì l’input per affrontare una questione che evidentemente gli stava molto a cuore) fu una nota pubblicata sul "Notiziario straordinario" n. 17 del 10 settembre 1986 del Consiglio superiore della magistratura. In quella nota si commentava l’assegnazione del posto di procuratore della repubblica a Marsala a Paolo Borsellino; assegnazione avvenuta prescindendo dall’ordine di graduatoria dei candidati. Ecco il testo: «Rilevato, per altro, che per quanto concerne i candidati che in ordine di graduatoria precedono il dottor Borsellino, si impongono oggettive valutazioni che conducono a ritenere, sempre in considerazione della specificità del posto da ricoprire e alla conseguente esigenza che il prescelto possegga una specifica e particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata in generale e di quella di stampo mafioso in particolare, che gli stessi non siano, seppure in misura diversa, in possesso di tali requisiti con la conseguenza che, nonostante la diversa anzianità di carriera, se ne impone il ’superamento’ da parte del più giovane aspirante

Quel ‘superamento’ da parte del più giovane aspirante fornì, ripeto, a Sciascia il pretesto per contestare coloro che poi ebbe modo di definire sull’articolo con l’epiteto di professionisti dell’antimafia. Il citato articolo è disponibile on-line e potete leggerlo integralmente cliccando qui.

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Sciascia comincia il suo articolo autocitandosi due volte. Lo fa riportando stralci di brani estrapolati da Il giorno della civetta e da A ciascuno il suo. E fa precedere le citazioni da questa frase: «Autocitazioni, da servire a coloro che hanno corta memoria o/e lunga malafede e che appartengono prevalentemente a quella specie (molto diffusa in Italia) di persone dedite all’eroismo che non costa nulla e che i milanesi dopo le Cinque giornate, denominarono "eroi della sesta"».

Poi cita un saggio pubblicato dall’editore Rubettino. Il titolo è: La mafia durante il fascismo. L’autore è Christopher Duggan. Sciascia sottolinea che: «l’attenzione dell’autore è rivolta non tanto alla "mafia in sé" quanto a quel che "si pensava la mafia fosse e perché": punto focale, ancor oggi, della questione: per chi si capisce sa vedere, meditare e preoccuparsi; per chi sa andare oltre le apparenze e non si lascia travolgere dalla retorica nazionale che in questo momento del problema della mafia si bea come prima si beava di ignorarlo o, al massimo, di assommarlo al pittoresco, al colore locale, alla particolarità folcloristica

Di seguito Sciascia chiama in causa don Luigi Sturzo. Nel 1900 Sturzo scrisse un dramma intitolato: La mafia. Quel dramma, evidenzia Sciascia: «andava a finire male e nel male, coerentemente a quel che don Luigi Sturzo sapeva e vedeva. (…) E come poi dal suo partito popolare sia venuta fuori una democrazia cristiana a dir poco indifferente al problema, non è certo un mistero: ma richiederà, dagli storici, un’indagine e un’analisi di non poca difficoltà.»

Torna sul libro di Duggan e chiama in causa Mori: «(…) non è senza significato che nella lotta condotta da Mori contro la mafia assumessero ruolo determinante i campieri (che Mori andava solennemente decorando al valor civile nei paesi "mafiosi"): che erano, i campieri, le guardie del feudo, prima insostituibili mediatori tra la proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della repressione di Mori, insostituibile elemento a consentire l’efficienza e l’efficacia del patto. (…) l’antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile. (…) Morale che possiamo estrarre, per così dire, dalla favola (documentatissima) che Duggan ci racconta. E da tener presente: l’antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando. E ne abbiamo qualche sintomo, qualche avvisaglia».

A questo punto Sciascia lancia una stilettata all’allora sindaco di Palermo: Leoluca Orlando. E lo fa partendo, appunto, dal concetto di antimafia come strumento di potere. Non cita esplicitamente Orlando, ma il riferimento è chiaro. Inequivocabile. Scrive Sciascia: «Prendiamo, per esempio, un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall’acqua che manca all’immondizia che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. Magari qualcuno, molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno amministrativo: e dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio comunale e nel suo partito, chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un’azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno. Ed è da dire che il senso di questo rischio, di questo pericolo, particolarmente aleggia dentro la democrazia cristiana: et pour cause, come si è tentato prima di spiegare. Questo è un esempio ipotetico».

Di seguito cita la nota del "Notiziario straordinario" n. 17 (10 settembre 1986) del Consiglio superiore della magistratura (di cui abbiamo già inserito il testo) coinvolgendo Paolo Borsellino.

Infine chiude l’articolo con una frase bruciante: «I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso

Si scatena l’inferno.

Come ricorda Attilio Bolzoni in un articolo pubblicato su Repubblica del 28 dicembre 2006 (dal titolo Quel J’accuse di Sciascia): «Fu una guerra di parole. Violentissima. Si riempirono pagine e pagine di giornali, tutti avevano qualcosa da dire. Ministri. Preti. Sindacalisti. Magistrati. (…) Nando Dalla Chiesa, il figlio del generale prefetto ucciso a Palermo nel settembre dell’82, gli chiese sull’Espresso: “Non ti viene mai in mente una bella terza pagina sui magistrati che fanno carriera proprio perché non attaccano la mafia, perché insabbiano? Su Repubblica, Giampaolo Pansa (…) confessò: “Non riconosco il mio Sciascia, il nostro Sciascia. Dov’è lo scrittore civile, l’analista tagliente?” Giorgio Bocca difese il procuratore Borsellino ma avvertì: “Il vero torto di Sciascia è di esporre tesi, di muovere critiche che stanno fuori dagli opposti schieramenti, che non collimano esattamente né con i dogmi dell’Antimafia né con le ipocrisie e le seduzioni della mafia. Seguendo un suo acuto intuito ha spesso indicato ciò che noi non sapevamo o volevamo vedere.»

Molto interessanti, in questo articolo di Bolzoni, le dichiarazioni di Maria Andronico e Agnese Borsellino. Maria Andronico, vedova dello scrittore, ricorda: « (…) Era addolorato, una sofferenza che quella volta non era riuscito a nascondere. “Mio marito parlava poco, lui che non mostrava mai le sue debolezze rimase profondamente colpito, turbato. (…) A un certo punto però si avvicinò a me e alle mie figlie per assicurarci: non perdete tempo a difendere la mia memoria, non perdete tempo perché il tempo mi darà ragione”

Il tempo è passato, scrive sull’articolo Attilio Bolzoni chiamando in causa la vedova Borsellino: «“Aveva ragione, Sciascia aveva ragione”, ripete Agnese Borsellino, un’altra vedova di Palermo che allora non riuscì nemmeno lei a nascondere la sua sofferenza. “Anche Paolo era sconvolto, ma lo sapeva bene di non essere lui il bersaglio di quella riflessione provocatoria”

Il 31 dicembre 2006, Sandra Amurri, sulle pagine de L’Unità richiama in causa Leoluca Orlando. Bisogna valutare con attenzione le dichiarazioni di Orlando il quale da un lato giustifica Sciascia spiegando (e contestualizzando) i motivi di quella provocazione, dall’altro però ne stigmatizza l’imprudenza, partendo dalla considerazione che tale provocazione si prestava benissimo, così come poi – a suo giudizio – avvenne, a essere strumentalizzata dai veri nemici dell’Antimafia.

