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Archivio di novembre 2007

mercoledì, 28 novembre 2007

CHAVEZ E LA SOCIETA’ POLITICA DELLO SPETTACOLO

Hugo ChavezConoscete Hugo Chávez ?

Il signore nella foto. Proprio lui.

Vi fornisco qualche informazione di fonte Wikipedia Italia.

Hugo Rafael Chávez Frías (Sabaneta28 luglio 1954) è un politico venezuelano. È l’attuale presidente del Venezuela.

Come leader della Rivoluzione Bolívariana Chávez promuove la sua visione di socialismo democratico, integrazione dell’America Latina e anti-imperialismo. È inoltre un fervente critico della globalizzazione neoliberista e della politica estera statunitense.

Ha fondato il Movimento Quinta Repubblica dopo aver organizzato, nel 1992, un fallito colpo di stato contro l’allora presidente Carlos Andrés Pérez. Chávez è stato eletto presidente nel 1998 grazie alle sue promesse di aiuto per la maggioranza povera della popolazione del Venezuela ed è stato rieletto nel 2000 e nel 2006. In patria Chávez ha lanciato le Missioni Bolívariane, i cui obiettivi sono quelli di combattere le malattie, l’analfabetismo, la malnutrizione, la povertà e gli altri mali sociali. In politica estera si è mosso contro il Washington Consensus sostenendo modelli di sviluppo economico alternativi, richiedendo la cooperazione dei paesi più poveri del mondo, specialmente di quelli sudamericani.

(Questo è il primo paragrafo di quanto trovate scritto su Wikipedia Italia alla voce Hugo Chávez ).

È stato appena pubblicato un libro molto interessante dedicato a Chávez. Si Intitola “Hugo Chavez, il caudillo pop” (Marsilio, 2007, euro 14). Gli autori sono Luca Mastrantonio e Rossana Miranda.

Di seguito potete leggere alcuni stralci della loro premessa. E, successivamente, un passaggio della prefazione di Gian Antonio Stella.

Poi vi invito a partecipare a un dibattito sia sulla figura di Chavez, sia sui seguenti temi in generale:

- La spettacolarizzazione della politica e la società politica dello spettacolo in Italia e nel mondo

- La relazione tra politica e nuovi medium di massa

I due autori parteciperanno al dibattito e sono a vostra disposizione per eventuali domande.

 Premessa

Questo libro, come Hugo Chávez ama dire di sé, citando Ortega y Gasset, nasce da circostanze. E dalla necessità di dare una risposta ovvero un senso compiuto alla domanda su chi sia Chávez. Le circostanze sono l’incontro, casuale e poi fatale, tra due punti di vista complementari: un paese del vecchio continente e un paese di ciò che sembrava un nuovo mondo.

Da parte italiana c’è curiosità e interesse per un politico affascinante e inquietante, che dopo un militaresco colpo di stato fallito, in un’ascesa mediatica e globale senza pari, è passato dal capitalismo umano a un socialismo nazionale, strabicamente focalizzato su politiche formalmente sovietiche e miopi speculazioni di rendita similfondiaria. Nonostante i celebri anatemi di Chávez contro “el diablo” Bush, infatti, continuano i lucrosi  guadagni con gli Usa e le sue multinazionali; allo stesso tempo, la ridistribuzione della ricchezza, capace di intaccare e tamponare le emergenze sociali attraverso programmi di sussidiarietà, non presenta reali prospettive di crescita per il futuro. Rimane la sfida lanciata al modello neo-liberista nordamericano per un governo socialmente più sensibile e sostenibile. Per questo Chávez è diventato la nuova bandiera dell’altro-mondismo di sinistra – e anche a destra, con il suo carisma e la retorica populista, crea un piacevole effetto di déjà-vu –, il figlio “putativo” di Castro, adottato soprattutto attraverso i mezzi di comunicazione, dove i due appaiono sempre assieme, con Chávez che è, di fatto, il portavoce del pensiero e delle condizioni di salute di Castro.

Da parte venezuelana, oltre a un bisogno naturale di analizzare e comunicare all’esterno un fenomeno di rivoluzione epocale come il “chavismo”, positivo sul piano sociale ma negativo su quello della democrazia, c’è lo stupore per l’indulgenza con cui Chávez è visto in Italia e in Europa (oltre che in America del Nord) soprattutto a sinistra. Vengono “condonati” gli aspetti democraticamente imperfetti del Venezuela per opportunismo ideologico di matrice storico-materialista. Oppure vengono giustificati con il fatto che il Venezuela è pur sempre una repubblica sudamericana, con un malcelato razzismo e uno snobismo geo-politico che animano soprattutto i commenti sprezzanti della destra liberista.

Questo libro nasce per raccontare senza pregiudizi il fenomeno Chávez al pubblico italiano. Presso cui viene spesso liquidato come campione del folklore socialista e sudamericano o idolatrato come nuova bandiera della rivoluzione sociale, tradita dal vecchio continente. Un pubblico che troverà probabilmente inaspettate consonanze con figure storiche italiane del passato prossimo e del presente storico, dal precursore neo-bolivariano Mussolini al collega post-moderno Berlusconi. Ovviamente sotto le mentite spoglie del rivoluzionario che lotta per migliorare il mondo.

Il carisma di Chávez, la capacità di usare i media, la sua sovra-esposizione, hanno trasformato un confuso ma scaltro golpista in una vera icona pop contemporanea.

La faccia di Chávez si vede sulle magliette simili a quelle che un tempo mostravano Che Guevara o il subcomandante Marcos. (…)

Attraverso Chávez si è passati dall’estremo dell’apatia per la politica alla vera e propria ossessione.Crediamo che Chávez sia la risposta sbagliata, perché avventata e parziale, provvisoria e dunque incompleta, a una domanda giusta, esatta, che egli sa interpretare fin troppo bene, drammatizzandola all’eccesso.

La domanda, rivolta ai governi di tutto il mondo e in particolare del sud, è quella di un’attenzione sociale che metta in discussione certe storture dell’economia di libero mercato, come è avvenuto in Argentina, per esempio.

