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Archivio di marzo 2007

venerdì, 30 marzo 2007

UN PO’ DI PAZIENZA. E GLI OCCHI BASSI (di Antonella Cilento)

Antonella Cilento

Gli estremi di ogni paese si toccano. Torno da una lunga settimana di laboratori di scrittura nelle scuole di Bolzano e li metto a confronto con i laboratori campani. Le realtà delle due regioni sono lontanissime: una provincia autonoma, dove ogni corso è superfinanziato, tutto è regolamentato fino all’eccesso; una regione dove tutto è anarchia allo stato puro.

A Napoli, dentro la Stazione Marittima, nella manifestazione intitolata La civiltà delle donne la sede è incantevole ma disorganizzata: le hostess con i programmi alla mano ignorano le collocazioni degli eventi; le scuole, scandalizzate, chiamavano gli organizzatori perché non possono far partire gli autobus con le scolaresche fino a quando gli spazi non sono pronti; gli orari di inizio dei laboratori saltano; l’attrezzatura delle sale è inesistente o da allestire a nostra diretta cura (mentre gli inservienti spazzolano le poltroncine di velluto con scacciamosche, come in una colonia levantina, io metto da parte le pagine della Mansafield che avrei dovuto leggere ai fanciulli delle medie per cercare di organizzare loro le sedie). Facciamo laboratorio mentre “quelli di Un posto al sole”, unico interesse dei ragazzini, si esibiscono poco distante e un concerto ci strombazza nelle orecchie.

A Bolzano, la scuola Scuola Dante sembra uscita dalla favola di Biancaneve: banchi di legno e sedie in stile, mi accoglie in perfetto silenzio fra pakistani di prima generazione, tedeschi, italiani di varia provenienza, tanti meridionali. Gli insegnanti sono forse stanchi e demotivati come in ogni altra scuola d’Italia, ma hanno autorità, desiderio di scoprire cose nuove e di farle sperimentare ai ragazzi. Desideri non frustrati. Le ore iniziano puntuali, non si spreca un secondo, nessuno chiacchiera nei corridoi, tutti lavorano.

A Napoli, come a Bolzano, i ragazzini “difficili” ci sono: in una classe della Dante un caratteriale passa il tempo a insultarmi. E’ bello, intelligente, campione di nuoto, ma non ha alcuna direttiva in casa, dove, per altro, i soldi non mancano. Nella Stazione Marittima, una guappetella provoca i suoi compagni e anche la professoressa: non è campionessa di niente, parla dialetto e ha la faccia rammaricata di un popolo soggetto. Ha più cuore del caratteriale di Bolzano? E il ragazzo di Bolzano non è poco meno che un guappo di cartone? L’umanità si somiglia, da Nord a Sud. I bambini si somigliano. Ma la rassegnazione non si è ancora impadronita del Trentino, merito delle regole, forse, mentre a Napoli, ci ripetono le belle signore ingioiellate che ci accolgono, bisogna avere pazienza.

“Un po’ di pazienza…”. E gli occhi bassi.

Antonella Cilento

*

Antonella Cilento (Napoli, 1970), ha pubblicato Il cielo capovolto (Avagliano, 2000), Una lunga notte (Guanda, 2002), Non è il Paradiso (Sironi, 2003), Neronapoletano (Guanda, 2004), L’amore, quello vero (Guanda, 2005), Napoli sul mare luccica (Laterza, 2006).

Una lunga notte ha vinto il Premio Fiesole e il Premio Viadana, è stato finalista al Premio Greppi e al Premio Vigevano. L’amore, quello vero ha vinto il Premo Vitaliano Brancati. E’ tradotta in Germania dalla Bertelsmann. E’ stata finalista al Premio Calvino 1998 con il romanzo inedito Ora d’aria. Ha pubblicato numerosi racconti su riviste.

*

Conduce laboratori di scrittura dal 1993 a Napoli e in Campania, dal 2002 in tutt’Italia.

Ha realizzato:

per Cento Lire, a cura di Lorenzo Pavolini, i racconti radiofonici intitolati "Voci dal silenzio" (RAI, Radio Tre, 15-19 gennaio 2001). Attualmente, collabora con "Il Mattino", "L’Indice dei libri del mese". Dal 1998 al 2000 ha collaborato con il "Corriere del Mezzogiorno" (supplemento del Corriere della Sera), nel 2003 con "Il sole 24 Ore Sud", nel 2005 con "Il Riformista".

Pubblicato in L'OMBRA E LA PENNA (con il contributo di Antonella Cilento)   8 commenti »

giovedì, 29 marzo 2007

EROI E DISSIDENTI (di Gordiano Lupi)

Gordiano Lupi

In Italia esistono associazioni vicine alla sinistra più radicale che credono di fare il bene di Cuba e invece fanno soltanto il gioco di un dittatore. Voglio sperare che siano composte da gente in buona fede, accecate dall’ideologia, ammaliate dal ricordo di una speranza rivoluzionaria e affascinate dal carisma di un leader. Queste persone che manifestano davanti all’ambasciata degli Stati Uniti per chiedere “la liberazione dei cinque eroi prigionieri dell’impero” forse non conoscono la lettera che Omar Moisés Hernández ha scritto a Ricardo Alarcón dal carcere di Sancti Spíritus. Omar Moisés Hernández  è un poeta – giornalista che sconta una pena infame solo per aver manifestato le sue idee ed è uno degli scrittori cubani che sono contento di aver pubblicato nella raccolta Versi tra le sbarre (Il Foglio, 2006). I cinque eroi prigionieri dell’impero, invece, non sono altro che cinque componenti dei servizi segreti cubani catturati in flagrante azione di spionaggio in territorio nordamericano. In una parola sono cinque spioni presi nell’esercizio delle loro non benemerite funzioni. Provate a immaginare se una nazione confinante (e nemica) inviasse in territorio italiano equivoci personaggi incaricati di spiare segreti militari. Non credo che in caso di cattura saremmo molto tolleranti, anche se nel nostro paese una pena giusta e non contraria al senso di umanità fa parte della cultura giuridica. Pare che negli Stati Uniti non sia la stessa cosa e che per gli spioni catturati in flagrante sia prevista una dura reclusione, visto che i cinque eroi sono alloggiati in una sorta di buco che lascia poca libertà di movimento. Il governo cubano si lamenta nelle sedi internazionali per un trattamento ingiusto che Granma e Cubavision stigmatizzano quasi ogni giorno. Le associazioni italiane filocastriste si mobilitano e sfilano contro Bush e gli USA sotto l’ambasciata e chiedono la liberazione degli eroici spioni. Fin qui tutto bene. Possiamo anche essere d’accordo. Non è una buona cosa fare spionaggio in un paese straniero, ma non è giusto neppure essere maltrattati in galera. A questo punto, però, è lecito chiedersi perché in Italia nessuno parla delle condizioni carcerarie di Omar Moisés Hernández. Come dicono i cubani quien tiene techo de vidrio, no debe tirar piedras al tejado de su vecino e la traduzione penso che sia inutile. Non esiste al mondo tetto fragile come quello della giustizia cubana che fa vivere i reclusi per motivi di opinione in condizioni molto peggiori di quelle lamentate dai famosi cinque eroi. Il buco dove sarebbero tenuti prigionieri gli spioni di Castro, paragonato alle celle di rigore delle prigioni cubane, pare un albergo a cinque stelle. Il buco statunitense è piastrellato con mattonelle, ha una tazza sanitaria, una doccia, un tavolo, una sedia ed è anche abbastanza ampio. Omar Moisés Hernández ha vissuto a lungo in un buco della prigione di Ciego de Avila che era così piccolo da non potersi girare, privo di doccia, con una fossa scavata in terra per i servizi sanitari, senza tavolo e sedie. Fuori dal buco le condizioni sono anche peggiori. Un detenuto per motivi di opinione convive con i delinquenti comuni e sopporta ogni mancanza di rispetto da parte di secondini e reclusi. Le parole di Omar Moisés Hernández  sono pesanti come macigni e quando si ascoltano viene da pensare alla fine che ha fatto la Rivoluzione Cubana. “La cella dove vivo è sei metri per tre, non ha un doccia né una tazza sanitaria, ma solo una latrina biologica in un angolo. In tutta la galera c’è un solo televisore, è vietato comunicare con l’esterno, non possiamo ascoltare la radio, né leggere alcun giornale. Le lettere che ci spediscono vengono aperte e censurate, spesso nemmeno ce le consegnano. I cinque eroi comunicano con chi credono, ricevono visite, si fanno foto con i familiari, possono parlare. Noi siamo dispersi in una galera e nessuno si ricorda che esistiamo. Tutto è vietato. Se i cinque eroi vivono in condizioni disumane, allora cosa dobbiamo dire dei prigionieri politici a Cuba?”. Omar Moisés Hernández, insieme ad altri intellettuali dissidenti, si è macchiato della grave colpa di difendere il diritto sancito dall’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Per questo reato si trova in una galera dove condivide il destino di delinquenti comuni, stupratori, assassini, ladri e rapinatori, in barba a ogni regola di differenziazione delle pene. Ricardo Alarcón è bene che guardi dentro casa propria prima di tirare sassi sul tetto nordamericano. Il suo tetto di cristallo può cadere al primo soffio di vento.   

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

Pubblicato in Senza categoria   2 commenti »

martedì, 27 marzo 2007

FARMACI PER ADOLESCENTI E BAMBINI (di Luciano Comida)

Mi chiamo Michele Crismani, abito a Trieste, ho tredici anni e un problema : uno schifoso di nome Luciano Comida scrive, pubblica e fa tradurre in mezzo mondo dei bellissimi romanzi con me protagonista, arricchendosi così con lo sfruttamento del mio nome, della mia immagine e delle mie avventure.

La mia foto

Luciano Comida

Perciò ringrazio Letteratitudine che mi dà la possibilità di dire direttamente la mia. Vi riporto fedelmente un dialogo tra me e mio padre. E poi ditemi se non è una faticaccia stressante essere adolescente.

*

Michele…

Eh ? Cosa ? Eh ?

Che disattento che sei !

Un po’…

E poi adesso, finita la scuola, ti vedo particolarmente distratto e deconcentrato.

Non vorrai mica…

Cosa, Michele ?

Non avrai mica intenzione…

Ma di chè ? Spiegati.

Di impasticcarmi.

Impasticcarti in che senso ?

Ho letto un articolo su un giornale, sai.

E con questo, Michele ? Pensi sia il caso che io telefoni al vescovo per chiedergli di far suonare a festa le campane di tutte le chiese di Trieste ?

Che spiritoso, che sei, papà.

E’ che mi hai sorpreso.

Perché, secondo te, io non leggerei mai niente…

Solo qualche fumetto ogni tanto.

E per te i fumetti non valgono niente ?

Qualcuno anche sì, ma quelli che leggi tu di sicuro no.

Papà, mi fai venire il nervoso, quando fai così.

Michele, datti una calmata.

Ecco, vedi ! A proposito di nervi ! L’articolo che ho letto parlava proprio di questo.

Michele, non si dice "parlava". Un articolo non parla ma scrive.

Uffa che fastidioso che sei !

Esprimersi bene è importante.

Papà, ma che pizza che sai essere, quando ti ci metti…

Piuttosto, cosa mi dicevi di quest’articolo ?

Parlava… anzi scriveva del Ritalin. Lo conosci ?

No. Cos’è ?

Adesso te lo spiego. Tu conosci la adhd ?

Mai sentita.

E’ la… aspetta che tiro fuori l’articolo…

In tasca te lo sei messo ? Te lo porti dietro nella tasca dei jeans ?

