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luglio: 2008
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Archivio di luglio 2008

giovedì, 31 luglio 2008

IL CASO FIRMINO

Credo che Firmino si sia conquistato, in breve, il titolo di topo più celebre delle nostre librerie. Un topo da biblioteca? Senza dubbio. Ma anche un topo capace di far tanti bei quattrini, dato che il romanzo omonimo – di Sam Savage - (“Firmino”, Einaudi, 2008, euro 14, pag. 179), staziona da parecchio tempo ai vertici delle classifiche dei libri più venduti. Un libro che ha fatto discutere anche per via dell’ipotesi di plagio (dettagli qui).
Ma in questa sede mi interessa occuparmi principalmente del fenomeno editoriale.
Perché Firmino ha avuto (e sta avendo) un così grande successo?
Ho affidato la lettura del romanzo alla scrittrice Tea Ranno, che lo ha recensito per Letteratitudine (Tea mi darà una mano a moderare questo post).
Leggete qui sotto…
Poi potrete dire la vostra.
Nel contempo vi invito a partecipare a un gioco legato al libro.
Bisognerebbe rispondere a due semplici domande.
1. Se doveste “divorare” un libro – al punto da riuscire a metabolizzarlo – quale scegliereste? (Non dev’essere il vostro libro preferito, ma quello più utile per voi).
2. Nel destino di quale personaggio letterario potreste riconoscervi?
A voi.

Massimo Maugeri

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IL SAPORE DELLE PAGINE
di Tea Ranno (nella foto)

