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Archivio di febbraio 2007

mercoledì, 28 febbraio 2007

EVERYMAN di Philip Roth

Giorni fa, all’interno di una libreria romana, ho avuto modo di chiacchierare del più e del meno con un simpatico libraio. Nel corso della conversazione il mio sguardo si è posato sulla copertina nera del più recente libro di Philip Roth: Everyman, pubblicato in Italia da Einaudi.

Ho preso in mano il volume e, rivolgendomi al libraio, ho commentato: “Bello,eh?”

Il libraio ha fatto spallucce. “Sarà pure bello” mi ha detto. “Solo che non ce l’ho fatta proprio a finirlo. Sa, sto uscendo dalla morte di mia madre. Se ne è andata pochi giorni fa.”

Ho annuito. E ho compreso la scelta di interrompere la lettura del libro.

Ha ragione il libraio. Questo libro di Roth è uno di quelli che colpisce duro. Come un pugno allo stomaco. E mano a mano che si procede nella lettura il colpo subìto si avverte in misura crescente. Tuttavia credo che di colpi così ne abbiamo bisogno. Soprattutto oggi, in un’epoca in cui – pare – non riusciamo più a guardarci davvero in faccia e a confrontarci con il limite principale della nostra condizione umana: la morte.

Copertina nera, si diceva. Molto elegante. Ed è ovvio che la scelta della copertina non è da attribuire solo a ragioni estetiche. C’è il richiamo al colore che meglio identifica il trapasso, la dipartita. Quel neromorte che, prima o poi, è chiamato ad avvolgere tutto. E tutti.

Peraltro, come si legge sulla prima delle bandelle laterali «Everyman prende il titolo da un’anonima rappresentazione allegorica quattrocentesca, un classico della prima drammaturgia inglese, che ha per tema la chiamata di tutti i viventi alla morte».

Il protagonista del libro è un pubblicitario di successo presso un’agenzia di New York. La sua vita privata è piuttosto travagliata: sposato tre volte (con donne che non si somigliano per nulla); ha tre figli di cui due dalla prima moglie e una dalla seconda; ha un fratello che è un uomo ricco e di successo (ma molto amorevole) per il quale proverà una disdicevole invidia. Ma le peculiarità della vita di questo man, in fin dei conti, sono solo dettagli. Insignificanti, direi. Soprattutto se visti con l’ottica della nostra comune precarietà esistenziale. Non è un caso che il nome del protagonista non è mai citato nel libro. Potrebbe essere chiunque. Potrebbe essere ogni uomo, appunto, al di là dei piccoli elementi distintivi di una singola storia. E dunque il fatto che il nome di questo personaggio non venga reso noto al lettore sembra una scelta naturale e opportuna. Del resto Roth è bravissimo a misurare il racconto e a equilibrare i rapporti tra i personaggi in guisa tale che l’assenza del nome del protagonista non pesi.

La narrazione procede per salti temporali. Roth inizia con il raccontare (o meglio, con il mostrare) il funerale dell’uomo. E già dalle prime pagine, per alcuni versi toccanti, è possibile percepire un’asprezza realistica che esprime un disincanto quasi cinico: “In tutto lo stato, quel giorno, si erano celebrati cinquecento funerali come il suo, altrettanto di ordinaria amministrazione, e tolti i trenta recalcitranti secondi della scena dei figli (…), né più né meno interessante di tutti gli altri.”

La morte fa capolino molto presto nella vita del protagonista. Da ragazzino, per esempio; allorquando si trova in ospedale per via di un’ernia inguinale che richiede l’intervento chirurgico. Il suo compagno di stanza è un ragazzo in stato terminale. E all’attesa della dipartita del ragazzo si accompagnano ricordi funesti: “All’inizio non prese sonno perché aspettava che il ragazzo morisse, e poi non prese sonno perché non poteva smettere di pensare al corpo dell’annegato gettato sulla spiaggia l’estate prima.”

Il pensiero della morte incombe sull’uomo a fasi alterne. A volte pare sparire, per poi ripiombare d’improvviso anche quando il contesto esistenziale ne giustificherebbe il rigetto: “Perché doveva diffidare della propria vita proprio quando ne era più padrone di quanto lo fosse stato in anni e anni? Perché doveva immaginarsi sull’orlo dell’estinzione quando un semplice e calmo ragionare gli diceva che davanti c’era tant’altra vita stabile e piena? (…) Ho trentaquattro anni! Comincia a preoccuparti dell’oblio, diceva tra sé e sé, quando ne avrai settantacinque!”

Ma la storia di Everyman non è solo la storia di una vita destinata a spegnersi. È anche storia di malattie, cronaca dettagliata e cruda di un deperimento fisico progressivo e inesorabile che degenera ineluttabilmente fino all’oblio.

Il protagonista si ammalerà di appendicite degenerata in peritonite nel 1967, ripercorrendo il destino del padre (ammalatosi di appendicite e peritonite nel 1943) e dello zio (che ne era morto a 19 anni).

E poi dovrà fare i conti con seri problemi cardiologici, con un’ostruzione nell’arteria renale, con un’operazione nella carotide sinistra per ostruzione di una delle due arterie principali, con l’applicazione di un defribillatore all’interno della gabbia toracica. Ma nonostante questo andrà avanti, sebbene, “… non aveva ancora settant’anni quando la sua salute cominciò a declinarsi e il suo corpo a indietreggiare davanti alle continue minacce.”

Eppure, anche nella tragedia, pur nella trattazione del male umano supremo, quest’opera non manca di punte di autoironia e tragicomicità come si può evincere dal passo che segue: “La moglie del momento – la terza e ultima – non aveva la minima rassomiglianza con Phoebe e anzi, a dir poco, era un rischio in caso di emergenza. Sicuramente non ispirava fiducia la mattina dell’operazione, quando seguì la lettiga piangendo e torcendosi le mani e alla fine, non riuscendo a controllarsi, gridò: – E io?

Era giovane e inesperta e forse aveva inteso dire una cosa diversa, ma lui pensò che volesse dir questo: cosa sarebbe stato di lei se lui non fosse sopravvissuto?

– Una cosa per volta – le disse. – Prima lasciami morire. Poi verrò ad aiutarti a tener duro.”

Come tutti, pure il protagonista di Everyman cerca una sorta di compensazione.  Qualcosa che possa dare senso a un’esistenza precaria e comunque destinata alla fine: “Se avesse mai scritto un’autobiografia, l’avrebbe intitolata « vita e morte di un corpo maschile ». Ma dopo essere andato in pensione provò a fare il pittore, non lo scrittore, e così diede questo titolo a una serie di quadri astratti.” E più avanti leggeremo: “Era come se la pittura fosse stata un esorcismo. (…) O si era messo a dipingere per cercare di liberarsi della consapevolezza che si nasce per vivere e invece si muore?”

A volte volge il pensiero al passato, come quando ricorda il padre. Quel padre che nel 1993 aveva aperto un negozio di gioielli e orologi chiamandolo “non col proprio nome ma piuttosto «Everyman’s Jewelry Store» («la gioielleria di tutti»)”. Ma anche l’inevitabile fine del padre diviene occasione per manifestare il proprio orrore di fronte alla morte. “(…) Tutt’a un tratto egli vide la bocca di suo padre come se la bara non ci fosse, come se la terra che gettavano nella fossa si depositasse su di lui, riempiendogli la bocca, accecandogli gli occhi, ostruendogli le narici e tappandogli le orecchie.”

E mentre la vita si è dipanata tra alti e bassi, tra momentanei stati di benessere e malattie invalidanti, ci si trova dinanzi alla vecchiaia e con essa – a tratti – alla consapevolezza di dover convivere con una condizione di tormentata rassegnazione. Del resto la moglie di un amico appena defunto avrà modo di dirgli: “La vecchiaia è una battaglia, caro, se non per un motivo, per un altro. È una battaglia inesorabile, e proprio quando sei più debole e meno capace di fare appello alla tua combattività.”

E più avanti lui penserà:

“La vecchiaia non è una battaglia: la vecchiaia è un massacro.”

*

Fa impressione come questo libro sia dotato nel plot e nella scrittura di semplicità e limpidezza e, al tempo stesso, di una ricchezza espositiva che lo rende unico.

Quando la letteratura riesce a raccontare senza autoincensarsi diventa davvero grande. E la vera letteratura, in fondo, è quella capace di raccontare l’uomo. L’uomo, con i suoi difetti e i suoi limiti.

Certo, non è la prima volta che la grande letteratura si confronta con il tema della morte. Il primo libro che viene in mente è senz’altro La morte di Ivan Il’ič di Lev Tolstoj. Anche questo libro affronta la tragedia della malattia con terribile minuziosità. Tuttavia, nella fase finale dell’agonia, Ivan Il’ič avrà modo di confrontarsi con la paura del trapasso. E di vincerla con il conforto della speranza. Nelle ultime righe dell’opera di Toltoj leggiamo: “Cercò la sua solita paura della morte, ma non la trovò. Dov’era? Quale morte? Non aveva alcuna paura, perché non c’era alcuna morte. Al suo posto, la luce.”

Altra considerazione. Tolstoj ci mostra i colleghi di Ivan Il’ič e la loro reazione a seguito della notizia della scomparsa. Costoro pensano alle promozioni e ai trasferimenti che scatteranno a seguito della dipartita di Il’ič e compensano la noia delle condoglianze alla vedova e del rito funebre con la gioia meschina che la morte sia capitata a un altro. In tal senso il libro svolge anche una funzione di denuncia della menzogna e dell’ipocrisia della società borghese burocratica.

Il libro di Roth si differenzia da quello di  Tolstoj sia perché nel protagonista (che è ateo) non c’è la speranza di un dopo, sia perché la morte lo coglierà dispensandogli il tormento di una lucida agonia.

L’unica consolazione che il protagonista di Everyman si concede è la vicinanza ai resti dei suoi genitori quando li va a trovare al cimitero: “Vide i due nomi incisi là sopra e fu sopraffatto dallo stesso tipo di singhiozzi che assalgono i bambini piccoli e li lasciano svuotati e senza energia. Evocò facilmente l’ultimo ricordo che aveva di ciascuno dei due – il ricordo dell’ospedale – ma quando cercò di evocare il primissimo ricordo, lo sforzo che fece per spingersi più indietro che poteva nel passato che avevano in comune sollevò un’altra ondata di emozione che lo travolse.

Erano ossa e basta, ossa dentro una bara, ma le loro ossa erano le sue ossa, e lui andò a mettersi più vicino a quelle ossa che poteva, come se la vicinanza potesse unirlo a loro e mitigare l’isolamento scaturito dalla perdita del futuro  e ricollegarlo a tutto quello che se n’era andato.”

Inoltre qui è assente quel cinismo che Tolstoj attribuisce ai colleghi del morto. In Everyman la storia si dipana tutta dal punto di vista del protagonista. E non c’è alcuna denuncia, così come non c’è morale. Solo la dolorosa, tremenda narrazione – e dunque la constatazione – di un’esistenza che precipita ineluttabilmente verso l’oblio.

Altro libro che viene in mente è il recente romanzo del Nobel José Saramago: Le intermittenze della morte (cosa succederebbe se, a un certo punto, non morisse più nessuno? Ai sentimenti iniziali di ovvia e festosa felicità seguirebbe il caos. Un caos che coinvolgerebbe varie organizzazioni: dal governo alle compagnie di assicurazione, dalle agenzie di pompe funebri alle case di riposo, fino alla Chiesa, giacché senza morte non c’è più resurrezione, e senza resurrezione non c’è più Chiesa). Qui la differenza è ancora più netta, sia perché il libro è fortemente allegorico, sia perché Saramago dipinge la morte come qualcosa di necessario e – per certi versi – paradossalmente utile. Almeno per alcuni.

Infine viene in mente un terzo libro che, pur non essendo esplicitamente riferibile alla morte, si può accostare a Everyman anche per via della sua crudezza. Il libro è Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway.

È anche vero però che la battaglia di Santiago contro il pesce rappresenta, in fondo, la lotta vana dell’uomo contro la morte e la vecchiaia. Il capolavoro di Hemingway, tuttavia, e qui sta la differenza principale con il libro di Roth, è un libro metaforico; mentre Everyman è scevro di ogni metafora.

Grandi libri, quelli di cui abbiamo fatto cenno. Libri testamento, per certi versi.

Tornando a Philip Roth è doveroso sottolineare che il celebre autore americano, con i suoi ventisette romanzi all’attivo, ha vinto quasi tutto quello che c’era da vincere. Nel 1997 con Pastorale americana si è aggiudicato il Premio Pulitzer per la narrativa. Nel 1998 ha ricevuto la National Medal of Arts alla Casa Bianca, Nel 2002 la Gold Medal per la narrativa (il più alto riconoscimento dell’American Academy of Arts and Letters). Ha vinto due volte il National Book Award e il National Book Critics Circe Award. Nel 2005 Il complotto contro l’America ha ricevuto il premio della Society of American Historians per il miglior romanzo storico di tematica americana nel periodo 2003-2004.

Gli manca solo il Premio dei Premi (per l’attribuzione del quale è stato più volte candidato).

Che sia la volta buona?

A essere sincero è tutt’altro che casuale il riferimento a Il vecchio e il mare. Il più celebre libro di Hemingway fu pubblicato nel 1952. Nel 1954 il suo autore ricevette il Premio Nobel per la letteratura.

Dimenticavo di sottolineare una sottile analogia. Sia Il vecchio e il mare che Everyman sono romanzi brevi.

Per motivi scaramantici è meglio non aggiungere altro. Se non che – notizia freschissima – Everyman si è appena aggiudicato il Premio Pen/Faulkner 2007.

*

Massimo Maugeri

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*

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EVERYMAN di Philip Roth

Traduzione di Vincenzo Mantovani

Pag. 123, euro 13,50

Einaudi, 2007

Pubblicato in SEGNALAZIONI E RECENSIONI   21 commenti »

martedì, 27 febbraio 2007

LA LIBRERIA DEL GIALLO

L’amica scrittrice Elisabetta Bucciarelli mi segnala un’iniziativa volta a sostenere

la Libreria

del Giallo attraverso l’associazione Giallo&co.

Accolgo il suo invito e pubblico con piacere la lettera inviatale da Tecla Dozio, titolare della libreria. (Massimo Maugeri)

*

*

"Ciao,

come forse non tutti sapete, il 26 febbraio del 2004, è nata l’Associazione culturale Giallo&Co. per sostenere e affiancare

la Libreria

del giallo e, dopo qualche mese, il suo sito. Era un pensiero che avevo da tempo, ma l’idea di dover gestire anche l’Associazione e il sito mi spaventava un poco; sapete che sono praticamente sola il libreria. Le “tristi” vicende del 2003, hanno deciso per me. L’associazione era da fare. Con tanta fatica e un gruppo di amici – in rigoroso ordine alfabetico: Fabio Crespi (PinaZ), Luca Crovi, Claudio del Maso, Giuliana Dorigo, Elisabetta Drago (

la Eli

), Giorgio Faletti (Presidente), Marcello Fois, Fabrizio Gasparetto, Massimiliano (Max) Gaspari, Carlo Lucarelli, Carlo Oliva, Laura Rossetti, Veronica Todaro e Umberto Torricelli – che non finirò mai di ringraziare – ci siamo buttati in questa avventura e ora, l’Associazione esiste e “lotta insieme a noi”. Molti i suoi intenti/obiettivi (che trovate sul sito), ma il suo scopo principale rimane quello di sostenere e affiancare la libreria che ne ha un gran bisogno. Al compimento del suo terzo anno di vita ho ritenuto di dovervi comunicare la sua esistenza perché ho scoperto che moltissimi di voi non ne sanno niente (un po’ presuntuosmente, forse, pensavo che tutto il mondo lo potesse sapere senza fare quasi nulla).

Lo hanno saputo in molti, ma non tutti. Andrea Camilleri, Massimo Carlotto, Santo Piazzese, Barbara Garlaschelli, Nicoletta Vallorani, Lia Volpatti, Gianni Biondillo, Massimo Marcotullio, Filippo Lupo, Roberto Valentini, Elisabetta Bucciarelli, Edward Coffrini, sono fra i circa 150 amici/sostenitori. Una bella compagnia, non vi sembra?

Non vi piacerebbe farne parte?

In questi tre anni siamo riusciti a fare alcune cose, spero, divertenti e interessanti. Il sito vuole essere (per quanto riesco) di servizio, ma anche di divertimento, con giochi, libri omaggio ai suoi amici/sostenitori, e altro. Spesso organizziamo anche cene in libreria alle quali, purtroppo, riescono a partecipare quasi esclusivamente i milanesi/lombardi. Ci inventeremo qualcosa anche per i più lontani. In questi tre anni, l’Associazione è stata importantissima per

la SOPRAVVIVENZA DELLA

LIBRERIA e, credo, lo sarà sempre di più in questi tempi veramente difficili.