Orlando dichiara: « L’indomani, ero in aereo con Giovanni Falcone diretti a Mosca e mi chiese: Che ne pensi dell’articolo di Sciascia? Risposi in siciliano: “Quannu chiovi nesciunu fora i corna ddi babbaluci” (Quando piove escono fuori le corna dalle lumache). La pioggia, infatti, cominciò a far uscire allo scoperto le corna di mille lumache, sino ad allora confuse nell’antimafia di facciata.” (…) Una provocazione che accolsi con un sospiro di sollievo proprio perché rappresentava la fine dell’ipocrisia dell’antimafia intesa come luogo comune. (…) Ma una provocazione che accolsi con la preoccupazione che potesse essere utilizzata strumentalmente dagli “sciasciani di borgata” che avrebbero potuto sfruttare il prestigio dell’intellettuale per blandire le sue parole come clava per colpire chiunque facesse antimafia. (…) Le sue parole divennero uno strumento utilissimo per criticare quelli che la mafia la combattevano. E il suo invito alla riflessione, la sua esortazione a non lasciarsi travolgere dall’ottimismo della volontà, finì per diventare, in fondo, un’arma consegnata nelle mani dei mafiosi e dei loro amici.” (…) “Il 12 novembre dell’89 (morì dopo 8 giorni) andai a trovarlo. (…) Si sedette con le spalle rivolte alla grande finestra a vetri (…) e quasi singhiozzando mi disse: “Sono finito”. Gli risposi: “Professore, esiste la cronaca, ed esiste la storia. Nella cronaca siamo stati separati, ci siamo trovati su posizioni opposte e inconciliabili. Ma lei è nella storia ed io, per questo, le porto il mio affetto e la stima della città”. “Sono finito. Ma anche lei, sindaco, è finito…”. “Professore, stia tranquillo: anche se finirò, apparirà chiaro che sono stato sconfitto”. “È proprio questo che vogliono evitare i suoi nemici. Vogliono che lei finisca senza essere sconfitto. Faranno di tutto affinché lei esca di scena senza che appaia la sua sconfitta”, concluse. Mi stava mettendo in guardia, come, pur se sbagliando nei toni e non valutando le strumentalizzazioni, aveva voluto fare, due anni prima, con quell’articolo illustrandomi il rischio di finire prigioniero delle parate e delle parole. »

Il 2 gennaio 2007 Pierluigi Battista sul Corriere della Sera pubblica un articolo che riaccende gli animi. Lo intitola: Le scuse dovute a Sciascia. L’intento è chiaro. Nell’articolo Battista ri-racconta la “storia” ed arriva alla conclusione che Sciascia meritava e merita delle scuse e che tali scuse sono, appunto, dovute. Scrive: «Vent’anni fa a Leonardo Sciascia fu bruscamente intimato di rinchiudersi “ai margini della società civile”. (…) E diedero a Sciascia anche del “quaquaraquà”, il più spregevole degli individui secondo la gerarchia di valori del don Mariano Arena del Giorno della civetta.»

L’articolo di Battista riaccende gli animi, dicevo. E infatti, il 4 gennaio 2007 Nando Dalla Chiesa interviene con un articolo sull’Unità intitolato: Sciascia, perché non mi pento. Dalla Chiesa cita un episodio che coinvolge Paolo Borsellino e che adduce come motivazione principale del suo non-pentimento. Scrive Dalla Chiesa: «Chiedere scusa a Sciascia per avere criticato il suo celebre articolo contro i professionisti dell’antimafia di vent’anni fa? Recitare il mea culpa come chiede Pierluigi Battista sul “Corriere” dell’altro ieri? In questi casi è sempre bene non rispondere di getto. E rimettere in fila tutti i dati di realtà conosciuti. E poi pensarci. E poi pensarci ancora. Per evitare di reiterare un gioco delle parti. L’ho fatto. E sono giunto alla conclusione che non ci sia da chiedere scusa di nulla. Non per ostinazione. Ma per un ricordo che ho ben vivo nella mente. Incancellabile. (…) Partirò dunque da quella sera del 25 giugno del ’92. Biblioteca comunale di Palermo. Dibattito organizzato dalla rivista “Micromega” sullo stato della lotta alla mafia dopo la strage di Capaci, in cui era stato ucciso Giovanni Falcone. A un certo punto arrivò Paolo Borsellino. (…) Parlò del suo amico ucciso, parlò delle indagini, dei tempi veloci che egli stesso doveva darsi. (…) A un certo punto fece una pausa e disse: “Tutto incominciò con quell’articolo sui professionisti dell’antimafia”. Lo disse con un tono sprezzante e amareggiato, esistono le registrazioni di quella serata. Fu l’ultimo intervento pubblico di Borsellino. Il testamento morale di un giudice che, con un lucido istinto dell’animale braccato, sentiva che avrebbe seguito la stessa sorte dell’amico e che perciò pesò con quella gravità le sue parole. (…) Ripartiamo da lì: “Tutto incominciò con quell’articolo sui professionisti dell’antimafia”. Un articolo spartiacque, dunque. (…) Tanto più se l’attacco veniva da uno scrittore che con i suoi romanzi aveva insegnato a leggere la mafia a un paio di generazioni e che quindi si sarebbe prestato a meraviglia per essere usato contro il nascente movimento antimafia. Il che puntualmente accadde

Dice la sua anche Riccardo Chiaberge scrivendo sulla rubrica Contrappunto del Domenicale del Sole-24Ore del 7 gennaio 2007 (Chiaberge è caporedattore del Domenicale) un pezzo dal titolo: Lo “scusismo” piacerebbe a Sciascia?. Chiaberge parla di “scusismo” inteso come moda o propensione a “chiedere scusa” anche laddove non se ne vedono i presupposti e le necessità. Nell’articolo – in relazione allo "scusismo" – cita gli scrittori Morselli, Berto, Cassola, Solzenicyn. «Chiedere scusa a Sciascia? Francamente non ne sentiamo il bisogno. Intanto ogni polemica va contestualizzata, e nell’epoca dell’assalto mafioso allo Stato è comprensibile che non si dosassero troppo le parole. E poi, conoscendo la vena volterriana di Sciascia, siamo certi che avesse messo nel conto le reazioni e pure gli insulti. Anzi, sarebbe rimasto deluso se la sua provocazione fosse caduta nel vuoto.” (…) Se vogliamo chiedere scusa a qualche scrittore, ricordiamo semmai Guido Morselli, boicottato dalle camarille politico-editoriali e morto suicida senza veder pubblicato uno solo dei suoi romanzi, o Giuseppe Berto, trattato come un appestato perché di destra, o il Cassola ribattezzato “Liala” dalle neoavanguardie, o il Solzenicyn dell’Arcipelago Gulag. Ma a forza di scuse e complessi di colpa, si rischia di trasformare questi autori in martiri intoccabili e di spuntare le armi della critica

