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Archivio della Categoria 'SAGGISTICA LETTERARIA'

mercoledì, 1 dicembre 2021

AL DI QUA DEL FARO. CONSOLO, IL VIAGGIO, L’ODEPORICA di Dario Stazzone

Al di qua del faro. Consolo, il viaggio, l'odeporica - Dario Stazzone - copertinaIl nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine Saggistica Letteraria” è dedicato al volume dell’italianista Dario Stazzone intitolato “Al di qua del faro. Consolo, il viaggio, l’odeporica” (Olschki).

Di seguito, la recensione del semiologo e critico letterario Salvo Sequenzia.

* * *

PER UNA CARTOGRAFIA DELL’ABISSO

Il racconto-saggio di Dario Stazzone è un viaggio di colta scrittura intramato in quel meraviglioso e arduo viaggio senza ritorno che è l’opera di Vincenzo Consolo

di Salvo Sequenzia

«Lo spazio comincia così, soltanto con delle parole, dei segni tracciati sulla pagina bianca. Descrivere lo spazio: nominarlo, tracciarlo, come quei fabbricanti di libri di navigazione che riempivano tutte le coste con nomi di porti, nomi di capi, nomi di insenature, tanto che la terra finiva per essere separata dal mare soltanto per effetto di un nastro continuo di testo» (George Perec, 1974).
La geografia, si sa, è ancilla petulante della Storia.
È prevaricatrice, e pretenziosa. Nel continuum fluttuante dello spazio-tempo tira meridiani, traccia paralleli; scandisce fusi orari, segna confini. Insinua vanità e imposture, mentisce la realtà sfrangiando statuti di veridicità, arrangiando paradigmi iconici, inanellando metafore, allegorie cifrate, insidie topografiche.
Lo sapeva bene il padre gesuita Daniello Bartoli, quando, nel 1665, licenzia il trattato Della Geografia Trasportata al Morale, nel quale  – lui che non aveva intrapreso mai un viaggio vero – se ne concede uno immaginario, spiegando al Doge Alvise Contarini la natura di terre e di mondi lontani e vicini «trasportando» la sfera terracquea in forma di libro. Fu così che, stanziato a Torino, città dalla quale tentò, invano, il viaggio verso l’Oriente per attendere all’agognato martirio, il colto gesuita mise mano al pennino per seguitare quel viaggio che aveva iniziato Ludovico Ariosto: il quale, nella Satira III, composta nel 1518,  sostenne di voler conoscere «il resto de la terra…con Ptolomeo», ovvero su mappe e atlanti, e di percorrere «tutto il mar, senza far voti quando lampeggi il ciel, sicuro in su le carte». La geografia offre un sicuro riparo dagli incerti e altalenanti fati della Storia e seconda un  viaggio autre:  non quello reale, in nave, in lettiga o  in corriera, ma  quello speculativo, «con Ptolomeo». (continua…)

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venerdì, 17 settembre 2021

GIOVANNI VERGA e la “SCUOLA AMERICANA”

Portrait of Giovanni Verga.jpgIl nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine “Saggistica Letteraria” è dedicato alla figura di Giovanni Verga con questo contributo dell’omonimo giornalista bergamasco, pronipote del grande scrittore verista, che ci ragguaglia sugli studi statunitensi e, in particolare californiani, dedicati all’autore de “I Malavoglia”.

* * *

GIOVANNI VERGA e la “SCUOLA AMERICANA”

di Giovanni Verga

Può sembrare strano che un autore così profondamente legato alla sua terra come Giovanni Verga possa avere avuto degli ammiratori e abbia suscitato interesse in un Paese e in una cultura lontani come l’America. Specificamente in California, dove lo scrittore verista è stato in tempi  passati al centro degli studi di un importante gruppo di studiosi, specificamente all’University of California Los Angeles (UCLA). Anche se non si può parlare di una vera e propria scuola, in quella università si formò un gruppo di lavoro negli anni Sessanta molto attivo nella traduzione e nella diffusione delle opere di Verga, come anche di altri classici della letteratura italiana, in particolare Leopardi e Dante.  Quella scuola evidentemente ora non esiste più, ma ha lasciato un segno ancora ben vivo tra gli studiosi. La conoscenza dei classici della letteratura italiana ha senz’altro una limitata diffusione in California e probabilmente in genere in America. E’ una materia di nicchia, ma viene  mantenuta viva probabilmente anche  per la presenza di una significativa comunità di origine italiana in quella terra. E’ indicativo che a Los Angeles ci sia  una prestigiosa Istituzione  locale di diffusione della cultura italiana, Italian American Museum of Los Angeles (IAMLA) che organizza mostre, convegni, omaggi e cura pubblicazioni con il consueto  rigore anglosassone. Soprattutto UCLA però è attiva,  con un dipartimento di letteratura italiana che ha un numeroso corpo docente e diversi corsi annuali. Sono gli eredi di quegli studiosi degli Anni Sessanta che diedero un forte impulso e soprattutto un’idea innovativa alla ricerca e alle traduzioni, riscoprendo tra i primi  Verga e il suo mondo.  Un lavoro che vale la pena togliere dall’oblìo anche per capire le ragioni dello scarso seguito di Verga all’estero e, secondariamente, quale sia la percezione della sua opera fuori dai nostri confini. (continua…)

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lunedì, 5 aprile 2021

LUIGI PIRANDELLO, “DIMISSIONARIO” DALL’ESISTENZA

Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine Saggistica Letteraria” è dedicato alla figura di Luigi Pirandello con questo contributo di Emma Di Rao

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Luigi Pirandello: dal suo involontario cadere sulla terra a dimissionario dall’esistenza

di Emma Di Rao

“Una notte di giugno caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli di un altipiano di argille azzurre sul mare africano”. Con un linguaggio che è stato privato della sua funzione logico-comunicativa e ricondotto ad espressioni quasi aurorali, Luigi Pirandello immerge la propria nascita, facente parte di un comune destino di sofferenza e casualità, in un’atmosfera irreale e sospesa. In tale evento, verificatosi il 28 giugno 1867, si cela un surplus di significato che può dedursi dalla stessa concezione dell’autore: esso rappresenta, infatti, solo uno degli innumerevoli eventi connessi con l’involontario cadere dell’uomo sulla terra, in seguito al quale, strappato al divenire cosmico e condannato a consistere in una forma limitante e limitata, egli è destinato ad una perenne lacerazione fra molteplici scelte esistenziali. Una di queste scelte, una delle possibilità di ‘Pirandello persona’ è, a nostro avviso, quella di ‘Pirandello scrittore’, che potrebbe configurarsi come una maschera capace di osservare e rappresentare la tragedia dell’esistere con il distacco di chi “ha capito il gioco”.
“Forestiere della vita”, al pari dei suoi personaggi, l’autore affida loro la propria prospettiva, una prospettiva dolente e critica, derivante dal “vedersi vivere” e dall’aver acquisito la consapevolezza che non sarà possibile ricomporre l’unità della coscienza, stratificata e sottoposta alle oscure pulsioni dell’inconscio. Ciò potrebbe trovare origine in un’esperienza personale, in una crisi di identità, come suggerisce una lettera del 7 gennaio 1894 alla futura moglie: “ In me son quasi due persone. Tu già ne conosci una; l’altra, neppur la conosco bene io stesso”. Ed è anche per questa ragione che in molti suoi testi la personalità appare soggetta a un processo di sdoppiamento dell’io che, come ha osservato Franco Zangrilli, diviene il referente delle inquietudini, delle instabilità interiori e delle schizofrenie dell’uomo contemporaneo. (continua…)

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mercoledì, 9 dicembre 2020

METAFISICA DEL SOTTOSUOLO di Antonina Nocera

Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine Saggistica Letteraria” è dedicato al volume Metafisica del sottosuolo” di Antonina Nocera (Divergenze). Di seguito, la recensione di Giuseppe Giglio.

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“Metafisica del sottosuolo” di Antonina Nocera (Divergenze)

I fili della verità, tra Sciascia e Dostoevskij

di Giuseppe Giglio

La critica letteraria dovrebbe scaturire da un debito d’amore, scriveva George Steiner. E l’eco di quest’auspicio (per quel maestro un modo di essere, oltre che un desiderio) si avverte in sottofondo, come una frase musicale, leggendo Metafisica del sottosuolo, l’agile e limpido saggio che la giovane critica e comparatista Antonina Nocera ha licenziato per gli eleganti tipi di Divergenze, con una prefazione appassionata di Antonio Di Grado, oltre che una maieutica postfazione di Federico Fiore. Un viaggio molto intenso e ricco di spunti, questo della Nocera. E arditamente originale: nello scovare quei fili – «sorprendentemente sottili e al contempo resistenti come quelli della seta» – che uniscono le pagine di Leonardo Sciascia con quelle di Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Così diversi, ma anche così simili, questi due magnifici scrittori e narratori: nel loro continuo esplorare l’animo umano, nel loro aperto interrogarsi sul mistero del vivere; diffidenti verso ogni comprensione totalizzante, sorretti invece dalla contraddizione e dal dubbio. Il primo sempre in cerca delle verità dell’uomo, dell’uomo così com’è. Il secondo per tutta la vita tormentato dalla «questione dell’esistenza di Dio» (precisa Dostoevskij in una lettera: preziosa, come molte altre sue, per ciò che di quel gigante custodisce).