Credetemi: non è solo per aiutare

la Libreria

  e non è solo per i vantaggi che vengono riconosciuti agli amici/sostenitori (ad esempio: cene e incontri a loro riservati, bollettini informativi, sconti e altro). È, invece, importante perché lo scopo dell’Associazione (e quello della Libreria come sede e punto di ritrovo) è anche quello di mantenere viva una nicchia in cui si possa ancora fare un po’ di cultura, conversando e scambiandosi opinioni. Ma non la cultura polverosa e un po’  “finta” alla quale ci  vogliono abituare. Bensì quella, e la storia stessa della Libreria ne è testimone, fatta di incontri seri e semiseri, di divertimento e di confronto giocato sempre sul filo dell’ironia e dell’intelligenza. Incontri “autentici” tra amici, personalità, scrittori, donne e uomini più o meno famosi, in cui si può parlare di libri come di tanto altro.

Ma non è facile riuscire a realizzare questa idea, non è facile costruire le occasioni per sfuggire a quel senso di pigra mediocrità che, io credo, tanti di noi avvertono intorno: per riuscirci, c’è bisogno di amici che si riconoscano in quello che stiamo facendo e che diano il loro contributo, affinché l’Associazione cresca in numero, in idee e in partecipazione.

Ed è questo il senso più autentico della mia richiesta e del mio invito.

Per diventare amici/sostenitori, sul sito  trovate il modulo di adesione.

Qualcuno si chiederà perché sia così importante (o perché sia conveniente) iscriversi all’Associazione.

Grazie per l’attenzione e… iscrivetevi numerosi".

Pubblicato in VOCE DI LIBRAIO   2 commenti »

domenica, 25 febbraio 2007

LETTERATURA TRA STILE E VERITA’

Non so se ci avete fatto caso, ma qualche giorno fa (per l’esattezza il primo febbraio 2007) La Stampa ha pubblicato un articolo di Javier Cercas dal titolo: Verità, non stile voglio da chi scrive. Il sottotitolo mi è parso ancora più interessante: Un pamphlet contro i preziosismi ridicoli degli autori firmato dal dimenticato Felipe Azaiz si dimostra di straordinaria attualità.

Per farvela breve qualche settimana fa, in un negozio di libri usati, l’autore dell’articolo si imbatte in un opuscolo pubblicato a Tolosa nel 1946 dal titolo Arte di scrivere senz’arte. L’autore è un certo Felipe Alaiz. Cercas acquista il libro, lo legge e ne rimane estasiato.

*

Ora vi riporto uno stralcio del succitato articolo (che potete leggere per intero cliccando qui). Poi, se vi va, ne parliamo.

*

“L’Arte di scrivere senz’arte (…). Si tratta di un piccolo saggio sullo stile condito, com’è prevedibile, di buone intenzioni e di ingenuità, ma anche, com’è meno prevedibile, di geniali stravaganze (…). Comunque, a me sembra fondamentalmente esatta la sua concezione di stile che, tra noi, continua a essere essenzialmente decorativa. Il lettore, incapace di avere fiducia in se stesso, spesso non si fida del proprio gusto, ma di quello che gli assicurano gli debba piacere, e ciò non è quasi mai l’efficacia o l’emozione, ma esclusivamente l’apparenza o l’ornamento: l’aggettivo desueto, l’acrobazia sintattica, la metafora vanitosa. Questo lettore trova degno di merito che lo scrittore scriva «destriero» invece di «cavallo», «cilestrino» invece di «azzurro», quasi cercasse indizi che gli chiariscano se ciò che legge abbia o no il diritto di piacergli. Questo lettore dimentica che la frase «i consueti accadimenti che si verificano nella via» non è letteratura, mentre lo è la frase «quel che succede in strada»; dimentica che il fine della letteratura non è la bellezza, ma la verità, supponendo che le due cose non siano la stessa; dimentica che quello che sembra letteratura non è mai letteratura, perché scrivere bene è l’opposto di scrivere belle frasi e perché la vera arte è quella che nasconde il trucco (o, come recita il precetto latino: «Ars est celare artem»); dimentica, infine, che bisogna incominciare a darsela a gambe quando uno scrittore viene definito «uno stilista», termine che quasi sempre è sinonimo di inutilità o di verbosità (o delle due cose insieme), perché lo stile vero rasenta quasi sempre l’assenza di stile. Poche persone l’avrebbero detto meglio di Hannah Arendt quando, parlando dello scrittore meno imprescindibile del XX secolo, afferma: «L’unica cosa che attrae e seduce il lettore nell’opera di Kafka è la verità» alla quale egli arriva «con la sua perfezione senza stile», visto che «qualsiasi stile distoglie dalla verità, bella per se stessa».
Questa è l’idea centrale del libricino di Alaiz, che si rifà a Buffon il quale afferma che lo stile è l’uomo, e a Flaubert che sostiene che la forma sta alla profondità quanto il calore sta al fuoco, per poi lanciarsi in un’arringa rabbiosa contro lo stile ornamentale di quelle opere «rese stucchevoli dai preziosismi» schierandosi a favore di un’arte libera da impostazioni, obliqua o ellittica manifestazione della personalità di chi la crea.”

*
A questo punto incalzo… e faccio l’avvocato del diavolo. Vi domando: non è che la letteratura italiana, nel suo Dna, sia un po’ malata di stilismo e di accademismo? Non è che sia questo uno dei motivi per i quali all’estero la filano in pochi? Non è che sia questo uno dei motivi per i quali i lettori italiani prediligono spesso la letteratura straniera?

Ho fatto l’avvocato del diavolo, eh? Dunque non insultatemi!

Pubblicato in PERPLESSITA', POLEMICHE, PETTEGOLEZZI E BURLE   26 commenti »

sabato, 24 febbraio 2007

AMORE E DISAMORE di Riccardo Lestini

Come sapete il nostro Gordiano Lupi, oltre a essere scrittore e a occuparsi di critica letteraria e cinematografia, è anche il direttore editoriale della casa editrice Il Foglio.

Da un po’ di giorni Gordiano mi parla di questo romanzo scritto da Riccardo Lestini e intitolato Amore e disamore, sostenendo che è uno dei più interessanti tra quelli pubblicati da Il Foglio. Io il libro non ho ancora avuto modo di leggerlo. Però ho chiesto a Gordiano di inviarmi un brano significativo e di autorizzarmi a pubblicarlo qui a Letteratitudine di modo che, cari amici, possiate giudicare da voi.

Quello che posso dirvi, sulla base delle indicazioni fornitemi da Lupi, è che si tratta di un romanzo di formazione in venti puntate. Venti frammenti di vita in cui il giovane protagonista, Francesco, un ragazzo come tanti, annaspa, si dibatte, passa notti insonni, in un percorso di cadute e risalite, corse e rincorse, amori e disamori.

Amore e disamore di Riccardo Lestini 

Edizioni Il Foglio

euro 12,00 – pag. 210

ISBN  978 – 88 – 7606 – 147 – 9

www.ilfoglioletterario.it

ilfoglio@infol.it

Di seguito, uno dei capitoli più significativi del libro…

Il cielo sopra Berlino

Fuori è notte e forse piove ma non fa freddo anche se già si scioglie l’estate, si scioglie e si spacca in mille pezzi, pezzi colori e odori di settembre, mentre Francesco piange e ride e si commuove mezzo ubriaco all’ultima fila del cineclub quasi vuoto dove si è rintanato.

Il cielo sopra Berlino svanisce nei titoli di coda, nella pellicola che si riavvolge, nelle luci che si accendono, svanisce ma gli resta addosso e vorrebbe che ricominciasse subito, da capo, all’infinito anche se lo conosce a memoria.

Perché se a tutto questo ci fosse un prologo, allora sarebbe Francesco sedicenne, affamato e impaurito, che parla e cammina e consuma asfalto all’uscita di scuola insieme ad Adriana, compagna di classe e amica e solo amica, anche se in gita c’è stato un bacio che per un po’ li ha fatti pensare. E sarebbe Adriana che gli presta il vhs polveroso di questo film che già il titolo fa sognare. E ancora sarebbe Francesco che lo guarda e piange e s’innamora e impazzisce, perché la storia di un angelo che vede in bianco e nero, ascolta gli uomini parlare soffrire e gridare e poi alla fine s’innamora di una trapezista e per lei smette le ali, è troppo, davvero troppo. Troppo per lui che ha sedici anni e scrive poesie, che ha sedici anni e da grande non vuol fare niente, solo sognare, troppo per lui che ha un cuore ancora troppo piccolo, cuore di sedicenne, cuore già un poco graffiato, cuore ancora troppo piccolo e non sa dove metterla tutta quest’emozione.

Da quel giorno Francesco ha attraversato gli anni, dieci o giù di lì, è passato in mezzo a casini gioie e speranze sempre con questo film nel cuore, visto e rivisto decine di volte, fino a questa notte quando ha sfidato asfalto e temporale imminente per raggiungere il cineclub e vederlo ancora, e chi se ne frega se lo conosce a memoria, vuoi mettere sul grande schermo?

Francesco, quasi trent’anni e il tempo dei viaggi e dell’avventura che sta per finire, Berlino non l’ha mai vista, ma ce l’ha nel cuore. Per Francesco Berlino è sogno, è cielo, è Wim Wenders e poesia, è bianco e nero, è circo, è Damiel e Cassiel, è Marion.

Finita la proiezione fuori dal cineclub è sempre più notte, non piove ma è piovuto, non fa freddo ma l’estate ormai s’è sciolta, dissolta, frantumata. Strade deserte, Firenze arrotolata nelle case e Francesco che gira a vuoto ubriaco e randagio, un film addosso e nessuna voglia di tornarsene a casa.

Pensa a Marion, pensa a Damiel che s’innamora di Marion, pensa che anche lui vorrebbe girare e girare, vedere in bianco e nero, ascoltare gioie e sofferenze e poi incontrare Marion, incontrare una trapezista e per lei rinunciare a tutto, anche alle ali.

E poi Livia, Livia che è una storia finita prima dell’estate, Livia che gli piomba in testa all’improvviso, Livia che è una storia che per forza non risorgerà.

Livia perché ti ho lasciata, tre mesi fa, una vita fa, Livia non mi ricordo perché ti ho lasciata, Livia non esistono perché, Livia io un giorno mi sono svegliato e non ti amavo più, Livia tu eri lì ad aspettarmi e io sputtanavo serate a mandare sms a una ballerina, Livia tu eri mia e io ho distrutto ogni cosa.

Livia non riuscivi a dirmi ti amo, ma poi me l’hai detto al telefono, un filo di voce, che ero lontano chilometri e chilometri ed è stato dolcissimo. Livia tu eri dolcissima e adesso non c’è più niente, niente dei baci, delle carezze, dei vaffanculo che saettavi ai genitori per passare una serata con me, una serata soltanto, un’altra ancora. Livia quando ti ho lasciata senza darti un motivo, uno straccio di motivo, non hai detto niente, non hai aperto bocca e hai pure pianto in silenzio.

Francesco s’infila in un pub, il primo che incontra per strada. Non c’è molta gente ma la voce di Bono Vox che canta Where the streets have no name lo convince a restare. Prende una Guinness, poi un’altra. Potrebbe berne cento per quanto è sfatto e ubriaco. Alla fine si annulla, in testa ha soltanto Berlino e negli occhi i clienti del pub.

Una cameriera ha gli occhi neri, nerissimi, i fianchi larghi e deve chiamarsi per forza Sabrina. Sorride, aperta e disponibile. Sicuramente non è nata e non vive in città, ma in qualche paese vicino: Scandicci, Sesto Fiorentino, Grassina, e sicuramente abita in un monolocale minuscolo che gli hanno intestato i genitori, un monolocale minuscolo pieno di soprammobili, con il letto basso e il colore blu dappertutto.

Sabrina adesso non è fidanzata ma deve esserlo stata, più di una volta, forse due, forse tre. Forse tre volte senza cambiare mai, stessi pregi e stessi difetti. Sempre la stessa ansia di sentirsi indispensabile, la stessa smania consolatrice e materna, la stessa pazienza di ascoltare e capire, lo stesso spalancare le braccia e accogliere tra i suoi seni enormi visi stravolti e sconvolti. Lo stesso bisogno, ogni volta, di cercare maschi senza direzione, selvaggi e sconclusionati fino all’inverosimile per avere l’illusione di crescerli e inquadrarli. E quando poi tutto finisce lamentarsi per aver dato tanto e non aver ricevuto nulla in cambio.

Sabrina deve fare anche una qualche università, ma senza fretta né convinzione, tanto l’affitto non lo paga e il pub la mantiene quel tanto che basta. Un giorno forse farà qualche scuola per interprete in una città del nord, oppure al diavolo le scuole e ne aprirà uno tutto suo, di pub.

L’altra cameriera invece la battezza Letizia , o Romina. È più giovane di Sabrina, per forza universitaria e senza dubbio fuori sede. Matricola o al massimo al secondo anno.

Letizia o Romina freme, è appena venuta via da qualche paesino insignificante dell’Abruzzo, del Molise o della Puglia, un qualsiasi paesino su cui sparla e sputa merda ad ogni occasione, un qualsiasi paesino a cui tra qualche anno ripenserà con le lacrime agli occhi.

Letizia o Romina freme, smania, ha occhi nocciola che s’accendono per ogni cosa. Letizia o Romina vuole vivere, vuole essere libera, non vuole legarsi e ha l’aria di chi venendo via di casa ha lasciato il fidanzato storico con cui a diciassette anni progettava figli e avvenire, l’aria di chi si conquista l’indipendenza giorno per giorno, ora per ora, passo dopo passo. E deve ribadirlo ogni volta, a se stessa e al mondo intero. Perché certamente lui, il suo ex, la chiama ancora almeno una volta la settimana. E sbraita, sclera, non capisce. E lei non sa mai cosa dire, perché a volte l’attraversa il pensiero d’aver sbagliato ogni cosa, ma lo scaccia via subito e prega che lui s’arrenda e non la chiami mai più.

Forse Letizia o Romina fa storia dell’arte, e a giudicare dagli occhi è il periodo che legge e divora ogni libro, che guarda e divora ogni film, e se non doveva lavorare ci sarebbe stata senz’altro anche lei al cineclub a vedere Il cielo sopra Berlino.

Getta un occhio al tavolo accanto dove stanno cinque ragazze e due ragazzi, un gruppo variopinto dove nessuno pare entrarci niente con gli altri. Sicuramente anche loro universitari e sicuramente anche loro fuori sede, matricole. Prime settimane di corsi, smarrimento cosmico, giornali di annunci e inserzioni sempre nello zaino, tasche stracolme di volantini, spese da controllare, lavatrici fallimentari, giornate in silenzio, telefonate a casa col groppo in gola, amicizie posticce.

Seguiranno lo stesso corso e nell’aula piena zeppa di borse zaini fiati e appunti si sono riconosciuti, hanno riconosciuto lo stesso sguardo spaesato e inebetito e a quello sguardo ci si sono aggrappati come all’ultima spiaggia. E la più coraggiosa, quella nerovestita e con gli occhi pensosi che potrebbe anche chiamarsi Asia, a fine lezione ha preso coraggio e ha organizzato l’uscita, un’uscita al primo pub che le è venuto in mente, un’uscita all’unico pub che conosce. E fra qualche mese ognuno avrà preso la sua strada, ognuno avrà fiutato i suoi simili, ognuno a suo modo avrà la sua avventura da vivere e non si vedranno più, s’incontreranno di fretta nei corridoi tra una sessione e l’altra e ognuno fingerà d’avere nel libretto più esami di quelli che ha dato.

E poi in mezzo a loro c’è lei, Luisa o qualcosa di simile, Luisa che non parla mai, Luisa che è pallida e ha addosso vestiti sformati, Luisa che è grassa e non può piacere a nessuno, Luisa che sicuramente non fa nemmeno la loro università ed è lì solo perché è la coinquilina di qualcuno, senz’altro di Asia, la nerovestita dagli occhi pensosi.

Luisa ha quasi vent’anni ma non ha mai baciato nessuno, Luisa ha quasi vent’anni e nessuno l’ha mai voluta baciare, Luisa ha combattuto per anni contro la cattiveria del mondo ed è sempre stata sconfitta. Luisa adesso non vuole più bene nemmeno a se stessa, ha genitori che anche adesso che se n’è andata vegliano su di lei, quattro telefonate al giorno e Luisa non ti fidare, Luisa non uscire, Luisa stai attenta, Luisa tu non puoi fare questo, Luisa tu non ce la farai mai a fare questo, Luisa tu non sei come tutti gli altri.

Ma ascoltami Luisa, domani stacca il telefono, domani non rispondere, domani vivi e basta, domani dimentica qualche ferita, domani respira. Luisa non sarà facile convincere gli uomini all’amore ma anche tu ce l’avrai e te lo prometto, Luisa non sarà facile convincere gli uomini all’amore ma comincia a volerti bene tu domani, adesso, subito.

