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Archivio della Categoria 'RITORNO AI CLASSICI'

mercoledì, 13 gennaio 2021

I CAPOLAVORI DI GEORGE ORWELL (raccontati dal suo traduttore Enrico Terrinoni)

“I capolavori di George Orwell” (Newton Compton), nel racconto del curatore e traduttore Enrico Terrinoni

* * *

Il nuovo appuntamento dello spazio di Letteratitudine chiamato Vista dal traduttore (dedicato, per l’appunto, al lavoro delle traduttrici e dei traduttori letterari) è incentrato sui romanzi di George Orwell, ripubblicati in nuova edizione da Newton Compton: I capolavori” [che include: La fattoria degli animali • 1984 • Senza un soldo a Parigi e a Londra • Giorni in Birmania • Omaggio alla Catalogna], a cura di Enrico Terrinoni e con le traduzioni di Enrico Terrinoni, Andrea Binelli, Francesco Laurenti e Fabio Morotti.

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“I capolavori” di George Orwell (Newotn Compton): La fattoria degli animali • 1984 • Senza un soldo a Parigi e a Londra • Giorni in Birmania • Omaggio alla Catalogna

A cura di Enrico Terrinoni e con le traduzioni di Enrico Terrinoni, Andrea Binelli, Francesco Laurenti e Fabio Morotti.

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TRADURRE ORWELL

di Enrico Terrinoni

Nei dibattiti sulla traduzione ci si è posti per tanti anni un falso quesito riguardante l’impossibilità di tradurre, soprattutto certi tipi di testi, certi generi. Si è detto che tradurre la poesia, ad esempio, è impossibile, oppure che esistono alcuni testi intraducibili.

Io ho sempre creduto necessario rimpiazzare la domanda “tradurre si può?” con l’affermazione “tradurre si deve”. Perché sulla traduzione si basa la civiltà. Sullo scambio, prima di tutto di informazioni, sulla comunicazione, e ogni comunicazione è una forma di traduzione. Non bisogna scomodare i modelli che chiamano in causa la traduzione intra- e interlinguistica per capire che qualunque transfer informativo si basa su dinamiche traduttive, ovvero, su dinamiche di cambiamento. Perché la traduzione è prima di tutto cambiamento: per questo non regge l’idea della sua impossibilità. (continua…)

Pubblicato in RITORNO AI CLASSICI, VISTA DAL TRADUTTORE   Commenti disabilitati

venerdì, 2 marzo 2012

LA CERTOSA DI PARMA. Il romanzo e la miniserie Tv

Nei giorni scorsi mi ha scritto la regista Cinzia TH Torrini per segnalarmi l’imminente “messa in onda” su Rai 1 (il 4 e 5 marzo) della nuova miniserie televisiva da lei diretta : “La Certosa di Parma (tratta dal celebre romanzo di Stendhal). Dallo scambio scambio epistolare è nata l’idea di organizzare un dibattito online incentrato sul romanzo e sulla fiction televisiva. Alla discussione, compatibilmente con gli impegni, parteciperà anche la stessa Cinzia TH Torrini (già nota, peraltro, per aver girato – tra gli altri – Elisa di Rivombrosa I e II e Terra Ribelle).

la-certosa-di-parma

Molti di voi avranno già letto il famoso romanzo di Stendhal.
Qui di seguito, trovate parte della trama…

Il giovane Fabrizio del Dongo sogna la gloria e l’amore: esaltato dall’avventura napoleonica fugge per unirsi all’armata imperiale. Giunto a Waterloo, assiste per caso, senza capirvi nulla, alla battaglia. Tornato in Italia e scacciato dal padre si rifugia a Parma, da una zia, la duchessa di Sanseverina che nutre una vera passione per lui. Al giovane, sospettato di simpatie liberali dal principe Parma, la zia assicura la protezione del primo ministro, il conte Mosca. Ma Fabrizio diventa il bersaglio principale dei nemici di Mosca. Coinvolto in un duello e costretto per difendersi a uccidere l’attore Giletti, il giovane deve fuggire. Viene attirato in una imboscata e imprigionato nella torre Farnese. Dalla finestra del carcere Fabrizio vede la figlia del governatore della prigione, Clelia Conti, e se ne innamora. Malgrado i rigori della prigionia, i due riescono a comunicare.

E poi? Poi che succede? Chi ha letto il romanzo lo sa. Chi non lo ha letto è caldamente incoraggiato a posizionare “La Certosa di Parma” sugli spazi libreschi del proprio comodino. Vi propongo alcune delle edizioni disponibili (cliccate sulle copertine…)

La certosa di Parma La certosa di Parma. Ediz. integrale La certosa di Parma La certosa di ParmaLa certosa di Parma

Ma a qualunque categoria apparteniate (lettori o non-lettori de “La Certosa di Parma”) siete tutti invitati a vedere la miniserie Tv diretta da Cinzia TH Torrini. Ricordo le date: 4 e 5 marzo, su Rai 1.

La fiction, è stata girata a Parma tra il maggio e il luglio del 2011, ha coinvolto centinaia di comparse vestite con splendidi abiti d’epoca. Qualche informazione sul cast: il personaggio Fabrizio del Dongo è impersonato dall’attore Rodrigo Guirao Diaz, mentre il ruolo del conte Mosca è interpretato da Hippolyte Girardot.
L’attrice Marie-Josée Croze interpreta il ruolo di Gina (la Croze è un’attrice franco canadese che ha vinto a Cannes con il film “Le Invasioni Barbariche”; è stata anche attrice nel film “Munich” di Steven Spielberg o nello “Scafandro e la Farfalla” di Julian Schnabel). Nel ruolo di Clelia, invece, vedremo Alessandra Mastronardi (reduce dal successo delle fiction “Sorelle Fontana” e I Cesaroni).

Vi invito, dunque, a guardare la miniserie Tv e a discuterne insieme. Ne approfitto, altresì, per invitarvi a discutere sul romanzo e sul suo autore.
Per favorire la discussione, pongo alcune domande…

1. Avete mai letto “La Certosa di Parma”? Se la risposta è negativa… pensate di leggere questo romanzo (prima o poi)?

2. Nel caso in cui l’abbiate letto, cos’è che vi ha colpito di più?

3. Quale ricordo (o emozione, o impressione), in particolare, è rimasto vivo nella vostra mente a seguito di quella lettura?

4. Quali sono gli “elementi di attualità” di questo libro?

5. Se doveste consigliarne la lettura a qualcuno… cosa gli direste?

6. Che ruolo ha avuto Stendhal, nella storia della letteratura?

7. Qual è l’eredità letteraria che ci ha lasciato?

Di seguito troverete: il promo della fiction, una “nota” di Cinzia TH Torrini, un estratto dell’introduzione di Annamaria Laserra all’edizione de “La Certosa di Parma” pubblicata nella collana de “I grandi romanzi dell’Ottocento della Biblioteca di Repubblica” – Gruppo Editoriale L’Espresso (la Laserra è anche la traduttrice del testo) e un articolo di Daria Galateria pubblicato su Repubblica (nel gennaio del 2004) in occasione dell’uscita del volume.

Auspico un’ampia partecipazione e… grazie in anticipo per i vostri contributi.

Massimo Maugeri
(continua…)

Pubblicato in RITORNO AI CLASSICI, SEGNALAZIONI E RECENSIONI   196 commenti »

giovedì, 3 luglio 2008

GERUSALEMME LIBERATA

torquato_tasso.jpgSono convinto che la grande Letteratura (il maiuscolo non è casuale), quella che rimane nel tempo, si possa leggere con immutato interesse… oggi come ieri. E oggi come ieri ritengo che possa fornire spunti di riflessioni.
Credo che sia così anche per la “Gerusalemme liberata” di Torquato Tasso.
Ha senso parlarne oggi, in Internet, nel contesto di un blog letterario? Io dico di sì.
Ecco a voi una nuova puntata di “Ritorno ai classici”, incentrata – per l’appunto - sulla figura di Tasso e sull’opera principale di questo grande autore.
Vi invito a discuterne partendo dal bel pezzo offertoci da Sergio Sozi.
Com’è noto “Gerusalemme liberata” narra della prima crociata ponendosi due obiettivi principali:
- raccontare la lotta tra pagani e cristiani
- raccontarla seguendo il filone della tradizione epico-cavalleresca.
Vi lancio una sfida…
Secondo voi “Gerusalemme liberata” è un’opera ancora attuale?
Se sì, perché?
Provate a tracciare delle connessioni con i “nostri tempi”.
È questa la sfida (e non credo sia una sfida particolarmente difficile da vincere, vero?)

Cominciamo…

Canto l’arme pietose e ‘l capitano
che ‘l gran sepolcro liberò di Cristo.
Molto egli oprò co ‘l senno e con la mano,
molto soffrì nel glorioso acquisto;
e in van l’Inferno vi s’oppose, e in vano
s’armò d’Asia e di Libia il popol misto.
Il ciel gli diè favore, e sotto ai santi
segni ridusse i suoi compagni erranti.

Bello, eh?

Massimo Maugeri

______________

La rabbia delle stelle – piccole notazioni tassiane in ritardo

                                 di Sergio Sozi

Come vede talor torbidi sogni
Ne’ brevi sonni suoi l’egro e l’insano;
Pargli ch’al corso avidamente agogni
Stender le membra, e che s’affanni invano;
Che ne’ maggior sforzi a’ suoi bisogni
Non corrisponde il piè stanco e la mano;
Scioglier talor la lingua e parlar vuole,
Ma non segue la voce o le parole: (…)

(Visioni dell’Arabo Solimano in procinto di morire per mano di Rinaldo, La Gerusalemme liberata, canto XX, st. 105)

sergio-sozi.JPGHo finito qualche pomeriggio fa di studiare, con passione lentezza e rigore, La Gerusalemme liberata. Prima l’avevo solo assaggiata (e fatta assaggiare) a piccole dosi in ambienti scolastici, poi niente piú per anni: la voce diretta di Torquato era sparita dal mio orecchio, eccetto citazioni e rimandi altrui, frammenti e accenni, dipinti del Guercino, del Domenichino, del Tiepolo, del Delacroix e di molti altri, visti chissà dove e come – ma questa è un’altra faccenda e la taglio subito, perché una voce come quella del Tasso ha in sé tutte le tonalità per vivere da sola in un timpano umano, quantunque moderno.

Chiusa dunque l’ultima pagina, non so come mai, invece di riandare con la memoria e con le emozioni ai commoventi episodi di Olindo e Sofronia, Tancredi e Clorinda, Rinaldo e Armida, mi vengono stranamente in testa, a mo’ di consuntivo, dei numeri: io ho quarantatré anni e questa opera ne compirebbe quattrocentotrentatré (la stesura finale è del 1575), ora siamo nell’Anno Domini MMVIII e la storia è ambientata attorno al 1096, poiché narra della prima Crociata iniziata da Goffredo di Buglione in quell’anno e terminata nel 1099 con la conquista di Gerusalemme.

Cifre, queste, che esprimono delle dissonanze esplicite ed incrociate: una dissonanza esiste, anche se minuscola, già fra me e il 2008; un’altra, ben maggiore, fra il 2008 e il 1575; l’ultima è fra il 1096 e tutte le altre date, ed è quella piú evidente.

Ci sono dei veri e propri abissi cronologici fra gli elementi che si relazionano in tutto ciò – mi dico – come ad inanellarsi in una catena di forzature delle quali l’ultima è rappresentata dalla mia ostinazione all’esame del poema, con l’ausilio di note scarne e senza apparati critici. Uno strano gioco, il mio, chissà da dove scaturito, dentro o fuori di me.

Già: perché voglio riconquistare il Tasso, chi me lo suggerisce, chi mi obbliga ad inchiodarmi sulla sua opera principale pur senza ammanettarmi entro scadenze esteriori o necessità interiori?

Poi però penso ai due maghi, contrapposti, del poema: Ismeno (musulmano, infernale, ovvero Pagano secondo la terminologia dell’autore e dell’epoca) ed Ascalona (cristiano, celestiale) e alla fugace apparizione della dea Fortuna – pagana tout court ma qui stante dalla parte dei cristiani, poiché salvifica nei confronti di Rinaldo, eroe cristianissimo lasciatosi traviare dagli incantesimi erotici della strega/fata Armida. Una Fortuna del tutto moderna, questa, che, lontana anni luce dal significato originario, porta la buona sorte a chi vuole il Creatore Unico.

Inoltre, a controbilanciare l’aiuto che l’Arcangelo Gabriele offre (Hermes cristiano dotato di armi invisibili) al campo di Goffredo, vedo la forsennata furia Aletto, altro alleato delle potenze demoniache strappato alla mitologia classica, che qui, prese le sembianze del vecchio Araspe, stuzzica l’onor islamico del condottiero arabo Solimano: Ardisci, ardisci: entro ai ripari suoi / Di notte opprimi il barbaro tiranno (attenzione: il barbaro tiranno da opprimere entro ai ripari suoi è Goffredo di Buglione).

In sovrappiú Idraote, un ennesimo mago oggi poco notato, invia la seduzione per antonomasia ad indebolire le armi cristiane, nei panni e nelle tornite carni della stupenda maga Armida (forse il personaggio piú riuscito dell’intero poema, anche perché vicina alla Didone virgiliana e come ella strumentalizzata per una sorta di ragion di Stato, qui vista col prisma della biblica missione spirituale e dunque infine graziata dall’artefice, Dio o Tasso che sia).