E il lettore (da subito a proprio agio, nell’abitare questo libretto che si muta in conversazione: tra il siciliano, il russo e chi legge, appunto) ha modo di osservare come i due si incontrino sulle eterne questioni della verità e della fede, oscillando tra i limiti della ragione e le enormi possibilità di essa. (continua…)

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martedì, 12 maggio 2020

MICHELANGELO IN PARNASO di Gandolfo Cascio

Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato al volume “Michelangelo in Parnaso” di Gandolfo Cascio (Marsilio)

* * *

di Massimo Maugeri

Gandolfo Cascio insegna Letteratura italiana e Translation Studies all’università di Utrecht. Si occupa di poetica, ricezione  estetica e filologia digitale. Ha pubblicato Un’idea di letteratura nella «Commedia», Società Editrice Dante Alighieri, 2015; Michelangelo in Parnaso. La ricezione delle «Rime» tra gli scrittori, Marsilio, 2019; Il mestiere della persuasione. Scritti sulla prosa, Giorgio Pozzi Editore, 2019. Per i suoi saggi ha vinto il premio Elsa Morante, il premio Proserpina e il premio G.A. Borgese.

Ho invitato Gandolfo Cascio a discutere del suo volume dedicato alle Rime di Michelangelo: “Michelangelo in Parnaso. La ricezione delle Rime tra gli scrittori” (Marsilio). A corredo dell’intervista pubblichiamo un paragrafo del libro che riguarda Stendhal.
Michelangelo scrisse le “Rime” per affrontare di petto temi su cui, come artista, non poté esprimersi come voleva, e per farlo scelse una lingua aspra, distante dalla limpidezza del Cinquecento. In genere la critica si è mostrata cauta, sovente scontrosa, verso questo suo “secondo mestiere”; mentre di tutt’altra qualità è stata la ricezione tra gli scrittori che ne intuirono la caratura. Questo volume indaga il rapporto tra diversi autori (Varchi, Aretino, Foscolo, Wordsworth, Stendhal, Mann, Montale, Morante e altri) e i versi buonarrotiani e, attraverso delle severe analisi dei testi, illustra perché Michelangelo occupi nel Parnaso un posto più nobile di quello che la storiografia ha tramandato.

- Gandolfo, quando e perché hai cominciato a interessarti alle Rime di Michelangelo?
Ricordo con una certa nostalgia che durante il primo esame di Letteratura italiana, all’università di Palermo, venni interrogato su Michelangelo poeta. È da quei lontani anni che le Rime continuano a girarmi in testa.
Quello che tuttora mi sorprende è che, nonostante Michelangelo fosse un uomo tutto d’un pezzo, era leggendaria la sua “terribilità”, nei versi pare che abbia potuto trovare lo spazio e il mezzo per esprimere le proprie inquietudini sull’esistenza, sull’amore, su Dio. L’ha fatto con una lingua aspra e difficile, sovente comica e, in non pochi casi, dolcissima, com’è nella rima 98 dove, audace e ardente, allude al nome dell’amato Tommaso de’ Cavalieri, con la consapevolezza che chiunque avrebbe riconosciuto l’amico romano:

maraviglia non è se nudo e solo
resto prigion d’un cavalier armato

Ecco, tutto ciò ha fatto sì che Michelangelo diventasse uno dei “miei” autori, cioè uno di quelli a cui ci si rivolge, sicuri di poterli interpellare per sentirsi dire qualcosa d’inaudito.

- Quando e perché è nata l’idea di questo libro? Quando, cioè, hai ritenuto di dover “rendere giustizia” all’opera poetica di Michelangelo? (continua…)

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sabato, 15 febbraio 2020

GIOVANNI VERGA. SAGGI (1976-2018) di Romano Luperini

Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato al volume “Giovanni Verga. Saggi (1976-2018)” di Romano Luperini (Carocci).

Il volume, che presenta tutti i saggi verghiani che Romano Luperini ha scritto fra la fine degli anni Settanta e oggi, ricostruisce la figura di un grande scrittore il cui uso dell’impersonalità copre e nasconde una vicenda autobiografica nella quale è possibile riconoscere il destino non solo di Giovanni Verga, ma in generale dello scrittore moderno. Verga vive la condizione dell’artista ai margini, periferico, spossessato della propria funzione tradizionale. Un artista il cui punto di vista non coincide mai né con quello dei vincitori né con quello dei vinti ma è alla ricerca di un “terzo spazio” fra quello degli oppressori e dei vincitori e quello degli oppressi e dei vinti.

Di seguito pubblichiamo uno stralcio della prefazione di Luperini.

* * *

Un estratto della prefazione di Romano Luperini del volume contenente la sua raccolta di saggi dedicati a Giovanni Verga. “Giovanni Verga -  Saggi (1976-2018)” – Carocci (pagg. 11 – 14)

(…)

L’idea, a lungo coltivata, che esista “una barriera del naturalismo” e che la modernità cominci solo al di là di essa, non regge alla prova dei fatti. Pirandello e Tozzi partono da Verga, recuperandone spunti espressionistici (lo stile scorciato, l’opzione per il grottesco, il montaggio “cinematografico”) e l’assenza di mediazione narrativa prodotta dalla caduta della prospettiva onnisciente (con Verga si entra nel campo, direbbe Pirandello, della scrittura “senza autore”). In realtà è molto maggiore la distanza che divide Verga da Manzoni da quella che lo separa da Pirandello. La svolta del 1848, sottolineata con forza daLukács, a cui bisogna aggiungere, in Italia, quella del 1860-61, si fa sentire.
Verga apre una frattura su cui si inserirà la ricerca più avanzata del primo Novecento. È, questa, una coscienza critica che comincia lentamente ad affermarsi, e chi scrive ne aveva illustrate le ragioni già all’inizio degli anni Novanta.
Si può parlare allora di un’area modernista che congiunga Verga, Pirandello, Tozzi e, addirittura, Svevo? (continua…)

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lunedì, 18 giugno 2018

DIPINGERE L’INVISIBILE nelle PAROLE DELL’ARTE

Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato al volume “Dipingere l’invisibile. Sulle tracce di Francis Bacon di Fabrizio Coscia (Sillabe).
Ne approfittiamo contestualmente per aprire una finestra dedicata alla collana di Sillabe, che ospita il libro di Coscia: si  chiama «Parole dell’Arte» ed è diretta da Antonio Celano.

Qui di seguito diamo la parola all’autore del libro e al curatore della collana.

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DIPINGERE L’INVISIBILE. Sulle tracce di Francis Bacon

Il testo di Fabrizio Coscia è un originale «reportage interiore», dove vita e opere sono sempre reciprocamente illuminanti. Ad emergere sono aspetti inediti dell’arte di Bacon, accompagnati dalle analisi di singoli quadri e dalle dichiarazioni rilasciate dal pittore nelle sue celebri interviste.

È sulla figura umana, e in particolare sul corpo, che Bacon concentra tutta la sua attenzione, con amore e disperazione, con sadica aggressività e inattesa tenerezza. Corpi che vengono deformati, scorticati, rotti, spaccati, torturati, aperti, per attingere all’essenza emotiva, demonica, arcana della condizione umana. Artista della passione e del desiderio, della memoria e del dolore, del sesso e della morte, ovvero di tutte quelle forze invisibili e inconsce che dominano e regolano la nostra esistenza, Bacon diviene, inaspettatamente, campo di indagine anche per chi (come l’autore di questo libro) lavora con le parole e s’interroga su ciò che esse evocano, cercano, chiedono.

* * *

«Ho scritto un libro su Francis Bacon, ma pensando alla memoria involontaria di Proust, ai saggi di Georges Didi-Huberman e agli scritti di Lacan», ci ha spiegato Fabrizio Coscia. «Ho cercato insomma di ragionare attorno all’idea dell’immagine, a che cosa si nasconde dietro e oltre l’immagine e soprattutto al rapporto che ha uno scrittore con l’Immaginario. Il libro inizia infatti con un interrogativo: esiste una memoria di ciò che non è mai stato? È un modo per interrogarsi su ciò che teniamo sepolto dentro di noi e che prima o poi abbiamo il compito di scandagliare. E finisce con un ricordo d’infanzia personale che forse non è mai esistito. A fare da filo conduttore, un quadro di Bacon rimosso, un’immagine cancellata, dunque. Per questo il sottotitolo del libro è: sulle tracce di Francis Bacon. Perché è più che altro un pedinamento, un inseguimento. Ho cercato infatti di cogliere Bacon da una prospettiva molto personale, quella cioè di un critico, di uno scrittore che lavora con le parole e si confronta con un grande artista che lavora con le immagini. (continua…)

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venerdì, 23 marzo 2018

NON SO PERCHÉ NON HO FATTO IL PITTORE di Alberto Moravia

Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato al volume “Non so perchè non ho fatto il pittore. Scritti d’arte (1934-1990)” di Alberto Moravia (Bompiani).
Il volume è stato ottimamente curato da Alessandra Grandelis, che svolge la sua attività di ricerca all’università di Pavia, e offre vari scritti che permettono di comprendere come Moravia abbia contaminato arte e letteratura, letteratura e arte… con particolare riferimento al mondo della pittura.

Ne discutiamo con Alessandra Grandelis. In coda all’intervista (per gentile concessione dell’editore e degli eredi di Moravia) pubblichiamo un estratto del libro: uno scritto intitolato Rembrandt pittore dell’inquietudine

* * *

Non so perchè non ho fatto il pittore. Scritti d’arte (1934-1990)” di Alberto Moravia (Bompiani, a cura di Alessandra Grandelis)

di Massimo Maugeri

- Cara Alessandra, partiamo dal titolo del libro: “Non so perché non ho fatto il pittore”. È una frase dello stesso Moravia che, in effetti, colpisce. Al di là di questa considerazione, perché hai scelto (o la casa editrice ha scelto) proprio questa frase come titolo del libro?
In molte occasioni Moravia ha dichiarato di preferire la pittura alla letteratura. Lo affascinava il mistero che circonda l’artista e la sua opera d’arte, l’impossibilità di spiegare la traduzione del pensiero in immagine. E quello del pittore gli appariva un mestiere più attraente anche per la sua dimensione artigianale, diversamente negata allo scrittore, impegnato a battagliare con le parole. Con questi presupposti “Non so perché non ho fatto il pittore” è parso da subito il titolo giusto per la raccolta dei testi d’argomento artistico: nella spontaneità dell’espressione sono racchiuse queste idee  alla base della fascinazione moraviana per l’arte.