Francesco vorrebbe prendere un’altra birra, ma ormai il pub sta chiudendo e non servono più niente nemmeno al bancone.

Francesco allora si alza e si scaraventa per strada, ancora per strada, e ritorna a pensare a Marion. Ritorna a pensare che vuole trovarla anche lui una trapezista o qualsiasi altra cosa, basta sia una Marion a cui donare ogni cosa. E Sabrina non è Marion, Letizia o Romina non è Marion e nemmeno Livia è Marion, nemmeno Anna è Marion. Marion è ancora lì, da qualche parte del mondo ad aspettarlo. E ci crede, ci crede davvero che Marion esista e che lo stia aspettando, come crede che esistano gli angeli, ci crede sul serio anche se non l’ha mai detto a nessuno.

E mentre cammina sbanda e barcolla, gli viene in mente quell’altro film, quello di Frank Capra dove un angelo pasticcione deve guadagnarsi le ali e mostra a un uomo disperato come sarebbe la vita degli altri se lui non fosse mai esistito. E alla fine del film tutto si risolve, suonano i campanelli e quell’angelo mette le ali.

Quell’angelo si chiama Clarence e Francesco pensa che Clarence sia proprio un nome meraviglioso per un angelo. E poi non sa perché, ma pensa che pure gli aquiloni sono angeli, angeli di carta che riflettono angoscia e leggerezza di ogni esistenza.

Francesco adesso vuole scrivere, vuole scrivere di nuovo e non annegare, scrivere di nuovo e salvarsi. Vuole scrivere di angeli, aquiloni, angoscia e leggerezza, della luna che sicuramente gli somiglia.

Pensa io Marion ti aspetto, ti aspetto senz’altro e ti giuro che saprò riconoscerti, ti riconoscerò perché tu sarai la ragazza/aquilone, l’unica al mondo e l’unica nella vita. E adesso andrò a casa e scriverò di te ragazza/aquilone, scriverò di te principessa, scriverò di te e ti dipingerò come un girasole. E scriverò di me e stavolta mi chiamerò Clarence, e scriverò di me e stavolta mi dipingerò come la luna.

Scriverò che io sono la luna e tutta la notte brillo alla ricerca del girasole che amo.

Scriverò che quando ti troverò t’irradierò di luce e di tutto il mio amore.

Scriverò e sarà solo per te, Marion, girasole, principessa, ragazza/aquilone.

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giovedì, 22 febbraio 2007

S’È FATTA ORA di Antonio Pascale

Questo agile libro di Antonio Pascale è stato recensito un po’ ovunque sulle pagine culturali di quotidiani e riviste. Ed è vicino dall’essere considerato romanzo cult.

Parliamo di un autore la cui scrittura è particolare e difficilmente inquadrabile. Dice bene Alfonso Berardinelli quando sostiene che “qualunque cosa racconti, Pascale è credibile, è divertente, smonta e rimonta la realtà davanti ai nostri occhi portando ogni elemento e dettaglio al più alto grado di evidenza.”

E anche qui, anche in questo S’è fatta ora, Pascale dà prova di abilità nella sua arte di composizione e scomposizione narrativa, rinunciando – almeno in parte – alla costruzione di un plot tradizionale, basato su una trama lineare che si sviluppa in maniera consequenziale e sul rigido rispetto della cronologia, e dando spazio a una scrittura che pesca molto nel pensiero, oltre che nell’accaduto. E il pensiero di Vincenzo Postiglione, protagonista del libro e alter ego dell’autore, si comprime e poi esplode, a fasi alterne, in cinque momenti fondamentali di un’esistenza in corso: la giovinezza, la politica, l’amore, il rapporto con la scienza, il confronto con il dolore.

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S’è fatta ora è un’esclamazione ricorrente del padre di Vincenzo, la cui origine, nei ricordi di Vincenzo bambino, risale a un pomeriggio come tanti degli anni Settanta (era il 23 ottobre del 1975), quando il papà – seduto sulla panchina di un parco – pronuncia la fatidica frase. Quel S’è fatta ora segna la fine del tempo dei giochi e l’ora di tornare a casa, ma denota anche un’inadeguatezza di fondo e il disagio paterno nell’accudire la prole.

“Non che non amassero i figli. È che noi figli eravamo un accidente capitato troppo presto. Eravamo arrivati poco prima dei loro trent’anni, quasi a farlo apposta. (…) A questi padri, seduti sulle panchine dei parchi giochi, toccava non solo rinunciare allo stadio e compensare il tutto ascoltando Tutto il calcio minuto per minuto con l’auricolare, ma dovevano pure badare a noi, figli cagionevoli.”

E il bambino cresce, forse, percependo quel senso di inadeguatezza sulla propria pelle e trasmutandolo in ansia che rischia di degenerare in ipocondria cronica.

“(…) erano le cinque del mattino, l’ora, secondo il dizionario Larousse, nella quale più spesso le persone muoiono. Prima dell’alba, così stava scritto. L’ora più fredda del giorno, durante la quale si misurano le temperature minime.”

Da ragazzo, Vincenzo, frequenta compagnie discutibili, almeno fin quando non impatta in Shakespeare; fin quando la voce di un attore di teatro, nel mezzo dei fischi di una scolaresca inconsapevole e casinista, dichiara: “Ragazzi, lo so che non v’hanno mai insegnato ad amare il teatro ma, ve lo dico col cuore, non fate gli stupidi.”

Quella frase, semplice, lineare, apparentemente banale entra nello spirito del giovane e contribuisce a ribaltargli l’esistenza. È da questo momento che Vincenzo si avvicina alla lettura e alla scrittura. Ed è da questo momento che inizia la maturazione e la vera crescita del protagonista del libro, che nelle pagine successive ritroveremo nelle vesti di uomo, impiegato pubblico e (a sua volta) padre. Ma crescita e maturazione non implicano necessariamente la fine dei paradossi.

S’è fatta ora diventa occasione per raccontare l’uomo e la società meridionali in modo nuovo,  additandone le contraddizioni con un’alternanza di malinconia e ilarità, di j’accuse e rassegnazione.

Da questo punto di vista riscontriamo in talune parti del libro di Pascale un’ascendenza fantozziana che da un lato affonda le sue radici negli irrisolti conflitti socioesistenziali di matrice kafkiana e dall’altro si mescola con la tradizione della grande narrativa meridionale (e non solo… il lettore, nel testo, troverà molteplici riferimenti letterario-culturali che vanno – tanto per fare un’esempio – da Checov al già citato Shakespeare). Ne viene fuori un’opera, un romanzo di formazione, che ha una peculiarità tutta sua.

E poi i personaggi di Pascale sono vivi, veri. Si ha l’impressione di percepirne l’alito, di ascoltarne le cadenze e gli accenti del parlato. E ciascun personaggio è tanto più vero quanto più conflittuale è il rapporto che vive con gli altri. È un crogiuolo di rapporti umani e interscambi, questo libro. Rapporti a volte misurati, altre volte spontanei, altre volte ancora basati su un sospetto pregiudiziale (“Che brutta cosa ‘a gente”, recita sempre il padre di Vincenzo), ma che diventano reciprocamente imprescindibili. Così come l’amore diventa imprescindibile dal dolore. “L’amore è questo, purtroppo. Uno che fugge (da un dolore) e l’altro che gli dice di aspettare (per affrontarlo c’è tempo).”

E tutto questo, l’autore, lo rende sulla pagina con penna lieve. Ma è una levità incisiva, la sua. Che lascia il segno. E l’effetto che genera è paragonabile a quello percepito dopo aver assaporato un buon vino che in apparenza pare leggero e che solo dopo genera effetti inebrianti.

Massimo Maugeri

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S’È FATTA ORA di Antonio Pascale

Minimumfax, Nichel, 2006

pag. 126, euro 9,50

http://www.minimumfax.it

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È possibile leggere altre recensioni a questo libro cliccando qui.

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mercoledì, 21 febbraio 2007

IL VOLTO DALL’OSCURITÀ (di Gabriele Montemagno)

Due giovani donne che dialogano, tranquillamente sedute l’una di fronte all’altra, nella penombra che rende confortevole l’ampio salone che le accoglie entrambe. Prima immagine della sequenza. Mano a mano che questa si evolve, si scopre che una delle due donne, la straniera, protagonista del film, sta elencando all’altra, italiana, le sue referenze per poter essere assunta a servizio nell’appartamento di quest’ultima. Lo spettatore, che ha già conosciuto la straniera nelle sequenze precedenti, sa che questa proviene da un passato di torbido sfruttamento, sebbene non ancora pienamente illuminato a questo punto del film; e sospetta che le abilità da lei elencate per essere assunta possano non essere veritiere, bensì facciano parte di un piano che le consenta di poter entrare nell’appartamento dell’italiana in cui deve trovarsi qualcosa di importante, vitale, per la donna straniera. La visione completa del resto della pellicola confermerà il sospetto dello spettatore e aggiungerà (come è ovvio) nuove tessere per completare il complesso mosaico che illustra la travagliata vita di questa donna straniera, protagonista del film. Film che è, come avranno compreso coloro che lo hanno visto, “La sconosciuta”, ultimo lungometraggio di Giuseppe Tornatore, uscito di recente nelle nostre sale cinematografiche. Tuttavia, non è sullo svolgimento della trama che qui ci si vuole soffermare, né sulle possibili componenti e contaminazioni che caratterizzano tale pellicola (giallo, noir, film a personaggio, spaccato sociale, film-denuncia, ecc.) che ha per protagonista una delle tante donne provenienti dall’est e sfruttate ignobilmente come prostitute. L’aspetto che qui interessa è un altro, e occorrerà ritornare sulla sequenza citata per ritrovarlo.

Dopo aver mostrato, con la prima inquadratura,  le due donne all’inizio del loro dialogo, sedute l’una di fronte all’altra, la m. d. p. si avvicina a loro con un lento zoom. Poi entra più approfonditamente nel dialogo che si sta svolgendo, ricorrendo al classico campo e controcampo con cui si osservano frontalmente i due personaggi che dialogano. E qui avviene un significativo scarto rispetto alla tranquilla immagine iniziale. Mentre il primo piano della giovane donna italiana è illuminato dalla debole luce che si espande dietro lei e contorna i mobili e le pareti del salone, la straniera non ha tale luce retrostante, ma solo frontale. Come in un quadro di Caravaggio. Quindi il suo volto pare emergere dal buio in cerca di luce. Ecco (forse) l’immagine che racchiude tutto il film: una donna che vuole emergere dal fondo oscuro del suo passato. Con l’interezza del suo volto di donna e della sua persona.

Un ritratto di donna (e di una ignobile piaga del nostro presente) bello e originale, quello che ci ha saputo mostrare e raccontare Tornatore per mezzo della sua brava attrice protagonista. Davvero un bel ritratto.

Gabriele Montemagno

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P.S. Naturalmente tutti coloro che hanno avuto modo di vedere questo film sono caldamente invitati a dire la loro. (Massimo Maugeri)

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martedì, 20 febbraio 2007

SCRIVERE, NON FARE LO SCRITTORE (di Antonella Cilento)

Antonella Cilento
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“So benissimo che, tra le persone apparentemente interessate a scrivere, ben poche sono interessate a scrivere bene. A loro interessa pubblicare qualcosa, e se possibile fare un colpaccio. Essere uno scrittore, non scrivere”.

Quando Flannery ‘O Connor scriveva nei lontani anni Cinquanta queste righe per una lezione sulla natura e lo scopo della narrativa non immaginava quanta attualità avrebbero avuto ai giorni nostri. Anche se insegno scrittura da quattordici anni, non c’è giorno in cui le parole della ‘O Connor non mi accompagnino. Almeno tre volte per settimana mi tocca ripetere ai neofiti dei corsi napoletani de Lalineascritta, o nei corsi dell’Upad di Bolzano, ai ragazzi nelle scuole e ai visitatori del sito (www.lalineascritta.it) che hanno un libro nel cassetto e cui un editore ha chiesto soldi per pubblicarlo, che scrivere è un’arte.

E che davvero non è il ruolo sociale, la cui aura è da troppo tempo scomparsa come diceva Benjamin, dal momento che né un narratore né un poeta vengono ritenuti, di questi tempi, opinion leaders, a contare, ma la fatica, la vocazione, il vero desiderio di far bene quel che si è chiamati a fare.

Ieri sera spiegavo che ho un romanzo in fabbrica da sette anni. Un corsista nuovo alla questione ha sgranato gli occhi: sette anni? E’ terribile! Gli ho detto che non so se questo libro poi, alla fine, funzionerà. Non ho la garanzia, non è una lavastoviglie. Sette anni, ha ripetuto disperato: e io che scrivo solo quando ho voglia! Servissero i corsi di scrittura a far capire che scrivere un libro, un libro vero – non le barzellette dei calciatori o il romanzetto dell’attore o il giallino del magistrato – è una questione di fatica fisica e che, come diceva la ‘O Connor, i denti marciscono e i capelli cadono mentre un romanzo prende forma, sarebbe già un primo risultato.

Di questi tempi di sola immagine, dove la scrittura è finita su Internet e nei blog, in cui gli editori hanno dimenticato il senso delle parole “progetto culturale”, mi sa che bisogna ripetere ad alta voce che scrivere non è fare lo scrittore. Che non c’è un tappeto rosso, che non ci sono guadagni facili né comparsate tv che vi renderanno autori. Che si scrive, come dice Rosa Montero nel suo bellissimo La pazza di casa, contro la morte, perché quel mondo inventato sia davvero simile a come lo avevamo immaginato. Che non si scrive per vedere il proprio nome in calce, ma perché si cerca la verità, per porre domande che non siano oziose, che non si ascoltino nei programmi pomeridiani sui canali nazionali.

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Antonella Cilento (Napoli, 1970), ha pubblicato Il cielo capovolto (Avagliano, 2000), Una lunga notte (Guanda, 2002), Non è il Paradiso (Sironi, 2003), Neronapoletano (Guanda, 2004), L’amore, quello vero (Guanda, 2005), Napoli sul mare luccica (Laterza, 2006).

Una lunga notte ha vinto il Premio Fiesole e il Premio Viadana, è stato finalista al Premio Greppi e al Premio Vigevano. L’amore, quello vero ha vinto il Premo Vitaliano Brancati. E’ tradotta in Germania dalla Bertelsmann. E’ stata finalista al Premio Calvino 1998 con il romanzo inedito Ora d’aria. Ha pubblicato numerosi racconti su riviste.

*

Conduce laboratori di scrittura dal 1993 a Napoli e in Campania, dal 2002 in tutt’Italia.

Ha realizzato:

per Cento Lire, a cura di Lorenzo Pavolini, i racconti radiofonici intitolati "Voci dal silenzio" (RAI, Radio Tre, 15-19 gennaio 2001). Attualmente, collabora con "Il Mattino", "L’Indice dei libri del mese". Dal 1998 al 2000 ha collaborato con il "Corriere del Mezzogiorno"(supplemento del Corriere della Sera), nel 2003 con "Il sole 24 Ore Sud", nel 2005 con "Il Riformista". Si è laureata nel 1995 in Lettere Moderne con una tesi intitolata La scrittura di Pier Vittorio Tondelli vincitrice presso la Biblioteca Comunale di Correggio del Premio Tondelli 1999.

Ha scritto la sceneggiatura del corto "Il martirio di Sant’Orsola" per la regia di Mario Martone e Sandro Dionisio (Banca Intesa, 2005). E’ presidente dell’ass. cult. Aldebaran Park con la quale organizza convegni, rassegne autoriali, spettacoli.
Ha organizzato vari convegni, conferenze e seminari culturali e letterari.

Per il teatro, scrive:

"Isole senza mare: omaggio ad A.M. Ortese ed Elsa Morante", 1999 in scena al Teatro Leopardi, Napoli, regia di Cristiana Liguori, interpreti Cristiana Liguori e Giorgia Palombi; "Bambini nel tempo" da I. Mc Ewan, 2000 in scena al Mezzoteatro di Napoli, al Teatro Nuovo di Salerno, regia di Paolo Oliveri e Giorgia Palombi, interpreti Paolo Oliveri e Luana Di Sarno; "Il funambolo" omaggio a J. Genet, 2001, Teatro Garage Genova, Galleria Toledo Napoli, Teatro Colosseo Roma, in tournée attualmente, realizzato con la regia di Laura Sicignano da un’idea di Iole Cilento, interpreti Marco Pasquinucci e Massimiliano Caretta). "Frankenstesin Barausz" di Laura Sicignano e A. Cilento, 2002, Teatro Cargo, Genova. "Ho visto Don Chisciotte", regia e ideazione di Giancarlo Cosentino, in scena al Teatro Diana, Napoli, 2003.

