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Archivio di luglio 2007

martedì, 31 luglio 2007

COLOBRARO, IL PAESE CHE NON SI PUO’ DIRE (di Andrea Di Consoli)

I paesi della Lucania sono centotrentuno. Di questi, centotrenta sono infelici, mentre il centotrentunesimo è arrabbiato nero. Questo paese si chiama Colobraro. Per una strana assonanza lessicale, il paese sembra chiamarsi così perché somiglia a una “columbària”, cioè a un serpentario. Questo paese sconosciuto è una rocca, una collina rocciosa (da qui i serpenti), un “eden” di ginestre, olivi, boschi e canneti.

Colobraro è un piccolo paese della provincia di Matera – dal capoluogo dista una novantina di chilometri – e dai suoi pianori si possono ammirare gli ineffabili calanchi del materano, i campi di grano sterminati, i giardini di Tursi (il paese del grande poeta dialettale Albino Pierro), le ricche coltivazioni di Policoro, le luci ammalianti di Valsinni (il paese dove visse e dove tragicamente morì la poetessa Isabella Morra), la diga di Senise, l’immenso lago artificiale che dà da bere alla Puglia, e le mastodontiche tubature dell’Acquedotto Pugliese.

Gli abitanti di Colobraro – il paese più arrabbiato della Lucania – sono appena millecinquecento, ma un tempo i colobraresi furono quasi cinquemila. Dove sono finiti tutti i colobraresi? E perché sono così arrabbiati? Qual è il segreto di Colobraro? Ecco, il segreto di Colobraro è che milioni di superstiziosi-imbecilli, in Italia, quando sentono questo nome – Colobraro, appunto – si toccano le palle e fanno le corna sul ferro. Il paese materano, purtroppo, ha una brutta nomèa, ché viene considerato il paese della iella, delle “masciare”, delle fattucchiere e dei sortilegi d’amore – Colobraro è il paese che non si può dire, in definitiva.

Arrivo a Colobraro nel pomeriggio di un venerdì afoso di luglio. Ho guidato sulla Sinnica con i finestrini aperti, facendomi intorpidire dal calore del sole. Sulla mia destra, per molti chilometri, mi hanno tenuto compagnia le tubature arrugginite dell’Acquedotto Pugliese, mentre in alto, sulla rocca, come uccellacci della modernità sostenibile, ad annunciarmi il paese c’erano alcune pale eoliche ferme nell’immobilità dell’aria. So già, mentre salgo la strada dissestata che porta a Colobraro, che la storia della iella e delle “masciare” è solo una leggenda nera, una leggenda paesana senza nessun fondamento, ma voglio verificare, parlare con la gente, capire la storia di quest’assurda “condanna” secolare.

Parcheggio in piazza e mi guardo intorno. Decido di entrare nella chiesa nuova del paese – quella vecchia fu colpevolmente abbattuta negli anni Sessanta. Tre signore anziane recitano il rosario, ma non sono fattucchiere, sono solo tre signore cattoliche molto devote. Esco, e mi faccio abbagliare dal sole caldo. Una bella ragazza sta seduta, annoiata, davanti a una macelleria, mentre un’altra ragazza, scura di pelle, entra trafelata in un bar, e mostra orgogliosa un bel tatuaggio sulle gambe.

Parlo con un ragazzo seduto ai piedi della statua della Madonna. Fuma e parla poco. Gli chiedo cosa c’è da vedere a Colobraro, ma lui mi dice, con diffidenza: “Niente, non c’è da vedere niente”. Lo saluto e ovviamente non gli credo, ché un paese è sempre pieno di storie nascoste, di cose belle. Mi fermo davanti al tabacchino e parlo con un signore. A bruciapelo gli domando com’è nata questa storia delle “masciare”, ma lui si irrita, è sulle difensive, mi dice che di questo non vuole parlare, che in paese c’è gente disposta a fare a botte, contro i superstiziosi. Gli dico che non sono a Colobraro per inventarmi finte maghe, ma per conoscere la verità, per sfatare una triste nomèa. L’uomo parla – poco, ma parla.

E per la prima volta sento parlare di un famigerato “avvocato”, ma dopo qualche secondo, come ci fosse davvero la provvidenza, una macchina si ferma e un uomo anziano mi fa segno di avvicinarmi. E’ Rocco Mango, il mio salvatore, il mio Virgilio colobrarese. Mi avvicino a lui e subito mi domanda, come fossi il rappresentante del governo di Roma, se “abbiamo” trovato un accordo sulle pensioni. Gli dico che passo le mie giornate a girare paesi e a leggere libri, e che di pensioni non so nulla. Mi parla male dei politici italiani e mi chiede di seguirlo con la macchina – mi porta a due chilometri dal centro, in un posto chiamato Serra, in un “eden” di boschi e di panorami mozzafiato. Subito mi accorgo di aver trovato la persona giusta. Il suo racconto, infatti, coincide tout-court con il racconto di Colobraro: “Ho fatto per quarant’anni il maestro di scuola elementare. Ho settantacinque anni. Di questo paese conosco tutto. Ho fatto finanche le occupazioni delle terre negli anni Cinquanta contro i Berlingieri. La storia della iella? Non c’è niente di vero, credimi. Io mi gioco la casa, mentre tu ti giochi un caffè. Ci stai? Trovami una sola fattucchiera a Colobraro, una sola testimonianza del passato, e io ti regalo la mia casa”.

Sto in ascolto, con le braccia incrociate. Poi gli domando com’è nata, questa “leggenda nera”, perché qualcosa deve pur essere accaduto, negli anni che furono, per consolidare questo luogo comune. Rocco Mango spalanca gli occhi e si accalora: “Sai com’è nata questa stupida leggenda? E’ nata dal fatto che nei primi anni del Novecento, a Colobraro c’era un grande avvocato, Biagio Virgilio, che era il miglior avvocato del materano. Vinceva tutte le cause, aveva una testa grossa così. Ovviamente era invidiato, soprattutto a Matera. Un giorno, mentre discuteva animatamente con alcuni suoi colleghi, che evidentemente non sopportavano la sua bravura, cadde a terra un grosso lampadario. Tutti pensarono: ‘Ecco, questo porta iella, adesso abbiamo capito perché vince tutte le cause’. E la nomèa dilagò a Matera in un batter d’occhio. Biagio Virgilio, il grande avvocato, divenne ingiustamente l’Innominabile. Poi, con gli anni a venire, ogni volta che uno passava davanti a Colobraro, subito pensava: ‘Questo è il paese dell’Innominabile’. Il passo fu breve. Nel volgere di pochi anni l’intera Colobraro divenne innominabile, e così si diffuse la leggenda del paese della iella. Ma qui di fattucchiere non ce ne sono mai state, né ieri né mai”.

Diventiamo amici, io e Rocco Mango. Il sole arancione – e ancora caldo – si spegne superbamente all’orizzonte. Entra nella mia macchina e mi guida per il paese – mi porta nel ristorante di Raffaele, un suo ex alunno, e mi mostra il convento del XII secolo. Il suo racconto non ha sosta: “Il nostro paese è stato rovinato da questa leggenda. I ragazzi emigrano da sempre. Molti si vergognano di dire che sono di Colobraro. Io invece ne approfitto. Sai che faccio? Se vado a Matera in qualche ufficio, basta che vedo una lentezza burocratica o un’ingiustizia, e subito dico ad alta voce: ‘Devo rientrare a Colobraro, è tardi!’ Non appena dico così, tutti mi trattano bene, come un Re. Sono imbecilli, e io approfitto della loro imbecillità. Una volta la polizia mi fermò verso Altamura. Avevo fatto un sorpasso azzardato. Il poliziotto mi chiese patente e libretto, ma quando lesse che ero di Colobraro mi fece andare e mi chiese scusa. Sono imbecilli, e io me ne approfitto. Che altro devo fare?”

Rocco ride, ma un violento colpo di tosse spezza la sua ilarità. Sta male, Rocco, e io me ne accorgo. Mi guarda con i suoi grandi occhi verdi e mi confessa il male oscuro che lo sta consumando: “Non ho mai fumato una sigaretta, eppure ho un tumore al polmone. Faccio la chemioterapia a Policoro. Ho avuto anche un tumore al colon, che mi hanno guarito a Bari. Ma sono ancora vivo. Anzi, il male è come se non mi appartenesse. Ci rido sopra. Non ho paura di morire. Tanto è un ciclo. Tutti dobbiamo morire prima o poi, ma se ti deprimi è finita”.

Rocco mi parla dei tempi andati: dei contadini di Colobraro (del loro fiero individualismo, della loro mitezza, così diversa dall’aggressività e dall’intraprendenza dei tursitani), di quando in paese si coltivava il cotone, di quando Emilio Colombo (mammasantissima della Democrazia Cristiana lucana e italiana, presidente del consiglio nei primi anni Settanta) venne a Colobraro e, poco prima del paese, ridendoci sopra (e ignorando il luogo comune delle gomme che si forano in paese) bucò una ruota della sua macchina. Rocco mi dice: “Sai perché a Colobraro si foravano le gomme? Perché le strade sterrate erano disseminate di chiodi dei ferri di cavallo. Anche questo, però, contribuì a rafforzare la leggenda nera”. E poi mi confessa il suo sogno segreto di una Repubblica Indipendente della Lucania: “Se mettessimo il ferro spinato intorno alla nostra terra, noi saremmo ricchissimi. Abbiamo grano, abbiamo acqua, abbiamo petrolio. Siamo una terra ricca e invece anneghiamo nella miseria e affondiamo nell’emigrazione”.

In paese ci affacciamo da un piccolo pianoro. C’è Valsinni davanti a noi, illuminata come un pugno di gioielli. Rocco sorride: “Adesso te lo posso dire. A Valsinni un fattucchiere effettivamente c’era. Si chiamava Zi’ Giuseppe, abitava verso il monte Coppola. Ma non capiva un fico secco. Quando avevo vent’anni io stavo male, ero debole, non mangiavo. Mia madre gli portò la mia maglia. Lui la annusò e disse che ero sotto gli effetti di un sortilegio d’amore. Invece avevo una malattia vera. Altro che sortilegio!”, e ride di nuovo, stanco di aver parlato così a lungo, di avermi fatto conoscere i suoi amici (il mite preside in pensione, il finanziere con le guance rosse di mille venuzze), di avermi portato a casa dei suoi parenti (una sua zia mi regala, per il viaggio di ritorno, due buonissime focaccine ripiene di zucchine e di verdure), di avermi messo a parte, in così poco tempo, di tutta la sua vita.

E’ quasi buio. L’aria si rinfresca. La zia di Rocco mi mostra, prima di partire, la foto del marito morto – faceva il collocatore privato, dava i nullaosta ai colobraresi che partivano per la Germania, la Francia, la Svizzera. Rocco vorrebbe tenermi lì ancora a lungo, ma è tardi. Il paese mi sembra fraterno, di una fraternità assoluta. “Qui non c’è mai stato un solo omicidio” fa in tempo a dirmi Rocco Mango, maestro di scuola elementare, fiero cittadino di Colobraro, “e quando morirò, sulla mia lapide scriveteci questo: ‘Amò profondamente il suo paese’. Non scriveteci altro”.

No, non ci sono fattucchiere e “masciare”, a Colobraro. Ci sono solo uomini che hanno voglia di raccontarti i loro pensieri, indicando l’orizzonte di una dolcissima Lucania. E a Colobraro bisogna venirci perché è bellissima, e perché il paese più offeso e arrabbiato della Lucania attende da decenni un gesto riparatore dall’Italia dei superstiziosi e degli imbecilli. Ma sono sicuro che Rocco non morirà prima di questo gesto riparatore, ché lui farà in tempo a vedere il suo piccolo paese affollato di turisti, di colobraresi offesi che ritornano, di politici che finalmente si decideranno a dare il secondo medico, visto che in paese ce n’è solo uno e deve farsi carico di troppe persone. Sono sicuro che Rocco Mango farà in tempo a vedere la grande festa di Colobraro, il paese che, nel 2007, assurdamente, ancora non si può dire.

Andrea Di Consoli

Andrea Di Consoli è nato a Zurigo nel 1976 da genitori lucani. Attualmente vive a Roma, dove lavora ai programmi radiotelevisivi della Rai. Collabora inoltre a «l’Unità», a «La Sicilia» e a varie riviste, inoltre scrive sul «Messaggero» e «Nuovi Argomenti». Ha pubblicato il saggio Le due Napoli di Domenico Rea (Unicopli 2002), la raccolta di poesie Discoteca (Palomar 2003) e i racconti di Lago negro (L’ancora del Mediterraneo 2005). Il romanzo Il padre degli animali (2007) ha vinto il premio Mondello ed è finalista al premio Viareggio-Repàci.

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lunedì, 30 luglio 2007

GIOVENTU’ LIBRANTE n. 2

max-maugeri.jpgRiprendiamo l’attività di Letteratitudine con un nuovo post per la rubrica Gioventù librante che dà spazio a questa iniziativa lanciata dalla libreria Cavallotto. Il giovane lettore consulente di questo post è la studentessa diciassettenne Alessia Leonardi che ci presenta i seguenti romanzi: Ma le stelle quante sono (di Giulia Carcasi), Chéri (di Gabrielle Colette), Le cronache di Narnia (di C. S. Lewis).

Massimo Maugeri

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Sono Alessia Leonardi, ho 17 anni. Frequento il Liceo scientifico “Leonardo da Vinci” di Catania, V anno. Amo la lettura, e non ho un genere preferito perchè credo che tutti i libri possono insegnarti qualcosa ed aiutare ad ampliare la tua fantasia, a prescindere da quale tipologia prediligi. Per me la lettura è una gioia, non un Dovere.