A rappresentare una guida spirituale in diretta comunicazione col Dio cristiano ed affiancata ad un già angelico Goffredo, troviamo inoltre Pietro l’Eremita, i cui consigli spesso sono vaticini e rimedi contro gli incantesimi avversi – fra i quali certamente i piú temibili sono la zizzania, o meglio il sospetto reciproco, e la seduzione erotica femminile. L’Eremita, Goffredo e Ascalona sostituiscono, credo, completandosi a vicenda nell’assolverla, la funzione che nella poesia classica avevano i re, gli aedi e gli oracoli.

Ma tali interventi magici, cioè a dir meglio ultraterreni, sempre puntualmente motivati secondo la contrapposizione dottrinale Bene/Male ed Inferno/Paradiso nonché accuratamente portati entro una visione controriformistica dell’arte (il Concilio di Trento si era chiuso nel 1563), non bastano: ancora troppo profano, per le esigenze dell’autore, verrebbe cosí a configurarsi il racconto in ottave; dunque l’Inferno e il Paradiso stessi, visti con geografico-realistico sguardo e anticlassicistico zelo, vengono portati a partecipare direttamente all’agone in Terrasanta mostrando i due Sommi Protagonisti stessi in prima persona: Il Diavolo, Plutone, Gran nemico delle umane genti, da perfetto re della cittadella ínfera, si comporta infatti come segue, irato per la buona sorte cristiana: Contra i Cristiani i lividi occhi torse; / E lor veggendo omai lieti e contenti, / Ambo le labbra per furor si morse; / E, qual tauro ferito, il suo dolore / Versò mugghiando e sospirando fuore. (Canto IV).

Descritto direi con tratti michelangioleschi, Plutone poi, con fare da condottiero, aduna nella propria reggia sotterranea il suo mostruoso e orrido popolo-bestiario (composto di dèmoni ed esseri dalle orribil forme: Idre, Chimere, Polifemi, Scille, Gorgoni e quant’altro di tolto al mondo pagano) e arringa quei sudditi spronandoli ad andare in aiuto dei musulmani assediati. Si tratta di una replica in evidente polemica con Dio stesso, il quale, all’inizio del poema, era intervenuto per legittimare ed avviare la missione di Pietro l’Eremita (braccio spirituale) e Goffredo (braccio anche secolare): Dio, visti gli eroi cristiani inattivi, Chiama a sé da gli angelici splendori / Gabriel, che ne’ primi era secondo. / (…) / Giú i decreti del Ciel porta, ed al Cielo / Riporta de’ mortali i preghi e il zelo. / Disse al suo nunzio Dio: Goffredo trova, / E in mio nome di’ lui: perché si cessa? / Perché la guerra omai non si rinnova / A liberar Gerusalemme oppressa? (Canto I).

Tutto ciò finora esemplificato sta, non solo ma pure, a dimostrare quanto diversa, rispetto al periodo pre-tridentino dell’Umanesimo italiano (uno per tutti: l’Ariosto), fosse qui la progettualità morale e letteraria di fondo di un poeta dopotutto pur sempre calato nell’Umanesimo, ma i cui ben diversi intenti vengono dichiarati sin dai primi versi, i quali espongono una ben strana invocazione: O Musa, tu che di caduchi allori / Non circondi la fronte in Elicona, / Ma su nel Cielo infra i beati cori / Hai di stelle immortali aurea corona.  Sí, strana invocazione, perché scopertamente rivolta non a Calliope (la musa della poesia epica) ma alla Madonna stessa (con lo pseudonimo di Musa, vero?), alla quale il Tasso annuncia chiaramente piú oltre, scusandosene, la sua ferma volontà di edulcorare, in modo strumentale, il messaggio cristiano unendolo a delle dolcezze parnassiane, perché (…) Il vero condito in molli versi, / I piú schivi allettando ha persuaso.

Allora la Gerusalemme liberata nasce con la funzione sinceramente apostolica di recuperare alla Vera Fede gli incerti, i dubbiosi e gli agnostici, ma in punta di piedi, col guanto di velluto, insomma senza che essi se ne accorgano: Cosí all’egro fanciul porgiamo aspersi / Di soave licor gli orli del vaso: / Succhi amari ingannato intanto ei beve, / E da l’inganno suo vita riceve.

Il modernissimo (Collodi lo porterà nel suo Pinocchio) paragone del bambino ammalato (egro fanciul) che rifiuta di bere lo sciroppo amaro (qui metafora di Messaggio Cristiano) e dunque rischia di morire (cioè di dare in pasto l’anima al Diavolo) è sufficiente motivo per il Tasso di concepire e sviluppare, senza ambiguità nòtasi, un intero poema che, sotto una superficie epico-cavalleresca, contenesse un apologetico ingannare per fini religiosi il lettore suo coevo, il quale, malato di profanità, rischiava altrimenti di restare nell’ignavia rappresentata dalla Letteratura umanistica precedente – il cui atteggiamento liberale e filopagano Tasso rigetta dal profondo dell’anima.

Naturalmente i destinatari dell’opera restano confinati nella cerchia degli uomini di cultura, vista la palese noncuranza dell’autore per ogni manifestazione plebea e l’accettazione dei dettami stilistici petrarcheschi, l’eloquio cortigiano ed aristocratico, l’aristotelismo integrale, la sua fiducia indirizzata (almeno nei suoi risvolti terreni) unicamente al sovrano assoluto, cioè al Dio Sovrano in Terra.

Sí, sappiamo tutto questo e non possiamo non considerarlo malato, egro, questo furore  missionario; frutto di un’anima instabile e bambina, o quanto meno profondamente decontestualizzata, persa nel deserto delle mutazioni epocali – e la sua fu una di quelle piú dure del nostro Paese. Ma sappiamo anche quanto la Gerusalemme Liberata sia penetrata a fondo nel cuore e nella memoria individuale e collettiva degli Italiani e degli Europei, interclassisticamente diremmo, cosí sviluppando in straordinaria autonomia una fortuna tutta sua, andante ben al di là della stilistica barocca, di cui anticipa molte peculiarità formali, e soprattutto ben oltre gli intenti missionari del Tasso stesso. Non per niente Leopardi ne fu un estimatore e Goethe nel 1790 scrisse il suo noto dramma Torquato Tasso. Eh sí: l’incessante fama popolare lo predisponeva all’arrembaggio unilaterale delle fazioni che fossero di volta in volta à la page. Comunque, anche se tirato per la giacca e cosí misinterpretato da romantici e positivisti, inserito fra gli odiati poeti classicisti dai pittori francesi eccetera, il poeta puro Tasso, negli anni Settanta del Novecento, credo abbia avuto tuttavia una piccola rivincita personale, facendosi commentare dal critico Mario Pazzaglia come segue: ”Il tentativo tassiano (…) cerca di attuarsi sullo sfondo delle due istituzioni del suo tempo nelle quali il poeta credette fino a illudersi sul loro effettivo valore: la corte e l’accademia. La prima era per lui un’aristocratica accolta di spiriti eletti, di cui si sentiva chiamato a celebrare le virtú magnanime, sollecitandola ad alti ideali e a nobili imprese; l’accademia gli offriva l’insegnamento di un’arte eletta e rara, adatta ad esprimere quel nobile ideale di vita.”Inutile precisare che, proprio come prosegue il Pazzaglia nello stesso brano ”Il tentativo del Tasso si infranse nell’urto contro una società spoglia di dignità e grandezza; e fu per lui una sconfitta sul piano poetico (la Conquistata) e su quello umano.”

A giudicare dal Pazzaglia (1979) ci sono voluti quattrocento anni, a noi Italiani, per capire che i numeri non contano nulla. Ed io, be’, non l’ho capito mica subito; l’ho capito solo grazie ai maghi di cui il capolavoro è disseminato che per sentirsi in familiarità col Tasso (non lo stesso sarebbe per altri, pur altrettanto grandi) bisogna annullare tali dissonanze stupidamente epocali sciogliendole nel miracolo di un’opera realmente magica, sofferta e scomoda: magica per la capacità che ha insita di unire tutto il Medioevo (ed oltre) in un solo racconto; sofferta perché mai essa fu, è o sarà, affermazione adeguata al candido desiderio d’ortodossia cristiana del suo autore e scomoda per tutti, cristiani e non. Scomoda all’ennesima potenza, inevitabilmente, per il Tasso, che divenne pazzo a voglia di riscriverla – già: anche nella stesura del 1575 vediamo quanto egli non avrebbe potuto esprimersi senza ”Abusare di minuziosità, di giuochi di parole, di concettini, di contrasti artificiosi, di lungaggini”, come disse il critico Enrico Bianchi negli anni Sessanta; espressione già chiara, questa, credo, di un travaglio interiore ai limiti dell’umanamente tollerabile. Scomoda per l’Occidente, che ci si rispecchia al di là dei falsi moralismi che lo hanno sempre accompagnato durante l’era cristiana. Scomoda, infine, per chiunque sia sincero o cerchi la sincerità scavando sempre piú nel profondo di ogni cosa.

Dunque non mi chiedo piú che senso abbia leggere, oggi, l’edizione integrale di un poema epico cavalleresco che probabilmente era stato già di molto sorpassato, per modernità complessiva e struttura narrativa, dall’Orlando furioso dell’Ariosto diversi decenni prima (l’ultima stesura dell’Orlando è del 1532). No, non me lo chiedo piú: eh, ce ne sono di atti inconsulti, nella vita: fra i quali anche l’anelito a Vincer la rabbia de le stelle e il fato (Canto XIII, st. 80) nonostante la propria ed altrui debole umanità. 

Sergio Sozi (Lubiana, 29 VI 2008)

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sabato, 12 aprile 2008

DI PROTEO E DEGLI INTRIGHI. VEIT HEINICHEN

Conoscete Veit Heinichen?

Ecco qualche cenno biografico.

È uno scrittore tedesco, nato a Villingen-Schwenningen il 26 marzo del 1957.

Si è laureato in economia a Stoccarda, ottenendo una borsa di studi della Mercedes-Benz per la quale ha anche lavorato nella sede della direzione generale. Poi ha lavorato come libraio e ha collaborato con diversi editori.

Nel 1994 è stato co-fondatore della Berlin Verlag di Berlino (diverse volte premiata come “Casa editrice dell’anno”) di cui è rimasto direttore sino al 1999.

Dal 1997 vive a Trieste, città di mare e di confine dove ha voluto ambientare i suoi romanzi. Una città che descrive nella sua complessità, tra bora e multicultura. Ogni libro approfondisce sia aspetti storici che elementi di estrema attualità offrendo sempre un piacevole quadro di una città di mare, dove si mangia bene e la cultura e l’arte hanno molto da offrire.

Il personaggio principale dei suoi libri è un poliziotto: il Commissario Proteo Laurenti, salernitano trapiantato da anni a Trieste, proprio come il suo padre letterario.

Heinichen ha ricevuto il Premio della RTV Brema 2005 per il miglior giallo 2005 (Bremer Krimipreis 2005). È stato finalista per il Premio Franco Fedeli, Bologna, 2003 e 2004, per il miglior giallo italiano dell’anno.

Ricordiamo le seguenti pubblicazioni:

I morti del Carso

Morte in lista d’attesa

A ciascuno la sua morte


Di seguito potrete leggere l’intervista realizzata da Sergio Sozi in esclusiva per Letteratitudine.

Vi invito a leggerla con attenzione perché è ricca di spunti interessanti (sui quali potremo discutere).

Intanto pongo due domande collegate, appunto, all’intervista:

Ritenete che il romanzo giallo sia particolarmente adatto a rispecchiare la società moderna? (Vi invito, se potete, a motivare la risposta).

Ritenete che le notizie dei giornali siano davvero così stereotipate come sostiene Heinichen (nell’intervista) ?

Massimo Maugeri

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Intervista a  Veit Heinichen (di Sergio Sozi)

 sergio-sozi.JPG

Ho incontrato il 22 gennaio 2008 a Lubiana lo scrittore tedesco Veit Heinichen – creatore della fortunata serie gialla del commissario Proteo Laurenti e vivente da un decennio a Trieste come il suo protagonista, poliziotto di origine meridionale (qualche titolo: I morti del Carso e A ciascuno la sua morte). I suoi romanzi sono tradotti in Italia da E/O e la serie di film televisivi che ne è stata tratta ha ottenuto in Germania nove milioni di spettatori. Una nuova serie verrà perciò nuovamente girata nel Capoluogo del Friuli-Venezia Giulia. Per venire a noi, questo è quanto scaturito dal nostro colloquio, svoltosi passeggiando tranquillamente alle undici di sera davanti al club jazzistico ”Gajo” (nel pieno centro di Lubiana), dove pochi minuti prima l’autore aveva tenuto un incontro pubblico nell’ambito del noto festival sloveno ”Fabula”.