Sì, perché è una cosa importante. L’articolo parla della… ecco qua : sindrome da deficit di attenzione e concentrazione con o senza iperattività.

E tu che c’entri ?

Non mi dici sempre che non aspetto il mio turno, che faccio difficoltà a seguire le istruizioni, che parlo troppo, che non ascolto, che prima di rispondere non aspetto che le domande finiscano, che mi impiccio degli affari altrui ? Eh ? Non me le rimproveri sempre, queste cose ?

Insomma, vorresti dirmi che anche tu hai la sindrome hadh o come si chiama?

No, il contrario. Non vorrei che tu pensassi che ce l’ho.

Ma dai, Michele ! Ma come ti vengono in mente certe cose ? Tu non hai nessuna sindrome, tu sei solo un rompiscatole.

Belle parole da dire al proprio figlio.

Cosa dovrei dire io di te ?

Non lo so : fa tu.

E poi, cosa c’entrava il Ritalin o come si chiama ? Qua non lo nominano nemmeno

Infatti… aspetta che lo trovo…

Un altro articolo ?

Sì, ma era su Internet. E dice che in America e in Inghilterra dànno il Ritalin ai bambini e ai ragazzi troppo vivaci o disattenti.

Fammi vedere un po’.

Ecco, papà. Leggi e poi, tu che sei giornalista, fa saltare fuori lo scandalo. Pensa ! In Italia c’è il Progetto Prisma per introdurre questo farmaco nelle scuole.

Michele, però…

Però cosa ?

L’articolo su Internet non dice proprio così.

E cosa direbbe ?

Che prima ci sarà per molte famiglie un questionario sui propri figli.

E poi ?

E poi per alcune famiglie e per alcuni bambini e ragazzi un incontro con lo psichiatra.

E poi ?

E poi e poi e poi.

Qua ti voglio, papà.

E poi finirà che li imbottiscono di farmaci per farli star buoni.

Cosa ti dicevo io ? Ma se anche te lo propongono, non mi darai mica il Ritalin ?

No, certo che no.

Sicuro ?

Sicuro.

Ma proprio sicuro sicuro ?

Se te l’ho detto !

Posso stare sereno e tranquillo ?

Ma sì, certo.

Sicuro ?

Michele, piantala !

Papà, ti sei innervosito ? Vuoi un Ritalin ?

Pubblicato in MICHELE CRISMANI SECONDO IL MONDO (di Luciano Comida)   42 commenti »

lunedì, 26 marzo 2007

SORPRESA PER GORDIANO

Gordiano Lupi

*

Gordiano Lupi mi aveva inviato un nuovo pezzo per la sua rubrica Controstorie. E io lo stavo per pubblicare. Anzi, l’avrei già pubblicato se non avessi trovato su YouTube due video molto interessanti che vedono come protagonista proprio il nostro Gordiano.

Cliccando nei quadranti sottostanti sul simbolo play in basso a sinistra (non cliccate sul tasto grande posto al centro altrimenti arrivate direttamente al sito di youtube) vedrete e ascolterete Gordiano che racconta da sopra il palco di un teatro (non so dirvi esattamente dove si trovi, né a che data esatta risalga il video) la storia e gli obiettivi della piccola casa editrice che dirige: Il Foglio.

Gordiano non è al corrente di questa mia iniziativa. Spero solo – ma ritengo di sì (un po’ di pubblicità fa sempre piacere) – che la sorpresa sia gradita.

(Massimo Maugeri)

Pubblicato in Senza categoria   4 commenti »

lunedì, 26 marzo 2007

IL SUCCESSO EDITORIALE NON FA I LIBRI BUONI… CLASSICI COMPRESI

Fernando Savater è uno dei più noti intellettuali spagnoli di oggi.

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Fernando Savater

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Giorni fa ha pubblicato su El Pais un articolo dove sostiene che il successo editoriale non fa i libri buoni, riferendosi – peraltro – anche ad alcuni dei classici considerati “intoccabili”.

Su La Stampa dell’8 marzo è stata proposta una traduzione di quell’articolo. Io ne riporto, come al solito, uno stralcio con l’obiettivo di avviare un dibattito. Potete leggere l’articolo completo cliccando qui.

*

*

In quell’interminabile zibaldone di pettegolezzi, barzellette, volgarità con lampi di genio che è il Borges raccontato dai diari di Adolfo Bioy Casares, il grand’uomo, un certo 9 luglio, dice al suo paziente cronista: «A questo libro (Sei problemi per don Isidro Parodi) manca una cosa per essere considerato molto buono: gli manca il successo. Io non so se, senza successo, un’opera può essere molto buona». Il giudizio poteva, certo, essere ironico o paradossale – come don Isidro – visto che con Borges non si sa mai. Ma propone un questione interessante. In effetti il criterio più puntuale che noi tutti utilizziamo per determinare se un’opera letteraria sia davvero buona, grande, classica è il successo.

L’Odissea, la Divina Commedia, i Saggi di Montaigne, Amleto, Don Chisciotte, Delitto e castigo o Cent’anni di solitudine hanno ottenuto riconoscimenti formidabili nel campo della letteratura perché hanno avuto un innegabile e solido successo che ha attraversato le generazioni. Non importa che a qualcuno di noi, personalmente, queste opere sembrino poco appassionanti o noiose da morire: ormai sono al di là della nostra possibilità di critica. (…)

Aveva ragione Chesterton quando definiva un autore classico «un re che si può abbandonare, ma che non si può più spodestare». È il peso della porpora del successo, né più né meno.

*

Smettete di gridare, sento le vostre proteste: Shakespeare o Cervantes hanno avuto – e hanno – successo perché sono esempi d’eccellenza, non vengono considerati eccellenti perché hanno avuto successo. Lei sta cambiando l’ordine dei fattori per falsificare il risultato. D’accordo, ammetto che in alcune circostanze è davvero così, ma possiamo affermare che lo sia in tutte? La grandezza non può, occasionalmente, essere qualcosa che assomiglia all’eco del successo (i critici e gli «intenditori» che, nel corso degli anni, si sostengono a vicenda) al punto che nessuno abbia più il coraggio di urlare che il re è nudo o non venga ascoltato se le sue urla vanno controcorrente? È da scartare del tutto la possibilità che ci siano romanzi, poemi o drammi migliori di quelli più celebrati, ma che sembrano inferiori proprio perché non sono stati tanto magnificati? C’è un modo per misurare, in maniera oggettiva, il valore di un’opera letteraria se non valutando la sua provata capacità di convincere, in maniera durevole, la maggioranza dei lettori o degli opinion leader della letteratura? E questa maggioranza può sbagliare, qualche volta?

(…)

A me Il Codice da Vinci pare effimero. E se, invece, una persona capace di viaggiare nel tempo mi dicesse che tra 200 anni continuerà a essere considerato un’opera fondamentale proprio come molti lo giudicano oggi? Non mi resterà che adeguarmi? Stendhal ha detto che la letteratura ha qualcosa da spartire con la lotteria: ci sono biglietti premiati e altri no. Allora? Non so, per non sbagliare io torno a Dickens. E mi consolo pensando che l’importante è che non venga mai meno, in un modo o nell’altro, il piacere della lettura.

*

E ora… la parola passa a voi!

Pubblicato in PERPLESSITA', POLEMICHE, PETTEGOLEZZI E BURLE   19 commenti »

domenica, 25 marzo 2007

IL BOSCO DELLA BELLA ADDORMENTATA di Patrizia AZ

Ho chiesto a Carlotta Vissani di ARPAnet: “Se mi dovessi consigliare un libro, un solo libro, da voi edito… che titolo mi faresti?”

Ha risposto senza esitazioni: “Il bosco della bella addormentata di Patrizia AZ. Si tratta del romanzo che ha vinto la nostra iniziativa editoriale 20*06*2006”.

Carlotta è stata gentilissima, perché dopo pochi giorni ho trovato il libro in questione nella cassetta della posta. Ora si trova sul mio comodino, in attesa di lettura.

La Vissani mi ha scritto che: “Si tratta di uno spaccato di storia italiana che va dall’inizio degli anni Settanta sino a tutti i Novanta. Un viaggio catartico, di scoperta, di perdita e rinnovata acquisizione di coscienza il cui teatro principale è Bologna, e le cui quinte non secondarie sono New York, Miami, Barcellona, Amsterdam, Parigi e le isole Maldive. È una narrazione forte che s’intreccia tra presente, passato e futuro e racconta un’esperienza di morte e rinascita lunga trent’anni, vissuta tra spaccio, droga, AIDS, precarietà lavorativa e sentimentale, ed un immenso desiderio di amore e di accettazione, quasi sempre tradito e disatteso”.

*

Ho chiesto alla casa editrice di inviarmi qualche brano. Brani significativi. Io ve li propongo qui di seguito, così potrete giudicare da voi.

*

*

« I grandi allevavano ramarri e i piccoli dovevano raccogliere insetti da consegnare al pasto quotidiano di tale simbolo di potere: l’animale più grosso. Ogni tanto mettevano due o tre di questi insieme e non so come finisse. Ogni tanto scoppiavano delle risse pazzesche anche fra gli umani. Io scappavo e mi tiravo dietro un fratello pauroso e curioso, e più in là, come tutti i piccoli, ci fermavamo ad osservare, spaventati ed affascinati. Ascoltavamo le sfide sussurrate e le ingiurie urlate in dialetti e lingue a noi sconosciute, mentre per tutti, dal siciliano allo slavo passando per i nostri occhi, valeva il linguaggio del comportamento, dell’aggressività guaglionamente palesata o di quella contenuta in freddi sguardi. Valeva il punteggio dei denti, del sangue, degli occhi pesti e se un ritiro c’era, era sempre collettivo. Così dopo un po’ mi era abbastanza indifferente quel dispendio di energie, lo trovavo ridicolo e mi scansavo solo per paura di finirci in mezzo, soprattutto se la miccia si accendeva nel laboratorio dove, al tornio e con argilla scovata da noi sui colli, fabbricavamo sbilenchi vasi da cuocere poi nei fornetti. Poiché il far vasi era considerata un’attività per noi piccoletti, che in quella gerarchia di potere valevamo meno di zero, se in laboratorio c’erano molti ragazzi quello era già un segnale sospetto e presagiva atmosfere cariche di un’elettricità che di lì a poco si sarebbe scaricata. Ricordo Fabrizio, i cui occhi, nel bel mezzo di una lite, scintillavano di empatia per l’audacia di uno slavo. Tutti avevamo visto il coltello alla sua cintura, solo intravisto poi, grazie ad un gesto elegante ed eloquente che la diceva lunga sulla sua tranquillità.

“Sono qui, vieni a prendermi” sembrava dire all’aria interrotta che noi trattenevamo nei polmoni. Un coltello… .Non ne avevo mai visto uno lì dentro. »

*

*

« Si entra, si depositano portafoglio, chiavi ed impicci vari ad un banco e poi ci si avvia verso una stanza dove due agenti carcerari donne ti fanno spogliare, per controllare che tu non abbia nulla addosso da passare ai detenuti. Tenevo la roba nel reggiseno fino al momento in cui mi mettevo in fila per la perquisizione personale, poi me la infilavo nel sedere, nella fenditura tra le natiche. Avevo venticinque anni e i glutei sodi, in grado di trattenere il mio segreto fino alla fine della spoliazione. Terminata la perquisizione personale, giungevamo nelle sale dei colloqui coi detenuti, fra clangore di cancelli e lunghi corridoi. Prima di arrivare lì avevo recuperato la roba dall’intimo nascondiglio e me l’ero messa in bocca.