“Ma le stelle quante sono” di Giulia Carcasi (ediz. Feltrinelli)

Riassunto:“Ma le stelle quante sono” è un romanzo di Giulia Carcasi, che racconta le esperienze di due ragazzi che condividono la stessa storia, che viene raccontata dagli stessi protagonisti.Lei si chiama Alice, una ragazza studiosa amante della poesia, e come tutte le ragazze in cerca del vero amore, che in una prima parte sarà identificato in Giorgio: il classico ragazzo che vuole fare esperienza, un ragazzo che non si ferma ai sentimenti.Lui è Carlo, classico secchione, uno di quelli che non va mai impreparato a scuola. Questo ragazzo si lascerà andare nelle braccia di Ludovica, la tipica ragazza che oggi si definisce “facile”, una di quelle che non si fanno tanti scrupoli in determinate situazioni.Tutti e quattro questi personaggi si intrecciano in una trama amorosa che si districherà solo quando Carlo e Alice riusciranno a confessarsi i loro sentimenti.

Commento:Il romanzo in sé è abbastanza carino, la storia ricorda molto le scene quotidiane di noi ragazzi, sia per gli argomenti trattati( scuola, genitori, feste) sia per i pensieri e le azioni dei protagonisti che sembrano vivere una storia scritta da noi.L’autrice ha avuto la geniale idea di suddividere il libro in due parti, da una la storia raccontata da Alice, dall’altra quella raccontata da Carlo. Da ciò è possibile evincere le differenze che intercorrono fra i due protagonisti, e paragonare come i due affrontino la stessa situazione con soluzioni diverse. È scritto in maniera scorrevole, con intercalari prettamente giovanili, con espressioni colorite che fanno si che il libro appassioni sempre un po’ di più nel corso dei dialoghi che sembrano quasi reali. Dal titolo mi aspettavo di sognare un po’ di più, invece è una storia molto legata alla quotidianità e forse è questo che la rende interessante, però avrei preferito una storia più commovente ed un finale più romantico, magari qualche sogno in più che l’avrebbe reso veramente bello.

“Chéri” di Gabrielle Colette (ediz. Nottetempo)

Riassunto: Chery è il protagonista, un bel ragazzo dai capelli neri dai riflessi blu, prepotente capriccioso. Viziato sia dalla madre che da Lea, una donna di bell’aspetto amica della madre che non ha provato i dispiaceri della vita, quei dolori che si manifesteranno solo alla conclusione del libro. Fra la donna e il ragazzo si istaura un rapporto che verrà interrotto dal matrimonio di lui. Lea con il cuore affranto decide di iniziare a viaggiare pur di dimenticarsi del suo piccolo amore, ma non riesce a toglierlo dai suoi pensieri così come accade anche a lui. Un ennesima e ultima notte, poi qualcosa sarà diverso.

Commento: Il libro è ben scritto, secondo me. Ha numerose descrizioni accurate dei luoghi in cui si svolgono le scene che talvolta si dilungato per troppe pagine; i personaggi sono bizzarri e il loro accostamento è alquanto strano e interessante allo stesso momento. La storia è nuova, suscita infatti la curiosità del lettore. Spesso però le descrizioni diventano piatte, le azioni lente, e i dialoghi sembrano diventare noiose. La scrittura è scorrevole e allegra, la storia è quasi inverosimile, ed è forse questo che spinge maggiormente a leggere il romanzo fino alla conclusione,nella speranza di un lieto fine per un amore impossibile. Il romanzo è dolce, tenero e malinconico insieme…vede il consumarsi di un amore in cui il sentimento spera di sprofondare “in quell’abisso da cui l’amore risale pallido, taciturno e pieno del rimpianto della morte”. Consiglio a tutti la lettura, non è molto lungo ed è piacevole.

“Le cronache di Narnia” edizione completa di C.S. Lewis (ediz. Mondadori)

Riassunto: Il libro racchiude in sè tutti e sette i libri di questa raccolta, che proseguono secondo una seguenza temporale dalla creazione alla distruzione di Narnia. I protagonisti non sono gli stessi in tutti i libri , ma l’autore ha ben deciso di cambiarli secondo l’età, da Peter a Jilly.La visita di questi ragazzi a Narnia non è per niente casuale, essi giungono nel regno solo per volere di Aslan, il grande leone che domina quel mondo con grande saggezza. Di volta in volta i ragazzi si troveranno ad affrontare avventure diverse mettendosi a servizio dei successivi re e regine di Narnia che ne invocheranno l’aiuto.

Commento: Trovo questa raccolta dei sette libri “narniani” qualcosa di unico. La descrizione dei luoghi è accurata e dettagliata a tal punto da immaginarli nei minimi dettagli . I dialoghi si susseguono in maniera originale e fluente e la trama non è mai noiosa o scontata, ma sempre particolareggiata e insolita, tanto da invogliare a leggere tutti e sette i libri in una sola settimana, così come è successo a me.Il linguaggio non è mai scontato o puerile, infatti non è un libro di favole per soli bambini, e come lo definisce l’autore stesso :”un libro non merita di essere letto a dieci anni se non merita di essere letto anche a cinquanta.” Oserei abbinare alla raccolta l’aggettivo “fantastico” e non solo per il genere letterario a cui appartiene, ma anche per la sua maestosità nel complesso.

“Il mondo nei tuoi occhi” di Loredana Frescura e Marco Tomatis (ediz. Fanucci)

Riassunto: La storia di due ragazzi, Costanza e Angelo, che si conoscono nella stazione di una piccola città. Vedono il fiorire di un amore che ai loro occhi era impossibile fino a qualche istante prima. Nella vita dei due protagonisti si susseguono numerosi “incidenti di percorso” che riusciranno a mettere in crisi un rapporto dolce come il loro.Così, parallelamente, pagina dopo pagina, i loro pensieri e le loro emozioni saranno unite insieme. Non è sempre rose e fiori la vita dei diciassettenni, così fra tradimenti, litigi e malintesi la loro storia si articolerà a tal punto da ricondurli su quei binari della stazione, dove all’improvviso il loro mondo cambiarà di nuovo, proprio come era successo al loro primo incontro.

Commento: un libro dolcissimo che si avvicina moltissimo alla realtà che viviamo noi ragazzi quotidianamente. Una storia improbabile che nasce dalla vita quotidiana di routine, che capovolge totalmente le aspettative in un solo attimo. A mio parere il libro è appassionante e provocatore di sogni, perchè pagina dopo pagina sono riuscita ad immedesimarmi completamente con la protagonista, e con lei ho vissuto quell’amore sulle rotaie, ho condiviso il rancore e la perdita d’appetito, anche se solo nella mia mente.
Molto romantico, semplice e sincero… Da leggere!

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giovedì, 26 luglio 2007

COMUNICAZIONE DI SERVIZIO

max-maugeri.jpgCari amici,

come vi sarete accorti… qualcosa è cambiato. È successo che Kataweb, a partire da oggi, ha organizzato la propria piattaforma blog avvalendosi di Wordpress abbandonando il precendente fornitore del servizio (Typepad). Intanto ringrazio la redazione e i tecnici di Kataweb per il look personalizzato che hanno realizzato appositamente per Letteratitudine (a proposito vi piace il nuovo logo?).

Naturalmente, come sempre accade con i grossi cambiamenti, è necessario passare attraverso una fase di assestamento pazientando per gli inevitabili inconvenienti. Vi sarete accorti, per esempio, che sono saltati i commenti più recenti e l’ultimo articolo che avevo postato: quello relativo alla “commedia sexy all’italiana” firmato da Gordiano Lupi (mi scuso con Gordiano… ho già chiesto alla redazione di recuperare il post).

Un po’ di pazienza, dunque. Poi vedrete che Letteratitudine ripartirà a razzo.

Nel frattempo provate a commentare questo post. Vi piace la barra/logo?

Massimo Maugeri

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mercoledì, 25 luglio 2007

LA COMMEDIA SEXY ALL’ITALIANA (di Gordiano Lupi)