Ma la risposta, sbagliata, è rispolverare un modello che assomiglia allo stato-nazione del primo Novecento europeo, come retorica, e come impianto economico ricorda persino i modelli venezuelani precedenti a quello di Chávez. (…)-

Chavez gode di una popolarità sincera tra i venezuelani, grazie al suo carisma, all’impegno sociale e all’efficace retorica. È un personaggio di indubbio fascino, con una storia mitizzata alle spalle, capace di affiancare alle grandi doti oratorie una smisurata capacità di sfruttare i mezzi di comunicazione di massa. Cita Che Guevara e Ortega y Gasset e con il suo “socialismo magico” sembra uscito da un romanzo di Gabriel Garcia Marquez. È il primo politico della società globale dello spettacolo a piacere a sinistra, capace di bucare lo schermo e di finire sulle principali copertine, anche glamour, del mondo. Un ritratto a tutto tondo...

Ed ecco qualche passaggio della Prefazione di Gian Antonio Stella.

(…)

Strepitoso. Per questo va dato il benvenuto al libro di Rossana Miranda e Luca Mastrantonio. Perché aiuta a capire meglio, senza paraocchi ideologici, siano essi agiografici o demonizzatori, uno strano impasto d’uomo. Ambiguo com’è ambigua María Lionza, l’amatissima “dea” che cavalca nuda un tapiro e che è sì pagana ma anche un po’ cristiana e un po’ india e un po’ spagnola e un po’ tutto insieme. Aiuta a leggere un fenomeno politico che, per quanto il Venezuela sia al di là dell’oceano, ci interessa da vicino. Perché attraverso Chávez, le sue straordinarie doti di affabulatore, le sue collere studiate a tavolino, il suo rapporto diretto e plebiscitario con “el pueblo”, la sua spregiudicatezza nelle alleanze internazionali, la sua maschera comica, la sua capacità di toccare il cuore di certi pezzi della sinistra europea, la sua passione per la tivù, possiamo capire meglio anche noi stessi. La nostra sinistra. La nostra destra. La nostra politica sempre più dominata dalla televisione e da quello che avviene “in” televisione.

Resta una domanda che per l’intellettuale di sinistra Alexis Márquez dovrebbero porsi i nostri intellettuali “da bar notturno”: possono bastare certi lodevolissimi rattoppi populisti a fare di Chávez l’idolo della sinistra antagonista? può bastare uno slogan vergato sulle bidonville come «la rivoluzione avanza collina dopo collina » a rendere accettabili le forzature istituzionali e in qualche modo secondario l’odio che il colonnello semina nel paese fino al punto, come ha scritto Mario Vargas Llosa, di «raggrinzire la vita sociale fino a estremi ormai contigui alla guerra civile»? può bastare la formale libertà di stampa a occultare il carattere di un regime fondato su un “messianesimo” che grazie al rapporto diretto con le plebi non ha bisogno d’azzerare l’opposizione?

Non fosse molto preoccupato, Teodoro Petkoff, un ex guerrigliero che dopo una radicale autocritica sulla violenza è rimasto saldamente a sinistra fino a diventare prima ministro e oggi punto di riferimento dell’ammaccata opposizione democratica, si farebbe una risata:«Un pezzo della sinistra europea rimasta sotto le macerie della catastrofe sovietica e orfana delle illusioni vietnamite e castriste, quando trova nel Terzo Mondo uno che spara sugli americani ha un orgasmo. Tutto il senso di impotenza di cui soffrono nel dover prendere atto che il loro sogno romantico di rivoluzionari è fallito lo sfogano con questi innamoramenti. Certo, ammettono pure che non sta bene tentare un golpe o far le leggi senza parlamento, ma insomma, via, è così pittorescamente tropical!»
GIAN ANTONIO STELLA 

——————————–

Rossana Miranda (Caracas, 1982), laureata all’Universidad central de Venezuela, ha lavorato presso il quotidiano «El Nacional» e la televisione pan-sudamericana Telesur. È divisa tra il Venezuela paterno, per il quale scrive su riviste e quotidiani, e l’Italia materna, dove frequenta un master in Sociologia alla Sapienza di Roma e lavora per il mensile «Formiche». Spera di essere una piccola prova vivente che per i venezuelani è irrinunciabile il diritto alla critica.

-
Luca Mastrantonio
(Milano, 1979), laureato in Lettere alla Sapienza di Roma, è responsabile cultura e spettacoli del quotidiano «il Riformista». Collabora a programmi di radio, riviste culturali e al settimanale «A». Di Chávez pensa che se fosse un fascista degli anni venti, o un venezuelano dei barrios di oggi, lo voterebbe senza dubbio. Non essendo né l’uno né l’altro, lo guarda con affascinato sospetto.

Pubblicato in EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, SEGNALAZIONI E RECENSIONI   117 commenti »

giovedì, 22 novembre 2007

CATENA FIORELLO… E IO: UN ATTO DI ESPIAZIONE

Quello che sto per scrivere l’avevo già anticipato (o meglio… accennato) in questa intervista rilasciata a Gianfranco Franchi per Lankelot.

Catena FiorelloPer certi versi questo può essere considerato un post di… “riparazione” a un torto inflitto a Catena Fiorello.

Vi racconto.

Il 21 settembre 2006 il Magazine del Corriere della Sera pubblicò un articolo/intervista sulla Fiorello firmato da Mirella Serri. L’occasione era l’imminente uscita del romanzo Picciridda.

Lessi quell’intervista è mi venne il ghiribizzo di scrivere questo post. Un pezzo un po’ sarcastico dal titolo: “Ma la letteratura ha bisogno di Catene?”

All’epoca il blog era appena nato. Per cui pubblicai l’articolo con una certa nonchalance convinto che nessuno l’avrebbe letto a parte i pochi amici a cui l’avrei inviato per e-mail.

Invece…

Con sorpresa comincio a ricevere commenti da parte di sconosciuti. Tra questi qualcuno mi critica in maniera molto diretta, dicendo: perché parla male di un libro se, come pare di capire, non l’ha ancora letto? Io mi “difendo” sostenendo che il mio era un commento non sul libro, ma sull’intervista pubblicata su Magazine; e che il libro non l’avevo ancora letto per il semplice fatto che non era ancora stato distribuito.

Dopo qualche giorno il libro comincia a comparire nelle librerie. Mi accorgo che su una delle bandelle laterali c’è l’indirizzo di posta elettronica di Catena Fiorello.

Decido di scriverle.

