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Archivio della Categoria 'LETTERATURA E MUSICA'

lunedì, 13 maggio 2019

L’INQUIETUDINE ALLO SPECCHIO

letteratura-e-musicaIl nuovo appuntamento del forum di Letteratitudine intitolatoLETTERATURA E MUSICA” è dedicato al volume “L’inquietudine allo specchio” di Gioia Pace (Algra editore).

Pessoa, Pirandello, Calvino, Tabucchi, i grandi inquieti del Novecento che hanno testimoniato la fragilità e la leggerezza del vivere attraverso la scrittura e anche come la letteratura non può fare a meno della musica, la stravagante compagna dei nostri giorni. L’inquietudine è fermento, innovazione, coraggio e trova nella musica la sua dimensione ideale. Gaber, Battisti, Dalla, Conte e altri cantautori ci hanno lasciato testi che raccontano cambiamenti emozionanti, impegni sui diritti umani, solitudini che s’incontrano e sapori che vengono da lontano, perché la musica strega l’inquietudine per quel palese e misterioso accordo di note e si rivela una medicina utile al male di vivere. Prefazione di Massimo Arcangeli.

* * *

L’INQUIETUDINE ALLO SPECCHIO di Gioia Pace (Algra editore): la musica e la letteratura di Pessoa, Pirandello, Calvino, Tabucchi – intervista all’autrice

Gioia Pace, laureata in Lettere Moderne all’Università di Catania, ordinaria di Italiano e Latino, è Presidente del Comitato di Siracusa della Società Dante Alighieri. Organizzatrice di seminari, convegni, tavole rotonde, collabora con l’Università degli Stranieri di Siena, creando corsi di formazione per docenti di L2. Si occupa di Letteratura Italiana del ’900 attraverso saggi relativi all’opera di Pirandello, D’annunzio, Quasimodo, Di Falco. Nel 2013 ha pubblicato La ricerca di una logica nel postmoderno. Tabucchi e la categoria della memoria (Morrone), per il quale ha ottenuto il Premio Capit-Roma speciale per la saggistica. Nel 2015 ha pubblicato Tabucchi dopo Tabucchi (Morrone) e nel 2016 Quaderno di Appunti (Morrone).

Per i tipi di Algra ha appena pubblicato il volume L’inquietudine allo specchio

Abbiamo incontrato Gioia Pace per rivolgerle qualche domanda su questo suo ultimo lavoro incentrato sulla letteratura di Pessoa, Pirandello, Calvino, Tabucchi e sulla musica italiana del Novecento.

* * *

- Cara Gioia, partiamo dall’inizio. Da dove nasce l’esigenza di scrivere questo saggio?
L’esigenza di scrivere questo saggio è nata dall’idea di creare musica, infatti il libro è un canto d’amore alla mia generazione che ancora incantata nel ‘68 viveva negli anni settanta la sua formazione negli atenei ben consapevole che alla fine degli studi l’attendeva l’abilitazione o i concorsi a cattedra ma anche un lavoro sicuro. Non saprei dire se la mia generazione ha saputo costruire o ha creato anche lei le basi del degrado culturale, politico, economico esistenziale che viviamo. Però posso dire che avevamo buoni maestri e siamo cresciuti leggendo Sciascia e Bufalino e conoscendo i grandi che hanno determinato il postmoderno: Tabucchi, Eco, Consolo,  Barrico e soprattutto avevamo sogni.
Pertanto l’inquietudine che indago è quella esistenziale frutto dell’incoerenza che viviamo giorno per giorno, una inquietudine che si riflette allo specchio del nostro vivere reso quotidianamente dalla negatività, dalla mancanza di certezze, dalla pesantezza. Leggi i giornali e ti imbruttisci, accendi la tivù e ti viene la malinconia per quello che vedi e ascolti, cammini fra la gente e vorresti essere altrove per la continua mancanza del bello e del buono.
Per questo ho messo in relazione l’inquietudine con la leggerezza di calviniana memoria, togliere peso al vivere che ogni giorno schiaccia il nostro esistere perché il mondo, come scrivo nel libro, ha bisogno di leggerezza come disponibilità, tolleranza, delicatezza, levità  in opposizione di ciò che costituisce aggressività, prepotenza, pesantezza, disagio, impetuosità nel gesto e nel pensiero.
Questo saggio è un canto d’amore alla mia generazione, alla nostra, cresciuta con Dalla e Battisti. Una generazione, che seppur ribelle, credeva in se stessa e negli altri e nel futuro. I giovani di adesso vanno via perché non credono nei legami con gli adulti.

- Soffermiamoci un attimo sul titolo (L’inquietudine allo specchio). Che tipo di “inquietudine” è quella oggetto della tua analisi letteraria? E perché “allo specchio”? (continua…)

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martedì, 26 settembre 2017

UN NUOVO CASO PER L’ALLIGATORE: Blues per cuori fuorilegge e vecchie puttane

letteratura-e-musicaIl nuovo appuntamento del forum di Letteratitudine intitolatoLETTERATURA E MUSICA” è dedicato alla segnalazione del nuovo romanzo della serie dell’Alligatore: “Blues per cuori fuorilegge e vecchie puttanedi Massimo Carlotto (Edizioni E/O). Un romanzo che – come si evince dal titolo – è fortemente legato al blues: musica molto amata da Marco Buratti (alias l’Alligatore) e dallo stesso Massimo Carlotto (che sarà prossimo ospite del programma radiofonico “Letteratitudine in Fm” per discutere di questo nuovo volume della saga).

Pubblichiamo le prime pagine del libro e segnaliamo la playlist Le signore del Blues amate dall’Alligatore (che “sancisce” il legame musicale di questo romanzo con interpretazioni e performance eseguite da, appunto, “signore del blues”) e il tour di Carlotto che parte il 26 settembre.

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Le prime pagine di Blues per cuori fuorilegge e vecchie puttanedi Massimo Carlotto (Edizioni E/O)

UNO

(continua…)

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mercoledì, 31 maggio 2017

SGT. PEPPER’S COMPIE 50 ANNI

Il 1° giugno 1967 usciva il capolavoro dei Beatles destinato a rimanere una pietra miliare nell’ambito della storia della musica

di Massimo Maugeri

Qual è l’album più importante della storia della musica pop/rock? Quello che è stato capace di tracciare una netta linea di demarcazione tra «un prima» e «un dopo» come nessun altro LP è mai più riuscito a fare? Sono domande ricorrenti, tra gli appassionati di musica. La risposta non è difficile. Vi risponderanno:  “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” dei Beatles. Un album che avrebbe venduto più di 32 milioni di copie, travolgendo e scompaginando il concetto stesso di realizzazione artistica nell’industria musicale. Per dare un’idea dell’influenza che questo disco esercitò anche nei decenni che seguirono, basti pensare che nel novembre 2003 la celebre rivista musicale “Rolling Stone” decise di stilare un elenco dei 500 migliori album di tutti i tempi; per farlo, coinvolse una giuria composta da 273 importanti musicisti, critici, storici e persone dell’industria musicale. Inutile precisare che fu proprio “Sgt. Pepper” ad aggiudicarsi la prima posizione tra i 1600 titoli votati in totale.

“Sgt. Pepper”, che – tra le altre cose – segna l’inizio dei cosiddetti concept album, nasce a seguito di un’idea di Paul McCartney. Nel 1966 i Beatles (per tutta una serie di ragioni) avevano deciso di interrompere definitivamente le loro tournée (anche per ragioni di sicurezza). Pare che nell’estate dell’anno prima (1966) McCartney avesse fatto un giro per i paesini della Francia in anonimato, “mascherandosi” dietro una strana pettinatura e un pizzetto posticcio (e divenendo una sorta di alter ego di se stesso). Nacque da qui l’idea di creare una band musicale fittizia che fosse un “alter ego” dei Beatles e consentisse loro di esprimersi e di sperimentare nella più assoluta libertà creativa. Nella sua visione, la band in questione doveva essere composta da un immaginario gruppo di musicisti: una banda di ottoni d’epoca vittoriana chiamata appunto “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, ovvero “la Banda del Club dei Cuori Solitari del Sergente Pepper”.

Consiglio di visionare la pagina web della BBC che ha dedicato questo speciale al cinquantenario dell’uscita del celebre LP.

Di seguito, ripubblico l’introduzione del volume “L’estate di Sgt. Pepper” di George Martin (La Lepre edizioni, p. 252, € 14,90), firmata dallo stesso autore.

Sir George Martin (Londra, 3 gennaio 1926 – 8 marzo 2016) oltre a essere stato musicista di formazione classico/barocca, è stato anche compositore, arrangiatore, produttore discografico, attore, sceneggiatore e scrittore; ma nel mondo è diventato famoso per il contributo determinante che diede alla musica del più celebre quartetto rock di tutti i tempi (soprattutto in termini di arrangiamenti orchestrali) e che gli valse l’appellativo di «quinto Beatle». Stiamo parlando dell’uomo che – come manager della EMI – mise sotto contratto i quattro ragazzi di Liverpool che avevano appena incassato un rifiuto dalla Decca. (continua…)

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martedì, 30 maggio 2017

SATIE: APPUNTI E NOSTALGIE

letteratura-e-musicaIl nuovo appuntamento del forum di Letteratitudine intitolatoLETTERATURA E MUSICAè dedicato al volume Satie: appunti e nostalgieGian Nicola Vessia (Corraini) – Illustrazioni di: Federico Maggioni. Di seguito, il contributo di Claudio Morandini.

* * *

A cura di Claudio Morandini

Gian Nicola Vessia
“Satie: appunti e nostalgie”
Illustrazioni di Federico Maggioni
Corraini, 2015

Elegante e reticente come una delle tante raccolte pianistiche di Erik Satie, il volumetto “Satie: appunti e nostalgie” scritto da Gian Nicola Vessia e illustrato da Federico Maggioni accenna in punta di penna ad alcuni momenti della vita del compositore francese. Ne racconta il garbo e le bizze, le contraddizioni, il dimesso protagonismo. E quando la vita di Satie sembra difettare di spunti, divaga attorno alle avventure assai più irrequiete di amici e colleghi (Ravel, Debussy, Stravinskij, Man Ray), diventando così una wunderkammer di eccentricità, quelle della vita parigina dei primi decenni del Novecento, quando le arti sfidavano le convenzioni e tentavano connubi inediti. Dalle poche, misurate pagine emergono facce diverse del compositore: si fa strada, sommessamente, un Erik Satie maestro – quasi suo malgrado – di una nuova generazione di compositori, un po’ alla maniera di Socrate, proprio lui che da autodidatta della musica aveva sempre sofferto di una sorta di complesso di inadeguatezza e verso i quarant’anni si era iscritto alla Schola Cantorum di Vincent D’Indy per imparare per benino il contrappunto. Ma non c’è solo il Satie adottato come nume tutelare da irrequieti modernisti: scopriamo anche il Satie collezionista di ombrelli che protegge dalla pioggia che potrebbe rovinarli, il Satie omino in nero, di un’eleganza incongrua, l’altrettanto incongruo pianista da bistrot, il dandy stilizzato, il puntuto polemista.
Qualcosa, in lui, ricorda il “Ravel” disegnato da Echenoz in un breve, nitido romanzo tradotto per Adelphi e di cui abbiamo già parlato: corporatura minuta, un distacco dal mondo che tende all’enigma, una casa-rifugio di piccolezza anch’essa indecifrabile, manie coltivate con puntiglio, amici in soccorso nei momenti più bui. Ma in Satie tutto è più modesto, pauperistico, incompiuto, anche tirato via, con minori pretese. Non a caso Ravel lo vediamo giganteggiare, da solo, in uno dei bei disegni di Maggioni: o meglio, a giganteggiare è una rutilante veste da camera, in cui Maurice avanza impettito e fiero a passo di marcia, sigaretta in mano. Un secondo importante collega che in un’altra illustrazione sovrasta il piccolo Erik è Stravinskij: nero, minaccioso, con la partitura del “Sacre du printemps” in mano, mentre sotto di lui il minuto Satie nemmeno trattiene in mano i foglietti su cui sono scritti i suoi titoli eccentrici, che svolazzano tutt’attorno. (continua…)

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venerdì, 3 marzo 2017

IL TEMPO TAGLIATO

letteratura-e-musicaIl nuovo appuntamento del forum di Letteratitudine intitolatoLETTERATURA E MUSICAè dedicato al romanzo “Il tempo tagliato” di Silvia Longo (Longanesi). Di seguito, l’autrice in una conversazione con Claudio Morandini.

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CONVERSAZIONE CON SILVIA LONGO: autrice de “IL TEMPO TAGLIATO” – (Longanesi, 2012)

A cura di Claudio Morandini

Con il romanzo “Il tempo tagliato”, uscito nella collana longanesiana “La gaja scienza” nel 2012, Silvia Longo racconta la storia di una donna, Viola, che di recente ha perduto il marito, celebre direttore d’orchestra dalla personalità insieme forte e fragile, del quale è stata per anni silenziosa vestale; e racconta della sua fuga imprevista, una sera, nel corso di un concerto in onore del coniuge, con un giovane tecnico del suono. Combattuta tra tentazione di abbandono all’avventura e desiderio di autocontrollo, Viola vive quella fuga, solo in parte sentimentale, come un allontanamento da tutto ciò che la tratteneva al ricordo ingombrante del marito, al suo bisogno perenne di ordine e equilibrio.
La musica c’è, a diversi livelli, in questo romanzo di grande finezza: è presente nella vita dei personaggi, che di musica vivono e si circondano, nei loro discorsi, addirittura nel loro modo di percepire il mondo; si intravede anche nella struttura del libro, nel titolo, perfino nella scelta del nome della protagonista. Sono motivi sufficienti per invitare Silvia Longo a una conversazione su un tema che ci sta a cuore, il rapporto tra scrittura e musica, tra parola e suono.