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lunedì, 19 febbraio 2007

INVITO CON RIPENSAMENTO (di Roberto Alajmo)

Roberto Alajmo

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Mi invitano a una trasmissione televisiva del mattino, sul canale più seguito del servizio pubblico nazionale. Si tratta di parlare di Padre Puglisi. In studio ci saranno anche il regista Faenza, una suora che ha lavorato con Puglisi e non so chi altro.
Una redattrice mi fa una intervista preliminare, per preparare il copione. Io le spiego quello che penso del ruolo della chiesa in Sicilia e le dico sinceramente che secondo me non possono permettersi le mie opinioni in proposito. Lei ride e risponde che non è così. Restiamo d’accordo.

Dopo mezz’ora mi chiama un altro responsabile, il quale mi spiega che ci hanno ripensato: effettivamente non possono permettersi le mie opinioni.
Grazie lo stesso

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In linea diretta con Roberto Alajmo Blog

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Roberto Alajmo è nato a Palermo nel 1959. Fra i suoi libri: Le scarpe di Polifemo (Feltrinelli, 1998), e Notizia del disastro (Garzanti, 2001), col quale ha vinto il premio Mondello. Con Mondadori nel 2003 ha pubblicato il romanzo Cuore di Madre, finalista ai premi Strega e Campiello. Nel 2004 è uscito Nuovo repertorio dei pazzi della città di Palermo e nel 2005 il romanzo È stato il figlio, finalista al premio Viareggio e vincitore del SuperVittorini e SuperComisso.
Con Laterza, sempre nel 2005, ha pubblicato il saggio Palermo è una cipolla.

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lunedì, 19 febbraio 2007

A DIRLA TUTTA (di Roberto Alajmo)

Roberto Alajmo

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Sono particolarmente felice di poter ospitare Roberto Alajmo qui a Letteratitudine. Roberto, oltre a essere un caro amico, è uno dei miei scrittori preferiti. Inauguriamo, dunque, A dirla tutta, nuova rubrica che conterrà interventi a tema libero dello scrittore palermitano in stretta connessione con il suo blog.

Penso proprio che ne leggeremo delle belle!

(Massimo Maugeri)

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Roberto Alajmo è nato a Palermo nel 1959. Fra i suoi libri: Le scarpe di Polifemo (Feltrinelli, 1998), e Notizia del disastro (Garzanti, 2001), col quale ha vinto il premio Mondello. Con Mondadori nel 2003 ha pubblicato il romanzo Cuore di Madre, finalista ai premi Strega e Campiello. Nel 2004 è uscito Nuovo repertorio dei pazzi della città di Palermo e nel 2005 il romanzo È stato il figlio, finalista al premio Viareggio e vincitore del SuperVittorini e SuperComisso.
Con Laterza, sempre nel 2005, ha pubblicato il saggio
Palermo è una cipolla.

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lunedì, 19 febbraio 2007

CLASSIFICA DAL 5 ALL’11 FEBBRAIO 2007

Ecco la classifica dei venti libri più venduti (fonte: Arianna) dal 5 all’11 febbraio 2007.

L’effetto Moccia si sente (eccome)!

Primo Moccia, con Scusa ma ti chiamo amore. In seconda posizione l’ultimo Camilleri: Il colore del sole. Si affaccia, in settima posizione, Ritorno a Baraule di Salvatore Niffoi.

Fa un certo effetto vedere tra i primi venti (19° posto) Francesco Piccolo con il suo L’Italia spensierata.

Il post è aperto per vostri (eventuali) commenti.

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Titolo

Autore

Editore

Prezzo

1 

Scusa ma ti chiamo amore  

Federico Moccia  

Rizzoli  

18,00 

2 

Il colore del sole  

Andrea Camilleri  

Mondadori  

14,00 

3 

La cattedrale del mare  

Ildefonso Falcones  

Longanesi  

18,60 

4 

Nei boschi eterni  

Fred Vargas  

Einaudi  

15,80 

5 

Boccamurata  

Simonetta Agnello Hornby  

Feltrinelli  

15,00 

6 

Il cacciatore di aquiloni  

Khaled Hosseini  

Piemme  

17,50 

7 

Everyman  

Philip Roth  

Einaudi  

13,50 

8 

Ritorno a Baraule  

Salvatore Niffoi  

Adelphi  

16,00 

9 

Una vita con Karol. Conversazione con Gian Franco Svidercoschi  

Stanislao Dziwisz  

Rizzoli  

17,00 

10 

Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra  

Roberto Saviano  

Mondadori  

15,50 

11 

Hannibal Lecter. Le origini del male  

Thomas Harris  

Mondadori  

19,00 

12 

La scomparsa dei fatti. Si prega di abolire le notizie per non disturbare le opinioni  

Marco Travaglio  

Il Saggiatore  

15,00 

13 

Rivergination  

Luciana Littizzetto  

Mondadori  

15,00 

14 

Le ali della sfinge  

Andrea Camilleri  

Sellerio di Giorgianni  

12,00 

15 

Stagioni  

Mario Rigoni Stern  

Einaudi  

10,80 

16 

Inchiesta su Gesù. Chi era l’uomo che ha cambiato il mondo  

Corrado Augias; Mauro Pesce  

Mondadori  

17,00 

17 

Io sono di legno  

Giulia Carcasi  

Feltrinelli  

11,00 

18 

Testimone inconsapevole  

Gianrico Carofiglio  

Sellerio di Giorgianni  

11,00 

19 

L’Italia spensierata  

Francesco Piccolo  

Laterza  

9,00 

20 

Ragionevoli dubbi  

Gianrico Carofiglio  

Sellerio di Giorgianni  

12,00

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domenica, 18 febbraio 2007

MARIO BAVA, I MILLE VOLTI DELLA PAURA (di Gordiano Lupi)

Gordiano Lupi

Mario Bava (1914 – 1980) può considerarsi a ragione il padre dell’horror italiano. Non vi fate ingannare se trovate i nomi di John Foam, Marie Foam o John M.Old. Si tratta sempre di Mario Bava sotto pseudonimo anglofono, come usava per registi e scrittori horror negli anni sessanta. Il figlio Lamberto, per una sorta di omaggio al padre, ha spesso utilizzato il nome di John M.Old jr..

Bava ha inventato gran parte dei trucchi cinematografici e delle trasformazioni visive tutt’ora in uso e prima ancora di diventare un artigiano della regia è stato un formidabile maestro della fotografia. La definizione di artigiano fu coniata dallo stesso Bava durante un’ intervista rilasciata a Luigi Cozzi nel 1971 per la rivista Horror. Infatti il cinema italiano di quel periodo disponeva di budget limitati e Bava era un grande economizzatore, un artigiano capace di fare film validi con poca spesa.

Mario Bava

Gli esordi nel cinema lo vedono in sodalizio con l’amico Riccardo Freda prima ne I Vampiri (1957) e poi in Caltiki, il mostro immortale (1959). Soprattutto in Caltiki (dove per esigenze di produzione diventò John Foam) Bava girò gran parte delle sequenze mostruose ponendo un marchio indelebile sull’opera finita. Lo stesso Freda ha sempre attribuito il film a Bava, dicendo che fa parte del suo modo di fare cinema. Di sicuro l’ameba gorgogliante che sommerge e divora esseri viventi fu ideata da Bava che la costruì utilizzando budella di animali.

Il suo primo lavoro da regista è La maschera del demonio (1960), ancora oggi uno dei più celebrati. Si tratta di un film sulle streghe girato in bianco e nero ma dotato di una stupenda fotografia ed è noto che la buona riuscita di una pellicola horror dipende molto dalla fotografia. La protagonista è Barbara Steele che interpreta il doppio ruolo di vergine e strega. La storia è tratta molto liberamente da Il Vij di Gogol e sceneggiata da Ennio De Concini. Il film ebbe un successo incredibile in America e in Francia, fu apprezzato meno in Italia, dove l’horror stentava ad affrancarsi dall’etichetta di cinema di serie B. In Inghilterra passò dei guai con la censura per alcune scene di violenza ed erotismo. Bava rende esplicita sin dalla prima opera la scelta di seguire i canoni del fantastico letterario e anche nei lavori successivi cercherà l’aiuto di sceneggiatori del calibro di Alberto Bevilacqua per trasporre capolavori di Gogol, Maupassant e Merimée. Bava ambienta quasi tutti i suoi primi film in periodi storici che vanno dal 1500 al 1800, rispettando una moda lanciata dalla casa inglese Hammer e dalle case produttrici d’oltre oceano. L’horror anni sessanta seguiva criteri particolari di ambientazione e dovremo attendere Dario Argento per vedere sullo schermo orrori contemporanei. La maschera del demonio fa venire a mente soprattutto la strega che non muore tra le fiamme ma torna in vita e seduce dalla sua tomba nascosta nella foresta. E’ un film impregnato di sadismo e necrofilia, erotismo e sensualità. Per dirla con Teo Mora è il trionfo del fantastico dell’erotismo. In ogni caso la pellicola saluta la nascita di un maestro del genere. Bava sperimenterà anche altri settori come il western, il mitologico-fiabesco, il fantascientifico e persino il sexy prima maniera, però dimostrerà di trovarsi a suo agio soprattutto con le creazioni fantastiche. Inutile dire che i critici italiani stroncarono il film e che hanno riscoperto l’intera produzione di Bava (come è stato per Totò) soltanto dopo morto.

La ragazza che sapeva troppo è del 1962 ed è un thriller alla Hitchcock, non solo perché nel titolo ricorda L’uomo che sapeva troppo del maestro inglese, ma soprattutto per la tensione e le divagazioni umoristiche inserite  ad arte per stemperare i momenti topici della narrazione. Dario Argento lo prenderà a modello per L’uccello dalle piume di cristallo.

La frusta e il corpo (1963) viene ricordato per la irruzione di un malsano erotismo e di un rapporto sadico appena accennato, però quel tanto che bastava per sconvolgere i censori del tempo. È un film notevole, in ogni caso, anche per il finale aperto che lascia lo spettatore esterrefatto.

Un capolavoro di Bava che ha lasciato il segno è I tre volti della paura (1963), un film a episodi che porta sullo schermo tre diversi modi di affrontare la paura. Bava avverte che i racconti sono di Cechov, Aleksej Tolstoj e Maupassant ma non tutti concordano sulla veridicità delle fonti. Per Renato Venturelli, ad esempio, si tratterebbe soltanto di un’esibizione letteraria, in realtà il film sarebbe costruito su una storia di Snyder e una di Maupassant molto adattate. In ogni caso ai nostri fini poco interessa.

Boris Karloff introduce la pellicola e ci accompagna sino alla fine con la sua presenza da voce e immagine fuori campo. Il telefono è il primo episodio e Fabio Giovannini lo definisce un piccolo capolavoro del brivido a base di coltellate e strangolamenti in una stanza da letto claustrofobica. Noi non ne siamo così entusiasti e lo riteniamo il più debole dell’intera opera, però la tensione è ben espressa e si affrontano temi nuovi per il cinema italiano (per esempio l’amore lesbico tra le protagoniste). I wurdalak vede Boris Karloff nelle vesti del vampiro-zombie della tradizione slava e la sua interpretazione fa dimenticare alcuni dialoghi che risentono tutto il peso degli anni (le scene d’amore tra Sdenka e Wladimir su tutte). L’atmosfera di terrore è però notevole e i colori cupi della fotografia contribuiscono a rendere realistica una storia fantastica. Infine La goccia d’acqua è davvero un piccolo capolavoro. Il padre di Bava, Eugenio, scolpì la maschera della morta, la vera protagonista dell’episodio che tormenta sino alla fine l’autrice di un furto sacrilego. Il terrore quotidiano è reso molto bene e l’intervento del soprannaturale si innesta soltanto alla fine in una storia ben congegnata per tensione  e ritmo. I protagonisti dei tre episodi si trovano in un luogo chiuso alle prese con le loro paure. Sorprendente il finale con Boris Karloff a cavallo di un manichino che svela agli spettatori i trucchi di scena, quasi per voler tranquillizzare. I tre volti della paura ebbe un grande successo negli Stati Uniti, dove uscì come Black Sabbath, ed è sempre stato considerato un cult movie.

Per fortuna adesso è così anche da noi.

Sei donne per l’assassino (1964) è di pochi mesi dopo e segna il ritorno al giallo anticipando alcune tematiche tipiche di Dario Argento. La fotografia dai colori brillanti e violenti è il dato caratteristico della pellicola ed è un vero e proprio thriller orrorifico. Per uccidere si cominciano a usare normali oggetti del quotidiano come coltelli e rasoi, il killer si aggira con un impermeabile nero e viene rappresentato come un signore del male con cui è impossibile lottare. Dario Argento per girare Profondo Rosso si ispirerà molto a questa pellicola.

Terrore nello spazio (1966) rappresenta un’incursione nel fantascientifico che si avvale della sceneggiatura di Alberto Bevilacqua, Callisto Cosulich e Antonio Romano. Gli effetti speciali però sono tipici del cinema fanta-horror e il  notevole colpo di scena finale vale da solo l’intero film. La pellicola fu girata davvero in economia, utilizzando  rocce di plastica, zampironi fumogeni e scenografie di fortuna. Il risultato  raggiunto sa di miracolo e il film in alcune sequenze ricorda Alien, una volta tanto anticipando un prodotto americano ancora di là da venire.

Operazione paura (1966) segna il ritorno di Bava all’horror puro. La storia è una raffinata vicenda gotica calata in un’atmosfera fantastica e resa in un’ambientazione settecentesca assai credibile. Il regista lo giudicava il suo film migliore e quando ne parlò con Luigi Cozzi, nel corso della citata intervista, si rammaricava per il plagio perpetrato da Federico Fellini. Il regista romano infatti riprese per il suo Toby Dammitt la scena della bambina fantasma che gioca a palla. Operazione paura è il classico horror anni sessanta a base di cripte, notti ventose, castelli maledetti e donne vampiro. Anche Operazione paura è girato in economia e soltanto la maestria di Bava è riuscita a rendere realistici scenari realizzati in studio.

Stessa cosa per Diabolik (1968) dove la produzione De Laurentiis obbligò il regista a realizzare il film con duecento milioni di spesa. E pensare che era il periodo del boom dei fumetti neri e che l’operazione doveva essere soprattutto commerciale… Bava ricordava l’esperienza di Diabolik come uno degli episodi più allucinanti della sua carriera. Dovette girare un film a base di modellini e fotografie ritagliate al momento e utilizzate per ovviare allo squallore della scenografia. Tant’è vero che rifiutò con decisione di lavorare alla seconda parte del film, quel Diabolik alla riscossa che la produzione gli aveva subito proposto. Perché Diabolik nonostante tutto ebbe un notevole successo di cassetta. È sempre stata una caratteristica di Mario Bava quella di far rendere al massimo il poco che i produttori gli mettevano a disposizione. Era un grande artigiano del cinema e una volta guadagnata questa fama tutti pretendevano che se la mantenesse.

In tema di cinema fantastico non dobbiamo dimenticare che, tra il 1968 e il 1969, Bava curò lo stupendo episodio di Polifemo per la riduzione televisiva dell’Odissea. Lo sceneggiato fece furore e contribuì a divulgare la conoscenza del poema epico nelle case di milioni di italiani. Polifemo è un eroe tragico e muove a sentimenti di compassione e pena, ma il regista lo realizzò con una maschera davvero terrificante. E per quel che riguarda il trucco sappiamo che Bava era davvero un maestro.

Il rosso segno della follia (1969), che Bava con modestia definiva la storia del solito pazzo, è in realtà uno dei suoi film più studiati e forse meglio riusciti. Anticipa i futuri thriller di Dario Argento e approfondisce molto la psicologia contorta dell’omicida. Il protagonista è un assassino dalla sessualità repressa e deviata. Cinque bambole per la luna d’agosto (1969) invece è la rilettura di Dieci piccoli indiani di Agata Christie ed è un film da dimenticare, girato in fretta e poco ispirato. Lo stesso Bava lo definiva il peggiore da lui diretto. Diceva che lo aveva fatto soltanto per soldi.

Reazione a catena (1971), conosciuto anche come Ecologia del delitto e Antefatto, è di grande importanza perché rappresenta un’incursione nello splatter iperviolento e un’anticipazione di quello che sarà Venerdì 13 di Sean Cunningham. Non sempre il cinema italiano si è ispirato a quello americano, in rari casi è accaduto il contrario. In questo film i delitti sono centrali alla storia e quasi la sostituiscono, quel che conta è soprattutto come morirà la prossima vittima. Siamo in pieno cinema macelleria e le vittime vengono fatte fuori a colpi di coltelli, asce e lame d’acciaio affilato.

Gli orrori del castello di Norimberga (1972) è ancora un film gotico vecchio stile, una favola paurosa. Una sorta di omaggio al cinema fantastico degli anni cinquanta e sessanta, girato con cura e attenzione ai particolari. 