Invio alla Fiorello una e-mail in cui spiego che in quel mio post non c’era cattiveria. E che si trattava solo di una piccola presa in giro. Dopo un paio di giorni ricevo la risposta. Vi riporto uno stralcio di quella mail: “Non sei stato mica cattivo! Ho letto, ho letto… ma io sono del Leone, in ogni caso non mi abbatteresti! Comunque grazie per la sensibilità! W Catania… io l’ adoro. Leggi il libro e poi mi dirai…”

Insomma… Catena mi spiazza un po’ con questa sua risposta così amichevole. Comunque… decido di dare un’occhiata al libro… con i miei tempi. Dopo qualche settimana inizio a leggere Picciridda. E lo faccio, dico la verità, mantenendo immutati i miei pregiudizi originari. Inizio a leggere e scopro che il libro, be’… ha delle qualità. Continuo la lettura. Finisco il libro. E devo ammettere che mi piace. Insomma, mi ricredo. Così decido di scrivere una recensione (attualmente potete trovarla in rete qui e qui).

Dal quel momento è nata con Catena una bella amicizia.

Io stesso ho avuto il piacere di presentare il suo libro in più di una occasione. E insieme abbiamo avuto modo di raccontare questo aneddoto che (soprattutto ora, a distanza di un anno) trovo piuttosto divertente. Ciò non toglie che, come promesso all’interessata, dovevo compiere quest’atto di pubblica espiazione proprio qui a Letteratitudine. Cosa che faccio adesso scusandomi pubblicamente con Catena per essermi lasciato andare al ghiribizzo di cui sopra.

È trascorso un po’ di tempo, è vero, ma – come si dice – … meglio tardi che mai.

Colgo l’occasione, però, per presentare questo libro in maniera originale.

Vi propongo tre video (tutti e tre datati dicembre 2006).

Il primo è tratto in parte dalla trasmissione “Insieme” di Antenna Sicilia, in parte da una presentazione del libro presso la libreria Cavallotto di Catania.

Catena e io illustriamo l’aneddoto che vi ho testé raccontato.

(Qui sotto il primo video)

Gli altri due video sono tratti sempre dalla presentazione del libro presso la libreria Cavallotto. In uno (quello sotto) avrete modo di vedere e ascoltare l’attrice Lucia Sardo che legge alcune pagine del libro (brava Lucia!).

Nel secondo potrete assistere a una delle solite divertentissime performance di Catena Fiorello. Il titolo potrebbe essere: Catena Fiorello Show.

Detto ciò vi invito a discutere su questo libro, se lo avete letto (lo farò io stesso nel corso dei commenti). Se non lo avete letto… leggetelo. Peraltro è appena uscita l’edizione economica (euro 6,90).

E soprattutto vi invito a dibattere su quello che è il tema principale del libro: l’emigrazione. L’emigrazione, ieri e oggi. Un tema attualissimo. Ne parliamo?

Massimo Maugeri

Pubblicato in SEGNALAZIONI E RECENSIONI   100 commenti »

lunedì, 19 novembre 2007

IN UNA LINGUA CHE NON SO PIU’ DIRE di Tea Ranno (recensione di Simona Lo Iacono)

Tea Ranno: “In una lingua che non so più dire”

(edizioni E/O, 2007, euro 17, pagg. 223).

Recensione di Simona Lo Iacono

Un libro sulla necessità del ritorno. Un viaggio a dorso di ricordi da nord a sud, dal futuro al passato, dalla terra ferma, arpionata alla riva, a un’isola galleggiante e senza sponde, naufragata tra le correnti. Dopo il maestoso esordio di “Cenere” (ed. e/o, 2006) Tea Ranno, scrittrice siciliana di razza e dal meraviglioso talento visionario, affonda la penna tra le maglie della nostalgia, dei solchi lasciati dalla memoria.

Andrea, magistrato e rampollo di una famiglia dell’alta borghesia siciliana, abita a Milano e non torna a casa da 42 anni. Non è una scelta. E non è neanche l’opposto. È come dev’essere, il fluire di una vita che si è innestata da sé su binari di comodità e buone amicizie, tessuta con l’ago fino di chi inanella, uno dopo l’altro, successi su successi. La moglie, una rampante avvocatessa milanese, si divide con disinvoltura tra amanti e schermaglie da tribunale, ostentando un’eleganza sobria e ricercata: tailleur che la fasciano ai fianchi e foulard di Gucci annodati con civetteria. I figli, ormai universitari e abituati alle sue assenze, gli scivolano accanto senza parole, in silenzi carichi di complicità con la madre. È quello che si direbbe un uomo arrivato, Andrea. Un uomo fortunato, anche, forse appena appena fuori dai ritmi assordanti di una Milano in cui fa fatica a riconoscersi, o forse solo distratto, assorbito dalle solennità un po’ demodé delle aule giudiziarie, dal passo che ticchetta tra corridoi intricati in cui toghe e nocche da cassazionista frusciano come fossero seta.

Eppure. Voci ancora lo abitano. E volti. Balbuzie di un nonno amato e ostinatissimo, impegnato in fittizie battaglie napoleoniche colle quali crede di cambiare il corso della storia. E poi paesaggi ammantati di fasti, sole e scogli come anime di fuoco, sigilli di una terra calda, dura, arida di inverni. Ed ecco allora venir fuori da una – impensabile – piega della mente la casa padronale, stanze dentro stanze orpellate di salotti retrò in cui risuonano voci di bambini, latrati di cani, lievitare di amori. Resti e resti di un passato che è dannazione e incantamento, una malìa suscitata all’improvviso dalle parole di una amante che non crede alla facciata di uomo soddisfatto e inconsapevolmente dà il via al fiume torto della memoria. Ma da quel momento è difficile dire basta: strappi del cuore, annaspi di moribondo. Il viaggio è già cominciato. Nel sud. Nel tempo. Dritto a lei, all’immagine di una donna, al suo spettro di compagna fedele sovrapposta a ogni altro corpo. Teresa. Teresa. Teresa. Per Andrea è nome e invocazione, sacra unzione di eternità, maritaggio fantasioso di destini. Teresa fumigante di sogni, di letture, di studi. Teresa accesa da abiti neri in cui spicca come corallo. Teresa dei baci non dati e degli addii. Potesse disegnarla ne farebbe una musa ispiratrice e paziente che presenzia a ogni sua intemperanza. Fosse fuoco ne farebbe una scintilla barbagliante nello scuro o una stella incauta e liquefatta. Fosse mattino ne farebbe una coltre da spostare con lentezza, fosse mare una sirena, fosse aria un fiato che riscalda, una voce che rimanda.