 

Heinichen è un giallista, e noi lo conosciamo grazie ad un personaggio che è il commissario Proteo Laurenti… Ecco, noi Italiani in genere sappiamo chi è Proteus, mitologicamente parlando…

Ecco, Proteus, poveretto, è nato a Salerno e poi ha subíto tutta la classica carriera di un poliziotto tipico italiano della sua età, che veniva mandato da Sud a Nord, spedito da Ovest ad Est finché non si è inchiodato, diciamo cosí, a Trieste – una città di cui lui non sapeva tanto. Arriva a Trieste, dunque, con questo nome, Proteo Laurenti, e constata che tutti ne ridevano; perché? Perché negli abissi del Carso, nella profondità buissima dove ci sono le acque sotterraneee, vive un animaletto che ha oltre centomila anni, una specie di lucertola, priva di occhi, bianca, il cui nome scientifico è Proteus Anguinus Laurenti. Invece i genitori del personaggio pensavano ovviamente alla mitologia classica, a quel dio che riusciva a trasformarsi in qualsiasi materia e a non essere catturabile. Non sapevano che sarebbe un giorno diventato, proprio a Trieste, colui che avrebbe dovuto catturare gli altri e dunque anche scavare negli ”abissi”.

 

Ah, ecco; perciò il significato, diciamo, è metafora, piú che di ”proteiformità”, del ”vivere negli abissi”…

Sí: di vivere e scavare. E in piú c’è un altro aspetto, perché come si chiama questo animaletto in sloveno? Ecco si chiama (traduco) ”Pesciolino umano”, e infatti anche Proteo Laurenti ha i suoi lati umani… non è lo sbirro freddo: è uno che vive in contesti sociali molto forti, ha tre figli, una moglie, un’amante; diciamo che è il prototipo del cittadino italiano.

 

Già. Ma mi dica, come mai Lei – il ”burattinaio” – lo ha posto cosí: lo ha fatto emigrare dalla Campania fino ad una zona molto germanica – o almeno mitteleuropea – come quella di Trieste.

Vorrei dire che le espressioni ”mitteleuropeo o Mitteleuropa” sono state sicuramente molto superate, se parliamo del centro dell’Europa, perché i mezzi di comunicazione e di trasporto sono diventati molto veloci – rispetto a questi termini un po’ ”magrisiani” che si rivolgono indietro, all’Impero Austroungarico, e anche rispetto a queste piccole distanze. Ovviamente è una zona molto interessante, è un punto cruciale dell’Europa, perché qui si incontrano le tre grandi culture europee: quella di origine romana, quella slava e quella germanica; qui il Mediterraneo s’incontra con il mondo del Nord e dunque si incontrano le formazioni – direi quasi ”mentali” – del mare e della montagna, e, in piú, ovviamente, l’Ovest e l’Est. Inoltre questa città, Trieste, venne costruita e fatta grande e famosa da un insieme di oltre novanta etnie, cosí abbiamo anche l’insieme di Mercurio e Apollo – perché è anche una città molto forte nella Letteratura (a Trieste è sempre nata della Letteratura). Se parliamo degli ultimi due anni dell’esilio di Casanova: ebbene, in che lingua Casanova scrisse le sue memorie? In francese. Poi Stendhal (che passò a Trieste l’inverno del 1830-31) invece non la amava e diceva che sarebbe stato meglio esser rapinati da una banda di ladri catalani che esser colpiti una volta solamente dalla bora. Inoltre, in città capitò il giovane Sigmund Freud, che scriveva il suo primo discorso scientifico, cosí facendo quasi il primo errore ”freudiano”, poiché studiava gli organi sessuali dell’anguilla. Jules Verne, nel 1850, vi fece delle ricerche approfondite per un fantastico romanzo, veramente fantastico in tutti i sensi: il ”Mathias Sandorf”. E Rilke, nel castello di Duino, con le sue Elegie; Srečko Kosovel (scrittore di lingua slovena e Rimbaud del Ventesimo secolo); poi ancora Italo Svevo – che portava in sé Mercurio e Apollo perché era commerciante. Lo stesso, in seguito, per Umberto Saba ed oggi per un Boris Pahor e un Claudio Magris – Pahor, scrittore di lingua slovena, io veramente lo considero molto piú importante perché ha scritto i grandi romanzi di questo secolo, dando luce ai crimini del fascismo e ai cambiamenti in questo spazio, molto complesso, pieno di contraddizioni ma anche di ponti fra le contraddizioni.

 

Tornando alle sue opere, come mai proprio dei gialli? Da un personaggio ”proteiforme” come lei, io mi sarei aspettato magari qualcosa sullo stile del nostro Gadda oppure uno di quei falsi gialli alla maniera di Sciascia.

Mah… grande sfida. Due scrittori che io ammiro profondamente. Perché il giallo? Perché è un genere molto adatto per rispecchiare la società moderna. Se il romanzo di per sé è sempre stato uno specchio di un’area e di un’epoca, il romanzo giallo lo è ancora di piú perché si concentra molto fortemente sulle nevrosi e sugli estremi di un’area e di un’epoca. Posso anche ricordare che esistono due grandi opere della Letteratura mondiale che io ho sempre considerato come dei gialli – ”Delitto e castigo” di Dostoevskij e ”Il rosso e il nero” di Stendhal. Allora lasciamo via questi ”cassetti” in cui dobbiamo mettere le cose, lasciamo via le generalizzazioni… C’è anche della gente che mi dice: ”I tuoi libri non sono gialli, ma romanzi storici”; per me va tutto bene.

 

E sono romanzi storici, questi suoi, visto che Lei si documenta con fare certosino?

Beh: io faccio il mio lavoro, come lo faceva il grande Sciascia o anche Gadda, i quali hanno sempre descritto gli spazi in cui vivevano: erano osservatori perfetti, precisi, non lasciavano via niente. E questo fa Letteratura. Perché? Perché, in confronto agli altri media, la narrazione diventa pessima se lascia via le cose. I media oggi trattano tanto con la verità ”oppressa”, ossia con la metà della verità; mi spiegherò: non è la bugia il problema, la bugia si svela sempre da sola, ma prendendo le notizie, oggi, vediamo che una parte della verità è oppressa e l’altra parte diventa ”l’assoluto” e questo il romanzo non può farlo e il narratore ancora di meno.

 

Perciò il narratore ha il dovere, secondo Lei, di trovare una verità completa.

Per questo ha anche un mezzo che è anche molto diverso dagli altri: un libro di due, trecento pagine o perfino cinquecento; per questo, allora, lo scrittore può dare spazio a tutti: a quelli che gli piacciono e a quelli che non gli piacciono, ma, lasciandone via uno, diventa un disastro.

 

In poche parole, esiste una realtà corale all’interno di un romanzo. Il romanzo di oggi non è piú un romanzo monologante ma ”plurivoco”.

Sicuramente. E c’è un’altra cosa, poi: nessun altro mezzo e nessun altro genere dà spazio a tutti e quattro i gruppi coinvolti.

 

Mmmh… ovvero, chiarendo il concetto…

Intendo dire: gli investigatori, le vittime, i delinquenti e… chi è il quarto gruppo? Siamo tutti noi, a cui piace talmente tanto delegare il male e il bene ma soprattutto volgere le spalle a questi fatti che ci circondano. Se pensiamo al futuro e a come crearlo, servirebbe ammettere un po’ di piú che ne siamo tutti coinvolti.

 

In cosa: in un crimine? (dico sorridendo)

In tutti i crimini e in tutte le vicende e le cose che ci circondano, siano quella dell’immondizia a Napoli, siano i grandi fallimenti imprenditoriali, della Parmalat e via dicendo… dico che ne siamo tutti coinvolti. Ma ci piace troppo, stiamo ancora troppo bene per capire che queste cose ci sono e che ci circondano, ci concernono, influenzano la nostra vita.

 

Bene. Ma questa, magari, è una cosa che noi troviamo anche nei giornali. Nel senso che i giornali ce ne dànno uno spaccato.

Invece no. I giornali vivono di uno stereotipo enorme. Nessuno ci ha mai svelato, nelle ultime settimane, quante volte si sono ripetute queste cose dell’immondizia in Campania. Nessuno ricorda mai il fatto che ci sono stati almeno nove commissari straordinari coinvolti in queste cose. Nessuno scrive che ogni giorno, da dieci anni, partono dall’Italia per la Germania Ovest ed Est tre treni pieni d’immondizia (i tedeschi ovviamente ne sono contentissimi perché cosí fanno lavorare le proprie strutture). Lí, smaltire una tonnellata di rifiuti costa duecento euro – trasporto incluso – mentre in Campania costa duecentonovanta euro. Vorrei sentire questo dai media, perché solo cosí il cittadino può farsi un’immagine completa. Io purtroppo, che vivo con piacere in Italia e che ho avuto anche un ruolo di ”missionario” nei confronti dei tedeschi e di altri europei, devo dire che lí in Germania esiste sempre lo stesso stereotipo: in Italia non funziona niente. E non è vero: ci sono cose che in Italia funzionano molto meglio che in Germania: per esempio le telecomunicazioni e la burocrazia – sono stato imprenditore in Germania e lo so. Avevo un ruolo difficile: il missionario fra Tedeschi ed Italiani, e ambedue non mi credevano. Ho la sensazione putroppo che gli Italiani siano diventati recentemente un popolo con una memoria quasi inesistente.

 

Una memoria storica corta. Significa che l’Italia vive una contemporaneità dalla quale non riesce ad uscire. O sbaglio?

Io credo che questa sia solo teoria, perché anche l’Italia uscirà da questa contemporaneità; perché la contemporaneità è una cosa semplice che si sviluppa sempre in avanti. Non siamo mica in una tribú nella giungla. Non è vero: vedo gente in gamba, che si muove e torna dall’estero volendo investire impegno ed esperienza. Solo che dobbiamo rompere con alcune strutture e soprattutto… be’, facciamo esempio: Mastella perché si è dimesso? Per mantere il piccolo potere che ha. Semplicemente, se ci saranno adesso delle nuove elezioni, avranno la vecchia legge elettorale: significa che i piccoli partiti rimarrano sempre quelli che possono far cadere o frenare o portare avanti un progetto. Ma di popolo e di maggioranza non si parla molto: si parla solo dei piccoli rompi*****.

 

(Ridacchio) Per tornare alla Letteratura. Questo suo Proteo Laurenti mette sempre le mani in delitti abbastanza particolari ed in lui è presente un modus operandi tipico dell’investigatore.

Questo ha molto a che fare con la città in cui si trova, perché Trieste è una città particolare: varie volte confermata alla prima posizione nella qualità della vita in tutto il Paese; al secondo posto guardando ai depositi bancari; insomma una qualità della vita altissima: si sta bene a Trieste, non c’è microcriminalità o quasi. Siamo una città portuale e confinaria dove si riunisce e passa l’Europa, cosí non abbiamo a che fare con tanti omicidi… meglio cosí: non devi neanche chiudere a chiave la porta di casa! Laurenti invece ha a che fare con i casi tipici – che sono sempre europei: io non racconto mai una cosa che coinvolga solo i triestini, perché ogni cosa che tocca Trieste ha sempre a che fare con l’Europa. E questa è la particolarità del luogo, in senso positivo o negativo. Significa che abbiamo a che fare con una città multiculturale e plurilingue, una città dai contrasti enormi che va dal mare fino al Carso; una città che non ha una cucina tipica: abbiamo una vasta scelta di tutto. Un luogo, insomma, dove la diversità è una ricchezza, ma che ha le sue nevrosi, ovvero i grandi ”casi” europei: traffico d’organi – le cui investigazioni vengono gestite dalla Magistratura triestina in tutta Italia, in collaborazione anche coi colleghi europei; per non dire dei grandi coinvolgimenti, massonici e di Gladio, riguardanti la fine di Roberto Calvi: avevano il centro a Trieste e ne erano coinvolti personaggi triestini o triestini acquisiti… parlo di un Flavio Carbone, per esempio, che aveva tredici aziende a Trieste e che spacciava poi terreni in Sardegna. Guardiamo la storia di questi terreni, vediamo chi ha venduto queste terre che diventavano unite per esser la base per la Certosa. È cosí: a Trieste abbiamo sempre l’Europa – a Trieste nessuno paga il ”pizzo” e trenta chilometri piú lontano capita già.

 

Capita già? (dico essendone stupito). A proposito di questo Lei mi fa venire in mente un titolo: ”Gomorra”.

Bravo, Saviano, bravissimo! A me piace perché è uno intelligentissimo che mostra questo coraggio civile che pochi hanno. Magari, no anzi sicuramente, non si è immaginato il fuoco che accendeva. Sicuramente no. Non lo invidio per la situazione in cui vive, ma devo dire che è un uomo con il coraggio civile che mi aspetto da tutti. Cambierebbe immediatamente tutto. Invece la gente sta bene senza muoversi, accomodata sul divano con le noccioline.

 

I difetti degli Italiani: forse l’indifferenza, l’apatia…

Io sono contrario a tutte queste generalizzazioni, non servono. C’è gente ”cosí” e gente ”cosà”.

 

Be’, ma nella mentalità comune…

Della mentalità comune mi vieto di parlare, perché, con quattro traslochi che ho fatto in Europa, ho sentito tutti questi luoghi comuni. Tutti e di piú. Lasciamo perdere e guardiamo direttamente negli occhi dell’altro.

 

Già, questa è la cosa fondamentale, forse (concludo accondiscendente nel congedarmi con il sorprendente e disponibilissimo Veit Heinichen. Ai posteri, perciò, e agli astanti, l’ardua sentenza: senza ”luoghi comuni” ci resterà in mano solo uno sterile ”non luogo”?).

