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Archivio di gennaio 2007

mercoledì, 31 gennaio 2007

LETTERATURA DI MASSA E CRITICA LETTERARIA

Nel numero di dicembre della rivista L’Indice dei libri del mese, a pag. 33, è comparso un intervento di Alessandro Perissinotto che la dice lunga sul clima un po’ arroventato che si respira di questi tempi negli ambienti letterari nostrani.

Alessandro Perissinotto

Il titolo dell’intervento è: Letteratura di massa e critica letteraria. Il sottotitolo: Rompere il cellophane e collaudare un libro.

Come al solito estrapolo qualche frase dall’articolo. Poi, magari, ne parliamo insieme.

"Mi avvicino alla critica letteraria (terreno a me non familiare, dal momento che insegno Teorie e tecniche della comunicazione di massa) con l’umiltà di quelli che Giulio Ferroni definisce "mediocri professori di evanescenti facoltà universitarie" (…) e con il peccato originale che mi deriva dall’appartenere, come autore, alla folta schiera dei giallisti da mettere "Sul banco dei cattivi" (A proposito di Baricco e di altri scrittori alla moda, pp. 96, € 10,90, Donzelli, Roma, 2006) o dietro alla lavagna o comunque alla berlina. (…)"

"La rete trabocca di recensioni dei lettori, di consigli di lettura, di stroncature senza appello e di dichiarazioni di amore eterno da parte del pubblico ai propri idoli. Ma perché, navigando nel web, assistiamo a una rinascita sotto mutate spoglie di quella critica che proprio i critici di professione danno per morta? (…) E se il dilagare di una critica "dal basso" fosse anche la conseguenza dei molti tradimenti dei critici? È un’ipotesi che, dentro di me, riacquista credibilità ogni volta che mi confronto con un libro di stroncature che pare confezionato con l’intento di sfruttare un po’ di quella notorietà di cui sono colpevolmente macchiati gli stessi autori che vengono stroncati." (…)

"(…) Forse è ora di metterci d’accordo: o noi, autori e lettori di letteratura di massa, troviamo un punto d’incontro con i critici, un punto d’incontro che parta dal rispetto del lavoro reciproco (e soprattutto dell’intelligenza dei lettori), oppure quando le nostre strade si incrociano facciamo finta di non conoscerci."

Ne parliamo?

Pubblicato in PERPLESSITA', POLEMICHE, PETTEGOLEZZI E BURLE   11 commenti »

martedì, 30 gennaio 2007

GORDIANO LUPI SU RADIO RAI UNO

Ci tenevo a segnalarvi che il "nostro" Gordiano Lupi lunedì pomeriggio (29 gennaio 2007) è stato a Radio Rai Uno, ospite della trasmissione L’Argonauta a parlare di Cuba.

Gordiano Lupi

Chi volesse può ascoltare la registrazione della puntata cliccando qui (si aprirà la pagina web de L’Argonauta, poi dovrete cliccare su "ascolta").

Vi riporto anche il testo della mail divulgativa che Gordiano ha fatto circolare:

(…) Una Cuba priva di libertà, dove per andare in galera basta essere in disaccordo con il regime. Fidel Castro è un dittatore e Cuba è uno Stato di polizia dal quale la gente scappa alla ricerca della libertà. Il mio libro (“Almeno il pane, Fidel”, Stampa Alternativa) e i precedenti articoli sono costati a mia moglie il divieto di rientrare a Cuba e l’obbligo a rimanere all’estero "illegale" come controrivoluzionaria. Sono stati pochi i mezzi di informazione italiani che lo hanno scritto. In compenso sbucano da ogni parte promozioni sui libri dei soliti personaggi che raccontano la favola di un regime cubano in piena sintonia con la popolazione. Ascolto programmi radiofonici dove non comprendo se il comico è un popolare intervistatore che imita un personaggio innamorato di Cuba o il personaggio in questione che ci racconta l’ennesima storiella caraibica. Per accorgersi che sono balle basta leggere nell’ordine: Reinaldo Arenas, Gullermo Cabrera Infante, Zoé Valdés, Carlos Franqui, Pedro Juan Gutierréz, Ena Lucia Portela… Da parte mia posso solo dire che il mio libro è scritto col cuore. Per Cuba. Per i cubani.

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martedì, 30 gennaio 2007

PLAYLIST, LA MUSICA È CAMBIATA (di Luca Sofri)

Un libro davvero particolare questo Playlist, la musica è cambiata pubblicato da Luca Sofri per Rizzoli, collana 24/7.

Il tema è: la musica e l’innovazione tecnologica.

Sofri ci spiega come è cambiata la vita degli amanti della musica dopo l’avvento degli mp3 e ci “racconta” 2556 canzoni di cui non è possibile fare a meno, proponendo liste di ascolto tematiche.

Una chicca per gli appassionati di musica e canzoni.

L’avvento dei formati digitali compressi come l’mp3, lo scambio e la condivisione dei file musicali attraverso la Rete, il successo planetario dell’iPod Apple, che consente di portare sempre con sé un’intera discoteca domestica ed è diventato uno dei simboli del nostro tempo, stanno cambiando profondamente il modo di ascoltare e organizzare la musica.

La canzone che si acquista singolarmente, e ridiventa protagonista, la facilità di accesso a musiche esotiche o esoteriche e le funzioni di ascolto random che invitano a un ascolto indefinito, l’estrema facilità di creare playlist – liste tematiche di canzoni personali o da condividere: tutto ciò permette di avere a disposizione una sorta di infinita programmazione radiofonica personale, con una scaletta creata liberamente. Il libro di Luca Sofri si propone come vademecum di questo nuovo scenario, con 500 playlist commentate, una guida alternativa e originale alla storia della musica pop-rock, lontana dagli schemi e dai canoni di genere tradizionali.

Ogni appassionato, seguendo l’ordine (alfabetico) scelto dall’autore ovvero aprendo a caso il volume, potrà scoprire nuovi territori o ripercorrere con rinnovato piacere sentieri già frequentati.

*

Luca Sofri ha quarant’anni ed è giornalista free-lance. Scrive sul “Foglio”, “Vanity Fair”, “GQ” e ha la rubrica eBay su “Internazionale”. Conduce Condor, un programma quotidiano di musica e informazione su Radio2.

Il suo blog è www.wittgenstein.it.

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Playlist, la musica è cambiata di Luca Sofri

Rizzoli

COLLANA 24/7

FORMATO 14 X 21,5

LEGATURA brossura con alette

PAGINE 300, € 14,50

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lunedì, 29 gennaio 2007

ROMA AMARA E DOLCE (di Ercole Patti)

Ho sempre considerato Ercole Patti (1903 – 1976), autore catanese – dunque mio conterraneo – come uno degli scrittori più interessanti del Novecento letterario italiano. Ho letto i suoi romanzi, mi sono immerso nelle sue storie, ho amato i suoi personaggi. Chi non ha letto opere – ne cito solo alcune – come Giovannino (1954), Un bellissimo novembre (1967) Graziella (1970), non sa cosa si è perso.

Pochi mesi fa la Bompiani ha riproposto Roma amara e dolce, viaggio nella memoria tradottosi in una raccolta di scritti apparsa per la prima volta nel 1972.

Ringrazio Sarah Zappulla Muscarà, ordinaria di Letteratura Italiana nell’Università di Catania e incaricata di Letteratura Teatrale Italiana e di Storia e Critica del Cinema, nonché curatrice di molte opere di Ercole Patti, per aver messo a disposizione la sua nota introduttiva a Roma amara e dolce che propongo qui di seguito quasi integralmente.

(Massimo Maugeri)

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*

« (…) In Roma amara e dolce, silloge di sedici racconti apparsa nel 1972, quattro anni prima della scomparsa dello scrittore, sono confluite gran parte delle Cronache romane del 1962. Emblematico il titolo del racconto di apertura, Il sapore della libertà. Come molti rampolli della borghesia e della nobiltà catanesi, Patti trascorre la prima fanciullezza al Collegio Pennisi di Acireale, "triste luogo", "una prigione" da cui è obbligo evadere. Nel rammemorare quei giorni "di grande sconforto", lo scrittore adulto passando "per la tortuosa stradetta" del Pennisi prova "la gioia" di non dovervi più rientrare. È l’archetipo del paradiso perduto, della cacciata dall’Eden, al quale Patti ritorna con toni di malinconica nostalgia. Interazione fra passato e presente, secondo Roy Pascal tra i più intricati casi di fenomenologia della "elusività del vero" o, freudianamente, "rielaborazione del lutto" attraverso la recita del dolore. Per lo stesso terapeutico motivo sono in doglianza Giovannino Calì del romanzo Giovannino e Giuseppe Laganà del romanzo Graziella. Patti che scrive, però, non è lo stesso Patti che ha vissuto e rivive quell’esperienza.

I motivi della fuga, del νóστος, della sensualità debordante, propri dell’universo pattiano, sono costruzioni mitiche, scelte tra molteplici frammenti di vissuto. Non esistono al di fuori della scrittura. Se è il giovane Patti a scoprirli e formalizzarli in coincidenza con l’apprendistato letterario nell’ambìto approdo romano ("la mia più grande aspirazione era quella di andare a vivere a Roma, ma urtavo contro lo scoglio insormontabile di mio padre"), sarà il Patti maturo della proustiana rimembranza, della narrazione retrodatata, del diaristico resoconto di sé, ormai "scrittore laureato", a darne una visione epica, certamente differente da quella iniziale, guardando al passato dall’alto della conquistata notorietà. Il cumulo dei ricordi dipanando per redigere, talora con qualche moto di legittimo compiacimento, il cursus di una vocazione convinta e coerente. Per lo scrittore girovago ulteriore tentativo di sviare "gli occhio calmi della morte". Ma senza illusioni o cedimenti.

Scrive Michail Bachtin: "La memoria nelle memorie e nelle autobiografie ha un particolare carattere; è memoria della propria età contemporanea e di se stesso. È una memoria non eroicizzante; in essa c’è un momento di meccanicità e registrazione (non monumentale). È una memoria personale senza continuità, limitata dai confini della vita personale. Non ci sono né padri né generazioni". Tale la condizione in Roma amara e dolce. Gli avvenimenti narrati scorrono celermente, senza pausa, né retorica. Con amletica leggerezza come si addice all’arte che se troppo palese diviene artificio. Rapide le notizie sulla famiglia, sull’infanzia, sulla giovinezza, sugli studi intrapresi. Fitte invece le informazioni circa il precoce esordio con la vigile guida dello zio, lo scrittore Giuseppe Villaroel ("fu nel vecchio e luminoso suo appartamento di via del Teatro Massimo a Catania che io conobbi i primi libri, ebbi cognizione dell’esistenza di una società letteraria e dei rapporti che corrono con gli scrittori, vidi le prime bozze di stampa della mia vita, i primi autografi di scrittori celebri"), dettagliato il ragguaglio delle giovanili letture (Manzoni, Flaubert, Verga), delle acerbe pubblicazioni. Mentre cresce l’ansia di evasione. Per accedere però alla terra promessa, alla società delle lettere, bisogna che Patti si sottometta a una prova. Il padre gli concederà di vivere sei mesi all’anno a Roma purché sostenga regolarmente gli esami alla Facoltà di Giurisprudenza di Catania: "Andavo vagando per le strade giornate intere, non mi stancavo di respirare l’aria di Roma a tutte le ore. I sedili del Pincio erano le mie soste preferite nella tarda mattinata e nelle prime ore del pomeriggio. Con un giornale in mano mi sedevo accanto a qualche busto di marmo e il mio cervello partiva in quarta sognando libri da scrivere, novelle da pubblicare sui giornali romani dove non conoscevo nessuno. Risento gli odori di Roma nel 1921; rappresentavano la libertà".

Roma è la città di "vecchie camere ammobiliate e trattoriole a prezzo fisso", di osterie povere, di feconde giornate di scrittura ai caffè Esperia, Aragno, Greco, dell’accendersi dei sensi ("il desiderio che ci spingeva l’uno contro l’altro era spontaneo e travolgente, le nostre mani premevano contro la parete nella voglia struggente di unirsi"). È sede delle testate giornalistiche che contano ("Il Messaggero", "Il Tempo", "La Tribuna", L’Idea Nazionale", "Il Tevere", "Il Popolo di Roma", "Il Giornale di Roma", "Il Giornale d’Italia"), "con le firme degli scrittori famosi". È centro culturale di prestigio. Nella terza saletta del celebre caffè Aragno si ritrovano de Chirico, Bartoli, Spadini, Cardarelli, Broglio, Barilli, Soffici, Baldini, d’Amico, personaggi politici di rilievo, alcuni dei quali fuggevolmente intravisti ("Facta presidente del consiglio prendeva in un angolo due uova al burro prima di rientrare a Montecitorio"). Roma vanta il Teatro degli Indipendenti di Bragaglia, "il più famoso e discusso teatro sperimentale d’Italia", nella cui "aura" si muovevano Bontempelli, Cecchi, Vergani: "Fu lì che vidi per la prima volta Luigi Pirandello col suo pizzetto bianco e quelle sue speciali camicie che all’altezza della cintura invece di entrare nei pantaloni si trasformavano in panciotto". Il drammaturgo fulmineamente traeva l’atto unico L’uomo dal fiore in bocca dalla novella Caffè notturno, segnando "con una matita rossa negli stretti margini delle pagine stampate qualche brevissima didascalia e una o due mezze battute". Il 21 febbraio 1923 la messa in scena. Poco tempo dopo, il 9 aprile, sarà la volta di Il carosello di Patti, atto unico ricavato dalla novella La giostra su sollecitazione di Ardengo Soffici, lodato da Alberto Savinio sul "Nuovo Paese".

