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Archivio di aprile 2011

lunedì, 18 aprile 2011

LIBERTÀ di Jonathan Franzen

La parola “libertà” è insita nel Dna e nell’immaginario collettivo degli Stati Uniti d’America. Basti pensare a uno dei più noti simboli nazionali americani e, per certi versi, del mondo intero: La libertà che illumina il mondo (in inglese, Liberty enlightening the world), ovvero la “Statua della Libertà”.
Ed è proprio sul concetto di libertà che vorrei ragionare, partendo dalla formulazione di alcune domande.

Cosa deve intendersi esattamente per libertà?

Il concetto di libertà è uguale ovunque e in ogni tempo?

Essere liberi, equivale a essere felici?

Esiste una relazione tra libertà e responsabilità?

Il concetto di libertà coincide più con un’esigenza realizzabile o con un’utopia a cui tendere?

È più punto d’arrivo o punto di partenza?

Quali sono i suoi pro e contro?

Fino a che punto la libertà può essere circoscrivibile, comprimibile… e continuare a ritenersi tale?

E ancora… Esistono schiavitù mascherate da libertà? Fino a che punto ci si può ritenere davvero liberi?

Sono queste le domande del post (a cui vi invito a rispondere).
L’input ce lo fornisce il nuovo romanzo dello scrittore americano Jonathan Franzen, intitolato – appunto – “Libertà” (Einaudi, 2011, traduzione di Silvia Pareschi).
Vi propongo il seguente brano estrapolato dal libro, a supporto del tema oggetto della discussione.

“La gente è venuta in questo Paese o per il denaro o per la libertà. Se non hai denaro, ti aggrappi ancora più furiosamente alle tue libertà. Anche se il fumo ti uccide, anche se non hai i mezzi per mantenere i tuoi figli, anche se i tuoi figli vengono ammazzati da maniaci armati di fucile. Puoi essere povero, ma l’unica cosa che nessuno ti può togliere è la libertà di rovinarti la vita nel modo che preferisci.”

Quella che segue, invece, è la scheda del romanzo (la riporto che capire meglio di cosa stiamo parlando). Walter e Patty erano arrivati a Ramsey Hill come i giovani pionieri di una nuova borghesia urbana: colti, educati, progressisti, benestanti e adeguatamente simpatici. Fuggivano dalla generazione dei padri e dai loro quartieri residenziali, dalle nevrosi e dalle scelte sbagliate in mezzo a cui erano cresciuti: Ramsey Hill (pur con certe residue sacche di resistenza rappresentate, ai loro occhi, dai vicini poveri, volgari e conservatori) era per i Berglund una frontiera da colonizzare, la possibilità di rinnovare quel mito dell’America come terra di libertà “dove un figlio poteva ancora sentirsi speciale”. Avevano dimenticato però che “niente disturba questa sensazione quanto la presenza di altri esseri umani che si sentono speciali”. E infatti qualcosa dev’essere andato storto se, dopo qualche anno, scopriamo che Joey, il figlio sedicenne, è andato a vivere con la sua ragazza a casa degli odiati vicini, Patty è un po’ troppo spesso in compagnia di Richard Katz, amico di infanzia del marito e musicista rock, mentre Walter, il timido e gentile devoto della raccolta differenziata e del cibo a impatto zero, viene bollato dai giornali come “arrogante, tirannico ed eticamente compromesso”. Siamo negli anni Duemila, anni in cui negli Stati Uniti (e non solo…) la libertà è stata come non mai il campo di battaglia e la posta in gioco di uno scontro il cui fronte attraversa tanto il dibattito pubblico quanto le vite delle famiglie”.

Vi invito a discutere del concetto di libertà, dunque; ma anche ad approfondire la conoscenza di Jonathan Franzen e di questo suo nuovo romanzo, che è stato da più parti additato come il caso letterario del decennio.
Lo sto iniziando a leggere solo adesso, per cui – per il momento – non posso esprimere un parere. Non ho alcuna difficoltà, però, nel dire che il precedente romanzo (“Le correzioni”) mi ha entusiasmato.
In America, a Franzen, è stato offerto il trono riservato ai grandissimi. Come ci ha ricordato Antonio Monda (sulle pagine di Repubblica), Il Time ha dedicato a Franzen la copertina (privilegio riservato in passato solo ad autori del calibro di Joyce, Nabokov, Updike, Salinger e Toni Morrison) con il titolo “Great American Novelist”; il New York Magazine ha parlato dell’”opera di un genio”, e il New York Times Book Review lo ha definito “un capolavoro”. Persino la temutissima Michiko Kakutani – ci ricorda Monda – lo ha definito “indimenticabile”, e Obama lo ha indicato come propria lettura estiva. L’unica eccezione autorevole è rappresentata da Harold Bloom, che ha parlato di un autore sopravvalutato dalla critica.
Capolavoro assoluto, dunque?
In Italia non sono mancate le lodi, ma nemmeno le perplessità. Nel corso del dibattito vi segnalerò – per par condicio – le opinioni positive del già citato Antonio Monda (la Repubblica), Paolo Giordano (Corriere della Sera), Masolino D’Amico (La Stampa – Tuttolibri); e quelle negative di Tim Parks (“Domenica” del Sole24Ore), Nicola Lagioia (“Domenica” del Sole24Ore), Gian Paolo Serino (“Il Giornale”).