La casa dell’esorcista (1975) arriva in pieno boom da Esorcista, quando i peggiori mestieranti si cimentavano in squallide copie del film di William Friedkin. La pellicola di Bava doveva intitolarsi Lisa e il diavolo e la sua struttura originale era colta e raffinata, tant’è vero che venne presentato al Festival di Cannes nel 1973. Nessuno volle produrla perché ritenuta inadatta al pubblico italiano. Per metterla sul mercato si procedette al suo massacro sistematico: il titolo venne cambiato, molte scene modificate e altre inserite ex novo.  Bava si rifiutò di stare al gioco e ripudiò il film che uscì nelle sale del tutto diverso dall’idea originale. Quello che poteva essere uno dei migliori lavori di Bava divenne una delle cose da dimenticare.

Cani arrabbiati (1976) è tratto da un romanzo di Ellery Queen ed è un buon film, purtroppo ancora inedito in Italia. Si tratta della storia di quattro banditi mascherati che rapinano un portavalori, ammazzano due guardie e nella fuga uno di loro rimane ucciso. I tre rimasti prendono due donne in ostaggio in un garage, una finisce sgozzata, l’altra continua a servire per proteggere la fuga. Durante la fuga prendono un uomo come ostaggio e accadono diversi colpi di scena che rendono il film interessante fino alla parola fine. Un thriller sui sequestri di persona duro e inquietante, molto esplicito e diretto come contenuti e scene di sangue. Il film non ha mai trovato un distributore durante la vita di Bava ed è stato messo in circolazione in Italia soltanto nel 1995 come Semaforo rosso.

Shock è del 1977 ed è l’ultimo film di Bava. Un vero e proprio omaggio all’allievo più geniale, quel Dario Argento che aveva riempito le sale con Profondo Rosso. Shock segna il simbolico passaggio di consegne e la fine di un modo di fare horror tipico del decennio precedente. Protagonista è Daria Nicolodi, regina dell’horror italiano anni settanta, attrice prediletta di Dario Argento e anche sceneggiatrice di molti film. Shock è un capolavoro di tensione, un racconto angoscioso girato quasi tutto in interni, una raffinata storia di fantasmi che ricorda molto il vecchio La frusta e il corpo. Ebbe un gran successo in Giappone, mentre in Italia è passato inosservato.

La carriera di Mario Bava si conclude nel 1978 con il telefilm del mistero La Venere d’Ille, girato in collaborazione con il figlio Lamberto. Protagonista è ancora Daria Nicolodi, però il risultato finale non è dei migliori. Come eredità fantastica di Bava preferiamo ricordare Shock, un film che ha influenzato tutta l’opera successiva di Dario Argento e degli altri autori horror italiani.

Maro Bava è l’unico regista italiano ad aver lavorato con le principali star del cinema horror inglese e americano, attori del calibro di: Christopher Lee, Boris Karloff, Vincent Price, Barbara Steele (lanciata da Bava come dama nera del gotico anni sessanta) e Joseph Cotten. Non solo, ci sono attori scoperti da Bava e consacrati a futuri ruoli nel cinema horror italiano. Basti per tutti l’esempio di Nicoletta Elmi ne Gli orrori del castello di Norimberga che ritroveremo in Profondo Rosso di Dario Argento e in Dèmoni di Lamberto Bava nel ruolo di demoniaca bigliettaia.

Alcuni giornalisti dell’epoca affibbiarono a Mario Bava l’epiteto di Hitchcock di Cinecittà, anche prendendo spunto da titoli di film come La ragazza che sapeva troppo. In realtà Bava ha un suo stile e con il grande maestro del giallo ha soltanto debiti di ispirazione. Bava ereditò dal padre scultore la passione per i colori e per le immagini, voleva fare il pittore ma approdò al cinema, un mezzo artistico che ha utilizzato in modo originale. E’ vero che le sue scelte di regia sono state sempre subordinate al successo di cassetta dei film americani, ma era il mercato dell’epoca a imporlo. Non si poteva contraddire la casa inglese Hammer o ciò che riscuoteva consenso oltre oceano. Si pensi alla abominevole saga delle indemoniate e delle ossesse che funestò gli italici schermi dopo l’uscita de L’Esorcista. Come abbiamo visto lo stesso Bava ne fece le spese con uno dei suoi ultimi film.

Concluderei riportando una valutazione di Pascal Martinet.

Bava crea un’estetica della morte e del crimine. Al diavolo la logica. Importa solo la descrizione grafica della violenza. Carni torturate, graffiate, bruciate, catturate dalla crudeltà della macchina da presa che si diverte a precedere l’attimo in cui l’assassino colpisce. Assassino senza volto, primo di una lunga tradizione e la cui assenza di fisionomia rimanda ai nobili incubi archetipici. Aggiungiamo noi (con Fabio Giovannini) che Bava riesce a  rendere il paesaggio mediterraneo credibile per ambientarvi storie orrorifiche. Ed è uno dei primi a farlo, insieme al Pupi Avati di capolavori come La casa delle finestre che ridono. Il gusto per il terrore puro è un’altra sua caratteristica ed è ben rappresentato dall’utilizzo frequente di coltelli e pugnali per gli omicidi, particolare che Dario Argento spingerà all’eccesso. La lama è cinematografica, dirà lo stesso Bava.

Come abbiamo detto Bava si cimentò in quasi tutti i generi cinematografici in voga a Cinecittà negli anni sessanta – settanta, sempre seguendo i grandi successi che venivano dall’Inghilterra o dagli Stati Uniti. Nella presente trattazione non abbiamo citato i film di argomento mitologico, fantascientifico, favolistico, western e sexy. Per completezza ci limitiamo a elencarli. L’appassionato di Mario Bava troverà così un’esauriente catalogo dell’opera del regista. Le fatiche di Ercole (1957), Ercole e la regina di Lidia (1958), La battaglia di Maratona (1959), Ercole al centro della terra (1961), Gli invasori (1961), Le meraviglie di Aladino (1961), La strada di Fort Alamo(1965), I coltelli del vendicatore (1966), Le spie vengono dal semifreddo (1966), Raycolt e Winchester Jack (1969) e il censuratissimo Quante volte… quella notte (1969 – 73).

Riferimenti bibliografici:

Fabio Giovannini “Serial Killer-i grandi assassini del cinema”, Macabro Show e-book 2002

Antonio Tentori “Lo schermo insanguinato” – Solfanelli, 1990

Renato Venturelli “Horror in cento film” – Le Mani, 1997

Intervista a Mario Bava, a cura di Luigi Cozzi, in Horror 13 – Sansoni 1971

Pascal Martinet “Mario Bava” Film n.6 – Ediling Paris, 1984

Luigi Cozzi – Mario Bava, i mille volti della paura – Profondo Rosso, 2001

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mercoledì, 14 febbraio 2007

ATTRICI E ATTORI DEL VOSTRO CUORE (post carnascialesco)

Cari amici, leggerezza è una parola magica. Ed è appellandomi a essa, visto che siamo in periodo carnascialesco, che vi propongo un giochino che ha poche connessioni dirette con la letteratura (ma fino a un certo punto). E poi non si può essere sempre seri, no?

Tiro in ballo, ancora una volta, Roberto Alajmo. Stavolta lo spunto lo traggo dall’ottima rivista Giudizio Universale (ne approfitto per salutare il direttore Remo Bassetti). Nel mese di luglio del 2006 Bassetti propose ad alcuni collaboratori della rivista di scrivere recensioni su attrici. Alajmo scelse Nicole Kidman. Vi propongo uno stralcio del suo brano (potete leggerlo per intero on-line, cliccando qui).

"Da Arthur Miller (e Marilyn Monroe) a Salman Rushdie (e Padma Lakshmi), giù fino ad Andrea De Carlo (ed Eleonora Giorgi). Succede agli scrittori di innamorarsi delle attrici. E, più raramente, viceversa. Quando succede, il risultato è una coppia succulenta, dai mille risvolti di pubblica maldicenza. Che ci vede lei in uno come lui? Che ci vede lui in una come lei? Sarà lui che s’è rimbecillito, o lei che forse è meno scema di quanto sembri? Il terreno è insidioso. Per questo chiedere a una serie di scrittori di recensire altrettante attrici è un invito a trasgredire una delle regole fondanti di questa rivista. Quella secondo cui il recensore non deve nascondere conflitti di interesse o coinvolgimenti che riguardino l’oggetto della recensione.

Gli innamorati tendono ad assolvere l’oggetto della propria passione. Allora non c’è da meravigliarsi se le recensioni somiglieranno ad altrettante lettere d’amore, se i panegirici risulteranno più numerosi delle stroncature. Forse un’attenuante può consistere nel mettere le mani avanti e ammettere i propri sentimenti, di modo che il lettore possa fare la tara agli eccessi d’entusiasmo. La carne di chi scrive è debole.
Per dire: quando Nicole Kidman s’è messa con Tom Cruise, e poi l’ha sposato, io l’ho perdonata. Anche adesso che, alle vigilia di nuove nozze, dichiara di essere ancora un po’ innamorata di lui, io tendo a liquidare l’incongruenza con un sorriso condiscendente."

Nicole Kidman

E ora il gioco. Semplice, un po’ banale, forse da rivistucola di serie B, ma assolutamente leggero.

Come avete letto, Roberto Alajmo propende per Nicole Kidman.

E voi? Per chi propendete? … Chi è l’attrice o l’attore del vostro cuore?

Sarebbe bello che scriveste nome e motivazione della scelta (va bene pure l’indicazione di attrici e attori scomparsi purché, ripeto, specifichiate la motivazione della scelta).

Comincio io (mi sembra giusto).

Io dico: Jennifer Aniston.

Jennifer Aniston

Motivazione: mi piace il suo stile da ragazza della porta accanto (negli Stati Uniti la chiamano fidanzatina d’AmericaAmerica’s Sweetheart), mi piace la sua leggerezza, la sua spontaneità sulla scena che ritorna limpida sullo schermo. E poi mi sento un po’ debitore nei confronti di lei e di tutto lo staff delle serie televisiva Friends (secondo me una delle migliori situation comedy degli ultimi vent’anni). La Aniston e i suoi Friends mi hanno fatto molto ridere con i loro schatch da commedia comica di alto livello e mi hanno dato sostegno in alcuni momenti di difficoltà.

Ora tocca a voi.

Coraggio, confessate le vostre preferenze qui a Letteratitudine.

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lunedì, 12 febbraio 2007

AUTOIRONIA E LETTERATURA (di Luciano Comida)

Mentre leggevo questo pezzo inviatomi da Luciano Comida non sono riuscito a non sorridere e a non annuire convinto. Leggetelo… e mi direte se ho ragione o no.

Il post è aperto. Ritengo che il tema dell’autoironia sia molto interessante e si presti a essere dibattuto. Fatevi sotto con i commenti, se volete! (Massimo Maugeri)

*

Anni fa un mio collega un po’ sfigato, che la sera sarebbe uscito per la prima volta con una ragazza che aveva appena conosciuta,  mi chiese cosa, secondo me, avrebbe dovuto fare per conquistarla. Io gli suggerii di farla ridere.

Allora lui mi domandò qualche storiella, qualche barzelletta. Cercai di spiegargli che l’umorismo non è una serie di battute o di frasi fatte. Lo humour è un’altra cosa: è un modo di guardare alla vita e alle persone. È uno sguardo sul mondo e su noi stessi.

Per inciso, non so come andò a finire quella serata del mio collega. So però che adesso è felicemente sposato. Non so però se con quella ragazza o con un’altra.

*

La mia foto

Luciano Comida

*

Io ho la barba lunga e arruffata.

Ho la barba lunga e arruffata per molti motivi. Vi racconto quali: ho cominciato a farmela crescere appena mi sono spuntati sulla faccia i primi provvidenziali peli post-adolescenziali. Diventavo rosso in viso con imbarazzante facilità e la mia barbuzza mimetizzava la mia vergogna. Avevo (e ho tuttora) il viso grassottello e la barbuzza ingannava un po’. E poi c’era un’altra ragione: guadagnavo qualche mese in età e così, con la barbetta, aumentavano le mie possibilità di entrare al cinema dove si proiettava un film vietato ai minori di diciotto anni.

Adesso questi problemi li ho superati o perlomeno non costituiscono più un motivo di imbarazzo. E allora perché continuo ad avere la barba? Perché fa parte di me e perché la mattina, quando mi sveglio, vado in bagno, mi guardo allo specchio, mi vedo con la barba tutta storta e spettinata e allora accade un miracolo: mi faccio ridere da solo. E cominciare la giornata ridendo di sé stessi, mi sembra sempre un buon inizio.

Freud scrisse : L’umorismo non è rassegnato ma ribelle, rappresenta il trionfo non solo dell’io, ma anche del principio di piacere, che qui sa affermarsi contro le avversità delle circostanze reali.

*

Credo perciò che il primo punto sia questo: per essere legittimati a ridere degli altri e dell’intero mondo, dobbiamo prima di tutto essere capaci di guardarci allo specchio, per sorridere oppure per sghignazzare di noi stessi, dei nostri difetti, del nostro modo di essere.

È decisivo, per le nostre singole vite, imparare a farlo.

*

Vorrei fare un paragone azzardato: il confronto tra il popolo ebraico e gli adolescenti.

Il popolo ebraico è stato perseguitato, disprezzato, massacrato, sterminato e diffamato per secoli e secoli. Eppure, gli ebrei hanno sempre trovato la forza e l’intelligenza di ridere, prima di tutto di sé stessi. La stessa Bibbia, a leggerla con attenzione, è ricca di humour. Vorrei ricordare solo un passo, tratto dalla Genesi, capitolo 18, versetti 22-32, quando Dio sta per annientare la città di Sodoma e Abramo interviene, contrattando con Dio.

Sentiamo le parole di Abramo: Davvero tu vuoi distruggere insieme il colpevole e l’innocente ? Forse in quella città ci sono cinquanta innocenti. Davvero tu li vuoi far morire ? Perché invece non perdoni a quella città per amore di quei cinquanta ?

Dio acconsente: se troverà quei cinquanta, Sodoma sarà salva.

Ma Abramo insiste. Proprio come se fosse in un mercato levantino ad abbassare il prezzo del peperoncino: Ecco, io oso parlare al Signore anche se sono soltanto un povero mortale. Può darsi che invece di cinquanta ve ne siano cinque di meno. E tu, per cinque di meno, distruggeresti tutta la città ?

Ancora una volta, Dio accetta.

E ancora una volta, Abramo torna alla carica : Può darsi che ve ne siano solo quaranta.

Dio risponde : Io non la distruggerò per amore di quei quaranta.

Non citerò tutto l’episodio, ma Abramo va ancora avanti, sempre al ribasso : trenta, poi venti, infine dieci innocenti.

Rispettosamente dice a Dio: Non offenderti, mio Signore… Insisto ancora, Signore… Non adirarti, Signore. Rispettosamente, molto rispettosamente; ma intanto tira la corda.

Un po’ come fanno gli adolescenti con papà o mamma.

Questo è solo un esempio, ma se ne potrebbero raccontare decine e decine, di passi umoristici della Bibbia.

E anche solo un’antologia di libri e di film sull’umorismo ebraico occuperebbe intere biblioteche e cineteche.

Forse, il popolo ebraico è riuscito a sopravvivere alla sua tragica storia grazie anche al proprio senso del comico, alla propria ironia ed autoironia.

Vi è però un altro gruppo di persone che vivono da secoli e secoli una condizione difficile. Un gruppo di persone che bene o male sopravvive, ma che in genere non possiede né ironia né autoironia. Questo gruppo di persone sono gli adolescenti.

Anni fa, venne fatta a un vasto campione di ragazzini e ragazzine italiane una domanda : quando ti guardi allo specchio, cosa vedi ?

La maggioranza degli adolescenti dette una risposta che ci deve far riflettere a lungo e profondamente. Risposero: vedo un mostro.

*

Ora, c’è un antidoto prezioso contro la vergogna di sé.

Questo antidoto, lo avrete intuito, è l’umorismo, è l’autoironia. È il riuscire a guardare me e le mie confusioni con uno sguardo il più possibile esterno. E questo sguardo è impietoso, questo sguardo ride di me e delle mie contraddizioni, questo sguardo mi salva.

È un antidoto prezioso, un talismano che, se non mi garantisce da solo la felicità, almeno contribuisce, insieme a tante altre cose, a illuminarmi l’esistenza.

Ma di solito gli adolescenti questo talismano non l’hanno ancora trovato. E forse addirittura ignorano che esista.

Come aiutarli ad entrarne in possesso ?

*

Io credo che i libri servano a tante cose.

Un giorno mi slogai una caviglia e finii al pronto soccorso dell’ospedale. Tra l’attesa della prima visita, l’attesa della radiografia e del referto, la seconda visita conclusiva e la dimissione, rimasi in sala d’aspetto quattro, cinque ore.