CM – La protagonista del tuo romanzo si chiama Viola. Una scelta che non mi suona casuale: la viola, tra gli archi, è lo strumento che di rado assume un ruolo di primo piano, e il più delle volte rinforza il tessuto armonico, lasciando liberi gli altri strumenti di fare i protagonisti. È uno strumento umile, ma indispensabile, senza il quale le altre parti perderebbero di significato. Anche tu lo hai inteso in questo modo?
SL – Hai centrato in pieno, Claudio. Presto molta attenzione quando si tratta di scegliere i nomi dei miei personaggi, seguendo gli insegnamenti dei Maestri: pensa al Manzoni, per esempio. Ne “I promessi sposi” i nomi dei personaggi rispecchiano il modo di essere e di agire, le qualità morali di ciascuno. Per la protagonista de “Il tempo tagliato” volevo un nome simbolico che ne rappresentasse l’umiltà (la viola è anche un fiore spontaneo che, quasi per pudore, cresce celandosi tra le foglie, alle radici di alberi maestosi), lo spirito di abnegazione per la buona riuscita di una causa, la capacità di adattamento alle necessità altrui. Come fa la viola in una orchestra: quasi mai è strumento solista e si può dire che lavori nell’ombra. Ma a un orecchio attento non sfugge quanto necessario sia il suo apporto.

CM – Sin dal titolo, “Il tempo tagliato”, il tuo romanzo è incentrato sul concetto di tempo, anzi sulle possibili declinazioni del concetto di tempo. Tecnicamente, “tempo tagliato” è la misura in 2/2, segnata con una C appunto tagliata, ma forse questo significato non mi pare determinante nel libro. Vi è invece, in senso più generale, il rapporto complesso con il passato (la vita con il marito direttore d’orchestra), il “taglio”, cioè la frattura determinata dalla morte di lui, il senso di spaesamento nel presente. Poi, sempre più insistente, si fa strada il tempo inteso come elemento centrale del linguaggio musicale: il marito, in quanto direttore, domina il tempo, lo scandisce, lo impone agli altri, ne ha bisogno in quanto gli garantisce controllo sul caos della vita, sulle sue paure più profonde. Il tempo si presenta a questo punto anche come ossessione, concretamente, nell’oggetto della sveglia dal ticchettio molesto. Liberarsi di quella sveglia, per Viola, diventerà un emanciparsi dal ruolo paziente e passivo messole addosso dal marito (e dalla famiglia di lui). (continua…)

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lunedì, 30 gennaio 2017

IL RUMORE DEL TEMPO di Julian Barnes

letteratura-e-musicaIl nuovo appuntamento del forum di Letteratitudine intitolatoLETTERATURA E MUSICAè dedicato al romanzo Il rumore del tempo” di Julian Barnes (Einaudi -  traduzione di Giuliana Basso)

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Julian Barnes – “Il rumore del tempo” – traduzione di Giuliana Basso
Einaudi, 2016

di Claudio Morandini

Il rumore del tempoDmitrij Šostakovič è un vero personaggio da romanzo: troviamo in lui grandezza e umiliazione, doppiezza e nobiltà, arte e compromesso, coraggio e paura. In effetti alcuni momenti della sua vita sono già diventati oggetto di romanzo. Per esempio, l’accattivante ma convenzionale “Sinfonia Leningrado” di Sarah Quigley (lo ha pubblicato Neri Pozza) ripercorre con puntiglio e scorrevolezza la storia di una sinfonia di Šostakovič, la Settima, e dei tentativi di farla eseguire proprio a Leningrado nel corso dell’assedio da parte delle truppe naziste; il vero eroe è il direttore Eliasberg, che in condizioni estreme dirigerà l’opera come imposto da Zdanov. Šostakovič spicca anche tra i personaggi storici che affollano il titanico “Europe Central” di William T. Vollmann (Mondadori Strade Blu), che ne fa un ritratto affascinante nell’impossibile sintesi tra ambiguità morale e grandezza della musica. Un quadro illuminante dell’uomo e del compositore, e della cupezza dei tempi in cui si trovò a vivere, si trova nel settimo capitolo (“L’arte della paura”) de “Il resto è rumore” di Alex Ross (Bompiani, 2009), lo splendido saggio sulla musica del Novecento che mostra come durante lo stalinismo ciò che ha subito Šostakovič fosse comune, e come a molti sia andata anche molto peggio, e delinea in Prokof’ev, nel suo stare in equilibrio nel turbinare del mondo attorno a lui, un’alternativa all’atteggiamento assunto da Šostakovič. (continua…)

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mercoledì, 30 novembre 2016

RAVEL di Jean Echenoz

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Il nuovo appuntamento del forum di Letteratitudine intitolatoLETTERATURA E MUSICAè dedicato al romanzo “Ravel” di Jean Echenoz (Adelphi – Traduzione di Giorgio Pinotti)

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“Ravel” di Jean Echenoz

(Adelphi, 2007 - Traduzione di Giorgio Pinotti)

recensione di Claudio Morandini

Jean Echenoz è riuscito, con il breve romanzo “Ravel”, a creare un’ingegnosa opera à la Ravel: nel senso che con precisione da compositore-orologiaio, con distacco, nonchalance, una facilità ingannevole, un calibrato rispetto di tempi e forme, ha costruito un libro in cui sembra davvero di ascoltare, convertite in parole, le musiche del compositore francese. La fine traduzione di Giorgio Pinotti per Adelphi preserva l’eleganza mai fatua e spesso tendente all’eccentrico dello stile raveliano di Echenoz.
Ravel ci è restituito innanzitutto attraverso gli oggetti, i vestiti, i feticci di cui si circonda nella angusta e impossibile casetta di Montfort e con cui riempie le numerose valigie e bauli che lo accompagnano in tournée o in villeggiatura. L’omino Maurice, sotto quell’armatura di originale eleganza che lo protegge dalle insidie del mondo, è sempre inappuntabile, anche quando è in ritardo (cioè, sempre), e lo sarà anche negli anni del declino, quando perderà memoria e facoltà fisiche e intellettive e si aggirerà per concerti e vernissage scortato dagli amici più fidati che terranno lontani i cacciatori di autografi (ignari che il celebre compositore non sa nemmeno più scrivere il suo nome). È un mondo protettivo, di ninnoli, abitudini consolidate, sofisticati automatismi, squisitezze varie, una boîte à musique in cui anche il tormento dell’insonnia è sopportabile, anche le smemoratezze sembrano accettabili. Pare di sentir risuonare, in questo mondo ovattato e un po’ fuori dal tempo, le armonie raffinate e fintamente algide del “Tombeau de Couperin”, le fantasticherie rassicuranti e inquiete di “Ma mère l’Oye”.
A proposito: il sospetto di fatuità, di jeu un po’ fine a se stesso, di meccanismo alla fine disumano, che può cogliere il lettore alle prime pagine (o l’ascoltatore alle prime battute) svanisce ben presto: il romanzo di Echenoz, seguendo i movimenti di Ravel, da commedia brillante (la tournée negli Stati Uniti, la spossatezza caricaturale che coglie il compositore dinanzi a spostamenti in carrozze di lusso, gli entusiasmi iperbolici del pubblico di amateurs) si tramuta progressivamente in descrizione degli ultimi anni di vita, quelli della malattia, rimasta misteriosa, e dei vani tentativi di cura. Diventa, cioè, un vero e proprio tombeau, in cui l’imperturbabile, clinica precisione risulta paradossalmente toccante (e sfido chiunque a leggere l’ultima parte senza magone). (continua…)

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venerdì, 18 novembre 2016

LA GENTILEZZA di Polly Samson (tra la narrativa e i testi delle canzoni dei Pink Floyd)

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Il nuovo appuntamento del forum di Letteratitudine intitolatoLETTERATURA E MUSICAè dedicato al romanzo “La gentilezza” della scrittrice e paroliera inglese Polly Samson (Unorosso), la quale – oltre a essere romanziera – ha scritto i testi di alcune canzoni dei Pink Floyd e di David Gilmour come solista. In questo post presentiamo il romanzo e ci concentriamo sul sodalizio artistico che lega Polly al marito David Gilmour per quanto concerne la scrittura dei brani musicali.

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Immagine correlataLa Gentilezza, il romanzo della scrittrice e paroliera inglese Polly Samson

Unorosso, luglio 2016

Polly Samson, scrittrice e paroliera inglese, arriva in Italia con un romanzo lirico e toccante, in cui estetica narrativa e musicalità letteraria trovano ampio spazio, ammaliando il lettore e trascinandolo in un mondo altro, fatto di natura e nobili (o no?) sentimenti.
“La Gentilezza”, edito a luglio dalla casa editrice Unorosso, è il primo romanzo di Polly Samson a essere stato pubblicato in Italia.
Polly Samson e David GilmourPer chi non la conoscesse, la scrittrice è la moglie di David Gilmour, voce e chitarra della storica band dei Pink Floyd; ma Polly è anche colei che riempie di parole le suggestioni musicali di Gilmour, da quando il musicista ha dato inizio alla sua carriera solista. La sua firma si trova anche su alcune tracce di “The Division Bell”, il quattordicesimo album della band britannica, e sul capolavoro “Louder than words” dall’ultimo album floydiano “The Endless River”.
Come hanno rivelato in numerose interviste, il sodalizio artistico tra moglie e marito segue sempre lo stesso schema d’azione: David Gilmour registra una quarantina di tracce musicali su un iPod che dà alla moglie. Polly le ascolta con attenzione, finché non ne trova una che la colpisce più delle altre. Su quella, Gilmour registra una traccia vocale che, con finte parole, dia alla moglie l’idea di come e dove organizzare il testo. Riascoltandola, Polly si dedica alla scrittura definitiva.
Il forte legame tra musica e letteratura è testimoniato dalle profonde interconnessioni che esistono tra il romanzo “La Gentilezza” e l’ultimo album di David Gilmur, “Rattle that Lock”. (continua…)

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sabato, 12 novembre 2016

OMAGGIO A LEONARD COHEN

Risultati immagini per LEONARD COHEN il sole 24 ore

Leonard Cohen (Montréal, 21 settembre 1934 – Los Angeles, 7 novembre 2016) ci lascia all’età di 82 anni.

Prima ancora di essere un cantautore, Leonard Cohen è stato un poeta. I testi di alcuni suoi brani musicali sono stati poesie, prima di essere canzoni.
Ricordiamo Cohen qui a Letteratitudine, pubblicando un video/documentario sulla sua vita…

In coda al post segnaliamo alcuni approfondimenti.


(continua…)

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venerdì, 21 ottobre 2016

LETTERA A DINA di Grazia Verasani

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Il nuovo appuntamento del forum di Letteratitudine intitolatoLETTERATURA E MUSICAè dedicato al nuovo libro di Grazia Verasani, intitolato “Lettera a Dina” e pubblicato da Giunti.

La puntata radiofonica di “Letteratitudine in Fm” con Grazia Verasani dedicata al suo precedente romanzo “Mare d’inverno” (Giunti) è disponibile per l’ascolto qui.

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Lettera a Dinadi Grazia Verasani (Giunti, 2016)

recensione di Claudio Morandini

Nel nuovo romanzo di Grazia Verasani, “Lettera a Dina”, uscito quest’anno per Giunti come il precedente “Mare d’inverno”, due personaggi femminili si incontrano, misurano le proprie incompatibilità eppure si attraggono e si stringono in un’amicizia appassionata nella politicizzata Bologna degli anni Settanta, tra scuole medie e liceo; si abbandoneranno, a un certo punto, per seguire strade inconciliabili, ma finiranno per ritrovarsi uniti nella memoria: uno è l’io narrante, una ragazza curiosa, buona, inquieta il giusto, “comunista” da sempre ma incuriosita dal mondo della borghesia benestante, stabile pur nei cambiamenti dovuti alla crescita e alle dinamiche dell’esistenza; l’altro personaggio è appunto Dina, “fascista” più per sfizio e gusto della provocazione che per sentita vocazione ideologica, piuttosto spinta da una disperata voracità consumistica, affascinante proprio perché diversa e inafferrabile, in continua metamorfosi tra fasi di rapinosa bellezza e altre di abbrutimento.
La prima possiede la solidità necessaria per superare le crisi, per opporsi a derive autodistruttive, e rimane sincera con se stessa e gli altri; la seconda, invece, tra sbandate bulimiche e comportamenti compulsivi, finirà per perdersi nell’alcool e nelle droghe pesanti, in un crescendo di bugie e depistaggi sempre più goffi. La morte di Dina, la sua scomparsa rappresentano l’oggetto di quella ricerca che dicevamo, che però è un affaire personale, un fare i conti con un momento opaco del proprio passato più che con un mistero da risolvere.
Due figure così opposte eppure complementari – se vogliamo leggerli come fossero elementi musicali – potrebbero ricordare le dinamiche che si creano tra il tema A e il tema B di una forma sonata: diversi per natura, eppure destinati a legarsi in uno sviluppo che li concili. (continua…)

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giovedì, 29 settembre 2016

NOTTURNI di Kazuo Ishiguro

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Il nuovo appuntamento del forum di Letteratitudine intitolatoLETTERATURA E MUSICAè dedicato ai racconti “Notturni. Cinque storie di musica e crepuscolo” di Kazuo Ishiguro (volume pubblicato da Einaudi e tradotto da Susanna Basso).