Ma non basta a placare il disappunto del padre. Per dimostrargli la serietà delle sue intenzioni e della carriera che voleva intraprendere occorreva dimostrargli che era in grado di vivere con il suo lavoro anche facendo il giornalista. Quell’attività giornalistica che, iniziata nei verdi anni catanesi, sparsamente condotta su molteplici testate, registra una svolta decisiva allorché viene inviato da "Il Tevere" in India: "I resoconti del mio servizio vennero presi anche dal ‘Resto del Carlino’ di Missiroli e dalla ‘Gazzetta del Popolo’ di Amicucci; gli articoli uscivano nello stesso giorno sui tre giornali. Ultimato il servizio passai alla ‘Gazzetta del Popolo’ che mi inviò in Giappone". In dieci anni di vagabondaggio visita "la Russia, la Turchia, la Polonia, la Cina, l’Egitto e tutti i paesi europei". Da tali esperienze scaturirà nel 1934 Ragazze di Tokio (Viaggio da Tokio a Bombay), dedicato ad Ermanno Amicucci (poi riedito nel 1975 col titolo Un lungo viaggio lontano). Altro archetipo, il viaggio, metafora della ricerca di sé, della peregrinazione come affrancamento dal mondo e dalla storia, insidiosi e incontrollabili. Non risolvibile schillerianamente nell’immediatezza della fruizione istintiva e panica della natura in virtù della più matura e rinnovata disponibilità dello scrittore ad ascoltarne le voci, dalle fioche alle assordanti, a percepirne i profumi, dai delicati agli intensi, a rubarne la luce e tradurla in incanto. Spontanea corrispondenza che s’inscrive in un appagante bisogno di totalità, distante ormai dal sentimentalismo romantico del drammaturgo tedesco cui Patti aveva intonato pagine di vibrante elegia: "Presso di noi la natura è sparita, non la troviamo, non la incontriamo se non al di fuori dell’umanità. E perciò il sentimento con cui aderiamo alla natura è strettamente legato al sentimento col quale lamentiamo la fuggita età della fanciullezza e della fanciullesca innocenza". Una sorta d’intimo idillio. Così Patti ricordando Gibuti: "L’oceano indiano veniva piano a morire sulla sponda deserta ingombra di erbe marine secche tra granchiolini rossi che correvano veloci per traverso solitari davanti all’oceano tra frammenti di scheletri di cammelli biancheggianti nella sabbia tra le gambe candide delle mogli dei funzionari francesi che facevano il bagno al calar del sole in un’acqua piena di molluschi torbida e tiepida che sapeva di pescecane". Malinconica testimonianza d’irredimibile caducità. Si è conclusa la guerra di Abissinia, Mussolini proclama l’Impero. Il Negus Hailè Sellasiè fugge dal suo paese "cacciato da un esercito molto più potente del suo, che senza ragione valendosi soltanto del diritto del più forte gli aveva invaso il paese". In tanta levità di stile il viaggio si configura come incisivo segno di aristocratica riservatezza ed estraneità alla dittatura: "L’imbecillità ci prendeva tutti alla gola in quella Roma calma nella quale l’unica cosa da fare per un giovane era di andare in giro con le ragazze e portarsele a casa. A meno di non voler riparare all’estero come fuorusciti. Ma non tutti avevano la possibilità il temperamento e lo spirito di sacrificio per far questo". E ancora nella prefazione a Cronache romane: "La mia insofferenza e la mia lunga avversione per il fascismo non hanno mai avuto un momento di sosta. Si trattava di un sentimento profondo, costituzionale come se si trattasse di una questione di razza".

"L’uggiosa e avvilente Roma del fascismo", "dei labari", "dei luttuosi fez frangiati", delle adunate, delle veline, del Minculpop, è antro nero dove covano e si moltiplicano le "inique sanzioni" perpetuate, queste sì, dal regime. Il delitto Matteotti, le leggi antirazziali, la guerra, l’occupazione tedesca che "stringeva la città in un cerchio muto e insidioso", l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Sebbene abbia celato il suo dissenso dietro un sorriso disincantato, un apparente disimpegno, meglio, con François Paul Billetdoux, una "passione fredda", Patti, che nell’articolo dedicato a Trilussa apparso su "Il Popolo di Roma" del 5 settembre 1943 aveva definito la dittatura una "ventennale carnevalata", subisce la detenzione a Regina Coeli dove conoscerà i membri del Gran Consiglio poi fucilati a Verona e Giuseppe Saragat: "Non potevo immaginare che venti anni dopo mi sarei ritrovato con lui Presidente della Repubblica italiana a caccia al cinghiale nelle tenute di Castelporziano e di San Rossone". Dura prova da superare insieme a quella, dolorosamente irrisarcibile, della morte del padre avvenuta nel ’42: "Sotto una grande croce nera l’annunzio della morte di mio padre, del quale assieme agli altri congiunti io stesso ‘il figlio Ercole’ comunicavo la morte. Il viaggio verso Catania nello scompartimento pieno di sconosciuti con quel giornale che di tanto in tanto non potevo fare a meno di guardare e di rileggere e tanti pensieri e ricordi di mio padre alla cui morte non ero preparato neanche lontanamente mi sembrò lunghissimo". Ma, ricorda Martin Heidegger, "l’angoscia è premessa indispensabile alla conquista dell’autenticità".

Roma amara e dolce, journal intime impaginato dalla memoria, regesto e archivio degli anni più tormentati del Novecento, dalla grande guerra al nazifascismo, dalla fine del secondo conflitto mondiale alla ricostruzione, si chiude con L’avvenire appariva pieno di speranza: "Ripresero a lavorare gli scrittori italiani che la guerra e le persecuzioni fasciste avevano disperso o messo a tacere", "ancora nelle trattorie c’era qualche suonatore ambulante che cantava Lilì Marlene", "Rossellini girava Roma città aperta". A Roma, fecondo laboratorio, la vita s’affatica ancora una volta per lenire e trasformare. E ci sovvengono le parole di Philippe Lejeune: "Ciascuno di noi porta entro di sé una sorta di ‘scartafaccio’ rimaneggiato senza posa del racconto della propria vita. Taluni, più numerosi di quanto si creda, mettono ordine in tale scartafaccio e scrivono". Una profilassi di fronte alle tentazioni del delirio e del caos?

In Diario siciliano. Alla ricerca della felicità del 1971, "una specie di viaggio autunnale compiuto a ritroso" dal 1970 al 1931, Patti raccoglie scritti di varie epoche e provenienza, che investono l’altra sua fondamentale fonte d’ispirazione, quella dei luoghi natii. Altro archetipo, il ritorno alla terra madre, grembo vagheggiato ancor più quando, con Jean-Paul Sartre, "il desiderio di gloria esprime la vertigine della morte".

Povera di memorie, autobiografie, diari, appare a Leonardo Sciascia la letteratura italiana, una carenza "spia di tante altre carenze della società civile, della vita associata". Un mutamento di rotta positivo individua pertanto – a proposito di Diario romano di Vitaliano Brancati – nei diari di scrittori che hanno visto la luce a partire dalla seconda guerra mondiale, quasi un ripensamento, un travaglio delle coscienze sul fascismo e sulla sua fine. E cita quelli di Alvaro, Cajumi, Longanesi, Pavese, Delfini, Flaiano, Montale, de Chirico, Fausto Pirandello. Non cita Patti. Eppure avrebbe dovuto, per la vicinanza geografica, amicale, culturale con Brancati, la dicotomia Catania-Roma, l’itinerario esistenziale per tanti aspetti simile, con le medesime frequentazioni di salotti e caffè letterari, redazioni di giornali, ambienti cinematografici. Per la complicità negli scherzi canzonatori e maligni, nella creazione di curiosi e crudeli soprannomi. Il diario romano di Patti si snoda dal ’14 al ’45. Quello di Brancati, dai toni ben più risentiti e severi, dal ’47 al ’54.

Scrittore diarista, Ercole Patti, sul filo dell’immaginazione, del disincantato umorismo, della dissipazione erotica. "Scrittore di cose", come attesta il rigore cronachistico e l’aderenza alla realtà del vissuto. E tuttavia scrittore mendace, giacché qualsiasi scrittura, seppur fedelissima, non è riducibile alla reale identità dell’io. "Solo la finzione non mente, essa schiude nella vita di un uomo una porta segreta, attraverso cui scivola fuori da ogni controllo la sua anima sconosciuta" (François Mauriac). Se quindi la verità si produce in una struttura di finzione, confessione e bugia sono la stessa cosa. "Per poter confessare, si mente. Ciò che si è non lo si può esprimere, appunto perché lo si è; non si può comunicare se non ciò che non siamo, cioè la menzogna" (Franz Kafka). Non mai esaurendosi però il desiderio di catturare schegge vaganti di felicità. »

Dalla nota introduttiva a Roma amara e dolce di Sarah Zappulla Muscarà

Roma amara e dolce

di Ercole Patti

a cura di Sarah Zappulla Muscarà

Bompiani, 2006

pagg. 188, euro 7,80

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domenica, 28 gennaio 2007

ALLA CONQUISTA DI GIOVANI LETTORI (libreria Cavallotto di Catania)

Apprendo dalla (più volte citata) rubrica Ex libris del buon Stefano Salis (Domenicale de Il Sole24Ore del 28 gennaio 2007) che alla scuola per librai Mauri di Venezia hanno istituito un nuovo premio, dedicato – appunto – ai librai: "(…) Questi librai ‘ascoltano il cuore della città’ e fanno di tutto per trovare loro i clienti, anziché aspettarli. Storie di successo e di competenza, unite a passione e amore per la cultura. (…) La prima edizione di questo premio è stata assegnata alla libreria Cavallotto di Catania. Attiva dal 1954, creata da Vito Cavallotto e oggi condotta dalla moglie e dalle tre figlie, che hanno continuato e migliorato l’impresa del padre."

Auguri e complimenti, dunque, alla signora Adalgisa Cavallotto e alle tre figlie.

Devo dire, peraltro, che la notizia dell’attribuzione del premio mi ha fatto particolarmente piacere giacché, proprio un paio di giorni fa, Luisa Cavallotto (una delle figlie), mi ha inviato una email per segnalarmi un’iniziativa che mi pare molto interessante e che potrebbe essere presa ad esempio da altri librai. L’occasione è l’imminente uscita del nuovo libro di Federico Moccia, la finalità… avvicinare gli studenti, partendo dal libro di Moccia, alla lettura di classici della letteratura contemporanea.

A me l’iniziativa pare molto lodevole, per cui ho deciso di promuoverla (seguono dettagli). Voi che ne dite?

(Massimo Maugeri)

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libreria cavallotto

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Leggere… per piacere!

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Il prossimo 6 febbraio uscirà in tutta Italia il nuovo romanzo di Federico Moccia, Scusa ma ti chiamo amore.

La libreria Cavallotto di corso Sicilia organizza una festa dedicata ai giovani. La serata inizierà alle 22.30 con giochi a quiz, musica, libri e un premio finale per i vincitori.

Nonna Vincenza addolcirà l’evento con cioccolata e dessert.

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Ore 22.30 – gioco a quiz: si sfideranno i ragazzi delle scuole superiori,  tre squadre di due classi risponderanno su domande relative al libro di Federico Moccia, Tre metri sopra il cielo, e un classico moderno a scelta fra tre titoli, L’amico ritrovato di Fred Uhlman, Il visconte dimezzato di Italo Calvino e il L’ombra del vento di Carlo Ruiz Zafon. Giudice di gara sarà la professoressa Rosalba Perrotta.

Questi sono gli istituti che si fronteggeranno: liceo scientifico E. Vittorini di Lentini contro liceo scientifico G. Galilei di Catania; liceo scientifico Archimede di Acireale contro liceo scientifico Boggiolera di Catania; liceo classico Cutelli di Catania contro liceo Leonardo da Vinci di Catania.

Ore 23.30 – premiazione – Le tre squadre vincitrici si aggiudicheranno un premio di cento euro in buoni libro e alcune pubblicazioni della editrice Cavallotto. A seguire un mini quiz a cui possono partecipare tutti gli intervenuti che si iscriveranno per primi al gioco. Ai dieci vincitori verrà regalato il nuovo romanzo di Federico Moccia.

Durante la serata i ragazzi potranno consultare un ampio assortimento di titoli dedicati a loro. Un elenco completo sarà a loro disposizione e anche per  gli insegnanti, genitori e operatori.

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È prevista la somministrazione del questionario che segue

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cellulare

e-mail

nome

cognome

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- Che genere di libri preferisci (classici, horror, gialli, rosa, avventura,fantasy)?

- Ti piacerebbe partecipare a gruppi di lettura in libreria?

- Vorresti partecipare alla scelta di libri da leggere in gruppo?

- Quali sono i libri che ti sono piaciuti di più negli ultimi anni?

- Segui qualche blog?

- Vorresti crearne qualcuno insieme a un gruppo di amici?

- Come hai saputo della nostra manifestazione?

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info: libreria cavallotto

info@cavallotto.it

tel. 095 310414 – 095 539067

corso sicilia, 91 – viale ionio, 32 – catania

www.cavallotto.it

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Vito Cavallotto (foto)

Vitocavallotto

Il Centro culturale nasce a Caltanissetta nel 1954 ad opera di Vito Cavallotto, un progetto che nel libro aveva la sua prima ragion d’essere, nell’amore per la cultura e per l’arte la sua forza motrice ideale.
Il progetto merita si sviluppa successivamente in due grandi città: nel 1968 in corso Sicilia a Catania, e nel 1976 in via Mazzini a Palermo, aprono due librerie moderne e spaziose, che diventano punti di riferimento culturale e punti di partenza per nuove iniziative.
Come la nascita della Casa Editrice Cavallotto, che cura la pubblicazione di opere colte e raffinate, gli incontri con autori e artisti, le mostre e le presentazioni editoriali.
A soli cinquant’anni Vito Cavallotto viene a mancare. Ma la sua passione rivive integra nella moglie e nelle figlie, che concentrano l’attività a Catania, ampliandola e perfezionandola, e dando vita nel 1991 a una seconda libreria in viale Ionio.
Tra le prime in Italia a proporre il self-service, le librerie Cavallotto oggi orientano l’assortimento anche verso la formazione di base e universitaria, l’aggiornamento professionale e l’informazione tecnologica.
Trovando, come volle il suo fondatore – alla cui memoria nel 1993 è istituito un premio di laurea – nel libro la sua ragione, nella cultura il suo ideale.

Pubblicato in VOCE DI LIBRAIO   18 commenti »

giovedì, 25 gennaio 2007

LA DISUMANIZZAZIONE SCOLASTICA (di Miriam Ravasio)

Miriam Ravasio, insegnante con esperienze di scrittura, mi ha inviato un interessante articolo dal titolo "La disumanizzazione scolastica".

Si tratta di una sorta di denuncia su alcune problematiche della scuola (con il coinvolgimento di tutti gli attori coinvolti: dai bambini, agli insegnanti; dai programmi, ai genitori). Ho pubblicato l’articolo  convinto che possa essere oggetto di un costruttivo dibattito. (Massimo Maugeri)

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La comprensione di noi stessi è enormemente impoverita se non siamo in contatto con l’infanzia.

(R. Laing  )

Ho riassunto nella citazione di Laing, lo stato d’animo che, qualche tempo fa, mi ha indotto scrivere un diario. A registrare con precisione meticolosa, per gli estranei sicuramente pedante, ogni lezione, ogni intervento. Tornavo a scuola dopo anni di altre cose, altre attività; ci tornavo nelle vesti di esperta in educazione all’immagine, ricca di un bagaglio formativo accumulato come grafica, scenografa e disegnatrice di costumi e animatrice di tante iniziative culturali. La mia personale esperienza scolastica era stata brutta e deludente, ma occupandomi dell’educazione di mia nipote le cose mi sembravano cambiate; i programmi aperti e ambiziosi nei loro obiettivi, le maestre preparate e disponibili ad aggiornare con armonia il loro lavoro. Come molti, e la stessa ultima statistica dell’Osce conferma, pensavo che i problemi fossero alle superiori, ma che la preparazione di base funzionasse in modo ottimo. O almeno bene, qui da noi al nord, dove gli amministratori, pur nei limiti dei bilanci, non negano soldi per progetti ed iniziative. Invece non è così; la scuola dell’infanzia sta nella società, come i bambini al pranzo di Natale. Carichi di doni, vestiti della festa, i bambini stanno seduti a parte, sazi e senz’appetito ascoltano il mangiare rumoroso degli adulti  aspettando che il pranzo finisca, che  il rito si consumi. Quella che si consuma nelle Primarie è una didattica fragorosa, dove ogni ministro ha aggiunto sempre del suo, nulla togliendo eppure tutto cambiando. Un caos incomprensibile che sovverte l’umano, un chiasso pedagogico equamente e correttamente distribuito fra programmi, programmazione, autonomia scolastica, personale insegnante e genitori.

