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Archivio di giugno 2007

venerdì, 29 giugno 2007

INTRODUZIONE – “L’OCCHIO ALATO: storie di disumanizzazione scolastica” (di Miriam Ravasio)

Covermaneducimmag14x205Ho iniziato a scrivere solo per ricordarmi quello che stavo facendo. I progetti messi in cantiere erano corposi, la mia dedizione assoluta e quel mondo, giorno dopo giorno, mi stupiva confondendomi e, a volte, spaventandomi. Lavorare con i bambini necessita di una preparazione adeguata, una sensibilità che non può venire mai meno, un’attenzione continua e generosa. Non volevo deludere, o rinunciare ad un’esperienza che si stava manifestando come unica e straordinaria; temevo la mia inadeguatezza e così osservavo ogni cosa con curiosità scrupolosa. Ero a scuola e volevo imparare la sicurezza delle vecchie maestre che sanno tenere la classe con facilità. Così, cercavo di stare con loro il più possibile, facevo domande. Le osservavo, m’ incuriosivo ai programmi, all’organizzazione complicatissima delle loro riunioni (di team, di circolo, di interclasse), chiedevo il perché di ogni cosa, come una bambina. Ero l’esperta esterna in educazione all’immagine ed “esterna” lo ero in ogni senso, non solo per la scuola ma anche per la società. Avevo trascorso più di vent’anni chiusa nel mio studio a cercare ed elaborare immagini per stoffe e ricami, che poi viaggiavano per il mondo. Pochi amici, molti libri, tanti tantissimi disegni. Intervallavo il lavoro impegnandomi in qualche impresa teatrale come scenografa, costumista e in un felice caso, come autrice. Poi qualcosa cambiò e nel giro di poco tempo mi ritrovai a scuola per realizzare progetti didattici finalizzati alla conoscenza della storia del territorio, attraverso lo studio dell’arte. Con il cambio di attività era cambiato anche il resto: i miei interessi, le mie letture, la mia arte. La Storia meravigliosa di Peter Schlemihl di A. Von Chamisso  mi aveva aperto una nuova via. Conoscevo nuovi autori, grandi maestri; scoprii Lessing, Schiller, Novalis e poi il pensiero filosofico dalle sue origini a Socrate e poi Platone, Spinoza. I miei pensieri si riformulavano in una ricerca sul senso della vita, sul significato delle  azioni e delle scelte. Un percorso a ritroso nel mio bagaglio formativo  che negli anni si era accumulato per caso, su suggestioni, simpatie ideali, ideologiche e personali, mi dava una nuova visione del mondo. Con uno stato d’animo in fermento, affrontai la nuova esperienza, consapevole che ogni gesto, ogni piccola parte del tempo sono formativi, ci educano e fanno di noi degli “esseri” o dei “viventi”. Tutto questo si trasformava in un entusiasmo che con grande facilità trasmettevo a bambini e maestre, coinvolgendoli in attività tecnicamente facili, ma di senso; “Saper vedere è l’inizio di ogni scoperta perché l’osservazione stabilisce un rapporto con la realtà, ma è anche la condizione per non smarrirsi nell’avventura umana” (Elemire Zolla). Mi sentivo giovane e pensavo che alle scuole elementari questo senso di leggerezza fosse una condizione comune; invece no. Ogni giorno mi scontravo con l’assurdità di una logica espressa, inseguita e perseguita con  incongruenza  che produceva esiti incerti, comici e tristi. Paradossi da teatro, ma noi eravamo a scuola! Ricordo un grande cartello colorato, appeso all’ingresso di una scuola materna che, in occasione di Halloween, invitava mamme, papà, nonni e zii al “Gioco della strega impalata”. Le maestre si erano impegnate, come sempre, a preparare con cura la competizione, e quel gioco, con quel titolo, non lo avevano inventato loro; era stato ripreso da un libro: dal libro di Circolo per le attività. Consultai quel testo, pubblicato per gli addetti ai lavori, lo lessi dalla prima all’ultima pagina e mi resi conto che, a tutti noi, alla società, in questi ultimi vent’anni era sfuggito qualcosa di grande, di essenziale: la dimensione educativa. Quel giorno, iniziai a prendere appunti. Come Makarenko annotavo, sul computer, le cose fatte, gli episodi del giorno, cose normali, fatti comici o inquietanti; prendevo nota delle perplessità e degli entusiasmi. Come don Milani riflettevo sul significato di essere uomo, spaccando il capello in quattro per cercare di capire dove, come e quando era iniziato questo processo di disumanizzazione scolatica.

Lecco, 8 marzo 2007

Mais dans l’art comme dans la vie tout est possible si a la base il y a l’amour.

Marc Chagall

Introduzione

Il quarto anno consecutivo come esperta in educazione all’immagine si è concluso felicemente; chiuse le mostre, chiuse le scuole, sistemato lo studio. Ordine; per incominciare un nuovo periodo, una nuova vita e un nuovo progetto creativo. Sono stati anni pieni, un lungo e veloce susseguirsi d’ore occupate, di lavori manuali, letture e nuove conoscenze, un’esperienza illuminante ma, nelle stesse condizioni, irripetibile.

Nei giorni delle mostre ero afona, senza un filo di voce e con una tosse invadente che m’impediva la comunicazione, forse un segno. Non dovevo aggiungere altro, tutto era lì, per chi voleva capire, conoscere il lavoro, scoprire le intenzioni, leggerci le passioni, cercare ispirazioni per nuove attività. Forse una ribellione del fisico stanco che mi dava lo stop. Negli anni ero stata contemporaneamente in quattro scuole diverse, sei plessi, trentun classi, cinquecentottanta bambini, un infinito numero di maestre e non so quanti disegni: non li ho mai contati, forse più di cinquemila. Tanti tantissimi, che preferisco non evocare perché mi disturbano il sonno, riaccendono il momento, rivivo la fatica e lo sfinimento entusiasta. Quest’anno i progetti sono stati tre e tutti in piccole scuole di montagna, uno dedicato all’acqua che erode le rocce, scava le montagne ed è fonte di vita, un altro alle parole che scandiscono il tempo che nominano i luoghi, e l’ultimo alla bontà del riciclo, che però (visto la mia avversione a trasformare la scuola in uno sponsor delle aziende municipalizzate) ho convertito in un: educhiamoci al bello osservando l’ambiente.

Ho allestito due mostre importanti, la terza mi è stata raccontata. Tutte hanno avuto un notevole successo, sono piaciute agli adulti, riempito d’orgoglio i piccoli, stupito gli amministratori e compensato le maestre per l’impegno profuso.

Ad Erve, il piccolissimo paese delle rocce, l’allestimento colpiva per la tenerezza, a Monte Marenzo per la dimensione museale, a Torre per la bella riuscita nonostante i pochi mezzi.

Miriam Ravasio

Foto_miri_3

Miriam Ravasio abita a Lecco, si occupa di educazione all’immagine nelle scuole; un lavoro a cui è arrivata “per caso”, dopo una vita dedicata alla moda e alla ricerca di immagini per abiti, tessuti e ricami. L’impatto con la scuola, e in particolare, con il frastuono pedagogico  della didattica, è stato così forte e violento da indurla a scrivere.

Pubblicato in EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI   18 commenti »

giovedì, 28 giugno 2007

COCCODRILLO SU MENEGHELLO: UNA RIMA IMPERFETTA PER UN GRANDE (di Sergio Sozi)

Cari amici di Letteratitudine,

inauguro una nuova rubrica dal titolo: Ritorno ai classici. Credo che il titolo sia abbastanza esplicativo, per cui non mi dilungherò molto.

Ritorno ai classici. Una rilettura delle grandi opere e dei grandi autori del passato recente e del passato lontano.

Il Novecento, l’Ottocento, fino ai grandi classici greci. Un modo per riscoprire testi e autori della Grande Letteratura e per discuterne assieme.

Ho affidato la rubrica allo scrittore Sergio Sozi al quale ho chiesto di dedicare questo primo numero alla figura di Luigi Meneghello, recentemente scomparso.

(Massimo Maugeri)

Il coccodrillo è quella sorta di necrologio allungato che si fa a proposito della scomparsa di un personaggio pubblico. Il termine è del gergo giornalistico (forse di un tempo?) e direi perciò che, purtroppo, calzi a pennello per un pezzo come questo per Letteratitudine. Oramai, infatti, non è più notizia dell’ultima ora che Luigi Meneghello ci ha lasciati ieri, 26 giugno 2007, all’età di 85 anni (era nato il 16 febbraio del 1922). Lo hanno ritrovato morto, probabilmente a causa di infarto, nella sua casa di Thiene (VC), dove viveva dal 2000. Oltre ai testi narrativi e critici, moltissimo lo scrittore di Malo ha sempre fatto per la nostra Letteratura all’estero, ed esattamente all’università di Reading (Inghilterra), dove nel 1947 fondò e diresse la cattedra di Letteratura italiana, mantenendola fino a tempi recenti.

Luigi Meneghello

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Comunque, la prima cosa che mi viene ora in mente, è un’osservazione polemica ma, ohimé, indiscutibile: constatare quanto egli era, oramai da lustri, assente dai cuori e dalle menti degli operatori culturali (in genere: giornalisti, docenti, critici, ecc.) italiani, nonostante libri che appartengono ormai all’immaginario comune (Libera nos a Malo, l’esordio narrativo datato 1963, è oggi anche il titolo di una canzone di Luciano Ligabue, tanto per dire una banalità) e ad irridere delle capacità scrittorie di straordinaria originalità per lingua, stilistica, poetica e euristica – ovvero metodologia.

A parlare, infatti, della ”funzione euristica dell’ironia” in Meneghello è Maria Corti, la quale, nell’introduzione a I piccoli maestri (1964), mette in risalto, nel libro presentato ma anche nelle altre opere, il continuo attrito fra ”due culture contrapposte, quasi messe in dialettica” e scatenante appunto questa funzione ironica, che funge da basso continuo, diremmo, per l’intera sua produzione narrativa. Poi, sempre lì, la Corti enumera scientificamente le similitudini fra Libera nos a Malo e I piccoli maestri, pertanto facendoci notare delle altre corrispondenze, oggi utili per fare un quadro generale dell’autore – un autore che la critica italiana deve aver condannato a morte anzitempo, direi, nonostante l’incessante amore da parte soprattutto dei lettori più giovani. Ecco, in conclusione d’articolo, le ulteriori ”costanti” individuate dalla Corti. Le riporto qui perché concordo e perché mi sembra il modo migliore per render giustizia ad uno fra i migliori autori italiani del Secondo Dopoguerra. Un artista della prosa ed un linguista (nel senso di studioso di dialetti e della lingua italiana) eccellente. Un raro esempio di riuscita simbiosi fra realtà soggettiva, realtà oggettiva e arte del narrare (ovvero, secondo i miei termini critici, tout court creazione fantastica).

”(…) C’è un personaggio che dice io e c’è un narratore che, ben distinto, osserva se stesso agire entro le vicende di un mondo lontano.”

”Il mondo della memoria. (…) Il punto di vista della memoria è anche quello che sottilmente determina il tipo di stilizzazione della scrittura e mescolandosi alla vena umoristico-ironica porta lo stile a lievitazione.”

”Il senso della coralità.”

”Ultima costante (…): in ogni opera di Meneghello una funzione basilare ha il linguaggio o, per essere più precisi, il plurilinguismo. (…) Come dire che entro la sua personale lingua, così viva e nei dialoghi lucidamente colloquiale, Meneghello inserisce linguaggi di vari livelli della testualità sociale: il linguaggio delle canzoni popolari, di quelle specificatamente alpine, dei testi poetici letterari evocati, dei comandi militari, della burocrazia italiana, degli intellettuali. La pluridiscorsività sociale si trasforma, direbbe Bachtin, in plurivocità dello scrittore.”

Fin qui Maria Corti, nel 1986. L’ho scelta perché riassuntiva… ai limiti del paradigmatico.

Sergio Sozi

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Sergio Sozi collabora con il quotidiano L’Unità ed il settimanale Avvenimenti, con il mensile triestino Trieste Arte e Cultura, il mensile lubianese Nova revija, il quotidiano sloveno Dnevnik, la Radio Tre slovena e la casa editrice Studentska Zalozba – per la quale ha curato nel 2005 il volume antologico di racconti italiani (1989-2003) ”Carta e carne” (”Papir in meso”, SZ-Beletrina, Ljubljana 2005). Suoi pezzi culturali sono presenti su diversi siti letterari. Da ricordare la pubblicazione di colloqui con Dacia Maraini, Sebastiano Vassalli, Diego Marani e Claudio Magris.

