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Archivio di agosto 2008

sabato, 16 agosto 2008

ELEGGIAMO LA MIGLIOR CANZONE E IL MIGLIOR ALBUM DI TUTTI I TEMPI

Parto per qualche giorno di vacanza, lontano da web e pc.
Prima di andare, però, vi lascio questo post e la possibilità di partecipare a un giochino d’agosto “extraletterario”.
Vi propongo di eleggere la canzone e il long playing più belli di tutti i tempi (“belli” nel senso di migliori).
L’idea mi è venuta pensando alle note classifiche stilate pochi anni fa dalla prestigiosa rivista americana “Rolling Stone” (i 500 migliori singoli e i 500 migliori album di tutti i tempi).
bob-dylan.jpgOvviamente le suddette classifiche sono nettamente sbilanciate a favore della musica anglosassone.

Ecco, vi invito a giocare eleggendo la “vostra” miglior canzone e il “vostro” miglior album.
Ciascuno di voi dovrà tentare di convincere gli altri della bontà della vostra scelta a suon (questa parola ci sta benissimo) di link su YouTube, riportando testi in originale e tradotti, ecc.
Insomma, dovrete cercare di far proseliti.
Poi ognuno voterà secondo un sistema che verrà stabilito nelle fasi iniziali del gioco.

Vi anticipo che per Rolling Stone il miglior album di tutti i tempi è Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (dei Beatles); mentre la miglior canzone è Like a Rolling Stone (di Bob Dylan).

thebeatles.jpg

Affido la conduzione del gioco a Enrico Gregori (in qualità di ex critico musicale) e a Gea Polonio (in qualità di ex DJ).

Di seguito, invece, potrete leggere le classifiche di Rolling Stone limitatamente alle prime cinquanta posizioni.
Il gioco durerà fino al 31 agosto (giorno della “proclamazione”).
Siete tutti invitati a partecipare.
Gli unici requisiti richiesti sono: allegria, leggerezza e cordialità.

Se l’iniziativa vi piace, promuovetela sui vostri blog.
A voi!

Massimo Maugeri

_________________

Lista delle 50 miglior canzoni secondo “Rolling Stone”

  1. Like a Rolling StoneBob Dylan (1965)
  2. (I Can’t Get No) SatisfactionThe Rolling Stones (1965)
  3. ImagineJohn Lennon (1971)
  4. What’s Going OnMarvin Gaye (1971)
  5. RespectAretha Franklin (1967)
  6. Good VibrationsThe Beach Boys (1966)
  7. Johnny B. GoodeChuck Berry (1958)
  8. Hey JudeThe Beatles (1968)
  9. Smells Like Teen SpiritNirvana (1991)
  10. What’d I SayRay Charles (1959)
  11. My GenerationThe Who (1965)
  12. A Change Is Gonna ComeSam Cooke (1964)
  13. YesterdayThe Beatles (1965)
  14. Blowin’ in the WindBob Dylan (1963)
  15. London CallingThe Clash (1980)
  16. I Want to Hold Your HandThe Beatles (1963)
  17. Purple HazeJimi Hendrix (1967)
  18. MaybelleneChuck Berry (1955)
  19. Hound dogElvis Presley (1956)
  20. Let It BeThe Beatles (1970)
  21. Born to RunBruce Springsteen (1975)
  22. Be My BabyThe Ronettes (1963)
  23. In My LifeThe Beatles (1965)
  24. People Get ReadyThe Impressions (1965)
  25. God Only KnowsThe Beach Boys (1966)
  26. A Day in the LifeThe Beatles (1967)
  27. LaylaDerek and the Dominos (1970)
  28. (Sittin’ on) the Dock of the BayOtis Redding (1968)
  29. Help!The Beatles (1965)
  30. I Walk the LineJohnny Cash (1956)
  31. Stairway to HeavenLed Zeppelin (1971)
  32. Sympathy for the DevilThe Rolling Stones (1968)
  33. River Deep – Mountain HighIke & Tina Turner (1966)
  34. You’ve Lost That Lovin’ Feelin’The Righteous Brothers (1964)
  35. Light My FireThe Doors (1967)
  36. OneU2 (1991)
  37. No Woman, No CryBob Marley (1975)
  38. Gimme ShelterThe Rolling Stones (1969)
  39. That’ll Be the DayBuddy Holly and the Crickets (1957)
  40. Dancing in the StreetMartha and the Vandellas (1964)
  41. The WeightThe Band (1968)
  42. Waterloo SunsetThe Kinks (1968)
  43. Tutti FruttiLittle Richard (1956)
  44. Georgia on My MindRay Charles (1960)
  45. Heartbreak HotelElvis Presley (1956)
  46. HeroesDavid Bowie (1977)
  47. Bridge over Troubled WaterSimon & Garfunkel (1970)
  48. All Along the WatchtowerJimi Hendrix (1968)
  49. Hotel CaliforniaEagles (1976)
  50. The Tracks of My TearsSmokey Robinson (1965)

_________________

Lista dei 50 miglior album secondo “Rolling Stone”

  • 1) Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (The Beatles)
  • 2) Pet Sounds (The Beach Boys)
  • 3) Revolver (The Beatles)
  • 4) Highway 61 Revisited (Bob Dylan)
  • 5) Rubber Soul (The Beatles)
  • 6) What’s Going on (Marvin Gaye)
  • 7) Exile on Main Street (The Rolling Stones)
  • 8 ) London Calling (The Clash)
  • 9) Blonde on Blonde (Bob Dylan)
  • 10) The Beatles (The Beatles)
  • 11) The Sun Sessions (Elvis Presley)
  • 12) Kind of Blue (Miles Davis)
  • 13) The Velvet Underground & Nico (The Velvet Underground)
  • 14) Abbey Road (The Beatles)
  • 15) Are You Experienced (The Jimi Hendrix Experience)
  • 16) Blood on the Tracks (Bob Dylan)
  • 17) Nevermind (Nirvana)
  • 18) Born to Run (Bruce Springsteen)
  • 19) Astral Weeks (Van Morrison)
  • 20) Thriller (Michael Jackson)
  • 21) The Great Twenty-Eight (Chuck Berry)
  • 22) John Lennon/Plastic Ono Band (John Lennon)
  • 23) Innervisions (Stevie Wonder)
  • 24) Live at the Apollo (James Brown)
  • 25) Rumours (Fleetwood Mac)
  • 26) The Joshua Tree (U2)
  • 27) King of the Delta Blues Singers (Robert Johnson)
  • 28) Who’s Next (The Who)
  • 29) Led Zeppelin (Led Zeppelin)
  • 30) Blue (Joni Mitchell)
  • 31) Bringing It All Back Home (Bob Dylan)
  • 32) Let It Bleed (The Rolling Stones)
  • 33) The Ramones (Ramones)
  • 34) Music From Big Pink (The Band)
  • 35) The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars (David Bowie)
  • 36) Tapestry (Carole King)
  • 37) Hotel California (Eagles)
  • 38) The Anthology, 1947 – 1972 (Muddy Waters)
  • 39) Please Please Me (The Beatles)
  • 40) Forever Changes (Love)
  • 41) Never Mind the Bollocks, Here’s the Sex Pistols (Sex Pistols)
  • 42) The Doors (The Doors)
  • 43) Dark Side of the Moon (Pink Floyd)
  • 44) Horses (Patti Smith)
  • 45) The Band (The Band)
  • 46) Legend (Bob Marley and The Wailers)
  • 47) A Love Supreme (John Coltrane)
  • 48) It Takes a Nation of Millions to Hold Us Back (Public Enemy)
  • 49) At Fillmore East (The Allman Brothers Band)
  • 50) Here’s Little Richard (Little Richard)
  • _________________________

    AGGIORNAMENTO DEL 29 AGOSTO 2008

    Dopo ampio e significativo dibattito, magistralmente condotto da Gea Polonio e Enrico Gregori, indico di seguito i titoli della miglior canzone e del miglior album di tutti i tempi secondo i frequentatori di Letteratitudine.