E se quella voce, poi, avesse vita e volontà propria, flutti di farfalla o ali di poesia, Andrea è sicuro che gli parlerebbe, che lo avvertirebbe. Che gli direbbe: – brutta bestia, Andrea, la nostalgia. Brutta bestia. Ti prende coi suoi artigli quando meno te l’aspetti, rispolvera ricordi rimossi, ombre dimenticate, solchi fondi lasciati sulla sabbia che una risacca improvvisa non cancella.

Brutta bestia. E poi. Quel dubbio gusto del tempo. Quel farti credere che non sia trascorso, mentre decenni ti sono scivolati addosso, feroci, impietosi, restituendoti il riflesso di un viso rigato, bianco. Ma il gioco s’è innestato colla prima voce che è venuta a visitarti, con l’odore di un fumastro di farina o col guizzare di pesci che solcano mari antichi, abitati da viandanti impastati di parlate straniere. Basta niente e sei lì, sulle rive di un paese che immaginavi morto e che ti balza innanzi senza spaesamento, senza lentezza. Ma se cerchi un fantasma credendolo reale, Andrea, aspetta. Fermati sul ciglio di una strada, chiedi a qualcuno che sappia dirti dove andare. Ancora una volta, aspetta. Vedi, alle volte è meglio non voltarsi indietro. È meglio fingere che il passato non sia già trascorso. Meglio che scoprirlo diverso, senza nome. Senza un solo alito che possa farti credere che ti è appartenuto.

Simona Lo Iacono

____________________________________________

AGGIORNAMENTO del 21 novembre 2007

Brano tratto da IN UNALINGUA CHE NON SO PIU DIRE di Tea Ranno. Edizioni E/O

-

Capitolo Ventunesimo (pp. 189-190)

-

E se adesso, per un prodigio, ci fosse concesso di riavvolgere il tempo e tornare al giorno – il quindici del mese di luglio del 1959, mercoledì, S. Bonaventura, giorno prima della festa della Madonna del Carmelo, in cui avrebbe suonato la banda, ci sarebbero stati i fuochi d’artificio, le corse col sacco, l’albero della cuccagna, e i devoti con lo scapolare sarebbero andati in processione per il paese, e si sarebbe riso e scherzato; e Teresa non ce l’avrebbe proprio fatta a ridere e scherzare, ad accogliere i cugini, a sopportare il peso di quella giornata impossibile da vivere – se ci fosse concesso di tornare a quel giorno, allora sì, anche noi ci precipiteremmo a dire:

Attenta, Teresa, attenta

non lasciarti tentare

non farti ingannare dal fumo che ti sembra sostanza e sostanza

invece non è

non aspettare di sentire parole che vorresti fossero dette e invece

dormono in gola a quarant’anni d’attesa.

Attenta, Teresa, attenta

non ascoltare le voci che ti promettono nella morte la pace.

Teresa,

le voci pazze non portano bene

neppure il mare le porta:

schizza e ribatte, torce le schiume ma non ti restituisce il ritorno

di chi non vuole tornare.

Attenta, invece, a queste nostre parole

che vengono da un altro tempo

che ti girano intorno, Teresa, qui sui binari, per dirti:

attenta,

alzati, la stazione è a un passo, salta sul treno e vai

vedrai, ti aspetta e non lo sa, Teresa,

anche lui ti sta aspettando, e ogni volta che qualcuno suona alla

porta solleva di scatto la testa e chiede: «Chi è?»

e Felicia risponde: «La sua signora madre»,

oppure: «Un garzone»

oppure: «Il postino»

e quando dice: «Il postino» lui vola a vedere se tra le buste ce ne

sia una con su scritto Teresa,

e persino Felicia capisce che là, in quella Sicilia africana dalla

quale è venuto, c’è qualcuno, sicuro una donna, che gli ha mangiato

il cuore.

E quella donna sei tu, Teresa, alzati, su, ascolta…

Ma tu non senti, non parli, aspetti soltanto il treno: che si faccia

vicino, si sbrighi,

e stringi nella mano la madonna, i grani di quarzo

che ti facciano di sasso

intanto che il rombo s’avvicina.

Attenta, Teresa, attenta

non pensare che non verrà a cercarti.

Un giorno sì, verrà, ma solo per piangere,

un uomo tutto bianco, Teresa,

con le rughe negli occhi

e la bocca spaccata.

Attenta, Teresa,

attenta alle parole che vanno e vengono e sanno di sale

sanno di nulla se nulla è impietrarsi nel ricordo.

Teresa, attenta

al niente che ti gira intorno e non ha ragioni, Teresa, e affonda

nella memoria.

Attenta, Teresa,

ché gira e rigira ripeschi lo stesso tormento,

attenta al passato,

che non ti uccida, Teresa.

Attenta, Teresa,

al treno che viene e non lo vedi,

attenta allo stridore dei freni, al balzo, Teresa, che ti spezza e ti

frammenta.

Attenta, Teresa, attenta

al freddo che ti buca le ossa

alla cenere che ti colma la bocca

attenta

al buio che non ha voci, Teresa,

attenta.

«Scrivi che mi ami, Andrea, scrivi» implori, lì alla curva del

Cavaliere.

Ma nulla, solo un raschio di cicale.

E allora alzati, su, Teresa, alzati,

perché la terra non soffochi inutilmente il tuo fiato e l’ira non si

faccia resa.

Teresa, attenta

al solco che qualcuno va tracciando per te:

non metterci i piedi, Teresa, non camminarci dentro,

attenta alla bugia delle voci che ti promettono pace,

non hanno fondo, non hanno importanza.

Attenta al richiamo d’un diavolo che non vuole per te paradisi e

ti tormenta nel ricordo di quello che è stato

e ti pietrifica, Teresa,

come la moglie di Lot, che si voltò a guardare lo scempio di

Sodoma e per la pena e l’angoscia si sbiancò in una sola lacrima

di sale.