Ha pubblicato "Il maniaco e altri racconti" (Valter Casini Editore, 2007)

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martedì, 26 giugno 2007

LE VALLI MALEDETTE DI MARIO RIGONI STERN (di Andrea Di Consoli)

Andrea_di_consoliDietro le quinte del teatro “Persiani” di Recanati, in attesa che Mario Rigoni Stern venga chiamato da Paola Pitagora, conduttrice del premio letterario Recanati (che ha vinto Mario Rigoni Stern), e presentato da Ernesto Ferrero (che dice, non appena lo chiamano: “Parlare di Mario è come essere a casa, come arrivare a baita”), il grande scrittore de Il sergente della neve e del recente Stagioni se ne sta seduto da solo su una sedia e guarda buono, con le mani in grembo, verso il palcoscenico. Gli domando se da Asiago è venuto in macchina o in treno. “In macchina” mi dice, “mi sono venuti a prendere”. Mi fa cenno di sedermi al suo fianco e mi domanda, con estrema semplicità, il nome (non mi domanda chi sono, ma come mi chiamo), mi chiede da dove vengo e, quando sente che sono lucano, lui subito mi parla della Basilicata, e mi dice che è stato a Bernalda, a Matera e, quarant’anni fa, a Metaponto: “A Metaponto ci sono stato a ferragosto. Non c’era nessuno. C’eravamo soltanto io e i grilli. Era come stare fuori dal mondo”. Adesso, invece, a Metaponto, a ferragosto, è impossibile trovare un angolo non turistico. E gli domando del Sud (a lui che è così indissolubilmente legato a un’idea forte di Nord): “Il Sud è bellissimo” mi dice, “ma più di tutto amo la Sicilia. La Sicilia è meravigliosa”.

Il teatro è caldo, sudiamo, ma per non fare rumore siamo sempre più vicini, parliamo fitto fitto; a bruciapelo gli domando se la neve – che lui ha “cantato” in tutti i modi – sia guerra o pace. Rigoni Stern curva la mano e la posa sull’orecchio – forse, per l’imbarazzo, ho parlato troppo a bassa voce. Gli rifaccio la domanda. Mi guarda e risponde con sicurezza: “La neve non è né buona né cattiva. Non è mai colpa della neve. E’ sempre colpa degli uomini se la neve è cattiva”.

Ma si può impazzire in guerra? Cosa è stata la campagna di Russia? E si può amare la neve dopo averla vista azzannare le gambe dei propri compagni? Nel giro di pochi minuti ci troviamo lontani dalla festa letteraria di Recanati e immersi in una strana intimità pensosa. Mi dice Rigoni Stern: “Certo che si impazzisce sul fronte. Soprattutto per il poco dormire. Ci provi a non dormire per otto giorni. Io forse ero impazzito. Mi ero sdoppiato. In quei giorni mi sembrava che un altro Mario mi dicesse le cose che dovevo fare. La vera guerra è stata in Russia”. Prima di essere chiamato sul palco dalla Pitagora ci diamo appuntamento per la mattina successiva, nella sala colazioni dell’albero dove Rigoni pernotta.

Durante la notte, prima di addormentarmi, penso allo strano destino critico di Mario Rigoni Stern, uno scrittore che è sempre rimasto schiacciato tra due categorie abbastanza anguste (“scrittore di guerra”, o “di testimonianza”, e “scrittore della natura”; eppure “guerra” e “natura” non sono sempre topoi logori e prevedibili); penso, invece, alla durezza della sua narrativa poetica, al suo guardare sempre in faccia il dolore e, direi, il controdolore – non c’è niente di “naif” nella sua scrittura, anche perché la natura non dà mai davvero risposte consolatorie, anzi, è più “muro” del “muro” del pensiero filosofico – anche la guerra è un “muro” nel pensiero. Rivedo, prima di prendere sonno, il viso buono di sua moglie, e risento le parole di Rigoni Stern su Roma: “Roma me la sono goduta nel 1973, quando c’è stata la crisi petrolifera. Non circolava neanche una macchina. Me la sono girata tutta a piedi. Quel giorno andai anche a trovare Walter Binni e Emilio Lussu”.

La mattina mi sveglio in ritardo e scendo di corsa. Lo trovo che beve un caffè al bar. Mi saluta e mi indica un tavolo all’aperto. Accendo una sigaretta e gli domando se ha mai fumato. “In guerra fumavo le ‘Makorka’, le sigarette dei kulaki. Ho fumato tantissimo, ma poi ho smesso, perché ho avuto problemi di cuore. Ho avuto un arresto cardiaco. Quel giorno sentivo i medici che dicevano che ero morto. Non è stata una brutta sensazione. La morte non è brutta. E’ la sofferenza che fa paura”. A Recanati c’è un dolcissimo vento che ci scompiglia i capelli. Bevo un caffè e, mentre apro il taccuino, Rigoni mi dice che a Recanati c’era stato altre volte: “E’ un grande poeta, Leopardi, ma la sua opera più importante è Lo Zibaldone. Tanti anni fa, visitando la sua casa, mi attardai di sera nella sua biblioteca. Per me fu una grande emozione rimanere lì nella penombra”.

I ricordi di Rigoni si sciolgono: “La mia famiglia era abbastanza benestante prima della guerra. A casa nostra di libri ce ne sono sempre stati. C’era dimestichezza con i libri. Mio fratello maggiore ha anche pubblicato un libro di poesie: sonetti enigmistici”. E in guerra? Serve la letteratura in guerra? Davvero può aprire un varco di salvezza come nel “Canto di Ulisse” di Primo Levi? Rigoni Stern non ha dubbi: “Certo che serve la letteratura. Io avevo con me la Divina Commedia e L’Orlando furioso. La letteratura aiuta a superare i momenti brutti. Quando ero in Albania c’era un compagno militare, che faceva il pastore, che mi diceva ‘dai Rigoni, fammi contento, leggimi la Divina Commedia’.

La guerra è l’ossessione di Rigoni Stern: “I russi stavano attaccando. Avevo la responsabilità di 70 uomini. Li ho riportati vivi in Italia. E’ stato il più grande capolavoro della mia vita. C’era un sergente che ricevette una lettera dalla sua fidanzata. Eravamo sul Don. Nella lettera la fidanzata gli diceva di non amarlo più, e di aver trovato un altro uomo. Dopo aver letto questa lettera il sergente fece azioni di guerra disperate. Cercò la morte. L’ha cercata con tutto se stesso, la pallottola che lo ha ucciso. Si chiamava Achille, quest’alpino. Lui almeno è morto per amore. Noi, per quale amore siamo morti noialtri?”

“Natura” e “guerra” s’intrecciano come due serpenti poco pacificati; e sono due serpenti che ora sembrano nemici, e ora si avvinghiano in amore (un amore vischioso): “La natura non ha sentimenti, la natura dobbiamo accettarla. Dobbiamo salvarla, dobbiamo rispettarla. Non possiamo piantare il frumento al Polo. Però non c’è solo la rosa, non c’è solo la valle fiorita, ci sono anche le valli maledette. La nostra fortuna è stata quella di aver perso la guerra, così è finito il nazismo e il fascismo. Ma chi ricorda la grande battaglia del 1943 in Russia? Ci pensa? Un milione contro un altro milione di soldati. Milioni di persone morivano e nessun giornale ne parlava”.

E dopo? Dopo la guerra? Dopo c’è stata la prigionia in Austria, nel 1944, in una miniera di ferro (“era quasi bello stare in miniera, dopo la guerra, ma è stato anche duro, con quel poco che ci davano”); ci sono stati i libri da Einaudi, ma anche l’impiego come diurnista di terza categoria presso l’amministrazione finanziaria dello Stato, e poi la famiglia, la moglie, i tre figli, le passeggiate nei boschi, “fare legna”.

E la morte? Rigoni Stern è lapidario: “I giovani muoiono meglio dei vecchi, perché i giovani hanno tanta vita. I vecchi, invece, sono attaccati fino alla fine all’unico barlume di vita che rimane”.   

La tranquillità domenicale di Recanati – la sua ritrosia indecifrabile e suggestiva – è spezzata, nella mia mente, dalle dure parole di Rigoni (il racconto degli arti congelati dei soldati); eppure c’è, nonostante tutto, una possibilità di tranquillità nello stare al fianco di Rigoni (nel suo correre in albergo alla ricerca della moglie, nel far giocare mio figlio con la sua barba bianca, nel suo fare colazione con pane e formaggio). E’ una tranquillità che colpisce per l’estrema semplicità. Poi, però, non appena si parla dell’uomo in pericolo, della guerra, della natura, il volto di Rigoni Stern diventa “freddo” e solenne. In certi momenti è normale pensare a Omero. 

Andrea Di Consoli

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Andrea Di Consoli è nato a Zurigo nel 1976 da genitori lucani. Attualmente vive a Roma, dove lavora ai programmi radiotelevisivi della Rai. Collabora inoltre a «l’Unità», a «La Sicilia» e a varie riviste, inoltre scrive sul «Messaggero» e «Nuovi Argomenti». Ha pubblicato il saggio Le due Napoli di Domenico Rea (Unicopli 2002), la raccolta di poesie Discoteca (Palomar 2003) e i racconti di Lago negro (L’ancora del Mediterraneo 2005). Il romanzo Il padre degli animali (2007) ha vinto il premio Mondello ed è finalista al premio Viareggio-Repàci.

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lunedì, 25 giugno 2007

LA STANZA DELLO SCIROCCO (di Andrea Di Consoli)

Sono lieto di inaugurare questa nuova rubrica che sarà curata da Andrea Di Consoli.

(Massimo Maugeri)

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Foto_andrea La stanza dello scirocco è la stanza dove i siciliani riuscivano a evitare i giorni più caldi dell’estate. L’unica utilità di questa stanza è la frescura. Nessun segreto, in questo sotterraneo. Solo un po’ di
benessere, in compagnia dei libri, quando il respiro si fa d’affanno.

Nella stanza dello scirocco, quando le cose buttano male, basta gridare tre volte per sfasciarla interamente.

Ma le cose, tutto sommato, vanno ancora bene.

Andrea Di Consoli

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Andrea Di Consoli è nato a Zurigo nel 1976 da genitori lucani. Attualmente vive a Roma, dove lavora ai programmi radiotelevisivi della Rai. Collabora inoltre a «l’Unità», a «La Sicilia» e a varie riviste, inoltre scrive sul «Messaggero» e «Nuovi Argomenti». Ha pubblicato il saggio Le due Napoli di Domenico Rea (Unicopli 2002), la raccolta di poesie Discoteca (Palomar 2003) e i racconti di Lago negro (L’ancora del Mediterraneo 2005). Il romanzo Il padre degli animali (2007) ha vinto il premio Mondello ed è finalista al premio Viareggio-Repàci.

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giovedì, 21 giugno 2007

“GOMORRA”, “IL MATTINO” E “NAZIONE INDIANA”

In questi giorni sulle pagine web di Nazione Indiana si sta consumando una polemica piuttosto virulenta a seguito della pubblicazione di articoli sul quotidiano “Il Mattino” da parte di alcuni scrittori, tra cui: Antonella Cilento, Andrea Di Consoli e Antonio Pascale. Articoli finalizzati a fare il punto della situazione sulla Napoli post-Gomorra.

Vi riporto, di seguito, gli articoli di Pascale, Cilento e Di Consoli. Poi vi esporrò il mio parere.

Il Male che bagna Napoli (di Antonio Pascale)