E sempre il 7 gennaio 2007 esce su Repubblica.it un altro articolo di Attilio Bolzoni dal titolo: Sono stato io a chiamare Sciascia un quaquaraquà. Si parla di Francesco Petruzzella: uno dei fondatori del Coordinamento antimafia. Nel 1987 aveva ventiquattro anni, era iscritto a Giurisprudenza e faceva pratica con le parti civili al maxi processo. Petruzzella dichiara: «Sono stato io a scrivere quel comunicato su Sciascia e non lo rinnego, quella vicenda non si può capire se non la trasportiamo nella terribile Palermo di quel tempo. (…) Non mi pento di nulla, certo la mia fu una reazione rabbiosa ma la crescita umana e culturale di un’intera generazione siciliana è stata scandita dai morti, dai funerali, dal terrore. Quando lessi quella mattina del 10 gennaio 1987 l‘articolo di Sciascia, rimasi pietrificato. Perché l’ha fatto?, mi chiesi. Perché Sciascia non si è limitato a descrivere uno scenario ma ha invece indicato due uomini – Orlando il sindaco del grande cambiamento di Palermo e Borsellino un magistrato integerrimo – come esempi dell’antimafia che fa carriera?" (…)La mia famiglia è di Racalmuto, il paese di Sciascia. E io Sciascia l’ho sempre amato, come d’altronde tutti i siciliani. Ma quell’articolo ha rappresentato uno spartiacque nella vicenda palermitana. Mentre noi cercavamo di ribellarci allo strapotere della mafia e andavamo in piazza a gridare ‘Palermo è nostra e non di Cosa Nostra’, gli intellettuali siciliani se ne stavano in silenzio, non si schieravamo, facevano finta di non vedere e di non sentire in una città dove era impossibile non vedere e non sentire. Poi Sciascia addirittura parlò dei rischi dell’antimafia, non dei rischi della mafia. (…) Sì è vero, certuni hanno fatto carriera con l’antimafia. Ma allora – insisto sulla Palermo di allora – di quella riflessione non ne avevamo bisogno. (…) "Dopo vent’anni penso ancora che da Leonardo Sciascia mi sarei aspettato un altro gesto, la sua voce alta si sarebbe dovuta far sentire per aiutare i siciliani onesti a liberarsi dalla mafia. (…) Palermo era avvolta nella paura. E Sciascia, il nostro migliore scrittore, il raffinato intellettuale, se la prendeva proprio con l’antimafia. No, dopo vent’anni non rinnego nulla».

L’ 8 gennaio 2007, dalle pagine de Il Giornale, Lino Jannuzzi lancia degli strali per mezzo di un articolo intitolato: Quando Sciascia mi rivelò i dubbi su Orlando.

Jannuzzi pone una serie di domande provocatorie: «Che cosa è successo in questi venti anni che sono passati da quell’articolo di Sciascia? Che cosa ne è stato, in questi vent’anni, della mafia e dell’antimafia? Chi ha vinto e chi ha perso? E sono state maggiormente rispettate le regole, come invocava Sciascia? Sono state abolite le leggi speciali, è prevalsa la bilancia, il simbolo della giustizia, oppure sono prevalse le manette invocate dai fanatici dell’antimafia? Che cosa avrebbe detto Sciascia della legge sui "pentiti" e della gestione “dinamica” dei pentiti? Che cosa avrebbe detto Sciascia dell’invenzione del reato di concorso esterno in associazione mafiosa? E dell’articolo 41 bis, l’elogio alla tortura? E del processo a Giulio Andreotti? E del processo al più illustre dei magistrati italiani, Corrado Carnevale? E a decine e decine di uomini politici sulla base delle accuse di assassini liberati in cambio delle carceri e pagati dallo Stato? Ci fu la carneficina della mafia, come ricorda Nando Dalla Chiesa, e durò un paio d’anni, e poi ci fu la carneficina dell’antimafia, che dura da 15 anni e non è finita. Quale ha fatto più danno?». Poi Jannuzzi torna indietro nel tempo e ci racconta la sua versione del già menzionato incontro tra Sciascia e Orlando: «(…) Ero a Palermo, a casa di Sciascia, due anni dopo quell’articolo, una settimana prima che morisse. Sciascia era pallido, magrissimo, sofferente, girava per lo studio in pigiama, non si vestiva più, non usciva nemmeno più per andare a farsi la dialisi. Mi allontanai per qualche ora perché Sciascia doveva ricevere Leoluca Orlando, che insisteva da tempo per parlargli. Quando tornai, lo trovai seduto sulla poltrona, lo sguardo perso nel vuoto. Restò a lungo in silenzio, poi mi disse, prima che glielo chiedessi: “Ha parlato solo lui. Non ho capito perché ha voluto vedermi. Ha parlato contro i magistrati e la Procura di Palermo, forse per scusarsi della polemica di due anni fa. Ha detto che io resterò nella storia e che mi portava la stima della città. Ho capito che sono finito. Siamo finiti…»

Ecco. Ho provato a ricostruire i passaggi salienti di questa vicenda che iniziò vent’anni fa e che, come ho già scritto, ritorna oggi con immutata forza. Lo faccio – da siciliano – per contribuire a lasciar traccia anche qui, negli algidi luoghi del web, nel regno della velocità, della brevità e dei refusi, a beneficio dei navigatori che magari non hanno tempo o voglia di leggere la carta stampata; a beneficio, soprattutto, dei miei giovani conterranei frequentatori della blogosfera, perché sappiano; perché prendano coscienza di un’importante fatto siciliano che di coscienze ne ha scosse e ne continua a scuotere tante; e perché, anche, prendano coscienza della forza della parola scritta. La parola scritta può creare ferite; a volte profonde, insanabili. E a volte è inevitabile che ciò accada. La parola scritta può essere causa di divisioni, così come può essere occasione di “ricucite”. La parola scritta ha un peso che prescinde da quello dell’inchiostro utilizzato per imprimerla sulla pagina o da quello delle dita che picchiano sui caratteri di una tastiera. La parola scritta può essere un’arma che si innesca, e in maniera irrevocabile, nel momento in cui viene letta. E la sua potenza dipende dalla forza di colui che impugna l’arma (o la penna). Ricordiamocelo, amici miei. Ricordiamocelo. Anche quando fissiamo i nostri pensieri nei luoghi promiscui della rete. Non sprechiamo le nostre parole. Dosiamole. Misuriamole con il metro dell’onestà intellettuale. Gestiamole bene. O quantomeno, proviamo a farlo. (Lo dico anche a voi, ma in realtà lo dico a me).

Ciò detto, dichiaro il dibattito aperto. Per chi avrà voglia di cimentarvisi.

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Massimo Maugeri

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giovedì, 14 dicembre 2006

GIOVANI SCRITTORI COLOMBIANI CONTRO GARCIA MARQUEZ

È vero che quando hai ottenuto tanto ma tanto successo i tuoi principali detrattori sono proprio i tuoi conterranei? Non saprei; però leggendo l’interessante articolo di Gabriella Saba, pubblicato sul Domenicale de Il Sole 24Ore del 26/11/06, qualche dubbio comincia a farsi strada.

Qual è l’oggetto dell’articolo? Il fastidio che alcuni giovani scrittori colombiani hanno palesato nei confronti del loro illustre e anziano collega Gabriel Garcìa Màrquez. A dirla tutta, il termine fastidio per Efraim Medina Reyes – scrittore colombiano classe ‘64 – è, probabilmente, un eufemismo. Sentite un po’ cosa dice su Gabo (che, per chi non lo sapesse, è il nomignolo di Garcia Màrquez):

Efraim Medina Reyes

"Il suo ultimo romanzo, Memoria delle mie puttane tristi, è un funerale di terza classe, indegno del grande scrittore che è stato… per il resto ho sempre trovato Màrquez detestabile per la sua debolezza verso il potere. (…) È una piccola persona e un uomo incoerente. Non nego la sua qualità di scrittore, ma quelli della mia generazione non si riconoscono nel realismo magico. Lo stile che ha incantato il mondo è una formula usurata per lettori nostalgici, di cui approfittano venditori di fumo come Isabel Allende".