Attorno a me c’era gente che si annoiava a morte, altri cercavano disperatamente di scambiare due parole con il vicino di barella. Io avevo con me un romanzo di John Irving e passai quelle ore leggendo beatamente.

Avete mai fatto una fila in posta o in banca ? C’è chi cerca di scavalcare la fila, chi si annoia senza speranza, chi guarda il vuoto, chi protesta col mondo. Io accolgo le file con gratitudine: mi regalano il tempo di leggere.

I libri insomma ci saziano, ci riempiono ghiacciai di tempo che se no faremmo fatica ad affrontare.

Ma servono anche ad altro, a tanto altro.

Io sono stato al centro della Terra, ho navigato oltre i confini del Sistema Solare, ho inseguito spietati assassini sui tetti di Parigi, ho amato una guerriera indiana del 1700, ho dialogato con Socrate, ho ascoltato le parabole di Gesù Cristo, ho assistito a lezioni filosofiche di Karl Popper, sono stato ad Auschwitz assieme a Primo Levi, ho vissuto la vita tranquilla di Emily Dickinson e quella avventurosa di Giacomo Casanova.

Io ho cinquant’anni, ma ho vissuto mille e una vita, perché ho letto mille e un libri.

La letteratura insomma allarga le nostre esistenze, ci mette in contatto con il mondo, arricchisce le nostre menti, fa entrare sangue fresco nelle nostre vene.

Ma i libri servono anche ad altro, a tanto altro.

I libri ci fanno sentire meno soli. Ci fanno scoprire che i nostri problemi, quelli che noi pensiamo accadano a noi per la prima volta nella storia dell’umanità, sono invece problemi che gli esseri umani hanno già affrontato milioni e milioni di volte. E questo patrimonio di esperienze ci aiuta a vivere meglio.

Ma i libri ci fanno anche percepire l’insoddisfazione, la ribellione contro le ingiustizie, gli squallori e le infelicità del mondo: i libri sono un combustibile per andare avanti, per non rassegnarsi, per intravedere e per cercare la speranza ed il cambiamento.

Chi legge, anche se il suo corpo è fermo, fa viaggiare la propria mente nel tempo e nello spazio, nella fantasia, nelle menti di altri esseri umani.

Chi legge è creatore al pari di chi ha scritto. Un libro esiste solo se qualcuno lo apre e si mette a leggerlo.

Chi legge non annoia né sé né gli altri.

Chi legge trasmette il contagio di due morbi meravigliosi: la curiosità e la libertà.

*

Secondo me, umorismo nei libri per ragazzi non significa ridere degli adolescenti, bensì ridere con gli adolescenti.

In vari miei libri, il protagonista è un tredicenne di nome Michele Crismani. I romanzi sono tutti scritti in prima persona, è lui l’io narrante. Dico lui perché ormai Michele è una persona a tutti gli effetti vera. Non posso costringerlo a fare quello che voglio io, non posso imporgli di comportarsi come a me autore verrebbe comodo. Devo lasciarlo libero di essere sé stesso.

Un esempio. In Michele Crismani vola a Bitritto, io avevo un’idea di trama. Però, dopo una cinquantina di pagine, Michele e la sua amica Michelle, una coetanea di colore, litigano, una brutta baruffa che cambia radicalmente i loro rapporti. Ma io quella lite non l’avevo mica prevista! È avvenuta davanti ai miei occhi sorpresi, sotto le mie dita che trascrivevano tutto battendo sui tasti del computer.

Se si lasciano liberi i personaggi, accade anche questo, accade che siano loro a fare il libro, a guidarlo dove li porta la loro personalità.

Quando scrivo le storie di Michele, faccio buio nella mia mente e lascio che sia lui, il mio personaggio, a raccontare.

Con Michele Crismani io cerco di guardare il mondo con gli occhi di un adolescente.

E per provare a farlo bisogna conoscerli, gli adolescenti.

Le strade per tentare di riuscirci credo siano due.

La prima: ascoltarli, guardarli, sapere quali sono i loro gusti, tenersi aggiornati. Noi adulti non dobbiamo né scimmiottarli né disprezzarli, ma conoscerli a fondo, pur restando noi stessi.

La seconda: ogni adulto (anche se l’ha dimenticato) ha avuto undici, dodici, tredici anni. E allora lo scrittore deve attingere a questo proprio passato, arricchendolo con la fantasia e con l’osservazione della realtà.

Il mio Michele Crismani è stato definito da un critico un adolescente con diritto di mugugno. È una definizione che mi piace molto: penso che Michele faccia ridere gli adolescenti perché si riconoscono in lui e nel suo sguardo sul mondo.

*

Chiudo con un interrogativo. Ricordate l’episodio di Abramo che contratta con Dio per salvare Sodoma? Avevamo lasciato Abramo che si ferma sulla soglia dei dieci innocenti. Ma Dio non trova nemmeno quelli e distrugge l’intera città, dopo aver permesso a Lot, a sua moglie e alle loro due figlie, di salvarsi.

Io spesso mi pongo una domanda, che non so se sia più teologica, filosofica o umoristica: in questa trattativa con Dio, Abramo fin dove poteva arrivare?

*

Luciano Comida

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domenica, 11 febbraio 2007

LA FINE DELLA VERITA’ di Monica Maggioni (recensione e intervista)

Conoscevo già Monica Maggioni, nel senso che l’avevo vista più volte su Unomattina e al Tg1. Ma quando apparve sullo schermo del mio televisore, nel 2003, in piena guerra-a-Saddam, a raccontarci l’inferno iracheno mischiata con i soldati delle truppe americane, fu come se la vedessi per la prima volta.

Mi domandai: chi è questa giornalista che fissa la telecamera con occhi socchiusi per via del sole abbagliante o forse della sabbia sollevata dal vento, con il microfono in mano e i capelli rossi che svolazzano alle correnti calde del deserto? Chi è costei che rischia la vita per raccontare la guerra-a-Saddam vista dal di dentro?

Monica Maggioni apparve ai miei occhi – così come credo agli occhi di molti italiani e di molte italiane – come l’eroina (o una delle eroine) del nuovo millennio.

Devo ammettere che ho aspettato l’uscita di questo libro, dopo il precedente Dentro la guerra (Longanesi, 2005), con una certa impazienza: sia perché desideravo conoscere la storia ri-raccontata da Monica e impreziosita dalle sue nuove considerazioni maturate per via del decorso del tempo, sia perché – chi mi conosce lo sa – i temi trattati mi interessano particolarmente: terrorismo internazionale e (presunto) scontro di civiltà; informazione, controinformazione e pseudoinformazione; i condizionamenti subiti dalla stampa, il controllo del potere nelle società capitalistiche del nuovo millennio, gli equilibri (o gli squilibri) in medioriente.

Mi colpì il titolo: La fine della verità.

Pensai: un libro che si intitola La fine della verità non può che essere paradossalmente vero.

Fu con questo pensiero che iniziai la lettura.

* * *

Ci tengo subito a precisare che questo volume di Monica Maggioni non è un saggio o un semplice libro-reportage. È una storia: “la storia di una persona che ha camminato, molto spesso ha corso, e correndo ha cercato di raccontare quel che le accadeva intorno. Poi, cinque anni dopo, si è voltata indietro”.

La Maggioni si volta indietro, dunque. E racconta. E il suo racconto trae origine da una serie di domande che si avvicendano a ritmo forsennato nella parte introduttiva al testo. Domande poste senza punto interrogativo e per questo ancora più sferzanti. Una serie di «perché» che fioccano uno dopo l’altro. Una sfilza di: ma come è possibile «che»«se»

“(…)

Perché una grande potenza come quella degli Stati Uniti non ha saputo o non ha voluto elaborare un piano concreto su come gestire l’immediato dopoguerra, cercando di evitare che la popolazione dell’Iraq cadesse in un incubo ancora peggiore di quello da cui usciva.

Perché i grandi strateghi non hanno saputo capire che dietro la « vittoria lampo » si nascondeva la minaccia della guerriglia, mentre noi in gita ad Al Awaja – il paesino dove è nato Saddam – tre settimane dopo la fine della guerra ci siamo sentiti raccontare con precisione matematica quello che sarebbe poi accaduto subito dopo, e non ci aveva mandato la CIA.

(…)”

E poi il racconto. Dall’11 settembre alla guerra in Iraq, dal dopoguerra – che in tanti hanno avuto difficoltà ad additare con il nome di guerra civile – agli attentati di Madrid e Londra, dalle vignette contro Maometto al conflitto in Libano. E oltre.

La parte più corposa del libro è dedicata all’esperienza irachena.

Una mattina, Monica, leggendo il New York Times, scopre che almeno cinquecento reporter e tecnici potranno seguire le truppe durante le operazioni militari in Iraq come embedded. E il quotidiano americano racconta che una parte di questi giornalisti sta già seguendo corsi di addestramento in alcune basi USA.

La Maggioni scrive al Pentagono chiedendo di poter filmare queste fasi preparatorie. Questa, almeno, è l’idea iniziale. Perché Monica sarebbe poi dovuta partire, come inviata, per il fronte. Ma i piani cambiano e seguire le truppe americane come embedded diventa l’unica possibilità di mettere piede in terra irachena per “raccontare” la guerra.

Seguendo le truppe americane, Monica e il suo cameraman, Silvio, vivono un’esperienza unica e a tratti terribile. Come quando arriva il segnale convenzionale che avverte i militari di un possibile attacco con armi chimiche: “All’improvviso abbiamo sentito il suono lungo di una sirena strozzata: quel suono. (…) Non contava altro in quel momento, solo tirare ossessivamente i lacci di caucciù della maschera antigas fino a tagliare la pelle del viso. Bisognava stringerli, stringerli ancora. E dentro la maschera il respiro diventava sempre più affannoso, sembrava di soffocare nel nostro stesso fiato caldo. (…) Ad aumentare il senso di angoscia contribuivano i muscoli contratti degli ufficiali. Loro, che ragionevolmente avevano più informazioni di noi, erano i più preoccupati.

È in quei momenti che la paura si trasforma in qualcosa di concreto. Diventa uno spazio fisico che si frappone tra te e le persone che hai intorno. Muoversi è di colpo più difficile, i pensieri si stemperano, rallentano, diventano ossessivi.”

O come quell’altra volta, a Falluja: “L’autista guida con lo sguardo fisso sull’autostrada sotto il sole di mezzogiorno, l’interprete sta dormendo, e io mi vedo una bocca di kalashnikov puntata di fronte alla faccia. (…) Abbiamo incontrato gli alibaba di Falluja.”

Monica Maggioni racconta la sua storia e lo fa con il piglio della giornalista impavida e l’abilità della narratrice vera, senza tralasciare particolari, con ampia documentazione a supporto e avvalendosi di citazioni accurate. E poi, dopo la storia, il ritorno in Italia. Il ritorno a una realtà così diversa e lontana che genera, quasi, un senso di ottundimento.

“Tornare in Italia dopo tanto Iraq dà un senso di estraneità. Diventa strano perfino ascoltare i discorsi, misurare la distanza infinita tra quel mondo e il nostro. (…) Mi aggiro nei posti di sempre, e mi sembra di riuscire a guardare da fuori i miei stessi discorsi con le altre persone.”

E poi il terrore. Il terrore che ritorna e si presenta con sembianze più simili alle nostre.

“C’è stato l’11 marzo di Madrid, la morte in quella mattina normale. E per gli europei, per gli italiani, lo shock è stato ancora più grande. (…) L’ora che corrisponde alla nostra, il gesto consueto di prendere la metropolitana, andare al lavoro, una cosa che riguarda ognuno di noi.”

E il terrore genera sospetto generalizzato, e il sospetto generalizzato può sfociare in diffidenza e pregiudizio.

“E mi è ancora più chiaro un mercoledì mattina alla stazione Termini, quando tre ragazzi dall’aria magrebina o mediorientale parlano fitto fitto tra loro, a capannello, e io istintivamente mi insospettisco, sento un brivido.

Poi mi fermo a pensare.

Ma se il sospetto e la diffidenza attraversano me, che per tanto tempo sono stata nelle loro case, che per mesi ho vissuto nei loro Paesi, ho condiviso il cibo, i viaggi e le risate, allora cosa proveranno gli altri?”

E poi la consapevolezza: “Solo adesso mi sembra di cominciare a capire perché è stato tanto semplice (…) raccontare il nostro mondo contrapposto al loro. (…) Con la paura si veicola tutto. Si può far credere tutto.”

Il libro è impreziosito dal breve saggio conclusivo firmato da Loretta Napoleoni dal titolo: La Jihad moderna, la crociata del fondamentalismo islamico. La Napoleoni ci parla con dovizia e cognizione di causa di Decadenza economica, crociata economica, de L’ascesa delle nuove classi e de La religione come identità.

Che altro dire di questo La fine della verità di Monica Maggioni?

Che è un libro coraggioso, scritto in maniera schietta, senza mezze-frasi o sottili allusioni dall’effetto titillante. Una boccata d’ossigeno nell’odierno panorama editoriale intriso di testi che presentano tesi spacciate per verità assolute. Un volume che si sforza di raccontare una realtà complessa e contraddittoria, che non fornisce risposta a tutti i dubbi, ma che pone domande e fa porre domande.

Credo che, in quest’epoca di massificazione globale e di mistificazioni, di false certezze e dubbi reali, porsi domande diventa più che mai necessario. E credo che non ci sia retorica nel sostenere che finché ci sarà qualcuno che avrà la forza e il coraggio di porsi delle domande, e di far porre delle domande, la fine della verità sarà lontana.

Massimo Maugeri

Ne approfitto per ringraziare Monica Maggioni per la disponibilità mostrata nel rilasciare l’intervista che segue.

*

- La fine della verità. Un titolo inquietante. Ma la verità è davvero finita? O in che senso, e fino a che punto, dobbiamo considerarla finita?

Il titolo è provocatorio. In realtà non credo che la verità sia mai cominciata e mai finita. Il problema vero è che troppo spesso, di questi tempi, si sentono persone che raccontano piccoli picchi, piccole parti, piccoli frammenti di realtà. E pretendono che diventino la realtà o la verità giusta, uguale, con un valore assoluto per tutti. Mi sembra che, forse, potrebbe essere questo un buon momento e una buona occasione per metterci tutti un po’ più in discussione e capire che in fondo non è che c’è il bene o il male con grandissima chiarezza. Mi riferisco soprattutto al discorso che ho sentito fare negli ultimi anni sullo scontro di civiltà. Su noi e gli altri. Noi buoni da una parte e i nemici di fronte. Ecco, mi sembra che la realtà sia una cosa un po’ più complessa. E invece molto spesso viene raccontata in modo non complesso, ma estremamente banalizzante. Dividendo il mondo in due: tra buoni e cattivi, bianco o nero. Ho utilizzato questo titolo provocatorio per dire che forse vale un po’ la pena di mettersi tutti a discutere su quale sia poi la verità assoluta.

- Quante volte, nel corso della tua esperienza come embedded, hai davvero avuto paura?

Da embedded la paura la vivi perché sei esattamente dentro una guerra. Non è che i soldati americani erano lì per occuparsi di noi o per difendere noi. Erano lì per fare la loro guerra. E noi eravamo semplicemente, come dire, coinvolti nelle stesse vicende. E siccome quella in Iraq non è stata una simulazione di guerra o un gioco alla guerra, ma una guerra vera, ci sono stati molti momenti in cui abbiamo avuto paura.

- Cos’è che spinge una giornalista a rischiare la vita per tentare di raccontare una verità così sfuggente e, a volte, ineluttabilmente ambigua?

La passione per il proprio lavoro. La voglia di raccontare la realtà, che è quella che non può essere sotto gli occhi di tutti. La voglia di andare fino in fondo per guardarla in faccia e per cercare di capire qual è il senso delle cose.

-    Nel libro, di tanto in tanto, citi alcuni blog come unica fonte di informazione disponibile in circostanze particolari, o come controinformazione. Qual è stato il ruolo dei blog nel contesto della guerra in Iraq?

All’inizio della guerra non particolare. I primi mesi del 2003, subito dopo l’invasione americana – quindi marzo, aprile, maggio – sono stati mesi in cui gli iracheni erano divisi tra l’euforia di chi si sentiva liberato e l’angoscia di chi vedeva crollare il proprio potere. Poi quando s’è capito che questa liberazione, in realtà, portava tutte conseguenze nefaste, che gli americani stavano facendo cose diverse da quelle che gli iracheni si aspettavano, che rapidamente si stava chiudendo la palude sopra la possibilità di raccontare le cose, o di raccontarsi per come si era, molti blog sono diventati per gli iracheni l’unica possibilità di racconto. Poi adesso, che per i giornalisti, e in particolare per i giornalisti occidentali (ma non solo), diventa difficile o impossibile raccontare da dentro il conflitto iracheno, i blog sono proprio le voci che arrivano dall’interno della storia. Quelle che altrimenti non si potrebbero sentire.