____________________________________________

EXTRAPOST

(Massimo Maugeri)

1. Un grandissimo ringraziamento agli amici di “Scritture&Pensieri”, inserto domenicale di libri del quotidiano “Il Corriere Nazionale” brillantemente curato da Stefania Nardini, per aver pubblicato un articolo su Letteratitudine all’interno del numero di domenica 11 ottobre. Vi riporto un passaggio:

Si chiama “Letteratitudine”, ed è un blog letterario d’autore di Kataweb/Gruppo L’Espresso, curato dallo scrittore siciliano Massimo Maugeri. Blog molto visitato e “partecipato”: nella maggior parte dei post (articoli) i commenti dei frequentatori superano il centinaio. Maugeri lo ha creato definendolo open-blog e coinvolgendo scrittori, lettori, librai, critici e giornalisti culturali: una community che tende ad allargarsi sempre più confrontandosi e dibattendo su libri e temi di natura letteraria e culturale.

2. Ricevo (da Sabrina Campolongo) e segnalo quanto segue.

C’è un bambino, che si chiama Gramos che ha undici anni e una malattia terribile e rara. Un bambino che vive in Kosovo, in una zona ancora militarizzata. Cliccando sul suo nome si può ascoltare tutta la sua storia e vedere il suo viso. Chi decide di aiutarlo può farlo attraverso un libro di fiabe, acquistabile a questo indirizzo https://www.lulu.com/content/1423738.

Le donazioni saranno gestite dall’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù.

Pubblicato in LETTERATURA È DIRITTO... È VITA (a cura di Simona Lo Iacono), SEGNALAZIONI E RECENSIONI   154 commenti »

venerdì, 9 novembre 2007

DUE LIBRI DA SALVARE

Vi propongo un gioco molto particolare. Un gioco di gruppo.

Chiamiamolo così: “Due libri da salvare”. È un gioco che a prima vista può sembrare stupido e banale, ma ho l’impressione che sia tutt’altro che stupido.

Immaginate una catastrofe immane destinata a colpire ineluttabilmente i libri. Qualcosa di peggio (molto peggio) di Fahrenheit 451. Immaginate che tutti i testi di narrativa pubblicati nel mondo tra l’Ottocento e il Novecento (due tra i secoli più prolifici) scompaiano nel nulla. Non è dato sapere il perché. Ma poco importa. Ciò che conta è che non si sarà più traccia dei suddetti libri. Nemmeno sui manuali e sulle enciclopedie di storia della letteratura. Addirittura ne verrà cancellato il ricordo… individuale e collettivo.

Un intero patrimonio dell’umanità destinato a perdersi per sempre.

Che disastro, vero?

Solo due libri di narrativa potranno essere salvati dall’oblio.

E qui entrate in gioco voi.

Avete un’enorme responsabilità: scegliere i due libri da salvare.

Non è facile scegliere. Ve ne rendete conto, no? Perché… capite bene che non si tratta semplicemente di nominare il vostro libro preferito. Anzi, il proprio gusto personale andrebbe messo da parte.

Qui si tratta di fare una scelta a beneficio dell’umanità tutta.

Pensate a due libri di narrativa (uno per l’Ottocento, uno per il Novecento) che possano ergersi a testamento degli uomini e delle donne che hanno vissuto in quei secoli. Pensate a coloro che verranno dopo di noi. Che eredità libresca potremo lasciare?

Pensate a tutto ciò che riterrete opportuno. Poi procedete.

Il gioco si svolge nelle seguenti fasi:

  1. Fate la vostra scelta. Scegliete i due libri di narrativa sulla base di quanto ho scritto prima.
  2. Motivate la scelta.
  3. Cercate di convincere gli altri ad appoggiare la vostra scelta. Naturalmente anche voi potrete essere, a vostra volta, convinti a cambiare idea.
  4. Dividetevi in gruppi, in fazioni. La posta in gioco è altissima. Nominate dei rappresentanti, dei leader… se volete.
  5. La fase finale consiste nel seguente passo: la comunità di Letteratitudine, superati i quattro punti indicati sopra, dovrà stabilire in via definitiva quali sono i due libri da salvare.

Ecco perché parlavo di gioco di gruppo.

Il gioco si chiuderà domenica 18 novembre, data in cui mi sarà possibile pubblicare un nuovo post.

Buon divertimento!

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AGGIORNAMENTO del 18 novembre 2007

Dopo estenuanti confronti e un acceso dibattito che ha lasciato sul campo qualcosa come 640 commenti all’incirca, e soprattutto grazie all’impegno dell’intera comunità di Letteratitudine, e in particolare di qualche benemerito, tra cui l’esimio letterato umbro/sloveno Sergio Sozi, il sottoscritto, in qualità di gestore e curatore del blog, comunica i titoli dei due libri di narrativa – uno per l’Ottocento, l’altro per il Novecento – che sopravvivranno alla non meglio precisata apocalisse letteraria. Possano i posteri rendere merito all’impegno, dei singoli e della collettività, profuso senza lesinare rinunzie e immani sacrifici di natura personale.

I “due libri da salvare”, secondo la comunità di Letteratitudine sono:

- Per l’Ottocento:

I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij

————————————————–

- Per il Novecento:

I nostri antenati di Italo Calvino

* * *

Cliccando sui due titoli avrete la possibilità di accedere ad approfondimenti disponibili in rete.

Ancora una volta vi ringrazio di cuore per la partecipazione.

vostro Massimo Maugeri

Pubblicato in SONDAGGI, GIOCHI E SVAGHI   779 commenti »

martedì, 6 novembre 2007

LETTERA A ENZO BIAGI

Enzo BiagiLo sapete tutti. Enzo Biagi è morto stamani a 87 anni. Si è spenta la voce del decano dei giornalisti italiani, “una grande voce di libertà”, come ha commentato a caldo il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.

Un po’ tutte le personalità, dal mondo della politica a quello del giornalismo, hanno speso parole di cordoglio e riconoscenza (vi segnalo qui sotto i commenti più rilevanti).

Vi dico la verità. Ero indeciso se scrivere questo post. Non mancano certo contributi, commenti, editoriali sparsi per la rete. Qualcuno di voi, però, mi ha incitato a farlo. E io, come sapete, ascolto il più possibile le vostre “indicazioni”.

Di conseguenza considerate questo come il “vostro post”, non il mio.

Vi invito a scrivere una lettera (ma vanno bene anche brevi commenti).

Scrivetela come se Biagi potesse davvero leggerla.