Un mondo che si è svelato a poco a poco, e che, nella sua complessità ha dimensioni solo frammentarie, perché, nella scuola si è realizzato un processo di disumanizzazione. L’insegnamento è stato ridotto a disiecta fragmenta dalla didattica e dalla troppa pedagogia. Così, paradossalmente abbiamo una scuola iperattiva che non insegna più, ma espone nozioni che solo i più svegli, o i più seguiti a casa, fanno proprie.

Leggiamo poco, siamo volgari e ci perdiamo in celebrazioni ridicole, ci massifichiamo con felicità: siamo brutti, ma ci educano così fin da piccoli e la scuola fa la sua parte. La scuola bambinizza. La codificazione che si fa sistema, diventa semplificazione di tutto, della capacità di comprendere, di capire, di distinguere.

Il codice che diventa linguaggio formativo è coercizione; perché non rimanda al bagaglio della memoria, ma è azzeramento su cui, arbitrariamente si stabiliscono altri parametri di percezione.

“In tre anni ho lavorato in diverse scuole, sei plessi, trentun classi, cinquecentottanta bambini, un infinito numero di maestre e non so quanti disegni: non li ho mai contati, forse più di cinquemila. Tanti tantissimi, che preferisco non evocare perché mi disturbano il sonno, riaccendono il momento, rivivo la fatica e lo sfinimento entusiasta.” Con queste parole inizia il mio diario che in 27 capitoli ricostruisce il percorso dell’attività svolta; dalla presentazione dei progetti alla loro realizzazione. I temi sono legati ai luoghi, alle origini dei luoghi, alle parole dei “posti”che si fanno immagine, alla storia conosciuta o immaginata nelle sue umane manifestazioni, agli uomini, al lavoro e alle diverse percezioni nei tempi, all’ambiente come sillabario della memoria.

“Eppure alla fine di tutto, una stolidità caparbia si è imposta su quest’esperienza, che è stata letta solo nella sua fattibilità tecnica. Si è vista la realizzazione, la facilità dei modi, ma poca attenzione è stata prestata ai contenuti e soprattutto all’intento di fondo, che nei miei interventi è essenziale: l’educazione all’immagine. Immagine che è strumento di comprensione e conoscenza di ciò che siamo e di ciò che ci circonda.”

Lavorando fianco a fianco con le insegnanti ho condiviso la programmazione, interagito con le finalità didattiche, verificato quanto della società entra nella scuola. La stessa solitudine interattiva che caratterizza il nostro presente e che ci fa intervenire nei blog, ma ci impedisce una comunicazione diretta, nell’insegnamento diventa mancanza d’armonia. La scuola è come “un grande corpo con gli apparati funzionanti e in movimento ma con un difettoso circuito centrale. Come la creatura di Frankenstein, solo che nel nostro caso il mostro è più simile a quello di Mel Brooks, svagato e tenerone. Effetti involontari, nati accidentalmente dalla buona volontà e tanta voglia di fare.

C’è una scena in Frankenstein Junior, che è veramente esilarante, quando il Doctor e l’assistente scoprono il passaggio segreto che si apre sollevando una candela dal supporto a muro. Il Doctor che si ritrova imprigionato dall’altra parte, grida sillabando alla sua assistente “ri-met-ta a po-sto la can-de-la”, qualcosa non funziona e la porta continua a girare su se stessa, quando finalmente i due riescono a controllare il meccanismo, è l’assistente che  ritrovandosi imprigionata, dall’altra parte impartisce a sua volta l’ordine “ ri-met-ta a  po-sto la can-de-la”. Ecco, a volte, guardando i bimbi seduti davanti a me, mi aspetto che da un momento all’altro, si alzino e si rivolgano a noi usando a giorni alterni, solo parole che iniziano con la se, la da o la ta: “sedatavo”, come nel film.”

All’inizio di quest’avventura pedagogica mi è capitato un fatto sgradevole e grottesco, ma forse profetico. Una premonizione.

In una seconda, stavamo impostando il lavoro dei costumi e la maestra di turno voleva che una bimba rifacesse il disegno, perché a suo giudizio non era abbastanza bello, il foglio si era solo un po’ troppo spiegazzato e invitai la piccola a continuare. Dopo qualche minuto  mi accorsi che l’insegnante aveva gettato il lavoro nel cestino costringendola a rifarlo. Cercai in qualche modo di riparare, tranquillizzando la bimba e recuperando il lavoro ma al momento di lasciare la classe successe l’imprevedibile. Nell’alzarsi dal suo banco, la bimba pallida e ancora scossa ebbe un rigurgito e un conato di vomito violento e spaventoso si riversò  proprio nella direzione dell’insegnante sporcandole scarpe, gonna e borsa. Un vero colpo di scena!  In quel gesto c’era tutto quello che poi avrei visto giorno dopo giorno. L’insensibilità, il pressappochismo, l’esaltazione, la paccottiglia psico-pedagogica dei programmi, l’ambizione dei genitori, la competitività delle insegnanti, la vanità dei dirigenti scolastici, la fragilità dei bambini.

Miriam Ravasio

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Miriam Ravasio si occupa di educazione all’immagine nelle scuole; un lavoro a cui è arrivata "per caso", dopo una vita dedicata alla moda e alla ricerca di immagini per abiti, tessuti e ricami. L’impatto con la scuola, e in particolare, con il frastuono pedagogico  della didattica, è stato così forte e violento da indurla a scrivere (cosa in cui sono assolutamente un’autodidatta). Ha scritto un manuale dove racconta la sua esperienza. Alcuni capitoli sono stati pubblicati da Nanni Balestrini e Maria Teresa Carbone sul sito di  Raizoom, 2002/2003. Sono capitoli divisi per tema che ricostruiscono tre anni di lavoro intenso, molto particolare e "irripetibile". C’é la scuola, l’universo infantile, il fragore sociale che  dirompe nella didattica e nei rapporti, riflessioni sull’arte, sulle sue letture, pensieri pedagogici, morali.

L’articolo qui pubblicato trae spunto dal suddetto manuale.

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martedì, 23 gennaio 2007

A TEMPO DI ROCK (racconto di Alejandro Torreguitart Ruiz – traduz. Gordiano Lupi)

Alejandro Torreguitart Ruiz è un giovane scrittore cubano che ha già pubblicato in Italia un romanzo con Stampa Alternativa (Machi di carta, 2003), la sua ultima opera è Vita da jinetera (Il Foglio, 2005). Nel corso del 2007 pubblicherà il romanzo erotico Casa particular – Sesso all’Avana per Stampa Alternativa. Ho tradotto questo suo recente racconto che è molto indicativo della attuale situazione cubana.

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Gordiano Lupi

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A TEMPO DI ROCK

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El Barrio è al gran completo per le prove che si tengono alla Casa della Cultura di Guanabacoa. Paco dice che vuole preparare un concerto, ma una cosa diversa dal solito, una cosa importante…

“Questa volta facciamo musica rock”.

“Guarda che suoniamo alla Casa della Cultura” ribatto.

“Mi sono rotto le palle di salsa e merengue….”

Paco canta come pochi ed è lui che scrive testi e musica per il gruppo. Sceglie canzoni, raccoglie vecchi ritmi, seleziona il materiale. El Barrio non esisterebbe senza Paco. Però da un po’ di tempo a questa parte gli è presa una fissa rockettara che non mi piace per niente, ché può creare qualche problema. Il rock è musica deviazionista, pure se adesso fanno i finti tolleranti e hanno messo una statua di John Lennon in Centro Avana, quella che gli hanno rubato gli occhiali, che poi cosa se ne faranno di un pezzo di bronzo mica lo so. 

“Paco, lo sai come funziona alla Casa della cultura. Son, merengue, salsa, tanto tanto bachata e regettón, allargati a qualche bolero, ma la musica dev’essere nazionale. Se no s’incazzano…”

“Che s’incazzino. Io ce n’ho le palle piene di questa salsa”.

“Sì, ma non te lo far sentir dire…”

Alla fine arrivano pure Manuel e Armando che dicono la loro.

“Paco, non ci stai con la testa. Che t’è preso?”

“Proprio ora ti fai venire la fissa del rock? Ma ti pare il momento?”

Pablo suona la chitarra in un angolo e scuote la testa. Sorride. Imita la voce di un commentatore televisivo, uno con due baffoni neri spioventi che pare un pistolero messicano: “La Rivoluzione è sempre più solida e forte. Cinque controrivoluzionari arrestati mentre suonano Cat Stevens alla Casa della Cultura di Guanabacoa. Le condizioni di salute del Comandante sono in via di miglioramento. Presto tornerà a guidare il suo popolo contro gli imperialisti”. 

Paco si convince. Forse comprende che non è il caso.

“Un pezzo però te lo facciamo fare. Nascosto in mezzo a parecchio son tradizionale alla Benny Moré. Magari Lou Reed che mica parla di politica, canta in inglese… tu cerca di darlo poco a vedere…” dico.

“Grazie. Tu mi capisci. Non posso fare il musicista se mi dicono sempre cosa devo suonare. Devo sentirmi libero…” risponde.

Eh sì, Paco. Magari fosse solo questo il problema. Magari ti dicessero solo che musica devi suonare. Qui ti criminalizzano la vita e come prendi un’iniziativa fai qualcosa di illegale. Se vivi secondo la legge muori di fame. Hanno ridotto le pagine alla tessera del razionamento alimentare, tanto mica servivano tutti quei fogli bianchi per un po’ di riso e due sacchetti di fagioli. Se non c’è chi ti manda denaro dall’estero non sopravvivi. Altro che musica, Paco. 

Queste cose le penso soltanto, però. Mica le posso dire a voce alta. Siamo dentro la Casa della Cultura di Guanabacoa e anche le mura hanno orecchie. I chivattones sono a ogni angolo. Spie del regime che ti vendono per un piatto di riso e fagioli e dopo son cazzi da cacare. Finisci dentro e chi ti rivede. Soprattutto adesso che Lui non c’è più e il suo posto l’ha preso uno Speedy Gonzales un po’ frocio, uno che i coglioni li ha tirati fuori solo per mandare i ragazzi a far la guerra in Angola. In che mani siamo finiti…

“Sentirsi libero. E questa cosa da quando t’è venuta?”.

“Non so. Credo che sia importante poter fare delle scelte”.

È importante sì, caro Paco. Solo che qui non le abbiamo mai fatte. C’è chi decide per noi. Forse è meglio suonare, guarda, pure se ci chiedono la solita musica di sempre, ché tanto di Arturo Sandoval ce n’è stato uno, El Barrio non cambierà la storia della musica cubana. Forse è meglio suonare, guarda. Basta che non venga fuori il solito italiano stronzo a chiedere Hasta siempre, ché un giorno o l’altro la batteria gliela suono sulla testa a questi comunisti che sanno un cazzo cos’è il comunismo. 

“Paco, noi facciamo le nostre scelte. Sarà un gran concerto, credi a me. Salsa a tempo di rock. Musica vera” dico.

“Non mi prendere per il culo, Alejandro”.

Sorrido. Provo la batteria e pesto con forza sui piatti di ottone per sfogare la rabbia che tengo dentro. No che non ti prendo per il culo, Paco. Sapessi quanta gente c’è in giro che ci prende per il culo. Juliana se n’è andata e adesso dice che vive da signora, le manca la sua terra ma può fare quello che vuole, muore di nostalgia ma non deve andare alle parate organizzate dal partito in Piazza della Rivoluzione, ha una casa e una famiglia e non deve fare la puttana per campare. Non sono io che ti prendo per il culo, caro Paco.

I nostri sguardi valgono più di tante parole.

“Attacca Alejandro” mi fa.

“Attacco Paco” rispondo.

E si parte.

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Alejandro Torreguitart Ruiz

17 gennaio 2007


Alejandro Torreguitart Ruiz (L’Avana, 1979) scrive poesie e racconti per la rivista El Barrio, è poeta repentista e cantautore. Suona in un gruppo rock chiamato El Barrio. Ha esordito in Italia con Machi di carta – confessioni di un omosessuale (Stampa Alternativa, 2003) che ha avuto un buon successo di critica e di pubblico. A gennaio 2004 ha pubblicato il romanzo breve La Marina del mio passato (Edizioni Nonsoloparole – Napoli) e a maggio 2005 il romanzo di ampio respiro Vita da jinetera (Il Foglio – Piombino) sul mondo della prostituzione. Nel corso del 2007 uscirà per Stampa Altrnativa il romanzo erotico Casa particular – Sesso all’Avana, storia di vita quotidiana nella Cuba del periodo speciale tra jineterismo e arte di arrangiarsi. Sono in attesa di pubblicazione i Bozzetti avaneri, una raccolta di racconti che non sono racconti e il romanzo fantastico Mister Hyde all’Avana. Alcuni suoi racconti di impronta politico-esistenziale sono stati pubblicati da quotidiani e riviste. Tra questi: Il Tirreno, Il Messaggero, La Comune, Container, Progetto Babele, Il Filo, L’Ostile, Happy Boys. Gordiano Lupi è il traduttore e il titolare per lo sfruttamento dei diritti sulle sue opere in Italia e per l’Europa.

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Gordiano Lupi (Piombino, 1960). Direttore Editoriale delle Edizioni Il Foglio. Ha tradotto i romanzi del cubano Alejandro Torreguitart Ruiz: Machi di carta (Stampa Alternativa, 2003), La Marina del mio passato (Nonsoloparole, 2003) e Vita da jinetera (Il Foglio, 2005). I suoi lavori più recenti sono: Nero Tropicale (Terzo Millennio, 2003), Cuba Magica – conversazioni con un santéro (Mursia, 2003), Cannibal – il cinema selvaggio di Ruggero Deodato (Profondo Rosso, 2003), Un’isola a passo di son – viaggio nel mondo della musica cubana (Bastogi, 2004), Quasi quasi faccio anch’io un corso di scrittura (Stampa Alternativa, 2004 – due edizioni in un anno), Orrore, erotismo e pornografia secondo Joe D’Amato (Profondo Rosso, 2004), Tomas Milian, il trucido e lo sbirro (Profondo Rosso, 2004), Serial Killer italiani (Editoriale Olimpia, 2005), Nemici miei (Stampa Alternativa, 2005), Le dive nude – vol. 1 – il cinema di Gloria Guida e di Edwige Fenech (Profondo Rosso, 2006) e – in collaborazione con Fabio Zanello – Il cittadino si ribella: il cinema di Enzo G. Castellari (Profondo Rosso, 2006).  Il suo ultimo libro è il saggio Almeno il pane Fidel – Cuba quotidiana (Stampa Alternativa, 2006). Pagine web: www.infol.it/lupi. E-mail per contatti: lupi@infol.it *

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lunedì, 22 gennaio 2007

INSEGNARE SCRITTURA CREATIVA (di Antonella Cilento)

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Si può imparare a scrivere un racconto? Come si costruisce un romanzo? Queste sono alcune delle domande chiave che in quattordici anni di insegnamento continuano ad essermi rivolte, ad ogni inizio di corso: è davvero possibile insegnare a scrivere? La risposta è semplice: certo, si può insegnare ad inventare, anche se nessuna seria scuola di creative writing potrà mai promettervi che “diventerete” scrittori. Una cosa è andare in palestra, un’altra è vincere le olimpiadi: ma nessuno di noi rinuncia a tenersi in esercizio perché non può competere con Yuri Chechi. E non c’è allievo di corso che non possa testimoniare un serio miglioramento delle proprie capacità al termine dell’esperienza.