- Da dove trae origine l’amore di Moravia per la pittura?
Di certo il fascino nasce in famiglia. Il padre era un architetto che si dedicava alla pittura come dilettante; ogni anno ritornava nella città natale, Venezia, per dipingerne le vedute che solitamente copiava prima di darle in dono. Non va nemmeno dimenticato che la sorella Adriana diventerà una pittrice affermata, il cui espressionismo ricorda l’arte di Matisse. È lo stesso Moravia a ricordare che da bambino, durante le vacanze familiari, trascorreva lunghe ore davanti alle tele presenti nel villino estivo a Viareggio: fantasticare sui soggetti mitologici dei quadri ha avuto una grande ripercussione sull’immaginario moraviano.

- Lo hai accennato anche tu: in varie occasioni Moravia sostiene di preferire la pittura alla letteratura. Sembrerebbe un paradosso. Potresti approfondire questo aspetto?
Oltre a quanto detto in precedenza, aggiungerei che Moravia attribuisce all’arte una caratteristica di grande valore: l’universalità. A differenza di quanto accade per la letteratura, secondo Moravia l’arte può essere compresa da tutti, da chi possiede gli strumenti per decrittarla e da chi ne è del tutto sprovvisto. Ciò significa considerare l’arte una forma di espressione capace di interagire con l’osservatore senza alcuna mediazione.

- Rimanendo sull’argomento, in altri casi Moravia teorizza una supremazia della pittura sulla letteratura (la prima rappresenterebbe meglio la storia artistica italiana). Cosa puoi dirci da questo punto di vista? (continua…)

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sabato, 13 maggio 2017

LA BELLEZZA CHE RESTA

Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato alla nuova opera di Fabrizio Coscia intitolata “La bellezza che resta” (Melville)

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di Massimo Maugeri

Fabrizio Coscia (Napoli, 1967), scrittore, docente, critico letterario e teatrale è già stato ospite di questa rubrica con il volume SOLI ERAVAMO e altre storie (ad est dell’equatore). Torno ad ospitarlo con grande piacere per discutere della sua nuova opera intitolata “La bellezza che resta“, pubblicata da Melville edizioni nella collana Gli impossibili diretta da Andrea Caterini (anche lui, di recente, nostro gradito ospite con “La preghiera della letteratura“, edito da Fazi). In fondo alla pagina potrete leggere il testo della bandella del libro firmata dallo stesso Caterini. Qui di seguito, invece, vi propongo questa “chiacchierata online” con l’autore…

- Caro Fabrizio, partiamo dall’inizio… ovvero dalla genesi di questa tua opera. Nei “ringraziamenti” scrivi: “Questo libro non sarebbe mai stato scritto se Andrea Caterini non mi avesse proposto di lavorare a un saggio su Tolstoj“.
Come si è sviluppato il passaggio dalla elaborazione di questo saggio su Tolstoj al concepimento di “La bellezza che resta”?
«In effetti all’inizio la prospettiva di scrivere un saggio su Tolstoj, come mi aveva chiesto Andrea Caterini, mi ha affascinato ma anche terrorizzato non poco. Ho scelto allora di concentrarmi sull’ultimo Tolstoj, e in maniera ancora più circoscritta sul suo ultimo romanzo, uno dei suoi capolavori meno conosciuti, che è Chadži-Murat. Pensavo, cioè, che restringere il campo d’indagine potesse aiutarmi a non perdermi del tutto. Ma poi, come mi capita spesso, mi sono lasciato cogliere dal «demone dell’analogia» e dalla mia passione per le divagazioni, e così ho cominciato a riflettere sulle “opere ultime” dei grandi artisti, e su quale fosse il significato più profondo di un libro, un quadro, una musica, un’opera teatrale composti in prossimità della morte e nella consapevolezza di questa prossimità. Ho cercato, cioè, di penetrare nel significato di alcuni grandi capolavori, ma con molta umiltà, quasi in punta di piedi, per così dire. Così il mio saggio su Tolstoj è diventato alla fine qualcosa di molto diverso, e allora ho capito che era proprio questo “qualcosa di molto diverso” che mi era stato chiesto fin dall’inizio».

- Come epigrafe del libro hai scelto questa citazione di Joyce “sul padre” (da Finnegans Wake). La riporto di seguito. «I go back to you, my cold father, my cold mad father, my cold mad feary father».
Perché questa scelta? E perché hai voluto riportare la frase in originale (senza la traduzione in italiano)? (continua…)

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martedì, 11 aprile 2017

Grazia DELEDDA. I luoghi, gli amori, le opere

Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato al saggio di Rossana Dedola intitolato “Grazia Deledda. I luoghi, gli amori, le opere” (Avagliano). Di seguito, l’intervista all’autrice a cura di Simona Lo Iacono

* * *

di Simona Lo Iacono

Una Grazia Deledda inedita: donna, letterata, moglie. Uno squarcio sull’origine della sua potente vocazione letteraria, sui suoi rapporti difficili con Luigi Pirandello, sul giovanile innamoramento per Stanis Manca e l’incontro con Palmiro Madesani, che diventerà suo marito e, in un certo senso, il suo agente letterario.
L’ultimo saggio di Rossana Dedola, ricercatrice alla scuola Normale di Pisa, docente presso l’International School of Analythical Psychology di Zurigo, trasporta in lettore nel cuore della vita della scrittrice e nell’incanto dei paesaggi della sua terra d’origine, la Sardegna, mai dimenticata.

Chiedo quindi all’autrice di tratteggiare la Grazia Deledda donna, madre, moglie, che il suo saggio “GRAZIA DELEDDA, I luoghi gli amori le opere” (Avagliano editore), rivela in tutta la sua potenza.
Chi è Grazia Deledda?
Una prima testimonianza della sua precoce vocazione letteraria e della sua personalità complessa e fuori del comune ci viene offerta dalle letterine che scrisse quando aveva appena tredici anni a un’amichetta di Olzai, figlia di suo padrino, le dispiaceva che  l’intervallo che accompagnava le risposte fosse così lungo e   aveva sospettato che nel paesino fosse “serpeggiato” il colera. È la prima di una lunghissima serie di lettere che la accompagnarono per tutta la vita. Soprattutto durante la giovinezza le lettere le permisero di confrontarsi con interlocutori diversi e le permisero di compiere un vero  esercizio letterario, ma furono anche un luogo in cui potè esprime i propri sogni e la propria vocazione artistica.
Sin da giovanissima aveva scoperto la lettura e la scrittura come esperienze fondamentali della propria vita e non le abbandonò mai, anche se non era una scelta facile, soprattutto a Nuoro, dove la quasi totalità delle donne era analfabeta  e questa attività non solo non era apprezzata, ma veniva condannata apertamente. Riuscì a superare anche altre difficoltà: aveva frequentato solo la quarta elementare e doveva utilizzare  una lingua che non era la sua lingua madre, e vari drammi si susseguirono in famiglia durante l’infanzia e la giovinezza. Il dolore attraversò la sua vita, ma non si arrese mai. Alla fine della vita quando il musicista Gavino Gabriel che era anche il direttore della Discoteca di stato le chiese di registrare una breve testimonianza sulla sua vita dichiarò che come donna aveva avuto tutto dalla vita. Eppure sapeva già di essere gravemente malata.
Hanno giudicato la sua forza come “virile”, io preferisco parlare di “resilienza”, la capacità di opporsi ai colpi del destino senza spezzarsi. In questo fu aiutata anche da un senso dell’umorismo che si rafforzò grazie alla vicinanza del marito Palmiro che era solito organizzare scampagnate nei dintorni di Roma con ospiti e amici mai senza far mancare buone bottiglie di vino.

Nel saggio trovano voce 86 lettere e cartoline postali inedite della Deledda, ritrovate presso alcune biblioteche europee. Cosa ci raccontano questi carteggi? (continua…)

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lunedì, 13 marzo 2017

LA PREGHIERA DELLA LETTERATURA

LA PREGHIERA DELLA LETTERATURA. Sulla misericordia, il bene e la fededi Andrea Caterini (Fazi editore)

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di Massimo Maugeri

Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato a questo ottimo lavoro di Andrea Caterini intitolato “La preghiera della letteratura. Sulla misericordia, il bene e la fede” (Fazi editore).

In queste pagine, Andrea Caterini (scrittore e saggista: ne approfitto per ricordare il suo romanzo “Giordano”… qui un’intervista all’autore), propone una riflessione su alcuni termini chiave della cristianità: Pace, Sacrificio, Misericordia, Bene, Santità e Fede. Sono parole antiche (potremmo dire “eterne”) e pregne di significato. Caterini analizza ogni parola attraverso la lettura e l’analisi di uno o più scrittori, da Virgilio a Dostoevskij, da Anna Achmatova ad Anton Cechov. Come precisato nella scheda del volume, “La preghiera della letteratura” non è però un libro di critica letteraria (anche se attraverso la letteratura costruisce i suoi ragionamenti filosofici, con la convinzione che essa sia ancora uno strumento privilegiato di conoscenza)… ma “riflette su quanto la letteratura sia essa stessa una particolare forma di preghiera e di come poesia e testi sacri abbiano da sempre dialogato tra loro“.