Gabriel Garcìa Màrquez

È possibile acquisire fama per luce riflessa attraverso dichiarazioni dissacratorie rivolte a chi di quella luce è fonte?

Non lo so. Però mi è rimasta impressa quest’altra frase di Medina Reyes (che ho letto sull’articolo): "Mi piace molto sbronzarmi perché è l’unico modo di sfuggire alla realtà."

E se la realtà è che Garcìa Màrquez ha fatto un pezzo importante della storia della letteratura internazionale, temo che per il povero Medina Reyes si prospettino lunghe e obnubilanti sbornie.

Ma questo è solo il mio pensiero. Fuori il vostro, amici…

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domenica, 10 dicembre 2006

GIU’ LE MANI DA BARICCO

Il caso Baricco è ancora alla ribalta.

Riassunto delle puntate precedenti (per i pochi che non fossero ancora informati sui fatti).

Intervento di Alessandro Baricco: Repubblica, 1 marzo 2006

“La scorsa settimana, su queste pagine, esce un articolo di Pietro Citati. Racconta quanto lo ha deliziato mettersi davanti al televisore e vedere i pattinatori-ballerini delle Olimpiadi. Lo deliziava a tal punto – scrive – che "dimenticavo tutto: le noie, le mediocrità, gli errori della mia vita; dimenticavo perfino "l’Iliade" di Baricco (…)

Qualche giorno dopo vedo sull’Unità un lungo articolo di Giulio Ferroni sull’ultimo libro di Vassalli. (…) Mentre leggevo la recensione sentivo che finivamo pericolosamente in area "Questa storia" (il mio ultimo romanzo, che parla anche di automobili). (…) Al termine di una lunghissima frase in cui si tessono (credo giustamente) elogi a Vassalli, arriva una bella parentesi. (…) Dice così: "Che distanza abissale dalla stucchevole e ammiccante epica automobilistica dell’ultimo Baricco!". (…)

Per la cronaca, Citati non ha mai recensito la mia "Iliade", e Ferroni non ha mai recensito "Questa storia". Il loro alto contributo critico sui miei due ultimi libri è racchiuso nelle due frasette che avete appena letto, seminate a infarcire articoli che non hanno niente a che vedere con me.”

Potete leggere l’articolo completo cliccando qui

Alessandro Baricco

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Risposta di Giulio Ferroni: Repubblica, 2 marzo 2006

“Caro Baricco, sono davvero pentito, ma non per la battuta contro Questa storia inserita nell’articolo su l’Unità del 26 febbraio, sì invece per aver scritto più volte su di lei, senza che lei abbia avuto la condiscendenza di leggermi. Ne ho scritto nel supplemento al Novecento della Storia della letteratura italiana Garzanti, ne ho scritto nell’ultimo volume, appena uscito, della Storia e antologia della letteratura italiana (Mondadori Università e Einaudi Scuola), e ho addirittura recensito (nel numero di dicembre della nuova rivista Giudizio Universale) il romanzo automobilistico Questa storia, che lei mi rimprovera letteralmente di non aver recensito. Qui la differenza è grande: io la leggo, aihmé, senza ricavarne molto, e lei non legge me e ne ottiene un successo planetario".

Potete leggere l’articolo completo cliccando qui

Giulio Ferroni

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Torna sulla questione Massimo Gramellini, con la sua rubrica Buongiorno, sulla prima pagina de La Stampa di sabato 9 dicembre 2006.

Massimo Gramellini

Ecco l’intervento di Gramellini, intitolato “Non sparate su Baricco”.

"Negli ambienti cosiddetti culturali Baricco viene ormai trattato come Berlusconi: nessuno lo prende sul serio. E’ sufficiente nominarlo perché l’interlocutore atteggi il volto a un sorriso, aspettandosi la battuta salace o preparandosi a farla. Da quando poi ha prestato il fianco ai critici, lamentandosi pubblicamente del loro trattamento, deriderlo e sottovalutarlo è diventato un gioco di società. Siano «I barbari» o l’imminente rivisitazione del «Flauto Magico», ogni sua levata d’ingegno più o meno riuscita si trascina dietro accuse di banalità e furbizia, che viceversa vengono risparmiate a una pletora di scrittori illeggibili: contemplatori estenuati del proprio ombelico, ma interni alla casta intellettuale, cui li accomuna lo snobismo elitario e il disprezzo per il pubblico. Non si capisce perché un Tiziano Scarpa o un Aldo Nove, tanto per fare due nomi che non conosce quasi nessuno, vengano considerati letteratura e Baricco intrattenimento per commesse. O forse si capisce benissimo. Baricco ha osato scrivere libri che possono indurre a leggere persino chi abitualmente non lo fa. In qualunque altro paese verrebbe ringraziato per questo. Non in Italia.

A differenza di quella anglosassone, da secoli la nostra cultura non si rivolge all’opinione pubblica, ma a se stessa. Si considera un codice cifrato da non condividere con la plebaglia piccolo borghese. E ogni qual volta salta fuori un divulgatore che prova a farlo, gli salta addosso con le armi del disprezzo e dell’irrisione. Successe già a Montanelli, i cui libri di storia ebbero il torto di rammentare a milioni di italiani che Garibaldi e Giulio Cesare non erano coetanei. Ora tocca a Baricco, che sarà più bravo a leggere che a scrivere, ma che comunque si fa leggere, quando scrive."

Mi pare ci siano tutti gli ingredienti per avviare un dibattito interessante.

A voi la parola!

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mercoledì, 29 novembre 2006

I RIFLETTORI DEL PLAGIO

Plagio.

Una parola che torna con una certa ricorrenza, soprattutto nel campo dell’arte. Da pochi mesi si sono spenti i riflettori del plagio su Dan Brown e sul suo Codice Da Vinci. Parlo di riflettori perché l’accusa di plagio, se da un lato crea parecchie rogne, dall’altro – diciamolo – procura un bel po’ di pubblicità (sia all’accusato che all’accusante… forse, soprattutto all’accusante).

L’ultima vittima (o beneficiario?) dei riflettori del plagio, stavolta, è il grande Ian McEwan che – ovviamente – nega con una certa decisione di meritare le ingiuriose accuse.

Ian McEwan

Vi riporto alcuni stralci di questo articolo pubblicato il 27 novembre su Repubblica, giusto per informarvi sui fatti.