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Antonella Cilento

Se è vero che il talento, quello che porta Yuri Chechi a vincere, non può essere insegnato, è però un fatto concreto che l’allenamento, i trucchi e gli strumenti della narrativa, come quelli della poesia, non solo possono ma sono da sempre stati trasmessi nel mondo occidentale, dagli antichi corsi di retorica fino ai corsi di creative writing, che si tengono con sistema, da oltre un secolo, in Stati Uniti, Europa e Giappone.

Esiste, tuttavia, nel nostro paese un diffuso e antico pregiudizio di ascendenza crociana, o più latamente romantica, che consiste nel considerare le arti del racconto e quelle della poesia come frutto di alata ispirazione e fulminante genio e dunque svalutando le funzioni dell’apprendimento, della crescita e della bottega della scrittura. In un paese di santi, poeti e navigatori com’è l’Italia è poi assai facile che la maggior parte delle persone, avendo una media competenza di lettura e scrittura, si ritenga invece automaticamente in grado di narrare o versificare.

Bisogna invece ricordare, e segnalare, che, spesso al di là dei gravi vuoti o delle approssimazione della formazione scolastica pubblica, scrivere è un’arte. E che, dunque, come tale, è, prima di diventare letteratura, una forma di artigianato sofisticatissimo: non ci sogneremmo di suonare uno strumento senza conoscere la musica, di danzare senza training, di dipingere senza studi. Allo stesso modo la scrittura d’invenzione prevede una pratica di bottega fatta di confronto, riscrittura, letture e prove.

Ovviamente, non basta saper scrivere libri per insegnare a scrivere. Esistono numerose didattiche della narrazione in Italia, variamente praticate, e se chi partecipa a un corso di scrittura può non essere in possesso del famoso talento, ma arrivare a stimolare immaginazione e creazione con metodi opportuni, chi, invece, possiede una potenzialità se non si allena e non apprende rischia di perdere ai punti qualsiasi incontro, se consideriamo un racconto come un match.

Non c’è scrittore americano che non abbia avuto un maestro nelle università, a sua volta scrittore, da James Gardner a Raymond Carver, da Paul Auster a Jay McInerney, e si può ormai dire questo, senza imbarazzanti paragoni, anche di molti autori italiani di recente generazione, nonostante l’insegnamento della scrittura sia praticato in larga parte dagli scrittori al di fuori delle strutture pubbliche, in scuole private o in corsi di formazione scolastici extracurricolari. Adesso, bisognerebbe convincere le università italiane ad assumere gli scrittori: accadrà? Staremo a vedere…

Antonella Cilento

http://www.lalineascritta.it/

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Antonella Cilento (Napoli, 1970), ha pubblicato Il cielo capovolto (Avagliano, 2000), Una lunga notte( Guanda, 2002), Non è il Paradiso (Sironi, 2003), Neronapoletano (Guanda, 2004), L’amore, quello vero (Guanda, 2005), Napoli sul mare luccica (Laterza, 2006).

Una lunga notte ha vinto il Premio Fiesole e il Premio Viadana, è stato finalista al Premio Greppi e al Premio Vigevano. E’ tradotta in Germania dalla Bertelsmann. E’ stata finalista al Premio Calvino 1998 con il romanzo inedito Ora d’aria. Ha pubblicato numerosi racconti su riviste.

*

Conduce laboratori di scrittura dal 1993 a Napoli e in Campania, dal 2002 in tutt’Italia.

Ha realizzato:

per Cento Lire, a cura di Lorenzo Pavolini, i racconti radiofonici intitolati "Voci dal silenzio" (RAI, Radio Tre, 15-19 gennaio 2001). Attualmente, collabora con "Il Mattino", "L’Indice dei libri del mese". Dal 1998 al 2000 ha collaborato con il "Corriere del Mezzogiorno"(supplemento del Corriere della Sera), nel 2003 con "Il sole 24 Ore Sud", nel 2005 con "Il Riformista". Si è laureata nel 1995 in Lettere Moderne con una tesi intitolata La scrittura di Pier Vittorio Tondelli vincitrice presso la Biblioteca Comunale di Correggio del Premio Tondelli 1999.

Ha scritto la sceneggiatura del corto "Il martirio di Sant’Orsola" per la regia di Mario Martone e Sandro Dionisio (Banca Intesa, 2005). E’ presidente dell’ass. cult. Aldebaran Park con la quale organizza convegni, rassegne autoriali, spettacoli.
Ha organizzato vari convegni, conferenze e seminari culturali e letterari.

Per il teatro, scrive:

"Isole senza mare: omaggio ad A.M. Ortese ed Elsa Morante", 1999 in scena al Teatro Leopardi, Napoli, regia di Cristiana Liguori, interpreti Cristiana Liguori e Giorgia Palombi; "Bambini nel tempo" da I. Mc Ewan, 2000 in scena al Mezzoteatro di Napoli, al Teatro Nuovo di Salerno, regia di Paolo Oliveri e Giorgia Palombi, interpreti Paolo Oliveri e Luana Di Sarno; "Il funambolo" omaggio a J. Genet, 2001, Teatro Garage Genova, Galleria Toledo Napoli, Teatro Colosseo Roma, in tournée attualmente, realizzato con la regia di Laura Sicignano da un’idea di Iole Cilento, interpreti Marco Pasquinucci e Massimiliano Caretta). "Frankenstesin Barausz" di Laura Sicignano e A. Cilento, 2002, Teatro Cargo, Genova. "Ho visto Don Chisciotte", regia e ideazione di Giancarlo Cosentino, in scena al Teatro Diana, Napoli, 2003.

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domenica, 21 gennaio 2007

L’OMBRA E LA PENNA (di Antonella Cilento)

Ho il piacere di presentarvi una nuova rubrica che sarà gestita da Antonella Cilento: scrittrice, critica letteraria e insegnante di scrittura creativa. Vi dico subito che sono molto onorato di poter ospitare Antonella che considero, tra le scrittrici delle ultime generazioni, una delle più brave. (Massimo Maugeri)

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Antonella Cilento
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Si scrive per inseguire la propria ombra, come racconta Margaret Atwood. Si scrive contro la morte, come dice Rosa Montero.

Scrivere è la più misteriosa delle sorti, ma come ogni destino prevede una pratica e un allenamento. Senza preghiera non c’è devozione. Senza palestra non si arriva al ring. Questo che state per leggere è un piccolo spazio dedicato alla scrittura, che è il mio scopo di vita, e al suo insegnamento, che da quattordici anni pratico come mestiere soprattutto a Napoli, nei corsi de Lalineascritta (www.lalineascritta.it), occasionalmente a Bolzano (www.upad.it Scuola di scrittura Le Scimmie) e poi in scuole, laboratori, librerie di mezz’Italia.

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Antonella Cilento (Napoli, 1970), ha pubblicato Il cielo capovolto (Avagliano, 2000), Una lunga notte( Guanda, 2002), Non è il Paradiso (Sironi, 2003), Neronapoletano (Guanda, 2004), L’amore, quello vero(Guanda, 2005).

Una lunga notte ha vinto il Premio Fiesole e il Premio Viadana, è stato finalista al Premio Greppi e al Premio Vigevano. E’ tradotta in Germania dalla Bertelsmann. E’ stata finalista al Premio Calvino 1998 con il romanzo inedito Ora d’aria. Ha pubblicato numerosi racconti su riviste.

Conduce laboratori di scrittura dal 1993 a Napoli e in Campania, dal 2002 in tutt’Italia.

Ha realizzato:

per Cento Lire, a cura di Lorenzo Pavolini, i racconti radiofonici intitolati "Voci dal silenzio" (RAI, Radio Tre, 15-19 gennaio 2001). Attualmente, collabora con "Il Mattino", "L’Indice dei libri del mese". Dal 1998 al 2000 ha collaborato con il "Corriere del Mezzogiorno"(supplemento del Corriere della Sera), nel 2003 con "Il sole 24 Ore Sud", nel 2005 con "Il Riformista". Si è laureata nel 1995 in Lettere Moderne con una tesi intitolata La scrittura di Pier Vittorio Tondelli vincitrice presso la Biblioteca Comunale di Correggio del Premio Tondelli 1999.

Ha scritto la sceneggiatura del corto "Il martirio di Sant’Orsola" per la regia di Mario Martone e Sandro Dionisio (Banca Intesa, 2005). E’ presidente dell’ass. cult. Aldebaran Park con la quale organizza convegni, rassegne autoriali, spettacoli.
Ha organizzato vari convegni, conferenze e seminari culturali e letterari.

Per il teatro, scrive:

"Isole senza mare: omaggio ad A.M. Ortese ed Elsa Morante", 1999 in scena al Teatro Leopardi, Napoli, regia di Cristiana Liguori, interpreti Cristiana Liguori e Giorgia Palombi; "Bambini nel tempo" da I. Mc Ewan, 2000 in scena al Mezzoteatro di Napoli, al Teatro Nuovo di Salerno, regia di Paolo Oliveri e Giorgia Palombi, interpreti Paolo Oliveri e Luana Di Sarno; "Il funambolo" omaggio a J. Genet, 2001, Teatro Garage Genova, Galleria Toledo Napoli, Teatro Colosseo Roma, in tournée attualmente, realizzato con la regia di Laura Sicignano da un’idea di Iole Cilento, interpreti Marco Pasquinucci e Massimiliano Caretta). "Frankenstesin Barausz" di Laura Sicignano e A. Cilento, 2002, Teatro Cargo, Genova. "Ho visto Don Chisciotte", regia e ideazione di Giancarlo Cosentino, in scena al Teatro Diana, Napoli, 2003.

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domenica, 21 gennaio 2007

CLASSIFICA DALL’8 AL 14 GENNAIO 2007

Ecco la classifica dei venti libri più venduti (fonte: Arianna) dall’ 8 al 14 gennaio 2007.

Gomorra di Saviano ancora in testa, seguito da Il cacciatore di aquiloni.

Segnalo “La scomparsa dei fatti. Si prega di abolire le notizie per non disturbare le opinioni” (appena entrato in top ten)

Il post è aperto per vostri (eventuali) commenti

Titolo

Autore

Editore

Prezzo

1

Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra

Roberto Saviano

Mondadori

15,50

2

Il cacciatore di aquiloni

Khaled Hosseini

Piemme

17,50

3

Rivergination

Luciana Littizzetto

Mondadori

15,00

4

Inchiesta su Gesù. Chi era l’uomo che ha cambiato il mondo

Corrado Augias; Mauro Pesce

Mondadori

17,00

5

Le ali della sfinge

Andrea Camilleri

Sellerio di Giorgianni

12,00

6

Stagioni

Mario Rigoni Stern

Einaudi

10,80

7

Fuori da un evidente destino

Giorgio Faletti

Baldini Castoldi Dalai

18,90

8

La scomparsa dei fatti. Si prega di abolire le notizie per non disturbare le opinioni

Marco Travaglio

Il Saggiatore

15,00

9

Innocente. Una storia vera

John Grisham

Mondadori

18,60

10

Ragionevoli dubbi

Gianrico Carofiglio

Sellerio di Giorgianni

12,00

11

Eragon. L’eredità. Vol. 1

Christopher Paolini

Fabbri

18,90

12

Navigando a vista

Gore Vidal

Fazi

17,50

13

Donne informate sui fatti

Carlo Fruttero

Mondadori

16,50

14

Testimone inconsapevole

Gianrico Carofiglio

Sellerio di Giorgianni

11,00

15

L’ombra del vento

Carlos Ruiz Zafon

Mondadori

12,00

16

Il mio nome è rosso

Orhan Pamuk

Einaudi

11,80

17

Ad occhi chiusi

Gianrico Carofiglio

Sellerio di Giorgianni

10,00

18

Io sono di legno

Giulia Carcasi

Feltrinelli

11,00

19

Inés dell’anima mia

Isabel Allende

Feltrinelli

17,00

20

Sull’amore. Innamoramento, gelosia, eros, abbandono. Il coraggio dei sentimenti

Paolo Crepet

Einaudi

12,50

di Marco Travaglio che entra in top ten in ottava posizione.

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giovedì, 18 gennaio 2007

CLASSIFICHE DI LIBRI E MONTALE (SECONDO TRA GLI ULTIMI)

Quando acquisto il Domenicale de Il Sole-24Ore una delle prime cose che faccio è andare alla ricerca della rubrica Ex Libris di Stefano Salis. Seguo questa rubrica con interesse costante perché Salis riesce, tra le altre cose, a informare in maniera sintetica ed efficace sulle evoluzioni o involuzioni del mercato editoriale (nostrano ed estero). Sul numero del 17 dicembre 2006, per esempio, scopro che Montale (il nostro Montale) è stato uno degli autori meno venduti in Germania nell’arco del 2006. Vi riporto uno stralcio dell’articolo:

« (…) Ci sono poi le classifiche di vendita. E quelle sono un po’ più serie, perché “fanno” il mercato molto più del gusto dei letterati. E lo conferma, ahinoi, una singolare classifica pubblicata ieri dalla “Faz” (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Il gioco è stato fatto al contrario: quali sono i libri meno venduti dell’anno? E quando hanno venduto? I risultati sono desolanti. In cima alla “s-classifica” ben due italiani. Nientemeno che Eugenio Montale, che nel 2006 in Germania ha venduto appena 14 copie della raccolta delle sue poesie. Peggio ha fatto solo l’autrice scozzese (ma toscana d’adozione…) Muriel Spark,il cui romanzo Loitering with Intent del 1981 ha trovato solo 6 acquirenti. Dopo Montale ecco Stefano Benni. Con Saltatempo ha venduto ben due copie in più del poeta e si è piazzato al terzo posto dei Worstseller ».