In fondo era un pacchettino grande come una noce, avvolto nella plastica e sigillato con la fiamma

dell’accendino per renderlo impermeabile; lo passavo a Luca col primo bacio e lui, per tutta la durata del colloquio, mi parlava poco, tenendo il regalo sotto la lingua. »

*

*

« Non ha il volto quella signora, è un ovale nero fra quei capelli biondi. Ma è lei, ne sono sicura, è lei.

E’ mia madre.

Incredibile. E’ stata con me ed io non lo ricordavo.

Il cambio di prospettiva mi obbligò a capire e a rileggere i miei anni in funzione di quella scoperta.

Quella che segue è un’intervista rilasciata dall’autrice.

Come è nato il bosco della bella addormentata, da quale scintilla emotiva?

Il libro era all’origine una lunga lettera incazzata. Ero arrabbiata con l’uomo che mi aveva rifiutata perché poco all’altezza della situazione, ero arrabbiata col mondo che si divideva in buoni e cattivi senza controllare i termini della divisione, il quoziente e l’eventuale resto, ero arrabbiata con coloro che mi avevano sottratto un’esistenza, perché è sempre rubata la vita ad un bimbo se nessuno lo sa crescere, se qualcuno lo abbandona, se in tanti lo percuotono. Poi quelle pagine arrabbiate sono diventate il piacere di un racconto, e da lì a scrivere il resto è stato facile e divertente: il bello di un’autobiografia. È tutto lì, nei ricordi, si tratta solo di avere voglia di narrare.

*

Quando ha terminato la stesura non ha pensato che una pubblicazione cartacea avrebbe reso pubblica la parte più intima della sua vita… e quindi l’avrebbe esposta al giudizio, forse anche negativo, del pubblico? Come vive l’idea che gli altri possono avere di lei?

Sinceramente non mi curo di quello che gli altri pensano. Non ho ucciso, non ho stuprato, non ho umiliato nessuno, ho solo parlato di me, spinta da un bisogno più grande della dignità del contenersi. Volevo solo ribadire l’ingiustizia di certe esistenze, non avevo particolari messaggi, ma se bisogna trovarne uno per forza allora spero che il mio libro serva solo ad amare di più i propri figli, gli altri che incrociamo, amare di più questa nostra vita che a volte ci passa a fianco, sotto forma di giorni inutili, di bimbi piagnoni, di colleghi insopportabili, di casualità non abbastanza approfondite.

*

Quale è stato il momento preciso in cui ha capito che era rimasta intrappolata in quel bosco che è diventato poi la sua prigione?

Ho capito di essere stata intrappolata nel bosco solo quando ne ero fuori e dalla radura ho scorto le intricatissime radici che mi avevano trattenuta. Ma sono certa che si esca da un bosco per entrare in un altro, meno complicato, più terreno forse, ma mai calmo e pianeggiante come l’anima si illude di esplorare. Non lo vogliamo il bosco, eppure ci siamo sempre dentro, tra vicende storiche, legami familiari, responsabilità individuali di ogni tipo. Domanda: chi di noi vive davvero in un campo di grano che ad ottobre si semina ed a giugno si miete, sempre e comunque, qualunque cosa accada?

*

C’è stato un periodo in cui lei continuava a prestare servizio come dipendente comunale ma allo stesso tempo era entrata nella dipendenza era costretta a portare le maniche lunghe per coprire i lividi che le martoriavano le braccia… come ha fatto a non crollare definitivamente e come è riuscita a mantenere un impiego?

Mi sono tenuta stretto il mio impiego perché m’hanno allevato generazioni di vecchie contadine, per le quali il lavoro era tutto ed i soldi facili, proprio perché facili, sarebbero andati e venuti. Avevo i milioni in tasca, quando andavo in ufficio.

Giravo con l’auto blu e mangiavo solo in ristoranti famosi. Ma il mio lavoro era il mio lavoro. Così mi era stato insegnato, con serietà e disciplina.

*

Il tema del viaggio: che cosa ricorda maggiormente delle sue esperienze di viaggio?… che cosa le hanno insegnato? Viaggiare era un modo per scappare da una realtà che temeva potesse intrappolarla ancora di più?

Di ogni viaggio ricordo solo la gente, non i monumenti, non gli alberghi, non il servizio bar, ma le anime che vagano su questo globo, così simili nei loro affanni, così uguali nelle loro speranze. Davvero, non c’è terra che mi abbia colpita più di questa consapevolezza: l’essere umano. L’appartenere ad una specie. La varietà delle situazioni mi ha solo ribadito la precarietà della nostra esistenza. Oggi sei su, domani sei giù, dovunque tu possa trovarti nel mondo.

Il bosco della bella addormentata di Patrizia AZ

Arpanet, 2006

pag. 238, euro 10

Pubblicato in SEGNALAZIONI E RECENSIONI   Commenti disabilitati

venerdì, 23 marzo 2007

DIRIMPETTAI numero 3

Francesca Mazzucato mi ha sorpreso spedendomi una nuova, inattesa e bellissima lettera. L’occasione è stata la recente pubblicazione del mio post intitolato: “La rivoluzione Internet… e Pasolini".

Ho cliccato all’interno del mio account google e la mail si è aperta inondandomi di parole. Delle parole di Francesca.

L’ho già scritto. La Mazzucato sa essere dirompente come un fiume in piena. E quest’ultima lettera lo dimostra.

Ed eccolo il nuovo tassello di questo web-epistolario pubblico/privato. Leggete, se avete tempo e voglia. Non potrete commentare, ma chi vuole potrà scriverci per mail. Francesca e io risponderemo.

Come sempre.

(Massimo Maugeri)

*

La mia foto

*

Caro Massimo

sento la necessità di sovvertire la nostra "liturgia di corrispondenza" perché le cose che scrivi sono estremamente stimolanti e non possono lasciare indifferenti. Quindi, nella maniera che mi/ci è consueta, ti scrivo, ancora una volta, portata su strade e riflessioni dalle tue considerazioni acute, profonde, documentate, sempre capaci di cogliere la duplicità.

Ho letto con molta attenzione il tuo post  e anche la corrispondenza che intrattieni con Marco Minghetti e il bel circolo virtuoso che si è innescato sul libro "Nulla due volte" , da me recensito qui http://scritture.blog.kataweb.it/francescamazzucato/2007/03/nulla_due_volte.html, con un update di Marco Minghetti. Post, il tuo, caro Massimo, che permette una enorme quantità di riflessioni stratificate, profonde, e apre spazio a un nuovo lavorare collettivo assai stimolante.
Non desidero commentare direttamente, ma ti scrivo questa lettera.

Non commentare è  è una delle mie regole diventata abitudine,  avendo vissuto situazioni che mi hanno mostrato l’inutile sadismo, il fastidio, il bla bla senza futuro dei commenti lasciati spesso tanto per fare o tanto per esaltare o tanto per infangare, o tanto per. 

I commenti vanno quasi sempre off topic, oppure attaccano, o distruggono, o esaltano smisuratamente, pongono su piedistalli di paglia, tirano fuori invettive e furori. Se di rado commento, molto di rado, è in "luoghi virtuali" come il blog dell’amico Nardini, (www.factory.splinder.com), blog di persone con cui condivido anche esperienze di conoscenza, di lavoro comune, e anche questo accade pochissime volte e più che commenti sono gli sms che manderei a Nardini, o piccoli residui di una natura provocatoria che in quei luoghi so di potermi permettere.

*

Trovo che il commento al blog, soprattutto nei "lit blog e affini" porti a una "esposizione", alla "messa in scena inevitabile della propria (auto) rappresentazione", sterile, noiosissima, e non è un caso che un esempio che citi nel tuo post, Giuseppe Genna e il lavoro eccellente e stimolante che sta facendo e che seguo a distanza, abbia eliminato i commenti incitando chi "vorrebbe commentare" a produrre contenuti. A darsi da fare autonomamente e produrre contenuti, e se si cercano feedback o risposte, allora utilizzare la mail. Condivido. Condivido COMPLETAMENTE  ed è questa la mia impostazione perché siamo ancora molto lontani da quella rete 2.0 di cui parla la Lipperini e che sicuramente sarà frutto delle nostre fatiche, delle nostre interazioni ("nostre", inteso di chi sta su Internet adesso, nel 2007, e dedica al lavoro on line tempo, impegno, fatica). Anche tu, del resto, consenti i commenti SOLO in alcuni casi e questo vuol dire qualcosa. Almeno… io la sento ancora lontana, forse arriverà, forse c’è qualche barlume in giro. O forse ancora no e chissà se li vedremo quei barlumi. Intanto si può concimare, preparare ognuno per quello che può.

Ti domandi di Pasolini.

Io mi sono domandata spesso cosa avrebbe fatto Glenn Gould o Marguerite Duras con Internet, come sarebbe mutato, cambiato, modificato il loro lavoro già così vicino, tangente se vogliamo (basta pensare alle sperimentazioni cinematografiche di Duras, cosa avrebbe fatto con You Tube a disposizione?).

Forse è inutile, o è un pretesto per un’ottima analisi come quella che tu fai.

Forse dobbiamo lasciar perdere e dire: cosa facciamo noi. Come ci poniamo. Ognuno di noi sceglie un modo come stare dentro Internet e come lavorarci (per me è stato anche faticoso e turbolento arrivare a trovarlo, in qualche modo, e non intendo che rimanga statico).

Forse i blog sono il punto zero di qualcosa, e sono e restano, quelli letterari come gli altri, un modo certo per produrre contenuti ma anche per dominare la solitudine.

Io credo nella solitudine dietro lo schermo. Fu Chiara Gamberale che me lo chiese una volta, facendomi riflettere: "Avere un blog ti fa sentire meno sola?".  Non ci avevo mai pensato in questi termini spicci. "Sì"-

Una solitudine dolorosa che trova nella rete un diversivo, capace di sondare territori di marketing, esperimenti e installazioni letterarie, progettualità, creazione di ponti e di collegamenti, ma c’è di certo – in tutto questo – una dimensione che modifica "necessariamente" la propria percezione con il reale. Con il resto. Sia che si parli di libri, di scambio coppie, di Pasolini, di Don DeLillo, di Vallettopoli. Di Philip Roth. Credo che occorrano confini – io so che devo darmi dei confini – degli elementi entro cui stare. Per ora. Altrimenti questa solitudine emerge e coinvolge una vita e un mondo che non sono differenti, non penso questo, ma hanno esigenze che possono essere facilmente private di presenza e attenzione. Desidero usare Internet e starci dentro senza che questo allontani la consapevolezza dalla mia vita – vita popolata di persone che trascorrono su Internet il tempo necessario a mandare una mail o a fare una breve ricerca, e stop. O di persone che si collegano una volta al mese, ebbene sì ce ne  sono. O che non hanno il collegamento e fanno la coda agli Internet point ogni tanto. La consapevolezza è la chiave. Io a volte sul web  ho faticato a trovarla e ho smarrito briciole della mia in una sorta di effetto lisergico che appariva inebriante. Invecchiando mi interessa molto meno quella ebbrezza e molto più il mantenimento costante della consapevolezza. Voglio conoscere il mondo attraverso Google Earth e anche viaggiando. Voglio leggere una recensione on line e  poi andare a prendermi il libro, voglio collaborare – lavorare insieme – per produrre qualcosa che poi si rifletta nel cartaceo e magari a teatro e magari in qualche altro ambito. FUORI dal video.