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Notturni“Notturni. Cinque storie di musica e crepuscolo” di Kazuo Ishiguro (traduzione di Susanna Basso – Einaudi, 2009)

recensione di Claudio Morandini

Sceglie la via della commedia agrodolce, Kazuo Ishiguro, nei racconti di ispirazione musicale che Einaudi ha pubblicato nel 2009 nella limpida, spigliata traduzione di Susanna Basso con il titolo “Notturni. Cinque storie di musica e crepuscolo”.
L’effetto complessivo, piuttosto lontano dalle atmosfere sottilmente, inquietantemente mélo di romanzi come “Quel che resta del giorno” o “Non lasciarmi”, è quello di un mondo di passioni, illusioni (composte) e conseguenti delusioni (mai davvero dolorose), che può ricordare, quanto a ritmo e situazioni, certe canzoni dei bei tempi andati tra il sentimentale e l’ironico, diciamo tra Noël Coward e Cole Porter: brio up-tempo, svenevolezze virgolettate, arguzie british e sottintesi tenuti sotto controllo. Nei dialoghi, nella predilezione per musiche dell’età dell’oro della canzone e del jazz, sembra a volte di trovarsi dalle parti del Woody Allen migliore, quello in cui l’umorismo (anche la comicità più disarmata) non esclude scivolate verso il dramma (che però qui, in Ishiguro, è sempre solo accennato, o per meglio dire eluso).
Lo humour perfettamente british di Ishiguro predilige toni meno farseschi (con l’eccezione del racconto intitolato “Come Rain Or Come Shine”, vera e propria comica slapstick al rallentatore), conversazioni più composte, in cui il non detto finisce per essere più importante delle parole, paradossi meno compiaciuti. Non è cinema, in effetti, è piuttosto teatro, anche nel taglio delle scene, e poco importa che alcuni racconti siano ambientati in luoghi esterni come i rii e le piazze di Venezia o le campagne inglesi. (continua…)

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lunedì, 25 luglio 2016

I GIORNI DEL VINO E DELLE ROSE

letteratura-e-musica

Nell’ambito del forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA“, e in collegamento con la rubrica Graphic Novel e Fumetti“, ci occupiamo della graphic novel “I giorni del vino e delle rose“, di Diego Bertelli e Silvia Rocchi. Musiche di Gianni Niccolai (Valigie Rosse, 2016)

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Recensione di Claudio Morandini

FotoI giorni del vino e delle rose”, graphic novel appena pubblicata da Valigierosse, si presenta come un lieve un gioco di specchi che moltiplicano rimandi e suggestioni musicali, letterarie e visive. A dare il titolo al libro c’è un album dei Dream Syndicate del 1982 che si rifà a un film drammatico di Blake Edwards del 1962 con Jack Lemmon e Lee Remick (e le musiche di Henry Mancini, la cui canzone dal medesimo titolo si è meritata quell’anno l’Oscar ed è diventata uno standard jazz) il quale film si ispira a versi del poeta inglese Ernest Dowson (1867-1900), in particolare al celebre «They are not long, the days of wine and roses», a sua volta intriso di reminiscenze oraziane…

Ecco, il bel libro illustrato da Silvia Rocchi, scritto da Diego Bertelli e curato da Silvia Bellucci insegue questi legami, riallaccia questi rapporti: dapprima flirta con la memoria personale dei creatori, con la rievocazione delle sensazioni che l’album dei Dream Syndicate ha suscitato, gioca con la memoria, con le sottigliezze dell’amore; poi insegue la scoperta dell’importanza della musa malinconica di Dowson, e ascolta quest’ultimo discettare con amici nel suo salotto, lo osserva mentre dorme, pensa, beve, si tormenta, si consuma. Fedele al sottinteso sinestesico del titolo, mescola, senza forzare la mano, visione e tatto, olfatto e udito. Esplora i temi della memoria che riaffiora proprio quando la si credeva perduta, dello svanire del tutto, del precario conforto degli affetti, della bellezza, dell’amore sulla morte. (continua…)

Pubblicato in GRAPHIC NOVEL E FUMETTI, LETTERATURA E MUSICA   Commenti disabilitati

giovedì, 14 luglio 2016

STRAWINSKI di Alfredo Casella

letteratura-e-musicaNell’ambito del forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA“, ci occupiamo del volume “Strawinski”, di Alfredo Casella (Castelvecchi).

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Recensione di Claudio Morandini

coperitna di StrawinskiStiamo assistendo a una sorta di renaissance di Casella: prima riscoperto come compositore, attraverso registrazioni di opere anche poco note e l’inserimento in cartellone (l’ultimo caso è “La donna serpente” riproposta dal Teatro Regio di Torino nella stagione 2015-16); poi, più recentemente, come infaticabile animatore culturale e scrittore di carattere. Abbiamo parlato qualche settimana fa della sua autobiografia “I segreti della giara” riproposta da Il Saggiatore; oggi ci dedicheremo a una ristampa altrettanto recente, lo “Strawinski” (sic) a cura di Benedetta Saglietti e Giangiorgio Satragni, con prefazione di Quirino Principe.
Che tra Igor Stravinskij e Casella fosse nata un’amicizia, sia pure non nutrita dalla frequentazione, è chiaro a chiunque legga “I segreti”; basterebbe ripercorrere il calendario delle esecuzioni con cui Casella ha ostinatamente e amorevolmente fatto conoscere al pubblico italiano sin dagli anni venti le opere del compositore russo (in particolare, ma non solo, il “Sacre” e “Les noces”, di ardua direzione per quei tempi) per rendersi conto della forte sintonia che l’italiano sentiva per le opere e il percorso stilistico e anche umano del compositore russo. Questa sintonia viene enfatizzata, anche a rischio di qualche forzatura, nel saggio su Stravinskij: questi è presentato come campione più autorevole di una modernità che parte dalle scuole nazionali, anzi in un certo modo le influenza, ma sa svincolarsene presto, e si emancipa da ogni debito nei confronti del passato ripercorrendolo liberamente alla ricerca di puri valori musicali; soprattutto, lo “Strawinski” secondo Casella è colui che sa coniugare la ricerca senza abbandonare la tonalità (a differenza di Schönberg, che da Casella è sempre stato studiato con grande interesse ma mai amato). (continua…)

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martedì, 7 giugno 2016

I SEGRETI DELLA GIARA

letteratura-e-musicaNell’ambito del forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA“, ci occupiamo del volume “I segreti della giara”, di Alfredo Casella (il Saggiatore).

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Recensione di Claudio Morandini

I segreti della GiaraSi legge assai volentieri “I segreti della giara”, l’autobiografia che Alfredo Casella ha terminato nel 1938 e che opportunamente il Saggiatore ripubblica quest’anno a cura di Cesare De Marchi e con illuminante postfazione di Giovanni Gavazzeni (“Il nostro debito con Alfredo Casella”). Casella, compositore di temperamento, dalla vocazione europeista e modernista, ha in letteratura il gusto delle descrizioni vivide di ambienti e personalità. Certo, il testo soffre qua e là delle intenzioni auto-apologetiche: con quest’opera Casella doveva difendersi dall’ostilità dei rivali, dalle cortigianerie degli invidiosi, e mettere al riparo se stesso e la seconda moglie ebrea dai pericoli di una denuncia – l’anno della stesura è lo stesso delle famigerate leggi razziali – ed è per questo che si sente spinto a sottolineare la propria italianità, l’ispirato cattolicesimo di famiglia, la granitica fedeltà al fascismo – in questo non era insincero –, a esaltare le virtù dell’”Italia Littoria” concedendosi financo qualche antipatica stoccata che oggi ci suona razzista (la “qualità inferiore” dei “metèques” che ingolfano la Parigi del dopoguerra, la “congrega” di “elementi israeliti medieuropei” che influenzano in senso “anti-latino” le scelte delle associazioni internazionali della musica contemporanea). (continua…)

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lunedì, 25 aprile 2016

PERCHÉ PRINCE?

La nuova puntata del forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA” la dedichiamo a PRINCE, scomparso il 21 aprile scorso.

Prince Rogers Nelson

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Perché Prince?

di Claudio Morandini

Nel parlare di Prince nei giorni successivi alla notizia della sua morte sarò costretto a essere – in qualche misura – autobiografico. Me ne scuso sin d’ora. In compenso, in questo intervento mi limiterò a parlare della musica di Prince, non del personaggio e nemmeno dei testi, e questo forse mi aiuterà a non suonare celebrativo o, peggio, agiografico.
A differenza degli snob e dei fan improvvisati che si fermano a “Purple Rain” e al massimo citano “Kiss”, posso dire di avere tutti i suoi dischi – tutti, compresi quelli mai usciti ufficialmente. Possiedo tutti i singoli, con quei meravigliosi lati B. I remix dei singoli in tutte le versioni possibili, tranne forse qualche edizione giapponese. I remix dei remix. Non ho mai assistito a un suo concerto dal vivo, ma ho raccolto bootleg su bootleg (in vinile, in cassetta, in CD) per tutti gli anni novanta e anche oltre: registrazioni delle esibizioni in teatro e negli stadi, anche di qualità inascoltabile; outtakes e prove in studio, carpite chissà come. Gli aftershow nei club. Ho collezionato le canzoni scritte per altri. I remix delle canzoni scritte per altri. Gli album prodotti per altri, compresi quelli mai pubblicati. Ho pure le canzoni attribuitegli, forse sue forse no – non si sa mai. Molti album di collaboratori, di amici, delle ex, di chi ha avuto a che fare con lui per un certo periodo della sua vita – hai visto mai che si nasconda qualche frammento della sua grandezza, in mezzo a tanti volonterosi compitini. Prince andava inseguito sempre, ovunque, anche quand’era distratto o stanco. Era Prince, che diamine. (continua…)

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mercoledì, 23 marzo 2016

IL NIPOTE DI BEETHOVEN

letteratura-e-musicaNell’ambito del forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA“, ci occupiamo del romanzo “Il nipote di Beethoven” di Luigi Magnani (Endemunde, 2015)

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Recensione di Claudio Morandini

Dobbiamo alla casa editrice Endemunde l’opportuna ristampa de “Il nipote di Beethoven”, romanzo di Luigi Magnani che nel 1972 ha conquistato il premio Strega. Magnani travasa nella forma del romanzo la sua fine competenza di studioso di musica colta e in particolare di Beethoven, ma sceglie di raccontare gli anni difficili e avvelenati del rapporto tra Ludwig e il nipote Karl attraverso la voce di quest’ultimo. E dunque di musica, nel senso più stretto del termine, ce n’è poca, in questo denso romanzo, perché Karl sembra indifferente ad essa, e quando coglie l’illustre zio alle prese con i dilemmi della composizione pare non capire, come se si trovasse dinanzi alle elucubrazioni di un pazzo o almeno di un eccentrico.
Beethoven ci è mostrato mentre martella come un fabbro sul pianoforte, con una violenza che può ricordare lo Stravinskij alle prese con le armonie del “Sacre du printemps”; o mentre, assorto, elucubra e canticchia ostinatamente un motivo scarabocchiato su un foglio, da cui cerca di estrarre una forma, uno sviluppo, e intanto batte il ritmo con i piedi, incurante del resto. È un ritratto assai poco indulgente del musicista, che combatte contro la sordità sempre più grave e cocciutamente rincorre un’idea di musica dietro la quale nessuno sembra volerlo seguire, fatta di cellule materiche, di ritmi tellurici che miracolosamente conducono alle vertigini del sublime. Analogamente, le sue passeggiate nella campagna lontano da Vienna seguono percorsi imprevisti, a un passo forsennato, con un’impazienza ferina – qui, come un Robert Walser rimuginante, si perde per ore, concentrato dietro a pensieri che nessuno potrà conoscere (certo non Karl, oscillante tra una pietà di maniera e un desiderio di emancipazione molto adolescenziale). (continua…)

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mercoledì, 9 marzo 2016

ADDIO A GEORGE MARTIN

CI LASCIA GEORGE MARTIN: l’uomo che ebbe un ruolo fondamentale nella musica dei Beatles

Addio a Sir George Henry Martin (Londra, 3 gennaio 1926 – 8 marzo 2016), produttore discografico e compositore britannico.

di Massimo Maugeri

È morto ieri, 8 marzo 2016, sir George Martin: una delle personalità più poliedriche del mondo artistico contemporaneo. Oltre a essere musicista di formazione classico/barocca, è stato anche compositore, arrangiatore, produttore discografico, attore, sceneggiatore e scrittore; ma nel mondo è famoso per il contributo determinante che diede alla musica del più celebre quartetto rock di tutti i tempi (soprattutto in termini di arrangiamenti orchestrali) e che gli valse l’appellativo di «quinto Beatle». Stiamo parlando dell’uomo che – come manager della EMI – mise sotto contratto i quattro ragazzi di Liverpool che avevano appena incassato un rifiuto dalla Decca.

A darne la notizia della scomparsa è stato proprio Ringo Starr su Twitter: “Dio benedica George“, ha scritto. “Che riposi in pace, con amore a Judy e alla sua famiglia, Ringo e Barbara“. Anche Paul McCartney ha ricordato George Martin in un Tweet, definendolo come un secondo padre. “Il mondo ha perso un uomo davvero grande“, ha scritto Paul.

Durante l’estate del 1967 George Martin partecipò attivamente alla realizzazione di “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band“: da molti considerato come l’album più importante della storia della musica pop/rock; quello che è stato capace di tracciare una netta linea di demarcazione tra «un prima» e «un dopo» come nessun altro LP è mai più riuscito a fare. George Martin ha anche scritto un libro per raccontare l’esperienza di quell’estate: “L’estate di Sgt. Pepper” (La Lepre edizioni, p. 252, € 14,90). Per capire di cosa stiamo parlando è sufficiente riportare il sottotitolo: “Come i Beatles e George Martin crearono «Sgt. Pepper’s lonely hearts club band»”.
Nel libro (arricchito da una bella prefazione di Stefano Bollani e ben tradotto da Paolo Somigli, direttore del mensile “Chitarre”) George Martin racconta la storia dei Beatles concentrandosi soprattutto in quella estate (siamo, appunto, nel 1967) che diede la luce a “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”: un album che avrebbe venduto più di 32 milioni di copie, travolgendo e scompaginando il concetto stesso di realizzazione artistica nell’industria musicale. Per dare un’idea dell’influenza che questo disco esercitò anche nei decenni che seguirono, basti pensare che nel novembre 2003 la celebre rivista musicale “Rolling Stone” decise di stilare un elenco dei 500 migliori album di tutti i tempi; per farlo, coinvolse una giuria composta da 273 importanti musicisti, critici, storici e persone dell’industria musicale. Inutile precisare che fu proprio “Sgt. Pepper” ad aggiudicarsi la prima posizione tra i 1600 titoli votati in totale.