La città di Napoli (e il suo hinterland) ha ormai invaso il nostro immaginario narrativo. Da una decina d’anni a questa parte, scrittori, artisti, intellettuali, registi, sceneggiatori e pure qualche poeta parlano e raccontano Napoli. Si può dire a tutt’oggi che nessuna città italiana ha subito lastre radiografiche così invasive e così continue come Napoli. Certo alcuni hanno preferito racconti superficiali, altri hanno raccontato la città con dolore e con amarezza, altri ancora con troppo dolore e troppa morbosità. Comunque sia, sfumature a parte, ne abbiamo elencato i difetti, le brutture, modi di vivere, le antropologie sociali, gli scempi urbanistici, spesso in presa diretta. Tanto che si può dire senza paura di esagerare che della città sappiamo ormai tutto, vita, morte e miracoli, per citare l’ultimo bel reportage televisivo, andato in onda giorni fa su L7. La domanda a questo punto è lecita: se sappiamo come ormai funziona il sistema camorristico, se la complicità tra politica e malaffare è sulla bocca di tutti che quasi accompagna le nostre discussioni al bar, se la vox populi dice cose molto sensate, se, ancora, abbiamo capito che la struttura economica che fonda e fa girare Napoli è seriamente a rischio crepe e di sicuro l’edificio nel futuro immediato si incrinerà seriamente, se sappiamo tutto questo, come mai a Napoli non cambia niente? Come mai non si prende atto dello stato di macerie e si comincia a ricostruire? Molti narratori, giovani e non, si sono convinti, in questi anni che l’espressione artistica deve per forza tenere conto di tutto quello che si muove sotto i nostri piedi. Qualunque tipo di torre l’artista costruisca, sia d’avorio o altrimenti corazzata, questa (la torre) poggia comunque le fondamenta nel sottosuolo. Non possiamo abbandonare la realtà sismologica e l’impegno che questa comporta. L’arte realistica è, in questo senso, un potente sismografo. Serve in primo luogo a proteggerci, proprio perché ci fa riconoscere l’onda sismica e in secondo luogo, serve, a costruire strutture antisismiche. Il narratore realista crede, in buona o mala fede, con ottimi e cattivi risultati, che questo sia il suo compito, indagare e costruire. Un compito che grava su di noi come una necessità primordiale, da svolgere a tutti i costi, arrivando fino ad invadere il lettore, come sostiene Saviano, prenderlo a pugni, svegliarlo dal torpore. Ebbene, sto sempre più nutrendo il sospetto che questo tipo di rappresentazioni rischia sì di indagare senza però smuovere nulla. E’ un indagine ripetitiva, per così dire. Consolante come tutte le ripetizioni. Quasi come se a risultato ottenuto, a narrazione finita, dopo aver militarmente invaso l’altro, al lettore, davanti a tale apocalisse, non resti che alzare le mani, dichiarare la resa. L’arte, dicono i teorici, deve conservare la tensione, sia quella verso il bene sia quella verso il male, altrimenti risulta mutila. Le rappresentazione che spesso hanno oggetto Napoli indirizzano la tensione verso il male. Anzi, spesso lo riproducono. Voglio dire, qualche volta, c’è nello stile che si adotta una seria complicità con il potere che si vuole contestare. E’ forse questo è un punto problematico per noi che scriviamo di Napoli, troppo spesso le narrazioni su, dentro e fuori Napoli, sono stilisticamente colluse. Oppure contribuiscono a creare una specie di retorica dell’apocalisse che blocca ogni tipo di pensiero vitale. Per molti di noi, Napoli è una città che sta diventando capro espiatorio. Con la narrazione rappresentiamo sì il male ma solo per allontanarlo e per sentirci migliori. Forse è per questo che non cambia nulla. Napoli non ci riguarda, fa troppo schifo, ne siamo fuori. E invece, forse, noi narratori dovremmo a questo punto cambiare tattica. Basta con l’epica della criminalità, perché la narrazione ripetuta con gli stessi stilemi e lo stesso ritmo, crea una sorta di assuefazioni e anche, a volte,la possibilità che si idolatri il criminale. Si pensa,e lo pensano i giovanissimi: quando la vita quotidiana è banale, meglio la forza del male. E invece, al contrario, bisognerebbe adottare un punto di vista meno morboso, meno osceno. Oppure dovremmo, di tanto in tanto, andare nelle scuole, nelle piazze a parlare ai ragazzi di scienza e scienziati, di ricerca medica, genetica, di botanica (perché l’ambiente è importante), di tecniche di costruzioni, dovremmo trovare, cioè, il modo, un modo non pretesco, senza prediche, di raccontare alle nuove generazioni che è meglio denudarsi, dai vestiti di marca, dalle droghe, dalle moto e di tutto quando fa spettacolo, vetrina, siparietto, a Napoli e riuscire insieme ad appassionarsi alla città. La passione verso la conoscenza nasce da qui, da un corpo nudo che vuole umilmente provare nuovi abiti mentali. Forse tocca a noi provare la giusta tessitura narrativa.

pubblicato su Il Mattino il 13 giugno 2007

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L’oleografia del male e i suoi danni (di Antonella Cilento)

La notizia che gira ci distrugge: amici da Londra mi scrivono per chiedermi se è vero che un’epidemia è scoppiata a Napoli. Ma quale epidemia?, chiedo subito, C’è un errore… Ma sì, mi rispondono: epidemia di colera. Allibisco. E’ vero: siamo sui giornali di tutt’Europa con lo scandalo della spazzatura. Con la camorra. Con tutto quel che non funziona. E alla fine l’effetto è lo stesso di un secolo fa: erano gli inglesi o gli americani dipinti da Edith Warthon che non volevano passare per Napoli, focolaio di epidemie.

Non solo, vado a trovare un amico albergatore e quando gli chiedo come va mi risponde: malissimo. Gli italiani e gli stranieri hanno ridotto le presenza turistica in forma radicale e, per di più, le locali istituzioni non sono partite per tempo con la pubblicità del Maggio dei Monumenti.

Che ci piaccia o meno l’enorme campagna stampa e letteraria dell’immaginario che circonda Napoli in questi ultimi tre anni, invece di fare luce, come è già stato detto da Antonio Pascale su queste pagine, crea oscurità. La città se ne cade di problemi, ma attorno a lei, dentro di lei, una colossale campagna di autodistruzione fa perdere di vista la verità dei fatti. E per conseguenza nasce l’oleografia del male, fioriscono i presunti cantori della camorra, che invece di colpire il Sistema, senza volere – o volendo – lo elogiano.

E’ pericoloso di questi tempi nascondersi dietro il Male, è pericoloso creare martiri, non ne abbiamo bisogno. Per tornare a guardare Napoli bisogna viverla e lavorarci dentro, non osservarla da altre città o con gli occhi rivolti al desktop invece che alla strada.

Non abbiamo bisogno di un mercato del racconto truce di Napoli (è roba vecchia, cambiano le forme ma le storie sono le stesse di cento anni fa, proprio come la notizia del colera): alla fine, anche questo, il raccontare il Male compiacendosene, è una forma di camorra.

Abbiamo invece necessità di far vedere le cose attraverso l’esperienza diretta di una città che, certo, non è il paradiso, ma che ha bisogno di pratica e non di teorie per cambiare.

La gratuità del Male che abita Napoli si ritrova bene cantata dai telegiornali, dai libri, dai giornali: il Male si alimenta del Male.

E tutto questo ci solleva dal dover osservare le pratiche quotidiane, i buoni comportamenti, la correttezza dell’uso del denaro, l’educazione stradale, il senso civico che non fanno audience e non vendono copie, ma che più banalmente servono a contrastare l’entropia.

pubblicato su Il Mattino il 17 giugno 2007

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Andare avanti dopo Saviano (di Andrea Di Consoli)

Andrea_di_consoli

Le dure parole di Sergio De Santis, scrittore che è unanimemente riconosciuto equilibrato e mai demagogico, sulle colonne di questo giornale, in data 16 giugno, mi hanno dato l’impressione di un clima che sta cambiando. Ma cosa sta cambiando esattamente a Napoli? A mio avviso sta scricchiolando la dittatura del realismo e del reportage, quella che è stata giustamente definita, su questo giornale, la “retorica dell’apocalisse”.
Che Napoli sia un Far-West lo sanno tutti, lo sa tutto il mondo. Ma raccontare la realtà criminale non significa raccontare tutta l’anima di questa città, né i suoi sentimenti segreti, né il suo dolore. La vera letteratura, si sa, è parola che dura, è un affondo sentimentale di inaudita verticalità. Il realismo, invece, specialmente quello spettacolare, ha un grande impatto emotivo, ma lascia le cose, e le persone, così com’erano in partenza. Il giochetto è semplice: basta puntare vitalisticamente il taccuino, gli occhi e le telecamere sugli zombi della camorra, e l’effetto “pulp” è garantito.

Ma il convitato di pietra di queste discussioni è Roberto Saviano, inutile nasconderlo. Non finiremo mai di parlare bene del suo libro, né di vivere con apprensione la sua condizione di scrittore minacciato dalla camorra. Saviano è, per molti di noi, un amico, un giovane reporter di talento, ma per andare avanti, per non soccombere di fronte alla dittatura del realismo e alla “retorica dell’apocalisse”, di cui lui è il principale “colpevole”, l’unica soluzione, per consentire la rifioritura del racconto di Napoli, della sua anima, della sua anima plurale, è dimenticare Saviano.

Perché diciamoci la verità: tutti gli scrittori napoletani, oggi, vivono il complesso dell’anima bella. Qualsiasi cosa letteraria provenga da Napoli, da un anno a questa parte, sembra esercizio letterario, disimpegno filisteo rispetto alle emergenze napoletane (comunque immondizia, pistole, lavoro nero, contraffazione, sangue, droga e clan ci sono da prima che nascesse Saviano, questo va detto). Invece sappiamo qualcosa di Napoli grazie a tutti, anche grazie agli scrittori che hanno parlato d’altro: di sentimenti, di sogni, di storia, di amore, di utopie, di cose non “invischiate” con la cronaca nera.

Napoli è stata sempre una città “unica”, una città orgogliosa dei propri codici “sballati”, ma adesso è diventata una città-zoo, che i cronisti di tutto il mondo vengono a visitare con la stessa curiosità che si ha quando si vanno a fotografare le scimmie con il sedere rosso. Mi domando: perché i napoletani non sono offesi? Perché non si ribellano a quest’abnorme caricatura a cui certa letteratura e il circo dei media li ha ridotti? Perché insistono a voler vivere con rassegnazione in una città dove tutto è alla rovescia, dove i peggiori elementi di Napoli, i mariuoli, i killer, i camorristi presidiano come talebani il territorio? I politici, purtroppo, saranno poco determinanti in questa battaglia, se mai ci sarà, perché i politici fanno, com’è risaputo, solo ciò che la maggioranza vuole fare. I napoletani devono cambiare con le loro mani, e secondo me questo potrà accadere soltanto se proveranno il sentimento della vergogna e dell’umiliazione. Quanti napoletani, però, conoscono la vergogna e l’umiliazione? E mi domando: Saviano li ha davvero umiliati, tutti i mariuoli di Napoli?

Lo so che dire “dimenticare Saviano” fa male, è doloroso. Ma Napoli è tante altre cose, tanti altri mari, tanti altri linguaggi, tanti altri sentimenti. La camorra si umilia anche così: con la buona letteratura, con la gentilezza, con le belle parole, con il mare, con i sogni, con la cultura che si espande nonostante tutto. Non sono anime belle gli scrittori e le scrittrici che continuano a raccontare “un’altra Napoli”. Hanno pari forza e dignità di chi mette le mani nella bocca del leone. Ma la migliore Napoli, la Napoli della cultura, dell’intelligenza, della gentilezza e della legalità deve fare muro. Ovviamente contro la camorra quotidiana e contro i mariuoli, sia in cravatta che in jeans, ma purtroppo anche contro Saviano che, senza volerlo, ha dettato un canone ingombrante e tirannico. Mi perdoni Saviano, l’amico in pericolo in vita, il grande reporter, l’intelligentissimo scrittore (il Re degli scrittori di camorra), ma Napoli deve andare avanti, riscoprire la sua pluralità, riequilibrare i suoi tanti canoni letterari, i suoi infiniti paesaggi interiori.

pubblicato su Il Mattino il 18 giugno 2007

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Credo che i toni usati su Nazione Indiana siano stati eccessivamente aspri e che Antonella Cilento, Andrea Di Consoli e Antonio Pascale abbiano subito insulti immeritati (forse anche perché il loro punto di vista è stato travisato).

Scrivo di seguito ciò che penso:

“Gomorra” di Roberto Saviano ha avuto meriti indiscutibili nell’indicare e stigmatizzare la cancrena del tessuto sociale ed economico di una certa Napoli. Perché non c’è dubbio che la società e l’economia napoletana abbiano piegato e continuino a piegare la schiena sotto il peso della criminalità organizzata. La camorra esiste – eccome se esiste -, così come esiste la mafia. A Saviano va tributato il merito del coraggio. Il coraggio di rischiare. Il coraggio di vedere e di dire, di scrivere e di descrivere. E il merito di averlo saputo fare con arguzia e talento.

Ma c’è, a mio avviso, un rovescio della medaglia di cui bisogna tener conto.

“Gomorra” si è fatto strada, prima lentamente, poi con forza inattesa fino a raggiungere livelli di fama non facilmente immaginabili. Capita però che, a volte, la fama trasbordi nella mitizzazione. E spesso la mitizzazione può essere causa di offuscamento delle prospettive, di distorsioni o addirittura – in alcuni casi – di effetti fuorvianti.

Vi ricordate il bandito Giuliano? A un certo punto, soprattutto all’estero, per via di un certo processo mediatico, la figura dell’efferato bandito fu idealizzata al punto tale da farla coincidere con l’immagine di un Robin Hood mediterraneo. Eppure Giuliano era solo un efferato bandito.

Ora, la camorra esiste e Saviano ha fatto bene a descriverla in maniera truculenta. Solo che a un certo punto il suo libro è… come dire… esploso.

Certo, se “Gomorra” ha subìto un processo di mitizzazione  non è colpa del suo autore, quanto piuttosto di un sistema mediatico che tende – ripeto – a enfatizzare il successo con effetti omologanti e stereotipanti. È falso e semplicistico identificare Napoli con tarantella, spaghetti e pizza. Ma è altrettanto errato identificarla con la camorra. O soltanto con la camorra. Napoli è anche una città d’arte, di cultura, di atmosfere magiche, di grandi tradizioni. E, d’altro canto, Napoli è una città che presenta grossi problemi spesso non collegati alla criminalità organizzata.

Io non credo che gli articoli di Pascale, Cilento, Di Consoli e di altri scrittori intervenuti sulle pagine de “Il Mattino” mirassero ad attaccare Saviano e la sua opera. Il loro intento, a mio modo di vedere, era finalizzato al ristabilimento di un equilibrio perduto a causa di quel processo di mitizzazione cui facevo riferimento prima. Ma temo che alcuni passaggi di quegli articoli siano stati travisati.