Nei primi anni Settanta il cinema italiano presenta un numero indescrivibile di attrici che interpretano la nascente commedia sexy. Gloria Guida, Lilli Carati, Femi Benussi, Anna Maria Rizzoli, Carmen Villani, Nadia Cassini, Edwige Fenech, Orchidea De Sanctis, Barbara Bouchet, Laura Antonelli… l’elenco sarebbe interminabile. Mai periodo storico del cinema italiano è stato più affollato di starlette e di attrici affascinanti. La commedia sexy, o commedia erotica, deriva dalla commedia all’italiana e si afferma con l’esaurimento del sottogenere decamerotico. Nel decamerotico abbiamo un modello colto pasoliniano (Il Decameron, Il fiore delle mille e una notte e I racconti di Canterbury) che viene estremizzato da un punto di vista erotico e farsesco. Le tematiche ricorrenti sono quelle dei mariti cornuti, delle mogli traditrici e dei frati impenitenti che a tutto pensano fuorché a pregare. L’erotismo comincia ad andare di pari passo con la comicità e i registi di quelle pellicole raccontano storie divertenti ma piuttosto sboccate. Il sottogenere sfrutta ogni possibile variazione sul tema e si esaurisce nel breve volgere di un paio di stagioni. La commedia sexy unisce l’esperienza della commedia all’italiana con l’eredità del decamerotico e si propone di raccontare storie divertenti e piccanti ambientate in età contemporanea. Sono film che narrano storie familiari a base di tradimenti, equivoci a non finire, scambi di stanze e di coppie, travestitismi e situazioni comiche da avanspettacolo. A tutto questo va aggiunto, come ingrediente fondamentale, un pizzico di erotismo, perché la commedia sexy è soprattutto voyeuristica e basata sul gioco malizioso del si vede – non si vede. Non possono mancare le scene con la bella protagonista seminuda sotto la doccia e l’attore guardone che spia dal buco della serratura. Il regista ricerca l’immedesimazione tra interprete e pubblico, perché chi è seduto in platea osserva la scena con la soggettiva dell’attore che spia dal buco della chiave. Alla base della commedia sexy c’è sempre una comicità di grana grossa, facile, priva di implicazioni politiche e intellettuali. Le trovate da avanspettacolo di ottimi attori come Banfi, Montagnani, Vitali, Buzzanca, Salce, D’Angelo (e molti altri) sono il leitmotiv che accompagna le grazie più o meno esposte delle belle attrici. La commedia sexy lascia grande spazio all’immaginazione, non esibisce ma fa intuire ed è sempre più comica che erotica. In certi casi realizza uno spaccato veritiero della provincia italiana, soprattutto meridionale, e descrive vizi e turbamenti di un’Italia che cambia. Le piazze accolgono gruppi di femministe che contestano e vestono abiti per niente femminili. Al cinema (per contrasto) incontriamo le donne sensuali, il modello di riferimento che gli uomini cercano. È bene dire, però, che in questi film la donna esce sempre vincitrice mentre l’uomo non fa mai una bella figura. Basti pensare alla macchietta del dentista – latin lover interpretata da Lino Banfi ne L’infermiera di notte. La donna è maliziosa, intrigante, spesso è solo una finta oca, ma in ogni caso è il motore che fa girare il film e riveste un ruolo vincente. La commedia sexy rappresenta una variante della commedia all’italiana condita da situazioni equivoche e piccanti ai limiti del paradossale. Non è esagerato dire che simboleggia la voglia di liberazione sessuale di quel periodo storico e che molti film sono capaci di fotografare bene la realtà e di mettere alla berlina un’Italia moralista e bacchettona. Quei film ingenui e a volte un po’ raffazzonati non sono certo roventi storie di sesso, ma raccontano le emozioni e i turbamenti di tanti ragazzini che scoprono il sesso e sognano di diventare adulti. Non trascuriamo il lavoro dei registi della commedia sexy, perché si tratta di validi artigiani che danno vita a personaggi e macchiette indimenticabili. Citerei su tutti Sergio Martino, Mariano Laurenti, Michele Massimo Tarantini, Nando Cicero, e Bruno Corbucci, ma episodicamente incontriamo registi che provengono dal cinema fantastico come Lucio Fulci (La pretora con Edwige Fenech), Umberto Lenzi (Scusi lei è normale? con Annamaria Rizzoli) e Luigi Cozzi (La portiera di notte con Anne Miracle). Da non dimenticare che spesso hanno fatto ricorso a motivi e interpreti della commedia sexy anche registi del cinema alto, della commedia pura, come Ugo Tognazzi, Steno (si veda l’ottimo Fico d’India con Gloria Guida e Renato Pozzetto) e Alberto Sordi. Non dimentichiamo neppure sceneggiatori generosi e prolifici come Francesco Milizia (ferroviere prestato al cinema), Raimondo Vianello e Sandro Continenza. La commedia sexy porta sul grande schermo anche il sottogenere delle professioni con una sfilata di dottoresse, insegnanti, infermiere (la prima è Ursula Andress nell’ottimo L’infermiera di Nello Rossati), soldatesse, tassiste e poliziotte. Nei ruoli professionali primeggia Edwige Fenech, mentre Gloria Guida è perfetta nelle caratterizzazioni da Lolita nabokoviana. Il sottogenere professionale, nella sua variante scolastica, vede
la Fenech impegnata in alcune pellicole come insegnante (diretta da Cicero, Laurenti e Tarantini), mentre
la Guida impersona una conturbante studentessa ne La liceale di Michele Massimo Tarantini. La liceale è la pellicola che decreta il successo della bella meranese nel campo della commedia sexy, un film icona dell’erotico – scolastico, divertente e malizioso quanto basta. Per capire l’importanza di questa pellicola basta pensare che è stato uno dei primi film liberati dalla censura e proiettati nei cinema iracheni dopo la caduta di Saddam Hussein. Gloria Guida esordisce sul grande schermo sotto la guida esperta di Silvio Amadio e Mario Imperoli (1974) e subito si caratterizza come una ragazzina maliziosa che irrompe all’interno di famiglie borghesi. “Silvio Amadio è il regista che più mi ha insegnato il mestiere” dirà in alcune interviste, pure se i film di questo cineasta non sono classificabili come commedia sexy. Amadio predilige i drammi erotici e i peccati in famiglia ispirati a Malizia di Samperi, capostipite del genere e iniziatore di una corrente cinematografica che dà buoni frutti. Film come La minorenne, La ragazzina (di Imperoli), Quell’età maliziosa e Peccati in famiglia sono esempi di puro cinema erotico con un tocco di melodramma finale. Blue Jeans di Mario Imperoli e La novizia di Pier Giorgio Ferretti sono ancora due film erotici che cercano di fare un discorso sui problemi sociali e sulla situazione giovanile. Il solco di pesca di Maurizio Liverani è una pellicola indefinibile, intellettuale e cervellotica, una sorta di inno alle grazie posteriori femminili, diretto da un regista che pizzica corde diverse da quelle giocose di Tinto Brass. Gloria Guida entra alla grande nella commedia sexy con Il gatto mammone di Nando Cicero, dove impersona una servetta tuttofare che dovrebbe dare un erede a un Lando Buzzanca in gran forma. Interpreta ventisei film dal 1974 al 1988, ma il suo periodo d’oro va dal 1975 al 1979: 21 pellicole in cinque anni e quasi tutte sono commedie sexy. Uniche eccezioni il disturbante e a tratti eccessivo Avere vent’anni di Ferdinando Di Leo, il fantastico – orrorifico (ma poco riuscito) Il triangolo delle Bermuda di René Cardona jr e il televisivo Orazi e Curiazi tre a due di Giorgio Mariuzzo. Il 1976 è l’anno d’oro di Gloria Guida nella commedia erotica, perché dopo il lancio di Tarantini ne La liceale, interpreta Il medico … la studentessa di Amadio (una delle poche commedie dirette dal regista), La ragazza alla pari di Mino Guerrini (purtroppo introvabile), L’affittacamere di Laurenti (con un ottimo Luciano Salce) e Scandalo in famiglia di Marcello Andrei. In tutte queste pellicole, Gloria Guida è una ragazzina maliziosa che irretisce il maschio di turno, lo seduce e lo trasforma in facile preda. La commedia sexy mette in scena i soliti stereotipi del marito cornuto, l’amante disponibile e la ragazzina disinibita. Non mancano docce, toccatine furtive, mani che si cercano sotto il tavolo, gonne che si sollevano improvvisamente e buchi della chiave dai quali spiare i movimenti di una ragazza seminuda. La carriera di Gloria Guida prosegue nel 1978 con La liceale nella classe dei ripetenti di Mariano Laurenti, un nuovo scolastico più stanco del primo film di Tarantini, Travolto dagli affetti familiari di Mauro Severino e L’infermiera di notte, ancora di Laurenti. L’infermiera di notte rappresenta la sola incursione di Gloria Guida nel sottogenere delle professioni, campo riservato alla più esperta Fenech. Tra l’altro si tratta di una commedia sexy con una trama gialla appena accennata, pochissimo erotismo e qualche intermezzo musicale della bella meranese che prova a proporsi come cantante. Il film avrebbe dovuto intitolarsi La ragazza della discoteca per via di alcune sequenze ispirate a La febbre del sabato sera e ai balli che seguono la moda lanciata da John Travolta. La pellicola è molto divertente e resiste al passare degli anni, soprattutto per merito di un Banfi in gran forma che ci delizia con alcune battute in rima che chiamano in causa una serie di improbabili santi. Anna Maria Clementi e Paola Senatore aiutano Gloria Guida nella parte erotica, visto che la bionda attrice comincia a non voler interpretare molte sequenze maliziose. La commedia è strutturata secondo il solito clichè della moglie petulante, l’amico goffo e impacciato (Alvaro Vitali), il marito latin lover (Lino Banfi è una macchietta incredibile), la protagonista bella e sexy. In questa pellicola ricordiamo la scena cult di un calorifero impostato alla massima temperatura per far spogliare Gloria Guida davanti alla vetrata, mentre un allupato Lino Banfi assiste esterrefatto. L’infermiera di notte è l’unico film della commedia sexy a non presentare scene di doccia e voyeurismo dal buco della serratura. A partire da questo film la carriera di Gloria Guida si sviluppa sui binari della commedia, anche perché il periodo d’oro del comico – erotico è terminato. La liceale seduce i professori di Laurenti rappresenta il canto del cigno del genere ed è più una farsa con qualche nudo che una commedia erotica. La liceale, il diavolo e l’acquasanta di Nando Cicero è un finto sequel de La liceale e gioca sul titolo per invogliare il pubblico ad andare a vedere un modesto film a episodi. Gloria Guida esperimenta anche il thriller con Indagine su un delitto perfetto di Giuseppe Rosati, interpreta una commedia alta come Fico d’India, diretta da Steno, e infine conosce Johnny Dorelli sul set di Bollenti spiriti di Giorgio Capitani. Appena il tempo di vederla in un ottimo lavoro di stampo classico come La casa stregata di Bruno Corbucci, nel film a episodi Sesso e volentieri di Dino Rissi e nel televisivo Festa di Capodanno di Piero Schivazzappa che la sua carriera cinematografica si conclude. Gloria Guida sceglie la famiglia, il marito Johnny Dorelli, la figlia Guendalina e saluta un pubblico che dal 1988 attende di rivederla al cinema o a teatro. Noi la ricordiamo per un sorriso rassicurante e un’espressione ingenua da ragazzina bionda, ma pure per quel contrasto tra un aspetto angelico e lo sguardo malizioso. Gloria Guida è la seducente ninfetta dagli occhi verdi, la compagna di banco che tutti abbiamo sognato, la sensuale lolita rubacuori che fa innamorare studenti e professori. Merita un posto importante all’interno del cinema comico – erotico degli anni Settanta – Ottanta.

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

Di seguito avrete modo di vedere e ascoltare due video…

1. Videointervista a Gordiano Lupi sulla commedia sexy andata in onda su Rete4: cliccate qui o sul pulsante play.

2. Canto e danza di Gloria Guida (dal film “L’infermiera di notte): cliccate qui o sul pulsante play.

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giovedì, 19 luglio 2007

MIO FRATELLO È FIGLIO UNICO: MENARSI NEL BUIO (di Gabriele Montemagno)

Mio fratello è figlio unico, l’ultima pellicola di Daniele Luchetti, uscita di recente nei nostri cinema, è un’opera che per il suo contenuto, sembra avere un’ideale parentela con film quali: Pasolini, un delitto italiano (1995) di Marco Tullio Giordana, Buongiorno, notte (2003) di Marco Bellocchio, L’odore del sangue (2004) di Mario Martone e Romanzo criminale (2005) di Michele Placido. E ciò per più motivi. Innanzitutto perché gli anni ’70 costituiscono lo sfondo principale (e l’oggetto) delle loro storie; poi perché la realtà di quegli anni è il loro campo d’indagine; in ultimo, i loro titoli richiamano tutti qualcosa di violento, oscuro, separato. Quasi che quel decennio del nostro recente passato abbia continuato a visitare la sensibilità di alcuni fra i nostri  autori cinematografici, ispirandoli per mezzo dei suoi lati negativi. Per carità, nulla di nuovo o di inaudito: il cinema italiano è sempre stato sensibile alla realtà, al punto da dare vita, col Neorealismo, a quel glorioso periodo su cui molto è stato detto e molto si continuerà a dire, sebbene lì si raccontava il presente e non il passato prossimo. Tuttavia, ciò che qui preme sottolineare (e che può costituire un motivo di interesse e dibattito per i lettori di questo mio intervento) è un aspetto che i film su elencati sembrano suggerire; aspetto che la pellicola di Luchetti pare recepire e far proprio. Infatti, quelle opere non solo raccontano i cosiddetti “anni di piombo” (sebbene il film di Martone sia ambientato ai giorni nostri, ma, come si sa, è tratto dall’omonimo e postumo romanzo di Goffredo Parise, quasi un testamento spirituale sugli anni Settanta) a partire da quei fatti (la morte di Pasolini, il terrorismo e il sequestro Moro, la banda della Magliana) che li hanno maggiormente contrassegnati, ma in esse vi è la consapevolezza che la scomoda ed inquietante presenza di quegli anni non sia, ad oggi, del tutto esaurita. E ciò tanto più, in quanto, in forza della loro accesa efficacia visiva e narrativa nell’evocare le atmosfere cupe di quegli anni, tali film riescono ad esprimere adeguatamente gli effetti che i fatti vissuti dai protagonisti hanno causato nelle loro psicologie individuali (penso, soprattutto a Buongiorno, notte e a Romanzo criminale). Effetti che sono restituiti nella loro integrità ed attualità allo spettatore di oggi.

Mio fratello è figlio unico ha come teatro della vicenda narrata Latina (e come non pensare anche al recente e ottimo film L’amico di famiglia di Paolo Sorrentino, anch’esso ambientato a Latina!), mostrata nella sua realtà di città di provincia e di ricettacolo degli echi di quel mondo, quale quello degli anni ’70 in Italia, complesso ed estremista (ma solo quello?). Echi che appaiono macroscopici e violenti. Viene filmata, infatti, una provincia in cui i conflitti si insinuano persino all’interno delle famiglie, anche di quelle più povere. Come quella dei due protagonisti, i due fratelli Benassi, uno (interpretato da Riccardo Scamarcio che, liberatosi qui, finalmente, dal clichè di “bello e dannato”, ha acquisito uno sguardo che rivela profonde inquietudini e sofferenze) di solida fede comunista, e l’altro, Accio, (reso da un sorprendente Elio Germano, che riesce a dare pienamente corpo a tutta la rabbia e a quella profonda ricerca di verità che anima questo personaggio) prima convinto fascista, e poi anche lui comunista, ma meno puro (e più maturo) del fratello.

In questo film, Luchetti, liberandosi di cavalletti, gru e di tutto ciò che può rendere lineari ed eleganti le inquadrature, muove con sicurezza la sua macchina da presa (tenuta sempre rigorosamente a spalla, cioè ad altezza d’uomo) in modo da mantenere uno sguardo che “pedina” i suoi personaggi, per rivelarne la loro interiorità attraverso immagini che dietro ad un equilibrato realismo non nascondono, a volte, anche un significato metaforico. Si pensi, ad esempio, alla sequenza in cui Accio viene picchiato dai suoi camerati di partito poiché si è rifiutato di bruciare le auto di alcuni comunisti suoi conoscenti (tra cui c’è anche quella del fratello): dentro la sede del partito, che diviene sempre più buia, il piccolo gruppetto di uomini continua a menare le mani con una violenza sempre più incomprensibile, fino a costituire un insieme indistinto in cui si agitano braccia e teste nella controluce di un’unica finestra. Tale sequenza pare proprio racchiudere il giudizio secondo cui gli anni ’70 furono anni di violenza provocata da menti oscurate da passioni confuse e immature. E ci induce a pensare che, forse, quegli anni non siano poi così lontani dai nostri, nei quali alcuni accampano passioni che, spesso altrettanto confuse, possono ingenerare contrapposizioni (politiche, religiose, ecc.) le quali non sono meno oscure e pericolose per la pace e per il progresso civile e democratico. Chissà se, a questo proposito, la narrazione (cinematografica, letteraria o di qualunque altro genere) non ci possa illuminare ogni qual volta ci racconta queste buie ed efferate passioni, rivelandocele per quello che sono. Già, chissà. Se ne potrebbe discutere.

Gabriele Montemagno

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martedì, 17 luglio 2007

PORTARE IL PANE A CASA (di Dora Albanese)

In Italia tra gli addetti ai lavori si dice che uno scrittore è giovane fino all’età di cinquant’anni. Di conseguenza gli under quaranta si possono considerare giovanissimi. E gli under trenta dei veri e propri poppanti delle lettere.

Apro una nuova rubrica qui a Letteratitudine dedicandola proprio agli under trenta della scrittura; a coloro che, in così giovane età, cominciano a muovere i primi passi a livello letterario-editoriale.

La rubrica si intitola Giovani scrittori crescono (selezione under trenta) e ospiterà racconti, o stralci di racconti, o brani di giovanissimi regolarmente pubblicati – o in via di pubblicazione – per i tipi di editori grandi, medi e piccoli.

Inauguro la rubrica presentandovi il bel racconto Portare il pane a casa della ventiduenne Dora Albanese (nella foto). Il racconto farà parte di una raccolta di autori vari che sarà pubblicata da Coniglio editore.

Foto_dora

Dora Albanese è nata a Matera nel 1985. Studia lettere moderne e pubblica racconti su giornali e riviste. Vive a Roma.

PORTARE IL PANE A CASA

di Dora Albanese

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Sono ancora a letto, Vita e Michele, rannicchiati tra le lenzuola, anche se è mattina tardi. I fili di luce si poggiano proprio sul lato destro del loro volto, e sembra non diano alcun fastidio, perché non c’è ribellione – né agitazione contro quel calore.

Vita è sveglia già da un po’, ma resta ferma, e a tratti apre gli occhi e guarda Michele. Lo guarda come si guarda, nei film, la persona amata: con lo stesso amore e la stessa passione – ed è pronta di nuovo a essere sua senza pretese.