(Sergio Sozi)

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lunedì, 28 gennaio 2008

LA VITA INCAGLIATA di Attilio Del Giudice

Sull’onda del filone “letteratura e infanzia, letteratura e adolescenza”, affrontato anche in altri post (vedi qui, qui, qui e qui) ne approfitto per presentare un’ulteriore piccola casa editrice – la Leconte - e uno degli autori del suo catalogo. Si tratta di Attilio del Giudice (1935), casertano, che vive a Santa Marinella (Roma). Del Giudice è stato pittore e filmaker, ha militato nei gruppi d’avanguardia attivi nella ricerca visiva degli anni 70 e 80 (alcuni suoi filmati sono stati selezionati per l’Archivio Storico delle Arti Visive della Biennale di Venezia e sono stati oggetto di studio e di esami al Dams di Bologna e nel corso di Storia del Cinema presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Trieste). Dopo le raccolte di racconti (Eventi Precipitati, Storie Terrestri e Non), è approdato al Romanzo nel 1998 con Morte di un Carabiniere (ed. Minimum Fax), ha pubblicato, poi, nel 2000 Città Amara (ed.Minimum Fax), nel 2004 Bloody Muzzare’ (ed.Leconte) e nel 2006 La Vita Incagliata (ed. Leconte).

Oggetto di questo post è, appunto, il suo romanzo più recente (La vita incagliata): il protagonista è un ragazzino del Sud, figlio di un camorrista. Ce ne fa cenno lo stesso Del Giudice, qui di seguito.

Seguiranno alcuni brani estratti dall’opera e una recensione di Sergio Sozi.

Considerati anche i precedenti post che hanno affrontato il tema letteratura e infanzia o letteratura e adolescenza ne approfitto per lanciare un dibattito collaterale a quello che avrà per oggetto questo libro.

Vi domando: fino a che punto la letteratura è in grado di cogliere il disagio di infanzie e adolescenze turbate, se non dilaniate, dalla ferocia di certi ambienti sociali?

(Massimo Maugeri)

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di Attilio del Giudice

Ho pubblicato La Vita Incagliata (ed. Leconte) nell’aprile del 2006, il romanzo, con una postfazione di Francesco Piccolo, è costituito da cinquantadue capitoletti. Qui, nello spazio, che Massimo Maugeri mi offre su Letteratitudine, ne propongo quattro, fra i primi. Spero che possano introdurre il mondo di Nino (il protagonista e narratore). Li faccio precedere da una breve nota, (fu richiesta dall’editore per un risvolto di copertina), che è, in qualche modo, una dichiarazione di intenti.

Caro lettore, forse, prima di acquistare e leggere questo libro, prima di fruire di una qualche qualità espressiva, vuoi sapere quali siano state le intenzioni dell’autore. Si sa che le intenzioni sono una piccola cosa fallibile e un romanzo, una volta scritto, aspira ad andare oltre e a camminare per conto suo, ma per quel po’ che possono valere, te le dico in due parole.Ho inteso parlare di un ragazzino di dieci anni e, attraverso il suo linguaggio,della sua condotta psicologica: le inquiete morbosità di adolescente, la levità, gli affanni; attraverso i suoi affetti e i suoi rapporti umani, ho inteso parlare di una comunità contadina, arcaica in alcuni riti e valori, ma brutalmente ammodernata dalla cultura del sopruso e della violenza. Un concentrato di drammatiche contraddizioni, un disagio nella vita civile che investe intere regioni del Mezzogiorno. Questo non era il mondo della mia infanzia lontana (altre, semmai, furono le lacerazioni), ma mi sono convinto che gli scrittori del Sud e anche i più umili facitori di storie non possono eluderlo, se vogliono rinforzare le esili e scabre ragioni della scrittura narrativa col peso della realtà e cercare l’incontro coi lettori su un terreno più sicuro.

a. d. g.

http://attiliodelgiudice.wordpress.com

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LA VITA INCAGLIATA

Maestre

1

Da dieci giorni abbiamo una nuova maestra. La nuova maestra parla tischitoschi, perché viene da una città dell’Alta Italia che si chiama Forlì, e tiene la faccia uguale uguale all’Arcangelo Gabriele che sta pittato nella chiesa di Santa Rita, subito entrando a destra.La nuova maestra ci ha detto che faceva giusto un anno da quando ammazzarono a Vincenzino Laquaglia e il fratello più grande nel bar California.

Vincenzino Laquaglia era un nostro compagno, un tipo vispo, che rideva sempre e faceva, di nascosto, le pernacchie al Signor Direttore.La nuova maestra ci ha detto che nessuno, delle otto persone che stavano nel bar California, ha dichiarato ai carabinieri di conoscere gli assassini e che noi dovevamo scrivere le nostre riflessioni.

Io ho fatto le riflessioni e poi ho scritto: “Chi sa, deve parlare! Se no, è scurnacchiato.”

Ho fatto subito subito, così, dopo, mi sono messo a penzare a lei, alla nuova maestra.

Io la penzo sempre alla nuova maestra. Per esempio, penzo che stiamo noi due soli in campagna, e io ci dico che mio padre ci dà un sacco di mazzate a mia madre. E quella volta che io ci ho detto a mio padre: “Mo la vuoi finire?” lui dicette che ci avevo mancato di rispetto e mi dette le cinghiate sulla schiena, che ne tengo ancora i segni.

Allora, la nuova maestra vuole vedere le cicatrici, io alzo la maglia e lei si mette a piangere e mi dà un sacco di baci dolci dolci.

Invece Michele, che è il mio compagno di banco, dice che la nuova maestra è troppo secca e che a lui ci piace di più la maestra che ci stava prima.

La maestra che ci stava prima era chiatta e gridava sempre e, quando si arrabbiava con uno di noi, si faceva rossa rossa e diceva: “Mo ci hai scassato a minchia!”Però a Michele ci piace di più la maestra che ci stava prima, perché, quando si sedeva, teneva sempre le cosce aperte, che si vedevano pure le mutande.

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Panna e cioccolata 2

Oggi è morta la nonna. Ieri sera stava una bellezza, invece, stanotte, nel tramente che dormiva, è morta. La mamma se n’è accorta per prima che non respirava più. Poi è scesa per preparare la zuppa di latte, café e savoiardi per mio padre, che è venuto a mangiare in cucina. Mia mamma piangeva e ha detto a mio padre: “E’ morta tua madre”. Mio padre subito s’è incazzato: “E che maronna, me lo dici mo che sto mangiando?”“E quando te lo dovevo dire? Io mo me ne so’ accorta”.

Mio padre ha finito di corsa la zuppa e poi è andato a vedere.

Mia nonna teneva settantadue anni. Cioè, lei diceva che teneva settantadue anni, ma mia madre dice che ne teneva settantasette. Però era molto scetata, e pure che era sorda come una campana, capiva tutte le parole, guardando il movimento della bocca, quando uno parlava. E tutte le volte che mio padre bestemmiava la Madonna, lei diceva: “Statti zitto, disgraziato, che Dio un giorno o l’altro ti fulmina!”

Io me lo aspettavo che Dio lo fulminava e ci penzavo sempre, specialmente quando pioveva e c’erano lampi e tuoni.Però, secondo me, Dio s’era un poco distratto, perché a mio padre non lo fulminava mai. Invece fulminai a Carmelo Cantatore, che stava raccogliendo le zucchine sotto la pioggia, se no marcivano. Carmelo Cantatore era uno bravo, con gli occhi celesti celesti e quando vedeva a mio padre, diceva sempre: “Don Alfo’, servo vostro, a disposizione, a disposizione!” Poi ho visto nella televisione che hanno fatto una legge per un tipo inzisto, che pure se ha fatto qualche reato, non deve essere punito. Allora, ho penzato che pure in cielo avranno fatto una legge che i tipi inzisti non devono essere puniti.

Mio padre è un tipo inzisto. Anzi, mo ti conto il fatto di don Salvatore, così si capisce che mio padre è un tipo inzisto pure lui.

Don Salvatore tiene un bar in paese in via Caduti sul Lavoro, dove ci sta la saletta del biliardo. Io ci vado qualche volta e mi metto a guardare i giocatori di biliardo, perché mi piace assai e appena mi faccio grande, voglio diventare giocatore di biliardo.

Sabato scorso, a giocare, ci stavano Murrone ‘u zuoppo e don Nicola Tariello, che sono due campioni e, ogni tanto, si sfidano e una volta vince uno e una volta vince l’altro e chi perde deve pagare o un café o un sanbittér.

Io mi ero preso un gelato di cioccolato con due palline, quelle che si fanno con la macchinetta e ci avevo fatto mettere pure un poco di panna e mi stavo allicreando a leccare e a guardare la partita.

A un certo punto, Murrone ha fatto un tiro veramente super. A tre sponde, ha preso il filetto e ha lasciato le palle impallate, che era una cosa sopraffina. Io mi sono un poco piegato sul biliardo per vedere bene come stava messo il pallino. Allora, don Nicola ha detto: “Guaglio’, levati alloca!” Io subito ho ubbidito, ma, nel fare la mossa di scatto, mi è caduto mezzo gelato sul tavolo.

“Mannaggia, non l’ho fatta apposta” ho detto io. Però, quelli, i giocatori, si sono un poco incazzati e hanno chiamato a don Salvatore per fare pulire il panno verde.

Don Salvatore, quando ha visto che là stava tutto sporco di cioccolata, ha detto: “Guaglio’ vattenne se no ti piglio a calci in culo!”

Il fatto che don Salvatore mi voleva pigliare a calci in culo, io ce l’ho contato a mio padre. Laperlà mio padre non ha detto niente, però ha fatto quella faccia brutta che fa quando sta con la luna storta e se la piglia con mia madre. Il giorno dopo, a prima matina, mi ha detto:”Guaglio’, vestiti, che dobbiamo uscire!”

“Dove andate a quest’ora?” ha detto mia madre.

“Sono cazzi nostri!” ha detto mio padre.

E così siamo usciti, io e lui. Lui camminava veloce e io ogni tanto mi dovevo fare una corsetta, se no rimanevo indietro. Siamo andati al bar di don Salvatore che apre presto, pure la domenica.

Don Salvatore stava a lavare per terra con lo straccio. Appena ha visto a mio padre, ha detto: “Don Alfonso, che onore! In che cosa vi posso servire?”

Mio padre ha detto: “Dammi una marsala e un cono di gelato al cioccolato!”

Don Salvatore ha messo il bicchierino di marsala sul bancone e ha dato il gelato in mano a me, che me l’ho messo a lecca’. Mio padre si è bevuto il marsala in un solo sorzo e, poi, ha detto: “Aspetta, non mangiare, vieni con me!” Mi ha portato nella saletta del biliardo e ha detto: ”Metti il gelato qua!” Cioè che lo dovevo mettere proprio al centro, dove si mette il birillo rosso. Don Salvatore stava là a guardare, allora mio padre ha detto: “Salvato’, mio figlio ha inguacchiato il biliardo. Tu che vuoi fare? Lo vuoi prendere a calci in culo?”

“No, no, nonziamai! – Ha detto don Salvatore, che ha capito subito – Io non lo sapevo che era vostro figlio. Perlamorediddio!”Allora mio padre ci ha dato due schiaffi in faccia. Uno con la palma della mana e un altro, veloce veloce, con la mana smerza. “Questo ti serve come avvertimento! E mo inginocchiati!

”Don Salvatore si è messo a ridere, ma no assai, un poco poco.

“Don Alfo’, ve lo giuro…”

Don Salvatore si capiva che si stava cacando sotto, ma non si inginocchiava ancora. Mio padre, allora, ha inzistito e ha detto: “Inginocchiati, omm’e merda!”Allora don Salvatore si è inginocchiato.

“E mo – ha detto mio padre – leccami le scarpe!”

Don Salvatore ha alzato la testa. “Lecca, strunzo!”

Forse don Salvatore avrà penzato: “Evvabé, mo mi trovo.”

E, così, ha leccato tutte e due le scarpe di mio padre.

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E come vi permettete?

5

Quando mia madre cucina i supplì di riso coi piselli dentro, e i crocché con la mozzarella di bufala dentro, allora si capisce che deve venire l’Onorevole. Perché, all’onorevole, i supplì e i crocché, come li fa mia madre, ci piaciono assaissimo.

L’Onorevole, quando viene, viene sempre di sera tardi, pure passata mezzanotte, certe volte. Arriva con la biemmevù blu, lucida lucida.

Con l’Onorevole viene pure uno, un poco tarchiato, che lo chiamano: “U’ ragioniere”, che porta le lente scure, che non se le leva mai, pure di notte.La machina la porta l’autista, Vittorio, che lo chiamano: “U Bambinello”. Però, non è bambinello, anzi è un pezzo d’uomo e tiene pure un poco di panza.Quando viene l’Onorevole, a me mi mandano a letto, pure se non me ne tiene. Mia madre porta la robba da mangiare nella sala da pranzo e, poi, se ne va a letto pure lei, perché quelli devono parlare di certi fatti importantissimi.

Vittorio, u’ Bambinello, no. Vittorio deve restare in machina a aspettare.P

erò, quando fa caldo, Vittorio si leva la giacchetta, che si vede il cinturone con la pistola e si mette a camminare sopra e sotto, e a parlare col cellulare, e a fumarsi le sigarette.