«Fu allora, in quel 1967», scrive George Martin, «che i Beatles capirono di avere realmente la possibilità di fare tutto quello che volevano. Lavoravano intensamente sulle loro canzoni, sperimentando cose che non si erano ancora mai sentite, spingendosi sempre oltre il limite. (…) E così, questo è il racconto di un anno straordinario della nostra storia, un anno diverso da tutti gli altri che l’hanno seguito o preceduto. Ma, cosa probabilmente ancora più importante, è anche la storia della realizzazione di un album unico, quello che ha rivoluzionato il modo con cui, da allora, sarebbe stato concepito ogni altro disco».

Per ricordare George Martin segnalo questo articolo pubblicato su Rolling Stone , quest’altro su Repubblica… e propongo qui di seguito (in questo spazio di Letteratitudine dedicato al rapporto tra “Letteratura e musica“) l’introduzione del volume poc’anzi citato firmata dallo stesso Martin. (continua…)

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mercoledì, 17 febbraio 2016

Lascia stare il la maggiore che lo ha già usato Beethoven

letteratura-e-musicaNell’ambito del forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA“, ci occupiamo del romanzo “Lascia stare il la maggiore che lo ha già usato Beethoven” di Alessandro Sesto (Gorilla Sapiens, 2015).

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Recensione di Claudio Morandini

Nell’allegro (ma non troppo) romanzo di Alessandro Sesto c’è molta musica, anzi forse c’è proprio tutta la musica, nonostante i brevi e gustosi capitoletti si soffermino per lo più sul tran tran di una scalcinata band di giovani rocker che battono balere e pub della provincia veronese e dei dintorni. Certo, domina il rock, con tutto ciò che il rock si porta dietro – l’immediatezza insofferente, la paziente routine delle prove, l’enfasi eroica, il tributo al linguaggio codificato dai grandi antecedenti, l’ambizione di rappresentare il mondo e insieme l’incomprensione del mondo, fino al sapore eroico dell’umiliazione e al senso di sconfitta. Ma, oltre al rock, nelle lunghe e scombiccherate conversazioni riportate come se fossero state trascritte parola per parola (il titolo da lì viene, da una di quelle sbrodolate sedute di autocoscienza), il linguaggio semplice del rock viene annodato a riflessioni filosofiche, in cui si scomodano umoristicamente auctoritates superciliose come Adorno, Cioran (citato già alla prima riga, giusto per essere chiari), Nietzsche, Kant e quant’altri. Il loro pensiero sulla musica sta lì (che so, ad apertura di pagina: «Nella musica, ciò che non è straziante è inutile», «La musica è il rimpianto del paradiso»), nei retropensieri dei cinque rocker disillusi ma ostinati, e un po’ consola un po’ amareggia, perché l’idea alta di musica che promana dai loro ragionamenti è inattingibile, soprattutto in un contesto di profonda provincia  in cui la musica è ridotta a contorno, anzi a sfondo, a distrazione purchessia. Dal confronto umiliante e frustrante tra quei modelli alti, che siano filosofi, compositori classici o anche jazzisti o rockstar d’altri tempi, nasce quel particolare senso dell’umorismo che permea tutto il libro, che costringe al riso e contemporaneamente immalinconisce. Al tempo stesso, la contaminazione tra Nietzsche e La Bamba, tra il virtuosismo necessario a eseguire Scarlatti e le goffe tirate del tastierista sul suo strumento, tra le vicende assurde dell’opera lirica che appassiona la nonna e altre vicende ancora più assurde su cui a un certo punto si imbastisce un improbabile musical quasi subito abbandonato, tra l’alto e il basso insomma, finisce per abbassare quell’alto, per tirarlo giù dal piedistallo in un’operazione di degradazione divertente e anche catartica per chi ha penato su quei filosofi o si è sentito schiacciato da sindromi di Stendhal all’ascolto di quei grandi e sente, nei loro riguardi, un misto di amore e di odio frustrato. (continua…)

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venerdì, 18 dicembre 2015

MEMORIALI SUL CASO SCHUMANN di Filippo Tuena

Memoriali sul caso SchumannNell’ambito del forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA“, ci occupiamo del nuovo romanzo di Filippo Tuena intitolato Memoriali sul caso Schumann” (Il Saggiatore, 2015).

Nei prossimi giorni, su LetteratitudineNews, pubblicheremo un estratto del libro…

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Recensione di Claudio Morandini

Tuena è oggi, per me, uno dei migliori costruttori di storie; è artefice – ambizioso, com’è giusto in letteratura – di romanzi che ora si stendono come partiture, ora come mappe, o diari di bordo, o alberi genealogici, a seconda del tema, dell’ambientazione, delle passioni che vi si agitano. La struttura, nel suo caso, è importante quanto il soggetto – anzi, “è” il soggetto, ne è l’estensione, la proiezione. Il suo ultimo romanzo, “Memoriali sul caso Schumann”, conferma questo assunto: attorno alla figura complessa dell’ultimo Robert Schumann, afflitto da deliri e demenza, Tuena raccoglie (cioè in parte trascrive, in parte immagina) con meticolosità le testimonianze di coloro che lo hanno conosciuto, che ne hanno condiviso sofferenza e passioni, e che ne sono stati toccati fino al logoramento. Sotterranea, intanto, scorre una sensibilità musicale, che compone le parti del romanzo come sezioni di una vasta opera – cameristica, più che sinfonica, direi, visto l’esiguo numero di personaggi in gioco – in cui a prevalere, ancora una volta, come nella saga familiare delle “Variazioni Reinach” (di recente riviste per la nuova edizione Beat), è la forma della variazione. Il romanzo diventa polifonia di voci attorno allo stesso tema (la follia di Schumann): che ognuno dei personaggi declina a suo modo, attraverso punti di vista differenti, differenti distanze e livelli di comprensione, girando attorno al tema secondo dinamiche e giochi timbrici propri. A tutto ciò si inframmezza – in un modo che mi ha ricordato le abissali “lamentazioni oltremondane” in “Rosso Floyd” di Michele Mari, dedicato non a caso anch’esso a un caso di alienazione musicale, quello di Syd Barrett – una voce estranea, sgrammaticata, petulante, angosciosa, demoniaca, che all’inizio sembra una delle voci “sentite” da Schumann, ma diventa ben presto, tragicamente, la sua voce.
La variazione non è solo il mezzo attraverso cui si sviluppa e si articola l’indagine di Tuena: è anche una declinazione, insinuante e pervasiva, una sorta di rielaborazione a specchio dello stesso tema, cioè la follia ossessiva: non a caso, risuona in tutto il romanzo l’opera misteriosa e postuma di Schumann, quelle Geistervariationen, o Variazioni del Fantasma il cui tema, di struggente semplicità, sarebbe stato suggerito in sogno dallo spettro di Schubert.
Ecco, gli spettri: come è già stato notato, questa è una ghost story alla vecchia maniera, cioè secondo ritmi e dinamiche ottocentesche, che puntano sull’attesa e sull’economia di effetti, e dilatano atmosfere. In questo gioco di ombre, lo stesso Schumann è rievocato – come un fantasma – da distanze irraggiungibili, sia per lo stato che lo aliena dalla realtà chiudendolo in un mondo di allucinazioni e ossessioni, sia per l’impossibilità oggettiva di raggiungerlo nella clinica in cui è subito ricoverato dopo un tentativo di suicidio.
I fantasmi agitano le visioni di Schumann: ma per Schumann sono presenze reali, vivide, con loro ha un dialogo anche fecondo. Per curioso ribaltamento, sono gli esseri reali, gli amici che si preoccupano per lui e lo seguono da lontano, che Robert prende – forse – per apparizioni. È la prassi, nella clinica in cui è ricoverato: solo nascondendosi, e spiando non visti, i visitatori possono intercettare in un paziente segni di uno sperato miglioramento o di un temuto declino. Il vedere da lontano non visti è per lo più insoddisfacente e ingannevole, ma talvolta l’incertezza coglie frammenti di verità. «Quel suo modo di essere frammentario, nella parola, nella musica, nel fumare. Chissà se anche i suoi pensieri si disperdono nel vuoto.» Così, parafrasando Brahms, scrive Elise Junge sul suo diario. Ma le apparizioni contagiano un po’ tutti, nel romanzo di Tuena, al punto che ogni personaggio che sia stato vicino a Schumann prima o poi scorge un’ombra, sente parlare un fanciullo con la voce di un vecchio, vede animarsi angoli bui di una stanza.
Anche i temi musicali appaiono come spettri, nelle testimonianze circa la fine delle Variazioni del Fantasma: riemergono dopo anni di oblio, se ne scovano le tracce là dove non ci si aspetterebbe, anche in composizioni altrui, tornano a scomparire… (continua…)

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lunedì, 16 novembre 2015

SENZA MUSICA

Nell’ambito del forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA“, ci occupiamo del volume “Senza musica”, di Bruno Canino (Passigli, 2015).


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Bruno Canino – “Senza musica” (Passigli, 2015)

Recensione di Claudio Morandini

La lettura del libro di Bruno Canino, dal titolo paradossale “Senza musica” (Passigli, 2015), mi ha fatto ragionare su quello che potremmo definire umorismo da musicisti, anzi proprio da pianisti: è un umorismo fatto di osservazione scrupolosa di tic di colleghi strumentisti, coltiva idiosincrasie e le perfeziona nel corso degli anni come fossero una sorta di repertorio parallelo a quello concertistico. Lo si può ritrovare anche nelle note di Alfred Brendel (“Abbecedario di un pianista”, Adelphi, 2014), così come nel precedente libro di Canino, “Vademecum del pianista da camera”, in fase di ristampa, di cui quest’ultimo si presenta con modestia come una sorta di appendice, di aggiornamento. È un umorismo che predilige la catalogazione alfabetica, non rinuncia a un intento didattico o pedagogico, o almeno morale, e sembra fare della musica (e della musica pianistica in particolare) un paradigma della condizione umana: ma lo fa senza darlo a vedere, senza calcare la mano, e probabilmente negherebbe di farlo, se glielo si chiedesse. (continua…)

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lunedì, 5 ottobre 2015

ALBERTO SPADOLINI

In collegamento con il forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA“, ci occupiamo del volume “Alberto Spadolinidi Ignazio Gori (Castelvecchi, 2015), con un’intervista all’autore a cura di Claudio Morandini.

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“Alberto Spadolini” di Ignazio Gori – Castelvecchi, 2015

Conversazione con l’autore a cura di Claudio Morandini

Chi era Alberto Spadolini e perché ci siamo dimenticati di lui? Ignazio Gori, nel ritratto del “Danzatore, pittore, agente segreto” Alberto Spadolini (Castelvecchi, 2015), risponde a queste domande scegliendo la via del resoconto amabile e scrupoloso – in cui però, sottilmente, la reinvenzione letteraria ha una parte preponderante.
Sin da adolescente Alberto Spadolini (nato nel 1907) ha ammaliato pittori, scultori, artisti, ai quali è apparso come un’epitome di bellezza maschile; il suo mondo, tra l’Italia e la Francia con diramazioni negli Stati Uniti e altrove, era frequentato da nomi come Bragaglia, D’Annunzio, de Chirico, Bontempelli, Cocteau, Joséphine Baker, Picasso, Marlene Dietrich, Maurice Chevalier e molti altri. Nessuno di loro si è mostrato indifferente al fascino (artistico e umano) di questo personaggio: eppure, nonostante la vastità dei suoi interessi e l’impressione che suscitò ai suoi tempi, Spadolini è stato rimosso dalla memoria collettiva e ridotto a culto di una ridotta nicchia.
Gori evidenzia bene il vorace amore di Spadolini per la vita, l’entusiasmo mai disgiunto dalla ricerca della perfezione. Ne fa un personaggio complesso e sfuggente nella sua complessità, non contraddittorio ma articolato, mai caricaturale, nemmeno nei momenti in cui l’eccesso o l’improvvisazione sembrano togliergli spessore trasformandolo in un semplice corpo perfetto.
Che l’interesse per questa figura eclettica ed eccentrica sia frutto di passione autentica è chiaro sin dalla Premessa, in cui Ignazio Gori confida la scoperta della «bellezza» e dell’«eleganza» di Spadolini attraverso la visione di un’antica foto di Dora Maar, Uomo nudo con sfera in mano. Questa confidenza mi ha ricordato quell’altro romanzo biografico, anch’esso sottile gioco di invenzione e documentazione, che è il Riefenstahl di Lilian Auzas, in Italia pubblicato nel 2013 da Elliot.
Talvolta, nella ricostruzione d’epoca, Gori si concede qualche pennellata stilistica d’antan: ed ecco che la partenza del giovane Spadolini viene descritta con queste parole: «si sente libero di sciogliersi i calzari materni, di riempirsi il petto di giovane sparviero e d’involarsi lontano dalla sua dolce Ancona». In altri punti, l’ispirazione dell’autore, nella descrizione di pose e movenze di personaggi, sembra essere certo cinema muto dei primi decenni, ancora teatrale: così è nelle scene delle visite da D’Annunzio, o (e qui il riferimento al cinema muto è esplicitato) nella partenza alla stazione dopo la chiusura degli Indipendenti di Bragaglia, o nelle numerose altre scene di interni – quelle in cui Spadolini, con la sua bellezza e prestanza, seduce qualcuno magari senza volerlo.
Insomma, c’è materia sufficiente per una conversazione con l’autore Ignazio Gori. (continua…)

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lunedì, 14 settembre 2015

NIDI DI NOTE

In collegamento con il forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA“, ci occupiamo del volume “Nidi di note – un cammino in dieci passi verso la musica” – Testo di Bruno TognoliniDisegni di Alessandro Sanna - Musiche di Sonia Peana e Paolo Fresu (Gallucci, 2012)