Sono le otto di mattina e Michele dovrebbe già essere a lavoro; invece dorme ancora, e Vita non vuole svegliarlo. Decide di tenerlo al suo fianco, prigioniero tra le lenzuola – lui che non sarà mai suo fino in fondo. Adesso Michele stringe la mano destra – “forse sta sognando”, pensa Vita – e nella stretta prende anche un po’ di pelle del seno, perché è li che ha fermato la mano, da molte ore ormai, su di lei, e mugugna un po’ quando Vita, a bassa voce, cerca di svegliarlo; poi nasconde infastidito il volto sotto la mano, lasciando scivolare i raggi di luce sulle lenzuola, che ora s’illuminano. Rafforza la presa, e si aggancia a Vita, come avesse un uncino al posto delle dita – e lei resta ferma con gli occhi spalancati, tra il bianco delle lenzuola.

Vita adesso pensa che sarebbe bello avere accanto quel profilo maschile – sempre lo stesso – per l’intera vita, ed essere la sua confidente, l’amica intima del suo corpo; ma un po’ le fanno paura questi pensieri a cuore aperto: i pensieri del mattino, quelli più veri e più bisognosi d’ascolto, figli dei sogni e dei turbamenti notturni – quelli che non si possono ignorare.

Sono i pensieri che scendono dall’Olimpo, i pensieri del mattino; custoditi dagli Dèi durante il buio; e quando scendono in noi, sono carichi di magia, ed è vero, non si possono ignorare. Poi, con l’andare del giorno, si allontanano, e si smentiscono, ma poi tornano limpidi all’alba, o all’imbrunire, quando le anime raggiungono di nuovo l’Olimpo e fanno il resoconto della giornata, affidando ai custodi del sonno i desideri più veri e irrealizzabili.

Vita si allunga un poco sotto le lenzuola, dopo aver riflettuto a lungo, e bacia la mano di Michele, che ancora dorme.

Lo guarda da vicino e, di nuovo, lo bacia – le tempie, il volto, le labbra secche di sonno e gli occhi che si muovono un poco. “Chissà se in quel movimento di palpebre ci sono anch’io… chissà…” pensa senza parlare, sfiorando con le labbra l’orecchio destro di Michele che, solleticato, sposta un po’ la testa. 

Vita decide di alzarsi. E’ ormai giorno, e non vuole dar fastidio a Michele che dorme. Deve iniziare a organizzare la giornata e decidere quante visite a domicilio sarà costretta a fare. Scosta le lenzuola e si infila le babbucce sedendosi al bordo del letto – e dà, senza pensarci, le spalle a Michele, e non si accorge di quegli occhi quasi aperti che vogliono giocare. Distende le braccia verso il soffitto e prova sollievo a raddrizzare il corpo un poco aggrinzito dalla notte, e si lascia andare a qualche smorfia mattutina del viso, fatta contro il muro, di nascosto – perché il volto del mattino, per chi si ama solo di notte, può rendere imbarazzante il risveglio.

Michele la guarda dallo specchio e sorride di fronte a quell’accortezza, e subito la blocca, mentre Vita sta per alzarsi, e le salta addosso – la solletica e la butta giù, sotto di lui, sul letto ancora caldo.   

Le voci dei bambini che vanno a scuola stanno riscaldando la giornata.

Anche lui dovrebbe andare, uscire e prendersi in mano questa nuova mattinata, invece resta a letto un po’ stordito e un po’ contento di essersi svegliato in un letto a due piazze.

“Ma cosa fai? Stavi dormendo poco fa. Che spavento” dice Vita, sorridente.

“E adesso sono sveglio. Ero già sveglio da un po’, ma mi andava di stare con gli occhi chiusi accanto a te”.

“E cosa penseranno di te i tuoi pazienti? Lo sai che devi aprire lo studio?”

“Penseranno che non sono un medico puntuale, questo penseranno. Ma sta tranquilla, esiste il perdono. Buongiorno Vita!”

“Buongiorno a te” risponde, ma subito pensa: “Perché non mi ha chiamato amore? Sarebbe stato bello” e afferra una ciocca di capelli tra le mani.

Vita è una donna di trentacinque anni, non molto alta, ma bella. Ha negli occhi il colore vivo dei campi verdi lucani, e il rosso dei papaveri tra i capelli, una piccola cicatrice sul collo, il ricordo di una brutta caduta dalle scale, quando era piccola, nella casa di famiglia in montagna, in un piccolo paesino vicino Matera.

Michele, invece, è alto e moro: moro come le olive nere seccate al sole, e ha gli occhi grigi come il pelo dei gatti randagi. 

“Sei in piedi da tanto” dice Michele, sornione, “che hai fatto mentre io dormivo?”

“Ti ho guardato” risponde Vita, di nuovo seduta sul bordo del letto.

“Dai!” risponde Michele, e si fa una risata, nascondendosi sotto le coperte. “E perché? Perché mi hai guardato?”

“Non posso guardarti?”

“Ma certo che puoi” e sbuca fuori con i capelli scomposti, come un bambino dispettoso. “E’ che non sono abituato a tutte queste attenzioni…”.

“Sì, tu le donne le usi. Che stupida sono, a darti ancora retta”.

“Diventi rossa quando ti arrabbi. Dopotutto… dopotutto sono il tuo futuro marito, no?” dice Michele con una smorfia, “ho tutto il diritto di farti arrabbiare”.

“Ma che dici?”

“Vita, ho deciso che mi voglio sposare” e porta, scanzonato, le braccia dietro la testa.

“Che dici? Ma tu… dai, smettila… davvero?”

“Davvero… l’ho pensato stanotte, quando ho aperto gli occhi e ti ho trovata al mio fianco. Sei l’unica donna con cui riesco a dormire… non è poco, credimi, il sonno è importante… ”

“E perché non mi hai svegliata… ti avrei… io ti avrei…”.

“Avrei voluto entrarti dentro, Vita”.

“Come? Ma che dici?”

“Dentro la testa, spiarti da dentro…”.

“Non avresti trovato molto”.

“Invece sono sicuro che avrei trovato tutto: il luogo preciso dove sei caduta e ti sei procurata questa cicatrice sulla schiena, il primo letto dove ti hanno spogliata, il primo paziente che hai visitato… tutto avrei trovato, tutti i tuoi ricordi…”.

“Il passato è passato. E’ roba vecchia, come me”.

“Vecchia… e perché vecchia? ”

“Perché ho già raggiunto l’altare una volta, perché so tutto… conosco il prezzo da pagare… in cambio di un bel matrimonio… e il mio è stato bellissimo… ma non è servito a molto… non mi è servito a niente l’abito bianco, non certo a far durare il mio matrimonio. Ho venduto tutto, dopo il divorzio, a un mercatino dell’usato, compresa la giarrettiera rossa contro la iella. Michele… io l’ho già pagata la mia parte…”.

Vita si allontana dal letto, poggia la schiena all’armadio e, con i polpastrelli, raggiunge la cicatrice dietro la spalla. E’ felice che Michele l’abbia notata, che abbia toccato quella ferita, anche se era buio e avevano bevuto.

“Adesso non mi va più di credere alle belle parole, siamo adulti… è meglio che le cosi restino così!”

Michele le chiede di raggiungerlo sul letto.

“Vita, io non dormo con tutte le donne che… insomma…”.

“Con tutte le donne che ti scopi? ”

“No, no… con te ci riesco, ci riesco a chiudere gli occhi”.

“Ma davvero vuoi sposarmi? Perché se è vero… se è vero… mi sembra di sognare… che bel risveglio… dobbiamo organizzare tutto allora… ma non preoccuparti… lo sai no… sono esperta… ritentare non è poi così impossibile… allora adesso dobbiamo…”.

“Frena, piano. Piano, Vita. Hai visto che alla fine hai ceduto… sono proprio un uomo da sposare… Sei buffa… mi fai sorridere. Sei così legata all’amore che non ti rendi conto che ti sto prendendo in giro. Diventi una bambina, di fronte a certi argomenti.”

“Cioè… che vuoi dire?… non capisco…”.

“Vita, lo sai, ci conosciamo da tempo, hai capito come sono fatto, no? Davvero credi che io possa sposarmi?” e si solleva dal letto, serioso e un po’ turbato. “E’ stato solo uno scherzo, scusami, non volevo ferirti”.

“Sì, certo, solo uno scherzo… l’hai fatto… mi hai ferita…  per avere la conferma narcisistica che volevi. Povero! Tutte le donne sono pronte a sposarti, ti fa piacere? Ma chi ti credi di essere? Sei solo un uomo che ha paura… paura di mettersi in discussione… tu vivi il dietro le quinte della vita… non capisci davvero niente… sei un povero vigliacco… giocare coi sentimenti della gente… la verità è che ti manca il coraggio… sposarsi è una cosa seria…”.

Michele si infila il jeans, perché la situazione si sta facendo pesante, e prova imbarazzo a restarsene in mutande, di fronte a Vita, e si sente un po’ bambino ad aver fatto quello scherzo. Lei subito si copre il petto con una t-shirt – un abito lo può fare: può marcare le distanze; e basta coprirsi il petto, o indossare un paio di mutande  dopo aver fatto l’amore, per annullare la convivenza intima dei corpi. Vita, nervosamente, mette addosso le prime cose che trova, come per ristabilire i ruoli, e mantenere le distanze.

“Che stupida, avrei dovuto immaginarlo” – e sbatte i pugni sul tavolo –  “come fa uno come te a parlare di cose serie!” – e getta uno sguardo distratto in cucina.

“Il caffè è nella moca, basta accenderlo. Io vado a lavorare.”

Si aggiusta la maglietta e prende le chiavi dal tavolo, poi va via, sbattendo la porta.

“Grazie. Poi magari ti chiamo da studio” dice Michele, imbarazzato.

“Comunque non è vero che sei l’uomo che amo. Per me è solo sesso” grida dal portone, prima di scendere di corsa, e con il batticuore, le scale di casa.

“Mi piaci quando cerchi di fare la dura!” risponde Michele, alzando la voce, ma Vita è già lontana, e lui si sente ridicolo. La porta però, dopo qualche secondo, si riapre. Vita è tornata con la scusa di aver dimenticato il cellulare.

“Io non sono come te… ai miei pazienti ci tengo, io… non voglio che il telefono squilli a vuoto… sono un medico vero, io… me lo ricordo sempre che sono un medico, io… e comunque non ti sopporto più… vai al diavolo”.

E, questa volta, va via per davvero.

Michele parla da solo, e forse ignora di essere davvero solo.

“Rovino tutto, hai ragione… Vita cara… ma solo perché ho paura, ho paura…” confessa Michele alla casa vuota; poi si alza dal letto e guarda l’orologio. Accende il cellulare, che subito inizia a suonare.

“Che suoni pure a vuoto, io non sono perfetto, sono un uomo, un semplice uomo”.

Butta il telefono sotto le coperte e va verso la cucina. La moca è sul gas e l’accende. “L’avrà preparata stanotte, mentre io dormivo” pensa Michele, pentito di aver rovinato quel risveglio. “Quanto è premurosa, lo è sempre stata… e io… io… non l’ho mai trattata bene… sarebbe davvero bello vivere con lei… condividiamo tutto da molto tempo, anche questa casa… la sento mia, questa casa… basterebbe così poco, invece resto fermo, paralizzato come uno stupido…”.

Vorrebbe non averlo mai fatto, questo scherzo. Ma Vita è via, immersa nei rumori della città – lontano da lui.

“Le scriverò una lettera… mi farò perdonare… sono un uomo di cinquant’anni… lei capirà tutto”.

Michele si siede e inizia a scrivere sulla carta gialla del pane – è l’unica carta che riesce a trovare in casa.

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Matera, sette novembre ‘97

Per Vita

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Cara Vita, ho pensato a lungo alla discussione fatta, non meriti di soffrire, e non è giusto che io distrugga tutto ogni volta che riesco a creare con te una certa armonia; hai ragione tu quando dici che sono detestabile, ma non voglio perderti… ti racconterò tutto.

Giocavo allegramente con le gambe delle donne quando ero un bambino. Perché mia madre era una sarta, e casa mia era sempre piena di colori, vestiti, pizzi e donne, tante donne. Avevo solo cinque anni, ma ricordo tutto ciò che mi accadde, come fosse ieri.

Mi piaceva aggrapparmi stretto a quelle gambe un po’ pungenti, come una scimmia al suo ramo, ed ero considerato da tutte un figlio.

Mi piaceva spiare le donne in intimità fra di loro.

Mi piaceva guardare in alto e trovare orli di mutandine bianche che si intravedevano dalle sottovesti e, anche se ero piccolo, lo trovavo divertente.

Spesso rimanevo in un  angolino della casa, in silenzio ad ascoltare, anche se non li capivo, i sogni di quelle donne. Ricordo che si parlava di matrimoni e di doti.

Un pomeriggio Giacinta, la mia dirimpettaia zitella, intima amica di mia madre, mi chiese di andarle a comprare una pagnotta. Lei frequentava casa mia tutti i giorni, e rimaneva spesso a pranzare da noi, perché era sola e a mia madre dispiaceva. Era una di casa, insomma, una vera zia. Mi disse di comprarle il pane, perché avrebbe mangiato a casa sua quel giorno, e con i soldi restanti avrei potuto comprare delle caramelle, come ricompensa  per il favore.

Accettai la proposta, soddisfatto di essere stato scelto per un servizio così importante – io che avevo solo cinque anni, per la prima volta mi trovavo tra le mani dei soldi da gestire, come un vero capo famiglia.

Dovevo portare il pane a casa, e questa cosa mi faceva sentire un piccolo uomo. Quanto mi piaceva, Vita!

A testa alta camminavo per la via del ritorno, portando in una mano la busta bianca del pane e, nell’altra, la ricompensa: dieci caramelle. Era la prima volta che non dovevo condividere nulla con gli altri miei fratelli. Ero felice.

Raggiunsi correndo il portone grande della signora.

Lo aprii con tutta l’energia di quegli anni, e correndo verso il corridoio, raggiunsi la casa di Giacinta, e trovai la porta aperta.