Per gentile concessione dell’autore e della casa editrice, pubblichiamo di seguito il capitolo intitolato “Il sacrificio” (dove lo scrittore “protagonista” è Cechov).

* * *

Il sacrificio

(da La preghiera della letteratura di Andrea Caterini – Fazi editore)

1.

[…]

In ogni pagina di Čechov ci sembra che un senso d’affanno, uno spezzarsi del fiato, un’angoscia di soffocamento stiano sempre a un momento dall’arpionarci. Eppure Čechov non si lamenta di nulla, si nasconde discreto dietro le parole. No, non è lui che impreca miseria e ingiustizia. Delega ai suoi personaggi ogni espressione. Li osserva, convinto di non poterli curare, di non poter curare, nonostante la scienza – lui medico, oltre che scrittore – il tumore che s’annida dentro ognuno: il terrore della morte, il senso di inadeguatezza e impotenza rispetto alla vita, l’incapacità che gli uomini hanno di comprendersi. Eppure è lì, al lume fioco di una lampada, stretto all’angolo, piegato su una sedia dietro le quinte, sempre sfuggente, con l’atteggiamento di chi pare abbia un’anima fredda, schermato da una patina di imperturbabilità. Se nessuno può nulla, sembra però dica, bisognerà pure che qualcuno si sacrifichi per l’umanità, che all’umanità sia concessa una felicità che io, Anton, osservandovi da dietro e piangendo, ma sempre senza lacrime, non posso concedermi. Che gli uomini siano felici. Ma come? Che qualcuno vi racconti, nel bene e nel male, chi siete. (continua…)

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venerdì, 24 febbraio 2017

LETTERATITUDINE 3: LETTURE, SCRITTURE E METANARRAZIONI

Care amiche e cari amici,
come qualcuno di voi saprà, di recente è uscito il volume intitolato “Letteratitudine 3: letture, scritture e metanarrazioni” (LiberAria).
Si tratta del terzo volume che ho curato e pubblicato con riferimento alle attività di Letteratitudine. Quest’ultimo, tuttavia, è un libro speciale. Anzi, specialissimo. Perché nasce anche – e soprattutto – con l’intento di festeggiare i dieci anni di attività online di questo “luogo d’incontro virtuale” (Letteratitudine nasce, infatti, nel mese di settembre dell’anno 2006).
Come ho provato a spiegare nella prefazione del libro, quella di Letteratitudine è stata (e continuerà a essere) un’esperienza di “condivisione” (una parola che – credo – oggi più che mai debba essere tutelata e valorizzata).
In tutti questi anni posso dire che “condivisione” è stata la parola chiave per eccellenza di Letteratitudine. Del resto è evidente il fatto che la letteratura, la cultura, i libri, i “saperi”, hanno ragion d’essere solo in un’ottica di condivisione. Lo spirito di condivisione – peraltro – favorisce anche l’accoglienza di punti di vista differenti, persino opposti e contrapposti (partendo dalla considerazione che la diversità di idee e opinioni, fondata sul reciproco rispetto, è sempre occasione di crescita). In oltre dieci anni di attività ho sempre lavorato perché lo spirito della condivisione, così inteso, fosse presente e aleggiasse su ogni attività organizzata e portata avanti con Letteratitudine.
Ecco perché questo libro è nato nell’ottica dello spirito di condivisione.
Ringrazio, ancora una volta, di vero cuore le amiche scrittrici e gli amici scrittori che mi hanno aiutato a realizzarlo donandomi il loro contributo.
Grazie, amici cari. Grazie di vero cuore!

* * *

Ne approfitto per fornire qualche informazione ulteriore sui contenuti di questo libro.
Credo che il sottotitolo sia già di per sé piuttosto indicativo: letture, scritture e metanarrazioni.
In estrema sintesi direi che le sezioni che lo compongono ruotano fondamentalmente sui due pilastri della “condivisione letteraria”: la lettura e la scrittura.

Il volume è formato da quattro sezioni, precedute – come già accennato – da una mia prefazione dove tento di “fare il punto” su questi dieci anni. La prima parte del libro è dedicata a una serie di interviste (sulla lettura e sulla scrittura) incentrate sul numero dieci. Dieci interviste strutturate sulla base di dieci domande (in questa sezione ho coinvolto: Ferdinando Camon, Massimo Carlotto, Antonella Cilento, Giancarlo De Cataldo, Maurizio de Giovanni, Nicola Lagioia, Dacia Maraini, Melania G. Mazzucco, Raul Montanari, Clara Sereni). La seconda sezione ospita una lunga serie di Autoracconti (dove gli scrittori sono stati invitati a raccontare i loro libri concentrandosi soprattutto sull’aspetto “creativo” della loro attività di scrittura). La terza sezione è dedicata alle Lettere (rivolte a scrittori scomparsi e/o personaggi letterari): qui ho chiesto agli amici scrittori di scegliere uno scrittore scomparso che avevano avuto modo di conoscere personalmente (o di studiare in maniera approfondita) oppure un personaggio letterario particolarmente amato… e di scrivergli una lettera immaginando che il “ricevente” (scrittore scomparso o personaggio letterario) avesse davvero la possibilità di leggerla. La parte finale del libro è dedicata a Vincenzo Consolo che ho voluto ricordare con il contributo di tanti amici scrittori e critici letterari.

Di seguito, riporterò l’indice completo del volume.

* * *

Care amiche e cari amici di Letteratitudine, che ci seguite con affetto da così tanto tempo… spero che possiate trovare questo libro utile e di vostro gradimento. E spero che possiate darci una mano a renderlo “vivo” attraverso la vostra lettura.
Ancora una volta, la condivisione si rivela come necessaria. (continua…)

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lunedì, 13 febbraio 2017

LETTURE RICREATIVE

“LETTURE RICREATIVE. Traiettorie e costellazioni letterarie (Il Palindromo), di Salvatore Ferlita

di Massimo Maugeri

Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato a questo volume pubblicato da Salvatore Ferlita intitolato “Letture ricreative. Traiettorie e costellazioni letterarie” (Il Palindromo). Come è scritto sulla scheda del libro, tra queste pagine “ci si avventura dentro una certa idea del Novecento letterario, italiano e non solo, considerato non una chiosa a margine delle epoche passate ma il punto di arrivo e lo snodo cruciale della letteratura precedente“.

Qui di seguito, per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo la prefazione di Ferlita e il saggio intitolato “Un peccato di lesa maestà. Russello, Calvino e il “caso” Mondadori”.

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di Salvatore Ferlita

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A mo’ di introibo

Questo libro si compone di diverse sezioni, di contenitori dentro ai quali hanno trovato collocazione saggi nati da occasioni differenti e in tempi diversi che però, prendendo il libro forma nelle intenzioni e poi materialmente, si sono in qualche modo aggregati per naturale attrazione.
Ripercorrere a posteriori le costellazioni tematiche e gli autori affrontati (singolarmente oppure in dialogo con altri nella ferma convinzione che la letteratura è sempre una vasta landa di echi), a disegno concluso, significa ricapitolare e approntare un bilancio, seppure sempre provvisorio. Spiccano certe predilezioni, un modo di leggere le carte di uno scrittore e il geroglifico di una vita che qua e là si ripresenta. Ma a comporsi, soprattutto, è una topografia di rapporti, di confronti e dialoghi intrattenuti con colleghi, sodali, maestri più o meno diretti o più o meno laterali.
Ne viene fuori insomma una mappatura non solo interpretativa, compilata orientativamente negli ultimi dieci anni, ma anche autobiografica, una cartina nella quale i sentieri tracciati, i percorsi individuati danno forma a una trama esistenziale.
Basti considerare l’ultima sezione, nella quale sono stati allineati i saggi scritti per le “Settimane Alfonsiane”, concepite da Nino Fasullo al fine di creare un confronto tra credenti e non credenti, tra ortodossia e eterodossia, a partire da una frase evangelica, scelta di volta in volta tra le più scomode e pericolose. Fa da guida l’accusa di Gesù rivolta ai suoi seguaci, quella di guardare senza vedere, di ascoltare senza udire. Ogni volta, dalla citazione proposta, è emerso qualcosa di irriducibile che appunto perché tale doveva essere perennemente interpretato. Da qui il tentativo di intravedere la segretezza attraverso le maglie di un testo, come spiega Frank Kermode nel suo Il segreto nella Parola (il Mulino 1992), di fare i conti con «la genesi del mistero» che sta alla fine della narrativa e che rappresenta appunto il segreto che produce l’interpretazione. (continua…)

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lunedì, 19 settembre 2016

IL CANTORE FOLLE

IL CANTORE FOLLE. Hölderlin e le Poesie della torre (Moretti & Vitali)

di Massimo Maugeri

Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato a questo nuovo saggio di Francesco Roat intitolato “Il cantore folle. Hölderlin e le Poesie della torre” (Moretti & Vitali). Il libro è incentrato sulla figura del poeta Friedrich Hölderlin (1770-1843), sulla sua poesia e… sulla sua “follia”.
Ho avuto modo di discuterne con l’autore…

-Caro Francesco, come nasce il tuo interesse per le poesie di Friedrich Hölderlin? E come si è evoluto questo tuo interesse al punto da spingerti a dedicargli un saggio?
Hölderlin (1770-1843) a tutt’oggi è considerato unanimemente non solo uno tra i più grandi lirici/scrittori germanici, ma pure uno dei massimi poeti moderni occidentali. Ed io, che sono nato in una regione di confine tra il mondo italiano e quello tedesco (il Trentino-Alto Adige), ho sempre avuto un forte interesse per la letteratura e, in genere, per la cultura tedesca. Negli ultimi anni, non a caso, ho scritto saggi intorno a Goethe, su Rilke e Robert Walser. Era quindi fatale approvassi ad Hölderlin, la cui opera poetica è da senz’altro ritenersi anticipatrice di istanze, inquietudini e forme stilistiche innovative; per certi versi – oso affermare provocatoriamente − quasi novecentesche.