Se Saviano ha sentito il dovere – rischiando la pelle – di descrivere senza veli la Napoli della camorra ha fatto cosa giusta. Se però altri intellettuali hanno sentito la necessità di “correggere il tiro” fornendo punti di vista differenti, ritengo che abbiano fatto altrettanto bene (e che non meritino di essere insultati).

Credo che la crescita intellettuale si basi sul confronto, a volte sulla contrapposizione, di tesi e idee. Ma confronto e contrapposizione genereranno crescita solo se mantenuti entro i margini di una dialettica civile. Le risse verbali tendenti al linciaggio non servono a nessuno. Non servono a Saviano, così come non servono a Pascale, o a Cilento, o a Di Consoli. E soprattutto non servono a Napoli.

Massimo Maugeri

Pubblicato in PERPLESSITA', POLEMICHE, PETTEGOLEZZI E BURLE   81 commenti »

martedì, 19 giugno 2007

NULLA DUE VOLTE di Marco Minghetti e Fabiana Cutrano (recensione di Elio Distefano)

L’immagine che meglio descrive ciò che la mia mente visualizza alla fine della lettura di questo testo è quella del crocevia, del nodo: esso si muove infatti in un solco di confine fra diverse regioni del sapere, e proprio nell’accostamento (che poi diventa fusione quando si fa chiave ermeneutica) trova la cifra costitutiva del proprio essere. Organizzare un’azienda secondo la flessibilità del pensiero umano filtrato dall’ironia è un’operazione coraggiosa e lodevole, gravida di senso eppure lieve come insegna Calvino sospeso sul ciglio del vecchio millennio, additando “l’agile salto del poeta-filosofo” quale simbolo e insieme augurio per le coscienze forti del nuovo millennio: liberarsi dagl’impacci di modelli gestionali rigidamente “scientifici” per approdare ad una gestione dell’impresa che si faccia più “umana”, più vicina alla mutevole impermanenza del presente, ma diremmo dell’eterno presente dell’uomo, più vicino alla singolarità che alla massificazione. L’ironia accompagna e permea il libro, sollevandolo con la sua “levità pensosa” al livello delle cose veramente grandi. E poi la sorpresa, la capacità di prendere in contropiede spiazzando piacevolmente un lettore magari avvezzo ad altri generi di scrittura: la coesistenza sulla copertina del volume delle parole “poesia” e “management” è già sorprendente per un lettore “colto”, e rischia di  frantumare gli occhialini sul naso dei professori troppo pedanti. La compiacenza, alimentata dal marchio di Scheiwiller stampato in fondo alla pagina, offre garanzie che riconfortano e inducono a fidarsi. E, ironicamente appunto, stavolta “fidarsi è bene” . Aprendo le pagine, infatti, ci si trova immersi in un testo dall’andamento quasi spiraliforme, come risucchiati e attratti verso il basso dallo stesso movimento che possiede la foto di copertina. Come Alice nel pese delle meraviglie, si viene presi per mano e condotti attraverso un viaggio affascinante fra Platone e Shakespeare, in cui ogni tappa ci fa esclamare un “oh!” di meraviglia per la scoperta di un mondo non rigidamente meccanico e freddamente razionale, bensì vivo, umano, dinamico e ricco di quel raro elisir non di lunga, ma di felice vita associata  che è l’empatia. Utopia e realtà si rincorrono e giocano in un testo complesso che riesce a coniugare nella tradizionale forma del libro sequenzialità e reticolarità, facendo abbracciare antico e moderno in una sintesi che, a ben vedere, è ben più che una semplice modello di organizzazione aziendale: lo humanistic management presuppone, per essere attuato, un’educazione fortemente umanistica, o non ci si saprà mai districare fra autori e concezioni che inglobano un po’ tutte le epoche della storia del mondo (di quello occidentale, perlomeno) e conoscerle a tal punto da farne  un modello organizzativo per il lavoro di un gruppo allargato di persone. Ricordando i miei trascorsi di studente di lettere classiche nei primi anni novanta mi viene da sorridere: se ripenso all’incertezza che caratterizzava quel periodo per quanto riguardava la collocazione dei laureati in materie umanistiche in un mondo cha sembrava andare sempre più a grandi passi verso la robotica da un lato e verso il trionfo dell’economia globalizzata dall’altro, mi viene da pensare :”Oh, se allora qualcuno avesse parlato in questi termini delle humanae litterae!”. E mi sorge nell’animo uno spontaneo moto di gratitudine nei riguardi dei due autori che, con intelligenza e acume veramente encomiabili, hanno ricollocato le scienze umane nel mondo dell’impresa, ridando dignità ad un settore del sapere che era ormai considerato appannaggio di una ristrettissima èlite culturale, perlopiù accademica, arroccata nella sua torre d’avorio da cui guardare con disprezzo i comuni mortali che si affannano per cose da nulla, ma dal mondo considerata una strana genìa di ricercatori d’oro fra la polvere. Una disciplina come lo humanistic management, dunque, contribuisce a collocare gli studi umanistici alla base della formazione di chi voglia fare impresa, perché dimostra in modo inappuntabile come la poesia e la filosofia siano parte essenziale della formazione di dirigenti e manager, che sottraggono alla tirannia di un modello rigidamente “scientifico”, capace di fare a meno del genio, sostituendolo con la compattezza di un corpo di mediocri che schiaccia ed emargina chiunque si sollevi dal piattume dell’ordinario, e quindi il creativo. Nemmeno l’odio, che sotto forma di invidia rappresenta uno dei motori principali e più propositivi delle relazioni umane, può nulla contro questo modello – generatore, oltretutto, di tanti potenziali Fantozzi – perché la genialità non si può emulare, ma va solo lasciata agire.

Elio Distefano

http://www.eliodistefano.135.it/

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NULLA DUE VOLTE, Il management attraverso le poesie di Wislawa Szymborska

di M. Minghetti e F. Cutrano

Scheiwiller libri, Milano, 2006

euro 16,50

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domenica, 17 giugno 2007

78 RAGIONI PER CUI IL VOSTRO LIBRO NON SARA’ MAI PUBBLICATO (di Antonella Cilento)

Oggi in Italia è forse fin troppo facile per gli esordienti arrivare alla pubblicazione e questa facilità, legata soprattutto alla sete di scritture giovani, è in crescita, piuttosto che in calo: può capitare di esordire dopo molti anni di rifiuti, e non è detto che sia un male, così come può risultare facilissimo trovare un piccolo editore disposto a rischiare su un testo anche di modesta qualità. Lo spazio ufficiale per gli esordi, considerando anche le grandi case editrici, è nel nostro paese percentualmente basso, tuttavia la selezione di quanto viene pubblicato sposta sempre più i criteri dalla qualità letteraria alla stretta vendibilità.

Così, se la massa di esordienti è in continuo aumento e preme su agenzie, scuole di scrittura e scrittori, cercando canali di lettura, il panorama che si offre in risposta è sempre più blindato e commerciale: bisogna che un editore faccia i numeri, e gli editor ne sono i primi responsabili, così potranno in seconda battuta puntare su autori che vendono meno ma sono di maggiore qualità. 

E pur di fare i numeri, si pubblica davvero di tutto.

Ma se è molto facile scagliarsi contro il mondo dell’editoria, non bisogna dimenticare che è anche la folla di aspiranti, molti dei quali senza qualità e vocazione, a rendere difficile la selezione. Scrive a questo proposito Pat Walsh:

“La ragione principale per cui il vostro libro, una volta che avrete finito di scriverlo, non sarà pubblicato è che non è abbastanza bello… forse fa addirittura un po’ schifo”. Walsh, editor e co-fondatore della casa editrice McAdam/Cage, ha le idee chiare su cosa deve fare un esordiente per confrontarsi con la sua aspirazione alla scrittura e le espone con sistema in 78 ragioni per cui il vostro libro non sarà mai pubblicato e 14 motivi per cui invece potrebbe anche esserlo (Tea, 9 euro).

L’elenco è secco e semplice: non si viene pubblicati negli Stati Uniti – ma il parallelo con l’Italia è abbastanza stringente – perché non si è mai scritto il libro di cui tanto si parla (e cioè si dice sempre che lo si scriverà, ma che non si è ancora trovato il tempo per farlo, oppure che servono buone conoscenze nell’ambiente prima ancora di mettersi a scrivere); perché il libro è brutto, perché si pensa che scrivere sia facile, perché non si cura la lingua o la storia, perché si plagia o si è troppo affezionati ai propri errori, perché ci si innamora del primo prodotto senza rilavorarlo, perché non si prende sul serio la fatica di scrivere. In fine, per tutta una lunga serie di ragioni che riguardano la scarsa conoscenza delle regole del mondo dell’editoria. Ed è evidente che, se esistono ben 78 motivi per fallire e appena 14, secondo Walsh, per avere qualche probabilità di riuscita, l’imbuto in cui cade l’esordiente è ben stretto: fra le qualità necessarie ci sono le ovvie (aver scritto un bel libro), ma anche essere onesti con se stessi, coltivare speranze e aspettative ragionevoli, essere pazienti, tenaci e buoni gestori del proprio tempo, saper accettare i no e le critiche, prendersi sul serio ma divertirsi.

Una delle questioni su cui Walsh punta è la fretta: se un manoscritto viene inviato state pur sicuri che sarà difficilmente letto una seconda volta, è inutile mandare capitoli di prova che poi si cambieranno. Bisogna stare molto attenti alle lettere di presentazione e ai modi con cui contattate gli editori e gli agenti: potreste presentarvi nel modo peggiore. 

A volte, però, si sanno scrivere splendide lettere di presentazione e pessimi libri, e anche questo è un notevole handicap. In sostanza, l’antimanuale di Walsh, scrittore fallito e editor felice, sia pur nella manichea  e pragmatica modalità americana, dà suggerimenti autentici, che chiunque conosca un po’ il mondo dell’editoria non potrà che sottoscrivere. Il ritratto di questo mondo affollatissimo di aspiranti inconsapevoli che bussano alle porte degli editori sbagliati, che tartassano gli agenti e che inviano qualsiasi cosa abbiano buttato giù in quattro e quattr’otto, non può che somigliare, in piccolo, alla nostra realtà. Certo, è difficile non ricordarsi di un piccolo ma perfetto racconto di Giuseppe Pontiggia (Lettore  di casa editrice) in cui un editor, un po’ affaticato e afflitto dalle molte storie quasi buone ma tutte senza obiettivi che gli tocca leggere, finisce con il cestinare per sbaglio anche un libro destinato al reparto traduzioni e firmato Dostojevski.

E in effetti Walsh di questi possibili errori non se ne duole, anche perché sostiene in un capitolo che gli editori cercano storie credibili e forti, in un altro che occorre avere un perfetto tempismo e, in un successivo, che certo si può essere sfortunati e c’è poco da fare.

A completare questa complicata quadratura del cerchio c’è la notizia che l’editoria è un’industria, che i libri sono numeri, in senso matematico e in senso economico, e che quando gli autori non possono sentire li si chiama per codici o per unità: “Ah, come staremmo meglio senza di voi! Potessimo fare il nostro lavoro senza autori!”, mi disse in uno slancio di sincerità una mia vecchia editor. E non si può non confrontare questa realtà, fatta spesso di lettere prestampate e, raramente, di brevi messaggi di apprezzamento, quando capita, con le accurate  lettere che Calvino scriveva per i suoi rifiuti quaranta e più anni fa: l’editoria italiana sembra non saper più trovare il tempo, a dispetto di editor spesso molto competenti e a loro volta autori, di costruire alcuna idea di letteratura. Colpa, allora dell’assenza di sogni imprenditoriali? Di una progettualità finalizzata solo al denaro? Fatto sta che in risposta a questi vuoti di qualità proliferano editori a pagamento, che appiattiscono ancora di più la selezione, pubblicando dietro compenso i libri che altri rifiutano o che nemmeno leggerebbero, tanto sono improponibili. Insomma, chi ne fa le spese in Italia molto più che in America, considerando il mercato asfittico e l’assenza di lettori, sono gli autori che, come Walsh spiega, meriterebbero più rispetto  per il loro mestiere, per l’enorme fatica mai ripagata e in nessun modo compensata: perché se, a volte, negli Stati Uniti possono capitare anticipi faraonici e royalties spettacolari, in Italia vivere di libri, specie di quelli scritti bene, è impossibile.   

Antonella Cilento

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Antonella Cilento (Napoli, 1970), ha pubblicato Il cielo capovolto (Avagliano, 2000), Una lunga notte (Guanda, 2002), Non è il Paradiso (Sironi, 2003), Neronapoletano (Guanda, 2004), L’amore, quello vero (Guanda, 2005), Napoli sul mare luccica (Laterza, 2006).

“Una lunga notte” ha vinto il Premio Fiesole e il Premio Viadana, è stato finalista al Premio Greppi e al Premio Vigevano. “L’amore, quello vero” ha vinto il Premo Vitaliano Brancati. E’ tradotta in Germania dalla Bertelsmann. E’ stata finalista al Premio Calvino 1998 con il romanzo inedito “Ora d’aria”. Ha pubblicato numerosi racconti su riviste.