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Nidi di note – un cammino in dieci passi verso la musica

Testo di Bruno TognoliniDisegni di Alessandro Sanna - Musiche di Sonia Peana e Paolo Fresu
Gallucci, 2012

a cura di Claudio Morandini

Come avvicinare i bambini alla musica? Be’, non dovrebbe essere difficile: i bambini sono naturalmente attratti dalla musica, hanno però bisogno che questo loro interesse perduri, si rafforzi, maturi, diventi consapevole. Nato dall’esperienza diretta e concreta di un laboratorio didattico a Bologna che poi si è sviluppato in una serie di incontri e concerti, “Nidi di note”, attraverso le movenze della fiaba, con accenti poetici e un franco umorismo lavora proprio su ciò che la musica è e su ciò che può dare, al di là del semplice e accattivante abbinamento di ritmo e melodia.
Due bambini, Cirino e Coretta, poveri ma belli e soprattutto intelligenti, partono alla ricerca del Sole Suonatore e della Luna Cantante dal regno di Quandomai, la cui popolazione è afflitta da un Re e una Regina che istupidiscono i loro sudditi cantando dalla sera alla mattina, come sirene ingorde, come televisori sempre accesi sui peggiori programmi. Nella loro peregrinazione, i due bambini attraversano paesi-città che mancano tutti di qualcosa: Iniziò è fatto di niente e non è mai iniziato, Forsecè è abitato da persone che, colte da dubbi e paure, non osano mai fare nulla, Machiè da poveretti che hanno tutti lo stesso nome (Peppino) e chiamano con quel medesimo nome ogni cosa, un po’ come i Puffi ma peggio; nel paese di Fanonfà il tempo non scorre e si rimane in un eterno presente; in quello di Fortepià ogni cosa è portata all’eccesso, tutti urlano e nessuno conosce le sfumature. E ancora: nel paese di Giù gli abitanti non conoscono l’alto, ma solo il basso, a Menopiù tutti evitano di avvicinare gli altri per paura di scoprire i loro odori, i difetti; a Maconché si mangiano e si usano solo cipolle, per ogni cosa; a Suonoquì sono banditi i rumori del corpo, compresa la voce e il canto, e si comunica attraverso un gran via vai di foglietti. In tutti questi paesi Cirino e Coretta, dopo un primo attimo di stupore, sono ben accolti, e provocano, con la spontaneità propria del fanciullo (almeno del fanciullo delle fiabe), un salutare scossone, risolvendo così le paure e i problemi degli abitanti e uscendone come eroi, carichi di doni. (continua…)

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martedì, 28 luglio 2015

ACCORDI MINORI

In collegamento con il forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA“, ci occupiamo del volume “Accordi minori” di Grazia Verasani (Gallucci). Su LetteratitudineNews è disponibile uno stralcio del racconto su Kurt Cobain

[Ne approfittiamo per invitare i lettori ad ascoltare (o riascoltare) la puntata radiofonica di "Letteratitudine in Fm" con Grazia Verasani dedicata al suo romanzo "Mare d'inverno" (Giunti)]

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ACCORDI MINORI,  di Grazia Verasani

Gallucci, 2013

a cura di Claudio Morandini

“Strano, più muoio più mi applaudono.”

Grazia Verasani, nei brevi racconti-monologhi di “Accordi minori” (Gallucci, 2013), esplora con sensibilità partecipe quel particolare settore della musica (per lo più pop, con qualche scantonamento nel jazz) che in questi ultimi cinquant’anni ha fatto surf sull’onda lunga del maledettismo – lo diciamo senza preoccuparci di suonare irriverenti. È un mondo insieme colorato e umbratile, notturno anzi, in cui artisti di talento hanno vissuto la loro dedizione alla musica fino in fondo, fino agli esiti tragici. Incapaci di gestire il successo, la pressione, la fama, oppure logorati da ruoli che sono stati ritagliati loro addosso e in cui non si riconoscono, i musicisti coinvolti in questa dolente via crucis sono quasi tutti cantanti – fa eccezione Chet Baker, in rappresentanza di tutti gli infelici morti per autocombustione di cui è costellata la storia del jazz. Certo, alcuni di loro, oltre che interpreti, sono stati anche autori delle canzoni che li hanno portati al successo: ma nei racconti di Verasani compaiono come icone, come animali da palcoscenico oggetto di culto (di massa o di nicchia), e non li vediamo seduti a tavolino a scribacchiare versi, o intenti a comporre alla chitarra o al pianoforte, ma esposti a riflettori che ne rivelano le drammatiche debolezze, la stanchezza insostenibile, la profonda solitudine, gli abusi e l’alterazione. La musica, si direbbe, non ha rappresentato per loro una via di salvezza, ma piuttosto un’accelerazione verso la perdizione. Alla fine, «a vincere è solo la musica», come si legge nella conclusione di “Born to be kings” (Freddie Mercury): il che significa che la musica resta, anche dopo la morte dell’artista, ma anche, se vogliamo, che la musica vince su tutto, compresa la vita dell’artista.

Sin dal primo racconto, che raccoglie le esternazioni vaneggianti di Janis Joplin, i personaggi sono colti nella fase finale della loro parabola, nel momento in cui, crudelmente, il delirio ha la meglio sulla razionalità, ogni cosa è alterata da droghe alcol o follia e la deriva fatale dello spirito dionisiaco ha raggiunto un punto di non ritorno – alcuni di loro anzi ci parlano da un post mortem che non sembra migliore della vita precedente. (continua…)

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lunedì, 13 luglio 2015

LE OPERE “BRUTTE” DI GIUSEPPE VERDI

In collegamento con il forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA

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LE OPERE “BRUTTE” DI GIUSEPPE VERDI,  di Massimo Mila

Manni, 2015

a cura di Claudio Morandini

Massimo Mila (1910-1988) è stato, oltre che un musicologo importantissimo, uno scrittore valente. Il gusto della scrittura letteraria, mescolata in bell’equilibrio con la terminologia propria della disciplina, si sente nelle opere più celebri, nei vari saggi dedicati a Mozart come nelle pagine dedicate all’amico Bruno Maderna (Maderna musicista europeo, Einaudi 1999). Anche nella Breve storia della musica, consultato ancor oggi e periodicamente ristampato, capolavoro concentrato di sintesi di epoche e scuole, Mila riesce a evitare le trappole della sintesi e del sommario e inserisce momenti di puro gusto letterario, lo stesso sparso generosamente in L’arte di Béla Bartók (prima pubblicato da Einaudi, ristampato nel 2013 nella BUR) o in Compagno Strawinsky (Einaudi 1983, BUR 2012).

Potremmo continuare a citare titoli per un pezzo, perché Mila è lontano da ogni specializzazione, ha coltivato interessi che hanno attraversato ogni epoca della storia musicale, con un occhio di riguardo nei confronti della contemporaneità: con Nono, Berio, Maderna era in fitta corrispondenza e di loro sapeva intravedere inaspettate prolessi nelle opere di musicisti dei secoli passati, come se tutta la musica fosse un fitto dialogare di uomini e di opere.

Il gusto di Mila per la scrittura, al di là dell’oggettività puntigliosa della terminologia musicologica, si avverte forte anche nell’ultimo libro a suo nome, Le opere “brutte” di Giuseppe Verdi, che Manni ha da poco pubblicato nella collana Studi con la cura di Tito M. Tonietti, che di Mila è stato allievo. Si tratta di dispense scritte per un corso universitario di Storia della musica e rimaste inedite fino ad oggi. Sul compositore di Busseto Mila aveva già pubblicato altro: La giovinezza di Verdi (1974) e L’arte di Verdi (1980, entrambe ora raccolte sotto il titolo Verdi sempre dalla BUR) si soffermavano con pienezza di analisi sulla produzione matura e sulle opere maggiori, ed erano opere compiute, pensate per le stampe, lavorate fin nelle virgole – e, come dire, diplomaticamente levigate nei giudizi più severi proprio per l’ampia destinazione editoriale. Diverso (e proprio per questo interessantissimo) è il caso del libro edito da Manni: dal momento che i destinatari erano gli studenti del corso accademico del 1963-4 e non i frequentatori del teatro d’opera, Mila è stato assai poco cauto ai limiti della ferocia nelle osservazioni critiche. In più, non ha portato a termine il lavoro sui dettagli formali, lasciando qualche ripetizione, qualche tournure faticosa, qua e là anche qualche incongruenza (Tonietti ne propone, con discrezione, delle correzioni), perché lo scopo di questi scritti era pratico e immediato. Eppure, anche in questo testo che per forza di cose non ha ricevuto l’ultima revisione dell’autore, si apprezzano quelle formule stilistiche con cui Mila ha impreziosito i suoi saggi maggiori, quell’apparato di metafore e similitudini con cui ha reso comprensibili alla semplice lettura le opere musicali – con cui ha espresso, in questo caso, l’idea di “bruttezza” di quegli  “anni di galera” (tra il 1843 e il 1849) secondo lo stesso Verdi, fitti di frettolosi melodrammi scritti di malavoglia per onorare alla meno peggio gli impegni e perciò discontinui nella qualità, troppo ossequiosi nei confronti delle comode convenzioni dell’opera lirica, poco attenti a tradurre in musica con audacia di soluzioni i moti dell’animo.
(continua…)

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martedì, 9 giugno 2015

PER DISTRATTA SOTTRAZIONE

Per distratta sottrazioneIn collegamento con il forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA

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Fosca MassuccoPer distratta sottrazione

Raffaelli editore, 2015

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a cura di Claudio Morandini

“Per distratta sottrazione” è il titolo della raccolta di versi che Fosca Massucco ha affidato a Raffaelli Editore – la sua seconda, dopo “L’occhio e il mirino” (L’Arcolaio, 2013).
È vera poesia bucolica, questa di Massucco. Si inserisce con composta naturalezza in una tradizione illustre, che parte ovviamente da Virgilio, tocca Pascoli (gran traduttor di Virgilio, oltre che bucolico di suo), arriva, come sensibilità, dalle parti della Pieve di Soligo di Zanzotto, mette gli a-capo a Fenoglio (è Elio Grasso, che firma la densa prefazione,  ad accostare colline a colline, Langhe a Astigiano). Intendiamoci sul termine “bucolico”: non vuole rimandare a bozzettismo, a localismi di maniera, a arcadie provinciali. Piuttosto indica una poesia che insiste con sguardo acutissimo sugli oggetti, sulle creature della natura, anche quelle più nascoste o neglette, sulle tracce lasciate dal lavoro dell’uomo, sul paesaggio lavorato ostinatamente, anche, se vogliamo, su quel che di tecnologico che ha cambiato la vita delle generazioni dei lavoratori della terra e degli abitanti delle campagne. E forse, a questo punto, potremmo usare più appropriatamente il termine “georgico”.
Non a caso Grasso definisce subito il mondo poetico dell’autrice, il suo quadrilatero di riferimento, come “metropoli boschiva, zeppa di sguardo e di passi privi di retorica”. Si percepisce in effetti una sorta di pudore, nobile, che la Massucco esercita nel lavorare con le parole attorno alle cose che le sono care. Nei suoi versi l’attenzione per i segni della natura e dell’uomo non porta a toni altisonanti, a un’epica della campagna, a un’eloquenza muscolare (il rischio c’è sempre): piuttosto si sottrae, ci si ritrae, ci si finge distratti, si sbircia controluce quel mondo fitto di cose. “Bisogna avere grande prudenza / è tutto un universo di avvisi.” Si ricorre a quella mezza ironia che sorride di tutto, anche di se stessa. Si diventa reticenti, se proprio occorre.
Quei segni di cui la natura si gonfia in disordine, la poesia di Fosca Massucco li distilla in versi che sono un modello di sintesi (“Il disordine composto della piana / nel mese mercedonio, i campi gonfi / d’acqua – un giurassico in ritardo – / la perfezione vibrante del vapore”). La sua ansia di precisione lessicale tende a giocare con le antitesi e gli ossimori (“Il baccano della quiete di collina”, “una casa brulicante di silenzio”), talvolta si spinge verso singolari accostamenti, verso nomenclature insolite – ma ecco che le Note alla fine del volume ricollocano ogni analogia nel suo contesto, definiscono i termini (per esempio “mercedonio”).
Anche le scelte metriche si sintonizzano con questo bisogno di esattezza: oscillano tra le cadenze illustri della poesia italiana, tra endecasillabi e settenari, che ora dilatano ora restringono conservandone sempre una reminiscenza. Diciamo che i versi della tradizione sembrano funzionare come poli di attrazione a cui tendono le cadenze personali di Fosca.
Si sente che Fosca Massucco ama questo paesaggio delimitato e imprevedibile che è l’Astigiano, che non si stanca di percorrerlo con lo sguardo, di toccarlo, di camminarci, di viverci, di interrogarlo, di trovarvi un riflesso di qualcos’altro (di sé). A seconda di come lo guardi, della prospettiva in cui ti poni, un angolo familiare diventa nuovo, rileva nuovi dettagli. Amica dell’infittirsi delle cose, la poesia di Fosca Massucco è attratta anche – leopardianamente – dal suo contrario, dal nulla, dalla “compiutezza ineluttabile / del vuoto”: “Ancora pensi all’universo capovolto, / dove traspare solo vuoto tra i cipressi / e la cinta delle mura? Il nulla / è immagine di sé e il vuoto / non è vuoto, vacilla in solitudine.” La sua personale versione dell’Infinito leopardiano, insieme ironica e sentita, è “Davanti si porge l’eterno / in tutta la sua vacuità, / altèra gramigna / di massicciata.” Segni e silenzi: davvero Fosca Massucco si accosta al mondo come farebbe un musicista, come un interprete (schivo, però, lontano da ogni posa da virtuoso) a una partitura ancora carica di segreti.
Chiedo a Fosca se si ritrova in quest’immagine. (continua…)

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lunedì, 18 maggio 2015

Comporre. L’arte del romanzo e la musica

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AA VV – “Comporre. L’arte del romanzo e la musica”

A cura di Walter Nardon e Simona Carretta

Pubblicazione dell’Università degli Studi di Trento – Dipartimento di Lettere e Filosofia, 2014

Collana Labirinti, 156

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a cura di Claudio Morandini

La raccolta di saggi “Comporre. L’arte del romanzo e la musica” nasce dal Quinto Seminario Internazionale di Studi organizzato nel 2012-13 dal Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento, che da anni esplora sistematicamente i diversi elementi costitutivi del romanzo. Curato da Simona Carretta e da Walter Nardon, che nell’Introduzione presenta e orchestra i contributi dei relatori, pubblicato nella collana Labirinti, il volume fa il punto con precisione e rigore sui legami più profondi e meno scontati tra la forma del romanzo e la musica ponendosi essenzialmente dalla parte del romanzo e da questa prospettiva guardando alla musica.