Insomma, considerate questo spazio come una pagina bianca.

A voi il compito di riempirla. Se volete.

Vi ringrazio.

(Massimo Maugeri)

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Eugenio Scalari: “Una frase non basta per ricordare un giornalista della grandezza di Biagi. Domani affiderò alle colonne del giornale un lungo ricordo dell’amico scomparso”.

Romano Prodi: “Viene a mancare un grande maestro dell’informazione” e una “figura storica del giornalismo”, che “si è battuto sempre per la salvaguardia della libertà dell’informazione e del paese”.

Silvio Berlusconi: “Al di là delle vicende che ci hanno qualche volta diviso omaggio ad uno dei protagonisti del giornalismo italiano cui sono stato per lungo tempo legato da un rapporto di cordialità che nasceva dalla stima”.

Ferruccio De Bortoli: “È andato via un maestro che ci ha insegnato molto. (…) Con lui muore uno dei testimoni del 900″.

Paolo Mieli: “Dall’inizio degli anni ‘90, da quando cioè per la prima volta sono diventato direttore del Corriere della Sera mi ha sempre tenuto una mano sulla spalla, gli devo moltissimo, e quella mano mai, neanche una volta, me l’ha fatta pesare”.

Sergio Zavoli: “Molte cose della fine di Enzo assomigliano alla morte di Federico Fellini”.

Walter Veltroni: “Tutti gli italiani ricorderanno la sua voglia di libertà, la sua passione e il suo rigore nel raccontare la storia e i personaggi del nostro tempo recente. Enzo Biagi mancherà a tutti noi, anche perché insieme a lui siamo cresciuti, abbiamo capito fatti e storie, ci siamo emozionati e appassionati al nostro tempo”.

Gianni Riotta: “E’ stato il maestro della mia generazione di giornalisti, scriveva e andava in onda sempre per il pubblico. Diceva sempre no ai tromboni e ai titoli incomprensibili”.

Bruno Vespa: “Enzo Biagi è stato un grandissimo cronista, nel senso che mentre Montanelli ci ha insegnato la grande ritrattistica, Biagi è stato l’uomo dei particolari minuti, scavava forse meglio nell’animo, raccontava bene le piccole cose che riusciva a far diventare grandi”.

Dario Fo: “Quando uno come Enzo Biagi che amava tantissimo il proprio lavoro viene tolto di mezzo in quel modo così brutale che conosciamo, lo si ammazza a metà”. È un lutto nazionale. (…) Ho provato situazioni di cacciata diretta e so cosa significa essere di colpo senza un lavoro che, come nel caso di Biagi, è la tua vita. E non voglio aggiungere altro”.

Emanuele Filiberto di Savoia: “Biagi è stato un vero baluardo di civiltà e un difensore della libertà nella sua più pura essenza, nel costante rispetto di ogni opinione”.

Monsignor Ravasi: “Aveva un’anima spontaneamente cristiana (…). Nei suoi libri non mancava mai una dimensione spirituale”.

Daniele Luttazzi: “L’ho conosciuto qualche mese fa, in occasione dell’intervista che mi fece per il suo programma ‘RT’ e mi colpì moltissimo per un dato evidente del suo carattere: era un galantuomo, una persona integra”.

Pippo Baudo: “Enzo Biagi, una volta mi raccontò che suo padre, che era ferroviere, lo chiamava ’sovversivo’, perché si rendeva conto che suo figlio era molto avanti con le idee”.

Pier Ferdinando Casini: “Enzo Biagi è stato un grande opinion leader dei nostri tempi, interprete di un giornalismo libero e proprio per questo scomodo. Anche chi non lo ha amato deve oggi apprezzarlo e rendergli omaggio, come si deve a un grande che esce di scena”.

Massimo D’Alema: ”Perdiamo un grande giornalista, che, con il suo stile e il suo lavoro, ha segnato un’epoca di giornalismo sulla carta stampata e in televisione”.

Rosy Bindi: ”Con lui scompare un italiano perbene e un grande giornalista, testimone dei profondi cambiamenti dell’Italia contemporanea, che non è mai venuto meno alla ricerca della verità”.

Claudio Cappon: “Con la scomparsa di Enzo Biagi la Rai perde un grandissimo giornalista che ha dato lustro negli anni all’azienda e a tutto il giornalismo italiano”.

Claudio Petruccioli: “Enzo Biagi era straordinario, ma mentre per la carta stampata ci sono altri, pochi, pochissimi, che possono essere paragonati a Biagi, credo che per la televisione non ci sia nessuno come lui”.

Fausto Bertinotti: “Un protagonista della vita civile e culturale”, uno “dei più importanti giornalisti” del dopoguerra”.

Franco Marini: “Testimone prezioso e insieme protagonista di molti decenni di storia italiana, ha saputo osservare, raccontare e spiegare come forse nessun altro la realtà di un paese in continuo cambiamento”.

Giorgio Bocca: “Polemizzavamo spesso perché io prendevo in giro la sua retorica bolognese. Lui si arrabbiava. In politica però andavamo d’accordo, tutti e due di sinistra, siamo sempre stati dell’area socialisti e antiberlusconiani”.

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lunedì, 5 novembre 2007

PERCHÉ SCRIVERE (di Ferdinando Camon)

Ferdinando Camon (nella foto in basso) è uno degli scrittori italiani più autorevoli. Ha pubblicato parecchi libri e vinto diversi premi letterari. Credo sia uno dei pochi che può permettersi di spiegare “perché scrivere” in maniera categorica, senza mezzi termini. Lo ringrazio pubblicamente per avermi concesso questo testo che pubblico qui di seguito. Un testo che, a mio avviso, si presta benissimo per avviare un dibattito.