Eugenio Montale

Avete capito? L’autore di Ossi di seppia, vincitore del Premio Nobel per la Letteratura nel 1975, è il secondo dei più non-venduti in Germania per il 2006. Solo 14 sfigati (?) hanno acquistato la raccolta delle sue poesie. E Benni avrà di che consolarsi dall’alto (in questo caso dal basso) delle sue 16 copie vendute. E già qui ci sarebbe un po’ da riflettere…

E ancora di classifiche parla Ex Libris sul Domenicale del 7 gennaio 2007: « (…) Abbiamo spesso ripetuto che l’affidabilità delle classifiche è condizionata dal fatto che i campioni (di rilevamento) penalizzano i campioni (di vendita). Lo conferma una conversazione con l’editore Alessandro Dalai. “Faletti ha venduto 770mila copie, è in rottura di stock e le richieste continuano. Eppure risulta solo al settimo posto”, dietro Gomorra che dovrebbe aver venduto circa 450mila copie. Come mai? “Le classifiche – dice Dalai – non rilevano la grande distribuzione, dove Faletti ha venduto quasi 400mila copie, più della metà del totale”, cosicché le vendite di Fuori da un evidente destino sono, in proporzione, per il tempo di vendita, superiori a quelle di Io uccido

Nel frattempo Tuttolibri del 13 gennaio pubblica la classifica dei cento libri (cliccando potrete scaricare il file in pdf) più venduti nel 2006 secondo le rilevazioni Demoskopea. Ecco i primi dieci:

1.     Harry Potter e il principe mezzosangue, Rowling, (Salani)

2.     Il cacciatore di aquiloni, Hosseini, (Piemme)

3.     Ho voglia di te, Moccia, (Feltrinelli)

4.     Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra, Saviano, (Mondadori)

5.     La fine è il mio inizio. Un padre racconta al figlio il grande viaggio della vita, Terzani, (Longanesi)

6.     La vampa d’agosto, Camilleri, (Sellerio)

7.     Fuori da un evidente destino, Faletti, (Baldini Castoldi Dalai)

8.     Inchiesta su Gesù, Augias-Pesce, (Mondadori)

9.     Rivirgination, Littizzetto, (Mondadori)

10.       Le ali della sfinge, Camilleri, (Mondadori)

Sul Domenicale del 14 gennaio (pag. 38) Salis riprende il "discorso classifiche":

« (…) La pubblicità dei libri, fateci caso, sull’aspetto numerico punta moltissimo, se non tutto. Come a dire: “di questo libro ne abbiamo vendute tot copie; dunque non potete non leggerlo”. (…) Ma la confusione, purtroppo, regna sovrana anche tra gli addetti. (…) In Inghilterra le classifiche dei libri riportano la data di pubblicazione del libro e, soprattutto, le unità vendute. Cioè dei numerini nudi e crudi. Che fanno effetto; buono o cattivo. E che ci ricordano che la matematica non è un’opinione. Nonostante che in campo editoriale si faccia di tutto per farla sembrare tale. »

(Sulla stessa pagina compaiono interessanti dichiarazioni di Stefano Mauri e Alessandro Dalai: presidenti del Gruppo GeMS, il primo, e della Baldini Castoldi Dalai, il secondo).

Mi viene da domandarmi (e giro le domande a voi amici scrittori, lettori e librai):

1. Ma davvero – e fino a che punto – le classifiche di vendita “fanno” il mercato?

2. Ma a cosa e a chi serve una classifica dei libri meno venduti?

Poi ci sarebbe una terza domanda. Non sarebbe più interessante una classifica dei libri più letti (piuttosto che dei più venduti)? Alcuni dei libri acquistati rimangono sugli scaffali delle librerie di famiglia a prendere polvere, senza nemmeno essere sfogliati. Altri invece passano di mano in mano: dal padre al figlio, dal fratello alla sorella, dall’amico al conoscente. Sono i libri “vissuti”. Quelli che hanno (o che avrebbero) una loro storia da raccontare per il sol fatto di esser stati compulsati e letti da diverse persone.

Una classifica dei libri più letti… Credo sia impossibile realizzarla (a meno che non ci si accontenti di proiezioni statistiche su campioni di lettori, sperando nella veridicità degli intervistati e nell’efficienza dei campionamenti).

Però… come sarebbe bello se ci fosse!

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mercoledì, 17 gennaio 2007

ANCORA MCEWAN…

Ancora Ian McEwan sotto la luce dei riflettori.

Poco tempo fa, se lo ricordate, abbiamo avuto modo di discutere di McEwan e di un presunto caso di plagio di cui l’illustre scrittore era stato accusato (se non ricordate cliccate qui).

Stavolta la notizia, per certi versi, è ancora più clamorosa.

Appare dal nulla un fratello segreto di Ian McEwan.

Proprio così: da romanzo d’appendice.

Ian McEwan

Leggete qui (da Repubblica.it di oggi 17 gennaio 2007):

«Per vent’anni hanno vissuto a pochi chilometri l’uno dall’altro, tra Oxford e Wallingford, in Inghilterra, ignorando la propria esistenza. Poi il colpo di scena, da vita che insegue la letteratura: lo scrittore pluripremiato Ian McEwan ha scoperto di avere un fratello, che oggi ha 64 anni, di cui non aveva mai sentito parlare.

Quella che oggi raccontano tutti i quotidiani britannici è una storia di amore, abbandono e ritrovamento. David Sharp, il fratello maggiore dell’autore di "Bambini nel tempo" ed "Espiazione", per citare solo alcune delle sue opere più famose, è figlio di Rose Wort. La donna, mentre il marito era in guerra, aveva avuto una storia clandestina con David McEwan ed era rimasta incinta: aveva così deciso di affidare il bambino ad altri, prima del ritorno del marito. Così il piccolo David venne dato a una coppia, Rose e Percy Sharp, quando aveva appena un mese. (…) Ma il marito di Rose non fece mai ritorno dalla Normandia e nel 1947 Rose Wort sposò McEwan: l’anno dopo nacque Ian. (…) A rivelare il segreto a David (…) è stata una vecchia zia. (…) Un bello choc per David Sharp scoprire che il misterioso fratello era uno scrittore di fama internazionale. Lui non aveva idea di chi fosse fino al loro primo incontro in un pub. Ha cominciato ad avere qualche sospetto quando, all’uscita dal locale, sono stati circondati dai fan di McEwan in cerca di un autografo. (…)

Dopo tante emozioni anche Sharp, che fa il muratore, ha deciso di cimentarsi nella scrittura. Metterà la sua storia nero su bianco, ma per scriverla ha bisogno di aiuto. Non l’ha chiesto a suo fratello, ma al ghost writer John Parker. »

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Bello vero?

Visto che in questi giorni torna in onda (ma basta!) la nuova edizione del reality storico che fece la fortuna di Taricone, rispetto al caso sopra esposto verrebbe da dire: signore e signori… dopo McEwan e il plagio, ecco a voi McEwan e il Grande fratello!

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martedì, 16 gennaio 2007

DUE VIAGGI CINEMATOGRAFICI (di Gabriele Montemagno)

Un viaggio può rappresentare, nella vita di ciascuno, un’occasione ottimale per conoscere e incontrare gli altri e ciò che è diverso da noi; ma anche per conoscersi. Quel senso di precarietà che si insinua in ogni viaggio (breve o lungo che sia), a causa della momentanea lontananza dal luogo nel quale viviamo e che conosciamo, e dalle persone con cui abitualmente trascorriamo il nostro tempo, ci può rendere più sensibili a farci coinvolgere dall’altro e a misurarci con noi stessi e la nostra identità. Queste semplici considerazioni sul viaggio sono state stimolate in me dalla visione di due recenti film italiani usciti all’inizio della stagione 2006-2007: Nuovomondo di Emanuele Crialese e La stella che non c’è di Gianni Amelio, entrambi, registi di origine meridionale.

Una famiglia di poveri contadini che parte, all’inizio del Novecento, da un paesino povero della Sicilia profonda, per andare in America in cerca di una vita migliore, è la protagonista della pellicola di Crialese. Amelio, invece, filma le peripezie di un ingegnere italiano nella Cina contemporanea, perché spinto dal senso del dovere che gli impone di dover sostituire un pezzo difettoso di un altoforno, venduto ai cinesi e da lui stesso progettato. Due film, due viaggi, ambientati in tempi e contesti diversi: l’emigrazione verso l’America nel primo Novecento e la Cina dei giorni nostri che si affaccia prepotentemente nell’economia mondiale. Due storie che sembrano incrociarsi fra loro e poi allontanarsi. Se infatti, in entrambe, i protagonisti appaiono desiderosi di partire e carichi di fiducia, al loro arrivo dovranno fare i conti con la nuova realtà dei paesi in cui giungono. Infatti, la famiglia siciliana, dopo il definitivo allontanamento dalla sua Sicilia e l’avventuroso viaggio, pur pervenendo in un freddo e labirintico centro accoglienza immigrati di Ellis Island, retto da poliziotti, medici e assistenti che agiscono come tanti burocrati, permane pienamente salda ai propri valori e identità; invece il povero ingegnere sembra comprendere la propria pochezza e piccolezza e finisce per perdere ogni suo riferimento interiore. La Cina gli appare così vasta, multiforme e intenta ad inseguire lo sviluppo, da non curarsi dei traumi provocati da una (modernissima) alienazione, simboleggiata da palazzoni-alveari che svettano folti nelle sue fredde e grigie megalopoli. Questa Cina lo coinvolgerà, sconvolgendolo profondamente nell’animo e negli affetti.

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lunedì, 15 gennaio 2007

BORIS PASTERNAK PREMIATO DALLA CIA?

È la notizia letteraria del giorno.

C’è chi sostiene che la Cia abbia messo lo zampino per far vincere il premio Nobel per la letteratura a Boris Pasternak autore del Dr. Zivago. Il motivo? Semplicemente mettere in imbarazzo il Cremlino durante la Guerra Fredda.

Boris Pasternak

Vi propongo l’articolo scritto su Repubblica di oggi (15 gennaio 2007) da Enrico Franceschini.

Ecco qualche stralcio:

« Un aereo con un prezioso manoscritto a bordo fa scalo a Malta. Con una scusa viene bloccato per due ore sulla pista. Agenti della Cia e del servizio segreto britannico approfittano della pausa per aprire una valigia, estrarre il manoscritto, fotocopiarlo, e rimetterlo al suo posto. Il premio Nobel per la letteratura a Boris Pasternak sarebbe stato ottenuto anche grazie a questa operazione, sostiene un ricercatore russo, Ivan Tolstoj (nessuna parentela con l’autore di "Guerra e pace"), che ha appena pubblicato a Mosca un libro sull’argomento, "Il romanzo riciclato", riferiva ieri il Sunday Times.

(…)

Il romanzo fu pubblicato da Feltrinelli a Milano nel 1957, Pasternak vinse il Nobel l’anno seguente (…). Interpellato da Repubblica, suo figlio Carlo commenta: "E’ noto che la Cia ed altri favorirono operazioni di pirateria del libro, ma non c’era bisogno di questo per far vincere il Nobel a Pasternak", visto che comunque esisteva l’edizione in russo fatta stampare da suo padre. La Cia e il "James Bond" britannico a Malta, probabilmente, cercavano soltanto di diffondere l’opera di un dissidente russo, per imbarazzare l’Urss. Si stavano scrivendo i primi capitoli di un altro libro, che sarebbe durato mezzo secolo: il gran "giallo" della Guerra Fredda. »

Però il dubbio sorge. Da esso la domanda (domanda non nuova, per la verità): il premio Nobel per la letteratura è solo il premio letterario più importante e noto del mondo o è anche un premio letterario/politico?

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domenica, 14 gennaio 2007

FOTOGRAMMI IMPRESSI (di Gabriele Montemagno)

Cari amici, Gabriele Montemagno è un critico cinematografico che scrive su alcune riviste/magazine.

Gabriele gestirà qui a Letteratitudine una rubrica di cinema e letteratura che si chiamerà, appunto, "Fotogrammi impressi).

Vi lascio alla seguente nota di benvenuto firmata da Gabriele.

(Massimo Maugeri)

Fotogrammi impressi

Fotogrammi impressi nella pellicola, come le parole nelle pagine di un libro. E come le parole scritte ci possono restare impresse nella memoria, così anche i fotogrammi, le immagini di un film. Che, spesso, mantengono in vita il ricordo dei film visti e le sensazioni che hanno comunicato. 

Salve a tutti! Mi chiamo Gabriele Montemagno e, periodicamente, vi scriverò di film presenti, passati e… futuri.  Spero, carissimi lettori-cinefili, di poter vedere anche vostri commenti e/o interventi, che non faranno altro se non arricchire questo spazio cinematografico di Letteratitudine.

Non mi resta che ringraziare il caro Massimo Maugeri e voi tutti che vorrete dare un’occhiata. E adesso… motore, azione, ciak…

Benvenuti in Fotogrammi impressi!!

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venerdì, 12 gennaio 2007

INIZIATIVE “LETTERARIOBARBARICHE?” CRESCONO…

Sul fatto che Internet abbia rivoluzionato il nostro mondo non c’è alcun dubbio!

Vi segnalo un articolo apparso oggi (12 gennaio 2007) sul quotidiano Repubblica dove si parla di un singolare e, per certi versi, rivoluzionario concorso letterario proposto negli States. Notate bene che, nell’articolo, l’iniziativa viene commentata in questo modo: "Ora la traballante industria del libro propone la sua trovata populista".

Che sia il primo segnale di (consentitemi di parafrasare il titolo del più recente libro di Baricco) una nuova invasione barbarica in campo letterario?

I barbari

Ecco di che si tratta:

"La Touchstone, un marchio della Simon & Schuster, promette di pubblicare il libro di un autore inedito vincitore del concorso bandito su Gather.com, un sito di contatti personali.
Il concorso, che si chiama "Primi Capitoli" sarà presentato ufficialmente giovedì. Gli scrittori inediti possono partecipare sottoponendo il manoscritto di un loro romanzo. Tutti i primi capitoli delle opere partecipanti saranno pubblicati su Gather.com e votati dai frequentatori del sito. Nella tappa successiva, sarà pubblicato il secondo capitolo dei migliori 20 manoscritti, che verranno votati; in un secondo tempo sarà pubblicato, e votato, il terzo capitolo dei primi 10 classificati. Nel quarto ed ultimo passaggio, l’intero manoscritto dei cinque finalisti sarà sottoposto al giudizio della Commissione giudicatrice del gran premio. (…) Il vincitore avrà in premio un contratto editoriale con la Touchstone e 5.000 dollari da Gather.com.
Il vincitore sarà uno scrittore inedito potenzialmente in grado di portare alla Simon & Schuster migliaia di fan. "

Sulla stessa pagina di Repubblica si pubblica l’opinione dello scrittore Niccolò Ammaniti. Vi riporto qualche frase: "Scrivere può essere una scoperta: i blog e internet danno l’opportunità di conoscere le proprie doti. (…) D’altra parte alcuni casi editoriali sono nati proprio dal web. (…) I consumatori, anche culturali, sono diventati sempre più consapevoli. Orientano mercati e interessi."

Poi però Ammaniti, a mio avviso giustamente, avverte:

"Il mestiere dello scrittore è un’altra cosa dallo scrivere. Credo che si cresca solo se accompagnati da un buon editor e da un continuo confronto con dei professionisti. (…) Di certo un capitolo non basta a dirsi scrittori. Serve anche fiato lungo e fatica."

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Ora, per quanto mi riguarda, se da un lato la suddetta iniziativa mi pare innovativa (e da un certo punto di vista, lodevole) dall’altro, però, non nascondo qualche perplessità. La principale è questa: fino a che punto è giusto, per un editore, chinarsi di fronte ai presunti gusti di un potenziale target di lettori?

A voi la parola!

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mercoledì, 10 gennaio 2007

SCIASCIA VENT’ANNI DOPO: TRA «SCUSISMO» E «QUAQUARAQUA’»

Post lungo, ma che vi prego di leggere. Vi consiglio di salvare la pagina, leggere con calma e intervenire successivamente… se ne avrete voglia (N.d.A.)

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Il 10 gennaio del 1987 è una data da ricordare per la carta stampata italiana. Sulle pagine del Corriere della Sera (in terza pagina) apparve un articolo di Leonardo Sciascia dal titolo I professionisti dell’antimafia. Quell’articolo scatenò il putiferio. Spezzò l’Italia in due. Fiumi di parole si riversarono sulle pagine di quotidiani e riviste. E fa impressione constatare che, trascorsi vent’anni, la ferita è rimasta aperta; che la forza prorompente di quel j’accuse ritorna oggi con la stessa intensità di allora, rimbalzando – ancora una volta – da un quotidiano all’altro.