Mia madre, prima di coricarsi, ci porta pure a lui un piatto con quattro o cinque supplì e quattro o cinque crocché e una birra.

Una volta, io stavo nascosto dietro il muretto del terrazzo e loro non mi potevono vedere, io, però, li vedevo bene, perché c’era la luna.

Allora, mia madre teneva le mane impegnate, perché teneva il piatto in una mana e la birra nell’altra mana. “Questo è per voi!” dicette mia madre.

Bambinello, invece di prendere il piatto e la birra, mettette tutte e due le mane sul culo di mia madre. Mia madre si scanzò un poco e dicette: “Vitto’, e come vi permettete?”

Vittorio si mettette a ridere e dicette: “Angeli’, con voi nessuno può resistere!” Poi si pigliai il piatto e la birra.

Mia madre si fece una risella e dicette: “Non lo dovete fare più!”

U’ Bambinello prima si mettette a ridere e, poi, si mettette a muovere la lingua, come se se la voleva leccare tutta quanta a mia madre. Però lei non l’ha visto che faceva la mossa, perché già s’era girata per entrare in casa.

Io ho penzato che se ce lo dicevo a mio padre, mio padre lo sparava a Bambinello. Però, se ci dicevo che mia madre non s’era incazzata molto e s’era fatto una risella, lui sparava pure a mia madre. E se il fatto della risella, non ce lo dicevo, lui sparava a Bambinello, ma chi sa quanti pugni ci dava a mia madre, che non ci aveva detto niente a lui.

Perciò mi sono stato zitto.

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Un ottimo lavoro

6

Ieri sera tardi sono venuti: l’Onorevole, il Ragioniere e Bambiniello.

A me già mi avevano mandato a letto. Però, invece di nascondermi dietro il muretto del terrazzo, mi sono nascosto nella scala interna, che tiene una finestrella con la grata di ferro, che affaccia nella camera da pranzo, così di giorno entra un po’ di luce nella scala.

Ho aspettato che mia madre se ne andava a letto e senza fare rumore, piano piano, so’ sceso. Loro: mio padre, l’Onorevole e il ragioniere si sono abbuffati di crocché e supplì e si sono bevuti un sacco di birre. Poi mio padre ha levato dal tavolo i piatti e le bottiglie. L’Onorevole ha detto: “Allora, Alfo’, il materiale ci sta o non ci sta?”

“Ci sta, ci sta!”- Ha detto mio padre.

“E, allora, vediamo di che si tratta.” – Ha detto l’Onorevole.

Mio padre ha cacciato una chiave e ha aperto un armadietto, dove sopra ci sta il compactdisco, e ha preso un borza. Si è seduto, ha aperta la borza, che si apre coi numeri, e ha cacciato una busta rossa.“

Ecco il materiale!” – ha detto.

L’Onorevole ha aperto la busta e ha cacciato un sacco di fotografie. Si è messo gli occhiali e, appena ha cominciato a vedere le fotografie, ha detto: “Azzò! E questa, secondo me, non è ancora mestuata!”

Io questa parola non la so, però così ha detto. Sono sicuro, perché mio padre e il ragioniere parlano che si capisce e non si capisce, invece l’Onorevole parla forte, perché lui è abituato a fare i comizi in piazza e si capisce ogni parola.

“E qua – ha detto – si vede bene pure la penetrazione. Alfo’, questa quanti anni potrà avere?”

“Tredici, quattordici al massimo.”

“Noo! – Ha detto l’Onorevole – Quattordici non li tiene, e, forse, nemmeno tredici.”

Il Ragioniere si è andato a mettere dietro all’Onorevole, per vedere bene pure lui e ha detto: “Però, Onore’, a onor del vero, tiene nu bellu culillo!”

“Ah, su questo non ci sono dubbi. E’ invitante.”Allora si sono messi a ridere tutti e tre. Poi si sono messi a vedere le altre fotografie e, ogni tanto, dicevano: “Azzo!”

“E noi – Ha detto l’Onorevole – con questa robba lo teniamo in pugno, lo incastriamo una volta per sempre”.

Pareva contento l’Onorevole e ci ha detto a mio padre: “Bravo! Bravo Alfonso, hai fatto un ottimo lavoro!”

Si vedeva che pure mio padre era contento.

Mio padre all’onorevole ci porta rispetto. L’Onorevole ci dice a mio padre: “Mi raccomando, Alfo’, non fare cazzate!” E mio padre non si incazza e ride un poco e risponne: “Non vi preoccupate, Onore’, state tranquillo!” Dice così, perché ci porta rispetto. Però, questa volta, l’Onorevole non ci ha detto:” Non fare cazzate!” ma ci ha detto: “Bravo, Alfonso, hai fatto un ottimo lavoro, così il fetente sta in mano nostra completamente e senza spargimento di sangue.

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Modeste glosse a La vita incagliata di Attilio del Giudice (Leconte, Roma 2006)

di Sergio Sozi

Di questi tempi, leggere la nuova narrativa italiana è come fare una scelta di campo, soprattutto dal punto di vista linguistico: o con l’abusato, sciatto, impersonale italiano medio di molti, o nelle intricate vie lessicali dei realisti – o di chi al realismo s’ispira in un modo o nell’altro. Pochi autori stanno fuori da questi due schieramenti o dimostrano acume interpretativo, pur restando nei ”correntoni” attuali.Dunque, sarà perché il sottoscritto (almeno come narratore) non riesce a soggiacere a questa banale miseria generalizzata; sarà per via di una simpatia istintiva che queste pagine inducono in me; o forse sarà a causa della mia convinzione secondo cui ogni opera contemporanea debba esser vagliata alla luce della Storia Letteraria italiana. Ne sia quel che ne sia il motivo di fondo, credo di non dire una sciocchezza a cuor leggero se ora dichiarerò la riuscita operazione drammaturgico-letteraria consistente nella quarta opera narrativa di Attilio Del Giudice, scrittore casertano prima in forza alla casa editrice romana Minimum Fax e ora pubblicato dalla, sempre capitolina, Leconte. E come mai rappresenterebbe un’operazione drammaturgico-letteraria, questo La vita incagliata? Diversi sono i motivi per vederlo cosí: l’aspetto drammaturgico sono i capitoli-sequenza, scritti nel proprio diario dalla voce narrante, il bambino campano Nino: dei quadretti di quotidiana sopravvivenza che tanto ci rimandano visivamente al neorealismo di Pasolini. L’aspetto strettamente letterario è l’accuratezza della scrittura, poiché resta chiara l’elaborazione letteraria dei termini dialettali campani, trascritti con le giuste regole segniche dell’elisione eccetera. Le forme espressive dialettali (largo uso dell’erroneo ausiliare ”avere”, del pronome personale ”ci” per ”gli”, ecc.) sono veraci e credibili. Nel complesso ne risulta un italiano esteticamente vicino a quello di Gadda e Camilleri – mutatis mutandis naturalmente.

Ma il vero lato interessante di questa tristissima e commovente storia risiede nella violenza della quale è intrisa la vita di Nino, nove anni d’età (un bambino che sarebbe l’alter ego di Giamburrasca – tanto egli resta scanzonato e puro – se non gli fosse toccata la malaugurata sorte di aver un padre brutale e delinquente in un’Italia del Sud tremendamente novimillenaria): la violenza e le connesse perversioni qui divengono quasi una pagana accettazione della bruttura moderna, quasi come se l’incontro con uno schifoso riccone pedofilo (Al Mitreo, p. 67) fosse la rievocazione di un rito, appunto, concernente il dio Mitra. Il fondamentale particolare che, però, priva di fascino mitico la violenza serpeggiante in primo piano nel corpo di questi racconti, sta nella deficiente intelligenza del mondo in cui Nino, anima candidissima, nuota senza provarne disgusto: una provincia ottusamente autoreferenziale (direi autistica), depressa e affamata di spersonalizzazione e denaro, una provincia che non vede l’ora di dimenticare qualsiasi propria origine antica per buttarsi anima e corpo nella pomposa straniazione filo-americana. Niente di diverso rispetto alla provincia lombarda, umbra o sarda, dopotutto. Dunque niente di nuovo rispetto all’Italia post-bellica: violenza, sradicamento e solitudine di massa.

Dunque, in questo senso, La vita incagliata non straborda, per fortuna sua, nel mero ritratto della decadenza, processo spirituale e storico che purtroppo vediamo anche senza andarci a leggere dei libri che lo descrivano; appunto, il neorealismo che ne costituisce le fondamenta evita di cadere nella trappola dell’esagerazione e dell’iperbole ma ricorre piuttosto (secondo me salvificamente) alla letteraria tenerezza, alla poetica dolcezza con le quali Nino acquisisce il suo vero volto spirituale: quello, all’apparenza neutro come un foglio di carta bianco, che ci offre la soluzione per i mali italiani profondi e piú labirintici: resistere dentro, solo dentro di noi – nel limbo della nostra complessa, atavica semplicità – a questa brutale privazione del vissuto collettivo che ci costringe a rinunciare alla cura dell’infanzia (soprattutto a quella che abbiamo sempre viva nel cuore) in favore di una stonata idea della vita adulta.

E un indiretto manifesto della malsana crescita (degli altri, di molti altri italiani), questo romanzo-centonovelle dipinge, a veder bene, per mezzo della buona crescita che (alla faccia delle circostanze aberranti) il nostro Nino forse avrà. Anzi che sicuramente avrà, sempre che riesca a sopravvivere al padre insanus senex da cui è maltrattato e agli altri stolti. Molto plausibilmente noi tutti, gli adulti. Adulti solo nell’egoismo e nell’inciviltà.

Sergio Sozi

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sabato, 1 dicembre 2007

EH… QUANDO C’ERA LUI! (di Sergio Sozi)

Vi è capitato mai di assistere a “scenette” divertenti o tragiche o grottesche o paradossali mentre eravate in fila in banca o alla posta? Sicuramente sì.

Bene! Vi invito a raccontare qui i vostri aneddoti “da coda”. Lo spunto ce lo offre l’incipit di questo inedito di Sergio Sozi (nella foto) che ho il piacere di proporvi.

Sozi è l’autore della raccolta “Il maniaco e altri racconti” (ne avevamo già parlato qui e qui).

Leggete il racconto e commentatelo. Poi raccontate i vostri aneddoti “da coda”.

Non ne avete? Inventateli!

A volte la fantasia è così ricca che diventa più vera della realtà.

Massimo Maugeri

P.S. Si precisa che il racconto che segue non è “integrale”, ma uno stralcio abbondante.

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A Franco Franchi e Ciccio Ingrassia (in memoriam)

Quando in banca si radunano i vecchietti che depositano le pensioni ritirate la mattina stessa alle Poste, si forma un assembramento paro paro a quello dantesco sulla riva dell’Acheronte, soltanto più loquace: tra malanni sempre incurabili, nipoti sempre degeneri, sciagure stradali e varianti di queste amenità, potremmo affermare l’assoluta salubrità della narrativa orale contemporanea. Peccato che spesso, in siffatte occasioni, manchino le qualificate orecchie di un qualche scrittore per trascrivere il tutto e così smentire platealmente quei critici letterari, inveterati pessimisti, affermanti il disfacimento del romanzo moderno.

Il giorno sedici dicembre del Duemilaotto, però, verso mezzogiorno, Euterpe Santonastasio non è che si divertisse troppo a seguire la borbottante fila del Credito Nazionale, nonostante l’acida vedova dietro a lui e relativa giovane accompagnatrice:

<<Mamma… hai preso le pillole verdi e gialle delle undici?>>

<<Quelle rosse e blu, intendi, vero? Sì le ho prese, anche se sono affari miei.>>

<<No, mamma: alle undici ti toccano quelle verdi e gialle. Le altre dopo pranzo. Va be’: per oggi invertiremo l’ordine, ma non ti ci abituare, che fa male.>> E la scruta con severità.

<<Invece mi fa bene portare a spasso i tuoi figli mentre stai in ufficio tutti i santi giorni, domenica compresa.>>

<<Ti sei offerta tu…>>

<<Che diavolo c’entra: un tempo mi offrivo spesso anche a tuo padre, la sera, ma questo mica voleva dire che poi fossi obbligata a restare incinta ogni nove mesi!>>

<<Paragone insostenibile, mamma.>>

<<Direi che qui d’insostenibile ci siano i tuoi tre divorzi con quattro figli a tuo carico. Oops! Scusa: a mio carico.>>

Santonastasio, i bimbi li considera un po’ oleograficamente quasi partoriti dalle cicogne o dai cavoli a primavera, dunque si guarda bene dal mettere il dito nella piaga delle due donne, sebbene immaginiamo quanto dentro di sé si divida fra il sorriso e la riprovazione. A complicare la faccenda ci pensa invece lo scheletrico matusalemme che lo precede nella coda, uno dall’evidente accento laziale:

<<Bella famigliola, non c’è che dire!>> Altisòna costui con uno sguardo neronero come neanche Ulisse mentre infilzava i Proci. Mezzo branco si volta e, tacendo ovviamente il bersaglio di tale commento, una nervosa tizia sugli ottanta chili alza la mano in stile declamatorio (Augusto in cotta d’arme alla plebe) e, alle spalle delle due incriminate, scandisce:

<<Ha parlato sant’Ignazio di Loyola. Ma torna a zappare, che ancora mando i soldi ogni mese ai tuoi figli, fallito!>>

<<Questi sono affari privàti.>> Replica lo sdentato laziale alzando minacciosamente il bastone.