Ho un incubo ricorrente:  un mondo di persone che si sentono perennemente connesse, che sentono di produrre contenuti, di  produrre una azione creativa, che sentono di avere un numero smisurato di conoscenze, che parlano degli amici dicendo "ci conosciamo via mail" e poi in realtà sono soli, e girano attorno a residui di periferie metropolitane occupate da templi dedicati alle merci dove altre persone sono coinvolte dalle merci, dalle multisale, dalle architetture tutte simili. (E di questo scenario ho parlato spesso con l’amico scrittore Paolo Mascheri). Beh mi fa paura. Posso sembrare moralista, o fuori centro. Io credo in una rete che – ancora – necessita di certe precise coordinate perché la sua mutazione costante, continua, quotidiana, porti a qualcosa di rilevante (penso al libro di Minghetti, al lavoro che sta facendo Genna, a Wu Ming, al nostro lavoro con i lit blog offerti, aperti, spaziosi, disponibili e a molti altri esperimenti di scritture che si aggregano, di e-magazine che nascono, di avventure letterarie  e di semi che continuano a essere sparsi ma anche dispersi, ancora, purtroppo dispersi – forse una percentuale di dispersione necessaria? Non so. La noncuranza resta uno dei problemi. E quello è dentro lo schermo e non solo).

Ti mando un saluto affettuoso.

Francesca

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venerdì, 23 marzo 2007

PAROLE SULLA CORDA

Devo ringraziare molto gli amici dell’associazione culturale romana “Parole sulla Corda”, dove gravita l’ottima scuola di scrittura creativa di Luigi La Rosa.

Li ho incontrati lo scorso 16 febbraio proprio a Roma. Un incontro molto stimolante e… lungo: iniziato intorno alle 20 e finito dopo la mezzanotte. È stata anche un’occasione di confronto reciprocamente arricchente. Abbiamo discusso del mio romanzo, Identità distorte, ma pure dell’esperienza di Letteratitudine.

Ringrazio Claudio Impenna per aver curato l’intervista che è stata pubblicata pochi giorni fa proprio sul sito di Parole sulla corda.

Vi invito a leggerla cliccando qui.

Buon fine settimana a tutti.

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domenica, 18 marzo 2007

LA RIVOLUZIONE INTERNET… E PASOLINI

Da un po’ di tempo mi domando fino a che punto Internet abbia modificato le nostre esistenze, le nostre abitudini, il nostro modo di relazionarci al mondo della comunicazione, dell’informazione, dei media. Ed è una domanda che mi pongo soprattutto da quando il Gruppo L’Espresso ha inserito Letteratitudine tra i propri blog d’autore.

Sul fatto che Internet sia una vera rivoluzione – la più grande da Gutenberg in poi – non c’è alcun dubbio (con i suoi pro e i suoi contro).

Sono convinto che nel tempo – ma il processo è già avviato – il web fagociterà tutti i mezzi di comunicazione. Il futuro massmediatico, a mio modo di vedere, sarà un sistema integrato che avrà al centro la Grande Rete. Televisioni e testate giornalistiche cartacee non possono far finta di nulla. E infatti si stanno preparando per affrontare le nuove sfide. Il progetto Repubblica Tv, per esempio, va proprio in questa direzione.

Certo, rimane da interrogarsi sulle possibili evoluzioni del fenomeno (sulle sfaccettature) in modo da potersi adattare ai cambiamenti con tempestività.

Per esempio, quale sarà il ruolo dei blog negli anni che verranno? È un fenomeno temporaneo? È una moda che tenderà ad affievolirsi fino a scomparire? Oppure più che una moda è il frutto di una esigenza che finirà con il consolidarsi? Molti blogger getteranno la spugna per stanchezza, per noia, perché i risultati ottenuti saranno inferiori alle aspettative? Sopravvivranno solo i migliori? Gli highlander della rete? O, come ha sostenuto Geert Lovink, i blog rappresentano un artefatto decadente attraverso cui il modello dei media di massa sta vivendo il suo declino?

Tempo fa Monica Maggioni mi ha rilasciato un’intervista in occasione dell’uscita del suo libro «La fine della verità». Ne ho approfittato per chiederle qual è stato – a suo giudizio – il ruolo dei blog nell’ambito della guerra in Iraq. La giornalista mi ha risposto che a un certo punto del conflitto “molti blog sono diventati per gli iracheni l’unica possibilità di racconto. Poi adesso, che per i giornalisti, e in particolare per i giornalisti occidentali (ma non solo), diventa difficile o impossibile raccontare da dentro il conflitto iracheno, i blog sono proprio le voci che arrivano dall’interno della storia. Quelle che altrimenti non si potrebbero sentire.”

E già questo mi pare molto significativo.

Per quanto concerne i blog letterari segnalo un’interessante monografia firmata da Mauro Novelli e pubblicata su “Tirature ‘06″ (a cura di V. Spinazzola, Il Saggiatore, 2006) dal titolo: “La critica al tempo dei blog. Tra le altre cose Novelli scrive: “L’esplosione del fenomeno blog, sorto da noi col nuovo millennio, da tempo ha investito in pieno i territori della critica. (…) È chiaro a tutti che siamo in un periodo di transizione, alle prese con un gigantesco cambio di paradigma nell’accesso all’informazione. In ambito letterario si resta perciò delusi di fronte ai tanti che reagiscono limitandosi a celebrare con dolenti epicedi la presunta morte della terza pagina d’un tempo, che – detto per inciso – non ha avuto tra le sue qualità quella di aprirsi alla cerchia dei lettori che la scolarizzazione ha nel frattempo reso virtualmente interessati. (…) I litblog, viceversa, (…) riuscirebbero a intercettare un pubblico finora trascurato o vilipeso. Avrebbero insomma una funzione democratizzante (…)”.

In merito alle possibili evoluzioni dei blog letterari mi pare molto significativo un bel post scritto da Loredana Lipperini su Lipperatura.

Del resto Internet sta condizionando anche il mercato dell’editoria. Ci sono editori, ad esempio, che hanno deciso di adottare il cosiddetto copyleft consentendo di scaricare gratuitamente interi romanzi che possono (o che potranno) essere acquistati in forma cartacea. È il caso, giusto per fare due nomi, di Alberto Gaffi – con la sua casa editrice – e di Giulio Mozzi – con vibrisselibri – che ho intervistato qualche giorno fa (potete leggere l’intervista cliccando qui).

Abbiamo già avuto modo di discutere di casi di editoria print on demand. Di recente, peraltro, anche un autore noto come Giuseppe Genna ha deciso di utilizzare il canale Lulu (Genna ha anche consentito ai suoi lettori di scaricare il libro in questione – “Medium” – gratuitamente dal suo sito).

E in questi giorni è venuto alla luce il nuovo progetto/romanzo di scrittura collettiva dei Wu Ming: Manituana.

Torniamo al concetto di sistema di comunicazione integrata. A un certo punto potrebbe venirmi in mente di citare Pier Paolo Pasolini e di riportarvi il suo pensiero relativo ai medium di massa (come li chiamava lui). Potrei ricordare cosa Pasolini pensava della televisione. Solo che, anziché riportare il testo di un intervento, potrei fare in modo di farvi sentire la sua voce e farvi vedere il suo volto… mentre parla.

Potrei scrivere per esempio (rivolgendomi a chi dispone della connessione veloce e possiede un pc dotato di altoparlanti): “Per favore, cliccate sul simbolo play in basso a sinistra nel riquadro sottostante”.

Avete ascoltato e visto il video?

Pasolini – lo avete sentito – sosteneva che “la televisione è un medium di massa. E un medium di massa non può che mercificarci e alienarci“. E poi che “nel momento in cui qualcuno ci ascolta sul video ha verso di noi un rapporto da inferiore a superiore; che è un rapporto spaventosamente antidemocratico.”

Domanda. Cosa penserebbe Pasolini di Internet, considerando che il web – a differenza della televisione – crea rapporti democratici? E poi… come medium di massa, anche Internet non può che alienarci e mercificarci?

Di recente è uscito in libreria un volume molto interessante edito da Donzelli. L’autore è il giornalista della Stampa Vittorio Sabadin. E il titolo è «L’ultima copia del New York Times».

Nel primo capitolo Sabadin cita Rupert Murdoch, il più importante editore del mondo. “Il mondo sta cambiando molto in fretta” dice Murdoch. “Chi è grande non sconfiggerà più chi è piccolo, ma chi è veloce batterà quelli che sono lenti.”

L’elemento chiave, secondo Murdoch, è la velocità. Giocare d’anticipo. Saper leggere il proprio tempo (leggere il proprio tempo… in tempo, aggiungerei io). Ed ecco cosa Murdoch pronunciò il 12 marzo del 2006, nell’ambito di una conferenza alla Worshipful Company of Stationers and Newspaper Makers di Londra. Il tema era il futuro dell’informazione scritta: «Le società o le compagnie che sperano che un glorioso passato le protegga dalle forze del cambiamento guidate dall’avanzante tecnologia falliranno e cadranno. Una nuova generazione di consumatori di media è davanti a noi e chiede di ricevere informazioni quando le vuole, dove le vuole e come le vuole. C’è solo un modo, utilizzare le nostre competenze per creare e distribuire un contenuto dinamico e brillante. Ma i giornali dovranno adattarsi, perché i loro lettori ora chiedono di ricevere notizie su una gran varietà di piattaforme: siti web, iPods, telefonia mobile, laptop. Credo che i quotidiani avranno ancora molti anni di vita, ma sono anche convinto che nel futuro l’inchiostro e la carta saranno solo uno dei molti modi con i quali comunicheremo con i nostri lettori».

Nel testo Sabadin sottolinea che: “Probabilmente, l’unica e vera e banale ragione per la quale i giornali vendono meno copie è che nessuno ha più tempo di leggerli”. E poi che: “Nel bilancio di una famiglia, buona parte delle risorse economiche che una volta venivano utilizzate per l’acquisto di giornali è ora destinata a pagare le bollette telefoniche dei figli, le connessioni a linee veloci per il web, gli abbonamenti alle tv tematiche. Rispetto ai loro nuovi concorrenti, i giornali sono rimasti molto indietro: sono lenti, costosi da produrre, difficili da consumare. Richiedono tempo e impegno, molti sono ancora in bianco e nero, come un secolo fa. (…) Nell’autunno del 2006, il New York Times riduceva le previsioni dei propri introiti di oltre il 30 per cento e il glorioso Boston Globe, chiudeva l’anno con la peggiore performance della sua storia, dovuta, secondo gli analisti, al fatto che ormai quasi l’80 per cento delle case di Boston avevano un collegamento a Internet a banda larga. Mentre i giornali americani annunciavano l’ennesimo calo di copie vendute, il numero dei visitatori ai loro siti Internet cresceva del 25 per cento, i siti web del mondo superavano i 100 milioni, registrando un incremento del 100 per cento in meno di due anni, e il motore di ricerca Google, realizzato con 10.000 dollari presi in prestito da un emigrato russo, Sergey Blin, dichiarava il sorpasso nella raccolta pubblicitaria in Gran Bretagna della televisione Channel 4, la seconda del paese.”

Sul Magazine del Corriere della Sera del 15 marzo 2007 è stata pubblicata un’intervista a Vivian Schiller, General Manager del New York Times online, che è oggi considerata la donna più potente del web. La Schiller, tra le altre cose, ha dichiarato: “Noi del Times non consideriamo giornale cartaceo e giornale web come antagonisti in gara per distruggersi l’un l’altro ma come due forze complementari. (…) Ciò che rende le nostre chat room e i nostri forum unici è l’avere i lettori più colti, curiosi e intelligenti del mondo. (…) Le loro opinioni hanno elevato enormemente il livello e la qualità del nostro sito. (…) E crediamo molto anche nei blog: ne abbiamo oltre 30, la loro qualità è elevata come il resto, ma sono più veloci e immediati“.