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Conduce laboratori di scrittura dal 1993 a Napoli e in Campania, dal 2002 in tutt’Italia.

Ha realizzato:

per Cento Lire, a cura di Lorenzo Pavolini, i racconti radiofonici intitolati "Voci dal silenzio" (RAI, Radio Tre, 15-19 gennaio 2001). Attualmente, collabora con "Il Mattino", "L’Indice dei libri del mese". Dal 1998 al 2000 ha collaborato con il "Corriere del Mezzogiorno" (supplemento del Corriere della Sera), nel 2003 con "Il sole 24 Ore Sud", nel 2005 con "Il Riformista".

Pubblicato in L'OMBRA E LA PENNA (con il contributo di Antonella Cilento)   36 commenti »

giovedì, 14 giugno 2007

GLI ULTIMI FIGLI di Silvia Bonucci (con videointervista all’autrice)

Ho avuto il piacere di incontrare Silvia Bonucci giorni fa nei locali della libreria “Megastorie” di Catania. L’occasione è stata la presentazione del suo romanzo più recente “Gli ultimi figli”, edito da Avagliano; romanzo rientrato nella tredicina dei libri candidati allo Strega 2007.

Quello della Bonucci è un testo di stampo classico e che racconta una storia che abbraccia tre generazioni. Ma la storia è anche quella della grande trasformazione italiana che ha coinvolto il mondo rurale e quello della fabbrica. Storia di vicende umane e luoghi. Luoghi raccontati sulla base di una conoscenza personale supportata da un grande lavoro di documentazione da parte dell’autrice.

Vi propongo una videointervista alla Bonucci e, di seguito, una scheda di presentazione del libro.

Tre generazioni a confronto. Tre generazioni che illustrano, in una sorta di affresco sociale, il passaggio dall’antico al moderno, dalla sottomissione alla rivendicazione, dai campi alle fabbriche, dalla nascita di un mondo alla sua fine. Ma anche la storia di un luogo ben preciso, una piccola regione della Maremma dove, all’indomani della guerra, cultura rurale e industriale si sono trovate improvvisamente a convivere, dove il partito comunista e i sindacati hanno rappresentato un motore essenziale della consapevolezza e del riscatto sociale. E innanzitutto, una storia di persone, raccontata attraverso le vicende di una famiglia di coloni. Nedo e Vasco Rinaldini sono due fratelli, figli del “capoccia” di una fattoria in cui sono nati mezzadri. Nedo è il primogenito, il più consapevole ma anche il più attaccato a un passato da cui pure cerca di emanciparsi. Vasco è il ribelle, tutto proteso verso il futuro e la conquista di un benessere per il quale sembra disposto a pagare qualsiasi prezzo. Scelgono così strade diverse per raggiungere quella che pensano essere la via del progresso, parola che non assume per loro lo stesso significato ma che rimane il vero motore dell’esistenza di entrambi. Due mondi che spariscono raccontati attraverso lo sguardo di chi questi mondi li ha voluti cambiare. Il loro smarrimento, la loro sorpresa nel ritrovarsi a essere gli artefici della propria estinzione. E infine, il passaggio conclusivo alla nuova generazione, più colta, più urbana e ormai totalmente incapace di comunicare con i propri padri. Un omaggio agli ultimi figli, gli ultimi combattenti, l’ultima generazione prima del trionfo di una società in cui ci si illude di non dover più conquistare nulla.

GLI ULTIMI FIGLI di Silvia Bonucci

Avagliano editore, 2006

pag. 229, euro 14

Silvia BONUCCI è nata a Monza nel 1964. Laureata in lingue alla Sorbona, ha conseguito un master in traduzione (inglese-francese-italiano) all’École Supérieure d’Interprètes et de Traducteurs. Dal 1988, vive a Roma dove lavora come traduttrice, essenzialmente nel campo del cinema e dell’arte. La sua attività professionale comprende una decennale collaborazione con Nanni Moretti e con molti altri registi italiani (Marco Tullio Giordana, Mario Martone). Nel 2002 è stata tra le fondatrici dei «Girotondi per la democrazia», movimento di protesta contro il governo Berlusconi. Il suo primo romanzo Voci d’un tempo, edito dalla e/o, ha vinto nel 2003 il premio Regium Julii e il premio Zerilli Marimò ed è stato tradotto in Francia e negli Stati Uniti.

Qualcuno di voi ha letto questo libro? Che idea vi siete fatti a seguito dell’ascolto della videointervista? Avete domande da rivolgere all’autrice? Considerazioni sui temi trattati dal libro?

Lo spazio commenti è aperto.

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mercoledì, 13 giugno 2007

CUBA PARTICULAR – Sesso all’Avana (di Alejandro Torreguitart Ruiz )

Cubaparti Alejandro Torreguitart Ruiz (L’Avana, 1979) è un giovane autore cubano che ha pubblicato tre libri in Italia. In patria scrive poesie e racconti fantastici per la rivista El Barrio, è poeta repentista, cantante rock per il gruppo Esperanza. Ha esordito in Italia con Machi di carta – confessioni di un omosessuale (Stampa Alternativa, 2003) che ha avuto un buon successo di critica e di pubblico. A gennaio 2004 ha pubblicato il romanzo breve La Marina del mio passato (Edizioni Nonsoloparole – Napoli) e a maggio 2005 il romanzo di ampio respiro Vita da jinetera (Edizioni Il Foglio – Piombino) sul mondo della prostituzione. Alcuni dei racconti contenuti nell’inedito Bozzetti avaneri sono stati pubblicati su rivista e in alcuni siti internet (si veda www.tellusfolio.it). Adesso esce questo Cuba particolar – Sesso all’Avana, che nella versione spagnola è intitolato La casa di Isa – notti di sesso all’Avana, storia di vita quotidiana nella Cuba del periodo speciale tra jineterismo e arte di arrangiarsi. Il romanzo è scritto in terza persona con uno stile piano e colloquiale, poco letterario e vicino alla lingua parlata, ma l’autore realizza efficaci momenti poetici quando pizzica le corde del rimpianto e del tradimento rivoluzionario. I fatti si svolgono nel 2003, periodo in cui viene scritto il romanzo, ma i problemi sono attuali, pure se invece dei dollari adesso i cubani maneggiano pesos convertibles.

Il romanzo si dipana tra avventure di sesso e disperazione, miseria e nobiltà, sogni e speranze tradite che vedono come scenario la casa particular gestita da Isa. Storie di vecchi cacciatori di sesso venuti dalla vecchia Europa che se la fanno con ragazzine in cerca di una via di fuga. Incontri che durano lo spazio di una notte o di una breve vacanza, menzogne che illudono e passioni che svaniscono in fretta. In una Cuba dove il sogno rivoluzionario è caduto a pezzi e il primo prosseneta è Fidel Castro, la casa di Isa è il regno delle illusioni erotiche, del sesso per turisti, delle avventure impossibili. Nonostante tutto, a volte, fa capolino anche l’amore.

Alejandro Torreguitart cerca di far conoscere il vero volto della sua terra e anche se molti non vorrebbero sentirselo raccontare non è possibile fuggire dalla realtà. La traduzione del romanzo, come dei precedenti lavori editi in Italia, è opera mia. Leggiamone alcune parti per comprendere stile e situazioni narrative.

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Fine estate all’Avana tra gente che va e gente che viene. Non ci sono famiglie, non ci sono turisti da spiaggia. Ottobre è il mese dei cicloni e dei cacciatori di sesso. Tempeste di vento e avventure, soltanto questo è l’autunno all’Avana, il mese peggiore dell’anno. Cadono fronde di palme sotto i colpi del vento, va via la corrente per ore, si abbattono pali di luce e telefono, la gente corre per strade allagate da sconquassi di pioggia. Il paesaggio d’autunno all’Avana, come in un giallo del Conde di Padura Fuentes, è il paesaggio d’un porto cadente e del mare che tracima la vecchia balaustra del Malecón. E noi qui fermi ad attendere il peggio, giorno dopo giorno. Aspettiamo la burrasca che porti via il tetto d’una casa in Centro Avana, che faccia cadere una vecchia ceiba o una statua decrepita. Volano le bandiere nazionali davanti alle scuole e i busti di José Martí. Volano mentre Isa le osserva che si strappano sotto i colpi del vento. Anabel va a scuola, come ogni giorno, l’accompagna Paco e poi se ne torna lesto a  casa. Per uscire si esce poco. Non è stagione. Si sta tappati in casa ad attendere la fine della tormenta. Ottobre è il mese dei cicloni e dei ricordi, ci si chiude in casa e si racconta il passato, storie di vecchie storie senza tempo. A casa di Isa, in ottobre, c’è soltanto Mario che viene. Solo lui non ha paura dei cicloni e sfida pure le tempeste di vento. Quel che ha da fare non ha niente a che vedere con il mare, né con la scoperta dei luoghi della rivoluzione. Il padre chiude gli alberghi a fine settembre e Mario parte subito per Cuba a caccia di donne e avventure, che poi per lui sono la stessa cosa. Isa e Paco lo sanno e tengono libera la sua camera per l’intero mese.

La fine di ottobre e gli ultimi colpi di vento, le palme che si lasciano flettere dalla forza della natura sconvolta, i rami delle ceibas divelti, le banchine del vecchio porto in disarmo ancora più tristi. E Nueva Vedado avvolta nei rumori d’una giornata di pioggia, le strade allagate dalla bufera, la solita tempesta tropicale che sorprende e lascia esterrefatti in attesa di un nuovo squarcio di sole. Fa pure freddo quest’anno all’Avana e la notte ci vogliono persino pigiama e coperta. Mario torna a casa portandosi via i soliti ricordi di tristi avventure pagate in dollari, torna alla solita vita fatta di menzogne e solitudini. Mario fa lo scrittore, in Italia. Mario vive alle spalle del padre, soprattutto. Forse rivedrà Manuela. Forse no. Isa spera soltanto di non vederlo più, pure se i suoi soldi le servono, inutile negare. Isa spera che qualcosa cambi, prima o poi, pure se lo sa che le sue speranze sono illusioni e che l’unico cambiamento possibile è la fuga. Lei però non scapperebbe mai, è troppo vecchia e troppo legata alla sua terra anche soltanto per pensarlo. 

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

Alejandro Torreguitart Ruiz

CUBA PARTICULAR

Sesso all’Avana

Stampa Alternativa – Euro 10,00 – Pag. 144

Collana Eretica – www.stampalternativa.it

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Seguono le prime pagine del romanzo

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Prologo

La vita di Isabel scorre per calle veintitrés, così crede lei almeno. Di sicuro da quando suo padre è approdato su quest’isola e ha deciso di metterci radici. Fuggiva da qualcosa, come tutti quelli che allora sbarcavano a Cuba. Da cosa però Isabel non lo ha mai saputo.

“Non me ne andrò mai da questo posto, bambina mia” le diceva “dove potrei trovare di meglio per la mia vecchiaia?”.

E lei se lo ricorda bene suo padre con il bicchiere di rum e il sigaro acceso al fresco della sera, e lo rimpiange. 

Quando eri vivo tu, papà, erano altri tempi.

Ma il tempo passa e c’è poco da fare.

I motivi del padre non ci sono più, volano via con il vento d’una rivoluzione che scompare come un triste arcobaleno dopo un giorno di pioggia. Resta soltanto la sua casa e almeno quella a Isabel non gliela può levare nessuno. Una casa che fa da rifugio per notti inclementi, che conserva ricordi del passato.

Aveva ragione lui, neppure io la lascerei questa terra, pensa Isabel. 

Amo ogni angolo sudicio di strada, i palazzi che cadono a pezzi, i tornados che si abbattono impietosi, il vento tropicale che fa impazzire nei giorni d’agosto. Amo il tempo che passa e non lo senti pesare, i silenzi del giorno, la musica della notte. Amo Cuba e i cubani con quel carattere sincero e sorridente. Amo la mia terra perché sono una di loro. Cubana hasta la muerte.

Però non è sempre così e Isabel lo sa. Più spesso la odia e la maledice quella terra. Vorrebbe fuggire. Vivere una vita normale, promettere un futuro a sua figlia, lavorare e pensare che serve, smettere una volta per tutte di tirare a campare.