"Stavolta a finire, forse sarebbe meglio dire tornare, sulla graticola è lo scrittore inglese Ian McEwan. Secondo i giornali londinesi alcune parti del suo celebre romanzo del 2001, ‘Espiazione’, sono state copiate da un libro di memorie di guerra della collega e conterranea Lucilla Andrews, morta a Edimburgo un mese fa all’età di 86 anni. Secondo l’accusa, passi di ‘Espiazione’ sarebbero sorprendentemente simili a quelli contenuti nel romanzo autobiografico della Andrews ‘No Time for Romance’, pubblicato per la prima volta nel 1977.
Le accuse ricordano le polemiche scatenate dalla pubblicazione nel 1978 della prima opera di McEwan, ‘Il Giardino di Cemento’. Già allora l’autore era stato accusato di aver tratto libera ispirazione per la trama da un libro pubblicato una quindicina di anni prima, ‘La casa di nostra madre’. Secca la replica di McEwan alle nuove accuse di plagio: "Ispirato dalla Andrews sì, copiato no".
Lo scrittore ha precisato che la lettura di ‘No Time for Romance’ lo ha aiutato a ricreare in ‘Espiazione’ l’atmosfera che si respirava in un ospedale inglese durante la seconda guerra mondiale. Del resto, ha ricordato lo scrittore, quando a metà dello scorso ottobre sono apparsi sui più autorevoli quotidiani inglesi i necrologi della Andrews, è stato ricordato con abbondanza di particolari che le memorie autobiografiche di ‘No time for romance’ hanno ispirato proprio ‘Espiazione’.
Inoltre McEwan ha citato la Andrews nei ringraziamenti alla fine del romanzo e ha affermato di averle reso omaggio in diverse interviste e apparizioni in pubblico. Ma per chi conosceva la scrittrice, McEwan avrebbe dovuto fare di più. "Non le ha chiesto il permesso di utilizzare la sua autobiografia. Credo che lei sarebbe stata molto felice di essere consultata", ha detto l’ex agente dell’autrice, Vanessa Holt.
Ma McEwan ribatte che le memorie della Andrews sono state semplicemente uno dei documenti storici che lo hanno aiutato a ricreare nel suo romanzo l’atmosfera che si respirava in un ospedale britannico durante la guerra e la scrittrice ha già ricevuto da lui il credito che meritava. "Quando si scrive un romanzo storico si dipende sempre da altri scrittori. Ho parlato pubblicamente di Lucilla Andrews innumerevoli volte. Sono sempre stato aperto su questo", ha detto.

La Andrews scoprì che McEwan si era ispirato alla sua autobiografia solo l’anno scorso, quando una studentessa di Oxford che aveva fatto una tesi sui romanzi scritti durante la Seconda guerra mondiale l’aveva contattata e le aveva illustrato le similitudini tra la sua opera e quella di McEwan. La scrittrice, ha raccontato la studentessa, era "divertita" anziché arrabbiata per la cosa.
Ma non tutti i mali vengono per nuocere. L’accusa di plagio, secondo la stampa britannica, potrebbe indirettamente aiutare il lancio della trasposizione cinematografica di ‘Espiazione’, che uscirà nelle sale americane nell’agosto 2007 con l’interpretazione di Keira Knightley."

Vi invito a discutere e a ragionare sui due seguenti punti:

1. A partire da quando, secondo voi, nel caso della scrittura, un testo che si rifà a un’altro testo sconfina nel plagio?

2. E fino a che punto l’accusa di plagio può effettivamente nuocere all’accusato?

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lunedì, 13 novembre 2006

PIPERNO E SAVIANO, TRA ESIBIZIONISMO E INUTILITA’ DELLA LETTERATURA

Sul n. 44 del 02/11/06 del Magazine del Corriere della Sera, Alessandro Piperno ha scritto un articolo sul caso Gomorra il cui succo è: "Caro Saviano, secondo me lo scrittore impegnato è un esibizionista". Premetto che Piperno e Saviano sono amici e che entrambi fanno parte della redazione di Nuovi Argomenti.

Alessandro Piperno

Salto una serie di complimenti che Piperno rivolge a Gomorra e vi propongo questo stralcio di brano:

"Quando Saviano vinse il Premio Viareggio, una giornalista, stravolgendo un mio giudizio, chiese a Saviano: <<Ma è vero che Piperno dice che lei è un mitomane?>>. Saviano mi chiamò e mi disse che ci mancavano solo gli amici a rompergli i coglioni. anche se ben presto la sua furia si sciolse in una risata. A tutt’oggi sono pronto a sottoscrivere il giudizio di allora. L’impegno civile in letteratura è una forma di esibizionismo che non mi scalda (eppoi lo trovo così esteticamente diseducativo!). Credo che esista qualcosa di più vero della mesta e banale verità dei fatti. Ed è quella che chiamerei la verità della visione, a cui ogni scrittore aspira ma che pochi raggiugono, e solo attraverso il distorcente diaframma del mito."

Vi propongo, inoltre, la seguente frase riferita al libro Gomorra:

"Non sono un intenditore di camorra ma dubito che essa si lasci turbare da una cosa inutile e bella come la letteratura."

1) Sull’esibizionismo. Ritengo che ogni forma di scrittura resa pubblica (compresa quella che passa per questo blog) sia una forma di esibizionismo (anche dettata da esigenze di comunicazione), a prescindere dal fatto che sia più o meno impegnata. Ma che c’è di male? Se poi "l’impegno civile in letteratura è una forma di esibizionismo che non scalda"… be’, questo è solo una questione di gusto e non verità assoluta.

2) La letteratura bella ma inutile. Che significa inutile?  E se la letteratura è inutile, esiste una forma d’arte o di comunicazione utile? La pittura? La scultura? La musica? Piperno non è la prima volta che esterna questa sua opinione (peraltro già da molti anni oggetto di ampi dibattiti, un po’ come la questione della [presunta] morte del romanzo).

Vi propongo un "pezzo" che l’anno scorso pubblicai a tal proposito sulla rivista di letteratura Lunarionuovo traendo spunto, appunto, da un’esternazione di Piperno evidenziata su un articolo di Stefano Salis (pubblicato sul Domenicale de Il Sole24Ore).

Mi piacerebbe conoscere la vostra opinione in merito ai due punti sopraindicati.

                                                    * * *

La letteratura serve a niente

di Massimo Maugeri

La letteratura non serve a niente. È quanto affermato, come apprendiamo da un Domenicale de Il Sole 24 Ore di settembre (2005), da Alessandro Piperno nel corso del festival della letteratura di Mantova.

Alessandro Piperno, docente di letteratura francese a Tor vergata, nonché autore esordiente di un romanzo recentemente pubblicato da Mondadori, dà chiara dimostrazione di coerenza e coraggio. Apprendere, infatti, proprio da un insegnante di letteratura e neoromanziere a caccia di premi letterari e apparizioni televisive, che la letteratura non serve a niente è una vera sorpresa.

In ogni caso supponiamo che il buon Piperno si sia lasciato andare a tale esternazione giusto per colpire a morte, una volta per tutte, l’errata convinzione che la letteratura sia dotata del potere taumaturgico di forgiare gli spiriti, formare le coscienze, orientare il pensiero.

La letteratura non serve a niente, dunque. Di certo da essa non dipende la vita o la morte. E chi pensa il contrario è un pazzo. Come quel Chapman, l’assassino di John Lennon, che – mentre si predisponeva a commettere l’omicidio – teneva in tasca una copia de “Il giovane Holden” di Salinger.

In linea di massima comprendiamo il punto di vista di Alessandro P.

Tuttavia ci sorge un dubbio.

E se Piperno intendesse dire quel che ha detto con le peggiori intenzioni? E cioè che la letteratura non serve a niente (ma proprio a niente)?

Fermiamoci qui. Solo per ora. E passiamo da Piperno a Grisham (anche quest’ultimo è intervenuto al festival della letteratura di Mantova). L’ultimo romanzo di Grisham è ambientato in Italia; a Bologna per la precisione. Il bestsellerista americano, per schermarsi dalle accuse da parte di coloro che gli hanno fatto notare innegabili sviste e ricorrenti luoghi comuni contenuti nella sua ultima opera, ha affermato che il suo “è un romanzo di intrattenimento, non un trattato di sociologia”.

Sorvoliamo, per ora, sul capolavoro di Grisham e concentriamoci su quanto segue.

Supponiamo che da un romanzo non ci si debba aspettare altro che mero intrattenimento. Se così fosse, un romanzo avrebbe quantomeno la funzione di intrattenere il lettore e, pertanto, servirebbe comunque a qualcosa. Se, dunque, tutta la letteratura avesse solo la (poco nobile?) funzione di intrattenere servirebbe comunque a qualcosa. Il problema, semmai, e che certi libri non hanno nemmeno la capacità di intrattenere (ma questo è un altro discorso).