Infine tiro in ballo la rubrica Contrappunto di Riccardo Chiaberge (cfr. Domenicale de Il Sole-24Ore del 4 marzo 2007) , dalla quale apprendiamo che secondo la scrittrice Antonia Byattsaremo governati da una sorta di populismo del consenso: opinioni e scelte politiche dettate da blog, siti web e focus group“.

Credo che i temi che sto tentando di affrontare siano seri e non possano essere trascurati.

Ecco perché vorrei aprire qui un dibattito a largo raggio.

Mi piacerebbe discutere con voi sul futuro dell’informazione e della comunicazione. In generale. E della reale possibilità di “fare cultura vera” attraverso la rete e attraverso i blog. Sulle opportunità e sui limiti. Sugli scenari futuri.

E mi piacerebbe coinvolgere i responsabili delle testate giornalistiche e dei gruppi editoriali (a cominciare da quello che ospita questo sito); così come i giornalisti (televisivi e della carta stampata), gli scrittori, gli editor, gli editori, i critici letterari, ecc.

Sarebbe davvero interessante – e indicativo – se un dibattito serio e articolato sulle suddette tematiche riuscisse a svilupparsi con successo proprio su un blog.

Confido in un’ampia partecipazione. Soprattutto da parte di coloro che sono particolarmente attenti e attrezzati per riuscire a destreggiarsi nell’ambito di scenari caratterizzati da alta velocità, ipertecnologia e multimedialità.

Dunque, ricapitolando, il dibattito verte sui seguenti punti (tra loro strettamente connessi):

- Internet come motore centrale di un sistema di comunicazione integrato;

- Internet e il futuro della televisione;

- Internet e il futuro dell’informazione cartacea;

- Il futuro dei blog (e dei blog letterari in particolare);

- Internet come medium di massa, ma democratico.

C’è parecchia carne al fuoco, ma non spaventiamoci…

Vi lascio con la domanda: cosa penserebbe Pasolini di Internet?

Parafrasando Bob Dylan (la risposta sta soffiando nel vento) mi verrebbe da dire: la risposta sta circolando nella rete.

A voi la parola.

Massimo Maugeri

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giovedì, 15 marzo 2007

MILAN KUNDERA SI È ALLACCIATO UNA SCARPA

Strano il titolo di questo post, vero?

Lasciate che precisi. Non è un titolo. È un’informazione.

"Il soggetto (Kundera) si è allacciato una scarpa. Sinistra".

Queste erano le informazioni che nel 1974 (Kundera sarebbe fuggito a Parigi nel 1975) gli agenti segreti dell’Stb, i servizi speciali cecoslovacchi, pateticamente travestiti da compagni bulgari in gita a Praga, trasmettevano alla centrale.

Vi viene da ridere? Sentite queste altre.

"Siccome il soggetto ha una macchina piccola, sorpassa il camion della spazzatura. Invece la grande Volga grigia degli organi, si incastra".

"Ore 13.04: il soggetto entra nell’enoteca Viola. Ma il vino è finito. Il soggetto esce sorridente, a braccetto con la moglie".

"Ha ordinato un etto di insalata russa".

"Non ha trovato posto nell’Osteria del Convento".

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Milan Kundera

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Giampaolo Visetti su Repubblica del 15 marzo 2007 ha pubblicato un articolo che la dice lunga sulla tragica situazione che un intellettuale come Milan Kundera ha dovuto subire a metà anni Settanta in una città come Praga. Vi propongo stralci dell’articolo di Visetti, ma vi consiglio di leggerlo integralmente cliccando qui.

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« L’anno dei pedinamenti venuti ora alla luce, è speciale. Kundera ha appena terminato La vita è altrove. E’ disoccupato, è stato espulso dal partito, ritirate le sue opere. Gli amori ridicoli e Lo scherzo, in cui racconta del comunista a cui il partito distrugge la vita per niente, sono ridotti a samizdat clandestini.

"La polizia – spiega lo storico Dan Hruby – era ignorante, ma non stupida. Negli interrogatori, citare dettagli insignificanti serviva a destare il terrore".

Kundera, convocato in commissariato il 12 agosto del 1974, si sente porre una sola domanda dall’agente Platenik: "Perché alle 9.27 del primo giugno ha scartato una caramella alla ciliegia sotto il terzo castagno del secondo cortile interno del Clementinum?". Il messaggio è di drammatica violenza. "Da quel momento la tua vita – dice Jan Keller, sociologo dell’università di Brno – era finita. Nemmeno un gesto, un desiderio intimo, ti sarebbero più appartenuti. Tutto era oscenamente pubblico: l’occhio vicino e penetrante della morte ti avrebbe tenuto in ostaggio".

(…)

Immagini e relazioni celano molto più di attimi ordinari rubati al dissenso. Fissano espressioni stanche e sorrisi umiliati, lo sguardo in allarme di chi si sente braccato.

"Sapevano di essere pedinati e spiati anche in bagno – dice lo storico Peter Vlac – . La condanna della dittatura, dopo gli omicidi degli anni Cinquanta, consisteva nella semplice comunicazione di tale controllo. Traditi da vicini e famigliari, si veniva isolati".

E’ il destino di Kundera, frantumato nei personaggi ridicoli e tragici dei suoi romanzi. Il partito, davanti all’ex poeta comunista che da ragazzo glorificava i tempi nuovi degli operai e delle fabbriche, sbanda. La censura inorridisce, scorrendo le pagine nuove che parlano di amore, di sesso, di uomini e di donne, di sentimenti e dell’esistenza insensata perché irripetibile. Nel 1974 basta la frase sgangherata dell’agente Bocek ("Il soggetto andrebbe uscito con Jirka", nome in codice del professore ceco-americano George Gibian), per farlo definire "persona non gradita". Nel 1978 è sufficiente la stesura in francese di Il libro del riso e dell’oblìo per togliergli la cittadinanza cecoslovacca.
Trent’anni dopo, a Praga, ci si chiede però se la maledizione sia davvero finita. E Kundera diventa un caso. Anche dopo la caduta del Muro, non ha più fatto ritorno in patria. Gli ultimi romanzi, per sua volontà, non sono tradotti in ceco. Versioni-pirata circolano su Internet, di nuovo clandestine.»

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Quello di Kundera, naturalmente, è solo un esempio. Sono tanti gli intellettuali – chi per un motivo, chi per un altro – che nel corso del Novecento hanno dovuto abbandonare il proprio Paese.

Parliamone, se vi va.

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martedì, 13 marzo 2007

I ROMANZI… “MENO TERMINATI”

Come si dice… “tutto il mondo è paese”. I risultati di una ricerca realizzata in Inghilterra (Paese dove, dicono, si legge più che da noi) hanno portato alla luce una novità già nota: più della metà degli acquirenti di libri compra non per leggere ma per fare bello sfoggio dei volumi acquisiti sugli scaffali della propria libreria.

E comunque, meglio abbandonare i libri acquistati negli scaffali… che buttarli!

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La notizia è stata ripresa dalle pagine culturali di diversi quotidiani. Il Corriere della sera (del 12 marzo 2007) evidenzia la notizia con un articolo di Francesco Tortora che vi propongo in parte:

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“La classifica che mette in fila i «romanzi meno terminati» è piena di sorprese e non mancano opere celebri della letteratura del passato. Secondo gli inglesi il romanzo che li ha più annoiati tanto da non riuscire a terminarlo è quello dello scrittore australiano Peter Warren Finlay alias Dbc Pierre, intitolato «Vernon God Little». L’opera, vincitrice del «Booker Prize» non è stata finita da più di un terzo delle persone che dichiarano di averlo comprato. Al secondo posto si piazza il quarto capitolo della saga scritta da J. K. Rowling: «Harry Potter e il calice di fuoco» (il 32% di chi l’ha comprato non l’ha letto), mentre al terzo posto si posiziona uno dei romanzi centrali del secolo scorso, «L’Ulisse» di James Joyce ( il 28% di chi l’ha comprato, non l’ha letto). Tra i nomi famosi in questa speciale classifica troviamo al sesto posto Salman Rushdie con i suoi «Versetti satanici», al settimo Paulo Coelho con «L’alchimista», all’ottavo Leo Tolstoj con il monumentale «Guerra e pace» e al decimo Dostoevsky con «Delitto e castigo».”

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A questo punto mi viene voglia di lanciare il solito (vacuo?) giochino… invitandovi a segnalare i vostri “romanzi meno terminati”.

Ci state? Siate sinceri, però (sinceri… ma non cattivi, eh?).

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martedì, 13 marzo 2007

KATARINA E IL PERICOLO DELLA NEVE di Renato Di Lorenzo (recensione di Rossano Garibotti)

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All’inizio c’è Katarina. Katarina ha quattordici anni, balla sul letto ascoltando i Millencolin a palla e vive in una Stoccolma minacciata dalla nevicata del secolo, e in un secolo minacciato dal traffico d’organi.
Alla fine c’è Katarina che di anni ne ha quindici. La nevicata del secolo si è dissolta, il traffico d’organi no. Il traffico d’organi inghiotte soldi e coscienze. Di tutto ciò che è accaduto, Katarina a volte non sa bene se un episodio è successo davvero, o se lei ne ha complicato la verità, o addirittura se l’ha inventato di sana pianta. Allora Katarina scruta la città, perché sa che il suo futuro è lì, annidato da qualche parte. Poi fissa un punto a caso in una strada di periferia contando fino a dieci, e se passa una macchina coi fari accesi prima che abbia smesso di contare, pensa che il 2004 sarà un anno magnifico.

Rossano Garibotti

rossano.garibotti@virgilio.it

Katarina e il pericolo della neve di Renato Di Lorenzo   

Foschi Editore, € 11,90, 230 pagine

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martedì, 13 marzo 2007

NAPOLI SUL MARE LUCCICA di Antonella Cilento (recensione di Paolo Izzo)

La collana “Contromano” è un’idea felice dell’editore Laterza: quasi sempre sono libri-luoghi scritti-amati da bravi autori; ricordo quando lessi uno dei primi titoli, “Torino è casa mia” di Giuseppe Culicchia, e ne rimasi affascinato: la città piemontese era raccontata come un vero e proprio appartamento, la casa, appunto, dell’autore.

Ora è la volta di Napoli, che però è una città troppo “espansiva” per poter chiuderla tra quattro mura (semmai tra i quattro elementi della natura, come la suddivisione dei capitoli ci insegna) e lo sa bene Antonella Cilento, autrice per Laterza di “Napoli sul mare luccica”.

Ai suoi occhi, che sono come appena usciti dal sonno, poco prima della messa a fuoco, poco prima di inforcare gli occhiali, Napoli sfugge e si nasconde, cola come lava dal Vesuvio, si allunga nel mare, invade tutti gli spazi e si perde sulle aeree colline (ed eccoli i quattro elementi: fuoco, acqua, terra e aria).

È un drago addormentato, Napoli; gigantesco. Entro cui la Cilento si muove come Asimov nel suo viaggio (allucinante) nel corpo umano. La città continua a scappare, essendo un drago in dormiveglia e non un essere umano sotto anestesia… Le sue fauci potrebbero soffiare fuoco da un momento all’altro, gli intestini ribollire sotto le Stufe di Nerone, la coda – con un colpo – spazzare un’intera periferia.

Non so come mi venga l’immagine fiabesca di un drago, né voglio a tutti i costi trovarla ripercorrendo le 150 pagine del libro.

Forse è il racconto stesso, con la sua fantasia verace, con l’ondoso rimescolamento di memorie coscienti e non, a suscitare immagini inedite come questa.