Allora, vent’anni fa, non c’era Internet, non c’erano i portali web, non c’erano i blog. Per fortuna!, potrebbe commentare qualcuno.

Voglio provare a ricostruire la vicenda qui, su questo luogo virtuale, partendo da allora per arrivare ai nostri giorni.

Leonardo Sciascia

Ciò che spinse Sciascia a scrivere quell’articolo (o che comunque gli fornì l’input per affrontare una questione che evidentemente gli stava molto a cuore) fu una nota pubblicata sul "Notiziario straordinario" n. 17 del 10 settembre 1986 del Consiglio superiore della magistratura. In quella nota si commentava l’assegnazione del posto di procuratore della repubblica a Marsala a Paolo Borsellino; assegnazione avvenuta prescindendo dall’ordine di graduatoria dei candidati. Ecco il testo: «Rilevato, per altro, che per quanto concerne i candidati che in ordine di graduatoria precedono il dottor Borsellino, si impongono oggettive valutazioni che conducono a ritenere, sempre in considerazione della specificità del posto da ricoprire e alla conseguente esigenza che il prescelto possegga una specifica e particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata in generale e di quella di stampo mafioso in particolare, che gli stessi non siano, seppure in misura diversa, in possesso di tali requisiti con la conseguenza che, nonostante la diversa anzianità di carriera, se ne impone il ’superamento’ da parte del più giovane aspirante

Quel ‘superamento’ da parte del più giovane aspirante fornì, ripeto, a Sciascia il pretesto per contestare coloro che poi ebbe modo di definire sull’articolo con l’epiteto di professionisti dell’antimafia. Il citato articolo è disponibile on-line e potete leggerlo integralmente cliccando qui.

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Sciascia comincia il suo articolo autocitandosi due volte. Lo fa riportando stralci di brani estrapolati da Il giorno della civetta e da A ciascuno il suo. E fa precedere le citazioni da questa frase: «Autocitazioni, da servire a coloro che hanno corta memoria o/e lunga malafede e che appartengono prevalentemente a quella specie (molto diffusa in Italia) di persone dedite all’eroismo che non costa nulla e che i milanesi dopo le Cinque giornate, denominarono "eroi della sesta"».

Poi cita un saggio pubblicato dall’editore Rubettino. Il titolo è: La mafia durante il fascismo. L’autore è Christopher Duggan. Sciascia sottolinea che: «l’attenzione dell’autore è rivolta non tanto alla "mafia in sé" quanto a quel che "si pensava la mafia fosse e perché": punto focale, ancor oggi, della questione: per chi si capisce sa vedere, meditare e preoccuparsi; per chi sa andare oltre le apparenze e non si lascia travolgere dalla retorica nazionale che in questo momento del problema della mafia si bea come prima si beava di ignorarlo o, al massimo, di assommarlo al pittoresco, al colore locale, alla particolarità folcloristica

Di seguito Sciascia chiama in causa don Luigi Sturzo. Nel 1900 Sturzo scrisse un dramma intitolato: La mafia. Quel dramma, evidenzia Sciascia: «andava a finire male e nel male, coerentemente a quel che don Luigi Sturzo sapeva e vedeva. (…) E come poi dal suo partito popolare sia venuta fuori una democrazia cristiana a dir poco indifferente al problema, non è certo un mistero: ma richiederà, dagli storici, un’indagine e un’analisi di non poca difficoltà.»

Torna sul libro di Duggan e chiama in causa Mori: «(…) non è senza significato che nella lotta condotta da Mori contro la mafia assumessero ruolo determinante i campieri (che Mori andava solennemente decorando al valor civile nei paesi "mafiosi"): che erano, i campieri, le guardie del feudo, prima insostituibili mediatori tra la proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della repressione di Mori, insostituibile elemento a consentire l’efficienza e l’efficacia del patto. (…) l’antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile. (…) Morale che possiamo estrarre, per così dire, dalla favola (documentatissima) che Duggan ci racconta. E da tener presente: l’antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando. E ne abbiamo qualche sintomo, qualche avvisaglia».

A questo punto Sciascia lancia una stilettata all’allora sindaco di Palermo: Leoluca Orlando. E lo fa partendo, appunto, dal concetto di antimafia come strumento di potere. Non cita esplicitamente Orlando, ma il riferimento è chiaro. Inequivocabile. Scrive Sciascia: «Prendiamo, per esempio, un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall’acqua che manca all’immondizia che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. Magari qualcuno, molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno amministrativo: e dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio comunale e nel suo partito, chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un’azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno. Ed è da dire che il senso di questo rischio, di questo pericolo, particolarmente aleggia dentro la democrazia cristiana: et pour cause, come si è tentato prima di spiegare. Questo è un esempio ipotetico».

Di seguito cita la nota del "Notiziario straordinario" n. 17 (10 settembre 1986) del Consiglio superiore della magistratura (di cui abbiamo già inserito il testo) coinvolgendo Paolo Borsellino.

Infine chiude l’articolo con una frase bruciante: «I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso

Si scatena l’inferno.

Come ricorda Attilio Bolzoni in un articolo pubblicato su Repubblica del 28 dicembre 2006 (dal titolo Quel J’accuse di Sciascia): «Fu una guerra di parole. Violentissima. Si riempirono pagine e pagine di giornali, tutti avevano qualcosa da dire. Ministri. Preti. Sindacalisti. Magistrati. (…) Nando Dalla Chiesa, il figlio del generale prefetto ucciso a Palermo nel settembre dell’82, gli chiese sull’Espresso: “Non ti viene mai in mente una bella terza pagina sui magistrati che fanno carriera proprio perché non attaccano la mafia, perché insabbiano? Su Repubblica, Giampaolo Pansa (…) confessò: “Non riconosco il mio Sciascia, il nostro Sciascia. Dov’è lo scrittore civile, l’analista tagliente?” Giorgio Bocca difese il procuratore Borsellino ma avvertì: “Il vero torto di Sciascia è di esporre tesi, di muovere critiche che stanno fuori dagli opposti schieramenti, che non collimano esattamente né con i dogmi dell’Antimafia né con le ipocrisie e le seduzioni della mafia. Seguendo un suo acuto intuito ha spesso indicato ciò che noi non sapevamo o volevamo vedere.»

Molto interessanti, in questo articolo di Bolzoni, le dichiarazioni di Maria Andronico e Agnese Borsellino. Maria Andronico, vedova dello scrittore, ricorda: « (…) Era addolorato, una sofferenza che quella volta non era riuscito a nascondere. “Mio marito parlava poco, lui che non mostrava mai le sue debolezze rimase profondamente colpito, turbato. (…) A un certo punto però si avvicinò a me e alle mie figlie per assicurarci: non perdete tempo a difendere la mia memoria, non perdete tempo perché il tempo mi darà ragione”

Il tempo è passato, scrive sull’articolo Attilio Bolzoni chiamando in causa la vedova Borsellino: «“Aveva ragione, Sciascia aveva ragione”, ripete Agnese Borsellino, un’altra vedova di Palermo che allora non riuscì nemmeno lei a nascondere la sua sofferenza. “Anche Paolo era sconvolto, ma lo sapeva bene di non essere lui il bersaglio di quella riflessione provocatoria”

Il 31 dicembre 2006, Sandra Amurri, sulle pagine de L’Unità richiama in causa Leoluca Orlando. Bisogna valutare con attenzione le dichiarazioni di Orlando il quale da un lato giustifica Sciascia spiegando (e contestualizzando) i motivi di quella provocazione, dall’altro però ne stigmatizza l’imprudenza, partendo dalla considerazione che tale provocazione si prestava benissimo, così come poi – a suo giudizio – avvenne, a essere strumentalizzata dai veri nemici dell’Antimafia.

Orlando dichiara: « L’indomani, ero in aereo con Giovanni Falcone diretti a Mosca e mi chiese: Che ne pensi dell’articolo di Sciascia? Risposi in siciliano: “Quannu chiovi nesciunu fora i corna ddi babbaluci” (Quando piove escono fuori le corna dalle lumache). La pioggia, infatti, cominciò a far uscire allo scoperto le corna di mille lumache, sino ad allora confuse nell’antimafia di facciata.” (…) Una provocazione che accolsi con un sospiro di sollievo proprio perché rappresentava la fine dell’ipocrisia dell’antimafia intesa come luogo comune. (…) Ma una provocazione che accolsi con la preoccupazione che potesse essere utilizzata strumentalmente dagli “sciasciani di borgata” che avrebbero potuto sfruttare il prestigio dell’intellettuale per blandire le sue parole come clava per colpire chiunque facesse antimafia. (…) Le sue parole divennero uno strumento utilissimo per criticare quelli che la mafia la combattevano. E il suo invito alla riflessione, la sua esortazione a non lasciarsi travolgere dall’ottimismo della volontà, finì per diventare, in fondo, un’arma consegnata nelle mani dei mafiosi e dei loro amici.” (…) “Il 12 novembre dell’89 (morì dopo 8 giorni) andai a trovarlo. (…) Si sedette con le spalle rivolte alla grande finestra a vetri (…) e quasi singhiozzando mi disse: “Sono finito”. Gli risposi: “Professore, esiste la cronaca, ed esiste la storia. Nella cronaca siamo stati separati, ci siamo trovati su posizioni opposte e inconciliabili. Ma lei è nella storia ed io, per questo, le porto il mio affetto e la stima della città”. “Sono finito. Ma anche lei, sindaco, è finito…”. “Professore, stia tranquillo: anche se finirò, apparirà chiaro che sono stato sconfitto”. “È proprio questo che vogliono evitare i suoi nemici. Vogliono che lei finisca senza essere sconfitto. Faranno di tutto affinché lei esca di scena senza che appaia la sua sconfitta”, concluse. Mi stava mettendo in guardia, come, pur se sbagliando nei toni e non valutando le strumentalizzazioni, aveva voluto fare, due anni prima, con quell’articolo illustrandomi il rischio di finire prigioniero delle parate e delle parole. »

Il 2 gennaio 2007 Pierluigi Battista sul Corriere della Sera pubblica un articolo che riaccende gli animi. Lo intitola: Le scuse dovute a Sciascia. L’intento è chiaro. Nell’articolo Battista ri-racconta la “storia” ed arriva alla conclusione che Sciascia meritava e merita delle scuse e che tali scuse sono, appunto, dovute. Scrive: «Vent’anni fa a Leonardo Sciascia fu bruscamente intimato di rinchiudersi “ai margini della società civile”. (…) E diedero a Sciascia anche del “quaquaraquà”, il più spregevole degli individui secondo la gerarchia di valori del don Mariano Arena del Giorno della civetta.»

L’articolo di Battista riaccende gli animi, dicevo. E infatti, il 4 gennaio 2007 Nando Dalla Chiesa interviene con un articolo sull’Unità intitolato: Sciascia, perché non mi pento. Dalla Chiesa cita un episodio che coinvolge Paolo Borsellino e che adduce come motivazione principale del suo non-pentimento. Scrive Dalla Chiesa: «Chiedere scusa a Sciascia per avere criticato il suo celebre articolo contro i professionisti dell’antimafia di vent’anni fa? Recitare il mea culpa come chiede Pierluigi Battista sul “Corriere” dell’altro ieri? In questi casi è sempre bene non rispondere di getto. E rimettere in fila tutti i dati di realtà conosciuti. E poi pensarci. E poi pensarci ancora. Per evitare di reiterare un gioco delle parti. L’ho fatto. E sono giunto alla conclusione che non ci sia da chiedere scusa di nulla. Non per ostinazione. Ma per un ricordo che ho ben vivo nella mente. Incancellabile. (…) Partirò dunque da quella sera del 25 giugno del ’92. Biblioteca comunale di Palermo. Dibattito organizzato dalla rivista “Micromega” sullo stato della lotta alla mafia dopo la strage di Capaci, in cui era stato ucciso Giovanni Falcone. A un certo punto arrivò Paolo Borsellino. (…) Parlò del suo amico ucciso, parlò delle indagini, dei tempi veloci che egli stesso doveva darsi. (…) A un certo punto fece una pausa e disse: “Tutto incominciò con quell’articolo sui professionisti dell’antimafia”. Lo disse con un tono sprezzante e amareggiato, esistono le registrazioni di quella serata. Fu l’ultimo intervento pubblico di Borsellino. Il testamento morale di un giudice che, con un lucido istinto dell’animale braccato, sentiva che avrebbe seguito la stessa sorte dell’amico e che perciò pesò con quella gravità le sue parole. (…) Ripartiamo da lì: “Tutto incominciò con quell’articolo sui professionisti dell’antimafia”. Un articolo spartiacque, dunque. (…) Tanto più se l’attacco veniva da uno scrittore che con i suoi romanzi aveva insegnato a leggere la mafia a un paio di generazioni e che quindi si sarebbe prestato a meraviglia per essere usato contro il nascente movimento antimafia. Il che puntualmente accadde

Dice la sua anche Riccardo Chiaberge scrivendo sulla rubrica Contrappunto del Domenicale del Sole-24Ore del 7 gennaio 2007 (Chiaberge è caporedattore del Domenicale) un pezzo dal titolo: Lo “scusismo” piacerebbe a Sciascia?. Chiaberge parla di “scusismo” inteso come moda o propensione a “chiedere scusa” anche laddove non se ne vedono i presupposti e le necessità. Nell’articolo – in relazione allo "scusismo" – cita gli scrittori Morselli, Berto, Cassola, Solzenicyn. «Chiedere scusa a Sciascia? Francamente non ne sentiamo il bisogno. Intanto ogni polemica va contestualizzata, e nell’epoca dell’assalto mafioso allo Stato è comprensibile che non si dosassero troppo le parole. E poi, conoscendo la vena volterriana di Sciascia, siamo certi che avesse messo nel conto le reazioni e pure gli insulti. Anzi, sarebbe rimasto deluso se la sua provocazione fosse caduta nel vuoto.” (…) Se vogliamo chiedere scusa a qualche scrittore, ricordiamo semmai Guido Morselli, boicottato dalle camarille politico-editoriali e morto suicida senza veder pubblicato uno solo dei suoi romanzi, o Giuseppe Berto, trattato come un appestato perché di destra, o il Cassola ribattezzato “Liala” dalle neoavanguardie, o il Solzenicyn dell’Arcipelago Gulag. Ma a forza di scuse e complessi di colpa, si rischia di trasformare questi autori in martiri intoccabili e di spuntare le armi della critica

E sempre il 7 gennaio 2007 esce su Repubblica.it un altro articolo di Attilio Bolzoni dal titolo: Sono stato io a chiamare Sciascia un quaquaraquà. Si parla di Francesco Petruzzella: uno dei fondatori del Coordinamento antimafia. Nel 1987 aveva ventiquattro anni, era iscritto a Giurisprudenza e faceva pratica con le parti civili al maxi processo. Petruzzella dichiara: «Sono stato io a scrivere quel comunicato su Sciascia e non lo rinnego, quella vicenda non si può capire se non la trasportiamo nella terribile Palermo di quel tempo. (…) Non mi pento di nulla, certo la mia fu una reazione rabbiosa ma la crescita umana e culturale di un’intera generazione siciliana è stata scandita dai morti, dai funerali, dal terrore. Quando lessi quella mattina del 10 gennaio 1987 l‘articolo di Sciascia, rimasi pietrificato. Perché l’ha fatto?, mi chiesi. Perché Sciascia non si è limitato a descrivere uno scenario ma ha invece indicato due uomini – Orlando il sindaco del grande cambiamento di Palermo e Borsellino un magistrato integerrimo – come esempi dell’antimafia che fa carriera?" (…)La mia famiglia è di Racalmuto, il paese di Sciascia. E io Sciascia l’ho sempre amato, come d’altronde tutti i siciliani. Ma quell’articolo ha rappresentato uno spartiacque nella vicenda palermitana. Mentre noi cercavamo di ribellarci allo strapotere della mafia e andavamo in piazza a gridare ‘Palermo è nostra e non di Cosa Nostra’, gli intellettuali siciliani se ne stavano in silenzio, non si schieravamo, facevano finta di non vedere e di non sentire in una città dove era impossibile non vedere e non sentire. Poi Sciascia addirittura parlò dei rischi dell’antimafia, non dei rischi della mafia. (…) Sì è vero, certuni hanno fatto carriera con l’antimafia. Ma allora – insisto sulla Palermo di allora – di quella riflessione non ne avevamo bisogno. (…) "Dopo vent’anni penso ancora che da Leonardo Sciascia mi sarei aspettato un altro gesto, la sua voce alta si sarebbe dovuta far sentire per aiutare i siciliani onesti a liberarsi dalla mafia. (…) Palermo era avvolta nella paura. E Sciascia, il nostro migliore scrittore, il raffinato intellettuale, se la prendeva proprio con l’antimafia. No, dopo vent’anni non rinnego nulla».