E proprio il romanzo (lo precisa Simona Carretta) viene privilegiato non come genere, ma come “arte indipendente”, con “obiettivi estetici e conoscitivi” suoi; questo spiega perché gli interventi non si limitino allo studio di una generica “musicalità” nella lingua o nello stile, aspetto predominante in altri campi letterari come la poesia – senza contare che i rapporti tra musica e poesia, fondati su interrelazioni millenarie, su comuni origini, sono più chiari e più frequentati, mentre è meno scontata, e anche assai più interessante, l’analisi della condivisione di strutture, del travaso di articolazioni complesse tra composizione musicale e romanzo.

1 – Secondo Simona Carretta, è soprattutto “sul piano delle strutture formali… che l’ispirazione musicale ha prodotto i risultati più interessanti”. Alla musica, “commistione perfetta di forma e contenuto”, possono attingere i romanzieri disposti a sperimentare forme inconsuete di organizzazione del testo, adatte a “sviluppare uno sguardo diverso sul mondo”.

Nel saggio “Alla scuola di Broch” Simona Carretta investiga nella produzione di alcuni autori (lo stesso Hermann Broch, Milan Kundera, che nel libro, per competenza musicale, ampiezza di riflessione sul tema e metodicità di applicazione, fa un po’ la parte del leone, e poi Huxley, Perec, Alejo Carpentier, Danilo Kiš) la possibilità di commistione tra forma musicale e forma-romanzo: si parla allora di “polifonia”, di “contrappunto”, di “fuga”, di “variazioni sul tema”. In Kundera, in particolare, quest’esigenza nasce da un’idea ambiziosa di romanzo, in cui la “mise en abyme” di una struttura musicale nell’articolazione narrativa consente di cogliere la complessità del mondo secondo diverse linee prospettiche, pluralità di voci, incastri di linee.

Massimo Rizzante è ancora più specifico nell’analisi di certe pagine di Kundera e in “La fuga romanzesca” rintraccia il procedimento imitativo della fuga (il più complesso, se vogliamo) nell’intercalarsi di voci, temi, situazioni, piani temporali di opere come “La lentezza” e “L’identità”. (continua…)

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sabato, 2 maggio 2015

CALISTO

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CALISTO, di Stefano Adami (Edizioni Effigi, 2015)

a cura di Claudio Morandini

Stefano Adami, nel breve romanzo “Calisto” (Edizioni Effigi, 2015), esplora le connessioni tra realtà e finzione, tra quotidianità e invenzione teatrale, e anche tra musica e parola. Lo fa con garbo, senza esagerare, senza rendere barocca a tutti i costi la vita quotidiana e senza forzare la contaminazione tra l’artificiosità del mondo del melodramma e le minuzie delle giornate dei diversi personaggi (con l’eccezione di un paio di momenti di cui parleremo più avanti).

L’occasione è data appunto da “La Calisto”, l’opera del veneziano Francesco Cavalli (1602-1676) del 1651 su libretto di Giovanni Faustini, ancor oggi riproposta a teatro. Cavalli, prolifico autore di melodrammi ispirati ai grandi miti greco-romani o agli eroi dell’antichità (citiamo un po’ a caso “La Didone” e “Gli amori di Apollo e Dafne”, entrambi su libretto del Busenello, “L’Elena” e “L’Egisto” su libretto dello stesso Faustini, “Il Giasone” su versi di Cicognini), è con Monteverdi il fondatore dell’opera barocca, e tra i primi a sperimentare certi stilemi che saranno sviluppati nei secoli successivi. “La Calisto”, ispirata a un episodio delle  Metamorfosi di Ovidio (II, 401-495), narra di amori di dei, ninfe e uomini. Calisto (Callisto, cioè) è appunto una ninfa seguace di Diana, vincolata al voto di castità, della quale però Giove s’incapriccia: per amoreggiare con lei il re degli dei si fingerà Diana, senza pensare troppo alle conseguenze. Quando Diana stessa e poi Giunone, moglie di Giove, scopriranno che Calisto è incinta, la ninfa sarà oggetto della vendetta di entrambe.

Travestimenti, equivoci, confusione di generi, lesbismo neanche tanto latente, voyeurismo: nella prima parte della versione ovidiana del mito compaiono tutti gli elementi che potevano rendere particolarmente perturbante l’episodio (elementi che solo in un’ambientazione precristiana era possibile preservare dalle censure), come è dimostrato anche dal dipinto di Tiziano “Diana e Callisto”, del 1556-59, conservato a Edimburgo, che è tutto un tripudio di nudità e promiscuità femminili.

Adami omaggia con discrezione la struttura del melodramma alternando movimentate scene d’assieme che potremmo equiparare a recitativi declamati, e pensosi e tormentosi monologhi che ricordano le arie, secondo un procedimento che proprio nelle opere di Cavalli si andava fissando.

Ma perché ispirarsi proprio a “La Calisto”? Che cos’ha di particolare quest’opera rispetto alle altre di Cavalli? Lo chiedo a Stefano Adami.

(continua…)

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mercoledì, 15 aprile 2015

Felisberto Hernández

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La memoria della musica (o la musica della memoria): Felisberto Hernández

a cura di Claudio Morandini

Chi ama la musica e quella particolare musica che risuona nelle pagine di un libro farà bene a dedicarsi alla lettura di Felisberto Hernández (Montevideo, 1902-1964), di cui La Nuova Frontiera sta pubblicando i racconti e i romanzi nella bella traduzione di Francesca Lazzarato. Hernández era quasi dimenticato in Italia, prima di queste provvidenziali pubblicazioni: si erano perse da anni le tracce della precedente edizione di “Nessuno accendeva le lampade” (Einaudi, 1974, traduzione di U. Bonetti), mai più ristampata.

Le OrtensieHernández era pianista e scrittore; prima pianista, poi scrittore dalla sconcertante sensibilità. I racconti, sia quelli più corti sia quelli che ambiscono a uno statuto quasi di romanzo breve, sono qualcosa di diverso, di non catalogabile (se ne era ben accorto Italo Calvino, che nel presentare la prima edizione italiana di “Nessuno accendeva le lampade” scriveva che l’autore “non somiglia a nessuno… è un irregolare che sfugge a ogni classificazione e inquadramento ma si presenta ad apertura di pagina come inconfondibile”): procedono ambigui e spaesanti come sogni a cui certe ricorrenze concedono una parvenza di articolazione narrativa, sono assecondati più che scritti, osservati mentre crescono come piante più che articolati secondo una struttura. Hernández e i suoi personaggi si aggirano come sonnambuli (“sonnambulo di fiducia” è definito il narrante in “La casa allagata”, del 1960, in “Le ortensie”, La Nuova Frontiera, 2014), come fantasmi che non hanno dimenticato la cortesia, in un mondo in cui si affastellano oggetti, mobilia, figure femminili di tutte le dimensioni e età (e tutto ciò, oggetti e figure femminili, al centro di persistenti pulsioni e desideri). A volte i luoghi assumono significati nuovi: in uno dei racconti più sorprendenti, un palazzo viene allagato e diventa mare da navigare, disseminato di isole (“La casa allagata”, in “Le ortensie”).

(continua…)

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martedì, 31 marzo 2015

Una casa editrice musicale: RueBallu

Una casa editrice musicale: RueBallu
Conversazione con Gae Pisani

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Entra nel sito della casa editrice musicale rueBallu - Musica e Teatro

a cura di Claudio Morandini

RueBallu è una piccola e coraggiosa casa editrice palermitana che dal 2007 pubblica testi di letteratura musicale, inseriti in collane dedicate a biografie, testimonianze, didattica o narrativa anche per ragazzi, e presenta un bel catalogo di titoli per niente ovvi. Abbiamo chiesto agli amici della redazione di rueBallu di illustrarci il loro progetto editoriale. Gae Pisani, a nome della redazione, ha risposto così ad alcune nostre domande.

- RueBallu Edizioni prende il nome dalla via parigina in cui si trovava lo studio di Nadia Boulanger. Si tratta di un riferimento forte a un’esperienza umana, didattica e artistica centrale nel Novecento. Che cosa è rimasto di quell’esperienza? Che cosa ci può ancora insegnare il magistero della Boulanger?

La forza del magistero di Nadia Boulanger è rimasta intatta nelle sue parole e nell’insegnamento trasmesso. In un filmato molto bello – Mademoiselle – di Bruno Monsaingeon, girato in occasione del novantesimo compleanno di Nadia Boulanger, è possibile entrare in relazione con il mondo di questa didatta straordinaria e sentirne in prima persona la profonda attualità per chiunque viva di musica e per la musica.

- L’Italia è una nazione di vasta tradizione musicale, ma, ahimè, di scarsa educazione e di scarsissima attenzione da parte delle istituzioni. Come si muove un editore come rueBallu in questo contesto poco favorevole, almeno all’apparenza, al discorso musicale?

La domanda è particolarmente pertinente, ciò che lei dice è profondamente vero, il progetto rueBallu non si muove in un contesto poco favorevole alla musica non solo apparentemente, ma nella sostanza. Il percorso della casa editrice, totalmente indipendente nelle scelte editoriali e nella ricerca delle risorse finanziarie, è ardito se si riflette con attenzione alla struttura dell’intera filiera editoriale. Un ruolo dominante, come è noto, viene esercitato dai grandi gruppi di distribuzione direttamente collegati alle grandi librerie, trovare degli spazi di visibilità non è un lavoro semplice, né tanto meno ricevere un’attenzione mediatica che ordinariamente viene riservata ai grandi gruppi editoriali. Il nostro lavoro, come quello di altre realtà analoghe, è un cammino controcorrente; anche se non amiamo molto parlare degli aspetti pratici del lavoro che stiamo portando avanti, né delle “evidenti assurdità” in cui siamo totalmente immersi. Preferiamo dar voce con dedizione e rispetto a chi ha manifestato qualcosa di veramente straordinario nella vita e nell’arte, mescolarlo con altro riteniamo non sia utile.

– Secondo lei, che cosa può fare la letteratura per aiutare (diciamo così) la musica colta a superare lo scollamento drammatico con il grande pubblico di questi ultimi decenni e tornare ad allacciare un rapporto di reciproca curiosità? (continua…)

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sabato, 31 gennaio 2015

AL FEMMINILE – Trio des Alpes e Dacia Maraini in concerto

Trio des AlpesAL FEMMINILE – Trio des Alpes e Dacia Maraini in concerto

di Massimo Maugeri

Nell’ambito del forum permanente di Letteratitudine intitolato LETTERATURA E MUSICA, vi propongo un’iniziativa musical-letteraria molto interessante che coinvolge un trio di ottimi musicisti (il Trio des Alpes) e Dacia Maraini. Si tratta di un progetto dedicato alle donne compositrici del Novecento e contemporanee.

Il Trio des Alpes ha già più volte avuto modo di suonare queste musiche in concerto, anche in Brasile e

negli Stati Uniti, e compositrici contemporanee hanno scritto appositamente per loro. Il 20 marzo suoneranno parte del materiale moderno al Festival Cinque Giornate a Milano, poi ancora numerose volte per tutto il 2015. Hanno anche inciso un CD a Zurigo che sta per uscire per Dynamic con le musiche di Amy Beach e Rebecca Clarke, due autentiche pioniere del primo Novecento.

Ne discutiamo con il pianista Corrado Greco, una delle anime del trio.

-Caro Corrado, come nasce il “Trio des Alpes”?

Nasce dall’incontro, cinque anni fa, tra tre professionisti della musica – la zurighese Mirjam Tschopp (violino e viola), il ticinese Claude Hauri (violoncello) e il sottoscritto al pianoforte. Viviamo e lavoriamo a cavallo delle Alpi e il nome del trio richiama le nostre radici, in termini di dislocazione geografica, ma anche di formazione accademica e cultura.

-In cosa consiste il vostro progetto artistico? E quali sono gli obiettivi?

Io e i miei colleghi abbiamo carriere solistiche consolidate, ma condividiamo una grande passione per la musica da camera. Siamo diversi per carattere e scuola ma ne facciamo il nostro punto di forza, confrontandoci di continuo alla ricerca di soluzioni condivise. La nostra esigenza è quella di scavare a fondo il testo musicale per trarne coesione e intesa; ci piace molto elaborare progetti musicali originali; abbiamo molta curiosità per la musica nuova e per quella ingiustamente dimenticata.

-Come ho già accennato, avete avviato questo progetto dedicato alle donne compositrici del Novecento e contemporanee. Potresti darci altre informazioni?

Siamo stati folgorati dall’incontro con le musiche per trio di Rebecca Clarke e Amy Beach, due compositrici del primo Novecento i cui nomi sono quasi del tutto assenti nelle programmazioni concertistiche. Abbiamo deciso di inciderne le musiche e di eseguirle in concerto assieme a quelle di un’altra donna vissuta negli stessi anni, la sfortunata Lili Boulanger. Allo stesso tempo abbiamo pensato di allargare il progetto alle compositrici di oggi: abbiamo chiesto di scrivere per noi, e abbiamo suonato queste musiche in Italia, Svizzera, Brasile e Stati Uniti. Presto le incideremo in un secondo disco. La musica “al femminile” non ha connotazioni estetiche diverse da quella scritta da uomini, ma le donne possiedono altrettanta ricchezza, sensibilità e talento e non vogliamo siano trascurate.