Massimo Maugeri

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camon-a-padova-2007.jpgCi sono molti lavori per i quali un’etica va imposta o conquistata: un rapporto morale con quello che si fa, per farlo con sincerità, con adesione, con verità. Ma c’è un lavoro che ha l’etica dentro di sé, e se non ce l’ha fallisce, non comincia neppure, crolla ad ogni passo. Questo lavoro è quello dello scrivere. Scrivere non è parlare. Parlare vuol dire reagire con le parole a un fatto che accade, mentre accade. Lo scrivere richiede tempo. Il parlare reagisce subito, per provocare nell’ascoltatore una reazione immediata, e di breve vitalità. La scrittura reagisce dopo, a passioni fredde, perché vuol restare a lungo, possibilmente (è il segreto desiderio di ogni scrittore) “per sempre”. Perciò chi parla bene non scrive bene, e viceversa. Sono due qualità distinte, una nega l’altra. Conosco uno scrittore che dice: “So perché scrivo: perché non sono il primo figlio”. Vera o falsa che sia quest’autointerpretazione, lui vuol dire che in casa la prima risposta era riservata al primo figlio, e lui veniva dopo, e in quel dopo maturava una riposta diversa, più calma, una risposta che aveva la stabilità della forma scritta. Non tutte le forme scritte hanno la stessa durata. Per esempio (io ne sono convinto), la storia dura meno della letteratura. E questo perché la letteratura (poniamo, il romanzo) dura a prescindere dalla verità che racconta, mentre la storia, appena si dimostra che non è vera, cade. Perciò c’è una responsabilità maggiore nello scrivere pagine che durano di più. La responsabilità può essere così alta, e lo sforzo etico di reggere l’impegno così logorante, che la scrittura genera la nevrosi, scrittura e nevrosi diventano la stessa cosa. Quasi mai lo scrittore scrive in pubblico, di solito si nasconde. O nasconde quel che scrive. Tolstoj lo nascondeva dentro gli stivali, dove chi lo spiava andava a frugare non appena lui era uscito. Leonardo lo nascondeva scrivendo da destra a sinistra. Come uno che oggi, usando il computer, mette una chiave d’accesso conosciuta a lui solo. Qui c’è il concetto che l’etica dello scrivere non è mai l’etica del vivere, del vivere in quel momento, ma è la rottura dell’etica imperante, e l’instaurazione di un’etica nuova. Perciò gli scrittori di denuncia sono inaccettabili dall’etica corrente, verranno accettati più tardi, quando si sarà instaurata l’etica che loro collaborano a introdurre. Bassani ha dovuto lasciare Ferrara, Moravia non lo potevan più vedere in Ciociaria, Pasolini è finito addirittura in carcere, Volponi s’e dimesso dal posto di lavoro. Noi viviamo dentro un sistema dove tutte le forze sono in equilibrio, morale-politica-religione-scuola-arte-letteratura-informazione, la luce che illumina i passi della nostra vita viene da tutto ciò che è gia stato espresso, e che crede di essere tutto l’esprimibile: colui che si mette a scrivere esprime qualcosa di nuovo, d’inatteso, e di temibile perché rompe gli equilibri preesistenti, sicché tutto quello che c’è lavora affinché il nuovo non sia detto. Non c’è mai bisogno di un nuovo scrittore. E’ lo scrittore che, scrivendo, deve creare il bisogno di sé. Lo scrittore riesce nella misura in cui crea questo bisogno. Da quel momento è un “classico”. Scrivendo, comunica un’etica, un’idea di bene, la “sua” idea di bene, che è insieme estetica e morale, che durerà più in quanto estetica che in quanto morale. Questo spiega perché raramente i grandi scrittori, quando cominciano, hanno successo. Perché non sono in sintonia col gusto corrente, il gusto della massa. Una volta Majakovskij si presentò a una conferenza, salì sul palco, cominciò a parlare e fu subito applaudito. “Mi applaudono – pensò con disgusto -, dunque non dico niente di nuovo”, e se n’andò. L’incrocio di un’opera col gusto della massa crea il fenomeno noto come best-seller: il best-seller è “sempre” un libro morto, perché è il risultato di un gusto all’apice della diffusione, quindi in fase morente. “Best-seller” e “libro reazionario” sono la stessa cosa. Perciò possono esistere dei manuali su come si scrive un best-seller, con l’indicazione di tutti gli ingredienti, e le relative percentuali: il best-seller deve corrispondere, non inventare, non sgarrare. E se un libro è reazionario, l’autore è reazionario. E se quell’autore, oltre ai libri, scrive articoli, saranno articoli reazionari. Un libro in sintonia col gusto presente è già un libro del passato. Perciò coloro che scelgono i libri da stampare, in una casa editrice, dovrebbero scegliere non libri che li confermano, ma libri che li smentiscono e li seppelliscono. Di tutti i lettori di manoscritti, quello che trovo piu interessante non è il mitico Bobi Bazlen, personaggio dello “Stadio di Wimbledon” di Del Giudice, che affrontava ogni nuovo testo sconosciuto ponendosi la domanda: “Risponde questo libro alla mia idea di libro?”, perché voleva vivere nei libri degli altri, che dunque dovevano scrivere perché lui vivesse; domandarsi se un libro c’è o non c’è ponendosi quella domanda, significa costringere il libro a confermarci; no, preferisco l’estetica applicata dall’umile cristiano-comunista Franco Fortini, che di fronte a un manoscritto poetico di Andrea Zanzotto ebbe l’onestà di scrivere suppergiù così: “Nulla di questo libro poetico corrisponde alla nostra idea di libro e di poesia; ma è un libro poetico; e dunque alla domanda: Stamparlo sì o no?, rispondo: Stamparlo subito, purtroppo”. In un certo senso, quella parte di cristianesimo-e-comunismo di Fortini che Fortini non riusciva a dire, era detto, in forme non fortiniane, nei versi di Zanzotto. Anche questa è una maniera per vivere oltre se stessi. Dunque, per scrivere. Questa unità tra vivere e scrivere fa sì che si scrive come si vive. La menzogna, l’insincerità nella scrittura è impossibile: il libro falso è quello che si chiama “un libro non-scritto”. Lo vedi subito, fin dalle prime righe. L’etica nella scrittura non può essere imposta, o è naturale o non c’è. Uno studioso francese ha scritto un libro sul rapporto tra scrivere e respirare: François Bernard Michel, “Le Souffle coupé, respirer et écrire (Gallimard), per collegare l’asma di Queneau ai suoi problemi esistenziali, la tosse di Paul Valéry ai suoi gridi, l’asma di Marcel Proust alla sua ricerca mortale del senso, lo spasmo alla laringe di Mallarmé alle sue pagine bianche… La conclusione di Michel è: si scrive come si respira. Allo stesso modo noi potremmo trovare una corrispondenza tra le scritture e le nevrosi di Dante, Petrarca, Tasso, Manzoni, e via via fino a Pasolini. Sono etici perché sono autentici, e viceversa. La malattia è il prezzo dell’eticità, il costo della scrittura. Allo stesso modo io credo che un critico fornito di buoni strumenti possa dire, leggendo una pagina di Parise, se l’ha scritta prima o dopo l’entrata in dialisi. L’entrata in dialisi corrispose ad un diverso scorrimento del sangue nelle vene, e il diverso scorrimento del sangue nelle vene gli dettava un diverso fluire delle parole nella frase, e una diversa cadenza della punteggiatura. Il senso è: scrivi come ti scorre il sangue. Poteva Parise scrivere diversamente? E’ come chiedergli di essere in dialisi senza essere in dialisi. La responsabilità sta nello scrivere per come si è. Rispondere della propria scrittura vuol dire rispondere di come si è. Nel mostrare come si è. Nel consegnare quello che sai, quello che sei. Questo è etico. Poiché si vuole scrivere “per sempre”, si risponde “per sempre” degli effetti della propria scrittura. Omero ne risponde ancor oggi. Consegnare quello che sei non significa consegnarsi ai contemporanei, che possono non accoglierti, bensì a coloro che verranno. Anche se non sai l’accoglienza che ti faranno. Lo scrittore che fa questo, è etico. Lo scrittore che non fa questo, non è che non sia etico, è che non è uno scrittore.