-Approfitterei di questa intervista per contribuire a far conoscere la figura di Hölderlin. Parliamo di lui: che tipo d’uomo è stato?
Direi innanzitutto un personaggio notevole sin dalla più giovane età. Sensibilissimo, appassionato di musica (fu un discreto pianista) e dell’arte in generale, si interessa dapprima dei poeti greci e latini, poi di quelli a lui contemporanei e inizia quindi a comporre egli stesso, andando contro i desiderata della madre che lo vorrebbe pastore protestante. Nello Stift di Tubinga ‒ celebre collegio di studi teologico-filosofici ‒ incontra Schelling ed Hegel, il quale diverrà suo amico fraterno. Ma le loro vie ben presto si divideranno: vocato alla filosofia quest’ultimo, alla poesia Hölderlin, che in seguito avrà la ventura di conoscere Schiller, von Humboldt, Novalis e persino di incontrarsi col vecchio Goethe. Il Nostro scriverà numerose opere: il romanzo Iperione e testi poetici eccelsi, come gli Inni, le Odi e le Elegie; tuttavia egli non verrà comunque mai apprezzato/riconosciuto appieno durante la sua vita. Solo nel secolo successivo infatti la produzione hölderliniana riceve finalmente la considerazione che merita. Ma veniamo al fatidico 1807, quando il poeta cade preda della pazzia, finendo relegato sino alla morte, per i successivi 36 anni, nella cosiddetta torre di Tubinga, dove egli scriverà i suoi ultimi testi, intitolati giusto: Poesie della torre.

-Approfondiamo un po’ di più l’aspetto relativo al disagio psichico di questo poeta. Del resto il titolo del saggio è molto indicativo: “Il cantore folle”. Da dove trae origine la sua “follia”? (continua…)

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sabato, 30 aprile 2016

INTERVISTA (impossibile) A UMBERTO ECO: Pape Satàn Aleppe. Cronache di una società liquida

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Ipotetica conversazione sul volume “Pape Satàn Aleppe. Cronache di una società liquida” di Umberto Eco (La nave di Teseo)

di Massimo Maugeri

Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è incentrato sull’ultimo libro di Umberto Eco intitolato Pape Satàn Aleppe. Cronache di una società liquida” (La nave di Teseo). Ho già avuto modo di presentare questo libro nell’ambito del post (omaggio) dedicato alla memoria di Umberto Eco, scomparso il 19 febbraio 2016 (all’età di 84 anni). Tuttavia desideravo offrire un ulteriore spazio a questo libro così ricco di occasioni di riflessione. Sono tantissime, infatti, le problematiche che Umberto Eco affronta (partendo dal concetto stesso di società liquida) attraverso la pubblicazione di una selezione delle sue Bustine di Minerva apparse sul settimanale l’Espresso nell’arco di quest’ultimo quindicennio. Problematiche che si evincono già dalla lettura dei titoli dei vari capitoli che compongono il libro (che elenco qui di seguito): “A passo di gambero”, “Essere visti”, “I vecchi e i giovani”, “On line”, “Sui telefonini”, “Sui complotti”, “Sui mass media”, “Varie forme di razzismo”, “Sull’odio e la morte”, “Fra religione e filosofia”, “La buona educazione”, “Sui libri e altro”, “La Quarta Roma”, “Dalla stupidità alla follia”.
Avrei tanto desiderato discuterne con lo stesso Eco. Purtroppo, per via della sua scomparsa, non ne ho avuto l’opportunità.
Leggendo il libro, però, mi sono accorto che all’interno del testo erano già presenti le risposte alla maggior parte delle domande che avrei voluto porgli. A quel punto mi sono tornate in mente “Le interviste impossibili” realizzate nell’ambito di un programma radiofonico andato in onda dal 1973 al 1975 sulla seconda rete Rai, in cui uomini di cultura contemporanei (tra cui lo stesso Umberto Eco) elaboravano interviste (“virtuali”) a persone appartenenti a un’altra epoca (e, dunque, impossibili da incontrare nella realtà). Bompiani, nel 1975, pubblicò un libro contenente una selezione di tali interviste.
È da questo pensiero che nasce l’idea di una mia intervista “impossibile” a Umberto Eco (con la differenza che, in questo caso – come già accennato – le risposte non sono “immaginate”… ma veri e propri stralci del testo medesimo).
Prima di procedere ho ritenuto doveroso consultarmi con Elisabetta Sgarbi (editore de “La casa di Teseo”), la quale – a sua volta – ha ritenuto opportuno chiedere il parere dei famigliari di Eco.
Ne approfitto subito, dunque, per ringraziare Elisabetta e i famigliari di Umberto Eco per avermi concesso l’autorizzazione a pubblicare gli stralci di testo che leggerete tra le risposte della seguente “intervista impossibile” (che vuole essere un ulteriore omaggio a Eco, al suo pensiero, ai suoi scritti, ma anche alla sua… ironia).

* * *

- Carissimo prof (posso chiamarla così?), intanto vorrei dirle che sono molto felice di poter dedicare a Lei e al suo nuovo libro questo spazio…
Non ho mai potuto sopportare, diciamo dagli ottanta in avanti, che mi si chiamasse “prof”. Forse che un ingegnere lo si chiama “ing” e un avvocato “avv”? Al massimo si chiamava “doc” un dottore, ma era nel West, e di solito il doc stava morendo tisico e alcolizzato.

- Mi scusi, non ero a conoscenza di questo suo fastidio (continua…)

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sabato, 9 gennaio 2016

MARCEL PROUST – SAGGI: intervista a Mariolina Bertini

MARCEL PROUST – SAGGI (Il Saggiatore)

edizione integrale curata da Mariolina Bongiovanni Bertini e Marco Piazza

di Massimo Maugeri

Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è incentrato su un bellissimo e corposo volume dedicato all’intera produzione saggistica di Marcel Proust. Il libro, edito da Il Saggiatore e intitolato “Marcel Proust – Saggi” (pagg. 974, euro 75), offre molteplici spunti di riflessione sulle svariate tematiche culturali e letterarie che l’autore della Recherce ha prodotto nel corso dell’esistenza in parallelo alla sua attività di romanziere.

Ne ho discusso con Mariolina Bertini (foto in basso), curatrice dell’opera (nonché, tra le altre cose, docente di Letteratura francese all’Università di Parma; curatrice delle edizioni delle principali opere di Proust presso Einaudi, Bollati Boringhieri e Suhrkamp; curatrice, nei Meridiani Mondadori, di una scelta in tre volumi della Commedia umana di Balzac: un estratto della prefazione del 3° volume è disponibile qui).

-Marcel Proust è universalmente noto per la sua Recherche. Nell’ambito della sua attività saggistica (raccolta in quest’opera monumentale pubblicata da “Il Saggiatore”) quali sono gli elementi che lo avvicinano e quali quelli che lo distanziano dalla sua attività di romanziere?
Una delle particolarità della Ricerca del tempo perduto è quella di essere un’opera nella quale sono confluite  tutta l’esperienza  e tutta la cultura del suo autore.  I critici si affannano a ripetere ai lettori comuni che la Ricerca non è un’autobiografia e che il personaggio che da un capo all’altro dei sette romanzi che la compongono dice “io”, non è Marcel Proust. Tuttavia  il lettore ingenuo, non prevenuto, che tende ad identificare Proust con il suo narratore , coglie una verità profonda dell’opera:  il fatto che dal 1908 al 1922 Proust ha lavorato a trasporre e rielaborare nel suo romanzo i propri ricordi, la propria conoscenza della società francese, il proprio pensiero sull’arte e sui rapporti tra l’arte e la vita. Dunque , nella Recherche c’è tutto Marcel Proust, l’inventore di personaggi ma anche il critico (vi troviamo pagine su Dostoevskij, su Balzac  e su altri scrittori), l’umorista, il sociologo, lo psicologo…  Una ricchezza senza fine. Attraverso i Saggi, è possibile seguire la genesi nel tempo di questa ricchezza di idee che caratterizza la Recherche : negli articoli  giovanili  emergono l’interesse per l’arte medioevale , ma anche la curiosità per la mondanità e per la moda, l’attenzione per le letture infantili, le riflessioni sulla creazione artistica. Leggere questi Saggi spesso  equivale dunque ad entrare nel laboratorio mentale da cui nasce la Ricerca , con tutti i suoi temi  e con lo sfondo della cultura fin de siècle vista da un testimone d’eccezione.

-Nel dedicarsi alla lettura di questi saggi qual è la sorpresa principale in cui potrebbe imbattersi il conoscitore di Proust romanziere?
Come dicevo prima, la Ricerca ha una forte dimensione autobiografica : mette in scena un narratore chiuso ermeticamente nelle proprie impressioni, nei propri desideri, nelle proprie fantasie. Dai Saggi viene fuori  invece – gradevole sorpresa per il lettore del grande romanzo- un Proust attento a tutto e curioso del mondo esterno, pronto a pronunciarsi polemicamente su una legge che non gli piace (la legge laicista che voleva trasformare le cattedrali in musei) o a commentare con accento dostoevskiani una tragedia di cronaca nera (Sentimenti filiali di un matricida).