Francesco Pacifico invece (“Domenica” del Sole24Ore) ha cercato di trovare un punto di equilibrio tra sostenitori e detrattori.

Sul concetto di libertà segnalerò inoltre il pezzo di Sandra Bardotti pubblicato su Wuz.

Coinvolgerò nella discussione anche la citata Silvia Pareschi (la brava traduttrice di Franzen), che interverrà da San Francisco.

Qui di seguito, a fine post, trovate un video: è un estratto della chiacchierata tra Jonathan Franzen e Fabio Fazio a “Che tempo che fa”.

A voi, cari amici, il compito di riempire questa pagina di ulteriori contenuti con le vostre risposte, le vostre opinioni e contributi di vario genere.
Grazie in anticipo.

Massimo Maugeri

Pubblicato in Senza categoria   173 commenti »

lunedì, 4 aprile 2011

APOCALISSE A DOMICILIO, di Matteo B. Bianchi

Scrittore di libri cult, firma di riviste di tendenza, autore radiofonico e televisivo di successo (da Dispenser su Radio2 a Victor Victoria su La7), Matteo B. Bianchi è considerato uno dei talenti più brillanti e versatili della sua generazione.
Il suo nuovo romanzo si intitola “Apocalisse a domicilio” (Marsilio). Una storia coinvolgente e intensa dove Bianchi si misura con uno degli interrogativi più difficili che si può porre un essere umano: come mi comporterei se dovessi conoscere in anticipo la data della mia morte?
Il protagonista di questa storia è un giovane autore televisivo milanese, omosessuale e single, immerso nella routine massacrante del mondo dello spettacolo. A un certo punto riceve la predizione che nessuno vorrebbe mai: una sensitiva – tramite il fratello – gli pronostica due mesi di vita.
Credere, o non credere?
Facendo appello alla razionalità, sarebbe opportuno non dare peso a ipotesi di predizione del futuro così nefaste. Il problema, però, è che questa sensitiva ha raccontato cose talmente personali della vita del fratello, talmente “segrete”… che è impossibile che qualcun altro potesse esserne a conoscenza. Insomma, pare che davvero questa giovane donna abbia il dono maledetto della predizione.
Ecco che allora il tarlo del dubbio comincia a rodere. E se fosse tutto vero? Del resto, che interessi avrebbe la ragazza a pre-dire una cosa così terribile?
Da qui, il passaggio alla domanda successiva: se questa predizione fosse vera, cosa potrei fare nel tempo che mi resta per dare un senso alla mia esistenza?
Il protagonista della storia decide di intraprendere un viaggio sentimentale a ritroso tra Roma, la Sardegna, San Francisco, nel tentativo di ritrovare i grandi amori del suo passato… quasi a conferma del fatto che amore e morte sono legate a doppio filo (o che la ricerca del rapporto fisico ed emozionale possano fungere, in qualche modo, da barriera nei confronti della fine).
Matteo B. Bianchi è bravissimo a farci entrare nella vita di questo personaggio, a farci affondare nei sui dubbi e nelle sue insicurezze, a sorprenderci con la placidità mascherata di quest’uomo che non intende sottomettersi all’ansia e all’angoscia… che invece sembrano colpire di più il fratello (il quale, in certo senso, si sente responsabile della predizione). Il risultato è questa storia scritta con abilità e resa al lettore dal punto di vista dei tre personaggi principali: il protagonista, che si vede recapitare l’apocalisse a domicilio (qui Bianchi usa la tecnica narrativa della “seconda persona”); il fratello del protagonista, che ci viene presentato con una narrazione in terza persona; la sensitiva, che racconta l’esperienza del suo “dono” in prima persona.
Tre voci che si alternano in un crescendo di emozioni che costringono il lettore a rimanere attaccato alla pagina fino alle ultime righe, per scoprire se la fine del libro coincide con la fine del protagonista… oppure no.

Vorrei discutere di questo libro insieme a voi e con la partecipazione al dibattito dello stesso autore: Matteo B. Bianchi.

Come sempre, pongo alcune domande finalizzate a avviare la discussione (domande che, per la verità, implicano risposte difficili… vi chiedo un grande sforzo, lo so).

- Come reagireste se qualcuno vi dovesse predire l’imminente data della vostra morte? Quali decisioni prendereste?

- Se in teoria si potesse conoscere la data della propria morte, sarebbe più una “condanna” o una “opportunità”? Quali sarebbero i pro e i contro?

- Il protagonista del libro reagisce tuffandosi nel proprio passato, ricucendo legami affettivi sfilacciati, chiedendo agli ex partner della sua vita di concedergli un ultimo atto di amore fisico.
A vostro avviso, esiste una relazione tra l’esigenza di amore fisico e la prospettiva della morte?

Vi ringrazio in anticipo per la partecipazione.
Massimo Maugeri

Pubblicato in EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, SEGNALAZIONI E RECENSIONI   136 commenti »

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