Diamo tuttavia per buona la tesi che la letteratura non serve a niente. Una domanda sorge spontanea. Cos’è che serve? Cos’è che è inutile?

In fondo l’affermazione di Piperno potrebbe applicarsi anche ad altre forme d’arte.

Immaginiamo di essere a Louvre, Parigi. La famiglia Ponepri decide di fare la fila per entrare. In particolare i Ponepri desiderano vedere dal vivo la Monna Lisa. Sono rimasti molto incuriositi dal film “Il Codice Da Vinci” (il libro non l’hanno letto; a casa Ponepri non si legge, anche se il capofamiglia ha deciso di comprare in edicola i Meridiani Mondadori per incrementare il plusvalore della propria libreria). A fine giornata i Ponepri tirano le somme. Sono rimasti molto colpiti dalla struttura del Louvre e profondamente delusi da La Gioconda (“Quel quadro non me lo immaginavo mai mai così piccolo”, dice il capofamiglia). Arrivano alla conclusione che, tutto sommato, sarebbe stata più divertente una passeggiata per gli Shampi Elisé. Il giorno dopo, proprio a due passi dall’albergo, si imbattono nella piccola mostra di quadri di Jean Sahmgri, carneade di talento dell’arte pittorica del suo quartiere. Trascorrono quasi trenta minuti ad ammirare le tele di Jean. Una volta usciti giungono alla conclusione che osservare i quadri di Sahmgri è più meglio di perdere cinque ore cinque a guardare i quadri vecchioni del Louvre (“Poi c’è quel quadro di quella femmina nuda che… mizzica, altro che Gioconda!”)

La passeggiata agli Shampi Elisé, la visita al Louvre e quella alla mostra di Sahmgri rappresentano tre forme di intrattenimento (intrattenimendo dicono i Ponepri). Per nessuna delle tre potremmo, correttamente, usare la formula non serve a nulla.

Il ragionamento, naturalmente, può applicarsi alle altre forme d’intrattenimento: dalla musica al cinema.

Ma torniamo alla letteratura.

Il lettore Pincopallo ha letto di recente “Furore” di Steinbeck e “Il cliente” del già citato Grisham.

Quando ha terminato di leggere “Furore” Pincopallo ha provato una sensazione differente rispetto a quella provata dopo la lettura de “Il cliente”. Entrambe le letture hanno svolto, nei suoi confronti, una funzione di intrattenimento. Nessuna delle due, dal suo punto di vista, ha rivoluzionato la verità del mondo. Tuttavia dopo “Furore” Pincopallo ha trascorso una buona ora a riflettere (ma a che serve riflettere?), mentre dopo “Il cliente” si è recato in cucina a prepararsi un panino al prosciutto. È indubbio che Pincopallo sarebbe sopravvissuto senza le riflessioni successive alla lettura di “Furore”, mentre se – dopo “Il cliente” – non avesse mangiato il panino al prosciutto avrebbe percepito un fastidio alla bocca dello stomaco. Di più… se fosse rimasto per due settimane senza riflettere sarebbe sopravvissuto; se – per due settimane – non avesse mangiato nulla sarebbe morto.

Dunque ha ragione Piperno!

In fondo gli Shampi Elisé, il Louvre, la mostra di Sahmgri, “Furore” e “Il cliente” non servono a nulla… se non a intrattenere.

Viva il panino al prosciutto, allora!

Un’ultima cosa su Grisham. Viene da pensare che, con tutta la grana (intesa non nel senso di rogna) che si ritrova, avrebbe potuto pagare dei consulenti che gli avrebbero evitato di incorrere in luoghi comuni e strafalcioni. Ma forse, in questo caso, “Il broker” sarebbe diventato un trattato di sociologia, a danno dell’intrattenimendo.

In fondo ci sentiamo molto intrattenuti da un romanzo dove – come riportato nella sezione Vespe del suddetto Domenicale de Il Sole 24 Ore – “da Palermo si vede l’Etna”.

Viene voglia di scrivere un romanzo di intrattenimento ambientato a Long Island dove “da casa degli Spencer si vede l’Empire State Building”. Conosciamo delle persone che potrebbero ospitarci lì per una settimana una per fare la location del suddetto romanzo che potrebbe intitolarsi “Il brocco”.

Con umiltà massima potremmo inserire il titolo proprio sotto il nome dell’autore (di modo che l’acquirente non abbia difficoltà alcuna ad accostare il titolo al nome). E l’autore, a sua difesa, potrebbe sempre sostenere che trattasi di romanzo d’intrattenimento.

Anzi… d’intrattenimendo.

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lunedì, 6 novembre 2006

CHI È POETA ?

Propongo quanto scritto da Nico Orengo sulla rubrica “Fulmini” di Tuttolibri del 4 novembre 2006 (celebre settimanale allegato a La Stampa del sabato) in merito a una leggera querelle che ha coinvolto Maurizio Cucchi.

Nico Orengo

Credo possano trarsi gli spunti per avviare un interessante dibattito.

“Ma i cantautori son poeti o no? E se non lo sono, possono diventarlo? Questo è il gran rovello di Maurizio Cucchi, che sul Corriere dice che la vera poesia, quella di Milo De Angelis, può interessare poche migliaia di persone mentre <<quella>> di un Guccini o di un Ligabue molte centinaia e migliaia di persone. E dunque in un’epoca di <<succedanei e aperitivi>>, più <<utile>>. Spero che in Cucchi prevalga un sentimento di nostalgica amarezza e non di risentimento. Da sempre Cucchi ha dichiarato che quella dei cantautori non è poesia. Se uno pensa a De André, a Dylan, a Conte a Jannacci è difficile dargli ragione. Anzi: è impossibile. Ma non perché i tempi sono cambiati ma semplicemente perché quelli sono <<poesia>>. E da vero poeta qual è, legga nel merito i testi dei cantautori.”

Siete d’accordo con Nico Orengo?

A voi la parola.

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lunedì, 30 ottobre 2006

LETTERATURA DI OGGI TRA BANALITA’ E ASSENZA DI SPIRITUALITA’

È un po’ questo il pensiero provocatorio recentemente divulgato dallo scrittore Ferruccio Parazzoli. Una denuncia contro  conformismo e superficialità della letteratura contemporanea che sarebbe, a suo dire, incapace di scendere nella profondità dell’animo umano.

Ferruccio Parazzoli

Questa polemica ha fatto, in questi giorni, il giro delle pagine culturali di quotidiani e riviste. Riporto uno stralcio dell’articolo di Roberto Barbolini pubblicato su Panorama del 26 ottobre (pag. 305-308): "Non è tenero Ferruccio Parazzoli con la romanzeria italiana di questi anni, che gli appare una morta gora di corpi galleggianti a caso sull’onda delle classifiche. Da Melissa P. a Federico Moccia, da Giorgio Faletti a Fabio Volo, da Pulsatilla alla schiera degli scrittori <<noir>> o <<pulp>>, ai cannibali riciclati o in disarmo, il panorama, salvo eccezioni che non fanno la regola, è quello di una <<narrativa dimezzata>>, come suona il sottotitolo del saggio Dai tetti in giù (leggete questo articolo di Avvenire) che Parazzoli fa uscire in questi giorni sulla rivista dell’Università cattolica di Milano Vita e pensiero. <<Dov’è finito l’uomo in rivolta di Albert Camus?>> si chiede lo scrittore, (…). E prosegue: <<Sarò cieco, ma quest’uomo, o un altro che gli equivalga nell’attenzione e nella ricerca, nel dubbio o nella fede, nell’obbedienza o nella rivolta, è già un certo tempo che è scomparso dalla narrativa italiana. Forse perché proprio non esiste più, si è eclissato dalla scena pubblica."