Ferdinando Camon

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giovedì, 1 novembre 2007

IL FONDAMENTALISTA RILUTTANTE (recensione di Andrea Di Consoli)

La barba lunga di Changez (il giovane protagonista del bellissimo romanzo del pakistano Mohsin Hamid, Il fondamentalista riluttante) è il segno corporeo di una ritrovata unità culturale e sentimentale, ché quanto più il “giannizzero” Changez (buoni studi a New York, folgorante carriera nel mondo della finanza, rapido “congelamento” delle proprie origini pakistane) avverte il crollo di un mondo (attraverso il crollo simbolico delle Twin Towers) tanto più sente come una rifioritura fisica. Tutti i suoi colleghi americani (trendy, cool, rampanti, ragazzi giusti al posto giusto) sentono, da quel crollo in poi, che Changez, il numero uno tra i nuovi assunti, getta a terra la maschera del supercapitalismo, e questo li irrita, li rende diffidenti, così come sono diffidenti, gli Stati Uniti d’America, con tutti coloro (e sono milioni) che manifestano, nei gesti, nelle parole, nel corpo, un’altra cultura, un’altra visione del mondo, ché gli States accettano solo le culture “altre” pittoresche, depotenziate culturalmente e politicamente: le culture depotenziate e innocue, cioè, che avallano il mito della Grande Madre, delle Grandi Opportunità, della Multietnicità. Il “giannizzero” Changez, nonostante la giovane età, sente il richiamo delle origini, della famiglia, della propria casa, e questo richiamo (nostalgico, culturale, corporeo) gli rende insopportabili le conseguenze belliche dell’attacco alle Twin Towers. Da quel momento in poi la sua barba cresce, il suo volto diventa sempre più tormentato e misterioso (diventa, cioè, ingovernabile e in consumabile: insopportabile, in definitiva). Tutto questo spinge Changez a estreme conseguenze, ovvero alla decisione di abbandonare il lavoro, gli Stati Uniti e di ritornare a Lahore. Tutto è complicato dalla dolorosa storia d’amore che lega (o non lega) Changez a Erica, una ragazza americana psicotica, convinta che l’ex fidanzato morto sia ancora vivo (o, in qualche modo, incarnato nell’immagine di Changez). In una delle sequenze più belle e sconvolgenti del romanzo, Changez riesce a far l’amore con lei solo inscenando una finzione struggente, ovvero fingendosi l’ex fidanzato morto di Erica. In questa sequenza c’è il segreto del romanzo, perché Changez si riduce a ombra (a qualcosa che esiste soltanto in seconda battuta, come emanazione di un altro corpo), mentre Erica rappresenta un destino collettivo (il destino americano) proprio nella misura in cui non riesce più a vedere la realtà, ma solo ciò che è stato, solo il morto passato. Il fondamentalista riluttante è raccontato come un dialogo in cui si sente una sola voce (la voce di Changez a Lahore, che casualmente incontra un americano e gli racconta la sua storia: la storia, se vogliamo, di una conversione, di una presa d’atto, di una salvifica depressione). Changez diventa, a mano a mano che si procede nella lettura, un uomo consapevole della forza spirituale e “barbarica” della sua terra; un uomo, cioè, che non si capacita che una grande terra, una grande cultura, una grande tradizione sia stata ridotta (nella considerazione dei più) a un manipolo di lestofanti e terroristi. Forse è un fondamentalista anche lui, ma lo è nella misura in cui difende la dignità e la forza (e l’integrità) della sua personale tradizione. Non si tratta, com’è evidente, di criticare l’attuale “stato dell’unione” (siccome lo fanno tutti, risulta retorico) ma di guardare con rispetto e con attenzione ai sentimenti e ai pensieri di un popolo che ha bisogno di riscoprirsi e di accettarsi in una robusta tradizione, e non di essere rinsavito a colpi di mortaio. Nella barba di Changez non si nasconde oscurantismo, ma solo discendimento e catabasi verso il baricentro di un’anima individuale e collettiva. Ascoltare le parole di Changez è più utile di mille proclami opportunistici dei guerrafondai dell’Est e dell’Ovest.

Andrea Di Consoli

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Mohsin Hamid

Il fondamentalista riluttante

Einaudi – 134 pagine – 14,00 euro

Traduzione di Norman Gobetti

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Foto_andreaAndrea Di Consoli è nato a Zurigo nel 1976 da genitori lucani. Attualmente vive a Roma, dove lavora ai programmi radiotelevisivi della Rai. Collabora inoltre a «l’Unità e a varie riviste, inoltre scrive sul «Messaggero» e «Nuovi Argomenti». Ha pubblicato il saggio Le due Napoli di Domenico Rea (Unicopli 2002), la raccolta di poesie Discoteca (Palomar 2003) e i racconti di Lago negro (L’ancora del Mediterraneo 2005). Il romanzo Il padre degli animali (2007) ha vinto il premio Mondello ed è stato finalista al premio Viareggio-Repàci.

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