-    Cosa pensi dell’esecuzione capitale inflitta a Saddam Hussein?

Mi sembra la perfetta conclusione di una tragica serie di errori. L’errore culmine che chiude una sequenza di errori impressionante. Penso che, per chi pensava di non trasformare Saddam Hussein in un simbolo, averlo ammazzato nel giorno del sacrifico sia stata, come dire… l’ultima ironia.

-    Monica, cosa ti rimane oggi – a distanza di tempo – della tua esperienza irachena?

La mia esperienza irachena non è stata la mia esperienza da embedded. La mia esperienza da embedded è durata una manciata di settimane, quella in Iraq è durata più di un anno in periodi alterni. Che cosa mi rimane? Mi rimane moltissimo. Mi rimane soprattutto il fatto di sentirmi molto, molto legata alle vicende e ai destini di quel Paese, di quella gente, delle persone che ho conosciuto e di quelle che non ho mai visto. E mi rimane la grande amarezza di una storia che abbiamo tentato di raccontare: qualche volta ci siamo riusciti, qualche volta abbiamo fallito. Ma soprattutto di una storia che, nonostante l’impegno profuso nel raccontarla, è andata nel modo peggiore possibile. E adesso sono gli iracheni che ne pagano le conseguenze.

La fine della verità

di Monica Maggioni

Longanesi, collana “Le spade”, 2006

pagg. 226, euro 14,60

Monica Maggioni è nata a Milano e fa la giornalista. Ha raccontato le ultime guerre del pianeta in televisione, sui giornali e scrivendo libri. In Dentro la guerra (Longanesi, 2005) ha narrato la sua esperienza di unica giornalista italiana embedded con le truppe americane in Iraq. Per i suoi reportage ha ricevuto il Premio Luigi Barbini nel 2004.

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domenica, 11 febbraio 2007

CLASSIFICA DAL 29 GENNAIO AL 4 FEBBRAIO 2007

Ecco la classifica dei venti libri più venduti (fonte: Arianna) dal 29 gennaio al 4 febbraio 2007.

Secondo i dati di Arianna, la classifica (almeno rispetto a quella che avevo precedentemente inserito in un altro post) appare rivoluzionata, soprattutto nelle prime tre posizioni. In testa l’ultimo romanzo della Agnello Hornby, Boccamurata. In seconda posizione il libro La cattedrale del mare di Ildefonso Falcones. Al terzo posto Everyman di Philip Roth (di questo libro vi proporrò una recensione nei prossimi giorni).

Il post è aperto per vostri (eventuali) commenti.

-

Titolo

Autore

Editore

Prezzo

1 

Boccamurata

Simonetta Agnello Hornby

Feltrinelli

15,00 

2 

La cattedrale del mare

Ildefonso Falcones

Longanesi

18,60 

3 

Everyman

Philip Roth

Einaudi

13,50 

4 

Il cacciatore di aquiloni

Khaled Hosseini

Piemme

17,50 

5 

Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra

Roberto Saviano

Mondadori

15,50 

6 

La scomparsa dei fatti. Si prega di abolire le notizie per non disturbare le opinioni

Marco Travaglio

Il Saggiatore

15,00 

7 

Hannibal Lecter. Le origini del male

Thomas Harris

Mondadori

19,00 

8 

Stagioni

Mario Rigoni Stern

Einaudi

10,80 

9 

Io sono di legno

Giulia Carcasi

Feltrinelli

11,00 

10 

Inchiesta su Gesù. Chi era l’uomo che ha cambiato il mondo

Corrado Augias; Mauro Pesce

Mondadori

17,00 

11 

Le ali della sfinge

Andrea Camilleri

Sellerio di Giorgianni

12,00 

12 

Rivergination

Luciana Littizzetto

Mondadori

15,00 

13 

Se questo è un uomo

Primo Levi

Einaudi

9,80 

14 

L’ombra del vento

Carlos Ruiz Zafon

Mondadori

12,00 

15 

Fuori da un evidente destino

Giorgio Faletti

Baldini Castoldi Dalai

18,90 

16 

Proibito parlare. Cecenia, Beslan, Teatro Dubrovka: le verità scomode della Russia di Putin

Anna Politkovskaja

Mondadori

10,00 

17 

Ragionevoli dubbi

Gianrico Carofiglio

Sellerio di Giorgianni

12,00 

18 

Il mio nome è rosso

Orhan Pamuk

Einaudi

11,80 

19 

Testimone inconsapevole

Gianrico Carofiglio

Sellerio di Giorgianni

11,00 

20 

Ad occhi chiusi

Gianrico Carofiglio

Sellerio di Giorgianni

10,00

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sabato, 10 febbraio 2007

“ALONE” DI CECILIA CHAILLY (recensione di Alessandro Romanelli)

Alessandro Romanelli è un bravo musicologo, autore del blog L’orecchio di Dioniso. Ma Alex è anche un fedele frequentatore di Letteratitudine. Così come amica di Letteratitudine è la celebre arpista – prima arpa della Scala di Milano – Cecilia Chailly (che ci segue assiduamente). Cecilia, peraltro, è anche scrittrice. Nel 2002 ha pubblicato per Bompiani il bel romanzo: Era dell’amore.

So che Cecilia, tra le altre cose, è alle prese con un nuovo romanzo… per cui le faccio i migliori in bocca al lupo nell’attesa di poterla rileggere. Quella che segue è una recensione di Alessandro Romanelli al più recente Cd della Chailly: Alone (chi lo desidera può ascoltare i primi trenta secondi di ogni brano cliccando sul titolo). Io posso solo dire che l’ascolto della musica di Cecilia mi crea effetti piacevolmente estatici.

Massimo Maugeri

*

Cecilia Chailly

*

Vi segnalo uno splendido cd che ho avuto la possibilità di ascoltare in questi giorni. Compact prodotto da Cecilia Chailly. Sì proprio lei, l’arpista dal fascino unico, dalla musicalità seducente, figlia e sorella di due illustri musicisti come Luciano e Riccardo. Il disco pubblicato dalla Emi Classics è intitolato “Alone” e possiede un emblematico sottotitolo: “Featuring: Ludovico Einaudi – Chailly’s family”. Un lavoro che appare, sin da subito, come una sorta di diario sonorizzato dai ricordi, dalle voci, dalle atmosfere della musicalissima famiglia Chailly. Nostalgie, pensieri, qualche rimpianto forse, ma soprattutto l’inconfondibile profumo di un tempo perduto, di un grande amore tra padre e figlia, vissuto nel sogno, nel desiderio del suo eterno ritorno. La voce argentina di Cecilia-bambina, registrata da papà Luciano, regala inauditi momenti di tenerezza. Momenti che, se accostati poi alle note leggiadre e al contempo oniriche, ricreate dalla Cecilia-donna nelle sue canzoni, sanno regalare forti emozioni. Qualcuno ci racconta su riviste e giornali che questo genere di musica si debba aridamente definire un’ibrida insalata tra New Age, World Music, Classica, Pop etc. A noi piace invece, senza riduttive etichette di comodo e soprattutto senza i soliti (appunto) aridi perchè, lasciarci cullare nudi dalle titillanti, antiche sonorità dell’arpa, dagli incerti accordi di un vecchio (ma quanto straordinario!) pianoforte o ancora dal violino, dai flauti, dall’armonica a bocca, dalle percussioni e dall’ocarina. Tutti strumenti, di volta in volta, suonati / utilizzati da Cecilia quali veicoli veri e appassionati di espressione poetica. Cecilia sa regalare a chi ascolta la sua musica valori autentici, profondi, nel cinico mondo odierno (forse) irrimediabilmente perduti. C’è, dunque, una sofferta, intensa ricerca spirituale dietro tutto questo. Ludovico Einaudi (anche lui di illustri natali: figlio com’è di Giulio l’editore e nipote di Luigi, un indimenticabile – per chi l’ha conosciuto – Presidente della Repubblica) partecipa al cd con un bel cammeo, condividendo con Cecilia l’amore per i panici silenzi e le “sonore magie” di valli e montagne. Emozioni, ricordi, sogni, ma soprattutto Musica.

Alessandro Romanelli

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giovedì, 8 febbraio 2007

LA PUNIZIONE (di Salvatore Scalia)

      Nei mesi scorsi si è molto dibattuto, sui giornali e in Internet, sulla capacità della letteratura italiana contemporanea di raccontare efficacemente il presente e sulla conseguente questione se tale capacità sia più appannaggio della cosiddetta letteratura documentale (faction) piuttosto che della letteratura di pura finzione (fiction).

      Pare indubitabile che la narrativa di natura documentale sia in netta crescita e che il fenomeno interessi la comunità letteraria dell’intero Paese. Cosa dire in proposito? Che la faction, come qualcuno ha lasciato intendere, sia davvero destinata a soppiantare il romanzo noir, giallo, o thriller di pura finzione (ovvero il genere di romanzo che, secondo molti, ha notevolmente contribuito a raccontare l’Italia dei nostri giorni e che, oggi, soffrirebbe dei sintomi di una prossima estinzione per sopravvenuta saturazione di mercato)? Che la faction sia davvero la nuova (e Cristo si è fermato ad Eboli, di Carlo Levi?) frontiera della letteratura italiana (che, secondo qualcuno, è tradizionalmente avulsa dalla realtà)? E la realtà è davvero così frammentata da poter essere più efficacemente rappresentata dalla narrazione documentale? Oppure, come si è anche sostenuto, il problema principale (almeno in occidente) deriva, piuttosto, da un irrisolto disagio psicologico che non può essere che alleviato dall’invenzione letteraria pura, l’unica capace – con la forza dell’allegoria – di creare miti? E poi, la diffusione della faction non può essere anche dovuta a una certa inadeguatezza (qualcuno lo sostiene) della cronaca giornalistica a essere davvero pungente, o a raggiungere soddisfacenti livelli di analisi?

      Come spesso accade è probabile che la verità stia nel mezzo. E forse – a costo di sconfinare nella banalità e nella retorica – si potrebbe chiudere il dibattito sostenendo che, tra fiction e faction, a vincere, alla fine, sono i libri buoni. Quelli ancora capaci di raccontare una storia che sia tale. Quelli ancora in grado di coinvolgere davvero il lettore. Quelli che, pur basati sulla pura finzione o su fatti davvero accaduti, sull’allegoria o sulla realtà spicciola, riescono ancora a regalarci un riflesso nuovo e vero della nostra contemporaneità.

    

Il libro che vi propongo in questo spazio lo si potrebbe far rientrare – basandoci su quanto sopra esposto – nella categoria della faction, come Gomorra di Saviano, per intenderci. Ma io preferisco sottolineare molto più semplicemente che è un libro che fa parte della più generica categoria dei libri buoni. Il titolo è La punizione, l’autore Salvatore Scalia, l’editore Marsilio.

Vi accenno in estrema sintesi la trama:

Quattro scippatori, tra i dodici e i tredici anni, un mattino dell’aprile 1976, si aggirano su due Vespe 50 ai margini del mercatino rionale del quartiere di San Cristoforo a Catania. Sono attratti dalla deferenza di cui è circondata una donna anziana che, fatta la spesa, si avvia verso casa. Le strappano la borsetta, lei resiste, cade e si frattura un braccio. Il bottino è misero, ma l’oltraggio è grande, perché, senza saperlo, hanno derubato la madre di un capo mafia. I ragazzini da predatori diventano preda. Spariranno nel nulla. Anni dopo un pentito, in preda ai rimorsi, rivelerà il loro destino, però senza alcuna prova concreta.

Scalia, in questo romanzo d’esordio, ci racconta una storia tragica realmente accaduta. E lo fa con efficace essenzialità, dipingendo con tratto secco e rapido una Catania d’annata. La Catania degli anni Settanta rivisitata attraverso la particolare disamina di uno dei quartieri più a rischio e più problematici della città: San Cristoforo. La bravura dell’autore è ravvisabile non soltanto nella capacità di narrare le vicende di questi quattro ragazzi, che da delinquenti-aggressori diventano vittime del cinismo ferale di un sistema criminoso agghiacciante – capeggiato dal boss mafioso Nitto Santapaola – che detta regole ed esegue sentenze autopromulgate, ma anche nella trasposizione, tra le pieghe delle vicende narrate, di personaggi reali e caratteristici (per esempio il famoso Pippo pernacchia, esecutore di pernacchie a pagamento) resi particolarmente interessanti dall’uso, nei dialoghi, di un linguaggio gergale intriso di modi di dire e proverbi di strada.

Come scrive Mario Grasso su Lunarionuovo, questa è “un’opera che si impone subito per la eccellenza della modulazione espressiva, il taglio agile e la magistrale resa della singolare tragica trama (…). “La punizione”, ci fa collocare la narrativa di Salvatore Scalia come continuazione della linea derobertiana delle profonde indagini nella mentalità, nell’indole di una gens, che qui, all’opposto di quella de “I Viceré”, non è del nobile parassita ma nel plebeo criminale anch’esso parassita.”

Massimo Maugeri

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LA PUNIZIONE

Catania 1976: quattro ragazzi spariti nel nulla

di Salvatore Scalia

Marsilio, 2006

p. 135, euro 11

*

Salvatore Scalia, etneo di Mascalucia, vive di giornalismo e dirige le pagine culturali del quotidiano "La Sicilia" di Catania. Ha scritto per il teatro e suoi lavori sono andati in scena alla rassegna internazionale Taormina arte e allo Stabile di Catania. Ha pubblicato Teatro. Trilogia del malessere e Appunti.

La Punizione ha vinto la sezione opera prima del prestigioso Premio letterario Vittorini.

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giovedì, 8 febbraio 2007

UN CASO DI OMONIMIA…

Ci tengo a precisare che il Massimo Maugeri citato sul Corriere-Magazine di oggi 8 febbraio 2007 (pag. 95), all’interno della rubrica Cammeo di Antonio D’Orrico non sono io. Si tratta di un semplice caso di omonimia. Ho pensato di scriverlo in questa sede giacché mi sono pervenute diverse mail in proposito. E pure qualche sms da parte di amici scrittori.

Quel Massimo Maugeri scrive a D’Orrico: “Eppure sarebbe bello conoscere la sua opinione sui libri più tristi e desolati, come le chiede il signor Morabito da Tivoli. Sono triste anch’io. E ho sempre utilizzato il metodo di compensare la mia angoscia con l’angoscia altrui. La letteratura come consolazione. Lo faccia se può.”

*

A parte che, con tutto il rispetto che nutro per il dottor D’Orrico (che mi tengo buono visto che è stato capace di rivoluzionare la vita – e il conto il banca – di più di uno scrittore), riuscirei a sopravvivere anche senza conoscere la sua opinione sui libri più tristi e desolati, vi assicuro che non sono per nulla angosciato e che per me la letteratura è gioia e non consolazione.

Giusto per precisare.

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mercoledì, 7 febbraio 2007

IL RITORNO DI PHILIP ROTH

Nei prossimi giorni inizierò la lettura di Everyman il più recente romanzo di Philip Roth pubblicato da Einaudi e distribuito nelle librerie proprio in questi giorni.

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Philip Roth

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Roth è uno degli eterni (si fa per dire, naturalmente) candidati al Nobel per la letteratura.

Vi ragguaglierò senz’altro sugli esiti della mia lettura. Intanto vi propongo le impressioni del nostro amico scrittore Luciano Comida che ha già letto il libro e ne è rimasto entusiasta.

*

SE LA PAROLA "CAPOLAVORO" HA UN SENSO

Everyman è il nuovo romanzo (il ventisettesimo di una grandissima carriera) dell’americano Philip Roth: copertina completamente nera, 123 pagine che afferrano il lettore alla gola in una morsa che fa male.

Comincia con il funerale del protagonista, che muore anziano per un arresto cardiaco. E poi il libro va a ritroso, raccontando la sua vita, i suoi amori, i suoi difficili rapporti con i figli, ma soprattutto la presenza sempre più invasiva della malattia e del pensiero della fine. Arrivato a settantatre anni, Roth mette in scena uno dei tabù della narrativa e del cinema: lo sgretolamento del corpo davanti all’incalzare dell’età, la completa nudità di ogni essere umano davanti alle malattie e al dolore. E dato che è uno dei più grandi romanzieri contemporanei, lo fa con una storia appassionante, magnificamente scritta, densa e capace di coinvolgere qualsiasi tipo di lettore. Il protagonista è un uomo del ventesimo Secolo, ebreo, non credente, contraddittorio, capace di tenere dolcezze ma anche di stupidi egoismi. Se i "capolavori" sono opere che raccontano personaggi tipici in situazioni tipiche, la cui descrizione diventa universale attraverso la maestria artistica dell’autore, Everyman è un capolavoro.

Luciano Comida

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Se c’è qualcuno tra voi che ha già letto il libro e vuole condividere qui le sue impressioni… be’, che si faccia avanti!