Vi segnalo inoltre un’interessante articolo dello scrittore Giuseppe Genna (che vi invito caldamente a leggere) pubblicato su la rivista on-line "Carmilla" (cliccate qui, please).

Mi pare ci siano tutti gli ingredienti per avviare un dibattito interessante.

Siete d’accordo con quanto esposto da Parazzoli? A voi la parola.

Prima di chiudere il post vi segnalo un’iniziativa legata alla suddetta polemica. Parazzoli ha avuto l’idea di bandire un concorso letterario all’inerno del premio Ambrosianeum. Si tratta per la precisione (come riportato anche in questo articolo de Il Giornale) di un premio letterario intitolato alla memoria di Alberto Falck e riservato a romanzi inediti, anche di scrittori esordienti, «che rispecchi – recita il bando di concorso – in libera e attuale espressione letteraria la concezione cristiana nella vita individuale e sociale, e che abbia al proprio centro una spiccata ricerca dei valori spirituali nella società contemporanea». In giuria, Ferruccio de Bortoli, Cecilia Falck, Marco Garzonio, Ermanno Paccagnini, Ferruccio Parazzoli e monsignor Gianfranco Ravasi. Al vincitore andrà un premio di 5mila euro e un contratto di pubblicazione con un editore che per questa prima edizione sarà Mondadori (le opere dovranno essere inviate entro il 31 agosto 2007 alla segreteria dell’«Ambrosianeum», via delle Ore 3, Milano).

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mercoledì, 4 ottobre 2006

VUOI PUBBLICARE? C’È LULU, BABY!!!

Cari amici aspiranti scrittori,

tenete in caldo le vostre penne. Pare, infatti, che sia giunta anche dalle nostre parti la “panacea” per tutti coloro che hanno realizzato un’opera letteraria ma non riescono a pubblicarla.

Mi riferisco a Lulu. Non sapete cos’è? Ve lo dico io. Si tratta di una nota società open-source che dà la possibilità, a chi lo desidera, di pubblicare anche (ma non solo) romanzi, saggi e raccolte di poesie.

Funziona così: ci si registra on-line, si definiscono titolo, edizione, formato, autore, copertina e prezzo. E poi si carica il testo.

Si occuperà Lulu di mettere in vendita (in tutta Europa e non solo in formato cartaceo) il vostro “sudato” prodotto letterario. Ma la novità vera è che Lulu, a quanto pare, stamperà solo gli esemplari richiesti, eliminando così – all’origine – il rischio derivante dalle cosiddette rese di magazzino. Si chiama print-on-demand (stampa-su-richiesta).

Pare che Lulu sia il fornitore di libri print-on-demand con la maggiore crescita al mondo, con circa 55.000 titoli disponibili e oltre 1.500 nuovi titoli presentati ogni settimana.

Per approfondimenti vi consiglio di leggere l’interessante articolo di Riccardo Bagnato pubblicato su Repubblica del 3 ottobre (cliccate qui, please).

Mi domando… che sia la vera, definitiva, rivoluzione dell’editoria?

È solo una novità destinata a sfumare nel classico “flop”?

Voi cosa ne pensate?

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venerdì, 29 settembre 2006

IL VALORE DELLA LETTURA

C’è chi lo esprime in termini di Pil.

Parrebbe, infatti, che nelle aree dove c’è maggiore propensione alla lettura si produca – strano ma vero – più ricchezza. Questo, quantomeno, è ciò che risulta da una ricerca svolta da alcuni economisti per conto dell’Aie (Associazione Italiana Editori).

Il suddetto studio evidenzia inoltre il rapporto tra interesse per la lettura e performance scolastiche dei ragazzi italiani. Chi legge di più, dicono, (ma questa non è una sorpresa) rende meglio a scuola.

Naturalmente, manco a dirlo, al Nord si legge molto più che al Sud.

Altro dato: più della metà degli italiani (e per esattezza il 57,7%) non ha letto nemmeno un libro durante tutto il 2005 mentre e il 20,1% ne ha letti al massimo tre.

Interessante, vero? (Per approfondimenti cliccate qui e qui.)

Consentitemi, però, di innestarvi nella mente il tarlo del dubbio.

Non è che (per caso) sia vero anche il contrario? Ovvero che si legge di più laddove si produce di più e c’è più ricchezza?

Tempo fa a un mio amico (che aveva perso il lavoro un paio di mesi prima) consigliai un libro a mio giudizio imperdibile.

"Devi leggerlo" gli dissi.

Mi chiese il prezzo. Il libro costava intorno ai diciotto euro. Glielo comunicai.

Non rispose subito. Prima mi guardò con aria sorniona. Poi disse: "Se tu dovessi scegliere fra i pasti del giorno e il libro imperdibile… cosa sceglieresti?"

Mi sentii una cacca (poi il libro glielo regalai alla prima occasione).

Lancio una piccola provocazione. Immaginiamo che i ricercatori incaricati dall’Aie abbiano ragione al 100%. Bene. Se così fosse perché perder tempo anziché battere subito la strada maestra per risolvere – una volta per tutte – il problema endemico del divario di crescita tra Nord e Sud del Paese? Perché non predisporre un regime di benefici fiscali specificamente mirato al settore-libri? (magari!).

A questo punto, inoltre, bisognerebbe smetterla con il criticare quei lavoratori dipendenti che passano buona parte del loro tempo lavorativo davanti ai giornali. Basterebbe  obbligarli a sostituire il quotidiano del mattino con un buon classico, magari fornito loro gratuitamente (dianime, un buon “Guerra e pace” non lo so nega a nessuno). Che ne dite? Alla fine ne guadagnerebbero tutti. I lavoratori dipendenti in termini di cultura, le aziende (pubbliche o private che siano) in termini di produttività.

O no?

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giovedì, 28 settembre 2006

IL SORRISO DELLA GIOCONDA

Era ora.

Potremmo dire… meglio tardi che mai. Chi continuava a scervellarsi per risolvere l’enigma del sorriso della Gioconda può finalmente tirare un sospiro di sollievo. Mistero risolto, amici. Proprio così… dovete sapere, infatti, che la nostra amata Gioconda sorride perché (rullo di tamburi)… è incinta. Sorriso di madre in dolce attesa è! Lo ha dimostrato un gruppo di ricercatori e studiosi canadese. Hanno scoperto, infatti, che "Mona Lisa è rivestita da un fine velo di mussolina, che all’epoca era portato dalle donne incinte o da quelle che avevano partorito da poco." (Cliccate qui).

Peccato. A saperlo prima questo film avrebbe potuto svilupparsi in maniera diversa.

Ma non è tutto.
Un nostro informatore (non possiamo rivelarne il nome per questioni di privacy) ci fa sapere che i prodi canadesi stanno predisponendo un sofisticatissimo sistema ecografico che consentirà di stabilire con assoluta certezza il sesso del nascituro.

Si aprono le scommesse. Maschio o femmina?

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mercoledì, 27 settembre 2006

ERNEST IL CATTIVO

Di questi tempi c’è un virus che circola e che, a quanto pare, colpisce principalmente i premi Nobel per la letteratura. Dopo il “caso Grass” ecco che si prospetta l’apertura di un “caso Hemingway”.