tea-ranno.jpg“Io sono stato sgravato, deposto e allattato sulla carcassa defoliata del capolavoro più non-letto del mondo” (Finnegans Wake di Joyce).
Oppure:
“Avevo sempre immaginato che la storia della mia vita, se un giorno l’avessi scritta, sarebbe cominciata con un capoverso memorabile: lirico come “Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi” di Nabokov o, se non altro, di grande respiro come il tolstojano: “Tutte le famiglie felici si assomigliano tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”.
Oppure:
“I miei affari erano i libri: consumo e scambio”.
L’autore di queste affermazioni? Firmino, soggetto partorito da una grassa ragazza di malaffare che frequenta luoghi di malaffare, si ubriaca, scappa da marinai che la rincorrono, va a sbattere per un calcio sulle costole contro una parete e si salva da morte sicura come in genere ci si salva in queste situazioni. Come? “Per puro miracolo” suggerisce il narratore. Così, per puro miracolo, la grassa Flo, all’interno della quale si agitano molte cose (ben tredici), riesce a trovare un buco che le salva la vita. E lo trova proprio qualche istante prima che nel suo corpo le “cose” decidano di ubbidire al destino mettendo in atto un Felice Evento. C’è giusto il tempo di sbrindellare un grande libro, farne una conca, accucciarvisi sopra.
Perché proprio un libro? Perché Flo, scappando, ha trovato rifugio in un seminterrato che conserva, come un mausoleo, migliaia di volumi.
Che la grassa Flo sia una pantegana, sarà svelato dopo. Che Firmino (Fur-man, uomo-pelo) sia un ratto (ma davvero poi lo sarà?) lo capiremo più tardi. All’inizio c’è una nidiata di tredici bocche per dodici capezzoli. E dodici di quelle bocche sono talmente voraci e agguerrite da mettere fuori gioco la tredicesima, che riuscirà a lappare poche gocce residue di latte solo quando le altre saranno troppo sbronze (il tasso del latte è altamente alcolico) per succhiare ancora.
Ma la fame è fame, e quando si ha fame si è disposti a mangiare di tutto, perché il fatto stesso di masticare e inghiottire, se non nutre il corpo quantomeno alimenta i sogni. Così Firmino comincia a nutrirsi dei brandelli di carta su cui è ruzzolato fuori dal corpo di sua madre. Li mastica, li appallottola contro il palato, li ingoia: un piacere che diventa abitudine, poi dipendenza, poi fame insaziabile. All’inizio si avventa su qualunque pagina gli venga sottomano: un boccone di Faulkner è come un boccone di Flaubert; ben presto, però, s’accorge che ogni libro ha un sapore diverso, che ogni frase suscita nella mente “un insieme di immagini e rappresentazioni di cose” a lui sconosciute a causa della sua limitata esperienza del mondo reale. Così smette di mangiare e comincia a leggere. E, leggendo, intraprende il viaggio dentro la vita raccontata nei romanzi. Perché le vite degli uomini – e dei ratti – nei romanzi hanno sempre un Destino, acquistano cioè un fine, una dignità e un senso. Anche le più balorde. E siccome Firmino aspira ad avere un Destino ecco che comincia a cercarlo nei libri, viaggiando nello spazio e nel tempo.
Il suo approccio con l’esterno è minimo: brevi escursioni fuori dalla tana per arraffare cibo, notti – e talvolta giorni – trascorsi dentro la sala d’un cinema che trasmette western, film di gangster e musical (Fred Astaire diventerà il suo modello e Ginger Rogers una Bellezza che lo infiammerà di desiderio struggente). Un approccio minimo e tuttavia tale da permettergli una conoscenza profonda di quello che accade fuori dal suo universo.
Con un tono ironico, un linguaggio privo di compiacimento, una malinconia subito rintuzzata dalla punta aspra del disincanto, Firmino scrive il romanzo della sua vita partendo da un incipit che avrebbe volto memorabile e che memorabile proprio non gli sembra, anche se poi, a chi legge, quell’incipit resta nella mente perché esprime perfettamente l’aspirazione alla grandezza e la sua concreta negazione. La realtà, infatti, è ben diversa dal sogno, e di sogni (quando la pancia è vuota) si può anche morire. Ma se ne vive quando si carpisce dal reale ciò che basta alla sopravvivenza magnificando poi quella sopravvivenza, appunto, con lo sconfinamento nell’irrealtà.
I libri dunque. Per procurarsi un antidoto allo sconforto, confezionarsi un futuro abitato da compagni inusuali che trascinano nell’avventura, schiudono alla sorpresa, parlano d’amore, compiono atti eroici. Personaggi che la fantasia del lettore può svincolare dalle maglie strette di una trama imposta dal narratore e portare altrove, magari regalando un happy end risarcitorio.
Questo romanzo di Sam Savage, nella sua apparente semplicità, mi pare esprima molto bene il senso di “diversità” che caratterizza quanti hanno contratto il vizio di masticare libri e nutrirsi di essi per viaggiare con la mente. Firmino è una metafora del lettore, è stato detto. E’ vero. Ma è anche altro: la voce di uno scrittore che si interroga sui processi della scrittura, sul modo di inoltrarsi dentro una storia (a partire da un ottimo incipit), di scegliere tra le varie possibilità di narrazione l’unica in grado di creare un Destino e rappresentarlo, anche quello di un balordo, o di un Grande che si nasconde sotto le spoglie di un ratto. E di usare la follia come strumento di comprensione della realtà, perché solo il folle possiede l’azzardo necessario per popolare di Eroi lo sgabuzzino in cui abita e rendere in tal modo più sopportabile la vita. Anche se poi la vita tradisce e di essa resta solo una pagina, non più dolce o agrodolce, ma amara, come il rimpianto, come la solitudine e la pazzia.

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giovedì, 17 luglio 2008

LA CAMERA ACCANTO 5° appuntamento

Il titolo di questo post non si riferisce a un romanzo erotico o a un film spinto.

La camera accanto è la stanza, per l’appunto, posta di fianco a quella ufficiale (letteratitudine).

Se letteratitudine è una sorta di caffè letterario virtuale, la camera accanto è un luogo dove si possono affrontare argomenti di diverso genere. Si può parlare di letteratura – certo -, di libri; ma anche di cinema, sport, televisione, politica, gossip, ecc.

Insomma, si può parlare di tutto ciò che volete. Ciascuno di voi può sentirsi libero di avviare un dibattito o, più semplicemente, scambiare quattro chiacchiere.

Anche qui, però, vige la nota avvertenza (colonna di sinistra del blog); per cui vi chiedo di rispettare persone e opinioni. Vi chiedo, inoltre, la cortesia di evitare litigi e toni eccessivamente scurrili.