Ero  riuscito a fare tutto. Credimi Vita cara, ero felice.

Entrai, come fossi il padrone, e chiamai la signora per nome, anche se lei non mi rispose.

La casa era vuota, e io non capivo.

Dopo poco la signora mi chiamò, era nel bagno che si stava lavando la faccia. Così mi disse da lontano, ma io non la vedevo.. Mi disse di raggiungerla, e io obbedii.

La raggiunsi, e la trovai tutta nuda seduta sul bidè. Subito mi voltai, ma lei mi prese… prese la mia mano… ancora lo ricordo… mi prese la destra, quella che stanotte hai tenuto sul tuo seno.

Dalla tasca sinistra mi caddero le caramelle… e poi mi usò… mi ha usato a suo piacere… mi capisci?

Voglio riprovare, di tempo ne è passato. E se ti va ancora di sopportarmi, voglio riprovare a portare il pane a casa senz’avere paura… sì, io voglio portarti il pane a casa… e questa volta non per gioco. 

Tuo, Michele.

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domenica, 15 luglio 2007

ALI PODRIMJA: LA POESIA CHE VIENE DAL KOSSOVO (di Andrea Di Consoli)

Foto_andreaÈ appena uscito, per i tipi della De Angelis, il primo libro di poesie tradotto in Italia del poeta kossovaro Ali Podrimja (Deserto invasivo, a cura di Blerina Suta, introduzione di Filippo Bettini, che giustamente si sofferma sulla “petrosità” della lirica di Podrimja, considerato uno dei maggiori poeti viventi del Kossovo). Abbiamo incontrato il poeta di Gjacova a Roma, in occasione del festival Mediterranea.

- I Balcani sono un groviglio di culture, etnie, religioni, linguaggi, tradizioni, e molto spesso è difficile orientarsi in questo coacervo. Lei come si definisce?

E’ vero. I Balcani sono un groviglio complicato. Sono accadute, nel corso dei secoli, moltissime assimilazione, su tutti i versanti. Molti albanesi sono stati assimilati dai serbi, anche se non hanno mai perso il senso della “patria albanese”. Io, molto semplicemente, sono un albanese.

- E la religione?

La religione, nel popolo albanese, non ha mai avuto un ruolo determinante. Io mi sento albanese indipendentemente dal nome che ho, che è mussulmano. In materia di religione il popolo albanese è il più tollerante d’Europa. Tagore, scrivendo al suo popolo, disse: “Andate in Albania e imparerete che cos’è la tolleranza religiosa”. 

- Ne è proprio sicuro?

Non è mai successo in Albania che la divisione religiosa sia stata causa di un conflitto. Un esempio è la figura di madre Teresa di Calcutta. Per onorare la figura di questa donna straordinaria, quando c’è stata la beatificazione, sono venuti a Roma tutti i rappresentanti delle tre grandi religioni albanesi: i mussulmani bektashi, i cattolici, gli ortodossi. 

- Come viveva uno scrittore kossovaro nella ex Jugoslavia? Com’era il clima politico quando lei, negli anni Settanta, pubblicò il suo primo libro?

In Jugoslavia, quando nel 1971 ho pubblicato Grido, il mio primo libro, c’era libertà di creatività poetica. Gli autori albanesi che vivevamo e scrivevano in Jugoslavia si sentivano uguali agli altri poeti della ex Jugoslavia. Il grande sviluppo della letteratura lo indicava anche il fatto che c’era una casa editrice in albanese che si chiamava Rilindja. E poi esistevano molte riviste e molti giornali in albanese, non solo a Pristina, ma anche a Shkup e a Podgorica. Non c’è da stupirsi di tutta questa libertà nella ex Jugoslavia, perché noi eravamo la terza popolazione per numero di persone, dopo i serbi e i croati. Dicevano in quel tempo che l’esercito jugoslavo era composto soprattutto da albanesi, perché eravamo il popolo più giovane dell’area. La comunità albanese aveva una varietà di attività letterarie. Davamo, inoltre, molta importanza alla traduzione dei poeti serbi e croati nella nostra lingua.

- Chi traducevate negli anni Settanta tra gli scrittori “occidentali”?

Dante, Petrarca, Boccaccio, Malaparte, Pirandello, Moravia, Buzzati, Ungaretti, Croce, De Sanctis. E poi Dos Passos, Faulkner, Pound.

- E in Albania? Com’era la situazione in Albania?

In quegli anni, in Albania, si leggevano clandestinamente gli autori internazionali che noi traducevamo. Siamo stati una finestra aperta per i poeti dell’Albania. Eravamo aperti anche rispetto alle letterature della ex Jugoslavia. Per appianare i conflitti noi pubblicavamo anche autori che avevano scritto i famosi “elaborati” contro la questione albanese. Il peggiore era Cubrolovic. E Ivo Andric.

- E di Tito cosa ci dice? Proprio tre giorni fa, sul Corriere della sera, Bettiza ha parlato di Tito in termini curiosi, ovvero come di un dandy aristocratico. C’è addirittura una fotografia del 1974 che lo ritrae insieme a Sophia Loren. Lei cosa ne pensa?

Tito era liberale, perciò l’arte non veniva controllata in modo rigido. Personalmente ero molto giovane allora. Comunque anche oggi, sia gli albanesi, sia i macedoni, che componevano a suo tempo l’ex Jugoslavia, hanno un sentimento di rispetto per Tito. Ancora adesso vedo la foto di Tito nelle case e nelle istituzioni statali della Macedonia. Tito ha saputo avvicinare i popoli della ex Jugoslavia. Era cosciente che un tempo sarebbe scoppiato il nazionalismo serbo, perciò aveva un atteggiamento equanime verso tutte le popolazioni. Voleva tenere la tranquillità interna del paese, in quanto da un lato c’era il pericolo del blocco dell’Est, dall’altro c’era l’Occidente. Perciò ha creato questo terzo blocco indipendente con gli Arabi, con l’India, con alcuni paese dell’Africa. Tito era un uomo aperto, perciò si è fatto fotografare con Sophia Loren. Tito, infine, non lo dimentichi, era un croato cattolico.

- A che punto è il Kossovo?

Il Kossovo, di fatto, è indipendente. Ultimamente il nazionalismo serbo ha incominciato ad alzare di nuovo la voce, perché dalla loro parte c’è Putin, il quale sogna, proprio come Milosevic, una Jugoslavia identificata con la Serbia. Tutto questo, ovviamente, per rendere più vulnerabile l’Europa. L’Unione Europea si compone di molti stati slavi, e quindi creare tensione è un modo per indebolire l’Europa. Io temo soltanto che succeda qualcosa di grave, perché Putin segue le orme di Eltsin, che in un’occasione ad Atene disse: “Da Atene, passando per Belgrado fino a Mosca, creeremo un grande stato ortodosso”. Questo i nazionalisti lo hanno inteso come un segnale di appoggio alle loro mire.

- Lei odia i serbi oppure odia i nazionalisti serbi?

Non odio i serbi, ho molti amici serbi. La disgrazia dei serbi sono i loro nazionalisti. Le racconto una cosa. Prima di arrivare a Roma ho visto un reportage tedesco dove un giornalista è riuscito a entrare nel “castello” del partito radicale nazionalista serbo. Il giornalista tedesco chiede a un membro di quel partito delle vittime di Serbrenica, e questo nazionalista offende pure gli uccisi e i morti. Infatti dice: “Non è vero che sono stati uccisi ottomila mussulmani. Quegli ottomila mussulmani morti sono stati presi in giro per la Jugoslavia e portati lì”. Questa è una cosa vergognosa, perché offende la memoria dei morti.

- Com’è possibile tutto questo?

La follia dell’egemonia e della sopraffazione sul prossimo, è questo che ha causato il disastro. Gli albanesi del Kossovo non avevano un altro tetto sotto cui abitare. I serbi avevano tutte le armi della ex Jugoslavia. Anche adesso c’è la paura che qualcosa di terribile possa accadere. Io temo a causa del nuovo asse Belgrado-Mosca.

- Come ricorda il bombardamento della Serbia nel 1999?

L’intervento della Nato era necessario, perché prima che questo intervento ci fosse, un milione di kossovari erano diventati profughi. Poi, quando sono tornati, hanno trovato centoventimila case bruciate.

- E di Rugova, prematuramente scomparso, cosa ci dice?

Rugova era un mio collega, abbiamo collaborato molto. Era un critico letterario straordinario. Il suo merito era di dirigere il primo partito democratico che segnava un gran numero di membri al suo interno. Lui era riuscito in modo pacifico a restituire la fiducia al popolo albanese. Dopo aver visto che il pacifismo non portava da nessuna parte, sono sorti i movimenti per la liberazione, i cui componenti erano per la maggior parte intellettuali, studenti e contadini.

- E di D’Alema cosa pensa? L’ex premier italiano, proprio sul Kossovo, si assunse una grandissima responsabilità “morale” e politica.

I kossovari hanno simpatia per chi ha appoggiato i bombardamenti in Serbia, per chi ha appoggiato la causa kossovara. La coscienza europea ebbe un sussulto, con quella decisione. In quel tempo si uccidevano le persone come fossero topi.

- Qual è la differenza tra un kossovaro e un albanese?

Fa parte della letteratura albanese sia chi scrive in Kossovo, sia chi scrive in Albania, sia chi scrive in Calabria presso le comunità arbareshe. Solo i confini fisici hanno diviso gli albanesi. Il nostro Risorgimento letterario ha le radici presso la letteratura arbareshe. Mi riferisco al grande Girolamo De Rada, il nostro Dante. Considero gli arbareshe come un grande ponte tra l’Albania e l’Italia.

- Senta Podrimja, provo a esprimerle una mia riserva. E’ come se voi “poeti dell’Est”, vissuti fino a pochi anni fa sotto il dominio della storia e della politica, aveste difficoltà a svincolarvi da un certo linguaggio politico, da una certa “retorica” dell’impegno civile.

Penso che l’arte, anche se scrive di politica, non può essere vittima della politica se sa cogliere il bello. Saper trovare i motivi, ma soprattutto saper dare dei messaggi, è questo il compito dell’artista. Sarebbe una vergogna, in una realtà così grave, non diventare specchio di quello che succede, non essere impegnato. E’ vietato che la memoria muoia. Si scrivono cose anche su eventi tanto gravi affinché questi eventi non accadano più. Tutta una pletora di scrittori ha testimoniato, dopo la seconda guerra mondiale, quello che è accaduto al tempo dei nazisti. Se uno scrittore chiude gli occhi di fronte a quello che accade, è un traditore.

- Parole forti, le sue. Non pensa, invece, che un giorno lei verrà considerato semplicemente un poeta engagé, magari criticamente, così com’è avvenuto in Italia negli anni Sessanta, quando i neoavanguardisti si scagliarono contro i neorealisti “impegnati” del dopoguerra?

Ogni generazione completa quella passata. La memoria non può essere una cosa che si può superare. La memoria deve esistere. Ogni tempo avrà bisogno della memoria e della coscienza storica. Io penso che ci sarà sempre una parte della letteratura che avrà bisogno di questa memoria. La letteratura ha il suo messaggio. Giocando con le parole non si può fare nessun tipo di arte.

Andrea Di Consoli

Andrea Di Consoli è nato a Zurigo nel 1976 da genitori lucani. Attualmente vive a Roma, dove lavora ai programmi radiotelevisivi della Rai. Collabora inoltre a «l’Unità», a «Stilos» e a varie riviste, inoltre scrive sul «Messaggero» e «Nuovi Argomenti». Ha pubblicato il saggio Le due Napoli di Domenico Rea (Unicopli 2002), la raccolta di poesie Discoteca (Palomar 2003) e i racconti di Lago negro (L’ancora del Mediterraneo 2005). Il romanzo Il padre degli animali (2007) ha vinto il premio Mondello ed è finalista al premio Viareggio-Repàci.

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sabato, 14 luglio 2007

LA SUOCERA DEL ROMANZIERE

Su Tuttolibri de La Stampa di oggi, 14 luglio 2007, a pag. 2, la rubrica L’opinione è occupata da un interessante articolo di Elena Loewenthal dal titolo: “Letterati da Expo”.

Tra le altre cose la Loewenthal precisa quanto segue:

Ha ragione Aldo Grasso quando scrive che c’è una tivù che fa schifo. C’è anche una letteratura che produce il medesimo effetto. Ha ragione quando punta il dito su quei letterati da esposizione culturale che usano i bagn(ett)i di folla da festival come misero surrogato dello share, su quei romanzieri (quasi tutti) che si venderebbero la suocera per una microcomparsata televisiva, foss’anche nelle ore più impervie, quando tutt’al più ti guarda un casellante di turno o un depresso insonne.”

Suocera con in mano copia della più recente opera del genero romanziere (o romanziere degenere)

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Cara Elena, anch’io penso che Aldo Grasso abbia ragione. I letterati da esposizione culturale che usano i bagn(ett)i di folla (o di folli?) da festival come misero surrogato dello share meritano dita puntate (e appuntite) in direzione oculare e con effetto accecante.

Le dirò di più. Secondo me i romanzieri (quasi tutti) venderebbero la suocera non solo per una microcomparsata televisiva, ma anche per una malacomparsata televisiva, foss’anche nelle ore più impervie, e persino in differita, a costo di svolgere il duplice ruolo di protagonista video e telespettatore unico. L’importante è esserci.

Già. Erich Fromm sbagliò il titolo del suo famoso libro. Non “Avere o essere?” doveva denominarlo, ma “Avere o esserci?”.