È per come la Cilento, napoletana, attraversa la sua città quasi in preda a uno straniamento; viene in mente il modo di girare di Paolo Sorrentino, perché anche le “riprese” della scrittrice sono delle visioni, un carnevale in sogno, una riunione segreta…

Mi guardo indietro, ora, e non sono più tanto sicuro di aver cominciato a parlare del libro. Forse Antonella mi perdonerà se mi sono già perso, ma è colpa sua.

A un turista che sfogliando “Napoli sul mare luccica” si avventurasse nella città partenopea, succederebbe la stessa cosa: si “perderebbe”.

Per esempio cercando quel pino su via Posillipo «che esce da un portone quasi chiedendo permesso e si stiracchia, ha le radici nel palazzo stesso e la chioma che si sposta perché un balcone possa conservare il suo naturale spazio d’affaccioۛ» o le lenti giuste per gli occhi di Napoli alle «spalle di San Pietro ad Aram, dove la luce grigia del maltempo è ottusa dalle strisce colorate delle stoffe» e «facce antiche di vecchi fanno pendant con i riccioluti capitelli compositi delle lesene gialle e bianche dell’abside della chiesa».

Perdersi a Napoli e con questo libro; per ritrovarsi nella splendida Cappella San Severo del Cristo velato, all’Isolotto di San Martino tra passato e presente, al cimitero delle Fontanelle nel quartiere Sanità oppure alla fermata Leopardi della Circumvesuviana.

O, infine, di fronte alle “Sette opere di misericordia” del Caravaggio (che si può ammirare nel palazzo del Pio Monte della Misericordia), su cui la Cilento ha scritto forse le sue pagine più belle. Sempre con una napoletanità sana, mai smargiassa o campanilista, ma ironica e anche critica: giusto dosaggio fra obiettivo disincanto e senso di appartenenza. Come quel pino di via Posillipo, come il suo libro.

Paolo Izzo

http://www.paoloizzo.net/

Napoli sul mare luccica di Antonella Cilento

Laterza, “Contromano”, 2006

pp. 158 – euro 9

Paolo Izzo è uno scrittore. Il suo ultimo libro “Il dentro del suono” è stato recentemente recensito sulle pagine culturali de “Il Messaggero”.

(Massimo Maugeri)

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martedì, 13 marzo 2007

LA LOGICA DEL COPYLEFT: INTERVISTA AD ALBERTO GAFFI E GIULIO MOZZI

Avete mai sentito parlare di copyleft ?

Secondo la versione italiana di Wikipedia: “L’espressione inglese copyleft, gioco di parole su copyright, individua un modello alternativo di gestione dei diritti d’autore basato su un sistema di licenze attraverso le quali l’autore (in quanto detentore originario dei diritti sull’opera) indica ai fruitori dell’opera che essa può essere utilizzata, diffusa e spesso anche modificata liberamente, pur nel rispetto di alcune condizioni essenziali. Nella versione pura e originaria del copyleft (cioè quella riferita all’ambito informatico) la condizione principale obbliga i fruitori dell’opera a rilasciare eventuali modifiche apportate all’opera a loro volta sotto lo stesso regime giuridico (e generalmente sotto la stessa licenza). In questo modo, il regime di copyleft e tutto il fascio di libertà da esso derivanti sono sempre garantiti.

L’espressione copyleft, in un senso non strettamente tecnico-giuridico, può anche indicare generalmente il movimento culturale che si è sviluppato sull’onda di questa nuova prassi in risposta all’irrigidirsi del modello tradizionale di copyright.

Esempi di licenze copyleft per il software sono la GNU GPL e la GNU LGPL, per altri ambiti le licenze Creative Commons (più propriamente con la clausola share alike) oppure la stessa licenza GNU FDL usata per Wikipedia”.

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La "c rovesciata" è il simbolo del copyleft. Non gli viene riconosciuto un valore legale, a differenza della sua controparte...

La C rovesciata: il simbolo del copyleft

Vi consiglio di leggere l’intero articolo proposto da Wikipedia sul copyleft (cliccate qui).

La logica del copyleft ha trovato applicazioni anche nel sistema editoriale italiano.

Quella che segue è un’intervista esclusiva rilasciata da Alberto Gaffi e Giulio Mozzi in riferimento a due progetti editoriali molto interessanti: Alberto Gaffi editore in RomaVibrisselibri.

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Alberto_gaffi_2

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Alberto Gaffi

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Giulio Mozzi

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Che cosa si intende esattamente con copyleft nell’ambito dell’editoria?

(ALBERTO GAFFI)

Libera riproducibilità di contenuti ad uso personale e collettivo, ma senza sfruttamento economico né diretto né indiretto.

(GIULIO MOZZI)

Il principio del copyright è: chiunque usi una certa cosa, deve pagare. Il principio del copyleft è: chiunque usi una certa cosa per farci dei soldi, deve pagare; chi la usa non per farci dei soldi, non deve pagare.

Qual è la logica del copyleft? In particolare, se un volume è scaricabile gratuitamente online, perché qualcuno dovrebbe acquistarne poi la versione cartacea? E dov’è il "ritorno economico" per un editore che offre un libro su Internet?

(ALBERTO GAFFI)

La pratica del copyleft s’inserisce nella logica della libera circolazione delle idee. Chi lo applica o lo promuove vuole impedirne qualsiasi tipo di freno. Naturalmente anche coloro che creano le idee vanno protetti dall’attribuzione da parte di altri delle proprie opere e dal loro illecito sfruttamento, quindi nessuno dovrebbe appropriarsi di opere altrui. Se l’autore (o gli autori) decide (decidono) di autorizzare anche questo “plagio” l’opera assumerà il connotato di opera collettiva, come nell’antichità le opere classiche tramandate oralmente da villaggio in villaggio dai diversi cantori e non potrà mai essere venduta o sfruttata da nessun singolo o gruppo. La versione cartacea, che rappresenta ancora oggi un impegno economico e un’apparenza di maggiore dignità e prestigio rispetto al file di testo, non deve temere la loro concorrenza, ma anzi prefissarsi il traguardo di sempre maggiore accuratezza tipografica a prezzi ragionevoli. Chi legge la versione digitale, se la trova valida, acquisterà a buon mercato la versione cartacea, altrimenti si limiterà a possedere quella gratuita.

(GIULIO MOZZI)

Un libro che si può mettere in tasca è più comodo di un libro in formato A4 rilegato con la spirale. Tanto più grosso è il libro, e tanto è più scomodo il libro scaricato e stampato. Quanto a leggere a video, non so chi sia capace di andare oltre le tre o quattro pagine. Libro digitale, stampata del libro digitale e libro acquistato in libreria sono tre oggetti diversi.

Per un editore che offre un libro sia in rete sia in libreria, l’edizione in rete funziona nei fatti come un mezzo promozionale, o come mezzo per raggiungere lettori che altrimenti sarebbero molto difficili da raggiungere (italiani emirati in Groenlandia ecc.).

L’editore che offre un libro in rete e basta, può guadagnarci solo se quel libro è indispensabile al lettore. Perciò ci guadagnano gli editori scientifici (i loro libri sono indispensabili ai loro lettori). Non c’è speranza, invece, per le opere narrative: si può solo regalare.

Ci racconti la sua esperienza editoriale nell’ambito del copyleft

(ALBERTO GAFFI)

Personalmente metto tutti i miei libri in copyleft. Il mio successo MADRI ASSASSINE di Adriana Pannitteri, non ha subìto nessun svantaggio dall’essere totalmente scaricabile sia dal mio che da altri siti. Anzi, non passa giorno che non mi arrivino ordini d’acquisto di libri assaggiati dal web.

(GIULIO MOZZI)

È iniziata da pochi mesi. Il 16 giugno 2006 ho lanciato, con un articolo nel bollettino vibrisse  l’idea di una "cosa" che fosse una casa editrice in rete e, contemporaneamente, un’agenzia letteraria (perché questa abbinata? Perché i libri "veri" sono – ancora – quelli di carta; e perché in rete i libri si danno via gratis, ma a un editore cartaceo si possono vendere a suon di quattrini). Attorno alla proposta si sono trovate una sessantina di persone. Il 16 novembre 2006 abbiamo debuttato con i primi due libri pubblicati (www.vibrisselibri.net), il 28 febbraio 2007 sono usciti i secondi due. Penso che procederemo al ritmo di non più di una decina di titoli l’anno.

Siamo molto contenti perché dell’iniziativa vibrisselibri hanno parlato molto i giornali (temevamo di restare "confinati" nella rete, in verità…), recensendo anche i nostri libri come se fossero dei "veri" libri. Ora si tratta di organizzare una "forza di vendita" che martelli gli editori tradizionali e li convinca a trasportare su carta i nostri libri: necessariamente mantenendo in rete la nostra edizione. Un po’ alla volta mettiamo insieme tutti i pezzi del progetto (e progettiamo cammin facendo).

Cosa può dirci, se ne è a conoscenza, sul copyleft nell’editoria straniera?

(ALBERTO GAFFI)

Conosco solo l’esperienza statunitense, ma purtroppo lì dove il copyleft è nato, non è riuscito ad uscire dal sottobosco editoriale della controcultura, non come da noi dove i collettivi di scrittura di successo (Wu Ming o Babette Factory) sono riusciti a convincere grandi case editrici a mettere on line i loro testi di successo.

(GIULIO MOZZI)

Confesso: non ne so molto.

Considerando la crescita progressiva di Internet, come si svilupperà – a suo giudizio – l’editoria nei prossimi decenni?

(ALBERTO GAFFI)

Credo che l’editoria si svilupperà molto e bene. Da quando c’è Internet si legge molto di più e meglio. Ma attenzione, noi editori non dobbiamo assolutamente credere che la rete faccia il nostro lavoro critico. Il nostro ruolo di selezione rimane immutato ed anzi maggiormente responsabilizzato. Pochi autorevoli editori saranno i soli che potranno guidare le scelte del grande pubblico. Altrimenti la spazzatura, in abbondanza, avrà solo il merito di confondere e disgustare i lettori. Naturalmente se un editore in rete promuove spazzatura dovrà anche lui, a sua volta, essere degradato a spazzatura! Ma non mi pare che questo sia il caso – per esempio – di vibrisse, la casa editrice solo on line di Giulio Mozzi. Consiglio molti miei colleghi di visitarla, infatti ospita diversi titoli molto interessanti in cerca di editore.

Io, intanto, sto per dare alle stampe l’interessantissimo INNOCENTI A VILLA VICENTINA di Ezio Tarantino.

(GIULIO MOZZI)

Non sono il Mago Merlino, e mi rifiuto di fare previsioni

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domenica, 11 marzo 2007

TIRATURE ‘07 a cura di Vittorio Spinazzola

*

Tirature è un volume che non mi faccio mancare mai. Non so se lo conoscete e se avete mai avuto modo di esaminarlo. Si tratta di un annuario curato da Vittorio Spinazzola ed edito da "Il Saggiatore" in collaborazione con la "Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori".

Se "Tirature ‘06" aveva per oggetto i romanzi d’amore e "Tirature ‘05" i giovani scrittori e personaggi giovani (volendo considerare solo il triennio 2005-2007), "Tirature ‘07" si concentra sul tema del giallo.

Giovanni Choukhadrian sulle pagine dell’Indice, in occasione dell’uscita di "Tirature ‘05" aveva evidenziato l’esistenza di una corrispondenza tra: "due documenti derivanti, in apparenza, da mondi separati. Si tratta dell’annuale rapporto Censis, coordinato da Giuseppe De Rita, e del volume Tirature (prima noto come Pubblico), curato da Vittorio Spinazzola. Il Censis di De Rita offre uno strumento di osservazione della realtà socioeconomica italiana: Tirature, sotto l’occhiuta curatela di Spinazzola, è un mezzo a oggi non eguagliato di indagine socioletteraria in Italia".