-Se invece volessimo rivolgerci a coloro che non hanno mai letto nulla di Proust… quali opportunità offre questa raccolta di saggi?
Per chi non sia un frequentatore della Ricerca, questi saggi costituiscono comunque una via d’accesso privilegiata al mondo artistico e intellettuale europeo dell’epoca . Leggerli ci offre l’occasione di guardare la pittura di Gustave Moreau o  le cattedrali amate da Ruskin con gli occhi di un giovane colto vissuto tra la fine del XIX° secolo e l’inizio del XX°; un giovane che ha fatto a tempo a  conoscere personalmente Oscar Wilde ma che è anche tra i primi ammiratori di Picasso, in quel momento cruciale e contraddittorio che è l’ aurora della cultura modernista.

-Nel volume sono raccolti saggi, recensioni e cronache mondane che ricoprono un arco temporale molto ampio della vita dello scrittore (dagli anni del Collège fino al periodo successivo alla Prima guerra mondiale). Cosa puoi dirci in merito alla evoluzione della scrittura di Proust, con riferimento a questi suoi testi?
Proust conquista  presto una scrittura personale : già le pagine, inedite in vita, scritte sull’ispirazione e sulle leggi della poesia negli ultimi anni del XIX° secolo, annunciano la lunga frase sinuosa della Recherche, che cerca di far percorrere al lettore lo stesso cammino mentale  che lo scrittore intraprende per comunicargli le proprie impressioni. E’ interessante leggere, a questo proposito , il saggio Sulla lettura , del 1905 , in cui un Proust non ancora romanziere (ha alle spalle soltanto un tentativo non riuscito, l’autobiografico Jean Santeuil ) ci conduce nel mondo della sua infanzia, nel giardino di Illiers dove ha  fatto le sue prime esperienze di lettore. La Ricerca non è ancora stata concepita, eppure il suo tema centrale (quello della memoria “involontaria”, destata da sensazioni improvvise) comincia a profilarsi, in un contesto dal fascino singolarissimo. E  questo tema  esige una scrittura  che lo esprima con assoluta originalità: la scrittura che sarà della Ricerca, ma che vede la luce in queste pagine saggistiche del 1905.

-Per ciò che emerge da questi saggi, come si pone Proust rispetto ai principali scrittori e critici suoi contemporanei? (continua…)

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venerdì, 27 novembre 2015

ON WRITING DI STEPHEN KING: intervista a Loredana Lipperini

ON WRITING DI STEPHEN KING: intervista a Loredana Lipperini

Autobiografia di un mestiere

di Massimo Maugeri

Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è incentrato su un libro che è interamente dedicato alla scrittura e che porta la firma di uno degli scrittori più noti e letti al mondo. Il libro si intitola “On writing“, l’autore è Stephen King (a proposito di King, ne approfitto, peraltro, per ricordare questo dibattito online relativo al romanzo “22/11/63“).

Nei giorni scorsi Frassinelli ha pubblicato una nuova edizione di “On writing“, con la traduzione di Giovanni Arduino e l’ottima prefazione di Loredana Lipperini (qui, il post su Lipperatura). Ne ho discusso con la stessa Loredana (che ringrazio per la cortesia e disponibilità), nell’ambito di un’ampia intervista che propongo qui di seguito…

- Cara Loredana, parlaci del tuo incontro con Stephen King? In quale fase della tua vita è avvenuto? E con quale libro?
Non sarò breve, premetto. Ricordo bene anno e contesto: era il 1988, passavo qualche giorno nella casa di un amico. L’amico e mio marito andavano a pesca sul fiume, io mi annoiavo. Frugando nella libreria, ho trovato “It”. Non avevo ancora letto nulla di Stephen King, anche se l’horror mi era piaciuto da adolescente, quando un fidanzato mi regalò i racconti di Lovecraft, e prima ancora c’era stato il tempo di Edgar Allan Poe, e poi sarebbe venuto il tempo di Machen e di Matheson. Ma non di King. In quel 1988 avevo un’idea molto selettiva di cosa dovesse essere un libro salvifico: doveva essere tagliente e lucido, squarciare ogni consuetudine, cambiare il modo di guardare il mondo, squassarti l’anima. Molto romantico, a ripensarci. Doveva, quel libro perfetto, suscitare la stessa euforica sensazione di aver compreso le pieghe segrete dell’esistenza che avevo scoperto, sedicenne, ne La nausea di Sartre e ne Lo straniero di Camus. Doveva impegnarmi, farmi soffrire e smarrire sulle pagine più ardue, come aveva fatto Thomas Mann con i dialoghi tra Naphta e Settembrini ne La montagna incantata. Doveva essere un corpo a corpo con le parole, freddo e perfetto come quando, giusto un paio di anni prima, avevo affrontato L’opera al nero di Marguerite Yourcenar.
C’era, però, qualcosa che ancora non avevo avuto dalle mie letture: qualcosa che andasse oltre l’appagamento intellettuale, l’ammirazione, l’empatia. Non lo sapevo ancora, ma quel che mi mancava era la seduzione: ovvero, il non riuscire a staccarmi da una storia, e finirla desiderando di avere tra le mani, subito, un altro libro dello stesso autore.
Eppure, avevo sempre letto molto. Moltissimo, anzi. Sono stata una di quelle bambine e poi ragazze e poi donne che hanno sempre un libro nello zaino (e per questo difficilmente usano borsette piccole e graziose) perché sanno che il tempo è pieno di buchi da riempire. Lo spazio vuoto mentre si aspetta l’autobus e mentre l’autobus stesso arriva a destinazione. Il panino e la spremuta d’arancia al bar, prima di tornare in redazione (non era anche quello un tempo da dividere, pane e carta, e non era piacevolissimo averne insieme?). Quando si legge troppo, però, l’emozione arriva più raramente: il punto è che, quando arriva, è doppiamente forte.
E’ lo stesso Stephen King a dirlo, in Danse macabre: “Non si apprezza la panna senza aver prima bevuto molto latte, e forse non si apprezza il latte finché non se ne è bevuto un po’ di inacidito”. Diciamo dunque che avevo bevuto molto latte e avevo mangiato, naturalmente, dell’ottima panna. Ma la panna apparteneva quasi tutta al passato, o così mi sembrava. Diciamo anche che mi annoiavo, che non avevo voglia di rileggere né c’era molto di nuovo che mi attirasse. Venivo da una sbornia di minimalisti, o da quelli che allora venivano definiti tali. Furoreggiava David Leavitt con Ballo di famiglia, e mi era piaciuto, ma ero sazia.
It n.e.Così, nella casa sul fiume, avevo adocchiato It. E appunto non mi attirava l’autore, perché all’epoca nutrivo ancora diffidenza verso un autore COSI’ famoso, perché ero giovane e sciocca e convinta che tutto quello che era immensamente popolare non potesse che essere scadente. Crescendo, avrei imparato che anche fra i non giovani e i non sciocchi la convinzione era identica: e, a differenza di quanto era avvenuto a me, permaneva, e permane.
Ma dal momento che faceva caldo e non avevo altro da leggere, lo aprii. E constatai con qualche insofferenza che cominciava contraddicendo tutte le regole e regolette di scrittura che ancora oggi tormentano i lettori avveduti (cos’è quel narratore onnisciente? Via! Cos’è quel narrato e non mostrato? Matita rossa!). Cominciava, per essere precisi, così:
“Il terrore che sarebbe durato per ventotto anni, ma forse di più, ebbe inizio, per quel che mi è dato sapere e narrare, con una barchetta di carta di giornale che scendeva lungo un marciapiede in un rivolo gonfio di pioggia”. (continua…)

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martedì, 22 settembre 2015

LEO LONGANESI. Il borghese conservatore

Leo LonganesiIl nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato al volume “Leo Longanesi. Il borghese conservatore” (Odoya), di Francesco Giubilei.

Dalla scheda del libro: “Scrittore, editore, illustratore, grafico… Sintetizzare la figura di Leo Longanesi in un’unica definizione risulta impossibile. Sicuramente fu una delle più geniali e irriverenti figure del panorama culturale italiano del Novecento, un intellettuale difficilmente incasellabile in una categoria precisa.
Pungente umorista, coniò frasi e aforismi destinati a rimanere nell’immaginario collettivo. Inventore del rotocalco, scopritore di alcuni dei più importanti narratori italiani (tra cui Buzzati e Flaiano), pubblicò per la prima volta in Italia autori stranieri alla stregua di Hemingway e nel dopoguerra riuscì a coniugare il principio di editoria di progetto con le richieste del mercato. Negli ultimi anni sembra essere calata sulla sua figura una coltre di silenzio, ad eccezione di sporadiche iniziative: tipico destino riservato ai personaggi scomodi
.”

Di seguito pubblichiamo: un intervento dell’autore e l’introduzione del volume.

* * *

Francesco Giubilei racconta “Leo Longanesi. Il borghese conservatore” (Odoya)

di Francesco Giubilei

Sono sempre stato affascinato dagli irregolari, intellettuali, scrittori, giornalisti, difficilmente incasellabili ma geniali per il contenuto e il valore della propria opera.
Molto spesso queste figure – da Bianciardi a Papini, da Gallian a Soffici – a causa del loro pensiero non furono sufficientemente comprese e ancora oggi, anni dopo la loro scomparsa, ad eccezione di addetti ai lavori o lettori forti, non sono conosciuti dal grande pubblico.
Longanesi in tal senso è il personaggio forse più rappresentativo e ingiustamente dimenticato – o poco ricordato – per tutta una serie di ragioni che hanno contribuito a far calare su di lui un’ingiusta coltre di silenzio. In primis l’etichetta di fascista ingiustamente affibbiatagli, vuoi per una scarsa conoscenza del personaggio, vuoi per malafede. A scagionare Longanesi da tale accusa, è sufficiente citare un episodio: nel ‘39 il regime mussoliniano chiuse la sua rivista Omnibus, il primo esempio di rotocalco pubblicato nel nostro paese. (continua…)

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mercoledì, 10 giugno 2015

NON SCRIVERE DI ME, di Livia Manera Sambuy

Nel nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” ci occupiamo di un volume che non è – in effetti – un saggio letterario (in senso stretto), ma che  (attraverso storie di incontri con scrittori americani) aiuta a comprendere meglio la letteratura prodotta da autori del calibro di Philip Roth, Richard Ford, Paula Fox, Judith Thurman, David Foster Wallace, Joseph Mitchell, Mavis Gallant, James Purdy, Raymond Carver, Mordecai Richler e Karen Blixen.