-Nell’ambito di una vostra iniziativa musicale-letteraria, avete coinvolto Dacia Maraini. Ti andrebbe di parlarcene?

Ho conosciuto Dacia Maraini anni fa, suonando in un originalissimo “Carnevale degli animali” per il quale aveva scritto un testo originale recitato da Arnoldo Foà. Sapendo quanto le sia caro il tema della creatività femminile ho immaginato di coniugare queste musiche al suo straordinario talento di affabulatrice. E le ho scritto. Ha accettato subito e con grande disponibilità.

-Dove suonerete nei prossimi giorni?

Domenica 1 febbraio suoneremo al Teatro di Chiasso, in Svizzera. In questa occasione sarà con noi anche il soprano Lorna Windsor, che ha partecipato al nostro progetto discografico cantando le liriche per voce e strumenti di Amy Beach. Il giorno successivo suoneremo all’Università dell’Insubria di Varese. In entrambe le date incorniceremo l’intervento della signora Maraini su “Musiciste e scrittrici in epoca di patriarcato”. (Per ulteriori dettagli, cliccate qui - n.d.r.)

-Altri progetti per il futuro? (continua…)

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lunedì, 26 gennaio 2015

LA VITA E L’OPERA DEL COMPOSITORE FOLTÝN

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Il nuovo appuntamento del forum permanente di Letteratitudine intitolato LETTERATURA E MUSICA, è dedicato al volume “La vita e l’opera del compositore Foltýn” di Karel Čapek (trad. di Giancarlo Fazzi, Skira 2014).
Articolo di Claudio Morandini.

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di Claudio Morandini

La vita e l’opera del compositore FoltynChe strano, inafferrabile personaggio che è Bedrich Foltýn, il protagonista del romanzo a più voci “La vita e le opere del compositore Foltýn”, una delle ultime opere dello scrittore ceco Karel Čapek (lo ripubblica Skira, nella limpida traduzione di Giancarlo Fazzi risalente alla introvabile edizione Marietti del 1988)! Čapek chiama a testimoni tutti coloro che nel corso della vita di Foltýn hanno avuto a che fare con lui: dai primi compagni di classe agli amici dell’università, alle ragazze e poi alle donne che ha frequentato e che lo hanno amato. La polifonia di voci, diligentemente registrata da un immaginario verbalizzatore, dà di Foltýn un ritratto a più facce, in cui versioni sinceramente elogiative si alternano ad altre schiettamente riduttive: al punto che la domanda che il lettore si pone non è chi sia stato Foltýn, ma piuttosto quante cose sia stato Foltýn. È un genio? Un velleitario dilettante? Un profittatore? Un simulatore? Un artista di corta ispirazione ma dalle enormi ambizioni comunque in buona fede? Il dubbio resterà fino alla fine (ma no, che sia stato un genio è da escludersi).
(continua…)

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venerdì, 9 gennaio 2015

COME MACCHINE IMPAZZITE

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Nuovo appuntamento con il forum permanente di Letteratitudine intitolato LETTERATURA E MUSICA, coordinato con il supporto dello scrittore Claudio Morandini.

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Gianpiero Capra e Stephania Giacobone
Come macchine impazzite
Agenzia X, 2014

di Claudio Morandini

kinaÈ un’interessante operazione “Come macchine impazzite”, scritto a quattro mani da Gianpiero Capra e Stephania Giacobone attorno a quello che il sottotitolo definisce “il doppio sparo dei Kina”: “doppio” nel senso che l’avventura musicale del gruppo punk di Aosta viene tracciata con cordiale precisione da Capra, che della band è stato uno dei fondatori e il bassista, mentre in capitoli alternati a questi di Capra la Giacobone racconta, più narrativamente e anche con maggiore enfasi, la scoperta dei Kina diversi anni dopo e la ricerca delle loro tracce attraverso dischi, cassette, ma anche riviste, fanzine, testimonianze di conoscenti comuni.
Per essere precisi: Stephania nasce “un anno dopo l’uscita del secondo album dei Kina”, “tre anni dopo il primo album dei Kina e quattro anni dopo i loro primi concerti del 1983”. Scegliere di amarli “è stata una lotta in provincia e in città” (cioè in Valle d’Aosta e a Torino): “quelle lotte che aprono gli occhi, creano divari, scelgono per te, ti insegnano a tirare fuori i denti e a strappare la carne dai tendini per nutrirti”. Il libro è insomma la ricostruzione fedele di due momenti storici assai simili: il passare degli anni non ha reso distanti o distaccati i due testimoni-scrittori. Nell’accostare i due piani temporali, “Come macchine impazzite” rivela quanto poco sia cambiato nella provincia tra le Alpi: rivela anche quanto le inquietudini cantate dai Kina non appartengano all’archeologia, ma siano ben radicate e in un certo senso endemiche.
A questo proposito, chiedo un po’ provocatoriamente a Stephania Giacobone se si può considerare “storicizzata” l’esperienza dei Kina e di altri gruppi affini, se la si può leggere solo attraverso il ricordo, o se invece prosegue anche oggi.
“L’esperienza dei Kina” mi risponde Stephania “a mio parere ha subito un processo di storicizzazione diverso dal consueto sedimentarsi nel ricordo di generazioni che ormai si vergognano di cosa erano e cosa ascoltavano. Durante la mia ricerca di tracce e testimonianze ho potuto vedere negli occhi di chi raccontava uno slancio di vitalità che prosegue anche oggi. I Kina non suonano più ma vivono ben oltre il solo ricordo. Spero che in questo senso la struttura che abbiamo scelto per la stesura del libro e la presenza di una voce, la mia, anagraficamente distante dagli inizi dei Kina, possa dimostrare quanto sia ancora vivo, urgente e necessario questo genere di musica.”
(continua…)

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martedì, 16 dicembre 2014

FRANCESCO CUSA e la tentazione della letteratura

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Nuovo appuntamento con il forum permanente di Letteratitudine intitolato LETTERATURA E MUSICA, coordinato con il supporto dello scrittore Claudio Morandini.

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FRANCESCO CUSA e la tentazione della letteratura

di Claudio Morandini

Bisogna intendersi sul termine “tentazione” – e cercheremo di farlo. Francesco Cusa è innanzitutto un musicista, un batterista, uno dei fondatori dell’etichetta indipendente “Improvvisatore Involontario” e – ecco la parola giusta – un agitatore culturale. Gli album a suo nome e i progetti in cui è coinvolto o di cui è l’ispiratore sono parecchi e ben rappresentati su disco e in rete (Skrunch, Skinshout, The Assassins, Jaruzelski’s Dream, Try Trio, nemmeno ci provo a elencarli tutti); ancora più numerose le collaborazioni con altri artisti del circuito del jazz più alternativo, quello che fatica a dirsi jazz e con il jazz ha parecchi conti in sospeso. Lì sta la matrice di Cusa, direi: nell’anima più profonda e irriducibile del jazz, nell’improvvisazione intesa come sfida, come superamento di limiti, come antagonismo rispetto alla materia trattata e alle attese dell’ascoltatore. Bene: un po’ ovunque, nella sua musica, comunque sia declinata, in qualunque organico sia eseguita, si sente una forte, non accidentale liaison con la parola letteraria, e questo ci intriga. Così, in attesa Di scoprire che cosa ci riserverà “Love”, il prossimo album del collerico progetto jazzcore The Assassins (con la tromba di Flavio Zanuttini), previsto per il 2015, proviamo ad ascoltare alcuni dischi di Francesco Cusa, concentrandoci sui titoli del gruppo Skrunch, che comprende, oltre a Cusa, Paolo Sorge alla chitarra e Carlo Natoli al basso, più altri ospiti – o complici – occasionali. (continua…)

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lunedì, 8 dicembre 2014

IMPROVVISATORE INVOLONTARIO

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Nuovo appuntamento con il forum permanente di Letteratitudine intitolato LETTERATURA E MUSICA, coordinato con il supporto dello scrittore Claudio Morandini.

Protagonista del post è questo CD di Costanza Alegiani che mescola Verdi, jazz e Shakespeare.

Di seguito, l’articolo di Claudio Morandini.

Massimo Maugeri

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IMPROVVISATORE INVOLONTARIO

di Claudio Morandini

Costanza Alegiani – Fair is Foul and Foul is Fair

Improvvisatore Involontario, 2014

Fair is Foul and Foul is Fair, l’album di Costanza Alegiani pubblicato quest’anno dalla combattiva etichetta Improvvisatore Involontario, è un’occasione preziosa per parlare dell’incontro tra letteratura e musica: perché qui si incrociano Shakespeare e Verdi (e i suoi librettisti Francesco Maria Piave e Arrigo Boito), l’opera lirica e il jazz di oggi, la musica scritta e l’improvvisazione, la parola scritta e il canto.

Il lavoro di Costanza Alegiani ruota attorno a un’intenzione progettuale molto chiara, evocare quel mondo di finzione e verità che possiamo situare tra dramma elisabettiano e melodramma ottocentesco (con una puntatina sorprendente dalle parti di Brecht e Weill, anche), cioè il teatro nella sua essenza più forte; allo stesso tempo esprime un’ampia voracità artistica, che si nutre di disparate suggestioni stilistiche, mescola antico e moderno, scrittura e improvvisazione pura, pieno e vuoto, alto e basso, opera lirica e cabaret, torch song e free jazz, riconducendo però tutto a una chiara solidità di impianto. “L’Opera è per me un microcosmo” mi dice Costanza Alegiani, “un palcoscenico su cui i personaggi si ritrovano catapultati. Pian piano devono riconoscere se stessi, la loro storia e comprendere il loro destino. Così mi immagino questi personaggi del disco: raccontano di loro stessi, della loro condizione, chi nella sua stanza come Desdemona, chi in un non-luogo come il Coro.”

Per questo sorprende scoprire che “l’idea del concept album è arrivata alla fine, come del resto l’idea di fare un disco con questo materiale.” Ma è vero che certe connessioni interne, profonde, tendono a rivelarsi un po’ alla volta, e allora il materiale che fino a quel momento sembrava disparato diventa parte di un organismo coerente, che preesisteva alle intenzioni dell’autore stesso.

(continua…)

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sabato, 25 ottobre 2014

SALVARE MOZART, di Raphaël Jerusalmy

letteratura-e-musicaNuovo appuntamento con il forum permanente di Letteratitudine intitolato LETTERATURA E MUSICA, coordinato con il supporto dello scrittore Claudio Morandini.

Protagonista del post è SALVARE MOZART, romanzo di Raphaël Jerusalmy, pubblicato dalle edizioni e/o.

Di seguito la recensione di Claudio Morandini).

Massimo Maugeri

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SALVARE MOZART, di Raphaël Jerusalmy, edizioni e/o (traduzione di Gaia Panfili)

di Claudio Morandini

“Salvare Mozart” di Raphaël Jerusalmy, tradotto in modo eccellente da Gaia Panfili, racconta lo scontro tra due diverse concezioni della musica (e della vita, in buona sostanza). Da una parte troviamo il protagonista Otto J. Steiner, che malato, sconfitto, burbero, recluso in un sanatorio cascante, confida i suoi umori alle pagine di un frammentario diario destinato al figlio lontano. Ci troviamo a Salisburgo, tra il 1939 e il 1940 (Salisburgo? Una voce narrante “burbera”? Non siamo lontani dai rimuginii di Thomas Bernhard): l’Austria ha aderito con allarmante entusiasmo all’annessione con la Germania di Hitler, e il nazismo imperversa ovunque. All’inizio Steiner, che vivrebbe circondato dalla musica, se potesse, se gli lasciassero il grammofono, e ascolta fino a consumarli i pochi dischi che gli sono rimasti, scopre di condividere l’amore per la musica con i nazisti – e questo lo preoccupa, lo riempie di dubbi. Prima del ricovero va ad assistere a un concerto (“Il ratto dal serraglio” diretto da Böhm, “un’interpretazione… brillante, poderosa, immensa”), si trova circondato da ufficiali nazisti, c’è anche Hitler in un palco. Perché perseguitati e persecutori condividono gli stessi gusti? Le differenze emergeranno chiare, definitive, più avanti, quando il kitsch dei nazisti e dei loro complici infetterà Salisburgo e il suo Festival, trasformandolo in “una sagra di militari in libera uscita e buzzurri impinguinati”, con direttori come Böhm e Léhar che brandiscono “le loro bacchette come randelli” e se ne stanno sul podio a dirigere “come caporali” (quest’ultima cosa la si dice di Heinz Hilpert, che però, a dire il vero, era regista, non direttore d’orchestra).
Agli antipodi del gusto di Steiner si trovano proprio i melomani di marca germanica, amanti di marcette e valzer, pronti a scattare sull’attenti allo squillo di una fanfara, prigionieri, per così dire, di una concezione militaresca della musica, incapaci di apprezzare le sfumature di un’esecuzione meditata e invece esaltati da interpretazioni tronfie, retoriche – lontanissimi da quel Mozart che per Steiner finisce per rappresentare l’ultima voce da preservare, l’ultima oasi di bellezza in un mondo in declino verso il brutto (e l’orrore). “Il nostro Mozart” scriverà verso la fine, “non il loro”: musica cioè che i gerarchi nazisti non sanno capire, anche se la ascoltano compunti, e che nemmeno i loro lacchè possono capire, anche se la sanno eseguire. Nelle sue proposte meno volgari ed effimere la musica tedesca è comunque intrisa di “lirismo esaltato, grandioso”, in nome di “una sorta di romanticismo esacerbato” di marca genericamente straussiana che al tempo stesso esprima “l’impeto del Reich” e si tenga lontano “dai patemi e dalla tetraggine” della musica non di regime. (continua…)

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sabato, 18 ottobre 2014

LE ROCKSTAR NON SONO MORTE, di Valerio Piperata

letteratura-e-musicaNel nuovo appuntamento con il forum permanente di Letteratitudine intitolato LETTERATURA E MUSICA, coordinato con il supporto dello scrittore Claudio Morandini, ci occupiamo del romanzo d’esordio di Valerio PiperataLe rockstar non sono morte“, edizioni e/o, (con una recensione dello stesso Morandini).