E così è.

*

In quarta di copertina di "Tirature ‘07" leggiamo: “Agli inizi del nuovo millennio, il romanzo poliziesco si presenta come il vero erede della classica narrativa di avventure. Scrittori di ogni livello, dai professionisti raffinati ai mestieranti, hanno collaborato alle sue fortune. La produzione giallistica si è articolata in una quantità di sottogeneri, specie, filoni, che mettono sotto inchiesta il mondo moderno nella varietà dei suoi aspetti più infidi. E le tecniche della suspense ben congegnata hanno rilanciato il piacere della lettura in un pubblico straordinariamente largo e composito.”

Le prime settanta pagine del volume sono dedicate, dunque, a una serie di monografie sul giallo. La prima, sul genere poliziesco, è firmata da Bruno Pischedda (“Maturità del poliziesco classico”). Mauro Novelli scrive sul noir (“Noir, il nero stinge”). Gianni Turchetta approfondisce il tema del giallo storico (“Tante storie per i gialli storici”). Giuliano Cenati scrive sul giallo a fumetti (“La vita non è un fumetto, baby!”). Federico Bona affronta il tema della cosiddetta faction, applicata al noir (“È noir, ma non è fiction”). Enzo Marigonda ci racconta dei “Delitti seriali in tv”. Paolo Giovanetti e Graziano Nani esaminano il giallo dal punto di vista dell’editoria (“Nell’editoria giallistica, autore vince collana”). E poi lo stesso curatore del volume, Vittorio Spinazzola, chiude lo spazio dedicato alle suddette monografie spiegandoci “Perché leggiamo i gialli”.

Seguono altri mini-saggi molto interessanti e poi una serie di studi finalizzati a raccontarci l’anno editoriale 2006: orientamenti delle case editrici, del pubblico e della critica; i canali di vendita; le vie della promozione; il pubblico delle biblioteche; la comunicazione multimediale e via web; informazioni su classifiche, premi letterari, dati statistici italiani ed europei che raccontano chi sono e dove vanno i lettori e gli editori.

Segnalo, tra le altre cose, una ricca e interessante intervista di Fabio Gambero al critico del Corriere della Sera – Magazine: Antonio D’Orrico (in “Tirature ‘06” era stato intervistato Goffredo Fofi).

*

Massimo Maugeri

*

TIRATURE ’07 a cura di Vittorio Spinazzola

pag. 253, Il Saggiatore

anno 2007 – euro 22,00

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sabato, 10 marzo 2007

PER LA LIBERAZIONE DI DANIELE MASTROGIACOMO

Anche Letteratitudine alla mobilitazione per Daniele Mastrogiacomo, l’inviato di Repubblica sequestrato dai talebani in Afghanistan. Sono molte le iniziative in corso. Tra queste la petizione online di Repubblica.it dove, a questo indirizzo, è possibile firmare per la liberazione.

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venerdì, 9 marzo 2007

DIRIMPETTAI numero 2

La mia foto

Caro Massimo,

l’ultima volta che mi hai telefonato, dopo l’usale e cortese sms in cui mi domandi se sono in un buon momento, se ci possiamo sentire, ero in treno, nel mio consueto puntare verso la frontiera salvo discesa precoce nella stazione destinata a futuro (molto lontano, pare per ora) smantellamento, Imperia Porto Maurizio. Ti ho detto che andava bene, che si poteva approfittare di quei dieci minuti in cui l’intercity plus ferma a Genova. Nessuna galleria e la conversazione possibile. Vedi, finisce che parlo sempre di stazioni, siamo fatti cosi, siamo ossessionati, siamo pieni di manie e da queste manie pretendiamo di partire per creare un mondo, aprire la porta per una narrazione (meglio dire cerchiamo? vaghiamo a tentoni? ci cimentiamo? ci infiammiamo?). Io continuo a girare intorno alle stazioni, in senso letterale e non solo. Conosco queste cose: nella sosta a Genova un amico (tu) mi può telefonare senza il pericolo e il fastidio che cada la linea e che la conversazione venga troncata. So che la stazione di Imperia Porto Maurizio che mi sta diventando così cara e amica, cosi calda e dal sapore di casa, un giorno non esisterà più perché unificheranno le due stazioncine della cittadina del Ponente. E finalmente ci sarà il doppio binario, ma io patirò nel corpo e nei ricordi il lutto dell’assenza. L’assenza di certe pensiline, l’assenza di quel marciapiede dove il mio compagno viene ad aspettarmi quando, dopo il tempo standard trascorso a Bologna (e a Milano, o Modena, o posti similari più facilmente raggiungibili dall’Emilia) ritorno e lui mi corre incontro. Mi correrà incontro altrove, lo so, e il viaggiare sarà più agevole.

Ma sto divagando, A Genova ci siamo parlati e mentre ci parlavamo mi veniva in mente che ho scordato il tuo romanzo a Bologna e che avevo molta voglia di leggerlo ma lo farò al ritorno. Adesso mi accontento – e non è roba da poco- di leggere il blog e mi piace riconoscere concordanze, (certi titoli di libri che amiamo entrambi, come l’ultimo Roth) elementi di discussione, motivi per riflettere. Mi hai parlato delle tue figlie l’ultima volta, nella prima puntata di questa nostra corrispondenza pubblica e privata, e mi sono chiesta una cosa. Le racconti le fiabe, alle tue figlie? Ho idea di sì ma magari non c’è sempre il tempo, sono così difficili questi frammenti di tempo da comporre. Lo sono per noi, redattori di varianti sintattiche, maniacali stilatori di note e dettagli che riteniamo utili a comporre narrativa e percorsi collettivi e individuali di pensiero e storie. E se le racconti, le inventi o le leggi? Scegli dei libri, li sceglie tua moglie, li fai scegliere a loro? A questo pensavo, e anche se nei tuoi libri le tue bimbe hanno mai trovato delle stazioni, hanno mai desiderato di partire, ti hanno mai chiesto di pensare per loro e solo per loro un’avventura di viaggio.

Con questa domanda mi fermo, caro Massimo. Com’è il tuo stato d’animo in questi giorni di clima mite ma di rare mitezze attorno? Io sento nelle ossa nebbie fittissime ma c’è sempre qualche storia, da scrivere o da leggere, che mi concede sollievo.

Vorrei sapere anche se hai visto Sanremo. Io, la sera della finale, qui a Imperia ero a una serata di musica lirica, una cosa molto diversa talmente vicino a quel tempio del passato rivisitato da un presentatore assai dignitoso ma in fase, a mio parere, di delirio di onnipotenza, per quel poco che ho letto e ascoltato. Questo, per non far mancare al nostro epistolario un accenno di gossip che solo gossip non è. Se solo penso alle cifre di cui si è parlato e alla quantità di gente che vive sotto o nei pressi della soglia di povertà mi indigno.

Ma questa indignazione che nulla porta, in molti la definirebbero demagogia, o retorica di basso livello, Non esiste forse un mercato? Non esiste forse un sistema che regola compensi e flussi di danaro? Oh, esiste nella sua vorace e pervasiva iniquità.

Ti mando un saluto affettuoso.

*

Francesca Mazzucato

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mercoledì, 7 marzo 2007

FRIDA KAHLO • FLANNERY O’CONNOR: DUE DONNE DOC (di Miriam Ravasio)

Siamo in prossimità dell’8 marzo e io, vi dico la verità, non so bene come comportarmi. Conosco donne che gradiscono moltissimo ricevere gli auguri (e se non lo fai ci restano male), altre che – se solo accenni a farlo – ti aggrediscono brutalmente sostenendo che il tributare una giornata alle donne è prerogativa tipicamente maschilista.

Ne vogliamo discutere?

Scrivete sulla festa della donna. Scrivete di donne. Di grandi donne. Delle loro opere. Delle loro vite.

Ricordiamole qui. Vi va?

Ieri ho pubblicato un post dedicato a un volume edito da Rizzoli intitolato: “Le donne che leggono sono pericolose”. È un titolo forte, caustico. Ma vero. Diciamo la verità. Nei secoli scorsi le donne sono state tenute (appositamente?) un po’ ai margini della cultura. Discutiamo anche di questo, se volete. Intanto ringrazio Miriam Ravasio per avermi inviato un articolo molto bello su due donne indubbiamente grandi: Frida Kahlo e Flannery O’Connor.

Ve lo propongo qui di seguito.

(Massimo Maugeri)

Flannery O’Connor

Non conoscevo Flannery O‘Connor, fino a poco tempo fa ne ignoravo l’esistenza. Conoscevo però, e più che altro per affinità ortopediche, Frida Kahlo. Due donne forti, Frida (1907- 1957) e Flannery (1925-1964), due signore fragili, quasi contemporanee, stesso continente, una messicana e l’altra della Georgia.

Diverse e simili, entrambe hanno vissuto in un corpo malato, conoscevano la convivenza con il dolore, la gestione quotidiana delle forze, entrambe avevano con il dolore un rapporto materno. Scrivevano, disegnavano, mettevano da parte le idee per i momenti di quiete, quando il dolore s’addormenta, fa il sonnellino, e come le mamme stavano ben attente a non svegliarlo bruscamente, a non innervosirlo. I racconti della signora Flannery sono come i retablo di Frida: cose piccole, che si possono pensare a pezzi, che si possono programmare, per contenere l’emozione che eccita e risveglia il male. Disegni e racconti, intensi, belli e sconvolgenti. Una allevava i pavoni e gioiva per le loro splendide ruote, l’altra con le piume colorate degli uccelli tropicali si acconciava in modo strabiliante.

Si dice che avessero una risata scrosciante, tragica, paradossale, entrambe amavano rappresentarsi ma il loro pubblico era diverso: una recitava per Dio, l’altra per l’Uomo.

*

Frida Kahlo

*

Di Frida ho letto la biografia scritta da Hyden Herrera, uscita nel 1991 e il Diario, autoritratto intimo, presentato da Carlos Fuentes, 1995; conoscevo il male, ne intuivo la portata, il suo rapporto con l’arte e con l’amore, e anche qui ne intuivo la sofferenza: Estoy sola!

Letture terribili, che affrontavo con circospezione e mi facevano soffrire. “Una bomba coi nastrini”, scriveva di lei André Breton, nastrini, che anche dopo la morte hanno continuato ad ingabbiare la sua anima, come il più rigido dei busti. Il suo dolore esibito come un fuoco d’artificio mi faceva male: soffrivo sinceramente per lei, per come si era svolta la sua vita, per l’incomprensione della sua grazia, per la sua solitudine. Mi atterriva lo scempio provocatorio di sé, il suo mascherato lamento, perpetrato poi un po’ da tutti, anche ora. Pata de palo, gamba di legno, era il soprannome che si era data e Dolore era il nome del suo fedelissimo cane.

Ehm…

Tutt’altro ho provato per Flannery O’Connor: “Non vedo l’ora che questa faccenda della televisione sia finita. Ho sempre davanti agli occhi l’immagine del mio cipiglio glaciale trasmesso in tutta la nazione a milioni di bambini che attendono impazienti l’arrivo di Batman”. Ed è subito forte il suo senso di responsabilità e d’appartenenza.
Ho letto solo i racconti e Sola a presidiare la fortezza; i romanzi, per una condivisione lenta del suo lavoro e della sua fatica, li leggerò più avanti e senza fretta.