Per quanto concerne la suocera, poi, a costo di apparire banale o troppo attaccato ai luoghi comuni, le dirò che sono convinto che molti romanzieri (se non quasi tutti) se la venderebbero a prescindere dalle microcomparsate televisive. Anzi, molti la darebbero via proprio gratis (la suocera). E se proprio devo dirla tutta ho l’impressione che la maggior parte dei romanzieri (o forse quasi tutti) sarebbero pure disposti a pagare per levarsela di torno (sempre la suocera); anche se sul piatto della bilancia ci fosse una perfetta solitudine casalinga, anziché comparsate televisive di qualunque genere.

Eh, brutta razza quella dei romanzieri!

Massimo Maugeri

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venerdì, 13 luglio 2007

VESTIVAMO DA SUPERMAN di Bill Bryson

Bill Bryson è un giornalista/scrittore americano nato nello Iowa – per l’esattezza a Des Moines – l’8 Dicembre del 1951 (nel 1980 fu costretto a festeggiare il compleanno il giorno in cui John Lennon fu assassinato, n.d.r).

Dal 1977 si trasferisce in Inghilterra per svolgere l’attività di giornalista. Trascorre parecchio tempo in Europa, ma poi torna in patria. Attualmente risiede ad Hanover, nel New Hampshire.

Bryson è considerato uno dei più talentuosi travel writers (scrittori di libri di viaggio) in circolazione. Possiede un invidiabile senso dell’umorismo che traspare con forza dalle sue pagine.

Il suo libro più famoso è probabilmente Una Passeggiata nei Boschi dove narra con tono leggero e autoironico una stravagante vacanza nei Monti Appalachi (L’Appalachian Trail). La vacanza consiste nel percorrere, a piedi, all’età di 44 anni, in compagnia dell’amico Stephen Katz, un sentiero di 3.400 chilometri che si snoda attraverso 14 Stati americani dalla Georgia al Maine, senza la minima cognizione delle più elementari norme di sopravvivenza nella natura selvaggia.

Nel 2004  Bryson vince il prestigioso "Aventis Prize" con A Short History of Nearly Everything edito in italiano da Guanda con il titolo ironico Breve storia di (quasi) tutto. Un viaggio nel mondo delle scoperte e delle conoscenze scientifiche: dalla storia dell’universo alla teoria della relatività, dai segreti chimici del big bang alle leggi dell’evoluzionismo.

Bill Bryson è recentemente tornato in libreria con nuovo libro (lo sto leggendo proprio in questi giorni). Il titolo, giusto per non smentire l’originale umorismo dell’autore, è davvero particolare: Vestivamo da Superman (dall’originale “The Life and Times of the Thunderbolt Kid). Il traduttore – che è anche uno scrittore italiano – è Stefano Bortolussi: un nome, una garanzia.

In questo libro Bill si pone una domanda iniziale: Cosa significa crescere nell’America degli anni Cinquanta?

Questa domanda dà il via a un viaggio a ritroso nel tempo; alla ricerca di quell’America “felice per vocazione, fiduciosa di sé e del proprio luminoso futuro”. L’America dove l’american dream è ancora lucido, vibrante, invitante. L’America dei bei tempi andati.

Ma è davvero così? Forse. Ma fino a un certo punto.

Scrive Bryson: “Crescere era facile. Non richiedeva alcun pensiero o sforzo da parte mia. Sarebbe accaduto comunque. (…)

Eppure quello è stato di gran lunga il periodo più spaventoso, emozionante, interessante, istruttivo, sbalorditivo, libidinoso, entusiasta, problematico, spensierato, confuso, sereno e snervante della mia vita. E guarda caso, lo è stato anche per l’America.”

Vi pare poco?

Massimo Maugeri

VESTIVAMO DA SUPERMAN di Bill Bryson

Guanda, 2007

pag. 309, euro 12

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mercoledì, 11 luglio 2007

IL VALORE MATEMATICO DI AMMANITI

Nei giorni scorsi si è molto parlato del premio Strega. Com’è noto, e com’era nelle previsioni, l’edizione 2007 è stata vinta da Niccolò Ammaniti. In seconda posizione si è piazzato Mario Fortunato.

Niccolò Ammaniti

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Posizioni ribaltate sulla base del voto dei lettori del Domenicale de Il Sole 24Ore (vedi tabella sotto).

LA GIURIA DEL

PREMIO STREGA

I LETTORI

DEL DOMENICALE

DEL SOLE 24ORE

1. Niccolò Ammaniti, “Come Dio comanda”, Mondatori, 144 voti

1. Mario Fortunato, “I giorni innocenti della guerra”, Bompiani, 31% dei voti

2. Mario Fortunato, “I giorni innocenti della guerra”, Bompiani, 79 voti

2. Niccolò Ammaniti, “Come Dio comanda”, Mondatori, 25% dei voti

3. Franco Matteucci, “Il profumo della neve”, 55 voti

3. Milena Agus, “Mal di pietre”, Nottetempo, 22% dei voti

4. Laura Bosio, “Le stagioni dell’acqua”, Longanesi, 43 voti

4. Franco Matteucci, “Il profumo della neve”, 12% dei voti

5. Milena Agus, “Mal di pietre”, Nottetempo, 34 voti

5. Laura Bosio, “Le stagioni dell’acqua”, Longanesi, 10% dei voti

Come sapete non sono mancate le polemiche. C’è chi ha parlato di voti di cordata (presunta alleanza di Feltrinelli con Mondadori per restituire l’appoggio di un paio d’anni or sono determinante per la vittoria di Maggiani). C’è chi (non scrivo il nome, ma solo il cognome: Fortunato), in diretta Rai, nel corso della votazione, ha candidamente dichiarato a Giovanna Zucconi di non apprezzare (uso un eufemismo) il libro di Ammaniti.

Insomma… polemiche!

E qualcuno potrebbe dire: Eh, il Premio Strega non è più quello di una volta!

E invece no. Direi che le polemiche hanno sempre accompagnato le piroette del nostro più importante premio letterario nazionale.

Loredana Lipperini è riuscita a scovare una bellissima lettera (che ha poi postato su Lipperatura del 9 luglio), scritta da Carlo Emilio Gadda il 7 luglio 1952 e indirizzata a Gianfranco Contini. L’oggetto è l’attribuzione dello Strega ad Alberto Moravia.

La riporto qui (da Lipperatura).

Lo Strega è stato conferito a Moravia: giustamente, avuto riguardo al merito generale. Il suo libro è arrivato (a passi felpati) 20 giorni dopo la scadenza del concorso e comprende lavori già editi in volume. Non è giusto accusare di lesa maestà moraviana i concorrenti «ripetutamente invitati» come me. Io non solo mi sono legittimamente iscritto a tempo debito, con libro uscito a tempo debito, ma fino alla scadenza delle presentazione et ultra, ignoravo, come tutti ignoravano, che Moravia avrebbe presentato un libro, auspice la famiglia Cecchi, e col rumoroso codazzo degli strombazzatori di sinistra; i quali hanno pubblicato che le mie Favole sono «sostenute dai preti». Se è Moravia che ha varato questo siluro di tutta puzza, bisogna dire che il suo cervello è quello di un autentico deficiente: e che la spondilite e l’eredolue gli è arrivata alla ipòfisi, o pituita. O è malafede anaria.

Dunque, se Fortunato grugnisce contro Ammaniti possiamo sorridere pensando a quell’altra celebre diatriba. E, anzi, applicando le mie reminiscenze di matematica potremmo goliardicamente costruire un’interessante proporzione sui due suddetti duetti (perdonate la rima):

Moravia sta a Gadda come Ammaniti sta a Fortunato.

Che tradotta in linguaggio matematico diventa:

Moravia : Gadda  = Ammaniti : Fortunato

Bene, questa proporzione (badate, la matematica non è mai un’opinione) permette di calcolare il vero valore letterario del vincitore della più recente edizione del Premio Strega.

Applicando la nota formula si giunge, infatti, alla seguente conclusione:

Ammaniti = Moravia x Fortunato / Gadda (leggasi, Ammaniti uguale Moravia per Fortunato fratto Gadda).

Questo sarebbe il valore matematico di Ammaniti.

Secondo voi è troppo, o troppo poco?

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venerdì, 6 luglio 2007

TORNIAMO A DANTE

Dicono che Dante sia tornato di moda e che a questo ritorno abbia contribuito il bravissimo Roberto Benigni. Ottimo, penso tra me e me. Solo che poi sopraggiunge una considerazione: ma questo ritorno a Dante è un ritorno attivo o passivo? Voglio dire, ascoltare i versi della Divina Commedia dalla voce del protagonista de “La vita è bella” è senz’altro una gran cosa, ma quanti di noi ultimamente hanno compulsato l’Inferno, il Purgatorio o il Paradiso?

Nel dubbio vi propongo un giochino dei miei: torniamo a Dante, ma in maniera… attiva.

Vi invito a riprendere in mano i volumi della Commedia, a scegliere dei versi e a proporli qui come commento. Il criterio di scelta è assolutamente libero: un verso a cui siamo particolarmente legati, lo stralcio di un canto che avevamo sottovalutato, oppure – perché no? – un passaggio che non siamo mai riusciti a digerire. Insomma, non importa. Va bene tutto purché si ritorni a Dante.

Intervenite. Intervenite più volte con i vostri versi danteschi. A costo di riportare qui l’intera Commedia.

Chi ha voglia, magari, potrebbe offrire proprie considerazioni sul poema. Cimentatevi con veri e propri articoli, dàì. Ve la pongo come una sorta di sfida.

Inoltre, per vostro e mio diletto, inserisco nel post un video pescato dalla rete (da google video, per l’esattezza) dove avrete modo di gustare la performance recitativa di un grande Benigni alle prese con i canti del sommo poeta (il video dura un’ora e dodici minuti e la sua visione è consigliata a chi è dotato di connessione adsl e contratto flat).

Guardate – e ascoltate – il video, se vi va; però, mi raccomando… partecipazione attiva.

Torniamo a Dante, dunque. Pronti? Via.

P.S.  I versi che seguono sono vietati! Troppo noto, l’incipit (lo recita anche Mike Bongiorno in un noto spot Tv)

« Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita. »

P.P.S. Nei prossimi giorni, per una settimana circa, sarò fuori sede. Dunque non potrò aggiornare il blog con nuovi post. Fatevi bastare questo… secondo me è tosto!

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mercoledì, 4 luglio 2007

DALLA PARTE DEL TORTO di Elisabetta Bucciarelli

Capita che, aprendo le pagine di un libro, il suo inizio riesca – per un motivo o per l’altro – a catturarti, ad affascinarti. Oppure capita l’esatto contrario. Leggi le prime righe, sbuffi, chiudi il volume e lo seppellisci in uno scaffale secondario della tua libreria..

Per quanto mi riguarda il più recente romanzo di Elisabetta Bucciarelli – autrice di cinema, teatro e televisione – rientra nella prima categoria. Dopo un prologo mozzafiato, ci si imbatte infatti in un incipit/citazione che strizza l’occhio a uno dei più grandi romanzi della storia della letteratura mondiale: “Tutti i cieli azzurri sono uguali. Ogni cielo grigio è grigio a modo suo”. Il lettore attento non avrà difficoltà a riconoscere la trasposizione dell’incipit dell’Anna Karenina del grande Tolstoj: “Tutte le famiglie felici sono simili fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”.

Un incipit del genere depone senz’altro a favore dell’autrice e di questo suo nuovo romanzo: Dalla parte del torto (Mursia, 2007), volume corposo dalla copertina gialla che incornicia la foto in bianco e noir di un acquitrino che non lascia presagire nulla di buono.

Protagonista del libro è l’ispettore di polizia Maria Dolores Vergani, personaggio letterario che aveva già visto la luce nel primo romanzo della Bucciarelli: Happy Hour (Mursia, 2005), ambientato in una Milano moderna, abbiente e all’avanguardia per mode e tendenze. In quell’occasione avevamo avuto modo di ammirare l’intrepida Vergani alle prese con un serial killer particolare che prediligeva mietere vittime tra i frequentatori di bar alla moda e, appunto, happy hour.

Da poche settimane l’ispettore Vergani – quarant’anni, ex psicologa, vita sentimentale irrisolta – è stata dunque ri-catapultata in libreria a far compagnia all’ultimo Montalbano. Anche stavolta la morte bussa alle porte della Milano bene: quella dell’arte e della cultura, della elite e della fashion.

Il cadavere di una giovane donna, bella ed elegante, viene trovato all’interno del milanesissimo parco Forlanini. È solo il primo di una serie di delitti efferati consumati all’interno di parchi cittadini. La Vergani indagherà a modo suo avvalendosi del supporto di una delle più originali squadre investigative dove operano un pittore, un musicista, una copy writer e un fotografo di moda. L’indagine la porterà nel mondo oscuro delle pratiche sessuali estreme, intriso di sadismo, masochismo, feticismo. Un mondo oscuro che coincide, in parte, con l’alta società di una Milano insospettabile.

Con questo romanzo la Bucciarelli punta il dito contro gli aspetti vacui e superficiali di una società che tende all’estetica e alle mode effimere. Una società dove tutto è bello, ma nessuno è buono; o meglio, dove la differenza tra buoni e cattivi è più sottile della lama di un coltello. Per cui, come si legge a chiare lettere da questa sorta di slogan stampato in quarta di copertina, “nessuno può chiamarsi fuori, dal momento che tutti, prima o poi, si sono trovati, almeno per una volta, dalla parte del torto”.

Un’ulteriore nota. In questo libro il lettore avrà modo di apprezzare una scrittura ricca di commistioni e citazioni (commistioni linguistiche con prevalenza di inglesismi e citazioni di ogni tipo che toccano il mondo della letteratura, della musica, dell’arte) e tratti umoristici che risaltano da originali e riuscite didascalie comico/teatrali a supporto dei dialoghi.

In definitiva, davvero convincente la seconda prova narrativa di questa regina del noir milanese.