    Massimo Maugeri

    MIGLIOR CANZONE: Stairway to HeavenLed Zeppelin (1971) (in ex aequo con “O CAROLINE  – Matching Mole” e “HEROES – David Bowie”)

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    MIGLIOR ALBUM: The Velvet Underground & Nico (The Velvet Underground)

    Pubblicato in SONDAGGI, GIOCHI E SVAGHI   928 commenti »

    giovedì, 14 agosto 2008

    LE SETTE VITE DI DALILA E ACHILLE. Underground Book Village

    Tempo fa Gordiano Lupi mi segnalò questo gruppo di sette giovani scrittori: gli Underground Book Village.

    Il Foglio, casa editrice diretta dallo stesso Gordiano, ha pubblicato un’antologia di racconti degli UBV. Il titolo è “Le sette vite di Dalila e Achille” (Il Foglio, 2008, pagg. 290, euro 11).

    Dalla nota del libro leggiamo che gli Underground Book Village ”si sottraggono a qualunque tentativo di classificazione. Non sono pulp, non sono horror, non sono trash, non sono fantasy e non hanno la benché minima intenzione di essere qualcosa. Anche e qualcuno definisce questa raccolta “out-rules”… Gli UBV inventano nuovi linguaggi ed espressioni creative, non per sbaragliare la concorrenza, ma per abbattere ogni canone, ogni logica prestabilita. Tra decadenti personaggi e teatro dell’assurdo, tra seducenti follie, passione, sensualità e calore umano, Le sette vite di Dalila e Achille racconta un unico incontro in sette diverse ambientazioni ed epoche, con l’affascinante incoscienza di chi affronta con semplicità enigmi di millenaria incomprensione, come il “destino”. Ogni avvenimento e logica conseguenza appare come inevitabile, eppure non si può fare a meno di provare sentimenti: sorridere, commuoversi, avere fede, sputarci su. Forse è solo un’assurda finzione, come una ballata struggente cantata in playback. O forse…”

    Ho invitato gli UBV qui a Letteratitudine perché possano raccontarci un po’ di loro: spiegarci come sono nati, quali sono i loro obiettivi, il perché di questa raccolta di racconti.

    A voi, amici di questo blog, chiedo di interagire con questo gruppo di giovani scrittori in un’ottica di sano confronto.

    Di seguito, la prefazione al libro di Raffaele Olivieri.

    Massimo Maugeri

    ____________

    Prefazione di Raffaele Olivieri

    Scrivere è immergersi in apnea nelle proprie acque e risalire in superficie di colpo, sfiatando come la balena bianca che lotta fino all’ultimo contro l’arpione di Achab. Scrivere è scalare una montagna alta e faticosa rinfrancandosi con magnifici scorci in vista della vetta. Scrivere è sofferenza e delirio, estasi e divertimento.
    C’era un tempo in cui gli scrittori, gli artisti e i musicisti si ritrovavano nei caffè o nei salotti per incontrarsi, confrontarsi e scontrarsi di fronte a un buon bicchiere di vino. Oggi, nell’epoca della fretta e delle grandi distanze geografiche, le distanze si annullano, la fretta del giorno diventa la calma pacificante della sera e i salotti si fanno sulla rete.
    Quest’antologia è nata così. Non è una delle solite antologie a tema messe insieme a posteriori dal curatore. Il tema è stato scelto prima di scrivere. È un’antologia insolita quanto insolita è l’idea di un collettivo, coabitazione rivoluzionaria che fa pensare ai manifesti delle avanguardie, a quelle sane osmosi e sinergie che tanto hanno stimolato le creazioni degli artisti di tutti i tempi.
    Ho scoperto questa iniziativa attraverso la casuale e preziosa collaborazione di Walter Serra (galeotto fu un libro di Sacha Naspini) al mio romanzo “Ombre a Venezia” pubblicato dalle Edizioni Della Vigna. Il tema di questo romanzo è proprio il destino che lega due amanti, coincidenza che lo avvicina al progetto di questa antologia.
    Due i personaggi che ricorrono nei racconti, Achille e Dalila.
    Sette i racconti, sette gli scrittori dell’UBV Underground
    Book Village (Alessandro Cascio, Vincenzo Trama,Walter Serra, Frank Solitario, Emiliano Maramonte, Sacha Naspini, Francesco Dell’Olio).
    Sette voci, sette stili, sette destini, sette treni ad alta velocità lanciati sui binari che attraversano il sottobosco letterario dello Stivale.
    “Le 7 vite di Dalila e Achille” è un libro sul Destino, sulle infinite possibilità di incontro (o scontro) che la vita ci può riservare.
    Ogni autore propone la sua interpretazione di questi involontari appuntamenti, del ruolo del Destino e delle conseguenze che un incontro fortuito può avere nell’esistenza di persone comuni, anche in considerazione di un’ipotetica “seconda occasione” che la vita può riservare, avanti o indietro nel tempo.
    È un ubriacante viaggio attraverso stili e territori narrativi che affascinano e spiazzano, che fanno vibrare corde che credevamo sepolte e che invece sonnecchiavano in ciascuno di
    noi.
    Dalila e Achille conducono esistenze misteriose, intrecciate, lontane eppur vicinissime, ordinarie e incredibili, disperatamente umane.
    Il progetto per il momento riguarda solo questi sette autori, ma si pone come prima di una serie di iniziative editoriali mirate ad accogliere scrittori, poeti, musicisti, disegnatori, pittori.
    Idee in libertà con il fine di creare un nuovo circuito alternativo rispetto alla perversa spirale delle editrici a pagamento. È una sorta di rivalutazione dell’Underground, di un Movimento per raccontare ciò che solo la passione, l’energia vitale può raccontare, un modo di essere contro, libero da canoni, da censure, da logiche commerciali.
    Raffaele Olivieri

    Pubblicato in SEGNALAZIONI E RECENSIONI   108 commenti »

    lunedì, 11 agosto 2008

    LA CURVA DELLA NOTTE di Andrea Di Consoli

    Il protagonista del nuovo romanzo di Andrea Di ConsoliLa curva della notte (Rizzoli) – si chiama Teseo. Un personaggio complesso e paradossale, affetto da una delle più tremende e classiche malattie che può colpire un essere umano: il “mal di vivere”.
    Un romanzo che a mio avviso - per la tipologia dei temi trattati – può richiamare alla memoria classici della letteratura italiana del Novecento: quali “Il male oscuro” di Giuseppe Berto e “La cognizione del dolore” di Carlo Emilio Gadda.

    Di seguito leggerete le recensioni di Barbara Gozzi e di Francesco De Core (quest’ultima già pubblicata sul quotidiano Il Mattino) che vi porteranno dentro la storia.
    In questa nota introduttiva aggiungo soltanto che il “male” di Teseo trae origine da un episodio del passato… quando scopre che sua madre e Rocco – suo grande amico, coetaneo – sono legati da una storia d’amore e sesso.
    La curva della notte di Teseo comincia proprio lì. E diventa mortale nel momento in cui Rocco, anni dopo, divenuto nel frattempo un noto cantante, lo va a trovare al Byron (locale gestito dallo stesso Teseo).