Un bisogno disperato degli altri, che rimane inappagato, può farti prendere un indirizzo creativo, sempre che non ti manchino gli altri requisiti”. Ed entrambe ne erano dotate. Narratrici del dolore, che per chi dipinge è forma visibile e sensibile, mentre per chi scrive è conoscenza.

Come aggiornamento sullo stato del suo male la signora Flannery sintetizza, “sono sempre più una costruzione ad archi rampanti”, poi riprendendo questa immagine, a proposito dei mali morali, spiega: “Ormai non si contano gli informi animali che arrancano alla volta di Betlemme per venire alla luce: io non ho fatto che rintracciare l’itinerario di alcuni, e quando li descrivono come racconti dell’orrore, mi diverte sempre vedere che il recensore coglie sempre l’orrore sbagliato”.
Unos cuantos piquetitos (Qualche piccola coltellata) è un piccolo quadro ad olio (1935, cm 29 x 35) che ritrae la pietà per un fatto di cronaca cruento e assurdo, come quelli che conosciamo, a cui siamo abituati.

*

*

La pittura è materia, e quel piccolo e tremendissimo quadro è un atto che continua a ripetersi, tutte le volte che lo guardiamo, come se Frida avesse anticipato i tempi, materializzando la nostra epoca attuale che non ha più vergogna dell’orrore.
Devo scrivere per scoprire cosa sto facendo, un po’ come la vecchietta, non so mai bene cosa penso finché non vedo cosa dico; dopodiché devo dirlo e ridirlo”. E in una lettera ad “A” aggiunge: “penso che soltanto la chiesa saprà rendere sopportabile il terribile mondo al quale stiamo approdando” e intervenendo in un dibattito su cosa manchi oggi alla letteratura, risponde decisa: il sacro.

La sua religiosità è determinazione, convinzione assoluta su cui lavorare, un’ideale per cui battersi, per cui scrivere e che trova anche una sua forte espressione simbolica nella buffa animazione con cui elargisce consigli ad una cresimanda, o nella sottomessa e dolce immersione a Lourdes.

Da un cespuglio di piume e di fiamme, emerge il volto rassegnato di Frida, reclinato verso sinistra, le sopracciglia folte intensificano lo sguardo, alle sue spalle due ali azzurre segnate di nero. Su tutto, una scritta rossa: Te vas? No. Sotto con un pennello nero: Alas rotas.

*

Miriam Ravasio

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martedì, 6 marzo 2007

LE DONNE CHE LEGGONO SONO PERICOLOSE

 

Sarà vero?

La frase che leggete come titolo di questo post non è una mia affermazione, ma il titolo di un volume da poco edito da Rizzoli (una sorta di libro/mimosa, potremmo dire). Si tratta di un album di immagini che ritraggono donne intente a leggere (Una storia della lettura in immagini dal XIII al XXI secolo, recita il sottotitolo del volume), con riproduzioni a colori da Simone Martini a Van Gogh, da Fragonard a Vallotton. I testi sono di Stefan Bollmann e Elke Heidenreich, mentre Daria Bignardi ha scritto la prefazione.

Vi riporto di seguito parte del testo della prefazione della Bignardi, pubblicato quasi integralmente su Tuttolibri de La Stampa del 3 marzo 2007 (per leggerla tutta cliccate qui), più un paio di immagini gentilmente concesse dall’ufficio stampa Rizzoli.

*

Un titolo come «Le donne che leggono sono pericolose» sembra portare con sé un sottotitolo invisibile: le donne che leggono sono delle rompiscatole. Già immagino i commenti maschili: «Perché le donne che leggono se ne vantano così tanto? Gli uomini non lo fanno». A dirla tutta non me lo immagino: l’ho sentito dire, veramente, da mio marito.

Le donne che leggono sono pericolose soprattutto per se stesse. Ci sarà un motivo se la storia dell’umanità ha ritardato la lettura alle donne: la natura sapeva che avrebbe complicato loro la vita. Comunque sia, pazienza: leggere è meraviglioso, è forse l’esperienza più emozionante della vita, quella che ti accompagna più a lungo, dall’infanzia alla morte.

Donne_che_leggono1Io sono stata una lettrice compulsiva. A quattro anni leggevo. A otto avevo letto praticamente tutti i libri per bambini esistenti e a tredici la maggior parte dei classici russi e francesi. Ma avrei letto anche Dan Brown, se fosse esistito negli Anni Settanta e l’avessi trovato in casa: leggevo tutto. Dall’etichetta dell’acqua minerale a Donna Letizia su Grazia di mia madre, alla Selezione del Reader’s Digest a cui era abbonata mia sorella. Un libro al giorno, cinque giorni la settimana, perché il sabato e la domenica andavamo in campagna. I libri erano per la casa, che stava dentro la città, che stava dentro la nebbia. C’era una grande nebbia a Ferrara ed era una bella scusa per starsene arrotolati sul divano a leggere. Venti libri al mese. Duecentoquaranta libri all’anno. E quando ero malata, cosa che succedeva spesso perché soffrivo di tonsillite, facevo le «orge», come diceva mia madre: uno, due, anche tre libri in un giorno. Prima dei diciotto anni avrò letto tremila libri. ma così: voracemente. Senza un piano, senza un criterio, senza un controllo, bulimicamente.

Un vizio. Piacevole, come tutti i vizi, ma meno dannoso di altri.

Le donne che leggono sono pericolose perché non si annoiano mai e qualunque cosa accada hanno sempre una via di fuga: se ne infischiano se le fai troppo soffrire perché loro s’innamorano di un altro libro, di un’altra storia, e ti abbandonano.

Oggi non leggo più come a nove anni: non ho più tempo. Quando va bene leggo un libro la settimana e spesso nemmeno: solo in vacanza faccio le «orge» come quando da bambina avevo la tonsillite.

(…)
Le donne che leggono sono pericolose perché nutrono i loro sogni e non c’è nulla di più rivoluzionario di una donna che sogna di cambiare la propria vita: se lo fa, farà la rivoluzione, se non lo fa seminerà il terrore.

(…)

Daria Bignardi

*

*

LE DONNE CHE LEGGONO SONO PERICOLOSE.

Una storia della lettura in immagini dal XIII al XXI secolo

Di Elke Heidenreich , Stefan Bollmann

Rizzoli, pag. 154, euro 29

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domenica, 4 marzo 2007

I DIECI LIBRI PIU’ BELLI DI TUTTI I TEMPI

Esiste una classifica dei dieci libri più belli di tutti i tempi?

Esiste, esiste.

Ed è stata resa nota da poco.

Dovete sapere, infatti, che nei giorni scorsi ben 125 scrittori americani, inglesi e australiani (tra i quali Amis, McEwan, Rushdie, Norman Mailer, Stephen King, Tom Wolfe) hanno stilato la loro personalissima classifica dando così origine a una classifica generale che vi propongo qui di seguito:

*

1.      Anna Karenina di Lev Tolstoj

2.      Madame Bovary di Flaubert

3.      Guerra e pace di Lev Tolstoj

4.      Lolita di Vladimir Nabokov

5.      Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain

6.      Amleto di Shakespeare

7.      Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald

8.      Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust

9.      I racconti di Anton Checov

10.  Middlemarch di George Eliot

*

Lev Tolstoj

*

Da questa classifica si desume che:

a) i classici “sur-classano” i contemporanei. Tra i primi dieci non compare nemmeno un vivente (tra i primi venti figura però il Nobel Gabriel Garcia Marquez con "Cent’anni di solitudine").

b) Tolstoj è lo scrittore degli scrittori. Avete mai sentito parlare della sindrome di Tolstoj? È una specie di blocco dello scrittore, frutto di un severo autogiudizio, che si “innesca” allorquando si ritiene la propria scrittura inadeguata se confrontata con quella dei grandi… Tolstoj in primis.

c)  di italiani manco a parlarne.

d)  sopravvaluto Dostoevskij e Kafka? (Io un posto per uno in top ten l’avrei assicurato)

*

Vi invito a leggere l’articolo di Enrico Franceschini che fa il punto della situazione su Repubblica del 2 marzo 2007.

*

Mi pare giusto proporre un sondaggio anche qui a Letteratitudine.

Siete d’accordo con la suddetta lista?

Chi non è d’accordo è invitato a predisporre (e a comunicare) la propria.

Non necessariamente una lista completa di dieci titoli e nomi. Elencate pure i vostri primi cinque. O i primi tre.

Ma partecipate…

Non fatevi pregare, eh?*

*

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venerdì, 2 marzo 2007

QUANDO UN “DIVERSAMENTE ABILE” È… “SOLO”

La scrittrice Isabella Rinaldi mi chiede di darle una mano a divulgare il racconto di una disdicevole situazione in cui si è venuto a trovare il giallista Sergio Rilletti.

Potete leggere l’intervento completo della Rinaldi collegandovi al suo blog. Io propongo qui di seguito una breve sintesi. Credo si possano trarre spunti per un interessante dibattito. (Massimo Maugeri)

*

*

Sergio Rilletti è uno scrittore, uno scrittore di gialli.

Sergio, però, è un amico diverso.

Un paio di settimane fa, è stato presentato al dinner bar “SUD” di Milano, il numero 2 della nuova serie di M-Rivista del mistero, il trimestrale da libreria fondato nel 2000 da Andrea G. Pinketts e Andrea Carlo Cappi, ora edito da Alacrán Edizioni in formato “pocket”.

Prima di tutto, perché oltre al talento, ha una volontà di ferro. Poi perché è tra quei pochi che mi sono rimasti amici anche quando ho cambiato mestiere. E infine perché Sergio è un “diversamente abile”, cioè ha difficoltà motorie Difficoltà che però non gli impediscono di condurre una vita normale, tranquilla, ricca di soddisfazioni… ma con qualche intoppo.

Durante la serata – in cui hanno partecipato Cappi, Pinketts, Stefano Di Marino, e il cantante-carabettista Zac – è stato presentato il racconto “Solo!”, presente in questo numero, dell’amico Sergio Rilletti

Sergio narra la dura prova che ha dovuto sostenere il 9 aprile scorso, quando, mollato da solo in mezzo al parco di Monza a bordo della sua piccola carrozzina elettrica, è riuscito, dopo oltre un’ora e mezza di alta tensione, a rintracciare gli amici “normodotati” che l’avevano mollato e non erano ancora riusciti a ritrovarlo.

Durante l’incontro al SUD, Cappi ha dichiarato: “Questo racconto mostra, in modo assolutamente realistico, cosa può succedere ad una persona con difficoltà motorie, che non è affatto imbecille, quando è messa in una situazione del tutto imprevista da una massa di imbecilli!… e Sergio lo racconta come solo un grande scrittore può fare: mettendo il lettore nella mente del protagonista, mostrando quello che vede lui, attraverso le difficoltà che ha lui”.

Nel suo breve e brillante intervento, Sergio ha ribadito che desidera assolutamente rintracciare e ringraziare i due ragazzi che, alla fine, incontrati per caso, l’hanno saputo aiutare in maniera encomiabile.

Se qualcuno li conosce, indipendentemente dai nomi usati nel racconto, per favore si faccia vivo.

Isabella Rinaldi

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Letteratitudine: da oltre 15 anni al servizio dei Libri e della Lettura

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"Cetti Curfino" di Massimo Maugeri (La nave di Teseo) ===> La rassegna stampa del romanzo è disponibile cliccando qui

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OMAGGIO A ZYGMUNT BAUMAN

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OMAGGIO A TULLIO DE MAURO

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RATPUS va in scena ratpus

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Ricordiamo VIRNA LISI con un video che è uno "spot" per la lettura

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"TRINACRIA PARK" a Fahrenheit ...

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