La vita di Isabel scorre all’Avana, nonostante tutto. Anche se attende cambiamenti impossibili. Anche se ha smesso da tempo di credere. La sua vita è in calle veintitrés, Nueva Vedado, un quartiere elegante dove una volta vivevano i vecchi padroni. Possiede una bella villa che le ha lasciato suo padre, che tutti le invidiano perché la può affittare ai turisti. Isabel è padrona di una casa particolar. Non è da tutti a Cuba. È una nuova ricca, come dice la televisione, una privilegiata che vive maneggiando dollari. Ma lei non ha voluto questo privilegio, a lei andava meglio prima, quando ci credeva. Ha una laurea in giornalismo presa all’Università dell’Avana e tanti anni fa lavorava per Tele Rebelde, al servizio della rivoluzione. Ideava programmi, faceva interviste, conduceva inchieste, commentava le nuove idee. Era soddisfatta di quel che faceva. Dava il suo aiuto alla causa rivoluzionaria. Suo padre ci aveva creduto. Sua madre pure. Erano gli anni Settanta, quelli prima del muro. L’Unione Sovietica teneva Cuba per mano, lo zucchero era presente e futuro, non serviva altro. C’erano gli yankees di là dal mare, ma dopo Playa Giron se ne stavano buoni a leccarsi le ferite. Non erano loro a fare paura. Fidel infondeva coraggio con la sola presenza. Isabel si fidava di lui, sapeva che il Comandante non li avrebbe mai abbandonati. D’un tratto tutto è finito. Il periodo speciale ha fatto cadere speranze e certezze. A Isabel è rimasta una casa particular in calle veintitrés.

E in quella casa succede di tutto, da un po’ di tempo.   

Lei si rintana in una piccola stanza con la figlia e il marito e il resto lo lascia ai turisti, padroni di Cuba.

Ero giornalista e adesso gestisco un bordello, pensa.

Capitolo Primo

Il Portoghese

Il Portoghese viene all’Avana a fine anno, quando chiude la sua azienda per le feste di Natale. Capita anche in altri periodi, ma la fine d’anno a Cuba è diventata un rito. E all’Avana la sua casa è in calle veintitrés, da Isabel. Considera la villa coloniale immersa in un giardino di palme come casa propria. Si sente in famiglia. Paco, il marito di Isabel, lo va a prendere all’aeroporto con la vecchia Chevrolet rosso mattone e subito iniziano le solite confidenze.

“Come va, vecchio porco?” domanda il Portoghese e gli dà un colpetto sulla spalla.

“Scusami amico. Non mi è ancora arrivato il Ferrari. Per ora ancora Chevrolet. Però è solida. Ho appena cambiato le gomme”.

È un vecchio gioco quello che fanno. Ogni volta la solita storia del Ferrari che deve arrivare. Un modo per sorridere e rompere il ghiaccio. Il Portoghese si chiama Luis ma siccome viene soltanto lui dal Portogallo a casa di Isabel è il Portoghese, c’è poco da fare. Come sempre c’è anche Carlo, un frocio che Paco e Isabel hanno soprannominato el maricón. Lo sopportano poco ma pare molto amico del Portoghese. E il Portoghese paga bene, in dollari contanti, quindi c’è poco da fare i sofisticati. Paco sorride anche al frocio, pure se a lui i froci lo fanno andare in bestia, ma i dollari cambiano il nero in bianco, figurarsi le idee. Paco mette in moto e parte alla volta della casa.

“Cazzo se fa caldo” dice il Portoghese.

“A Lisbona è più freddo?” sorride Paco.

“Tre gradi sotto zero. Ci voleva una vacanza a Cuba”.

Chicas y playas, como siempre!”.

“Più chicas che playas” precisa il Portoghese.

Ridono di gusto. Dalla radio una musica di Willy Chirino ripete ossessiva Cuba que lindos son tus paysajes. Il motore scoppietta e l’auto affanna tra buche e strade sterrate d’una capitale in abbandono. Il frocio non dice una parola. L’argomento chicas non lo riguarda. Fuori dal finestrino passano ragazzi niente male e lui se li divora con gli occhi. Pensa che deve levarsi un po’ di voglie durante il soggiorno. L’aria calda del dicembre avanero gli porta alla memoria tanti ricordi. Lui sai che qui tutto è permesso e bastano pochi dollari per comprare anche i sogni.

Casa di Isabel calle veintitrés.

Non c’è il tempo di riposare che si parte per l’avventura della notte. Il Portoghese e il suo amico mangiano in fretta un piatto di congrís con del maiale, bevono cerveza Bucanero di quella forte. Isabel ha preparato poche cose. Banane fritte e un po’ di boniato, yuca in salsa. Tutto qui. Sa bene che non è per la cucina che vengono da lei i turisti che frequentano casa sua. Mai che venisse una famiglia. Lei almeno non se ne ricorda una. 

“Vogliamo andare in casa particular perché così si sta a contatto con la gente. Si vede Cuba con gli occhi dei cubani” è la scusa che ripetono. Forse vogliono convincersi pure loro.

Isa lo sa perché vengono in una casa particular, magari poco pulita, scomoda e con i condizionatori rumorosi, lontana da spiagge e attrattive turistiche. Isa lo sa e si sente come una vecchia maitresse. Una matrona che deve tenere il bandolo a tutti, combinare appuntamenti e talvolta cercare ragazze.

Se almeno lo dicessero chiaro: “Veniamo qui per scopare tranquilli. Perché se portiamo una ragazzina di quindici anni non succede niente. Perché negli alberghi di Fidel non potremmo mai cambiare donna ogni notte e fare festa sino all’alba”.

“Portaci a fare un giro” dice il Portoghese a Paco dopo mangiato.

“Dove volete andare?” chiede lui.

“Ci fidiamo di te”.

Paco lo sa dove vogliono andare. Non occorre molta immaginazione. Fidel ha emanato leggi restrittive, ha chiuso discoteche e ha proibito i contatti con gli stranieri. Però Paco lo sa dove si può ancora fare qualcosa senza rischiare troppo. La vecchia Chevrolet rumoreggia nella notte in direzione della Villa Panamericana. 

La discoteca della Villa non è niente di speciale. Una comune discoteca al piano terra di un grande albergo. Accanto c’è una piscina per turisti dove si esibiscono gruppi di musica tradizionale. Poco lontano las Playas del Este, una volta luogo di facili incontri, adesso campo di battaglia tra polizia e ragazzine che provano a rimorchiare. La discoteca però è tranquilla. Ci sono pochi controlli, sia dentro che fuori.

“Questo è un buon posto” dice Paco.

“Tu non entri?” chiede il Portoghese.

“No, preferisco dormire un poco”.

Paco ha messo il ribaltabile ai sedili della Chevrolet. Se lo è costruito da solo. È utile il ribaltabile quando si portano fuori i turisti con un taxi particular. Si può riposare mentre loro si danno da fare con le ragazze.

Paco è innamorato di Isa, almeno così pare. Per quanto può essere fedele un uomo cubano lui prova a esserlo. Almeno fino a quando dura l’amore. 

Passa poco tempo, ma non abbastanza per riposare davvero e recuperare le forze. Paco viene svegliato di soprassalto dalla risata stridula di una ragazzina. Poi la voce del Portoghese.

“Portaci a casa, Paco” fa.

Missione compiuta.

Il Portoghese stringe tra le braccia un bel pezzo di mulatta che avrà poco meno di vent’anni, gambe lunghe scoperte da una minigonna rossa e seno piccolo, sorriso malizioso tra le grandi labbra.

El maricón è insieme a un ragazzino che pare il fratello della mulatta.  Lui è imbarazzato mentre il frocio lo tocca un po’ ovunque e gli accarezza il pene tra le pieghe dei pantaloni. 

Paco accende il motore e la Chevrolet si mette in moto diretta a Nueva Vedado. La casa di Isa è pronta ad accogliere una notte d’amore, anche se la parola amore pare sprecata.

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martedì, 12 giugno 2007

IN DIFESA DEL VAL DI NOTO (di Andrea Camilleri)

Andrea Camilleri

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Non potevo non riprendere, anche qui a Letteratitudine, l’urlo di Camilleri lanciato dalle pagine di Repubblica. (Massimo Maugeri)

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I milanesi come reagirebbero se dicessero loro che c’è un progetto avanzato di ricerche petrolifere proprio davanti al Duomo? Rifarebbero certo le cinque giornate.

E i veneziani, se venissero a sapere che vorrebbero cominciare a carotare a San Marco?

E i fiorentini, sopporterebbero le trivelle a Santa Croce?

I rispettivi abitanti che ne direbbero di scavi per la ricerca del petrolio a Roma tra i Fori imperiali e il Colosseo, a piazza De Ferrari a Genova, sulle colline di Torino, a piazza delle Erbe, a piazza Grande, lungo le rive del Garda?

Non si sentirebbero offesi e scempiati nel più profondo del loro essere?
Ebbene, in Sicilia, e precisamente in una zona che è stata dichiarata dall’Unesco “patrimonio mondiale dell’umanità”, il Val di Noto, dove il destino e la Storia hanno voluto radunare gli inestimabili, irrepetibili, immensi capolavori del tardo barocco, una società petrolifera americana, la “Panther Eureka”, è stata qualche anno fa autorizzata, dall’ex assessore all’industria della Regione Sicilia, a compiervi trivellazioni e prospezioni per la ricerca di idrocarburi nel sottosuolo. In caso positivo (positivo per la “Panther Eureka”, naturalmente) è già prevista la concessione per lo sfruttamento dell’eventuale giacimento.

In parole povere, questo significa distruggere, in un sol colpo e totalmente, paesaggio e storia, cultura e identità, bellezza e armonia, il meglio di noi insomma, a favore di una sordida manovra d’arricchimento di pochi spacciata come azione necessaria e indispensabile per tutti. E inoltre si darebbe un colpo mortale al rifiorente turismo, rendendo del tutto vane opere (come ad esempio l’aeroporto Pio La Torre di Comiso) e iniziative sorte in appoggio all’industria turistica, che in Sicilia è ancora tutta da sviluppare.

Poi l’inizio dei lavori è stato fermato, nel 2003, dal Governatore Cuffaro su proposta dell’allora assessore ai Beni Culturali Fabio Granata, di Alleanza nazionale, in prima fila in questa battaglia.

Ma è cominciato quel balletto tutto italiano fatto di ricorsi all’ineffabile Tar, rigetti, annullamenti, rinnovi, sospensioni temporanee, voti segreti, vizi di forma e via di questo passo ( ma anche di sotterranee manovre politiche che hanno sgombrato il campo dagli oppositori più impegnati).

E si sa purtroppo come in genere questi balletti vanno quasi sempre tristemente a concludersi da noi: con la vittoria dell’economicamente più forte a danno degli onesti, dei rispettosi dell’ambiente, di coloro che accettano le leggi. E i texani, dal punto di vista del denaro da spendere per ottenere i loro scopi, non scherzano.

Vogliamo, una volta tanto, ribaltare questo prevedibile risultato e far vincere lo sdegno, il rifiuto, la protesta, l’orrore (sì, l’orrore) di tutti, al di là delle personali idee politiche?

Per la nostra stessa dignità di italiani, adoperiamoci a che sia revocata in modo irreversibile quella contestata concessione e facciamo anche che sia per sempre resa impossibile ogni ulteriore iniziativa che possa in futuro violentare e distruggere, in ogni parte d’Italia, i nostri piccoli e splendidi paradisi. Nostri e non alienabili.

E ora, please, firmate anche voi (cliccate qui).

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venerdì, 8 giugno 2007

DI CHI VORRESTE SENTIRE “LA VOCE”?

Robbie Williams

Avete saputo che Robbie William parla con il defunto Frank Sinatra?

Oh, sì! Ed è tutto vero, mica una squallida trovata pubblicitaria.

Da Repubblica.it: “Robbie Williams da popstar a medium. Il cantante ha infatti detto di essersi messo in contatto con Frank Sinatra grazie ai suoi poteri paranormali e di aver ottenuto da ‘The Voice’ l’autorizzazione a cantare alcuni suoi grandi classici. (…) "Mi sono messo in contatto con lui quando ero a casa e ha detto che gli piacevano le mie versioni. E’ stato accanto a me quando li ho registrati", ha detto Williams… (…) che è convinto di avere poteri soprannaturali: "Si’, fin da quando sono bambino – ha detto la popstar tra il serio e il faceto -. Quando ero piccolo vedevo delle cose: una volta una luce verde è passata vicino a casa mia".”

A questo punto mi sento sollevato e vi confesso qualcosa che mi pesava come un macigno.

Ehm… ecco… sto scrivendo il mio nuovo romanzo sotto la dettatura di Luigi Pirandello. A dire il vero procediamo un po’ lentamente, dato che lavoriamo prevalentemente di notte. E poi ogni tanto interferiscono Tomasi di Lampedusa e Giovanni Verga. E l’altra notte Sciascia mi ha sussurrato a un orecchio che avrebbe tra le mani un raccontino niente male.

Ogni tanto – con la coda dell’occhio – scorgo D’Arrigo, che però se ne sta in disparte per (mi dicono) lavorare a una nuova stesura dell’Horcynus Orca.

La settimana scorsa, pensate un po’, è venuto a trovarmi Salvatore Quasimodo. Aveva dei versi da proporre. Io gli ho detto che con i versi non ho molta dimestichezza. E allora lui mi ha risposto: "Ma questi sono versi versatili! E comunque versi diversi". Io ho alzato le spalle e in lontananza ho scorto un gruppo di persone. Molti di loro scuotevano la testa, forse in senso di sdegno: ho riconosciuto Capuana, De Roberto, Brancati, Aniante, Addamo, Pizzuto, Patti e – mani in tasca, un po’ più distante – un Bufalino inbufalito.