    Mi piacerebbe discutere del libro e delle tematiche da esso affrontate (come al solito, partendo da alcune domande).
    Quale potrebbe essere il rimedio migliore per combattere il mal di vivere - chiamatelo angoscia o depressione, se volete - che continua a mietere vittime forse oggi più di ieri?
    Provate a entrare nei panni del personaggio Teseo…
    A vostro avviso, Teseo, sulla base di quanto sopra accennato, dovrebbe sentirsi più “tradito” dalla madre o dall’amico Rocco? O da nessuno dei due?
    E ora, le già citate recensione di Barbara Gozzi e Francesco De Core.

    Massimo Maugeri

    LA CURVA DELLA NOTTE di Andrea Di Consoli, Rizzoli, 2008, euro 17, pagg. 202

    di Barbara Gozzi

    Teseo è un uomo tormentato, annoiato, attanagliato da un ‘male di vivere’ quasi inspiegabile nei suoi tessuti contraddittori, tra alti e bassi feroci e improvvisi.
    Due mogli e una figlia alle spalle, un passato da ferroviere poi un locale, il Byron, diventato casa e supporto, passione e peso.
    Finché qualcosa stravolge i fragili equilibri di cristallo: Rocco, vecchio amico dimenticato, torna, lo cerca. E prima di morire in un tragico quanto sfuocato incidente, riaprirà le porte di un passato che Teseo aveva chiuso forzatamente, nel disperato quanto inutile tentativo di dimenticare vecchi rancori, tradimenti e quel senso di disgusto e abbandono che, in realtà, ha continuato a perseguitarlo tra gambe aperte e giri di valzer. Perché Teseo non si nega nulla, specialmente i piaceri della carne che lo fanno sentire vivo, riescono a fargli provare ‘qualcosa’ di temporaneo quanto prezioso.
    L’ultimo romanzo di Di Consoli mantiene le tinte forti e scure del precedente ‘Il padre degli animali’ ma sposta l’angolazione, la visuale vira e si concentra su un uomo e su un vivere inquieto, selvaggio quasi, tra rimozioni e riprese. E soprattutto dove i sentimenti esistono per riflesso, perché hanno un nome che ogni tanto è necessario pronunciare. Finché il passato torna e con lui i rimescolamenti dell’anima, di quell’anima che sembrava scacciata, sopita o addirittura annientata e invece resiste. C’è. Si svela proprio quando i granelli di sabbia scivolano quasi del tutto, sfuggiti a dita ormai scosse da tremori, invecchiate e incerte. Confuse.
    Di Consoli gestisce una prosa potente, lucida, che risente a tratti dell’amore sviscerale per la poesia e ogni tanto ne ‘ruba’ atmosfere, ritmi e approcci.
    Ci sono tre diversi livelli narrativi, individuati dai capitoli (comunque sempre brevi, fulminanti) e dai titoli. La stessa cronologia sarà comprensibile solo leggendo, strada facendo. C’è un passato che è remoto, mischiato quasi ai sogni, all’irrazionalità dei pensieri incompleti, dove il tempo ha iniziato a rosicchiarne pezzetti. Ma ci sono anche due strutture presenti che sembrano slegate, assestanti. Sembrano perché non lo sono. In questo romanzo si racconta una storia che non è ombelicale: l’analisi introspettiva di un uomo complesso e controverso. Si tirano fili precisi tra tessuti che sono anche analisi di una società – la nostra, quella che vive oggi seppure con riferimenti precisi al sud – ; e i personaggi sono protagonisti e simboli. Ci sono, dunque, passato remoto, prossimo e presente. Ma l’ordine non è scontato. Tutt’altro. Lo stesso titolo in realtà, mi sembra una traccia rilevante, da seguire per trovare il ritmo giusto, una prima decodifica. ‘Una’ notte si consuma un presente annunciato dalle prime righe, in una curva che si allunga, sale poi scende irrimediabilmente verso il basso, quando ormai ogni personaggio ha recitato la sua parte, incastrando tasselli e sfaldando certezze.
    Di Consoli ha capacità espressive non comuni, usa un’aggettivazione mirata e ‘visiva’, ogni nuova scena viene tratteggiata in modo che il lettore ci si ritrovi immerso, tra odori, sapori, umori.

    Non ce la facevo più a vivere […] la morte che più non si teme quando si è stanchi, sfiniti, alla fine del deserto; alla fine di una statale che porta nel regno dei vivi che sono già morti.
    (pag.63)

    Questo parallelismo tra vita e morte, anzi peggio, questo considerare taluni ‘vivi’ come fossero già morti è decisamente pressante, nel corso della narrazione. Teseo sa, sente. E queste sue percezioni incombono, irrompono tra avvenimenti presenti e passati.

    Il passato è la nostra vergogna, la palude che ci fa impazzire di risentimento e di noia.
    (pag.83)

    Rancori dunque per accadimenti mai dimenticati, impossibili da cancellare e allo stesso tempo la noia, quel lento lasciarsi vivere tra il torpore di azioni che scivolano e la sottile depressione verso un futuro che appare piatto.
    Solo il sesso, l’atto in sé, sembra scatenare nel protagonista reazioni cercate e mai noiose. Ed è una ricerca continua, un impulso irresistibile, unico a cui Teseo non si sottrae mai, neanche quando si sente avviluppare da trame oscure, a lui avverse. C’è senza dubbio una forte e presente componente sessuale in questo romanzo ma non la definirei erotica, non ci sono manifestazioni di un desiderio che cerca, annusa corpi; bensì tratteggi brevi e precisi di azioni solitarie. E’ un prendere, per Teseo, un dare per riflesso. I gesti sono ripetitivi, non si curano di forme o sostanze. E’ l’atto, come accenno sopra, l’unico vero obbiettivo. Il resto è un contorno spesso inutile, privo di sapore. E lo spiega in più d’un occasione lo stesso Teseo.

    Non esiste, il piacere. Esiste solo il dolore di non amare più, o di amare male, come una ferita che non si chiude.
    (pag.107)

    Poi l’ ‘urlo della mente’ (pag.128) e l’ ‘amore nero’ (pag. 91). Parole chiave precise. Dominanti eppure sussurrate, che quasi si perdono tra racconti e virate.

    La curva, dunque, si avvicina alla sua discesa finale e quaranta, cinquanta pagine dalla conclusione, il lettore la avverte, la caduta. Ci si sente dentro. I personaggi stringono, incalzano, i tasselli appaiono e lentamente si uniscono.
    Di Consoli non è un autore facile, secondo me. Scrive avvalendosi di simboli, livelli diversi e strutture che sono il frutto di volontà precise. E rallenta forse proprio quando il lettore vorrebbe invece correre verso il finale. Ma è tutto necessario, sotto molto punti di vista. Decodificare non è un processo semplice tanto meno comodo.

    In quel momento – senza capire niente – capii invece tutto. Mi andava bene, quello che stava succedendo. “Iole” dissi con la voce spezzata di chi è disposto a morire pur di amare ancora una volta.
    (pag.197)

    La parola ‘amore’ viene usata con parsimonia per circa centottanta pagine. Appena sussurrata. Poi d’improvviso, a poche pagine dalla fine, diventa un imperativo che si mischia al sesso, all’accettazione. Diventa un elemento dominante. Riempimento e rovina. Causa ed effetto. Mentre la morte, ovunque, resiste, perdura ma in queste ultime pagine pare addirittura meno graffiante, leggermente smussata.