Massimo Maugeri

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LE ROCKSTAR NON SONO MORTE, di Valerio Piperata (edizioni e/o)

di Claudio Morandini

Veloce e buffo come un cartone animato, il romanzo d’esordio di Valerio Piperata, “Le rockstar non sono morte” (e/o, 2014), è un tributo insieme sincero e ironico al culto del Dio del Rock – evocato più volte, e qua e là, nei momenti difficili, pure nominato invano. Il giovanissimo autore, e l’io narrante che credo debba qualcosa alle esperienze di batterista dell’autore, un po’ credono un po’ no a questo Dio, di cui si sentono i Giobbi, sempre presi di mira, messi alla prova, perseguitati senza una ragione.
“Il Dio del rock me lo sentivo sotto la pelle, dentro al cuore” dice il liceale romano Davide Fagiolo, il protagonista, con slancio da integralista. “Mi dava coraggio, mi ci faceva credere. Perché siamo pochi, noi eletti dal Dio, ma siamo stati scelti da Lui per la forza e la costanza che abbiamo dimostrato di avere, nel nome del rock. Siamo disposti a superare ogni ostacolo, difficoltà, date a cachet zero, pur di arrivare dove vuole portarci Lui: la destinazione di questo viaggio la ignoriamo, sappiamo solo che, indipendentemente da quello che succede, dobbiamo continuare a camminare.”
Davide Fagiolo è batterista; o meglio, vorrebbe esserlo, aspira a esserlo, e non è detto che lo sia davvero: ma insomma, suona una batteria da quattro soldi in una band raccogliticcia che sembra un concentrato di tutte le aspirazioni, le illusioni, le bellezze e le goffaggini del rock (oltre che un significativo campionario antropologico di certa gioventù italiana di oggi, irrimediabilmente marginale). Il suo riferimento ideale sta in Ringo Starr, non certo in uno dei virtuosi della batteria che hanno imperversato in tanti gruppi degli ultimi decenni del Novecento: e questo suo ruolo, questa predisposizione verrebbe da dire caratteriale, se non genetica, gli consente di avere un punto di vista laterale, defilato, periferico, e appunto ironico, sulle vicende narrate. Fagiolo è il motore di tutto, il cuore del gruppo, la base su cui tutto il resto si tiene: eppure il suo ruolo, come quello di tanti altri batteristi, da Ringo Starr in su, non è riconosciuto. I batteristi stanno in fondo, di solito non si agitano eppure faticano più degli altri, vengono intervistati meno degli altri, sul palco dei concerti sono nascosti dall’agitarsi delle prime donne, nei video rischiano di rimanere comparse, se non macchiette. Ecco, Fagiolo è un po’ così, ma non sembra che gliene importi molto. Sa che in realtà senza la base ritmica (costante, anche se approssimativa) garantita dal batterista la musica suonata dagli altri non ha più senso. Il vero leader non è il frontman che si sgola e si scalmana davanti a tutti, ma lui, il negletto batterista in penombra – così, almeno, in un misto di modestia e megalomania, pensa il nostro protagonista.
Chiunque abbia vissuto, da ragazzo, l’esperienza di mettere insieme un gruppetto per suonare rock conosce quel misto di esaltazione, ostinazione, ansia e frustrazione che colora le giornate e agita le notti: i problemi tecnici, i locali improvvisati, l’acustica tremenda, il pubblico scarso e ostile o, peggio, indifferente, le cene offerte dai gestori a base di pastasciutta, le località sconosciute in cui nessuno ha fatto pubblicità al concerto – e la bellezza di certi momenti in cui miracolosamente tutto sembra andare per il verso giusto, il pubblico arriva e gradisce, e di colpo la fatica e i dissapori scompaiono, e si ha la sensazione di trovarsi dinanzi a un’inaspettata epifania. Ecco, c’è tutto questo nel romanzo di Piperata, ed è fresco e immediato come se fosse in presa diretta, improvvisato sul palco, senza tanti aggiustamenti in postproduzione.
(continua…)

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lunedì, 6 ottobre 2014

TRA MUSICA E POESIA: conversazione con Alessandra Trevisan

letteratura-e-musicaNuovo appuntamento con il forum permanente di Letteratitudine intitolato LETTERATURA E MUSICA, coordinato con il supporto dello scrittore Claudio Morandini.  Oggi ci occupiamo del rapporto tra “musica e poesia” attraverso questa conversazione con Alessandra Trevisan (foto in basso).

Massimo Maugeri

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Tra musica e poesia: conversazione con Alessandra Trevisan

di Claudio Morandini

Torniamo ancora una volta sul tema che sta a cuore a tutti coloro che frequentano questo forum, quello cioè del rapporto tra letteratura e musica, e facciamolo attraverso il contributo di Alessandra Trevisan, attivissima in entrambi i campi come autrice e come animatrice culturale.
Alessandra Trevisan (Mestre, 1987) ha conseguito la laurea magistrale in Filologia e letteratura italiana con una tesi dal titolo “Goliarda Sapienza (1998-2013): una voce intertestuale” presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Suoi saggi e contributi su Goliarda Sapienza sono apparsi in antologie, riviste e presentazioni. Si è formata partecipando alle attività del collettivo mestrino “Spritz Letterario” e al Festivaletteratura di Mantova. Dal 2011 è parte della redazione del litblog “Poetarum Silva” (poetarumsilva.com) e cura con Anna Toscano per Radio Ca’ Foscari il programma “Virgole di poesia” (www.radiocafoscari.it/virgole-di-poesia). È ufficio stampa nell’ambito degli eventi culturali e jazz (Associazione Culturale Caligola, nusica.org, Festival dei Matti di Venezia) e press agent di alcune formazioni jazzistiche (XYquartet, Piero Bittolo Bon Jümp the Shark, Domenico Caliri Camera Lirica). Partecipa al progetto UnkNwn (inditronica, trip-hop, electronic live band).

alessandra-trevisan

Ecco di seguito la trascrizione della conversazione, assai ricca e piacevole, con Alessandra Trevisan.

CM – Alessandra, in quali modi hai sperimentato il connubio tra musica e parola? Da animatrice culturale, sul litblog “Poetarum Silva”, e nella conduzione del programma “Virgole di poesia” con Anna Toscano su Radio Ca’ Foscari, hai senz’altro avuto modo non solo di riflettere sulla questione, ma anche di affrontarla concretamente.

AT – Grazie Claudio. Credo la questione si sia posta prima ancora delle due esperienze che tu citi e che hanno amplificato le possibilità di esplorazione di questa ‘relazione’ per me cruciale. Mi riferisco al fatto d’esserci passata dapprima attraverso il corpo, con il canto (ma di questo parleremo poi).
Ma il rapporto parola e musica si è rivelato ‘due volte evidente’ soprattutto attraverso la poesia dal 2010, l’anno d’inizio di entrambi i progetti. La poesia ha presentificato la mia voracità nei confronti della parola e della musica: a “Virgole di poesia” soprattutto grazie alla presenza della ‘voce’ mia, di Anna e dei poeti ospiti delle tre stagioni che abbiamo condotto; ogni puntata ha avuto come colonna sonora della musica strumentale (jazz, minimal, ambient). La voce in radio è ancella e protagonista. Su “Poetarum Silva” invece, ho spesso cercato di affrontare il connubio su due piani: con la lettura critica di certa poesia contemporanea, tenendo in considerazione il rapporto parola-musica e voce; dall’altro, intervistando alcuni artisti con l’intento di manifestare un’attenzione sempre molto alta e altra nei confronti della voce. In entrambi i casi dico ‘voce’ in senso lato ma non dimentico di porre l’accento sull’unicità che caratterizza i tipi di espressione di cui mi sono occupata.

CM – Nella musica strumentale dell’XYquartet e del Piero Bittolo Bon JÜMP THE SHARK, che tu segui come press agent, mi è sembrato di cogliere, soprattutto grazie ai titoli, una sorta di narrazione, che attraversa e si sovrappone alla struttura della composizione. Questo mi suggerisce un paio di domande che mi frullano in testa da parecchio tempo. La prima è: la musica può raccontare qualcosa, secondo te, oltre se stessa?
(continua…)

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mercoledì, 24 settembre 2014

RITORNO A SALEM, di Hélène Grimaud

Nell’ambito del forum permanente di Letteratitudine intitolato LETTERATURA E MUSICA, coordinato con il supporto dello scrittore Claudio Morandini, pubblichiamo la recensione del romanzo RITORNO A SALEM, di Hélène Grimaud (Bollati Boringhieri, 2014 – traduzione di Monica Capuani), firmata dallo stesso Morandini.

Massimo Maugeri

* * *

RITORNO A SALEM, di Hélène Grimaud

di Claudio Morandini

Sarà forse singolare, ma è del tutto comprensibile che un interprete – cioè un musicista che mette la sua sensibilità artistica al servizio della musica scritta da qualcun altro – finisca per abitare le pagine di un libro come – finalmente! – un protagonista assoluto, e lasci esprimere la propria voce interiore dopo aver parlato per Brahms o Chopin o che so io. Ai musicisti viene naturale mettere per iscritto ciò che la musica non consente di comunicare: ricordi, incontri, emozioni, teorie, sassolini nella scarpa… Talvolta si concedono una capatina nei territori della narrativa (dell’autofiction, più spesso; della narrativa d’invenzione, talvolta), ma sempre con la timidezza di chi si sta dedicando a un mestiere che non è proprio il suo. La pianista Hélène Grimaud non sembra avere di questi tentennamenti: la sua è una prosa ricca, solenne, non esente da qualche eccesso retorico (ma solo chi osa rischia lo scivolone), dominata da un io (o un “je”, un “moi”) onnipresente fino all’ipertrofia. E dopo tre titoli (“Variations sauvages”, “Leçons particulières”, “Retour à Salem”), tutti pubblicati in Italia da Bollati Boringhieri (l’ultimo, tempestivamente tradotto da Monica Capuani con il titolo “Ritorno a Salem”, è appena uscito), possiamo accostarci ai suoi libri come a opere a pieno diritto letterarie e non più e non tanto come a esempi di memorialistica eccentrica.

Hélène Grimaud racconta di sé: si mette in scena, con i suoi dubbi, le sue stanchezze, le sue esaltazioni, i suoi convincimenti. Se nel primo libro, “Variazioni selvagge” (Laffont 2003, Bollati Boringhieri 2006, trad. di Patrizia Farese), aveva raccontato la sua formazione (nella prima parte, la più efficace, omaggio al bildungsroman contaminato con elementi saggistici) e rafforzato la sua personale mitologia (un’infanzia in cui il cliché dell’enfant prodige si mescola con quello dell’enfant sauvage più che terrible, la definizione di un repertorio, di uno stile, il personaggio di artista-che-ama-e-alleva-i-lupi, quell’idea ricorrente di predestinazione), nel secondo, del 2005, “Lezioni private” (sempre Laffont e sempre Bollati Boringhieri, 2007), la protagonista assoluta, colta da subito in una fase critica, trova nel viaggio la soluzione terapeutica (e narrativa) per uscire dalla crisi e ritrovarsi.

(continua…)

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venerdì, 25 giugno 2010

DIBATTITO SU LETTERATURA E MUSICA

imageQuesto post si è trasformato, nel tempo, in uno spazio permanente dedicato al dibattito sul rapporto tra letteratura e musica.
Si discuterà periodicamente su alcuni libri che rientrano nella tematica, coinvolgendo – laddove possibile – i rispettivi autori.
Ringrazio lo scrittore Claudio Morandini (consiglio la lettura di questa intervista sul blog “La poesia e lo spirito”), che mi darà una mano ad animare e moderare la discussione.
Massimo Maugeri
(11 ottobre 2010)

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POST ORIGINARIO DEL 25 GIUGNO 2010

letteratura-e-musicaVorrei avviare un nuovo e (spero) interessante dibattito su un tema particolare: il rapporto tra letteratura e musica…

Un rapporto che – a mio avviso – ha origini antichissime: basti pensare alla “musicalità” dei versi poetici o di certi testi narrativi (perché anche un romanzo deve “suonare” nella testa del lettore). Ma non mi riferisco solo a questo.
Mi piacerebbe poter prendere in considerazione, per poi analizzarli, i romanzi che si sono occupati di musica (e viceversa)… che hanno fatto vivere la musica all’interno delle loro pagine.

Di conseguenza, mi pongo (e vi pongo) alcune domande…

Che cosa hanno in comune letteratura e musica?
In cosa si differenziano nettamente?

In quali occasioni la musica è “entrata” nella letteratura (con particolare riferimento alla narrativa)?
Quali titoli di romanzi vi vengono in mente?

E in quali occasioni, viceversa, la musica ha “rappresentato” la letteratura?

Quale romanzo eleggereste come il più rappresentativo del rapporto tra musica e letteratura?

Per partecipare alla discussione inviterò alcuni autori che hanno scritto, di recente, romanzi che in un modo o nell’altro hanno a che fare con la musica.

Primi ospiti di questo forum (che spero possa diventare “permanente”) sono: Marta Morazzoni, Claudio Morandini e Achille Maccapani. Discuteremo dei loro nuovi libri e degli argomenti proposti.
Di seguito, le schede sui suddetti libri… e il contributo di Nicolò Carnimeo sul romanzo della Morazzoni.
Claudio Morandini mi darà una mano ad animare il post.

Mi raccomando… aspetto i vostri contributi.

Massimo Maugeri
(continua…)

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