Il libro si intitola “Non scrivere di me“, l’ha scritto Livia Manera Sambuy ed è pubblicato dalla Feltrinelli. Di seguito, un’intervista all’autrice.

Le prime pagine del libro sono disponibili qui.

* * *

NON SCRIVERE DI ME, di Livia Manera Sambuy

di Massimo Maugeri

Pochi conoscono Philip Roth come Livia Manera Sambuy. Dice di lei Dave Eggers: “Livia Manera Sambuy ci consegna un ritratto di Philip Roth tra i migliori che abbia mai letto – scritto splendidamente, personale, intimo eppure rispettoso. I suoi ritratti sono di una dignità e di un rigore straordinari, e la sua conoscenza della letteratura contemporanea resta senza pari.” Livia è una giornalista letteraria che scrive sul “Corriere della Sera” (ha vissuto tra Milano e New York; ora vive tra Parigi e la Toscana). Al suo attivo ha, tra le altre cose, la realizzazione di due film documentari su Philip Roth. E il titolo del suo libro, “Non scrivere di me” (Feltrinelli), ha a che fare – per l’appunto – con lo strettissimo rapporto intrattenuto con il celebre scrittore americano che, a un certo punto, le intimò di non scrivere più di lui. In alcuni casi, però, un divieto equivale a un invito. Di questa equivalenza si è servita Livia Manera che, all’interno di questo coinvolgente volume (consigliatissimo agli amanti della letteratura americana… ma non solo), ha aperto ampie e illuminanti finestre sulla produzione artistica e sulle esistenze di Roth e di altri autori e autrici (da Richard Ford a Paula Fox, da Judith Thurman a David Foster Wallace, da Joseph Mitchell a Mavis Gallant… e poi, ancora: Purdy, Carver, Richler, Blixen).

Ho avuto il piacere di discuterne con l’autrice…

- Cara Livia, nelle prime pagine del libro racconti come nasce “Non scrivere di me”. Perché hai deciso di scriverlo proprio adesso, in questa fase della tua vita?
La crisi del 2008 ha cambiato la vita di quasi tutti i giornalisti. Prima, fermarsi per scrivere un libro era una scelta interessante ma improduttiva dal punto di vista economico. Dopo, le cose sono cambiate. E’ il lavoro giornalistico ad essere diventato economicamente improduttivo. Ma come tutte le crisi, lo scossone del cambiamento ha aperto nuove possibilità. Io avevo l’impressione di avere raggiunto, nel mio lavoro di giornalista letteraria per il Corriere della Sera, più o meno il massimo di quello a cui potevo ambire. E da tempo avevo voglia di qualcosa di nuovo, e soprattutto di qualcosa da imparare. E così ho fatto due film documentari e ho scritto un libro. L’idea del libro era di dare un senso al lavoro che avevo svolto fino ad allora, un senso che toccasse corde più profonde e personali. Non, insomma, di pubblicare una raccolta dei miei articoli. Ed è così che ho incominciato a scrivere il libro che nella mia testa si è chiamato per due anni “Making sense” (titolo intraducibile) e che è poi uscito col titolo “Non scrivere di me”: per rileggere la mia esperienza di persona, lettrice e giornalista letteraria, alla luce di qualcosa che andasse al di fuori degli schemi della critica o del giornalismo. E ho scelto la formula americana della “narrative non fiction”, cioè dei racconti dal vero.

- In che cosa la letteratura nordamericana si differisce da quella prodotta in altri paesi e in altre zone del mondo, a tuo avviso? Qual è il suo elemento caratterizzante (ammesso che ne esista uno)?
Domanda difficilissima: dovrei essere più ferrata sulla letteratura contemporanea di altri paesi per rispondere seriamente. Posso dire però che nella narrativa americana c’è un certo pragmatismo che trovo meno altrove: un’altissima professionalità dello scrivere con cui gli autori sono obbligati a confrontare le proprie ambizioni artistiche. Questa a mio avviso è un’ottima cosa, perché áncora la scrittura alla realtà e aiuta i lettori a decifrarla. In Francia, invece, uno scrittore o un regista sono in primo luogo artisti e solo in secondo luogo dei professionisti. E questo espone facilmente a una certa auto indulgenza.

- New York e Parigi sono due mete ambitissime da parte di scrittori e intellettuali. Tu le conosci molto bene. In cosa si assomigliano e in cosa si differenziano le due città, in relazione al rapporto con le scrittrici e gli scrittori che vi abitano?
Non si somigliano in nulla. New York è aperta, competitiva, “workaholic” e giovane nello spirito, ahimè, fortemente capitalistico. Parigi è la tradizione, ha una società chiusa, guarda poco “altrove”, ma essere intellettuali e poveri a Parigi è una medaglia. Ambedue sono internazionali, ma Parigi non lo sa, sembra addirittura ignorare di avere l’opzione di trasformarsi nella capitale culturale d’Europa – se solo riconoscesse gli elementi stranieri che compongono la sua società artistica e letteraria. Faccio un esempio. Una scrittrice come Mavis Gallant, che era canadese, è rimasta quasi sconosciuta ai francesi, pur avendo vissuto a Parigi per sessantacinque anni. Un giorno Bernard Pivot l’ha invitata alla sua celebre trasmissione sui libri “Apostrophes”. E solo allora i vicini di Rue Ferrandoni hanno scoperto che la signora che da quarant’anni abitava al secondo piano era una delle più grandi scrittrici di racconti del mondo. Faccio fatica a immaginare che la stessa cosa possa succedere a Londra, o Roma, o Berlino.

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- Domanda analoga con riferimento alle scrittrici e gli scrittori che racconti nel libro. C’è qualcosa che, in un modo o nell’altro, li accomuna tutti?
Sono diversissimi tra loro, come qualunque essere umano. Gallant intelligentissima, insofferente, spiritosa. Thurman molto intellettuale, sofisticata, piena di “Jewish wit”. Wallace disperato e introverso. Ford amabilissimo e sanguigno. Mitchell un ammutinato gentile. Purdy fiero della sua debolezza. Fox una sopravvissuta, piena di una saggezza al di fuori degli schemi. E Roth seducente, manipolatore, capriccioso, intenso e fedele. No: nulla li accomuna, a parte l’essere delle creature tormentate dalla malattia dello scrivere, con tutto ciò che comporta: ansie, frustrazioni, soddisfazioni occasionali, genio.

Philip Roth. Una storia americana. DVD. Con libro- Pensando a Philip Roth: cosa ti rimane, più di ogni altra cosa, del rapporto con il Roth scrittore? E con l’uomo?
Del Roth scrittore mi rimane la straordinaria esperienza di avere letto (e in alcuni casi riletto) tutta la sua opera in ordine cronologico, nell’edizione della Modern Library. Trentuno libri sono una maratona gigantesca, ma anche una chiave di accesso unica a ciò che rappresenta il mondo di un autore. L’ho fatto all’epoca in cui preparavo per ARTE il documentario “Philip Roth: una storia americana”, che poi è stato pubblicato da Feltrinelli Real Cinema. La gente pensa che Roth si sia aperto con me perché ci conoscevamo così bene da essere diventati complici. Ma non conoscono Roth. Si è aperto con me perché ero diventata la sua memoria: conoscevo la sua opera meglio di lui, si potrebbe dire con una battuta. Perché un segreto degli scrittori è che odiano rileggersi, e se possono evitano. Io in quei mesi gli ho fatto da sponda e da specchio. Ci siamo divertiti.
Del Roth uomo, invece, mi sono rimasti un affetto e una complicità molto profondi. E’ uno dei punti di riferimento della mia vita – e non parlo professionalmente.

- C’è qualcuno, tra gli autori presenti nel libro, con cui ti sei sentita più affine? E per quale motivo? (continua…)

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martedì, 28 aprile 2015

SICILIANI ULTIMI?

Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato al volume “Siciliani Ultimi? Tre studi su Sciascia, Bufalino, Consolo. E oltre” di Giuseppe Traina (Mucchi editore).

La prefazione del libro firmata da Giuliana Benvenuti è disponibile cliccando qui.

* * *

di Massimo Maugeri

Giuseppe Traina è professore associato di Letteratura Italiana presso l’Università di Catania e insegna nella Struttura Didattica Speciale di Ragusa, città dove vive. Ha studiato autori italiani fra Sette e Novecento, dedicando particolare attenzione a Sciascia (La soluzione del cruciverba, 1994; Leonardo Sciascia, 1999; In un destino di verità, 1999; Una problematica modernità, 2009), a Bufalino (“La felicità esiste, ne ho sentito parlare”. Gesualdo Bufalino narratore, 2012), a Consolo (Vincenzo Consolo, 2001). Si occupa attualmente di letteratura comica e satirica.
Per la collana Lettere Persiane di Mucchi ha pubblicato di recente il volume “Siciliani Ultimi? Tre studi su Sciascia, Bufalino, Consolo. E oltre“.
Ho avuto modo di incontrare Pippo Traina porprio per discutere di quest’ultimo libro.