    ________

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    da Il Mattino del 18/04/2008

    Teseo e l’ultima notte di quiete
    di Francesco De Core

    Se i nomi hanno un senso sulla faccia delle persone, allora Teseo – il protagonista del nuovo romanzo di Andrea Di Consoli, La curva della notte (Rizzoli, pagg. 216, euro 17) – alla fine dei suoi giorni accartocciati nel vuoto uccide il minotauro. Non fuori, ma dentro di sé. Un mostro spietato, sleale, mosso da «un freddo disprezzo, uno svuotamento doloroso». Ecco: «La geografia della mia anima era una malattia che non si poteva guarire». Questa la moneta che riserva al mondo, Teseo. Qualcosa che lo divora, lo inghiotte nel ventre aspro di un destino senza redenzione. E per Teseo – che abita un sud avido di buio, luci al neon, relitti da spiaggia – il destino è un’auto lungo un rettilineo che non finisce mai, è un cuore che scoppia a tradimento come una bomba, è la morte che lascia sul suo petto inerme i segni da scarpone chiodato dei soldati. Teseo perde la vita a brandelli, ispirato e cosciente. Gli ultimi morsi spesi nel furore della condanna, inattesa ma forse sperata. Gioca al rivoluzionario, da giovane, per diluire la fretta di vivere; poi lavora da ferroviere, nel resto di una terra che è meridione, dove «i treni scendono, lenti e rumorosi, nella punta di sabbia dove finisce la nazione, e dove il governo ha piantato una grande bandiera tricolore che il vento ha dilaniato con i suoi morsi»; infine diventa proprietario di un locale, il Byron, sempre più assente dalle azioni quotidiane e distante nei pensieri. È uomo che osserva il mare e gli uomini, Teseo, in un disordine che è di valigia chiusa in fretta. Ama oltre la rabbia e oltre il ricordo. Sembra non avere più nulla da chiedere, perché poi ha poco da offrire. Quando al Byron arriva Rocco, l’amico di gioventù, musicista affermato. E soprattutto l’uomo che amò sua madre di un amore ai suoi occhi innaturale. Blasfemo. Assurdamente tragico. Rocco cede alla colpa antica e all’odio mascherato nell’altrui sguardo, beve con foga, va dritto verso la morte nella carcassa di un’auto che si riduce a poltiglia. Il senso di colpa affonda unghie e denti nella carne molle di Teseo e si compie così la stagione del cupio dissolvi: entra in scena Iole, la conturbante moglie di Rocco, e con lei loschi figuri che squarciano le nebbie del protagonista. Il sesso si fa di tenebra, brucia, va oltre il disincanto di matrimoni finiti per consunzione: risponde a un’ossessione, a un’implosione dell’anima, è sempre più carne e sempre meno amore. Il sud è di pece, ridotto a osso, cartavetrata, rumore di fondo – il sud che Di Consoli sceglie come quinta delle sue storie, riportandoci a certi racconti di Lago negro – un meridione che per Teseo è colorato di «caffè bollente, camion colmi d’asfalto, gelaterie e chiese barocche». Teseo è come un cane sciolto nella terra di nessuno dell’esistenza, popola di incubi i suoi giorni straziati dal distacco e da una passione senza speranza, viene infine abbandonato dal corpo, stremato da un colpo a tradimento prima che la strada curva arrivi a gettare terra sull’ultimo respiro e luce sul viso contratto. Un viso pallido di morte e stupore e nervi slegati dal sangue ormai fermo. Nessuno ha diritto alla salvezza per come ha vissuto dando in pasto ad altri la propria vita, sembra dirci Di Consoli. Gli impulsi più foschi si incastrano nella cornice di una scrittura tesa come corda di violino, dura, secca eppure seduttiva, scandita da immagini piene e taglienti. Alla sua seconda prova con il romanzo, dopo Il padre degli animali, lo scrittore lucano sembra così confermarsi a suo agio nel maneggiare sentimenti terminali, bravo com’è a renderli di pietra con un ritmo intenso e una lingua mai retorica.

    Pubblicato in SEGNALAZIONI E RECENSIONI   70 commenti »

    giovedì, 7 agosto 2008

    LA MOSSA DEL MATTO AFFOGATO di Roberto Alajmo

    Avevamo avuto modi di accennare all’uscita del nuovo romanzo di Roberto Alajmo in questo post (dedicato al volume “1982″, edito da Laterza).
    Ne parliamo, adesso, in maniera più approfondita ripartendo dal titolo del libro: La mossa del matto affogato (Mondadori, 2008, pagg. 241, euro 17).

    Per chi conosce bene il gioco degli scacchi la mossa del matto affogato non è una novità. Si tratta di uno scacco matto speciale, il più umiliante: il re, bloccato dai propri stessi pezzi, non può più muoversi.
    “…Attraverso una serie di sacrifici, l’avversario ti ha chiuso in gabbia. Uno dopo l’altro sono i tuoi stessi pezzi ad averti circondato e messo in un angolo da cui non puoi più scappare. Nel giro di poche mosse sei passato dall’illusione di poter vincere sfruttando i suicidi in serie dell’avversario, alla frustrazione di doverti suicidare tu, senza possibilità di scelta, e di fronte alla minaccia di un unico cavallo superstite. Per quanto l’avversario sia ormai dissanguato, l’ultima mossa servirà solo a stringerti il cappio attorno al collo…”
    Il brano tra virgolette è estrapolato dal romanzo.
    Un romanzo come una partita a scacchi, dove il titolo di ciascun capitolo è il codice di una mossa (dalla prima fino allo scacco finale). Un romanzo di ventisei capitoli, una partita in ventisei mosse.
    Il protagonista (e il giocatore) si chiama Giovanni Alagna: un impresario teatrale che opera in una città siciliana (Palermo?) e che ha improntato attività e vita avvalendosi, all’occorrenza, di imbrogli più o meno gravi. Un personaggio algido e determinato, ma che finirà con il rivelarsi uno sconfitto. Un “vinto” che si aggiunge alla schiera di quelli già tratteggiati da Roberto Alajmo nei precedenti romanzi (Cuore di madre e È stato il figlio). Con la differenza che, stavolta, il perdente è un uomo di cultura, un uomo alquanto noto.
    Alagna ottiene successo, beneficia delle luci della ribalta, conduce una vita persino al di sopra delle proprie possibilità. Poco importa se, per farlo, deve ricorrere al bluff, alle bugie, alle omissioni. Poco importa se – di fatto – si ritrova a usare gli altri con noncuranza e semplicità strabilianti, basandosi sul motto: “meglio rimorsi, che rimpianti!”
    Meglio rimorsi, sì; ma quando i rimorsi crescono all’eccesso e hanno la faccia di tua moglie Elvira (che decide di cacciarti fuori di casa dopo l’ennesimo tradimento), o il viso duro e quasi ostile delle tue due figlie che non si fidano più di te; quando il rimpianto assume le dimensioni catastrofiche di atti di violenza compiuti ai tuoi danni da delinquenti senza scrupoli, mandati a riscuotere soldi che non sei in grado di restituire; allora, Giovanni Alagna, cominci a capire che la partita sta prendendo una piega che non avevi preso in considerazione. Cominci a capire che stai perdendo.
    Alla fine non ti rimane che inscenare un’uscita di scena melodrammatica, da par tuo. Un’uscita di scena con i riflettori puntati addosso. Tu attore, e gli altri – chi ti ha amato e chi ti ha odiato – intorno a te, a farti da pubblico (o almeno, così ti pare) mentre ti ritrovi paralizzato da una serie di scelte sbagliate. Fine della partita, Alagna. Scacco matto. Non ti resta che affogare.
    L’utilizzo della “seconda persona” nelle frasi precedenti non è casuale, ma riflette una coraggiosa e originalissima scelta narrativa dell’autore. Quella di scrivere un romanzo tutto in “seconda persona”, dalla prima all’ultima parola. Un romanzo, però, che scorre lieve, veloce (come la scrittura del suo autore: pulita, scevra da orpelli stilistici, frasi retoriche, pesanti aggettivazioni) e che riesce a colpire duro. Come usa dire lo stesso Alajmo: “I miei libri sono facili da mangiare, difficili da digerire”.