L’ 8 gennaio 2007, dalle pagine de Il Giornale, Lino Jannuzzi lancia degli strali per mezzo di un articolo intitolato: Quando Sciascia mi rivelò i dubbi su Orlando.

Jannuzzi pone una serie di domande provocatorie: «Che cosa è successo in questi venti anni che sono passati da quell’articolo di Sciascia? Che cosa ne è stato, in questi vent’anni, della mafia e dell’antimafia? Chi ha vinto e chi ha perso? E sono state maggiormente rispettate le regole, come invocava Sciascia? Sono state abolite le leggi speciali, è prevalsa la bilancia, il simbolo della giustizia, oppure sono prevalse le manette invocate dai fanatici dell’antimafia? Che cosa avrebbe detto Sciascia della legge sui "pentiti" e della gestione “dinamica” dei pentiti? Che cosa avrebbe detto Sciascia dell’invenzione del reato di concorso esterno in associazione mafiosa? E dell’articolo 41 bis, l’elogio alla tortura? E del processo a Giulio Andreotti? E del processo al più illustre dei magistrati italiani, Corrado Carnevale? E a decine e decine di uomini politici sulla base delle accuse di assassini liberati in cambio delle carceri e pagati dallo Stato? Ci fu la carneficina della mafia, come ricorda Nando Dalla Chiesa, e durò un paio d’anni, e poi ci fu la carneficina dell’antimafia, che dura da 15 anni e non è finita. Quale ha fatto più danno?». Poi Jannuzzi torna indietro nel tempo e ci racconta la sua versione del già menzionato incontro tra Sciascia e Orlando: «(…) Ero a Palermo, a casa di Sciascia, due anni dopo quell’articolo, una settimana prima che morisse. Sciascia era pallido, magrissimo, sofferente, girava per lo studio in pigiama, non si vestiva più, non usciva nemmeno più per andare a farsi la dialisi. Mi allontanai per qualche ora perché Sciascia doveva ricevere Leoluca Orlando, che insisteva da tempo per parlargli. Quando tornai, lo trovai seduto sulla poltrona, lo sguardo perso nel vuoto. Restò a lungo in silenzio, poi mi disse, prima che glielo chiedessi: “Ha parlato solo lui. Non ho capito perché ha voluto vedermi. Ha parlato contro i magistrati e la Procura di Palermo, forse per scusarsi della polemica di due anni fa. Ha detto che io resterò nella storia e che mi portava la stima della città. Ho capito che sono finito. Siamo finiti…»

Ecco. Ho provato a ricostruire i passaggi salienti di questa vicenda che iniziò vent’anni fa e che, come ho già scritto, ritorna oggi con immutata forza. Lo faccio – da siciliano – per contribuire a lasciar traccia anche qui, negli algidi luoghi del web, nel regno della velocità, della brevità e dei refusi, a beneficio dei navigatori che magari non hanno tempo o voglia di leggere la carta stampata; a beneficio, soprattutto, dei miei giovani conterranei frequentatori della blogosfera, perché sappiano; perché prendano coscienza di un’importante fatto siciliano che di coscienze ne ha scosse e ne continua a scuotere tante; e perché, anche, prendano coscienza della forza della parola scritta. La parola scritta può creare ferite; a volte profonde, insanabili. E a volte è inevitabile che ciò accada. La parola scritta può essere causa di divisioni, così come può essere occasione di “ricucite”. La parola scritta ha un peso che prescinde da quello dell’inchiostro utilizzato per imprimerla sulla pagina o da quello delle dita che picchiano sui caratteri di una tastiera. La parola scritta può essere un’arma che si innesca, e in maniera irrevocabile, nel momento in cui viene letta. E la sua potenza dipende dalla forza di colui che impugna l’arma (o la penna). Ricordiamocelo, amici miei. Ricordiamocelo. Anche quando fissiamo i nostri pensieri nei luoghi promiscui della rete. Non sprechiamo le nostre parole. Dosiamole. Misuriamole con il metro dell’onestà intellettuale. Gestiamole bene. O quantomeno, proviamo a farlo. (Lo dico anche a voi, ma in realtà lo dico a me).

Ciò detto, dichiaro il dibattito aperto. Per chi avrà voglia di cimentarvisi.

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Massimo Maugeri

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lunedì, 8 gennaio 2007

LA STORIA DI LISEY (di Stephen King)

La storia di Lisey

Questo romanzo è una stupenda storia pervasa di forza e tenerezza e sorretta dai più vividi, toccanti e credibili personaggi mai visti ultimamente. Ho adorato Lisey e le sue sorelle; ho sofferto con Scott per tutto quello che ha passato; e quando sono giunto al finale, così vero, così dolceamaro, il mio primo impulso è stato di ricominciare daccapo per non dover abbandonare i miei vecchi amici. Questo è Stephen King al suo massimo; questa è un’opera che si continua a leggere anche dopo aver chiuso il libro.

Fermi tutti. Quello che avete letto qui sopra – badate bene – non è il mio pensiero, ma quanto è stato scritto da Nicholas Sparks e riportato in quarta di copertina de La storia di Lisey, il più recente libro pubblicato da King.

Vi dico la verità. Quando ho letto questa nota di Sparks ho pensato: “ma da quando Stephen King necessita del supporto promozionale di amici scrittori?”

Prima di iniziare la mia lettura con pregiudizio, però, ho sbirciato la postfazione (nota) dell’autore e ho ri-scoperto che King, oltre a essere il Re del brivido, è anche un campione di ironia e autoironia. Guardate un po’ cosa scrive:

“Nan Graham è colei che ha curato questo libro. Spesso chi recensisce romanzi, specialmente i romanzi di scrittori che di solito vendono un gran numero di copie, dice: “Al Tal dei Tali avrebbe giovato una vera revisione”. A tutti coloro che avessero la tentazione di esprimersi così su La storia di Lisey, sarò lieto di sottoporre qualche pagina campione della prima stesura, completa delle annotazioni di Nan. Mi furono restituiti compiti in classe del primo anno di francese più puliti. Nan ha svolto un lavoro encomiabile e io la ringrazio per avermi spedito in pubblico con la camicia ben infilata nei calzoni e i capelli ben pettinati.”

Non male per un signore che ha scritto (questo compreso) cinquantaquattro romanzi vendendo milioni di copie in tutto il mondo.

Consentitemi un ulteriore piccolo preambolo.

King per molti anni è stato indicato dalla critica con l’appellativo di scrittore horror, o di thriller; e comunque come scrittore di genere che non poteva aspirare a nulla di più del titolo di (appunto) Re del brivido. Oggi l’approccio di molti critici nei confronti di King è più cauto, soprattutto da quando – è accaduto pochi anni fa – l’autore americano è stato tributato del prestigiosissimo National Book Award, uno dei premi letterari statunitensi più importanti.

Io sono sempre stato convinto che la forza di King, la vera forza di King, non consiste nel creare situazioni horror. C’è molto di più. Intanto una scrittura schietta che non tende a compiacersi o a specchiarsi su se stessa. Una scrittura che pesca molto dalle espressioni gergali e che cerca di comunicare emotività attraverso un approccio psicologico molto intenso. E poi, soprattutto, i personaggi. I personaggi di King non rimangono mai sulla carta. Sono personaggi vivi, veri. Personaggi di carne e nervi che escono dal piattume delle pagine e riescono a conquistarsi la terza dimensione.

In una delle tante interviste King ha dichiarato: “questo libro è così diverso e mi pare il migliore che io abbia mai scritto”.  E poi anche: “I miei libri sono tutti emotivi. Lo so che mi definiscono uno scrittore horror, e io non ho mai fatto obiezioni a questa etichetta, ma non l’ho neppure davvero accettata. A me interessa aggredire le emozioni dei lettori, scipparle. Non credo che i libri debbano essere una questione intellettuale. Il mio lavoro è quello di farvi bruciare la cena mentre leggete i miei libri. Se poi spegnete la luce e avete paura che ci sia qualcosa sotto il letto, bene. Se con La storia di Lisey riesco a farvi provare tristezza e a mettervi in relazione con i sentimenti che avete provato per qualcuno, bene”.

In un’intervista rilasciata a Keith Blackmore, (The Times, London) e poi pubblicata su Repubblica.it del  28 ottobre 2006, leggiamo (e qui ci addentriamo nella storia del romanzo): Ho sempre avuto questa idea, su cosa poteva succedere se uno scrittore famoso lasciava dei manoscritti non pubblicati e arrivava qualcuno dopo di lui. L’idea l’ho presa da storie che sento da tutta la vita. Chissà se c’è qualcosa di vero, ma dicono che J. D. Salinger sia ancora vivo, e che non c’è nessun dubbio, è nel New Hampshire, ma dicono anche che scrive ancora e che ha scritto chissà quanti libri. Il mio curatore presso la Doubleday, Bill Thompson, mi ha raccontato una storia secondo la quale Salinger sarebbe andato nella banca dove ha una cassetta di sicurezza per depositare un pacco incartato più o meno grande così e una donna gli ha chiesto: "Mi scusi, signor Salinger, è un nuovo libro?". E lui ha risposto: "Sì". E la donna ha detto: "Lo pubblicherà?". E Salinger avrebbe detto: "E perché?". Io ho pensato che fosse una stupidaggine. Quando ho sentito questa storia, ho pensato: cosa succederebbe se ci fosse uno scrittore così e qualcuno rapinasse la banca, non per i soldi ma per impossessarsi dei manoscritti non pubblicati? Quel libro non è mai stato scritto, ma ho pensato: e se uno scrittore famoso morisse e ci fosse un pazzo che vuole i manoscritti non pubblicati? In questo libro, quella persona è Dooley. Alla fine, però, questo elemento è diventato meno importante della storia di fondo. La storia di fondo è diventata la storia principale di quello che è successo a Scott (N.d.R. – lo scrittore protagonista del libro) da ragazzino e il dialogo interno del loro matrimonio. Quando ho cominciato La storia di Lisey ho pensato che sarebbe stata una storia ironica e divertente sul fatto che, come si dice, dietro a ogni uomo di successo ci sia una donna di successo. So per esperienza che è vero e falso al tempo stesso. Ma il vero elemento è questo. Le mogli degli uomini famosi spesso sono totalmente ignorate, sono tenute completamente in disparte, eppure sono molto, molto importanti; e ho pensato di mostrare una donna che salva ripetutamente un uomo, ma nessuno lo sa a parte lei".

(Per il “coinvolgimento” di Salinger e per quella frase [cosa succederebbe se ci fosse uno scrittore così e qualcuno rapinasse la banca, non per i soldi ma per impossessarsi dei manoscritti non pubblicati?], King è stato un po’ punzecchiato dalle Vespe del Domenicale del Sole 24Ore.)

Da questo stralcio di intervista si è capito con chiarezza qual è il tema de La storia di Lisey. Non è la prima volta che nei romanzi di King appaiono scrittori tra i personaggi principali. Era già accaduto in Shining, Misery, La metà oscura, Mucchio d’ossa e il racconto lungo Finestra segreta, giardino segreto (racconto inserito all’interno della raccolta Quattro dopo mezzanotte, vol. I). Rispetto ai citati libri c’è una differenza importante dato che Scott Landon, lo scrittore/personaggio de La storia di Lisey, è defunto. E poi non è un autore qualunque, Scott Landon. È un romanziere amato dal pubblico e osannato dalla critica (vincitore, tra l’altro del Pulitzer e del National Book Award che, ripeto, King ha davvero vinto). Scott Landon, però, come molti dei personaggi kinghiani ha una personalità doppia; da un lato c’è lo scrittore celebre e il marito affettuoso, dall’altro c’è un uomo che ha problemi psicologici (che però riesce a tenere a bada) derivanti da trascorsi familiari assurdi e dolorosi. In più Scott Landon ha doti paranormali che gli consentono di passare dalla nostra realtà a una dimensione altra, a un mondo parallelo che lui chiama Boo’ya Moon. Questo mondo è, in parte, il suo rifugio; soprattutto quando da ragazzino deve far fronte alle atrocità di un padre spesso vittima di un’insania mentale che si traduce in violenze corporee inflitte su Scott e Paul (fratello maggiore di Scott). Tali violenze, a volte, raggiungono il livello di vere e proprie ferite da arma bianca. Si chiamano bool, bool di sangue. Bool è un neologismo (uno dei tanti neologismi che appaiono in questo libro), dunque intraducibile. E in effetti il buon Tullio Dobner, traduttore storico di King, decide di riportare il termine bool tale e quale sul testo in italiano. E dunque il bool. Intraducibile e difficile da spiegare. Se volete davvero rendervi conto di cos’è un bool dovrete leggere il libro.

La storia di Lisey, come avrete capito, è anche una storia di follie. C’è il maniaco che nel corso di un evento pubblico spara a Scott (così come Chapman sparò a Lennon; entrambi citati nel testo) e che non riesce a ucciderlo solo per il pronto intervento della nostra Lisey. E c’è un altro svitato, Dooley, (accanito fan di Landon) che – per il bene della letteratura – decide di perseguitare Lisey al fine impossessarsi dei manoscritti del marito defunto.

Il tema della follia interessa – l’ho già accennato – la famiglia di Scott, ma anche quella di Lisey, giacché la sorella Amanda – che nella storia giocherà un ruolo chiave – è spesso vittima di atti autolesionistisci e nel corso di una crisi cade in stato catatonico.

Nella parte finale del libro troverete uno spunto metanarrativo sotto forma di lettera-racconto che Scott scrive per Lisey e che Lisey leggerà parecchio tempo dopo la morte del marito.

Che dire? Neologismi, tema della follia, tema del doppio, metanarrativa. C’è un po’ di tutto in questo libro. Il King Re del brivido e il King sperimentatore.