Alcuni scritti dimostrerebbero, infatti, la natura di sadico assassino dell’autore de Il vecchio e il mare.

Il primo scritto incriminato è un lettera, datata 27 agosto 1949, che Hemingway spedisce al suo editore, Charles Scribner: «Una volta ho ucciso un crauto-SS particolarmente sfrontato. Al mio avvertimento, che l’avrei abbattuto se non rinunciava ai suoi propositi di fuga, il tipo aveva risposto: "Tu non mi ucciderai. Perché hai paura di farlo e appartieni a una razza di bastardi degenerati. Inoltre sarebbe in violazione della Convenzione di Ginevra". Ti sbagli, fratello, gli dissi. E sparai tre volte, mirando allo stomaco. Quando quello cadde piegando le ginocchia, gli sparai alla testa. Il cervello schizzò fuori dalla bocca o dal naso, credo».

Ma l’accusa punta il dito soprattutto su un articolo che lo scrittore americano pubblicò su Esquire nell’aprile 1936: «Certamente nessuna caccia è paragonabile alla caccia all’uomo e chi abbia cacciato uomini armati abbastanza a lungo e con piacere, dopo non si è mai interessato di null’altro». (Per approfondimenti cliccate qui).

Piacere per la caccia, dunque, (e caccia all’uomo, per giunta). C’è da scommettere che non dev’essere stato facile per il (buon?) Ernest dire Addio alle armi.

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sabato, 23 settembre 2006

QUEL DIAVOLACCIO DELLA LETTERATURA DI CONSUMO

Scrivo questo post nella speranza di innescare un (spero acceso) dibattito. L’oggetto è la cosiddetta letteratura di consumo. Il pretesto un articolo scritto sul Corriere della Sera di oggi, 23/9/06, da Giorgio Montefoschi a pag. 41 e intitolato “Moccia e Muccino, avanti c’è posto”.

Vi riporto l’articolo qui di seguito arricchendolo con dei “link”.

“Nella prefazione a un piccolo libro della Archinto nel quale sono raccolte le lettere che negli ani ’50 Anna Banti, direttrice insieme a suo marito Roberto Longhi della rivista Paragone inviava ad Alberto Arbasino, a quei tempi alle prime armi e giovinetto, insieme a molti bei nomi, e importanti, di scrittori che ci rimandano con tanta nostalgia alla nostra infanzia letteraria, Piero Gelli, un tempo direttore editoriale delle più importanti case editrici italiane, una delle sei persone che in questo Paese capiscono di libri, ricorda il livello “alto” delle litigate e degli eventuali insulti (…) e ricorda come <<la letteratura e l’elitarismo predominassero su ogni posizione politica, in tempi assai più schierati dei nostri>>. La politica, insomma, era il pericolo nei ferrigni ’50; e invece (…) vinceva la letteratura. Ah, che nostalgia, davvero! Anche perché la politica odierna, nell’eventualità di un conflitto con la letteratura, non farebbe paura a nessuno. No, oggi, il diavolo è un altro, anche se fingiamo di non saperlo. È la letteratura di consumo, clonata dalla televisione commerciale. Sono i romanzi dei vari Moccia, Volo, Muccino, dei barzellettari, degli attori, presto delle veline. I romanzi ai quali, con divertito scalpore, la comunicazione di massa dedica ogni spazio. Compreso quel poco destinato alla mente.”

Ecco fatto.

A voi la parola!

—————————————-

Di nuovo io.

Mi sembra appropriato aggiornare il post con un articolo apparso sulla rubrica satirica Vespe del domenicale de Il Sole 24Ore di oggi (24/9/06) e intitolato <<Montefoschi contro i cloni della tv>>. Eccolo qui di seguito.

“Chi è oggi il diavolo che minaccia la vera, la nobile letteratura? Dove si annida l’Asse del Male contro cui combattere la Coalition the Willing, gli intellettuali di buona volontà? Se già non lo sapete, ve lo dice Giorgio Montefoschi sul Corriere di sabato: sono i tre sceicchi Moccia, Volo e Muccino, i temibili Hezbollah della <<letteratura di consumo, clonata dalla televisione commerciale>>, dietro i quali si agita un’orda sculettante di <<barzellettari, attori e veline>>. (…) Per reagire a questa deriva, Montefoschi fa appello all’autorità carismatica di Piero Gelli, << un tempo direttore editoriale delle più importanti case editrici italiane, una delle sei persone che in questo Paese capiscono di libri>>. Sei? E chi sarebbero? Fuori i nomi! Montefoschi teme, forse, nominandoli, di esporli alle rappresaglie degli Hezbollah di Moccia&Cuccino? In realtà, secondo quanto risulta alle Vespe, le persone che capiscono di libri non sono sei, ma sette, come i nani di Biancaneve: oltre al suddetto Pièrolo, Stròncolo, Còpiolo, Lèggolo, Stàmpolo, cestìnolo. E naturalmente lui, Montefòscolo. Che capisce più di tutti, anche se vende meno degli altri, perché non è uno scrittore clonato dalla tv. Lui clona da solo i suoi libri. Ai Parioli.”

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giovedì, 21 settembre 2006

MA LA LETTERATURA HA BISOGNO DI CATENE?

Mi riferisco, per chi non l’avesse capito, a Catena Fiorello. Dopo il fratellone Rosario (divenuto da tempo il più importante showman italiano) e il fratellino Beppe (ormai attore osannato) ecco a voi Catena che, dopo il libro-interviste Nati senza camicia, approda sulle spiagge delle lettere nazionali grazie a un nuovo vascello di carta fornito dalla Baldini Castoldi Dalai. Il 26 settembre uscirà in libreria il romanzo Picciridda, scritto dalla nostra Catena e ambientato nella Letojanni degli anni ‘60.

Scrive Mirella Serri sul Corriere-Magazine di oggi (21/9/06), riferendosi a Fiorello (Rosario), che "Lo showman di Viva RadioDue ha appena finito di leggere Picciridda. E sul parto letterario di Cati, ovvero Catena, si è pure commosso."

Messaggio per Fiorellone: in caso di necessità… cliccare qui.

Che altro dire… ben vengano i libri che fanno commuovere!

Appello pubblico! Per caso c’è qualcuno tra voi che è "un incrocio tra un impiegato delle poste e Massimo Cacciari?" Se così fosse (lo apprendiamo sempre dal suddetto articolo della Serri) sappiate che siete l’anima gemella di Cati Fiorello. Cosa? Non vi interessa? Be’, peggio per voi! (ma dico…  avete visto com’è venuta carina la Cati nella foto a pag. 83 del Magazine?)

Scherzi a parte, tanti auguri a Cati che – peraltro – ci fa sapere (pure) il titolo del prossimo libro: Se ti chiedono come stai, tu rispondi sempre benissimo.

Buono a sapersi.

A proposito Cati… come stai?

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Letteratitudine: da oltre 15 anni al servizio dei Libri e della Lettura

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"Cetti Curfino" di Massimo Maugeri (La nave di Teseo) ===> La rassegna stampa del romanzo è disponibile cliccando qui

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OMAGGIO A ZYGMUNT BAUMAN

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OMAGGIO A TULLIO DE MAURO

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RATPUS va in scena ratpus

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Ricordiamo VIRNA LISI con un video che è uno "spot" per la lettura

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"TRINACRIA PARK" a Fahrenheit ...

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