    Ora, vi invito a interagire con l’autore del libro – che parteciperà al dibattito -, magari ponendogli domande.

    Intanto mi chiedo, e vi chiedo: vi è mai capitato di riconoscere in voi stessi comportamenti autolesionisti al punto da sentirvi… affogare?
    E poi, a vostro avviso, cosa significa esser perdenti nel nuovo millennio?
    Il perdente dei nostri tempi equivale al perdente del secolo scorso, dei secoli scorsi?
    È cambiato qualcosa, o – dopotutto – l’uomo è sempre uguale a se stesso di fronte ai propri fallimenti?
    Prima di chiudere vi segnalo questa bella intervista della “nostra” Simona Lo Iacono pubblicata su LibMagazine.
    Massimo Maugeri

    AGGIORNAMENTO del 10 agosto 2008
    Roberto Alajmo mi ha messo a disposizione le prime pagine del libro. Potrete leggerle di seguito
    (Massimo Maugeri)

    La mossa del matto affogato – Cap. I

    Ora concentrati, non ti distrarre. Bisogna assolutamente che riesca a pensare qualcosa da gettare in faccia alle persone venute fin qui. Loro se l’aspettano, e anche a te conviene approfittarne. Sono i momenti in cui basta una parola, una frase, per rovesciare l’opinione che il mondo si è fatto su una determinata persona. O per rafforzarla, a seconda dei casi. Tu devi puntare decisamente a rovesciarla. Hanno tutti dei preconcetti, su di te: se li sono fatti nel tempo e sarà difficile convincerli a cambiare idea proprio ora. Però è sicuro che non ci saranno altre occasioni: adesso o mai più. L’hai capito, no? Tutta questa gente è venuta perché ha delle aspettative. Detto in sintesi: sperano di vederti morire. Te la senti di deluderli?
    Non scherzare, il momento è serio. È uno di quei frangenti da affrontare con un minimo di consapevolezza perché è come un riflettore che si accende sulla tua vita. Bisogna farsi trovare pronti. Niente di peggio che lasciarsi sorprendere con un dito nel naso o con la biancheria sporca: rischi di restare cristallizzato in quella condizione nei secoli dei secoli. Devi aver cura della tua igiene fisica e morale, svuotare i cassetti da tutta la roba compromettente. Buttare tutto. Nella spazzatura, proprio. E proprio tutto: ogni singola cassetta, rivista, oggetto, lettera, diario, qualsiasi cosa.
    Bisognerebbe. Eppure non lo si fa mai, si rimanda. Per cui, quando poi succede il disastro, è sempre troppo tardi. L’ideale sarebbe pensarci per tempo, fare pulizia di frequente, cancellare la posta elettronica e i messaggi dal telefonino. Mai lasciarsi prendere dalla pigrizia, perché da un momento all’altro il grande riflettore della cronaca potrebbe illuminare la tua vita e svergognarti per sempre.
    In casi del genere, lo sputtanamento assume le forme più impensate. Una perquisizione postuma da parte della polizia, per esempio: basterebbe una soffiata, una falsa segnalazione, un errore di notifica, e la tua esistenza verrebbe rivoltata come un calzino. C’è sempre qualche buco che speravi di nascondere all’interno della scarpa. Non puoi sapere quanta gente frugherà nella tua stanza, ma prova a immaginarli mentre guardano ovunque, pure dietro ai libri, sullo scaffale della saggistica.
    Se anche la polizia non venisse a perquisire la casa, rimarrebbe sempre la penosa ricognizione degli eredi. Nel cassetto, in mezzo a lettere e souvenir dei momenti felici, è sempre pronto a spuntare l’oggetto indicibile, quello che mai e poi mai un estraneo avrebbe potuto immaginare. Diranno: pareva una persona così perbene, così gentile, e invece anche lui aveva le sue debolezze. Tutto il resto sarà dimenticato: da quel momento in poi, fino all’eternità, la tua memoria rimarrà associata alla vergogna, fosse anche l’unica vergogna che ti eri concesso nell’arco della vita.
    Oltre al fatto in sé, morire comporta una serie di effetti collaterali. Quindi, prudenza. Meglio evitare, per esempio, di sparare cazzate in punto di morte. Conviene tenere da parte qualche bel pensiero per quando servirà; sperando di avere il tempo per rifletterci. Ma anche preparandosi prima, non è detto che poi si riesca a trovare modo di pronunciare le ultime parole famose, e di pronunciarle come si deve. In ogni caso, niente di preordinato. L’eccesso di preparazione rischia di far perdere quel minimo di spontaneità che è fondamentale per un finale di partita senza troppa retorica.
    A proposito di finali e di partite: una volta ti hanno raccontato di un tizio che era un maniaco del poker. Dalla mattina alla sera non faceva altro che sbirciare cinque carte una dopo l’altra. Ma sempre, proprio in continuazione, anche quando era solo: aveva inventato il poker con tre morti, una variante in cui a giocare e a vincere era solamente lui. Insomma, quando viene il suo momento questo tizio cade in coma, e ci rimane per un mese. Poi un giorno, improvvisamente, apre gli occhi e guarda i parenti al capezzale come se fosse sorpreso di vederli lì. Li fissa, muove le labbra per dire qualcosa, e i parenti si fanno ancora più sotto per ascoltare quale ultimo messaggio ha da regalare trovandosi sulla soglia dell’aldilà, resuscitando apposta da un coma che pareva irreversibile. E lui, distillando le ultime energie, apre la bocca e dice una sola singola parola:
    - Cip.
    Ti rendi conto? Cip, e muore. Un’occasione del genere buttata via, l’attesa di tutto quel pubblico di parenti e amici andata delusa. O forse no, perché se adesso tu ti trovi nella situazione in cui ti trovi e perdi tempo a raccontare una storiella del genere vuol dire che quell’unica parola, cip, meritava di essere detta, meritava di essere ricordata e meritava di essere raccontata. Ancora oggi, almeno tu sei qui a riflettere su quel cip, su quello che voleva significare nel contesto dell’esistenza di quel tizio. O a quello che non voleva significare. Perché esiste anche la possibilità che mentre muori stai facendo o pensando qualcosa di assolutamente irrilevante, nell’economia complessiva della Storia dell’Umanità. Viene la morte e ti trova impreparato.
    Impreparato: sarebbe bello poter pronunciare questa parola impunemente, come si faceva a scuola. Arriva la morte, tu rispondi:
    - Impreparato.
    E lei:
    - Va bene, ma ti voglio risentire prima che finisca il quadrimestre.
    Al massimo, certe volte, ti mettevano una piccola i sul registro, e ogni discussione era aperta su come interpretarla. Faceva media o no, quella i di impreparato? Mistero. Dipendeva dall’umore degli insegnanti, dalla disposizione d’animo che ciascuno di loro aveva nei tuoi confronti.
    Se anche in un momento come quello che stai vivendo l’impreparazione fosse motivo di rinvio, potresti almeno guadagnare tempo. Prima della fine del quadrimestre c’è un sacco di tempo, o almeno così ti sembra quando devi scampare all’interrogazione su un argomento di cui non sai niente. Purtroppo invece no: la fine del quadrimestre e gli scrutini arrivano sempre prima di quanto tu possa immaginare.
    Ecco, vedi? Se morissi in questo preciso istante, nel Registro Universale dei Pensieri Formulati in Punto di Morte, rimarrebbe scolpita in maniera indelebile questa cazzatina della i sul registro di classe. Che figura, se qualcuno andasse a controllare. Che occasione sprecata. Ma chi se ne frega? Gliene frega qualcosa, a Dio? Adesso, nella situazione in cui ti trovi, non è il momento di aprire una digressione sulla effettiva esistenza di Dio; ma sulla Sua sfera di interessi magari sì. Che ne sai? Lo possono incuriosire gli ultimi pensieri di un singolo morituro? Tutte le cose che stai pensando adesso vanno a finire registrate da qualche parte? No, perché se funziona così allora è il caso di fermarsi un attimo a pensare sul serio. Evitiamo di fare altre figure di merda. Anche perché il tuo interlocutore in questo momento non è solo l’eventuale Dio. Ci sono un sacco di persone che si aspettano da te un’uscita all’altezza di tutto il resto. Si tratta di non deluderle: arrivati a questo punto sarebbe un peccato.
    Intanto però i minuti passano, e continui a divagare. Nell’ambito dell’inaccettabile spreco della tua morte, stai per sprecare anche quest’ultimo istante di fama cristallizzata che ti è concesso. Almeno potresti fare come dicono che succeda: che nell’ultimo istante ti ripassa in mente tutta la vita trascorsa. In questa evenienza qualcuno aveva individuato un’ipotesi di vita eterna. Perché nella vita che ti ripassa davanti agli occhi c’è anche quell’ultimo istante che tutti li contiene. Proprio tutti: compreso quell’ultimo istante che tutti li contiene, compreso quell’ultimo istante che tutti li contiene, compreso quell’ultimo istante, eccetera, eccetera. Se non ti sbagli, dev’essere stato Borges. Ecco: nella circostanza potresti sfoderare una citazione di Borges, che fa sempre un certo effetto. Ma le persone che hai davanti non sanno nemmeno chi è, Borges. Nel contesto, sarebbe uno spreco. Ancora uno spreco.
    È triste che tutte le persone attorno a te in un momento del genere siano tanto ignoranti. Non sono all’altezza di assistere allo spettacolo che stai per offrire loro. Purtroppo ognuno ha il pubblico che si ritrova, e nemmeno tu te lo sei potuto scegliere. Ce l’hai e te lo devi tenere. Però ammettilo: nel bene e nel male, te lo sei meritato, un pubblico così. Sono le persone che hanno seguito l’ultima parabola della tua esistenza così come l’hai voluta costruire tu, secondo i tuoi criteri. Alcuni ti hanno seguito fedelmente per ore, giorni, settimane, mesi; per anni, addirittura. Chi più chi meno, sono gli stessi che hanno creduto in te. Solo che ora ti si sono rivoltati contro. Tu non sei cambiato, ma loro sì. Molte di queste persone hanno scoperto che le avevi ingannate, e hanno gettato la maschera dell’amicizia, della stima, del rispetto che ti avevano tributato fino a ieri. Questo ti pare veramente assurdo, perché invece fra ieri e oggi tu non sei cambiato. Assolutamente no. Per l’intero arco della tua vita sei rimasto sempre fedele allo stesso personaggio.
    In fondo, però, puoi ancora sfruttare la loro ignoranza. Non è necessario che stia lì a spiegare chi era e chi non era Borges, sempre ammesso che la citazione gli appartenga davvero. Non ne avresti nemmeno la possibilità, del resto. Fregatene, come te ne sei sempre fregato. Fai pure finta che sia roba tua, questa storia di tutta la vita che ritorna a scorrere nell’ultimo istante, e così all’infinito. Ti hanno creduto sempre, vuoi che non ti credano proprio adesso? È solo un piccolo sforzo. Chi avrebbe il coraggio di mentire, nelle condizioni in cui ti trovi?
    E prima ancora, scusa tanto: chi l’ha detto che tu debba morire sul serio?