Massimo Maugeri

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DALLA PARTE DEL TORTO  di Elisabetta Bucciarelli

Mursia, 2007

pag. 408, euro 17

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Elisabetta Bucciarelli vive e lavora a Milano. È autrice di cinema, teatro e televisione. Ha pubblicato i saggi: Strategie di comunicazione, Io sono quello che scrivo e Le professioni della scrittura. Ha scritto racconti e sceneggiature tra cui Amati Matti, menzione speciale della giuria alla 53a Mostra del Cinema di Venezia. Con Mursia ha pubblicato il romanzo Happy Hour.

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Ringrazio la Mursia per avermi concesso la pubblicazione delle prime pagine del romanzo (le potete leggere di seguito).

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La volante della polizia sta facendo il suo lento giro tra le anse del parco. Fioche luci lunari illuminano l’erba. Una sagoma si muove rasente il fiume che brulica di topi di fogna. Sobbalza. Due di loro sono impiccati al filo spinato che cinge l’argine. Le fauci aperte, le code lunghe, sottili, dritte. I colli strozzati da una corda da pacco, i corpi non ancora in putrefazione. Una siringa conficcata nella schiena di uno. Cattiveria o follia, identificazione o sfregio, ecocidio del putrido. Plastiche palle, gioco di cani, mordicchiate e bavose si accumulano sul finale del dosso, che nasconde un altro epilogo. Tragico, smarrito, lo sguardo di una donna con il capo riverso accoglie l’ultima speranza di sopravvivere. Poi una lama affilata affonda in pieno petto e rimane lì qualche istante, un rantolo e di nuovo un colpo. Lo squittire di una pantegana disturba l’azione e l’ombra si sposta rasente i cespugli e cammina fino a raggiungere la prossimità di un altro specchio d’acqua. La donna, occhi a fessura, mugugna, è un lamento sottile, stride, come gesso sulla lavagna. La lama affonda ancora una volta, è letale. Poi più niente. Un freddo spostamento d’aria senza suono fa pensare a un’altra presenza, la sagoma si gira ma non c’è nessuno. Spinge nell’acqua il corpo, lo guarda andare via. Scivola lentamente, non c’è corrente e lentamente affonda, poco sotto. L’uomo getta la borsa, e se ne va.

I

Tutti i cieli azzurri sono uguali. Ogni cielo grigio è grigio a suo modo.

Milano è di piombo. D’inverno non si distingue l’orizzonte dallo skyline. Canna di fucile che entra nell’antracite, vira al cemento-grattacielo e all’argento del ferro, per finire nel madreperlaceo delle pozze d’acqua. Grigio opaco di sera. Periferici, rarefatti, scialli di nebbia a soffundere i profili delle cose, delle case e delle ultime cascine sparse, ammorbidiscono angoli e smussano certezze. Rumori e tremori, malcelati o addirittura nascosti per chi si ostina a strizzare gli occhi, raggiungono un crescendo diurno. Scompaiono ai vespri. Grigio brillante di primavera. Ciuffi bizzarri d’erba invadono parassitati cementi muschiati, prosciugati dal sole. C’è anche qui, rimbalza contro le superfici lisce delle macchine, i parabrezza con i cartoni kitch copri-cruscotto, le pance metallizzate delle moto e finisce per illuminare gli specchi delle finestre antiriflesso, baluginanti occhi da lupo. Trasforma in scaglie ittiche le prospettive, lamelle dorate destinate a friggere in un liquido grigio d’estate, torrida di sandali che affondano nel cemento sciolto dei marciapiedi. A Milano insiste testarda un’apparente via di mezzo, un’ampia, empia aurea mediocritas, senza troppi schieramenti, né schiarite.

II

Al Forlanini sopravvivono patetiche speranze ecologiche. Si può ancora parcheggiare ovunque, mangiare tramezzini originali e hot dog, andare a respirare cloro in piscina, giocare con barchette e motoscafi telecomandati sul laghetto. Carpe rosse grandi come tonni e tartarughe ninja cresciute dopo un abbandono precoce.

Frastagliato, limpido di acqua sorgiva d’estate, rallegrato dai suoni dei bambini nei pomeriggi dopo la scuola, dai latrati dei cani del vicino rifugio. La grande pozza esce dall’inverno sporca e melmosa. Si sarebbe offesa sentendosi appellare pozza, meglio lago, secondo solo all’Idroscalo, mare di Milano bizzarro di piccole onde, di sci nautico, di costumi da bagno. Calmo invece, quello del Forlanini, ma di una tranquillità solo apparente.

Una riva è saturata da un centinaio di persone. Le gare sono già iniziate, si sente lo zanzarare dei telecomandi nell’aria. È sabato, uno dei primi weekend di primavera. Si fatica a distinguere a chi appartengano i bolidi che sfrecciano, perfette riproduzioni in scala di lussuosi originali, vele che strambano e orzano, scafi che schizzano sul pelo dell’acqua. Per scoprirlo basta mettersi in attenta osservazione e seguire le impercettibili espressioni del viso dei ragazzini, concentrati sulle manovre come davanti a un videogioco. In qualche minuto quindici piccoli natanti raggiungono una linea di partenza immaginaria. Sembrano pronti per la sfida. Fanno rombare in folle le loro creature meccaniche. C’è odore di benzina nell’aria. Partono. È in testa un motoscafo rosso. Lo guida un bambino di sette anni con un giubbotto di pelle marrone da aviatore, più grande di almeno due taglie. La frangia bionda gli cade sugli occhi scuri e con uno scatto del collo la sposta a sinistra per quel secondo esatto che serve a guardare davanti senza interferenze. Di fianco a lui un altro, più o meno della stessa età e altezza, riccio e scuro: «Stavolta ti batto Matteo!» e spinge il suo fuoribordo blu più veloce che può.

«E provaci!», risponde Matteo, ma una curva eseguita con audacia provoca un brusco movimento del braccio destro, che lo sbilancia fino a farlo quasi cadere addosso all’amico che reagisce: «Ehi, ma non stai neanche in piedi, cos’hai mangiato oggi?».

Ridono. Ancora la lunga frangia di Matteo sugli occhi e questa volta la sua piccola mano si stacca istintivamente dai comandi per bloccare il ciuffo dietro all’orecchio sinistro. Basta poco per perdere concentrazione e controllo. Il motoscafo rosso cambia direzione, poi si ribalta e imbarca acqua. Da dietro arriva una vela e poi a seguire un galeone d’epoca. Fino al motoscafo blu dell’amico, che accelera e recupera, riprende il gruppo da destra, passa tutti e cerca di portarsi in prima posizione. Il ragazzino esulta di gioia e chiama Matteo, esortandolo a rimettersi in gara, ma l’imbarcazione non si riprende. Il pilota scoraggiato accenna una lacrima di sconforto, la scaccia immediatamente tirando su con il naso, poi si guarda intorno come per cercare qualcuno. Lo fa con metodo, rimanendo alcuni istanti su ciascun punto dell’orizzonte, abbassandosi come a guardare sotto i cespugli, avanzando di qualche metro per liberare un orizzonte nuovo alla vista. Non trova quello che sta cercando. Raccoglie un legno ma lo getta subito dopo, troppo esile e corto. Ne sceglie un altro, robusto e pesante. Solleva il bastone rimestando sterpaglie e rifiuti che lo tengono ancorato al fango freddo e avvista il suo motoscafo che sta andando alla deriva, dall’altra parte dello specchio d’acqua. Inizia a camminare, con passo deciso, a tratti corre sempre più affannato sforzandosi di mantenere in vista il natante e allo stesso tempo cerca qualcuno che non vede.

Il resto del gruppo ha finito la gara. Vince il motoscafo blu. I ragazzini recuperano lentamente i loro bolidi, qualche adulto li aiuta commentando il risultato. Le piccole imbarcazioni vengono appoggiate sul bordo ad asciugare prima di trovare posto nei bagagliai delle macchine. Adulti e bambini complici, sempre, la mattina di tutti i sabati, tra le dieci e le undici, da tempo immemorabile. Un paio di maschietti parlottano sul ciglio della strada, chiamano rinforzi. Una faccia schifata, un urlo breve.

«È ancora vivo!»

«Ma va, non vedi che è stecchito?», un’altra voce.

Segni. Strazi. Una coda carnosa, lunga e viscida. Una madre va a controllare. Li trascina via. Ma loro vogliono guardare. Cercano nelle piccole menti di rispondere alle domande impossibili. Dagli all’untore. Sono animali schifosi. Una siringa. Saranno tossici. Il ratto se n’è andato in overdose. Crudeltà. Sfregio. Linguaggio da rifiuti. Topi impiccati da qualche squilibrato. Parole chiave: bonificare. Ripulire. Un cellulare chiama l’Amsa.

Gli occhi di Matteo sono sempre concentrati sul suo natante, le piccole mani sul bastone pesante. Si sporge bagnandosi i piedi, cercando di recuperare con la punta del legno la chiglia del motoscafo ma non ci arriva e allora si spinge più avanti, sbilanciandosi pericolosamente verso le acque limacciose. La piccola scarpa da ginnastica si affossa nel fango putrido del bordo e il piede destro finisce ben presto coperto dall’acqua, che arriva velocemente fino quasi al ginocchio. Matteo si accorge ma non molla, manca poco e in quel momento anche la coscia viene raggiunta dal freddo bagnato. Qualche amico lo vede in lontananza e avvisa il gruppo degli adulti, che hanno appena il tempo di realizzare cosa stia succedendo, quando già è tardi per intervenire. È stanco, con una mano sposta ancora i capelli che sono appiccicati dal sudore e dal fango. Dall’altra parte del laghetto nessuno si muove, in piedi, fermi a guardare. Solo una madre si accorge del bambino nell’acqua e inizia una corsa disperata, urlando, scomposta. Ha i tacchi, scivola, cade sul pietrisco, si fa male, piange. Qualcuno la raggiunge, la fa sedere, lei indica, urla, ma non c’è niente da fare.

Il ragazzino procede all’interno della pozza come un rabdomante, deve raggiungere il suo giocattolo. Lo chiamano ma lui non risponde, lentamente persegue il suo intento. Senza indugi sposta un piede dopo l’altro. Ma la melma putrida frana. E lui sprofonda. Beve, inizia a tossire. Un uomo lo individua controsole. Ancora giovane, tuta da jogging elegante e scarpe da corsa ultimo modello, capelli tagliati quasi a zero e grande cronografo al polso. Cuffiette stereo alle orecchie, occhiali con lenti azzurrate per schermare la luce, sconosciuta a Milano da troppi mesi. Toglie gli occhiali. Realizza. Inizia a correre più che può. Si agita, muove le braccia in aria. Sembra di colpo rallentare, poi quasi in apnea riprende, senza ossigeno né autocontrollo. Senza forze. Gli occhi del bambino si riempiono di lacrime. È completamente immerso nell’acqua con il piccolo braccio proteso sempre più avanti finché il bastone raggiunge il motoscafo rovesciato, che si è bloccato in un cespuglio di canne. Lo aggancia con fortuna rabbiosa e lo strattona per disincagliarlo. Insieme al natante, il contraccolpo libera un groviglio di schifezze, un misto di spazzatura e foglie marcescenti. Matteo è nel mezzo, qualcosa lo urta. D’istinto si divincola. Poi guarda. È un corpo. Si rende conto, abbandona il suo gioco e cerca di allontanarsi da quel punto.

L’uomo è già nella pozza, avanza a lunghi passi, spingendo l’acqua pesante con le cosce, alzando i piedi in fretta per impedire al fondo di risucchiarli. La sua grande mano afferra la piccola del bambino, tenendola stretta. Ansimante, con il terrore negli occhi, avvicina le spalle al suo petto.

«Ti tengo io, forza», e aggiunge per scacciare l’angoscia: «Mi vuoi spiegare cosa è successo?».

Bagnato fino alla vita, si siede sul bordo di canne, toglie le cuffiette dalle orecchie e guarda intensamente il ragazzino negli occhi.

«Si è fermato e non ho potuto continuare», fa lui, grondante e infreddolito, ginocchia sbucciate e aggiunge: «C’è qualcosa che galleggia là!», e indica con il braccio il punto dove il motoscafo continua la sua deriva insieme a una macchia scura.

Il padre guarda ma non parla.

«Papà, c’è un corpo là, che galleggia!», indicando sempre lo stesso punto e aggiungendo: «Me lo riprendi tu il motoscafo?».

«Certo, lo faccio io», senza distogliere lo sguardo.

«Ma perché non l’hai riportato a riva? Cos’è, te la sei fatta sotto?», diretto, si inserisce il pilota che ha vinto.

«Brando smettila!», lo riprende la madre.

«Brando, che bel nome! È il mio attore preferito, lo sai?», fa il padre cercando di cambiare discorso.

«È un cognome», puntualizza il bambino. «Io mi chiamo con un cognome, come il cane della vicina e non mi piace neanche!», chiudendo il discorso dalla parte della ragione.

III

Lungo un viale che conduce al laghetto, una ragazza strizza gli occhi quasi a sfidare una miopia vissuta senza occhiali, vezzo tipico dell’età che supera di poco i venti. L’avrebbe abbandonato presto come tutte, usando gli occhiali per schermarsi dalla vita e nascondere le rughe. Cerca di sciogliere un’interferenza visiva, mentre il fidanzato con un meticcio al guinzaglio la saluta, sale sulla sua vettura e se ne va. Lei ha il casco in mano. È certa di aver visto qualcosa di strano all’orizzonte, ma è ancora troppo lontana per mettere a fuoco l’ipotesi o una fantasia. Accelera il passo, quasi di corsa restringe le distanze. Una deposizione si staglia sul fondo azzurro del cielo. I capelli neri e la figura gonfia di acqua. Rivoli colano da tutta la superficie lasciando cadere come un mantello di gabardine il soprabito zuppo. I ragazzini guardano, niente affatto sconvolti. Nessuna impressione, né l’intento da pettegolezzo ma solo l’idea di essere dentro alla situazione, per la prima volta testimoni di un gesto pubblico. Natura morta, un assemblaggio di forme. Lentamente il corpo viene calato in una piccola area ben delimitata. A terra sono stati adagiati dei teli di plastica bianca.