Ma si tratta davvero di King al suo massimo, così come sostiene Sparks?

Se dovessi individuare un difetto in quest’opera (uno solo) farei riferimento a un difettuccio classico di King: la prolissità. Con qualche piccolo taglio (soprattutto nella parte centrale, e con buona pace di Nan Graham) il romanzo e la storia sarebbero stati a mio modo di vedere più… ficcanti. Ma questa è una mia idea che deriva, probabilmente, da una mia vecchia convinzione: e cioè che King soffre un po’ di una sindrome che lo accomuna ad altri autori suoi connazionali. Io la chiamo sindrome di Guerra e Pace. In altri termini: l’ansia di offrire al mondo un’opera letteraria il più possibile monumentale. Ecco perché ritengo che La storia di Lisey appartiene a un buon King, a un King in netta ripresa rispetto ad altri lavori recenti (e per questo da leggere con avidità), ma non a King al suo massimo. La punta massima, a mio avviso, rimane Misery: il thriller perfetto (ed esente da lungaggini narrative).

Massimo Maugeri

La storia di Lisey (di Stephen King)

Sperling & Kupfer, 2006

Pagg. 619, euro 18

Traduttore: Tullio Dobner

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domenica, 7 gennaio 2007

EVENTI “LIBRESCHI” E CRISI DEL LIBRO

Vi segnalo un interessante articolo pubblicato qualche settimana fa da Alberto Papuzzi (su Tuttolibri de La Stampa del 18/11/06). L’argomento è il seguente: pare che all’incremento degli eventi letterari non corrisponda un incremento della vendita di libri.

Festival della letteratura di Mantova

Vi riporto stralci dell’articolo che potete leggere per intero cliccando qui.

"(…) Oggi il libro deve travestirsi se vuole sopravvivere, e deve diventare qualcos’altro, esibizione, spettacolo, recita, evento. Per cui ecco Festival di Mantova, kermesse di Cuneo, discussioni filosofiche tra Modena e Carpi, rassegne romane di letteratura e storia, l’incontro con Premi Nobel grazie al Grinzane Cavour, naturalmente la Fiera del libro di Torino, e ovunque un pullulare di iniziative promozionali – di assessorato in assessorato, di associazione in associazione – per far conoscere, far leggere e possibilmente amare i buoni libri. E’ la festa continua dei lettori. Mentre scrittori e poeti ricevono il trattamento delle star. Tuttavia l’ultima statistica dice che il numero dei lettori italiani continua a rimanere esiguo, inadeguato alla realtà e alle esigenze di un Paese che è tra le grandi potenze industriali del mondo, e soprattutto che gli italiani che non leggono libri sono il quarantotto per cento della popolazione: il che ci mantiene al fondo delle classifiche europee sulla lettura, come studenti ripetenti negli ultimi banchi della classe. Ma allora a che servono feste e festival? A chi si rivolgono e chi coinvolgono?
«E’ inutile far finta di niente: ogni politico punta a fare il suo festival. Ma spesso sono impreparati, non hanno obiettivi chiari, cercano visibilità. Se spendi per il festival vai sui giornali, se investi in strutture non ottieni pubblicità» dichiara polemico Rocco Pinto, libraio torinese della Torre d’Abele, dove si tengono affollati dibattiti (ultimo quello sul De senectute di Bobbio) (…). «C’è molto più bisogno di politiche strutturali che non di festival e fiere, non dico in Piemonte oppure in Lombardia ma in buona parte del Sud sì. Invece vediamo nascere, anche in piccoli comuni, un festival al giorno. Perché dobbiamo riconoscere che nel nostro povero Paese come non esiste una politica industriale così non esiste una politica culturale»."

Giro a voi la domanda.

A che servono feste e festival letterari?  A chi si rivolgono e chi coinvolgono?

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domenica, 7 gennaio 2007

CLASSIFICA DAL 25 AL 31 DICEMBRE 2006

Ecco la classifica dei venti libri più venduti (fonte: Arianna) dal 25 al 31 dicembre 2006.

Secondo i dati di Arianna, Gomorra di Saviano ritorna in testa, mentre Rivergination abbandona la vetta per posizionarsi al terzo posto.

Segnalo Stagioni di Mario Rigoni Stern in quinta posizione.

Il post è aperto per vostri (eventuali) commenti

Titolo

Autore

Editore

Prezzo

1

Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra

Roberto Saviano

Mondadori

15,50

2

Inchiesta su Gesù. Chi era l’uomo che ha cambiato il mondo

Corrado Augias; Mauro Pesce

Mondadori

17,00

3

Rivergination

Luciana Littizzetto

Mondadori

15,00

4

Il cacciatore di aquiloni

Khaled Hosseini

Piemme

17,50

5

Stagioni

Mario Rigoni Stern

Einaudi

10,80

6

Le ali della sfinge

Andrea Camilleri

Sellerio di Giorgianni

12,00

7

Fuori da un evidente destino

Giorgio Faletti

Baldini Castoldi Dalai

18,90

8

Donne informate sui fatti

Carlo Fruttero

Mondadori

16,50

9

Eragon. L’eredità. Vol. 1

Christopher Paolini

Fabbri

18,90

10

Innocente. Una storia vera

John Grisham

Mondadori

18,60

11

Ragionevoli dubbi

Gianrico Carofiglio

Sellerio di Giorgianni

12,00

12

Inés dell’anima mia

Isabel Allende

Feltrinelli

17,00

13

Il mio nome è rosso

Orhan Pamuk

Einaudi

11,80

14

L’ombra del vento

Carlos Ruiz Zafon

Mondadori

12,00

15

La scomparsa dei fatti. Si prega di abolire le notizie per non disturbare le opinioni

Marco Travaglio

Il Saggiatore

15,00

16

Testimone inconsapevole

Gianrico Carofiglio

Sellerio di Giorgianni

11,00

17

Come Dio comanda

Niccolò Ammaniti

Mondadori

19,00

18

Olive comprese

Andrea Vitali

Garzanti Libri

16,00

19

Io & Marley

John Grogan

Sperling & Kupfer

14,50

20

Sull’amore. Innamoramento, gelosia, eros, abbandono. Il coraggio dei sentimenti

Paolo Crepet

Einaudi

12,50

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lunedì, 1 gennaio 2007

CUBA DOPO CASTRO (di Gordiano Lupi)

Inauguriamo il 2007 aprendo una nuova rubrica che avrà come titolo CONTROSTORIE e che sarà curata da Gordiano Lupi: scrittore, traduttore e direttore editoriale della casa editrice Il Foglio.

Gordiano Lupi

CUBA DOPO CASTRO

José Hugo Fernández, giornalista indipendente cubano, scrive: “I cubani sono abituati a non godere di nessun diritto. In questo momento non possono neppure avere notizie sullo stato di salute del loro dittatore”. C’è chi dice che Fidel non si fa vedere in pubblico perché non ha più capelli in testa e ha la barba rada. Altri affermano che gli manca la voce, altri ancora sostengono che è in coma irreversibile o che è malato di cancro allo stadio terminale. I più fantasiosi raccontano che sarebbe morto da tempo e gli esponenti del regime attenderebbero il momento propizio per dare la notizia. Di fatto nessuno conosce la verità e allora i cubani danno libero sfogo alla fantasia. José Luis Garcia Sabrido – il medico che ha operato Fidel Castro all’intestino – afferma che il Comandante si sta riprendendo e presto potrebbe tornare a svolgere attività di governo. “Non ha una neoplasia allo stato terminale, come si sente dire da qualche commentatore statunitense” ha concluso. Garcia Sabrido non è il massimo della attendibilità perché sono note le sue simpatie castriste, così come non sono degni di fede i giornalisti statunitensi che attendono come avvoltoi la data della morte. 

In questo clima di incertezza i maggiori esponenti politici cubani non parlano di successione e si limitano ad attendere. Raúl Castro è l’erede designato, ma ha settantacinque anni, e non credo possa essere l’uomo capace di traghettare Cuba verso il futuro. Restano personaggi come Carlos Lage, Felipe Pérez Roque e Ricardo Alarcón, che rappresentano quanto di meglio è capace di produrre il Partito Comunista Cubano.

“Fidel è insostituibile. Possiamo portare avanti il suo insegnamento soltanto restando uniti, ciascuno rivestendo il ruolo che gli compete. Il posto di Fidel può essere preso solo dal Partito Comunista Cubano”, ha detto Raúl davanti a migliaia di giovani. Raúl ha approfittato dell’occasione per aggiungere che è arrivato il momento di cedere il passo alle nuove generazioni. Non è un caso, allora, se il congresso del Partito Comunista Cubano ha riesumato nel mese di luglio (mentre operavano Fidel) la Segreteria del Comitato Centrale, organo di governo soppresso nel 1991.

La Segreteria comprende dodici membri: i fratelli Castro, un paio di vecchi ideologi del regime e otto persone sotto i cinquant’anni, la seconda e terza generazione della Rivoluzione. Alla morte di Fidel Castro il potere potrebbe passare nelle mani della Segreteria del Comitato Centrale. Per questo motivo sia Perez Roque che Carlos Lage dicono che a Cuba non ci sarà successione ma continuità. Al potere carismatico di quello che è stato un grande protagonista del ventesimo secolo si sostituirebbe il potere della burocrazia. Se le cose stanno davvero così non si prospetta un bel futuro per l’isola caraibica.

A mio parere Fidel Castro, così come hanno fatto i grandi dittatori della storia, eserciterà il potere fino all’ultimo respiro. In questo momento il fratello Raúl è un uomo nelle sue mani, un semplice esecutore della sua volontà che si limita ad ascoltare ed eseguire. Raúl non è capace di esprimere una volontà propria, come non lo ha mai fatto in passato quando la sua opinione era diversa da quella del fratello. Quando Raúl dice che Fidel è insostituibile e che il governo del futuro sarà collegiale, parla perché sa che il fratello lo ascolta. Raúl si comporta ancora da numero due senza personalità propria ed è in virtù di questo atteggiamento che si è mantenuto per tanti anni al governo. Non è un caso se tutti gli altri eroi della Rivoluzione che avevano una personalità spiccata e delle opinioni personali sono stati eliminati, in un modo o nell’altro, da Fidel Castro. Per questo sono convinto che Raúl resta un enigma totale che sarà possibile sciogliere solo dopo la morte dell’ingombrante fratello. Non conosciamo il potenziale politico di un uomo che è sempre vissuto all’ombra di Fidel ed è presto per dire se si muoverà all’interno del solco tracciato o se darà vita a una perestroika cubana verso la democrazia. Le cose da fare sarebbero molte per dare inizio a un effettivo processo di cambiamento, ma alcuni punti sono davvero imprescindibili. Permettere il lavoro por cuenta propria e porre fine alla persecuzione di ogni tipo di iniziativa privata. Mettere al Ministero degli Esteri una persona che rappresenti davvero il paese. Destituire i dirigenti più odiati dal popolo come Juan Escalona e Ricardo Alarcón. Riabilitare persone valide ma cadute in disgrazia sotto Fidel Castro come Carlos Aldana e Humberto Perez. Permettere l’uscita dal paese a tutti coloro che sono obbligati a rimanervi come prigionieri (insegnanti, medici, persone che il regime non vuole far uscire). Abolire il permesso di uscita (la famigerata tarjeta blanca) che limita la libertà di circolazione. Eliminare il permesso di entrata per i cittadini residenti all’estero, che vieta la possibilità di rientrare in patria ai cubani invisi al regime. Rimpiazzare i funzionari incompetenti con tecnici efficienti. Mettere da parte figure storiche incapaci di governare come Almeida, Guillermo García, Machado Ventura, Ramiro Valdés… veri fantasmi del passato. Abbandonare i Comitati di Difesa della Rivoluzione, la Federazione delle Donne Cubane e le Brigate di Risposta Rapida. Liberare i prigionieri politici e di coscienza. Tollerare i dissidenti, permettere un libero scambio di opinioni e un’effettiva libertà di stampa. Lavorare in modo concreto per realizzare un’economia indipendente che risolva i problemi di undici milioni di cittadini cubani.  Trattare con gli Stati Uniti la fine dell’embargo. In poche parole si tratta di portare libertà politica, iniziativa economica privata e diritti civili in un paese che non ha mai conosciuto niente di tutto questo. Mi pare un programma complesso per un uomo di settantacinque anni dotato di scarsa personalità e pochissimo ascendente nei confronti del popolo.

Non è possibile avere certezze sul futuro di Cuba. Di sicuro è eccessiva la fiducia ottimistica in una rapida perestroika cubana, così come sono troppo cupi gli scenari dipinti da qualche commentatore che vede un futuro di violenze e guerra civile. Per il momento è importante continuare a denunciare le cose che non vanno e le limitazioni ai diritti umani. Per esempio è notizia di questi giorni – e in Italia nessuno lo dice – che Reporter senza frontiere assegnerà al giornalista Guillermo Fariñas il Premio Ciberdissidente in prigione. Fariñas è un prigioniero politico che lotta con le armi non violente dello sciopero della fame e cerca di ottenere il libero accesso a internet per i cubani. La sua salute è cagionevole e nei mesi scorsi ha rischiato di morire per attirare su di sé l’attenzione internazionale. In Italia se n’è parlato poco e male. In compenso si preferisce dar credito alla novella raccontata ad arte sul fatto che Reporter senza frontiere sarebbe nel libro paga della Cia. Tutti coloro che si sforzano di far sapere le cose che non funzionano a Cuba prima o poi si trovano cucita addosso questa accusa infamante. Per fortuna che il pubblico legge e si informa e non crede più a una vecchia e monocorde campana che da anni suona sempre la stessa nota.

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

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Gordiano Lupi (Piombino, 1960). Direttore Editoriale delle Edizioni Il Foglio. Collabora con Mystero e con la Casa Editrice Profondo Rosso di Roma. Collabora con Stilos, X Comics, Blue e Underground Press.  Ha tradotto i romanzi del cubano Alejandro Torreguitart Ruiz: Machi di carta (Stampa Alternativa, 2003), La Marina del mio passato (Nonsoloparole, 2003) e Vita da jinetera (Il Foglio, 2005). I suoi lavori più recenti sono: Nero Tropicale (Terzo Millennio, 2003), Cuba Magica – conversazioni con un santéro (Mursia, 2003), Cannibal – il cinema selvaggio di Ruggero Deodato (Profondo Rosso, 2003), Un’isola a passo di son – viaggio nel mondo della musica cubana (Bastogi, 2004), Quasi quasi faccio anch’io un corso di scrittura (Stampa Alternativa, 2004 – due edizioni in un anno), Orrore, erotismo e pornografia secondo Joe D’Amato (Profondo Rosso, 2004), Tomas Milian, il trucido e lo sbirro (Profondo Rosso, 2004), Serial Killer italiani (Editoriale Olimpia, 2005), Nemici miei (Stampa Alternativa, 2005), Le dive nude – vol. 1 – il cinema di Gloria Guida e di Edwige Fenech (Profondo Rosso, 2006) e – in collaborazione con Fabio Zanello – Il cittadino si ribella: il cinema di Enzo G. Castellari (Profondo Rosso, 2006).  Il suo ultimo libro è il saggio Almeno il pane Fidel – Cuba quotidiana (Stampa Alternativa, 2006).

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