<<Privàti un corno.>> La voce maschile proviene da qualche indefinibile punto della ressa, verso la porta d’ingresso della banca. <<Lo sanno tutti nel palazzo che avete otto creature date in adozione da Palermo a Milanomarittima! Vergogna!>>

<<A Milanomarittima>> dice tempestivamente un altro uomo <<io ci butterei te agganciato ad un siluro. Così magari vai a far compagnia agli albanesi che non s’aspettano altre sventure. Pensa piuttosto a pagare il condominio.>>

Una palla di carta vola fino a colpire la spalla destra di Santonastasio: <<Tié!>> enuncia in perfetto calabrese l’ugola della distante lanciatrice <<prenditi anche la mia pensione, Carlo Poropat! Basta che la pianti di scassare la macchina di mia figlia ogni volta che parcheggi.>>

<<Ma fammi il piacere, pazza da legare: io le macchine dei terroni manco le sfioro, che m’inquinano l’anima al solo vederle.>>

<<Bello tu, invece: spècchiati!>> Osserva chissà chi nella fila affianco, quella dove si nota una maggior presenza di clienti in età da matrimonio. La voce è triestina, giovanile e muliebre, e starebbe per continuare con qualche ulteriore particolare descrittivo non troppo edificante, ma viene interrotta da un vero e proprio ultimatum:

<<Egregi signori… Ecco: adesso che vi siete sfogati tutti, alzate le mani e chiudete le gentili fauci, per favore.>>

La accompagna un’indiscutibile bocca di fuoco détta pistola a tamburo, levata al soffitto come la torcia di un tedòforo.

Primo capitolo

<<E questo cosa cavolo c’entra, scusi?>> Ardisce comunque polemizzare un incosciente tizio da un altro angolo della vasta sala.

Un qualche brusio di ghignate serpeggia tra la folla, oramai in procinto di far mente locale sebbene ancor divertita da tal insperato carosello – tipica doppiezza italiana ironico-drammatica.

<<Il mio collega c’entra perché entrambi vorremmo rapinare questa banca. E se non ve ne state quieti un attimo, mi sa che butto la bomba.>> Precisa timidamente un’ennesima lingua maschile. Questa volta gli si fa il vuoto attorno, poiché costui agita una borsa nera ben poco promettente.

Quindi salta su una giunonica babbiona ingioiellata che recita trionfante: <<Bravi! Portategli via tutto, a ’sti ladri di banchieri!>>

Il rapinatore cólla pistola la abbassa involontariamente ad altezza d’uomo; ha l’aspetto d’un coleottero: secco inguastito e mezzo curvo, moro ardesia tinto; età apparente, oltre i sessant’anni. E tace. Il suo compagno, all’incirca coetaneo, posa la borsaccia letale davanti a sé e intanto commenta: <<Un po’ di contegno, per Dio…>> È meno esile di corporatura, anzi si direbbe ben in carne, ma flebile nel tono vocale.

Lo smilzo ha un baritonale sussulto di realismo e <<Strani questi signori>> commenta. <<Abbiamo detto mani in alto!>> Non arriva ad urlare per pochi decibel.

Finalmente si vede un’alberaglia di dita artritiche, incomplete, pingui, insomma multiformi ma comunque tese verso il soffitto. Il magro pistoluto si appressa allo sportello, dove una piacente cassiera ha appena smesso di scrivere qualcosa su di un foglio, e constata:

<<Stavolta attingo alle pensioni di tutti quanti e pure alle non-pensioni, purché in contanti. Sia così gentile da sistemare le banconote in questa busta sùbito, altrimenti il mio compagno farà esplodere la bomba che ha nella borsa, o io, diciamo, scusi la volgarità, manderò all’Oltretomba qualche osso da sepoltura fra i quippresenti.>> Poi, rivolto all’altro che gli sta vicino, sottovoce: <<Fai mettere tutti costoro a sedere, Aligio: non vedi che stanno scomodi?>>

<<Giusto.>> Osserva il cicciottello. <<Abbiate la compiacenza di accovacciarvi, signori.>>

<<Che? Non si capisce un’acca quaggiù!>> Replica la matrona ingioiellata di prima con accento un po’ meno gaudente ma sempre altero.

<<Uff… Mentre svaligiamo la banca, ci piacerebbe vedervi seduti, dice il collega!>> Ripete il ciccio oscillando la borsa senza volere. Ognuno si accuccia. Sporadiche chiacchierette quasi inavvertibili.

<<Aligio: io ho da fare qui allo sportello… ti prego: dì loro di piantarla con le grane, che abbiamo fretta. Magari… ecco: intrattienili con qualche facezia orrorifica e intanto fatti consegnare il… valsente che hanno in tasca, eccetera eccetera: ori, preziosi…>>

Aligio si volta e, vista la platea seduta: <<La sapete quella storia che avvenne, nella notte dei tempi, in un bosco qui vicino? In… Istria?!>> Quasi balbetta.

Silenzio glaciale. Poi uno suggerisce: <<La storia di Casimiro della Torre, dice?>>

<<Casimiro… hem… un attimo, scusi.>> Replica Aligio nell’avvicinarsi all’altro bandito, in piena riscossione, così chiedendogli ansiosamente: <<Che accipicchia ne so, io? Dimmi Favonio: c’è una tradizione locale su tal Casimiro?>>

<<Cosa vogliono?!>> sussurra acido il pistoluto in risposta <<Cappuccetto rosso andrà benissimo. E non chiamarmi per nome, ch’è sconveniente se nessuno ci ha presentati ufficialmente. Ti sei rimbecillito, Aligio? Vogliamo far la figura dei cafoni?>> Poi, rivolto a tutti, prosegue un po’ rude: <<Facciamola breve: zitti e mosca! La pazienza ha un limite. Io incasso e lorsignori godranno della fiaba di Cappuccetto rosso secondo quanto tramandato dai fratelli Grimm. O Andersen, o Calvino. Perrault magari.>>

<<Sì… Mamma oca!>> Provoca un impertinente in sala.

<<Si qualifichi!>> Riponde piccato Favonio il magro.

<<Voglio dire:>> prosegue il provocatore <<sono cinque minuti abbondanti che rapinate. Non sarebbe meglio sbrigarsi? Parlo da addetto ai lavori.>> Si tratta della voce raucosmollata del nostro ex carabiniere. Qualcuno se la ride sottoibaffi. <<Oltretutto…>> continua Euterpe <<…alla vostra età…>>

<<Alla NOSTRA età>> constata Favonio <<mica tutti si rassegnano a crepare con stretto fra i denti (finti) l’ultimo assegno di quiescenza, caro l’amico mio.>>

<<Ma io quello lo conosco,>> interloquisce serio serio uno stravecchissimo seduto ad un paio di metri da Favonio e Aligio, <<è il poeta! Il professor Favonio de Brutti! Come sta la signora, commendatore barone, tutti bene a casa?>>

Un buonumore stravolgente, presa la bocca dello stomaco a ognuno dei presenti, erutta fuoricontrollo, contagiando persino la cassiera piacente. ”Settanta persone che ridono in banca: roba mai vista! Vediamo come faranno a rimettere la situazione nei binari della storia poliziesca.” Medita Santonastasio, il quale comunque si associa di buon grado al delirio senil-collettivo.

Il menzionato commendatore barone, nel diluvio degli scompisciamenti, prende per il collo Aligio e lo sprona: <<Non dovevi pensare tu alle tasche dei clienti? Che razza di consuocero sei, fannullone e debole di carattere!? Io debbo sparecchiare gli uffici e la cassaforte, a te sta il controllo della guardia giurata e della plebe. Oltretutto la guardia oggi manco c’è, vedi che fortuna? Avanti: appoggia la borsa con l’ordigno su quel bancone>> ed indica la cassa numero uno vicino a sé <<e passa fra ’sti rincretiniti a ripulirli. Intanto vai con Cappuccetto rosso: e sii crudele con il lupo, capito? Viviamo nel ventunesimo secolo, ragazzo!>> L’altro, diligentemente, sbatte senza troppi complimenti la valigetta ove indicatogli.

Secondo capitolo

Sedatosi spontaneamente il tumulto, anzi diremmo l’ilarociclone: <<Mo’ basta! Consegnate tutto quel che avete al mio amico e con sveltezza!>> Proclama il segaligno nobiluomo mentre si affaccenda alla cassa numero due. Aligio inizia dunque a ritirare borsellini, orologi e gioie. Suda con costanza da quando son cominciate le danze e, impacciato com’è, deve costargli molto abbassarsi e alzarsi di continuo e al contempo parlare:

<<Grazie, signora: Dio glie ne renda merito.>> Farfuglia ad una specie di rancida famfatàl, mentre insacca un paio di anelloni zingareschi; <<Scusi, eh…>> Si giustifica agli occhi di un trippone incravattato dall’aria ingegnerile; <<Molto obbligato.>> Ringrazia dimessamente un tizio antipatico sulla trentina per il portafogli. E via dicendo.

<<Lenti come i treni delle Effeesse. Secondo me finite al Coroneo.>> C’è bisogno di commento? Questa è la raucedine bassa e obliqua del nostro capitàno in congedo!

<<Dove finiamo??>> Rimanda il ciccio bloccando a mezz’aria una catenina di similoro.

<<Stiamo freschi: il carcere di Trieste. Almeno ci intrattenga come promesso, no? Che, tiene le corde vocali malate, rapinato’?>>

<<Rapinatore sarà lei. Io ho la laurea in Lettere. C’era una volta, in una solitaria casetta incatramata di rosso e con le piastrelle rosse sul tetto a capanna – mentre invece… uff!… l’unico comignolo era gialloinvidia…>>

<<Ma solo le rapine, è capace a fare, scusi, lei.>> Lo interrompe Santonastasio con tono di constatazione tecnica: <<Dove stanno mai i catrami rossi… e le piastrelle sui tetti a doppio spiovente. Se desidera elargirci un sottofondo musicale come quello degli ascensori amerrecani lasci perdere: io sto meglio in silenzio, mentre perdo la pensione. La laurea all’università della terza età non conta, durante un delitto che sia un evento speciale, elegante e fatto comesideve, mi consenta. Sforzi la fantasia, su.>>

<<Bravo!>> Si associa una signora nella calca che, repentina quanto un lampo, si alza e acchiappa la borsabomba del dinamitardo, levandola a due mani sopra di sé. <<Dài, delinquente: prova a prenderlo, il tuo tritolo!>> E la passa a un signore, che agilmente la dà indietro a un altro e via di séguito, senza pausa.

<<Macché siete matti?! Fermi! Boni, state bboni! Mi sgualcite la cartella di papà…>>

<<Ah! Ah!>> Ironizza una ragazzotta. <<Rischia di fare il botto con noi e pensa alla borsa. Apriamola, forza!>> E se la fa passare senza curarsi dei tentativi di Aligio, il quale goffamente tenta d’intercettare l’oggetto investendo senza risultati – patapùmfete! – qualcuno di a lei distante.

Aligio, a terra bocconi, con il sacco della refurtiva semivuoto stretto nella mano destra e orecchini, brillanti, segnatempo e braccialetti sparsi a corona d’intorno, accenna un moto di pianto: <<Però… la pistola di Favonio, il professor de Brutti, è caricata con pallottole vere, capito, maramaldi, dispettosacci?! E ridatemela, sennò lo chiamo e quello vi spara di sicuro.>>

Invece la valigetta in cuoio, nera, piena strabordante di qualcosa d’inusuale, viene sottoposta all’impietoso vaglio della ragazzotta triestina che l’ha catturata:

<<Ma… queste sono… cambiali!>> E le estrae ad una ad una sparpagliandole, fra lo sbigottito silenzio del cronicario. <<Tutte a suo nome: c’è scritto Aligio Carmentieri di Quintavalle. È lei, no?>>

<<L’ultimo principe di Quintavalle, così brutto?>> Infierisce bonariamente una anziana piccoloborghese forse napoletana. <<Mi ricordo quando, nel Sessantatré, sposò la figlia del re di Danimarca… come si chiamava…>>

<<D’accordo: lasci stare.>> Echeggia un’anima pia.

L’uomo intanto tace, col muso stretto fra dieci polposi ditini e sempre all’in giù, pavimentobaciante.

<<Signore e signori,>> continua la ragazza <<osservino: seicentodieci euro… trecentotré… milleottanta. E… Oddio…>> e rovescia un mare di foglietti vuotando la borsa. <<Con chi ha lei questi debiti? Non sarà mica proprio questa banca?>> Sarà stata almeno una mezza migliaiata di pagherò.

<<Con me. Soddisfatta la vostra curiosità da rotocalco? E adesso basta con gli scherzi.>> La tenorile, perfida voce di Favonio de Brutti convinse ciascuno. Teneva in una mano una busta per l’immondizia colma di biglietti di banca e nell’altra la rivoltella, provenendo dagli uffici che stanno sul retro. Poi cambia registro: <<Sursum corda, gentili signore e onorevoli signori: aiutate Aligio a raccogliere il bottino in quattro e quattr’otto e pensate che il mio povero compare nonché consuocero, grazie a questo audace colpo, conserverà intatte le proprietà ipotecate. Io, d’altro canto, con questi soldi potrò a malapena pagare a questa banca i miei debiti. Tutto viene e tutto torna agli istituti di credito, in Italia: la patria degli strozzini.>> Altro divertito cicaleccio in sala, sempre sotterraneo.