E poi… be’… non so se confidarvi anche quest’altra cosa, ma tempo fa – sempre di notte – sono stato svegliato da Calvino. Il buon Italo mi chiedeva disponibilità per un aggiornamento delle sue Lezioni americane. Poi però è sopravvenuto Vittorini, l’ha preso a braccetto e gli ha detto che io – in quanto siculo – sono cosa loro. Però ha aggiunto: "Ma non ti credere, non c’è molto da prendere da questo!"

Teneva in mano un numero del Menabò e non ho ben capito se il termine questo fosse riferito a me o alla rivista.

Un’ultima cosa. Anch’io, come Robbie Williams, vedo delle cose (oltre a sentirle): mi capita soprattutto quando sto molto tempo davanti allo schermo del pc. Mi passano davanti agli occhi… come dire… oggetti scuri, piccoli come insetti.

Povero Robbie. Come lo capisco. Credetemi, non è facile essere dotati di poteri paranormali. E poi sentire la voce di uno che era soprannominato The Voice dev’essere particolarmente impressionante.

E meno male che è un cantante anglosassone e non uno scrittore siciliano. Altrimenti, in un momento di ispirazione di natura onomatopeica, Verga avrebbe potuto urlargli: "Robbie mio, vientene con me!"

Magari prendendolo a bastonate.

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P.S. Chissà se, tra voi, c’è qualcuno che condivide l’esperienza dell’ascolto di voci! Secondo me, sì! Dài… chi è che vi appare di notte, magari nei sogni?

Oppure… di CHI vorreste sentire "la voce"?

P.P.S. La foto che ritrae Williams con un paio di slip davanti al volto l’ho pescata dalla rete. Non chiedetemi se abbia significati metaforici. O simbolici.

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giovedì, 7 giugno 2007

GIOVENTU’ LIBRANTE

Apro questa nuova rubrica – Gioventù librante - dedicandola ai giovanissimi, con l’obiettivo di contribuire ad avvicinarli alla lettura e al mondo dei libri.

Ho in testa un progetto che spero di attuare dopo l’estate. Ve ne parlerò al momento giusto. Per adesso Gioventù librante ospiterà questa iniziativa lanciata dalla libreria Cavallotto.

L’iniziativa prevede il coinvolgimento di un giovane lettore consulente.

La prima consulenza è della studentessa Chiara Pappalardo e riguarda i due seguenti libri pubblicati da Fanucci (che per la verità non conosco, ma che mi sembrano andare nella direzione dei libri di Moccia).

Massimo Maugeri

Il mondo nei tuoi occhi

di Loredana Frescura e Marco Tomatis (Fanucci editore)

Riassunto

Angelo e Costanza sono due ragazzi di sedici anni. Un giorno le loro vite si intrecciano, quando, alla stazione frequentata da entrambi, il ragazzo aiuta la ragazza a rialzarsi dopo una brutta caduta. Fra i due è colpo di fulmine e i ragazzi si scambiano i numeri di cellulare in modo alquanto bizzarro, infatti Costanza lo scrive sul finestrino del treno sul quale Angelo è già salito. Ma è costretta a scriverlo al contrario, così che lui possa facilmente leggerlo. Dopo varie titubanze per la vergogna, al secondo appuntamento i due si baciano e passano splendide ore in un luogo di incanto. Ma presto torneranno a fare i conti con la vita di tutti i giorni: Costanza scoprirà che la sua amica d’infanzia, Chiara, è incinta, mentre Angelo riceverà dalla più carina della scuola un invito, che deciderà di accettare. Ma proprio mentre Angelo è fuori con la ragazza, avrà un incidente con il motorino e all’ospedale, fatalmente, verrà scoperto da Costanza. Dopo una lunga lontananza, un regalo inatteso per il compleanno di Costanza la porterà a rivalutare la situazione e a seguire Angelo alla stazione. Proprio lì, per recuperare il biglietto sfuggito dalle mani del ragazzo, Costanza rischierà di essere investita da un treno. All’ospedale ritroverà Angelo e i due si dichiareranno il loro amore reciproco.

Commento

La storia è rivisitata sia dal punto di vista di Costanza, sia da quello di Angelo. La narrazione inizia alla stazione, con Costanza che attraversa le rotaie per recuperare il biglietto del ragazzo; poi un lungo flashback ci racconta la lora vicenda dall’inizio, dal primo loro sguardo. La scrittura scorre attraverso il flusso dei pensieri, ora di lei, ora di lui, mostrando come ragazzi e ragazze vedano le cose con occhi diversi. Un affondo nel mondo giovanile, costituito da tranquilli ed eterni sognatori, che a volte si vedono piombare addosso realtà scomode, come un tradimento o una gravidanza inattesa.

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Un anno dopo, l’amore

di Loredana Frescura e Marco Tomatis (Fanucci editore)

Riassunto

È passato un anno dall’inizio dell’amore tra Angelo e Costanza, dalla loro prima volta, così densa di emozioni. Chiara ha già partorito il piccolo Pietro, decidendo di andare a vivere da sola. L’amore dei due giovani prosegue spensierato, anche fra il sorgere di primi dubbi e incertezze, fino ad una sera, al termine della quale era prevista una notte indimenticabile a casa di Costanza, vista l’assenza dei genitori. Ma una telefonata sconvolge i piani: Roberto, il migliore amico di Angelo ha bisogno del suo aiuto. Angelo e Costanza corrono da lui e lo trovano ferito e senza motorino. Il ragazzo è stato picchiato da alcuni trentenni ubriachi, che tornano per picchiare anche Costanza e Angelo, ma una trovata del ragazzo, preoccupato principalmente che qualcuno potesse far male alla sua ragazza, mette in fuga i tre. I giovani riescono a raggiungere casa di Chiara, dove ottengono ospitalità; qui tutti i dubbi sull’amore dei due, le gelosie tenute nascoste vengono a galla, e la grande adrenalina accumulata nella notte porta ad un enorme litigio. Dopo la separazione, Angelo deve fare i conti con la dichiarazione di Roberto, che ha scoperto di essere attratto maggiormente dagli uomini che dalle donne. Passano due mesi prima che Angelo e Costanza ammettono di sentire la necessità l’uno dell’altra. Angelo si precipita con il motorino, sotto un forte acquazzone, all’ospedale, dove Costanza si sta esibendo come clown da corsia. L’amore rinasce ma sembra essere minacciato dalla notizia dell’improvvisa partenza di Angelo per l’Australia, dove passerà i due mesi estivi. Entrambi però sanno che dopo questi mesi saranno pronti a riabbracciarsi e a continuare a vivere il loro amore.

Commento

In questo libro ritroviamo i personaggi de “Il mondo nei tuoi occhi” e l’alternanza dei punti di vista di Angelo e Costanza. La struttura è più o meno la stessa del precedente romanzo: anche stavolta interviene qualcosa che provoca la rottura tra i ragazzi, ma l’amore ben presto si ristabilisce. Stavolta l’amore presentatoci ha i toni di una favola, è perfetto, sembrando persino lontano dalla realtà. L’analisi dei pensieri dei protagonisti è profonda, e crescendo entrambi si trovano ad affrontare sempre nuovi problemi.

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martedì, 5 giugno 2007

A PROPOSITO DI ME

Qualcuno di voi l’aveva chiesto per mail. Altri direttamente sul blog.

Perché non inserisci un video dove compari anche tu?

Detto-fatto! In barba all’imbarazzo ho appena caricato sul canale Letteratitudine TV, ospitato da YouTube, un video che mi riguarda. Si tratta si tratta di una finestra sulla serata conclusiva della ventesima edizione del Premio letterario nazionale Nino Martoglio.

Nel video si parla anche del blog, nato appena un mese prima.

La bella signora che presenta è la giornalista Flaminia Belfiore. Il tizio un po’ impacciato è il sottoscritto.

Il video è datato 29 ottobre 2006 e dura poco meno di cinque minuti.

Cliccate su play se ne avete voglia.

Lascio i commenti “aperti”. Sono ammesse anche prese in giro.

Massimo Maugeri

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martedì, 5 giugno 2007

SOTTO IL CIELO DI MAZARA di Enzo Gangitano (recensione di Giovanni Venezia)

Copertina__gancitano_sotto_ilcielo_ Enzo Gancitano ha pubblicato “Sotto il cielo di Mazara”. L’ultimo suo volume raccoglie racconti di vita, di sacrifici, di lavoro e di memoria storica. Racconta  di Santi e di luoghi, di famiglie e consuetudini; di una città divenuta smemorata. Lontana anche dal suo passato recente, senza alcun rapporto con la cultura delle “cose antiche”, con i reperti archeologici che prepotentemente vengono spesso alla luce ed immediatamente sommersi. Insomma racconti di una città senza alcun legame con la sua storia. Scrive di verità, decisamente ed amaramente lontane.

Credo di non sbagliarmi se  colgo in “ Sotto il cielo di Mazara”  un grido, mai dimesso e contenuto, mai a bassa voce, per una città “angusta” dove manca financo la “coscienza dell’ essere noi” forgiante del carattere necessario per un risveglio. L’interrogarsi. E’un lamento contro il cadùco soldo che  continua ad essere idolatrato.

Però scrive l’Autore: “(Mazara, ndr)…E’una città che non vuole morire, che si oppone alle innumerevoli percosse assestate dagli abitanti che seguono la bandiera del profitto…ma la città resiste a dispetto dei suoi abitanti…porta alla luce nuovi segni di civiltà antiche…”

Con la consueta scrittura scorrevole e intelligibile Gancitano tra nuovi  percorsi di storia cittadina, fra strade solcate da “antiche pietre” e memorie, emette una voce che  postula una riflessione anche  tra uno stuzzichino ed un caffè al bar per debellare l’ipocondria verso un dibattito per  una città a misura d’uomo, per sconfiggere qualsiasi  zona d’ombra e guardare  con diversa dimensione mentale verso l’avvenire.

E’ un libro atipico, scatologia di una città svilita e decadente, la denuncia di un certo grigiore ,ma  mai irriverente.

Una cosa è certa, non vedo tra le righe del libro esclusivamente  un’amore dell’autore verso la propria città ma semplicemente una profonda amarezza, “una escursione (dolorosa) – scrive ancora il Gancitano– nel mondo delle nostre memorie mazaresi per recuperarle dalla polvere dell’oblìo ed assicurare ad esse spazio e considerazione più confacenti”.

Si coglie la speranza – mai sopìta – di un’aurora non lontana.

Giovanni Venezia

Giovanni Venezia è il direttore dell’e-magazine Il Pungolo

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*Enzo Gancitano, medico di professione, studioso di storia locale, ha pubblicato :“Storia di Mazara” dalle origini ai nostri tempi. (3 voll); “Per le strade di Mazara”, “A due passi dal fiume”

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domenica, 3 giugno 2007

TERRA MATTA di Vincenzo Rabito

Immaginate un lavoratore manuale siciliano che, dopo anni di sudore e una vita di stenti, peripezie, stratagemmi vari e improvvisate strategie di sopravvivenza, decide di sedersi e di raccontare. Di raccontarsi. Immaginate che quest’uomo sia un semianalfabeta, ma che l’esigenza narrativa è così forte, così pressante, che nemmeno la carenza linguistica può costituire una barriera insormontabile.

Quest’uomo esiste. O meglio, è esistito.

Questa è la bella vita che ho fatto il sotto scritto Rabito Vincenzo, nato in via Corsica a Chiaramente Qulfe, d’allora provincia di Siraqusa, figlio di fu Salvatore e di Burriere Salvatrice, chilassa (classe) 31 marzo 1899, e per sventura domiciliato nella via Tommaso Chiavola. La sua vita fu molta maletratata e molto travagliata e molto desprezata. Il padre morì a 40 anne e mia madre restò vedova a 38 anne, e restò vedova con 7 figlie, 4 maschele e 3 femmine, e senza penzare più alla bella vita che avesse fatto una donna con il marito, solo penzava che aveva li 7 figlie da campare e per dacere ammanciare.”

Avete appena letto l’incipit di Terra matta, la peculiare autobiografia di Vincenzo Rabito, nato a Chiaramonte Gulfi (provincia di Ragusa) – il paese di Serafino Amabile Guastella – nel 1899.

Un vita pregna di storie, quella di Rabito: da ragazzino è stato bracciante, poi è partito per il Piave, ha fatto la guerra D’Africa, è sopravvissuto alla Seconda Guerra Mondiale, ha fatto il minatore in Germania. Una vita il cui racconto diventa inconsapevole pretesto per tratteggiare gli eventi principali che hanno fatto la storia del Novecento: le due grandi guerre, l’avvento del fascismo, l’emigrazione. Una vita caratterizzata da una serie di furberie più o meno connesse al tentativo di sottrarsi a una povertà difficile da scrollarsi di dosso. Una vita di viaggi, dunque; spesso imposti. E un vita di ritorno. Il classico ritorno a casa, in terra di Sicilia, dove Rabito finisce per sposarsi e crescere tre figli. E poi l’incontro magico, imprevedibile e fruttuoso con una macchina da scrivere: una vecchia Olivetti dove, tra il 1968 e il 1975, il bracciante di Chiaramonte imprime i suoi ricordi con un (forse involontario) piglio tragicomico e un linguaggio indefinibile, che non è italiano e nemmeno siciliano; un linguaggio naturale che diventa lingua e trova nelle sue non-regole l’elemento vitale e fascinoso di una narrazione fuori dai canoni, ma sincera e avvincente. La narrazione di chi scrive perché ha qualcosa da dire (a prescindere da tutto e da tutti), che è diversa da quella di chi scrive per dire qualcosa. E Rabito di cose da dire ne aveva tante, che “se all’uomo in questa vita non ci incontro aventure, non ave niente darracontare.