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    lunedì, 4 agosto 2008

    IL CENTENARIO DELLA NASCITA DI ELIO VITTORINI

    elio-vittorini-ritratto.JPGCent’anni fa – per esattezza il 23 luglio 1908 – nasceva Elio Vittorini.
    Dedichiamo uno spazio (e un dibattito) a questo grande intellettuale e scrittore siracusano.
    Di seguito avrete la possibilità di leggere quattro interventi.
    Il primo è firmato da Ernesto Ferrero ed è stato pubblicato su Tuttolibri del 26 luglio.
    Gli altri sono stati realizzati, dietro mia richiesta, dagli amici scrittori siracusani che frequentano questo blog: Maria Lucia Riccioli, Salvo Zappulla, Simona Lo Iacono (Maria Lucia, Salvo e Simona mi daranno una mano per moderare e animare il post).

    Vi pongo alcune domande, estrapolate dagli articoli che leggerete di seguito.
    Le prime sono di Ferrero (pensate con riferimento a Vittorini):
    Chi è, cosa deve fare uno scrittore? In che modo deve mettersi in relazione con la società? Cosa può fare per la collettività?
    E poi (pescando dal pezzo della Riccioli)…
    Cosa rimane di Elio Vittorini?
    Quali sono stati i frutti della sua opera? Riusciamo a scorgerli ancora oggi? Vittorini è ancora un autore fecondo e vitale, a parte il suo ruolo di “editor” e organizzatore di cultura?
    Il suo stile? L’ermetismo, il simbolismo allegorico? Sono ancora proponibili?

    Insomma… Vittorini.
    Un’occasione per ricordarlo. E per parlarne.
    Massimo Maugeri

    ————–

    Il centenario della nascita di Elio Vittorini
    di Ernesto Ferrero (da Tuttolibri del 26 luglio 2008)