<<Però… i debiti li avete fatti voi. Se aveste speso meno… eh… I lussi costano.>> Osserva Santonastasio, il quale, pur non disdegnando qualche arretrato conticino, aborra gli oneri finanziari veri e propri.

A tale rimprovero, Aligio rialza la testa: <<Mica giochiamo a carte come i nostri progenitori, noi!>> Contesta lamentosamente ad Euterpe, mentre il pubblico impietrisce. <<Ci hanno mangiato tutto gli industrialotti dopo la guerra. La Prima dico. Verso il Ventinove. Be’: non proprio tutto… almeno la metà.>>

<<Ciò non spiega un cappero verdeverde: come mai state in queste condizioni?>> Rilancia una spietata pugliese con occhiali alla Wertmüller e un terzo dell’età apparente di quest’ultima.

<<Avete mai sentito che un poeta latino o greco abbia vangato i campi per obbligo e non per semplice mantenimento del vigore fisico?>> Provoca altezzosamente il commendator Favonio, posando il sacco a terra. <<No, vero? Ebbene: noi due, pur avendo prole e moglie, abbiamo scommesso la testa sulla letteratura: sono trent’anni che siamo costretti a scrivere gratis su tutti i giornali italiani – e i periodici, eccetera. È il nostro unico lavoro ma nessuno ci dà un soldo, perché la gente pensa: questo, se mette l’ingegno nello scrivere e basta, vuol dire che è ricco sfondato, mica lo vado a pagare, fossi scemo. Dunque, finché ci siamo potuti mantenere coi possedimenti – e noi i lavoranti dei campi li paghiamo, sapete? – la cosa è andata. Poi… Aligio s’è indebitato con me, che ho qualche ettaro in più di lui ed io, senza mai dirgli niente per non preoccuparlo, ho cominciato a prendere soldi da questa benedetta banca. Ma non abbiamo mai, dico mai, licenziato un contadino e mai abbiamo sgarrato di un centesimo di lira dalla paga sindacale… anzi… più che sindacale, di solito. Oltre il massimo, vanno pagati coloro che ci nutrono a forza di braccia!>>

Si leva qualche timido applauso. Un decrepito occhialuto però non concorda affatto: <<Ma non li vedete i nostri figli, voi signorotti decaduti che vi permettete anche di rapinare le banche? Che valore hanno, per voi, i figli della gente comune che devono rassegnarsi ad un lavoro alienante e opprimente, senz’altra prospettiva se non quella di sprecare il fior fiore degli anni dentro un ufficio moderno con le luci al neon, in una orrenda città come la nostra Trieste o anche Roma, Napoli, Milano? Noi piccoloborghesi, oggi, riempiamo di menti sfruttate i palazzoni delle periferie italiane, non voi scrittori e aristocratici. Sia ben chiaro. Noi diamo la carne a macellai bancari e speculatori borsisti. L’alta finanza si nutre del sangue nostro.>>

<<E perché non vi ribellate, allora? Perché accettate…>> replica con calore Favonio de Brutti, incurante d’uno strano brusio <<… Perchè accettate meschinamente il lavoro nero e le paghe inadeguate, la vita assurda, blindata, che siete costretti a portare avanti nelle vostre città o nei vostri paesi delinquenziali e mafiosoidi? Unitevi e chiedete giustizia, no? Siete il popolo! La democrazia l’avete fatta voi, o almeno la godete ora voi, dopo che i partigiani ci hanno lasciato la pelle negli anni Quaranta. E vi ritrovate ancora nel Duemilaotto a far la solita figura dei borghesucci ottusi ognun per sé e Dio per tutti! Suvvia! Se è vero – ma mica troppo, eh! – che noi aristocratici siamo tutt’ora dei privilegiati, voi restate le teste di legno che eravate duecent’anni fa. Voi non meritate la democrazia. Anzi: tutti noi italiani non la meritiamo, perché siamo degli immaturi e degli egocentrici, dei burini infantili che abbisognano della frusta e delle minacce per rispettare la cosa pubblica. Siamo dei sottosviluppati europei. E pensare che l’Europa l’avremmo fatta noi con le mani dei nostri antenati! Eppoi l’abbiamo svenduta: ai diavoli americanacci che abbiamo dentro di noi, alla sete di commercio di noi stessi, all’istinto autodistruttivo e decadente che ci propone il sangue del nostro sangue antico, eterno.>>

<<Eh… Quando c’era Lui!>> Ammette con sincerità un ragazzo moro sulla ventina scarsa con accento lombardo e naso a promontorio.

<<E che, pensi che il Duce potesse contrastare da solo la nostra bastardaggine? In vent’anni mica si dànno antidoti sufficienti allo scorrere dell’anarchia, sai, giovincello? Ne servono almeno sessanta, come in Iugoslavia. Anzi no… forse ne servirebbero duecento… mille, di anni.>> Risponde Favonio de Brutti pacatamente.

<<Serve un solo principe illuminato e filosofo, credetemi.>> Vedete? È Santonastasio. <<Anzi, preciserei: urgerebbe qualche dio che concedesse le condizioni terrene acché un filosofo illuminato oggi potesse riportare noi italiani ad un regime di condotta complessiva – morale, fisica, intellettiva, onirica – quale esso era nella latinità dell’epoca monarchica. Ma.>> E l’ex milite fa una pausa significativa. <<Ma adesso bisogna risolvere questo macello: scusate… Vedo i miei colleghi fuori dalla porta della banca. Siamo circondati, immagino.>>

<<I… suoi colleghi?>> Interviene Aligio con evidente maremoto di sudore.

<<Ex colleghi: sto in pensione. Carabiniere a riposo.>>

<<Ah… grazie: li ha chiamati lei col telefonino.>> Insinua gaudendo la matrona ingioiellata.

<<Il telefonino io non lo tengo, draga gospà.>>

<<Drago femmina a me? Screanzato. E chi gospò: io non ho mai gospato.>>

<<In sloveno vuol dire cara signora.>> Precisa Euterpe.

<<Scusate>> s’intromette Favonio tesuccio <<ho inteso male o siamo accerchiati dai tutori dell’ordine?>>

Alla conferma collettiva – un annuimento – dei settantaerotti clienti, lo stesso Favonio gesticola senza risparmiar fiato: <<Controlla le porte, Aligio! Serra tutto. Entriamo nella pellicola merrecana!>> Esplode.

Terzo capitolo

<<Ma non poteva tenerla per sé, ’sta notizia?>> Sussurra un tizio sveglio ad Euterpe. <<Così i rapinatori sarebbero usciti e i carabinieri li avrebbero beccati in un soffio, no? Invece adesso… questi due suonati ci prendono in ostaggio. E finisce a carneficina.>>

<<Ué, Apocalisse: ma li ha visti in faccia? Questa è gente da Monte di Pietà, altro che sangue. Non si preoccupi. Meglio tenere sotto controllo la polizia.>> bisbiglia Santonastasio. Intanto, dai finestroni della banca, si intravvedono i movimenti sulla strada: tante logore fisionomie da sbirri in borghese e mucchi di autocivette blindate. ”Con il solo loro nervosismo, innescherebbero una carica di plastico da un chilometro… altro che prudenti agguati.” Pensa ancora il Nostro.

<<È tutto chiuso?>> Domanda Favonio al consuocero, ricevendone un immediato annuimento. Entrambi stanno posizionati in piedi, Favonio l’arma in mano, al centro della vasta sala: come degli scalcinati guitti, fra i titubanti spettatori di un teatrino parrocchiale che attendono la prima battuta per fischiarli a ragion veduta. Un troppo indifferente silenzio regna nell’ambiente per qualche striminzito secondo, finché il direttore del Credito Nazionale non chiede: <<Allora?>>

A trovare il coraggio per una risposta è il solito Favonio dal barocco eloquio:

<<Quantunque l’imprevisto ci ponga un po’ in difficoltà, io direi che… eh… come fare altrimenti? Dovremo presto comunicare telefonicamente con quei signori là fuori, spiegando che adesso siete tutti sotto la minaccia di questa pistola. Lei cosa farebbe nei miei panni, direttore?>> Adesso suda anche lui.

<<Io avrei evitato di ridicolizzarmi.>> Replica Euterpe al posto dell’interpellato. <<Cosa crede di trarre da un rapimento a scopo di rapina fatto così – scusi – coi piedi? E anche se riusciste (per assurdo) a filarvela senza farvi bucherellare dai tiratori scelti dell’Arma, rifletta: sappiamo tutti come vi chiamate… mica crederete di andare a godervi i soldi a Cuba come negli anni Settanta.>>

<<Ha ragione lui, Favonio.>> Ammette Aligio guardando il collega per la prima volta dritto negli occhi. <<Diglielo, su… è meglio che sappiano tutto tutti, a questo punto: se no qui finisce in tragedia.>>

<<D’accordo, Aligio. Dopo però, cioè entro un minuto, dobbiamo chiamare la polizia prima che decida di entrare a forza. Ecco, signore e signori…>> Tituba cercando di organizzare i pensieri. <<Devo confessare che quanto avete capito della nostra situazione patrimoniale, del nostro esser pensionati come voi e del fatto che non faremmo male a una mosca è tutto vero… eccetto un particolare, che vi rivelerò solo se prometterete di aiutarci a risolvere insieme la situazione con il minimo danno per tutti quanti. Coraggio, esprimetevi, che il tempo scarseggia. Proponete delle soluzioni.>>

<<Soluzioni?>> Commenta acida una trentenne. <<A noi, le chiede? Ma vada a quel paese, imbecille! In galera, dovete finire voi. Bravo chi è riuscito ad avvisare la polizia di nascosto.>>

<<Bravo un corno: se la cosiddetta rapina fosse riuscita, i miei colleghi, tempo ventiquattr’ore, avrebbero recuperato il maltolto e arrestato i colpevoli… per quanto colpevole possa considerarsi questo sudaticcio resto di nobiltà.>> discorda Santonastasio, che non s’era perduto un fotogramma della scena, cogliendo la nera disperazione dei due improvvisati delinquenti. <<Piuttosto, oramai che lo scemo zelante ha fatto il casino, cerchiamo di porgere una mano a ’sta coppia di sprovveduti senza rimettere un soldo di tasca nostra. Io avrei un’ideuzza.>>

<<Sì>> lo scongiura il ciccioprincipe Aligio <<Faccia presto.>>

<<È semplice ma dobbiamo impegnarci tutti, impiegati compresi. Chiaro?>> Puntualizza Euterpe, pertanto distraendo l’uditorio dalla sconvolgente rivelazione che i banditi erano in procinto di fare.

<<Non so… sentiamo.>> Temporeggia il direttore. Il pubblico sembra, in buona maggioranza, disponibile.

<<A voi della banca cosa importa se sparisce qualche migliaia di euro? Siete consci di sfruttare la gente abitualmente, no? Nel giro di un giorno di lavoro rifate il malloppo. Inoltre siete assicurati contro gli atti criminali.>>

<<Bene: vada al sodo, Santonastasio.>> Sprona un altro anziano. È quel vanesio del rigattiere che ha la bottega vicino a casa sua.

<<Adesso,>> prende ad illustrare Euterpe <<mentre il principe Aligio andrà a telefonare a quelli là fuori, noi tutti, in fretta…>>

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lunedì, 17 settembre 2007

“IL CAPPELLO DEL DIAVOLO” – ricordando Emilio De Marchi e il suo primo grande successo narrativo (di Sergio Sozi)

Un manzoniano in odor di Scapigliatura, Emilio De Marchi (Milano, 1851 – 1901), ma ben ancorato ai dettami del romanticismo milanese, tanto da far scrivere a Cesare Cantù (uno della vecchia guardia romantica lombarda) una favorevole critica de ”Il cappello del prete” (1888), romanzo sul quale ci concentreremo in questo articolo. Eccellente il fondo. Interessante l’intreccio. Schietta la forma. Scacco ai romanzatori vecchi, così si espresse, telegraficamente e netto, appunto Cantù – l’autore di ”Margherita Pusterla”, il romanzo storico che gli diede il successo.

Poi di De Marchi parleranno in molti, Benedetto Croce in primis (egli ne ”La Letteratura della Nuova Italia” lo posiziona fra i manzoniani un po’, diremmo, scapigliati) ma anche critici come Titta Rosa, Luciano Nicastro (quest’ultimo allievo di Valgimigli e Guglielmino), più di recente Toni Iermano e Antonio Palermo, e in generale ogni buona Storia della Letteratura Italiana.

E se per Titta Rosa, De Marchi fu ”il Gogol’ della bassa”, forse un riuscito bilancio complessivo ci proviene da Luciano Nicastro. Vale la pena riportarlo per esteso:

Quando si è conosciuto il sentimento delle pagine più impegnate, rimane tuttavia nella mente, prima di ogni altra nota, la visione desolata e lo sconforto che la poesia del De Marchi esprime in prosa o in versi, consolata ora dal senso della natura ora da un concetto panteistico e romantico, confidente nell’opera redentrice della bontà operosa e nel sacrificio umano con cui l’anima sembra unirsi allo spirito divino. Emilio De Marchi ha pure qualche accento mistico e, nelle sue rappresentazioni angosciate e dolenti, l’esigenza spirituale di una concezione religiosa, che però si afferma in modo diverso da quello voluttuoso del Fogazzaro. (Dalla Presentazione ne ”I capolavori di Emilio De Marchi”, Mursia, Milano 1967, p. XXI).