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martedì, 6 febbraio 2007

CHI HA PAURA DI GIORDANO BRUNO (di Maurizio Di Bona)

Maurizio Di Bona mi invia questo contributo sulla figura di Giordano Bruno. Ve lo propongo anche in occasione dell’anniversario che si celebrerà nei prossimi giorni. (Massimo Maugeri)

Giordano_bruno_m_di_bona Fra poco meno di due settimane ricorre, ancora una volta, l’anniversario della morte di Giordano Bruno, filosofo conosciuto nell’Europa del 500 semplicemente come il “Nolano”, (perché nato a Nola, vicino Napoli) arso vivo per mano cattolica il 17 febbraio del 1600.

Ogni anno se ne parla sempre meno ed i media, timorosi forse di irritare qualcosa o qualcuno (mah!), ritengono inopportuno, o tutto sommato inutile, dedicare spazio al ricordo di chi ancor prima di Galileo, intuiva e rivoluzionava visione e posizione di uomo e Terra, non più al centro di alcunché, in un universo infinito, in cui tutto è relativo ed in cui il nostro è solo uno dei mondi possibili.

Non abbiamo ritratti certi di Bruno e non abbiamo tutte le sue opere; chi ha tentato di cancellarlo dalla storia, dopo avergli chiuso la bocca, alla lettera, perché con una mordacchia, ne ha disperso le ceneri ai quattro venti ed ha poi fatto in modo che di lui non ci fosse traccia o segno che ne riportasse alla luce la memoria nei secoli a venire.

Dobbiamo essere grati all’irlandese John Toland che nel ‘700 ne riscoprì la grandezza e il genio, aprendo la via a tutti gli studi successivi. I francesi gli tributano i giusti onori, i tedeschi ce lo invidiano, addirittura attribuendosene una parte del dna, ma in Italia Bruno deve restare nell’ombra.

In esilio totale e perenne, oggi come quattro secoli fa. Chissà perché…

Un frate domenicano dall’ingegno fuori dal comune, che a lume di ragione, scardina dogma per dogma il sistema ecclesiale dell’epoca, corrotto e intriso di superstizione e miracolistica, indica ai regnanti una pace religiosa per porre fine alle guerre che insanguinano l’Europa, che fa da ponte tra saggezza orientale e pensiero filosofico occidentale e che chiede al Papa di riportare la Chiesa sui soli binari apostolici dell’amore, non capisco a chi possa far paura!?

E’ per questo che ho intitolato il mio libro proprio così: Chi ha paura di Giordano Bruno, ma mai avrei immaginato che poi quell’interrogativo privo di punto di domanda si rivelasse così “dannatamente” profetico!

Nella prefazione all’opera, l’illuminato Giuliano Montaldo, regista dell’unico Giordano Bruno cinematografico che abbiamo, ricorda i suoi inimmaginabili tre anni di pene prima della lavorazione di quel film. A me ce ne sono voluti cinque per accantonare l’ambizioso progetto iniziale, un vero e proprio romanzo grafico sul Nolano (the Nolan is back), non realizzato per sfiancamento, raccogliere tutto il materiale prodotto fino ad allora e “costruire” un secondo libro, che raccontasse

“in presa diretta” come fosse difficile concretizzare quell’intenzione.

Il libro, una volta completato, non ha risparmiato ulteriori “incidenti di percorso”. Dalle risposte criptiche di certi editori mugugnanti sui ceci, al dietrofront di chi fino al giorno prima si dichiarava entusiasta del progetto, fino ai ripensamenti di molte librerie, che vuoi per una politica assurda e vile che taglia fuori i piccoli editori, vuoi per chissà quali immotivate ragioni, hanno poi preferito non avere il libro sui loro scaffali. Sarà forse perché è scritto male e disegnato peggio… e che di Giordano Bruno proprio non se ne può di ritrovarselo davanti tutti i “santi e benedetti” giorni?!

Sarà certamente così. Ecco perché anche nell’Enciclopedia della filosofia a fumetti di Osborne, pubblicata due anni fa, il Nolano sembra essere l’unico escluso! 

Maurizio Di Bona.

http://www.giordanobruno.biz

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martedì, 6 febbraio 2007

PRESENTAZIONI DI LIBRI ED EVENTI

Cari amici,

mi arrivano molto spesso segnalazioni di presentazioni di libri ed eventi.

Per dare spazio a tutti dovrei aprire più post al giorno annacquando, di conseguenza, lo spirito del blog.

Per cui mi è venuta un’idea. Apro questo post e lo intitolo, appunto, “Presentazioni di libri ed eventi” e lo inserisco all’interno di una omonima categoria (e magari creo un link ben visibile nella colonna di destra del blog). Ogni volta che vorrete segnalare la presentazione di un libro (o di un evento, o di altre iniziative in linea con il blog) basterà aprire il post e scrivere un commento. Al posto del nome indicate il titolo del libro (o dell’evento) oggetto della presentazione, magari con carattere stampatello (così risalta di più). Ad esempio: PRESENTAZIONE DEL LIBRO “XYZ” DI CAIO SEMPRONIO. Nel testo, ovviamente, indicate i riferimenti della presentazione.

La segnalazione comparirà nella colonna di sinistra del blog.

Comincio io, inserendo le ultime segnalazioni ricevute.

Da qui in poi, però, vi prego di fare da soli.

Gli eventi segnalati verrano cancellati decorsi due mesi dalla loro realizzazione, di modo che la bacheca possa godere di migliore efficacia e visibilità.

Vi ringrazio per la collaborazione.

Massimo Maugeri

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lunedì, 5 febbraio 2007

BANDO CONCEPTS DELLA CASA EDITRICE ARPANET

La casa editrice ARPAnet mi invia questo comunicato che pubblico con vero piacere

Comunicato stampa

            

Copgustoweb CONCEPTS

Un’inedita iniziativa editoriale

per la pubblicazione e la distribuzione in libreria

di narrazioni liberamente ispirate.

Copmodaweb

Scrittura, ispirazione e creatività:

fino al 20 maggio 2007 tutti possono partecipare e scrivere per i nuovi libri in uscita la prossima estate:

CONCEPTS Moda e Gusto!

La collana CONCEPTS

esplicita come il processo creativo sia influenzato dalle esperienze di un individuo: a contribuire alla stesura di un testo è l’insieme di suggestioni, emozioni e stimoli provenienti dall’esterno e successivamente interiorizzati.

Grazie all’iniziativa editoriale CONCEPTS, fino al 20 maggio 2007 sono aperte le selezioni per narrativa e poesia a tema libero ispirate dalle molteplicità di suggestioni legate alla moda o al gusto. È dunque possibile candidare i propri testi chiusi nel cassetto e sottoporne direttamente un estratto alla valutazione dei lettori online, che avranno l’opportunità di televotare i più significativi. Le opere che supereranno questa prima fase saranno poi scelte dalla Redazione di ARPANet per la pubblicazione su carta!

I racconti singoli più avvincenti ed intriganti contenuti nei due volumi diventeranno poi miniCONCEPTS // le dimensioni alternative dell’ispirazione.

Info, iscrizioni e testi da televotare su: www.conceptsbooks.it

Commenti sul blog di CONCEPTS: www.conceptsbooks.splinder.com

x > info, immagini, interviste, idee, …:

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sabato, 3 febbraio 2007

CATANIA TRA LUTTO E VERGOGNA

*

Come catanese non potevo esimermi dal prendere posizione sulla tragedia che ieri sera ha investito la mia città.

Catania tra lutto e vergogna. Catania tra rabbia e incredulità.

Non mi soffermerò molto sulla cronaca. La conosciamo tutti.

In occasione del derby calcistico Catania–Palermo, a seguito di scontri tra bande criminali e forze dell’ordine, è deceduto il poliziotto Filippo Raciti, 38 anni. Filippo lascia la moglie e due figlie.

Questo il fatto più grave. Un morto. E un centinaio di feriti. Un vero e proprio bollettino di guerra.

Chi ha visto le immagini in Tv le avrà scambiate per scene da guerriglia urbana. Un quartiere messo a ferro e fuoco. Da non credere.

Sembravano immagini provenienti da Bagdad, o dal repertorio più aspro degli “anni di piombo”. Invece eravamo a Catania, in una serata del 2 febbraio 2007. Una serata che avrebbe dovuto celebrare il giusto orgoglio siciliano, perché le squadre di calcio delle due più importanti città si incontravano per disputare una partita del massimo campionato partendo da posizioni di classifica invidiabili (terzo e quarto posto). Invece la festa si è trasformata in tragedia. Una tragedia annunciata, ha detto qualcuno. E la tragedia ha generato morte.

È inaccettabile subire qualcosa del genere per consentire lo svolgimento di una partita di calcio. Questo il senso dei messaggi che sono giunti da più parti: dal mondo del calcio a quello della politica, dalla gente comune ai vip. È inaccettabile. E la rabbia si frammischia al dolore per la perdita di Filippo. E il pensiero va alla moglie e alle figlie che non vedranno mai più il marito e il papà. Perché Filippo doveva semplicemente contribuire a garantire l’ordine pubblico durante lo svolgimento di una partita di pallone. E invece è morto nel corso di uno scellerato attacco criminale. Filippo è un caduto di guerra. Solo che non sapeva che stava andando a combattere.

Catania, oggi, è al centro del mondo. Ne parlano nei network internazionali, ne scrivono sulle più importanti testate giornalistiche del globo. Fioccano le immagini di una vergognosa battaglia accompagnate da commenti sferzanti.

È dura essere catanese oggi. È difficile accettare che l’immagine della propria città – una città difficile, certo; contraddittoria – circoli solo come immagine indecente di avvenimenti incivili e scellerati.

Attenzione, però. La tragedia si è svolta a Catania, ma sono tanti i palcoscenici in cui lo spettacolo potrebbe ripetersi.

Il campionato di calcio si ferma. È giusto che sia così. Bisogna fare un esame di coscienza. Privato e collettivo. Bisogna interrogarsi sulle responsabilità, su tutto quello che si poteva fare e non si è fatto per evitare la tragedia.

Spero, però, che non si commetta un grave errore. Sarebbe troppo semplice, e semplicistico, additare ciò che è successo come mero male del calcio. Sarebbe semplice. E miope.

La tragedia di Catania si è consumata al di fuori dell’impianto sportivo. I protagonisti negativi sono stati gruppi di giovani, per lo più minorenni. E non uno sparuto gruppuscolo, ma un drappello consistente. Armato e organizzato. E che ha agito, molto probabilmente, in maniera premeditata. Bande di giovani criminali contro le forze dell’ordine. Gruppi di disadattati contro lo Stato. Se non si capisce questo, sarà impossibile risolvere il problema.

La nostra società è malata, signore e signori. E la malattia interessa una parte significativa delle cellule più giovani del suo organismo. Il calcio è solo un pretesto, un’occasione. Un’occasione di comodo, certo. Perché i giovani criminali possono travestirsi da tifosi e mescolarsi con la folla nella speranza di agire nell’impunità. Perché possono confondersi tra le fazioni di tifosi più estreme (che, al massimo, possono arrivare agli insulti e agli epiteti ingiuriosi).

Potremmo fermare il campionato di calcio per più turni. Potremmo bloccare l’intera stagione. Potremmo decidere che, da ora in poi, le partite di calcio si giocheranno a stadi vuoti e chi vorrà seguirle potrà farlo solo sulle pay tv (con grossa libidine e sfregamento di mani da parte di network televisivi e sponsor). Ma avremmo risolto il problema alla base? Non sarebbe, forse, come decidere che un malato che non riesce a digerire, perché ha un tumore allo stomaco, debba astenersi dal cibo? Se il malato non riesce a digerire per via di un tumore allo stomaco la cura non può essere l’astensione dal cibo. Bisogna tentare di estirpare la vera causa del male: il tumore. A costo di asportare una porzione di stomaco.

Perché questi giovani si organizzano in bande criminali? Perché si armano fino ai denti come se dovessero andare sul fronte? Perché attaccano le forze dell’ordine e dunque lo Stato? Qual è la causa della loro frustrazione? La disoccupazione? La mancanza di ideali? L’una e l’altra? O ci sono altri motivi ancora?

Fin quando si continuerà a sostenere che questo è un problema del calcio, o solo del calcio, fin quando non si riconoscerà che si tratta piuttosto di una grave malattia sociale, non credo che avremo la possibilità di giungere a una soluzione vera ed efficace.

Eliminando il calcio è probabile che questi giovani disadattati trovino altre vie per dar corso al loro barbaro sfogo. Quali potrebbero essere le occasioni alternative? Concerti rock? Comizi politici? Qualunque altro evento capace di coagulare folle tra cui nascondersi e agire?

Oppure potremmo decidere di eliminare qualunque occasione di aggregazione. Potremmo rintanarci nelle nostre case e chiudere la porta a chiave. Cosa potrebbe accadere? Che questi giovani sbandati si organizzino in bande rivali per combattersi a vicenda e scaricare così la loro barbara rabbia?

Credo che bisognerà porsi queste domande se c’è davvero la volontà di risolvere il problema. Credo che bisognerà guardarsi allo specchio e riconoscere la malattia.

La soluzione non è a portata di mano. La strada sarà lunga e impervia. Bisognerà coinvolgere sociologi, psicologi ed esperti vari. Nel frattempo temo sia essenziale fare ricorso a misure preventive e repressive, partendo dallo slogan tolleranza zero recitato da più parti. L’importante, tuttavia, è non dimenticare che queste misure saranno dettate dall’esigenza di trovare nell’immediato soluzioni tampone, dunque superficiali e temporanee.

Chiedo al Sindaco della città e al Presidente della Provincia, così come al Presidente della Regione e alle Istituzioni centrali, di impostare i tavoli di lavoro partendo anche dalle suddette considerazioni.

Chiedo alle società di calcio di non cedere al ricatto dei teppisti e di collaborare di più con le Istituzioni per isolare le bande criminali e guerrafondaie.

Chiedo ai tifosi di Catania e Palermo – quelli veri – di incontrarsi e di ragionare insieme sul futuro del calcio siciliano. Forse potrebbe essere un gesto opportuno partecipare congiuntamente ai funerali di Filippo Raciti tenendo gli stendardi di Catania e Palermo calcio l’uno accanto all’altro. Un segnale contro la violenza e la morte. Un segnale per dire che il calcio e il tifo vero si ribellano alle vergognose strategie da guerra urbana.

Chiedo al Presidente del Catania calcio, il dr. Pulvirenti, di non mollare.

Lei, Presidente, ha dato un sogno ai catanesi e ha fatto in modo che quel sogno si trasformasse in realtà. Ha fatto sì che Catania si presentasse sul palcoscenico nazionale, e non solo, con un’immagine – una volta tanto – positiva.

La prego Presidente, non rinunci al sogno. Non si pieghi alle barbarie. Non è questo il calcio. Il calcio è quello che ha portato lei nella nostra città. Per oggi chiniamo il capo di fronte alla morte e al dolore. Stringiamoci tutti intorno alla famiglia Raciti. Poi, però, rialziamo la testa e rimbocchiamoci le maniche. Tutti.

Perché Catania non è quella vista nella maledetta sera del 2 febbraio 2007.

Catania è altra cosa.

È bene che si sappia.

*

Massimo Maugeri

03 febbraio 2007

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venerdì, 2 febbraio 2007

DIRIMPETTAI

Tempo fa Francesca Mazzucato mi scrisse una mail dal titolo: a Massimo da Francesca.

Vi riporto parte del testo di quella mail che – vi confesso – custodirò gelosamente nel mio scrigno delle corrispondenze magiche.

*

Ciao,

non ci siamo mai conosciuti e neppure incrociati via web e da qualche tempo mi circolava in testa un’idea.

Seguo il tuo blog da quando è nato anche se non lascio commenti. Come forse ti sarà capitato di vedere, nel mio Books preferisco, per varie ragioni, interagire via mail con le persone piuttosto che attraverso i commenti, e naturalmente rispondo a tutti.

*

Pensavo, che ne diresti di una – come dicono con la solita orrenda parola – sinergia fra i nostri due blog, entrambi blog d’autore di kataweb?

*

Io pensavo a una cosa: ti piacerebbe "Dirimpettai?"

La mia foto
Francesca Mazzucato

È così che è nata l’idea. A me è piaciuta subito. E mi sono sentito molto, ma molto onorato che a propormela sia stata proprio Francesca Mazzucato… scrittrice che stimo tantissimo da tempi non sospetti.

Francesca, è una forza della natura. La sua energia è piacevolmente tempestosa e positivamente prorompente. Come la sua scrittura.

Ed ecco Dirimpettai. Una rubrica epistolare che rimbalzerà mensilmente tra Letteratitudine e Books and other sorrows.

Ed è proprio dal blog di Francesca che si parte. Se avete voglia, cliccate qui.

A presto.

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