    Non c’era davvero miglior modo di ricordare il centenario della nascita di Elio Vittorini (23 luglio 1908) che evitare la melassa buonista di simili occasioni e stare ai testi: come questo secondo e ultimo tomo che raccoglie i suoi articoli e interventi 1938-1965 (il primo copriva gli anni 1926-37, in cui ebbe tanta parte il soggiorno a Firenze e la furiosa attività traduttoria).
    Sono oltre mille pagine, curate come meglio non si potrebbe da Raffaella Rodondi, degna allieva di Dante Isella. Dico subito che le sue note sono così approfondite ed esaustive che chi vuole occuparsi della cultura italiana del periodo dovrà passare di lì. Vi troverà una miniera di notizie e documenti.
    Lo si frequenta poco, Vittorini, a parte Conversazione in Sicilia, che tiene ancora benissimo.
    Da tempo è sparita dal nostro orizzonte la sua fervida progettualità utopistica a 360 gradi. Non parliamo poi della sua pretesa di concorrere attraverso la letteratura a una rigenerazione collettiva, addirittura alla nascita di un uomo nuovo. La tensione appassionata e sciamanica con
    cui il Gran Siracusano insegue il moderno, inventandoselo anche quando non se ne vedono tracce, ripercorsa adesso risulta commovente.
    Uscito da un arcaico mondo contadino, lo conosce troppo bene per abbandonarsi a idilli e nostalgie, che anzi non si stanca di deprecare. Gli interessa l’incontro-scontro con le metropoli, con l’industria, il nuovo mondo che dovrebbe nascere da una sorta di palingenesi collettiva. Ha la bulimia del futuro prossimo. Se le domande sono sempre le stesse (chi è, cosa deve fare uno
    scrittore? In che modo deve mettersi in relazione con la società, cosa può fare per la collettività?), ricorrenti sono anche le risposte, pur nel variare di quell’«irta vegetazione di metafore» di cui parla Italo Calvino (ma forse più avvolgente che irta): scoprire qualcosa che ancora non si conosce, aggiungere qualcosa di nuovo all’umana coscienza, fuori dai lacci delle ideologie e dei concetti astratti. Certo non «suonare il piffero per la rivoluzione», come scrisse a Togliatti nel corso della famosa polemica su «Politecnico». Vittorini sognava una letteratura che sapesse interagire al livello più alto con tutte le attività umane, che ne fosse il lievito, lo stimolo permanente.
    Era (dice ancora Calvino) totalmente immune dalla negatività esistenziale, dalle voluttà del nichilismo, dalle scissioni dell’Io che connotano il Novecento degli sconfitti contenti di esserlo. Anteponeva l’urgenza di un rinnovamento vero alla sua stessa creatività personale, esempio unico di disinteresse.
    Nel volume c’è di tutto: saggi, articoli di varia occasione, recensioni, i risvolti per i «Gettoni» einaudiani (sempre imprevedibili, spesso a contropelo), schede di lettura, interviste autobiografiche (tenerissime), risposte a inchieste e dibattiti, elzeviri, corsivi, scritti sull’arte (Dosso Dossi ma anche Cassinari e Guttuso), dibatti sul fumetto (con Eco), abbozzi di storie letterarie, lucidi ripensamenti dei propri libri, ma si possono comunque identificare alcuni nuclei forti. Il gran lavoro sugli americani, anche in vista dell’antologia poi pubblicata da Bompiani (Saroyan, James Cain, Caldwell, Faulkner, Steinbeck, Wright, John Fante); gli interventi febbrili su Politecnico (1945-47), poi sul Menabò (1959-65), principalmente centrati sul solito dolente nodo dei rapporti tra cultura e politica e sull’impegno.
    Non c’è campo in cui l’autodidatta non scateni le sue curiosità, creando collegamenti fulminei,
    sorprendendo il lettore laddove meno se lo aspetta.
    Parla schietto, trasferendo nello scritto la vivacità orale. Gran comunicatore, incantatore nato,
    immune da rigidezze accademiche e specialistiche, mercuriale sempre. Così pronto ad ammettere i propri errori che anche un nemico non può che rassegnarsi ad amarlo. Dichiara
    odi e amori con il candore degli innocenti. Dice (negli Anni 30) di detestare Voltaire e Balzac,
    Kipling, Rilke e Kafka, D’Annunzio e Dostoevskij e idolatra Hemingway al di là del ragionevole,
    ma è capace di mandare a Montale, dalle colonne di un periodico giovanile, un saluto di ringraziamento per le Occasioni appena uscite («il fatto più importante, oltreché il più felice, dei nostri ultimi mesi di storia umana»).
    Perché nel cuore di Vittorini, felice perché sempre in movimento, lanciato verso il prossimo
    ostacolo, non c’è la letteratura, c’è l’uomo. La letteratura è uno strumento da usare bene, come tanti altri. Per questo si sdegna perché nel primo governo repubblicano non è stata chiamata una sola donna, nemmeno come sottosegretario.
    Ripete che il più umile dei problemi di una città ha un significato per la cultura in assoluto. Richiesto di autodefinirsi, si iscrive nella categoria dei «poeti civili», lui che non ha scritto un verso. E nel 1964 arriva a dire che la letteratura è ormai destituita d’importanza, si è fatta semplice mediatrice di cose scoperte da altri.
    Che la nostra fantasia è vecchia, governata da una concezione del mondo che risale a Tolomeo. Negli ultimi anni, per coerenza, si butta a leggere di scienza, matematica, biologia,
    astrofisica. Dice che bisogna continuare a scrivere senza la presunzione di credere che sia importante.
    Come sarebbe bello che il calore delle indomite passioni di questo «indiano delle riserve» (come si definiva autoironicamente, ma senza indietreggiare di un pollice) arrivasse fino a noi, al nostro deserto di cenere governato dal marketing.

    ————–

    Cosa rimane di Vittorini?
    di Maria Lucia Riccioli

    maria_lucia-riccioli.JPG23 luglio 1908 – 23 luglio 2008.
    Vittorini cent’anni dopo la sua nascita.
    Cosa rimane di uno scrittore? Ce lo chiediamo spesso, in particolare quando si verificano ricorrenze come quelle dei cinquantenari o in questo caso dei centenari.
    La figura e l’opera di Vittorini sono state fondamentali per la cultura italiana tra le due guerre e oltre. Ma quali ne sono stati i frutti? Riusciamo a scorgerli ancora oggi? Vittorini è ancora un autore fecondo e vitale, a parte il suo ruolo di “editor” e organizzatore di cultura?
    Siracusa dedica da anni un premio letterario ad Elio Vittorini e quest’anno è stata curata la pubblicazione di un volumetto che raccoglie estratti dalle sue opere più note, dei disegni realizzati da Guttuso per un’edizione di “Conversazione in Sicilia” che però vide la luce solo nel 1986. Speriamo che si realizzi il sogno di Siracusa di fare di più – magari una casa museo, una biblioteca – per onorarlo degnamente.
    La Sicilia è stata sempre mater poco materna con i suoi figli più illustri e con Vittorini non ha fatto eccezione. Il figlio del ferroviere, cognato di Salvatore Quasimodo, che vide la luce nell’isola di Ortigia, alla Mastrarua, poi Via Vittorio Veneto, dopo i primi studi, il formarsi di una precoce coscienza politica e le febbrili entusiastiche letture, ha fatto la sua fortuna “in continente”.
    Cosa resta, dicevamo, di Vittorini? Le istanze della denuncia civile? L’ideale riscatto degli umiliati e offesi? Vittorini patì anche l’ottusità ideologica degli stessi compagni di partito (Togliatti e il suo becero “Vittorini se n’è gliuto e soli ci ha lasciato”), oltre alla sostanziale incomprensione e indifferenza dei conterranei.
    La sprovincializzazione della nostra letteratura? Grazie all’antologia “Americana”, grazie ad uno stile che risente della lezione degli autori statunitensi. L’esperienza neoilluministica de “Il Politecnico” fu fondamentale, come la sua opera di “talent scout”.
    Il suo stile? L’ermetismo, il simbolismo allegorico? Sono ancora proponibili?
    Certo rimane memorabile il lirismo dell’incipit di “Conversazione in Sicilia”:

    Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi sono messo a raccontare. Ma bisogna dica che ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, i qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero a capo chino.vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un’ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo.
    Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l’acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete.

    Rimangono la passione per i libri e la letteratura, scoperta e passione giovanile:

    È una fortuna aver letto quando si era ragazzi. È doppia fortuna aver letto libri di vecchi tempi e vecchi paesi, libri di storia, libri di viaggi e le Mille e una notte in special modo. Uno può ricordare anche quello che ha letto come se lo avesse in qualche modo vissuto, e uno ha la storia degli uomini e tutto il mondo in sé, con la propria infanzia.

    Vorrei che iniziassimo un dibattito innescato dalle mie domande e da quelle che ci verranno in mente. Sono onorata di scrivere su Vittorini per orgoglio di comune siracusanità e spero che i miei concittadini prima o poi si sveglino dall’apatica quiete della non speranza.