- Giuseppe, partiamo dalle ragioni che ti hanno spinto a pubblicare “Siciliani Ultimi?”…
Le ragioni principali sono l’amore per la grande tradizione letteraria siciliana, di cui Sciascia, Bufalino e Consolo sono considerati gli ultimi autorevoli esponenti, e, d’altra parte, il fastidio per ogni ragionamento troppo pessimista sulle sorti della letteratura nel secolo ventunesimo.
Avevo in precedenza già scritto i saggi su “L’affaire Moro” di Sciascia, sull’attività di Bufalino come antologista e sul romanzo “Retablo” di Consolo: ho pensato che raccoglierli in un libro, dopo averli un po’ rivisti e aggiornati, poteva essere un modo per tornare ancora una volta su autori già studiati in passato e sui quali ho pubblicato diversi libri, per valorizzarne aspetti poco noti oppure per rivalutare opere meno considerate rispetto ad altre. Ma mi sembrava anche giusto capire che cosa della loro eredità è considerato ancora valido dagli scrittori siciliani di oggi e che cosa, invece, è cambiato – anche radicalmente – nella scrittura di questi ultimi.

- Il titolo del libro non passa inosservato. Perché questa scelta?
Perché Sciascia, Bufalino e Consolo sono davvero stati gli ultimi grandi esponenti di una tradizione letteraria siciliana che – pur nelle inevitabili diversità fra autore e autore, fra stile e stile – ha dimostrato di avere non pochi tratti in comune: per esempio, la coscienza scontrosa di un’alterità antropologica; un antistoricismo tenace; una predilezione per la grande cultura europea unita alla scelta della Sicilia e dei siciliani come oggetto d’analisi; la tentazione di scrivere un romanzo–cattedrale, che sia affresco sociale o saga familiare; una scrittura che procede sui sentieri sinuosi del barocco o della prosa lirica o su quelli, non meno sinuosi, del ragionamento analitico in stile scabro ed essenziale. Insomma, quel quadro mosso ma coerente che Massimo Onofri ha rubricato all’insegna della “modernità infelice”. Ma, come dicevo prima, nell’introduzione al libro ho provato a dimostrare che, dopo i risultati splendidi raggiunti da questi tre grandi scrittori non c’è il nulla, c’è invece un “oltre”: altre forme di scrittura che, seppure in buona parte lontane dalle loro, ci dicono cose tutt’altro che secondarie sulla Sicilia di oggi, sull’Italia di oggi.

pippo-traina- Sciascia, Bufalino, Consolo: tre pilastri, dunque, della letteratura siciliana (e non solo) del secondo Novecento. Quali sono gli elementi che li accomunano? E quali quelli che li dividono?
Ad accomunarli mi pare sia soprattutto la fiducia nella letteratura come mezzo per esprimere e testimoniare un’alternativa possibile alla massificazione culturale e all’indifferenza valoriale. Anche un elemento che apparentemente li divide – mi riferisco alle scelte linguistico-stilistiche – può rivelare, se studiato a fondo e senza pregiudizi, interessanti aspetti in comune: penso alla complessità del periodare, che poi, naturalmente, ognuno di loro riveste di una patina lessicale molto personale. A dividerli abbastanza nettamente, invece, mi pare ci sia l’atteggiamento verso il proprio mondo interiore: che Bufalino affrontava a viso aperto, anzi esibendo una quasi impudica attitudine ad auscultare le proprie ragioni del cuore, mentre Sciascia e Consolo si aggrappavano tenacemente alle ragioni della ragione per schermare al lettore l’accesso a un mondo che doveva rimanere il più recondito possibile.

- Se oggi avessi la possibilità di scrivere una lettera a uno di questi tre grandi scrittori (e di ricevere risposta), a chi scriveresti? E perché? (continua…)

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martedì, 14 aprile 2015

SOLI ERAVAMO – di Fabrizio Coscia

Nel nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” diamo spazio al volume SOLI ERAVAMO e altre storie (ad est dell’equatore) di Fabrizio Coscia.
Un libro, in questo caso, che non si occupa solo di letteratura, ma (più in generale) di arte… tornando, però, alla letteratura.

Possono un romanzo, una poesia, un quadro o una musica cambiare la nostra vita? Illuminarla di un significato che ci era stato nascosto fino a un attimo prima? Mostrarci una strada mai percorsa? Secondo l’autore di questo libro sì. A patto di lasciarci coinvolgere incondizionatamente dall’amore per l’arte.

Di seguito: un intervento dell’autore (predisposto in esclusiva per Letteratitudine,  in cui ci racconta qualcosa sul volume) e un estratto del libro.

Massimo Maugeri

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Fabrizio Coscia ci “racconta” SOLI ERAVAMO E ALTRE STORIE (ad est dell’equatore)

di Fabrizio Coscia

http://i.ytimg.com/vi/w9LsHDqQg-w/hqdefault.jpgHo scritto questo libro perché volevo guadagnarmi uno spazio di libertà, innanzitutto. Libertà dai generi, dai vincoli, dalle regole editoriali. E perché era da un po’ di tempo che provavo una certa stanchezza nei confronti della fiction, della terza persona, delle storie da inventare. Ho provato, allora, a mettermi nei panni del lettore, prima ancora che dello scrittore. E ho cercato una voce affidabile, credibile, da modulare. Sono nate così queste piccole storie che parlano di grandi scrittori, artisti, compositori, delle loro vicende biografiche e delle loro opere, raccontate da un personaggio-uomo (per usare una celebre definizione di Giacomo Debenedetti) che dice io, e che porta con sé tutto il suo carico di vissuto e tutta la sua esperienza di lettore emotivo: un lettore in carne e ossa e anima, che inframmezza i suoi ricordi, le sue sensazioni ai racconti degli episodi biografici. Ne è venuta fuori una sorta di romanzo di formazione, di autobiografia intellettuale, anche se in tono minore, qualcosa che però sfugge a una definizione univoca, perché, appunto, scritto in piena libertà di intenti. Si racconta, dunque, della tardiva e fatale fuga dall’oppressione matrimoniale di un Tolstoj ottantaduenne e di quella ribelle e adolescenziale di Rimbaud per l’Africa. Si racconta di un Kafka che s’improvvisa postino delle bambole per lenire il dolore di una bambina in un parco di Berlino; di un quadro di Edward Hopper che rimanda al finale di un racconto di Joyce, dell’incontro disastroso dello stesso Joyce con Proust, di un Leopardi ingordo di gelati, dei «suicidi imperfetti» di Virginia Woolf e Cesare Pavese, della fucilazione di Garcia Lorca e Isaak Babel’, dell’incontro probabilissimo tra il vecchio Casanova e il «Don Giovanni» di Mozart. E ancora: (continua…)

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venerdì, 27 febbraio 2015

DESIDERARE INVANO. Il Faust in Goethe e altrove – di Francesco Roat

Nel primo appuntamento del nuovo spazio di Letteratitudine dedicato alla “Saggistica Letteraria” diamo spazio al volume “DESIDERARE INVANO. Il Faust in Goethe e altrove” di Francesco Roat (Moretti & Vitali).
Di seguito: una nota sul libro (tratta dalla postfazione di Flavio Ermini), un intervento dell’autore (predisposto in esclusiva per Letteratitudine,  in cui ci racconta qualcosa sul volume) e un estratto del libro.
Massimo Maugeri

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Dalla postfazione di Flavio Ermini

La leggenda del patto tra Faust e il demonio può essere letta come un mito: ovvero come una narrazione primordiale, grazie alla quale interrogarci sulla natura dell’essere umano e finanche sulla sua essenza.
È quanto fa Francesco Roat in Desiderare invano, seguendo passo per passo la vicenda narrata da Goethe, ma senza dimenticare – in frequenti, vertiginosi excursus – le tante altre opere letterarie, teatrali o musicali ispirate alla figura dello studioso che sottoscrive il più celebre dei patti stipulati tra l’essere umano e il diavolo. È lucidissima, a questo proposito, la riflessione che l’autore mette in campo intorno alle forme del desiderio e ai suoi aspetti irrisolti e paradossali.
Il desiderio di conoscere ogni cosa e di carpire tutti i misteri del mondo è un’ambizione che eccede l’umano e si traduce, come osserva Roat, “non già in un anelito sovrumano quanto disumano”! L’umanità sta da un’altra parte. Si rivela solo affrancandosi dalle illusioni.
Ritenere di poter sfuggire all’esperienza della morte e del dolore è perversione, è tradimento, è corteggiare un precipizio. Solo la coscienza della profonda unità del cosmo – alla quale siamo chiamati nascendo – può placare l’angoscia della caducità e può consentirci di abbracciare una visione della vita che sposti l’accento sul morire come legge dell’esistenza; può indurci a prendere consapevolezza dell’impossibilità di ogni assoluto, di ogni eterno piacere. Può consentirci di abbracciare i chiaroscuri di una persistente umbratilità.

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Francesco Roat ci “racconta” DESIDERARE INVANO
(continua…)

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venerdì, 27 febbraio 2015

SAGGISTICA LETTERARIA

saggistica-letterariaApro un nuovo spazio di Letteratitudine interamente dedicato alla “SAGGISTICA LETTERARIA” (in tutte le sue possibili declinazioni).

Un spazio che raccoglierà vari tipi di contributi (dedicati, appunto, alla saggistica letteraria del presente e del passato): articoli, interviste, estratti, recensioni, interventi e quant’altro

Massimo Maugeri

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© Letteratitudine

LetteratitudineBlog/ LetteratitudineNews/ LetteratitudineRadio/ LetteratitudineVideo

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OMAGGIO A ZYGMUNT BAUMAN

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OMAGGIO A TULLIO DE MAURO

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RATPUS va in scena ratpus

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Ricordiamo VIRNA LISI con un video che è uno "spot" per la lettura

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"TRINACRIA PARK" a Fahrenheit ...

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