«È morto un bambino lo scorso inverno», commenta la madre del vincitore della gara mentre gli pettina i capelli ricci e scompigliati.

«Andava in bici sul ghiaccio e si è rotto», aggiunge il figlio, guardando negli occhi la ragazza miope che si è fermata per raccogliere al volo le parole di un bambino, fanno sempre il loro effetto, prendendo appunti senza lasciarsi sfuggire nulla.

«E adesso cos’è successo?», gli chiede lei per amor di cronaca.

«Boh», fa il ragazzino. «Il mio amico ha trovato un corpo, guarda là», con l’indice piccolo. «Qualcuno dev’essere affogato», poi di scatto alla madre: «Affogato è morto, vero mamma?». «Affogato è come dire che non è più vivo», gli spiega lei con tono da educatrice, infastidita perché costretta a parlare di un argomento tanto scomodo quanto estraneo alla loro esistenza. Il figlio non è ancora soddisfatto, la guarda negli occhi aggiungendo: «Ma se gli togli l’acqua dai polmoni riprende a respirare… no, mamma?».

«A volte sì, altre volte no.»

«E questa volta?»

«Come faccio a saperlo, adesso chiediamo e sentiamo cosa ci dicono», decisamente scocciata, spostando il momento e la responsabilità della risposta e lasciando aperto nella mente del figlio uno dei più grandi quesiti dell’esistenza.

Matteo è ancora lì. Il corpo l’ha trovato lui. È bagnato dalla testa ai piedi, la temperatura frizzante dell’aria somma freddo al freddo. Il padre gli toglie il giubbotto e gli infila il suo golf. Non basta. Lo prende in braccio, lo stringe a sé. Un poliziotto chiede all’uomo di seguirlo per lasciare generalità e indirizzo. Gambe svelte, non se lo fa ripetere. Vorrebbe andarsene subito. Si consola pensando che quella è la stessa strada che avrebbe fatto comunque per arrivare alla sua auto. Il tragitto più breve passa per forza tangente alle transenne che formano il nuovo argine provvisorio, a separare chi guarda dal basso da chi, forse, dall’alto. Cielo e pozza riflettono lo stesso colore.

La testa di Matteo, nel frattempo, si è appoggiata con il mento sulla spalla, come quando era piccolino, si rilassava così fino al sopraggiungere del sonno, poi gambe e braccia cadevano molli, morbide, in totale balia del genitore che lo accoglieva. Il padre avverte ancora la sua indispensabilità, e con tutte le sue forze cerca nell’abbraccio di comunicarlo al figlio. Cammina veloce, felice di sentire quel peso. Come d’istinto getta lo sguardo tra le divise, per compensare la fatica, per curiosità. Appoggia gli occhi tenendoli radenti un po’ su tutto, fino a rallentare, a fermarsi, riempire i contorni. Matteo alza il capo dalla spalla e si gira verso lo sguardo del padre. I due volti osservano lentamente, insieme, un istante lungo, silenzioso, confuso. L’uomo lascia passare visi, legge parole mute sulle labbra, vede mani che spostano, con cura o senza pietà, con sapienza, senza esitazioni. Alzano, stendono, ricompongono. Matteo, costretto dalla pausa forzata del padre, cerca di mettere a fuoco tutto quel movimento. Una draga. Vorrebbe sapere come funziona, a cosa serve, perché è lì. Il padre spiega con automatismo: «A pulire il fondo, a rimuovere ingombri, ogni tanto si fa, per mantenere l’acqua limpida».

«Ho freddo», risponde Matteo, le risposte date così per dovere, non lo coinvolgono, il padre lo sa e stringe ancora di più a sé.

Adesso la ragazza miope ha un tesserino stampa al collo. Osserva quell’uomo in piedi con il figlio in braccio, accenna un sorriso di circostanza, con un certo imbarazzo, nella direzione del bambino. Poi la sua espressione si fa meno incerta, i lineameni si induriscono cercando una seriosa complicità. Il padre la guarda intensamente, è giovane, di una bellezza sobria. Dietro agli occhiali, in altri abiti. Ma non riesce a rispondere a quell’intesa. Poi ci ripensa e sembra quasi volerle dire qualcosa, ma lei ha già il casco in testa, non si fa intercettare e se ne sta andando nella direzione del suo scooter. Pochi secondi dopo è ancora Matteo a parlare: «Papà…».

«Cosa c’è?», domanda l’uomo al figlio.

«Non c’è più niente da fare, vero?»

«Credo di no, Matteo», risponde l’uomo.

«E io?»

«E tu non ti devi preoccupare.»

Matteo ha da poco smesso di piangere quando a cominciare è suo padre. Sono lacrime grosse accompagnate da singulti che bloccano il respiro. Il bambino guarda il padre, aspetta una risposta. Che arriva con un gesto. Il padre lo depone a terra e insieme, lentamente, mano nella mano si avvicinano allo specchio d’acqua e all’ampio telo bianco dove un corpo esile sta per avere un nome. Il bambino osserva, e piano allenta la presa fino a lasciare la mano del padre, poi correndo si butta addosso alla sagoma sdraiata, baciandola tutta da tutte le parti, strofinandosi a lei come a volerla scaldare cercando un movimento anche piccolo delle mani e delle braccia, aprendo le palpebre per riconoscerne lo sguardo e sentirsi ancora una volta cercato. Il padre non prova a trattenerlo, piuttosto deve impegnarsi a respingere la violenza istintiva e giustificata delle forze dell’ordine che bloccano la sua avanzata e cercano di strappare Matteo all’abbraccio della salma. «Ma è sua madre. Mia moglie», dice a bassa voce agli uomini in divisa. E si scontra con la necessaria prassi, proteggere il cadavere, già di per sé corrotto dall’acqua, da qualunque altra contaminazione. Matteo la tocca infilando le mani sporche di terra nelle tasche del soprabito, frugandola come se cercasse la vita in posti sconosciuti, sorprendenti, inaspettati. Sono lì le sue piccole dita a misurare ogni centimetro di pelle cercando di entrare là dove anni prima si era sentito così protetto e al riparo. La forza del destino ha riservato alla donna quell’ultimo contatto con il suo bene più grande. A quel bambino la violenza del dolore più forte. La disperazione sale come una marea ma due braccia grandi e forti fanno appena in tempo a sollevarlo di peso. Il poliziotto Achille Maria Funi lo sta abbracciando, concedendogli un nuovo pianto a dirotto. E mentre le lacrime gli bagnano il collo pensa che deve fare una telefonata. Per forza. Deve chiamare il suo ispettore. Deve farla arrivare al più presto. Prima che questo caso venga affidato a qualcun altro.

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mercoledì, 4 luglio 2007

LA DURA LEGGE DEGLI SCONTI

Tuttolibri de La Stampa di sabato 30 giugno ha pubblicato, a pag. 3, la lettera di Rocco Pinto, libraio indipendente di Torino, con il seguente titolo: “Gli sconti fan male ai librai”.

Pubblico la lettera anche qui a Letteratitudine come corollario a questo post.

Vi invito a leggerla e a discutere sul punto di vista del signor Pinto.

Il 12 giugno è passato alla camera un emendamento che liberalizza lo sconto abolendo di fatto l’art. 11 della Legge 62/2001, nota come «disciplina del prezzo fisso».

I giornali, tranne pochissime eccezioni, hanno fatto orecchie da mercanti. Se questo emendamento dell’onorevole Della Vedova dovesse passare anche al Senato ci troveremmo nella stessa situazione dell’Inghilterra, dove la liberalizzazione dello sconto ha, di fatto, smantellato la rete delle librerie indipendenti, favorendo l’espansione delle librerie di catena. Non è affatto vero, come hanno detto i sostenitori dell’emendamento, che liberalizzando gli sconti aumenta il numero dei lettori. I lettori aumentano se si fanno serie politiche nazionali di promozione del libro e della lettura. Al momento è sparita l’Associazione per il Libro che ha fatto posto all’Istituto per il Libro che si «accinge a» lasciare il posto al Centro per il libro. L’unica cosa cambiata è il nome ma nella sostanza non si è fatto nulla. Proclami, dichiarazioni d’intenti, prolusioni, promesse, prese di posizioni, rassicurazioni.

Il libro non è al centro, ma sempre più lontano. Quasi nulla su una questione che riguarda il futuro del settore del libro se non polemiche su noi «bottegai» che non riusciamo a capire il cambiamento. Mentre i giornali sopravvivono grazie ai finanziamenti pubblici il nostro settore non ha neanche il diritto di avere una legge che fissi delle regole. E noi vogliamo regole, non sovvenzioni.

Mi meraviglia anche che gli editori non prendano una posizione netta. Assistiamo invece ad una campagna continua di sconti, ribassi e promozioni. Di fatto la liberalizzazione è già in corso. Se passa l’emendamento è legalizzata.

Le Feltrinelli in questi giorni praticano il 20%di sconto sui primi 30 titoli in classifica. Quindi la promozione si fa sui libri che hanno più possibilità di vendita sottraendo sempre più quote di mercato alle librerie indipendenti.

Non solo ma lo sconto favorisce già i libri in testa alle classifiche a scapito di altri.

Io vorrei, come libraio, misurarmi sul servizio non sullo sconto.

Ed il mercato mi premia se so fare il mio lavoro, non in base a che percentuale di sconto pratico.

Ricordo infine che qualche mese fa in Francia il Ministero della Cultura ha lanciato, in occasione dei 25 anni della legge Lang sul prezzo fisso, una campagna a sostegno delle librerie indipendenti con questo slogan:

«Noi non vendiamo libri a peso, noi diamo peso ai libri» .

Rocco Pinto

Libraio in Torino

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domenica, 1 luglio 2007

L’INFLUENZA DELLE CELEBRITA’

L’influenza delle celebrità è un disturbo davvero strano per il quale non sono ancora stati trovati rimedi efficaci. È un’influenza che si contrae per via del concorso di quattro fattori – o concause – tra loro strettamente connessi. Il primo di questi fattori è senz’altro il livello dei guadagni, seguito dalla visibilità sul web e dalla presenza su carta stampata e televisioni. L’entità del disturbo è direttamente proporzionale a quella dei suddetti fattori, nel senso che tanto più elevata è la loro incidenza tanto maggiore è l’influenza che ne deriva. Di recente la rivista americana Forbes, dopo attente analisi, ha pubblicato una sorta di classifiche delle influenze, suddividendole in generale e per categorie.

Nella categoria autori l’individuo a cui sono stati diagnosticati i valori più elevati è una donna. Una certa signora J. K. Rowling, madre (letteraria) di un giovanotto che dovrebbe chiamarsi Harry Potter o giù di lì.

La povera Rowling, secondo gli accertamenti effettuati, guadagna qualcosa come 32 milioni di dollari, ha un web rank pari a 42, un press rank pari a 61 e un tv rank pari a 77 (ci scusiamo con i lettori se non indichiamo la forbice relativa ai cosiddetti parametri normali, n.d.r). Dicono che sia più ricca della regina Elisabetta, ma – si sa – la ricchezza non è tutto. Anzi, a volte la ricchezza dà alla testa. Insistenti voci (più di salotto che di corridoio) sostengono che J.K.R. abbia deciso di farla finita con il piccolo (ormai giovane) Harry. Che dire? Non esistono più le madri di una volta!

.

Altro individuo a cui sono stati riscontrati valori altissimi – sempre all’interno della categoria autori – è tale Dan Brown.

Secondo alcune voci l’influenza di questo signore dipenderebbe dall’uso improprio di teorie pseudoscandalisticoreligiose (i disturbi gravi sono sempre legati a nomi lunghi e strani, n.d.r. bis). Dalle analisi effettuate risulta che il giocondo Brown guadagna – verdone più, verdone meno – 10 milioni di dollari. I suoi web rank, press rank e Tv rank sono pari a – rispettivamente – 68, 66, 86. Segue al terzo posto – posizione da panchina? – il signor John Grisham (9 milioni di dollari e ranks pari a 67, 76, 87).

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In cima alla classifica generale dell’influenza celebrities compare una donna che risponde al nome di Oprah Winfrey.

È un’influenza di colore (viola), quella della Winfrey. E i valori accertati sono assolutamente fuori norma, da record: vi riporto solo il dato relativo ai guadagni che è pari a – pensate un po’ – 260 milioni di dollari. Peraltro sembra che molti degli affetti da influenza da celebrità bramino la vicinanza della Winfrey con il rischio di far – alla faccia dei paradossi – incrementare ulteriormente i parametri della propria influenza.

Anche in Italia si sta cercando di predisporre un sistema di analisi della celebr-influenza. Per il momento è attivo un servizio che si chiama star control.

Certo, la situazione italiana è meno grave se rapportata a quella statunitense (il primo italiano che compare in graduatoria è Valentino Rossi, al 58° posto: peggio per lui che va sempre in moto!). Da noi più che casi di influenza vera e propria sono stati segnalati i postumi di qualche colpo daria. Ma c’è chi giura che anche in Italy sarebbero in tanti disposti a fare carte false per avvicinarsi ai livelli della Winfrey. Per quanto ci risulti difficile capire le motivazioni di siffatto atteggiamento autolesionista, a costoro va il nostro pensiero e una sorta di invito che ha il sapore di incitamento: care celebrità, mettetevi all’Oprah.

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Massimo Maugeri

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