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    Vittorini editore e il suo rapporto con il cinema
    di Salvo Zappulla

    salvo_zappulla.JPGVittorini è stato uno degli intellettuali più poliedrici del ventesimo secolo, autodidatta, letterato per vocazione, aveva una visione pessimistica della vita, una costante tristezza che esprimeva attraverso la scrittura. E’ stato sempre dalla parte degli ultimi, i lavoratori, gli oppressi. Loro sapevano che di lui potevano fidarsi, e lo amavano. Si definiva un solariano e questo termine ne racchiude altri che intendono antifascista, europeista, antitradizionalista. In poche parole: illuminista. Se consideriamo che egli dichiarava con forza le proprie idee, in un momento storico in cui un sistema autarchico consigliava una certa “prudenza”, ci possiamo rendere conto della grandezza di quest’uomo. E’ nota la sua collaborazione con la Einaudi per la quale curò la collana I gettoni che servì a lanciare autori come Calvino, Fenoglio, Romano, Rigoni Stern, Ottieri, Testori, Bonaviri ed altri. Altrettanto famoso – una macchia sulla sua coscienza di intellettuale – fu il suo rifiuto al romanzo di Tomasi di Lampedusa. Va precisato però che il romanzo subì prima un rifiuto da parte della Mondadori alla quale Tomasi di Lampedusa aveva inviato quattro capitoli tramite il cugino Lucio Piccolo. Il testo letto dai redattori (Ricci, Antonielli e Romanò) pur non ricevendo un giudizio del tutto negativo, non fu ritenuto idoneo alla pubblicazione. Vittorini in quel caso si limitò a dare il suo parere conclusivo senza leggere il dattiloscritto personalmente. Successivamente egli ricevette ancora parte del dattiloscritto affinché il romanzo venisse pubblicato su I gettoni, ma lo ritenne lontano per la sua idea della collana in quanto Il Gattopardo, emblema dell’inettitudine sociale e politica della nobiltà siciliana, era un tema ritenuto da lui piuttosto stantìo. Come sappiamo il romanzo verrà pubblicato da Feltrinelli nel 1958 a cura di Giorgio Bassani. Forse il suo rapporto con il cinema è il meno conosciuto rispetto alle molteplici attività di intellettuale. Alla fine degli anni Trenta non esisteva in Italia una vera e propria critica cinematografica e Solaria fu una delle prime riviste a dare ampio spazio a questo settore. Gli anni fiorentini (1930-1938) sono quelli in cui Elio Vittorini si avvicina alla critica cinematografica, anche se costituisce sempre un’attività marginale rispetto alla sua corposa produzione letteraria. Sono anni di difficoltà economica per la famiglia Vittorini, ed egli si presta persino a interpretare una parte nel film Romeo e Giulietta di Castellani. L’attività dello scrittore è frenetica ma l’impegno dedicato al cinema è autentico ed estremamente competente. Egli afferma: “L’essenza artistica del cinematografo è nel movimento”. E ad esso occorre, se necessario, sacrificare le bellezze accessorie. Quando si riferisce al movimento, di successioni, di immagini, di ritmo, si riferisce al montaggio così come è inteso dai grandi maestri dell’avanguardia russa. Aveva una grande passione per Charlie Chaplin, la cui arte – a suo parere – apparteneva alla storia. Era tale la stima per il grande comico, che nel numero 10 del Politecnico gli dedica un articolo, anche se non firmato, ma la cui impronta stilistica è inconfondibilmente sua. Vittorini attribuiva al cinema un ruolo fondamentale per l’educazione del popolo italiano e già, sempre nel Politecnico, secondo numero, pubblica un breve articolo dal titolo ”Il cinematografo dell’avvenire”, a cui fa seguito nel numero successivo un altro scritto a firma di Carlo Luzzari. Il cinema come specchio dei tempi e dei problemi sociali. Tutta l’attività di Vittorini si sviluppa all’insegna dell’impegno civile e ideologico, un neorealismo che non va inteso nel suo senso più ristretto ma che lascia spazio alla poesia, al lirismo, permeato da grande valenza etica. Sicuramente ha lasciato un segno tangibile sulla storia degli uomini.

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    Vittorini e l’Isola
    di Simona Lo Iacono

    simona_lo_iacono.JPGSi dice che l’uomo sia una scaglia di terra. Che sia nato da fango misto a saliva. Si dice che è questo a suggerirgli i passi. Che è la forma di quella terra a dar corpo al suo corpo. Parola alla sua parola. Sguardo al suo sguardo.
    Si dice.
    Ma non si dice soltanto.
    Si sente.
    Si sente se è grumo di montagna, goccia di lago, o sale di mare.
    Si sente se è uomo di isola o di continente.
    Ecco. Elio Vittorini fu uomo di isola. E lo fu due volte.
    Perché non fu solo siciliano. Ma Siracusano. E di quella parte di Siracusa che è isola dell’isola: Ortigia.
    Il nome pare venga da “quaglia”, perché Ortigia è un isolotto arpionato alla città e che dall’alto richiama la fisionomia di questo uccello.
    Ma io che ci abito, io che ne respiro l’accroccato divincolarsi tra strade dai nomi ebrei, arabi, greci, io che saluto lo scudo della dea Atena che svetta dal Duomo sol che apra le mie finestre – io so che Ortigia non è nome di quaglia.
    E che – anzi – non è neanche nome.
    Piuttosto modalità dell’essere. Del vivere.
    Del morire.
    Tanto che non se ne può prescindere per comprendere l’opera di Vittorini. Né si può ignorare il suo essere contemporaneamente dentro la Sicilia e fuori di essa, quasi su un battello pencolante, che con uno sboffo di corrente potrebbe mollare gli ormeggi.
    Doppia isola, dunque. E doppia solitudine. Doppio errare.
    Doppio esilio.
    Perché l’isolano è esule. E’ straniero.
    Ma l’isolano che dall’isola passa ad un’altra isola è quasi un pellegrino di mare. Un eterno viandante. Un Ulisse meno precario che deve fare i conti con una stabilità sempre da rincorrere.
    A tal punto scava in noi, la forma della terra.
    A tal punto un duplice rimando ci costringe ad allungare lo sguardo – avanti e ancora avanti – a tal punto ci impone di sognare due volte.
    E poi, allontanarsi due volte. Tornare due volte. Intascarsi non una, ma due manciate di nostalgia.
    Credo che in questa somma di ostacoli sia da cercare anche il senso del viaggio. Della navigata che in “Conversazione in Sicilia” non solca solo lo stretto di Messina, non Scilla e Cariddi, non una fetta di mare.
    Ma un portale. Un ingresso in una dimensione e poi in un’altra. Un varco tagliato da uno Stige.
    Quando questo confine viene oltrepassato la memoria di ciò che ci precede vacilla. Perché rientrando in Sicilia e poi ancora in Ortigia, il passo si abitua all’ondeggio del mare.
    Lo vedi che ti assale ovunque, se vai avanti, se guardi indietro, se torni a casa.
    Ovunque, ovunque. L’acqua a frastagliarti addosso come un dolore. Di non poter che essere questo. Questo oscillare e questo complicato rientro che non si accontenta di compiersi come per gli altri.
    Che per te si raddoppierà sempre.
    A tal punto scava in noi, la forma della terra.

    Pubblicato in EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, LETTERATURA È DIRITTO... È VITA (a cura di Simona Lo Iacono), OMAGGI, RICORRENZE, ANNIVERSARI E CELEBRAZIONI   132 commenti »

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