Ma cos’è ”Il cappello del prete”, romanzo d’esperimento e non sperimentale (parole dell’autore e soprattutto direi del suo desiderio di distanziarsi dal contemporaneo Émile Zola), uscito a puntate come racconto d’appendice nel Corriere di Napoli durante il 1888 (lo stesso anno di ”Mastro don Gesualdo” del Verga, oltretutto buon amico di De Marchi) e poi pubblicato in volume dall’editore Treves, oltre che all’epoca vendutissimo e ampiamente pubblicizzato come reazione italiana al romanzo naturalista francese?

Io direi che ”Il cappello del prete” sia un esemplare romanzo-sintesi della sensibilità letteraria generale agitante la fine dell’Ottocento italiano ed europeo, nel quale l’escavazione psicologica di Dostoevskij si unisce al naturalismo di Zola e al verismo verghiano, mentre si vedono emergere fra le righe le premesse di un Pirandello e uno Svevo. Il tutto a sprazzi, a tratti, a pennellate: un collage d’epoca non sottovalutabile, in quanto sintesi e premonizione.

L’opera, inoltre, non disprezza una coloritura ”gialla”, poiché dopotutto tratta e narra di un omicidio, quello del prete Cirillo, e dell’omicida, il barone Carlo Coriolano di Santafusca. Il tutto nel contesto di Napoli e dintorni.

Ma ora vediamone i protagonisti e rintracciamo lo svolgimento della trama, sempre grazie alla penna dell’autore stesso (ogni estratto dall’edizione Mursia, ”I capolavori di Emilio De Marchi”, Milano 1967).

Dunque, prendiamo subito un ritrattino del barone Santafusca:

Il libertino prese la mano sul frate e sul nichilista, e dalla fusione di questi tre uomini uscì «u barone» unico nel suo genere, gran giuocatore, gran fumatore, gran bestemmiatore in faccia all’eterno. (…) Oggi l’uomo aveva quarantacinque anni, una gran barba nera, un volto abbruciato dal sole e dai liquori, una gran voglia di godere la vita e una miseria profonda. (…) Al frate, al nichilista, al libertino si aggiungeva ora un pitocco disperato, costretto a quarantacinque anni a mendicare dieci lire alla sua guardarobiera, se voleva pranzare e bere un cognac. (p. 5 e segg.)

Ed ecco il prete Cirillo:

Prete Cirillo era un uomo pieno di denari, che egli aveva radunati un poco con l’usura, prestando ai pizzicagnoli, ai pescivendoli, ai galantini della Sezione, e molto colle vincite al lotto. Si diceva che «u prevete» avesse i numeri e, coll’aiuto di certi calcoli cabalistici trovati da lui su un libro vecchio, vincesse al lotto ogni volta che gli piacesse di vincere. (p. 7 e segg.)

Ma veramente sconvolgente è il preludio dell’assassinio:

Come sul momento d’accostarsi a un intimo colloquio d’amore freme il sangue e par che gorgogli a fiotti nel corpo, e la vita si mesce già con un’altra vita, così man mano che la vittima si accostava al suo letto, il barone sentiva crescere la ferina voluttà. (p. 32)

Dopo il fattaccio, una prima reazione del barone:

Poi, sentendosi mancare le forze, usci (…) e venne in un prato pieno d’erbe folte e di sole, dove stavano pascolando le capre di Salvatore. Qui si fermò coi piedi sprofondati nella terra molle e cominciò a guardare stupidamente il muso delle capre, che guardavano lui stupidamente, ruminando. (p. 33)

Seguono lunghe serie di meditazioni rifiutate o sotterrate nell’anima come la seguente:

Era una brutta vita… Perché non s’ammazzava? (…) Se un uomo val l’altro, perché non aveva fin da principio accoppato sé in luogo del prete? (…) – Oh! i grandi imbecilli che siamo – mormorò a mezza voce, e si mosse per uscire. (p. 132)

Finché… davanti al giudice, in un confronto tremendo al palazzo di giustizia napoletano, inizia la conclusione del dramma vero e proprio, sia intimo che estetico, letterario, iniziato sin dal primo post-delitto con un incessante dialogo interiore filosofico a cui il barone non sa sfuggire:

La mente non connetteva più, si spezzavano le formule logiche, e la pazzia, la furia vendicatrice della superba ragione, scendeva a rompere la testa del barone di Santafusca, come egli aveva spezzata, con una sbarra di ferro, la piccola testa di prete Cirillo. Ciò che seguì da questo momento non fu più interrogatorio nelle forme, ma la lotta estrema di una ragione contro un rimorso. (p. 155)

Le ultime pagine sono terrificanti, per la resa realistica della scena (vi sono il giudice, i poliziotti, l’interrogato, tutti in un grigio ufficio del palazzaccio) e soprattutto per la descrizione della forza esplosiva che la verità della coscienza emette nel suo prorompere fuor dal dominio razional-istintivo del barone assassino, il quale infine non può più disgiungere da sé la figura del ”cacciatore”, personaggio prima fittizio da cui lui stesso si era veramente travestito per parlare con un presunto possessore del famoso ”cappello” (oggetto che infine cosituisce la sua condanna), al fine di riprendere il cappello in mano per farlo sparire. Il ”cacciatore” insomma fuoriesce dalla cinica finzione teatral-difensiva del barone per divenire platealmente l’anima nera di Santafusca (e qui, certamente, c’è in De Marchi il tocco vistoso di Gogol’):

Gli veniva meno la forza di tener separato nettamente il cacciatore da sé, di non attribuire all’uno pensieri ed atti che appartenevano, pur troppo! soltanto all’altro. Non sapeva più discernere il fatto da’ suoi particolari, e, per la foga di conciliare il prete col suo cappello e di voler credere troppo nel cacciatore, non si accorgeva che poco a poco andava esponendo e accusando se stesso. La sua testa era una fornace. I mille fantasmi cacciati, respinti, costretti, flagellati dalla sua scienza e dalla sua logica, uscivano sbucando ora tutt’insieme dai tenebrosi spechi della coscienza (…). (p. 155)

Ed avviene il crollo di un’anima da sempre scissa (allegoria, credo, della modernità) che, direi, si spacca tragicamente in due, come la sottile scienza delle dottrine positivistiche: il barone Santafusca vuole distruggere la religione annientando il cappello del prete, ossia confonde il simbolo con la fede vera e profonda del cristianesimo. Appunto in lui, fino alla crisi finale, convivono un frate, un libertino, un nichilista e… un accattone senza dignità, schiavo dei propri vizi. La vita di noi moderni, in fondo, in un solo personaggio, che dal 1888 ci raggiunge a mo’ di… ritratto collettivo. E qui, per adesso, mi fermerei.

Sergio Sozi

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Sergio Sozi collabora con il quotidiano L’Unità ed il settimanale Avvenimenti, con il mensile triestino Trieste Arte e Cultura, il mensile lubianese Nova revija, il quotidiano sloveno Dnevnik, la Radio Tre slovena e la casa editrice Studentska Zalozba – per la quale ha curato nel 2005 il volume antologico di racconti italiani (1989-2003) ”Carta e carne” (”Papir in meso”, SZ-Beletrina, Ljubljana 2005). Suoi pezzi culturali sono presenti su diversi siti letterari. Da ricordare la pubblicazione di colloqui con Dacia Maraini, Sebastiano Vassalli, Diego Marani e Claudio Magris.Ha pubblicato “Il maniaco e altri racconti” (Valter Casini Editore, 2007)

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giovedì, 28 giugno 2007

COCCODRILLO SU MENEGHELLO: UNA RIMA IMPERFETTA PER UN GRANDE (di Sergio Sozi)

Cari amici di Letteratitudine,

inauguro una nuova rubrica dal titolo: Ritorno ai classici. Credo che il titolo sia abbastanza esplicativo, per cui non mi dilungherò molto.

Ritorno ai classici. Una rilettura delle grandi opere e dei grandi autori del passato recente e del passato lontano.

Il Novecento, l’Ottocento, fino ai grandi classici greci. Un modo per riscoprire testi e autori della Grande Letteratura e per discuterne assieme.

Ho affidato la rubrica allo scrittore Sergio Sozi al quale ho chiesto di dedicare questo primo numero alla figura di Luigi Meneghello, recentemente scomparso.

(Massimo Maugeri)

Il coccodrillo è quella sorta di necrologio allungato che si fa a proposito della scomparsa di un personaggio pubblico. Il termine è del gergo giornalistico (forse di un tempo?) e direi perciò che, purtroppo, calzi a pennello per un pezzo come questo per Letteratitudine. Oramai, infatti, non è più notizia dell’ultima ora che Luigi Meneghello ci ha lasciati ieri, 26 giugno 2007, all’età di 85 anni (era nato il 16 febbraio del 1922). Lo hanno ritrovato morto, probabilmente a causa di infarto, nella sua casa di Thiene (VC), dove viveva dal 2000. Oltre ai testi narrativi e critici, moltissimo lo scrittore di Malo ha sempre fatto per la nostra Letteratura all’estero, ed esattamente all’università di Reading (Inghilterra), dove nel 1947 fondò e diresse la cattedra di Letteratura italiana, mantenendola fino a tempi recenti.

Luigi Meneghello

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Comunque, la prima cosa che mi viene ora in mente, è un’osservazione polemica ma, ohimé, indiscutibile: constatare quanto egli era, oramai da lustri, assente dai cuori e dalle menti degli operatori culturali (in genere: giornalisti, docenti, critici, ecc.) italiani, nonostante libri che appartengono ormai all’immaginario comune (Libera nos a Malo, l’esordio narrativo datato 1963, è oggi anche il titolo di una canzone di Luciano Ligabue, tanto per dire una banalità) e ad irridere delle capacità scrittorie di straordinaria originalità per lingua, stilistica, poetica e euristica – ovvero metodologia.

A parlare, infatti, della ”funzione euristica dell’ironia” in Meneghello è Maria Corti, la quale, nell’introduzione a I piccoli maestri (1964), mette in risalto, nel libro presentato ma anche nelle altre opere, il continuo attrito fra ”due culture contrapposte, quasi messe in dialettica” e scatenante appunto questa funzione ironica, che funge da basso continuo, diremmo, per l’intera sua produzione narrativa. Poi, sempre lì, la Corti enumera scientificamente le similitudini fra Libera nos a Malo e I piccoli maestri, pertanto facendoci notare delle altre corrispondenze, oggi utili per fare un quadro generale dell’autore – un autore che la critica italiana deve aver condannato a morte anzitempo, direi, nonostante l’incessante amore da parte soprattutto dei lettori più giovani. Ecco, in conclusione d’articolo, le ulteriori ”costanti” individuate dalla Corti. Le riporto qui perché concordo e perché mi sembra il modo migliore per render giustizia ad uno fra i migliori autori italiani del Secondo Dopoguerra. Un artista della prosa ed un linguista (nel senso di studioso di dialetti e della lingua italiana) eccellente. Un raro esempio di riuscita simbiosi fra realtà soggettiva, realtà oggettiva e arte del narrare (ovvero, secondo i miei termini critici, tout court creazione fantastica).

”(…) C’è un personaggio che dice io e c’è un narratore che, ben distinto, osserva se stesso agire entro le vicende di un mondo lontano.”

”Il mondo della memoria. (…) Il punto di vista della memoria è anche quello che sottilmente determina il tipo di stilizzazione della scrittura e mescolandosi alla vena umoristico-ironica porta lo stile a lievitazione.”

”Il senso della coralità.”

”Ultima costante (…): in ogni opera di Meneghello una funzione basilare ha il linguaggio o, per essere più precisi, il plurilinguismo. (…) Come dire che entro la sua personale lingua, così viva e nei dialoghi lucidamente colloquiale, Meneghello inserisce linguaggi di vari livelli della testualità sociale: il linguaggio delle canzoni popolari, di quelle specificatamente alpine, dei testi poetici letterari evocati, dei comandi militari, della burocrazia italiana, degli intellettuali. La pluridiscorsività sociale si trasforma, direbbe Bachtin, in plurivocità dello scrittore.”

Fin qui Maria Corti, nel 1986. L’ho scelta perché riassuntiva… ai limiti del paradigmatico.

Sergio Sozi

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Sergio Sozi collabora con il quotidiano L’Unità ed il settimanale Avvenimenti, con il mensile triestino Trieste Arte e Cultura, il mensile lubianese Nova revija, il quotidiano sloveno Dnevnik, la Radio Tre slovena e la casa editrice Studentska Zalozba – per la quale ha curato nel 2005 il volume antologico di racconti italiani (1989-2003) ”Carta e carne” (”Papir in meso”, SZ-Beletrina, Ljubljana 2005). Suoi pezzi culturali sono presenti su diversi siti letterari. Da ricordare la pubblicazione di colloqui con Dacia Maraini, Sebastiano Vassalli, Diego Marani e Claudio Magris.

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