Ha ragione Andrea Camilleri a sostenere che dall’autobiografia di Rabito emergono « cinquant’anni di storia italiana patiti e raccontati con straordinaria forza narrativa»; e che siamo di fronte a «un manuale di sopravvivenza involontario e miracoloso.»

Un personale plauso alla Einaudi che ripropone – in versione lievemente ridotta – un testo che va in tutt’altra direzione rispetto alle mode e alle correnti del momento, ma che – a ben ragione – è stato definito come una delle opere più straordinarie e monumentali tra le scritture popolari mai apparse in Italia. L’aggettivo monumentale non è utilizzato a caso giacché Terra matta, nella sua versione originale, raccoglie ben 1027 pagine a interlinea zero e scritte «senza lasciare un centimetro di margine superiore né inferiore né laterale».

Massimo Maugeri

Ringrazio la Einaudi per avermi concesso la possibilità di riprodurre le prime tre pagine del testo:

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Capitolo primo

Come garzonello

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Questa è la bella vita che ho fatto il sotto scritto Rabito Vincenzo, nato in via Corsica a Chiaramonte Qulfe, d’allora provincia di Siraqusa, figlio di fu Salvatore e di Burriere Salvatrice, chilassa 31 marzo 1899, e per sventura domiciliato nella via Tommaso Chiavola. La sua vita fu molta maletratata e molto travagliata e molto desprezata. Il padre morì a 40 anne e mia madre restò vedova a 38 anne, e restò vedova con 7 figlie, 4 maschele e 3 femmine, e senza penzare più alla bella vita che avesse fatto una donna con il marito, solo penzava che aveva li 7 figlie da campare e per darece ammanciare.

Il più crante di queste figlie si chiamava Ciovanni, ma Ciovanni di questa nomirosa famiglia non ni voleva sentire per niente; se antava allavorare, quelle poche solde che guadagnava non bastavino neanche per lui, e quinte quella povera di mia madre era completamente abilita. Mio padre, con quelle tempe miserabile, per potere campare 7 figlie, con il tanto lavoro, ni morì con una pormenita, per non antare arrobare e per volere camminare onestamente. Ma il Patreterno, quelle che voglino vivere onestamente, in vece di aiutarle li fa morire.

Così, il seconto di questa nomerosa famiglia era io. Ed era io, Vincenzo, che così picolo sapeva che mia madre aveva molto bisogna dai figlie, perché era senza marito. Io non la voleva sentire lamentare perché non aveva niente per darece ammanciare ai suoi figlie. I tempe erino miserabile, li nostre parente erino miserabile come noie. E quinte, non zi poteva antare avante in nesuno modo.

Quinte, io fui nato per fare una mala vita molto sacrificata e molto desprezata. Quinte, mia madre era con la stessa mentalità di mio padre, che non voleva antare arrobare per campare ai suoi figlie, e neanche mia madre voleva fare la butana, come tante famiglie che fanno tutte le porcarieie per potere sfamare ai suoi figlie, mentre mia madtre voleva antarere avante onesta amente.

Io era picolo ma era pieno di coraggio, con pure che invece di antare alla scuola sono antato allavorare da 7 anne, che restaie completamente inafabeto. Quinte io, che capiva che cosa voleva dai suoi figlie mia madtre, per fare soldei mi n’antava magare allavorare lontano di Chiaramonte, bastiche io portava solde a mia madre. Perché mia madre non dormeva alla notte, perché penzava che aveva 7 figlie: che lo più crante era da 14 o 15 anne, io Vincenzo ni aveva 11 o 12 anni, e la più picola figlia ni aveva 3 mese. Quinte io solo penzava che per manciare ci volevano solde, per non morire di fame questa famiglia senza padre. Così, mia madre sempre diceva: «Menomale che c’ene Vincenzo che porta qualche lira per dare aiuto alla famiglia». E deceva sempre che quanto portava solde «mio figlio Vincenzo sempre veneva cantanto e allecro», ma quanto non portava solde «veneva arrabbiato e bestimianto, perché non poteva sentire lamentare alla sua madre perché non c’era niente che manciare».

Che brutta vita che io faceva! Ciovanni neanche ci penzava, Vito era di 9 anne e magare che faceva qualche cosa faceva da sé, mia sorella aveva 7 anne e antava alla scuola, ma, con quelle miserabile tempe, il desonesto coverno non dava neanche uno centesimo per potere comperare uno quaterno, perché voleva che tutte li povere fossemo inafabeto, così io questo lo capeva. Pure, poi, il desonesto coverno che comantava non dava maie asegne, e dovemmo stare per forza non inafabeto solo, ma magare molte di fame.

Ma io mi piaceva il manciare, ma mi piaceva magare di cercare il lavoro, perché era sempre pieno di coraggio e di cercare lavoro, compure che aveva auto la sventura che restaie senza padre e mia madre senza marito e i povere miei fratelle e li picole 3 sorelline restammo tutte senza quida e senza nesuno che ci comantava. Tutte comandammo e la pendola non bolleva maie.

Così, venne il mese di setembre. Io sapeva che a Vitoria era tempo di ventemmia. Una matina alle ore 2 mi alzo con 4 mieie compagne più crante di me e ci ne siammo antate a Vettoria di notte a piede. Così, alle 6 di matina, fuommo a Vittoria. Per strada, certo che avemmo manciato tanta racina perché ni l’avemmo fotuto dorante la strada.

Quinte, li mieie compagne hanno fatto quello che ci ha piaciuto e poi amme mi hanno detto: – Vicienzo, e tu che fai, niente?

Io aveva 12 anne, e certo che queste putane, per lecie, non mi dovevino fare entrare, ma secome io ci ho detto che ni aveva 18 come li mieie compagni, ebbi la fortuna di entrare pure.

Così, i miei compagni hanno messo un soldo per uno e ci hanno detto a queste putane che solde io non ni aveva: – Così, se vuoi che questo fa cosa, ti deve acordare con poco solde –. Ma la

putana ha detto sì. E così io, per mio conto, ebbe la crante fortuna di conoscire la prima volta li donne.

Così manciammo, ciusto che il primo lavoro l’abiammo fatto.

E ci n’antiammo impiazza per vedere se c’era qualcuno che ni voleva portare allavorare. Ma io fui uno dei fortonate, con pure che era lo più picolo, che vedo a uno che erino amice con il mio padre, che sapeva che era morto, e mi ha detto: – Vicienzo, ci vuoi venire a straportare racina con uno cavallo, che il quadagno ene di 70 centesime al ciorno?

TERRA MATTA di Vincenzo Rabito

2007 – Supercoralli Italiani
EINAUDI
pp. VIII-416 – euro  18,5

Vincenzo Rabito è nato a Chiaramonte Gulfi nel 1899. «Ragazzo del 99», è stato bracciante da bambino, è partito diciottenne per il Piave, ha fatto la guerra d’Africa e la Seconda guerra mondiale. È stato minatore in Germania, poi è tornato in Sicilia dove si è sposato e ha allevato tre figli. È morto nel 1981.
La sua autobiografia ha vinto il «Premio Pieve – Banca Toscana» nel 2000, ed è conservata presso la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano.

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sabato, 2 giugno 2007

SIGNORE E SIGNORI… VI PRESENTO “I VOLVER”!

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Voglio raccontarvi di una nuova band musicale, di un giovane gruppo catanese di cui sentirete parlare molto presto. Due ragazzi, due ragazze, una chitarra, un basso, una batteria: si chiamano Volver.

Ci tengo particolarmente a presentarvi i Volver per tre motivi: uno, perché sono musicisti della mia città (vi ricordo che Catania è un’ottima fucina musicale; solo per farvi alcuni nomi: Franco Battiato, Carmen Consoli, Mario Venuti – ex Denovo -, Sugar Free, Mario Biondi); due, perché li conosco personalmente; tre, perché sono davvero bravi (e, credetemi, questa considerazione non è condizionata dalla numero due) a proporre una versione personale e "italica" di un sound all’anglosassone.

Roberto Rapisarda, il bassista, è uno dei miei più cari amici. Lo conosco praticamente da sempre. Nei confronti di Roberto mi sento particolarmente responsabile. Sì, perché se adesso fa il musicista professionista il merito – o la colpa – è in parte mia. Vi spiego. Parecchi anni fa (e credo che siano passati circa vent’anni) fui io a impartirgli le prime lezioni di chitarra. In questo lasso di tempo devo ammettere di non essere mai riuscito a superare la soglia tecnica di chitarrista mediocre, mentre Roberto si è messo a studiare sodo imparando a suonare anche il basso, il pianoforte e le tastiere. Per fortuna non ha mai provato a cantare, dato che è stonato come una campana. Come si dice (citando Sciascia): a ciascuno il suo.

Fabio Bellino è il chitarrista e (lo posso dire?) il leader del gruppo. Le musiche e gli arrangiamenti dei pezzi dei Volver sono suoi. Fabio sa unire alla velocità delle dita, uno stile personale e la capacità di utilizzare le nuove tecnologie. Dovreste sentirlo. Vi assicuro che non ve ne pentireste.

Nei confronti di Fabio ho un piccolo debito (che saldo scrivendo questo post!). Il 15 dicembre dello scorso anno ci trovammo nella piazza di Letojanni in occasione della presentazione del romanzo Picciridda di Catena Fiorello (e qui ci sarebbe un’altra storia che dovrei raccontarvi); ci sedemmo al bar a gustare granite con brioche (sì, dalle nostre parti si può fare anche nel mese di dicembre) e a parlare del più e del meno. Fabio fece di tutto per non farmi pagare. E ci riuscì. Offrì lui e io gli promisi che avrei ricambiato al più presto. Mai fatto.

Lisa Messina è la voce della band: una voce potente, incisiva, ma allo stesso tempo virtuosa. Quando sale sul palco e canta riesce a trasmettere la sua energia e la sua grinta. Scrive i testi delle canzoni e compone le melodie sulle musiche di Fabio. I suoi testi sono semplici e lineari; ma incisivi come la voce. Mi ricordo il testo di “Parlami”, che uscirà come singolo del gruppo. Un testo dolce, ma non sdolcinato, dedicato alla madre scomparsa. Lisa è la voce solista del gruppo e, in quanto tale, ne è un po’ il volto. Ed è un volto piacevole, affidabile e sicuro. Perché Lisa canta da molto tempo e ha accumulato una lunga esperienza. Lunga quasi quanto la sua bella e fluente chioma castana.

Poi c’è Stefania Innao, la batterista. Sì, una batterista donna. Mica ce ne sono tante in giro! Stefania è graziosa e minuta. Ma non illudetevi, picchia la sua batteria come pochi. Quando si esibisce vi consiglio di non avvicinarvi troppo alle sue bacchette. Ha tecnica e talento da vendere, ma anche una tale forza che se dovesse scambiare la vostra testa per una delle sue casse non so come vi finirebbe. E poi è una dalla battuta facile (non male per una batterista).

Questi ragazzi stanno venendo fuori adesso, dopo lunghi anni di gavetta. Anche per questo auguro loro tanto successo.

Ora dovrei passarvi qualche informazione di poco conto. Dovrei accennarvi al fatto che i Volver hanno seguito i mitici Deep Purple – una delle più grandi band della storia del rock – nella loro tournée italiana (li vedete insieme a loro nella foto in alto) e che hanno partecipato al Sanremo Music Awards 2007 vincendo nella categoria gruppi (il concorso ha visto la partecipazione di big della musica e di giovani emergenti). Dovrei riferirvi queste cose, ma non lo faccio. In fondo le informazioni importanti ve le ho già date.

Vi invito solo a collegarvi al loro sito su My Space, dove avrete la possibilità di ascoltare stralci di brani e vedere video.

A proposito di video: ve ne propongo uno io. È tratto dal TG3.

Date un’occhiata, se avete tempo (e se ora non avete il tempo… fatelo più tardi).

Mi raccomando. I Volver. Ricordatevi questo nome nei mesi prossimi, eh?

Soprattutto quando entrerete in un negozio di cd.

Massimo Maugeri

P.S. Alcune precisazioni sulla foto. La ragazza in alto a destra è Stefania. Il tipo in basso a destra con barba e occhiali è Roberto. I due ragazzi a sinistra sono Fabio e Lisa. Gli altri omaccioni sono i Deep Purple.

Rai 3


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