(Massimo Maugeri)

Pubblicato in LA CAMERA ACCANTO   224 commenti »

lunedì, 14 luglio 2008

L’ARTE CHE SI SCRIVE: IMMAGINI E RACCONTI

Accolgo con piacere questa iniziativa lanciata da Miriam Ravasio.
L’idea è quella di stimolare la scrittura di brevi racconti attraverso la “percezione” di immagini: opere, performance, installazioni, dell’Arte contemporanea, realizzate dal 1950 ad oggi nel contesto internazionale.
Per quanto mi riguarda considero la suddetta iniziativa (“L’arte che si scrive: immagini e racconti”) come una sorta di gioco “visual-narrativo” che potrebbe dare esiti molto interessanti.
Naturalmente il successo dipenderà da voi. Dalla vostra partecipazione.
Cominciamo con la proposta delle immagini di due artisti: Yves Klein e Ashley Bickerton.
Troverete dettagli qui in basso.
Vi invito a scrivere racconti non troppo lunghi (meglio se si manterrano entro la soglia delle 5000 battute).
Miriam Ravasio e Carlo S. si occuperanno della cura dell’aspetto organizzativo del gioco (aspetto regolamentare, ecc.).
Vi ringrazio in anticipo per la partecipazione.
Massimo Maugeri

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yves_-klein.JPGYves Klein, Particolare da Dimanche, le Journal d’un seul jour. 27 novembre 1960.
Un uomo nello spazio, è il titolo della famosa foto che ritrae l’artista mentre salta nel vuoto in una strada di periferia. La foto apparve su un giornale prodotto sempre da Klein, e il cui articolo d’apertura titolava “Il teatro del vuoto”.

Yves Klein (Nizza, 1928 – Parigi, 1962) fu artista neo-dadaista e Nouveaux Réaliste, molto amico di Arman. Lavorò a lungo intorno al concetto di “Vuoto”, inteso in un senso ispirato dalla filosofia Zen, una realtà esistente al di là della sua rappresentazione.
In questo senso vanno lette le sue “pitture monocrome” , principalmente di colore blu, la sua “Sinfonia Monotona” fatta della ripetizione di una sola nota, le sue “performance” di eventi (la più famosa fu la vendita di spazio vuoto in cambio di oro, che poi finì tutto nella Senna). Due anni prima di questa foto aveva realizzato una mostra VUOTA, nella Galleria parigina di Iris Clert.
La fotografia, in questione “Saut dans le vide” (Salto nel vuoto) o anche “volo lunare” aveva anche un forte intento ironico verso la NASA, cercando di mostrare che le spedizioni spaziali erano “hybris” e pura follia.

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hashley_bickerton.JPGAshley Bickerton, Them, 1998, New York, Ileana Sonnabend. La paura del vuoto si “vince” con l’ossessione dei dettagli. Due tipi deformi e dall’aria demente irridono allo spettatore, mentre sullo sfondo c’è tutto l’apparato di insegne al neon, comune all’Occidente e all’Oriente.

Ashley Bickerton (Barbados, 1959- viv. a Bali), star della scena americana anni ‘80 insieme ad altri artisti della corrente “Neo Geo” (Peter Halley, Jeff Koons, ecc). Il gruppo si rifà alla Pop Art ed alle “geometrie minimali, riflesso fedele del paesaggio visivo delle grandi metropoli, interamente determinato da industria, tecnologia e pubblicità” (Sebastiano Grasso sul “Corriere della Sera”).
“Bickerton assembla nelle sue opere collages di foto, acrilico, noci di cocco, ossa, semi… con forti richiami alla terra, all’origine biologica della vita, a tutto ciò che si cela sotto la scorza della nostra esistenza…” (Elena Uderzo).
In qualche modo anche in questa immagine si insinua il tema del vuoto. Il vuoto mentale dei personaggi che indicano l’osservatore, il vuoto di senso suggerito dalle insegne e dai marchi pubblicitari, il vuoto di pensiero che dobbiamo affrontare quotidianamente, in una società dei consumi sempre più priva di valori e di significato. C’è un forte senso di “rimbalzo” in questa immagine, come in uno specchio: sono loro o siamo noi i veri dementi?

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AGGIORNAMENTO DEL 28 LUGLIO 2008

Dopo i numerosi racconti pervenuti (ispirati dalle suddette immagini) e dopo la votazione effettuata dagli stessi partecipanti, si è giunti alla determinazione dei tre finalisti (di seguito in ordine alfabetico): Laura Costantini, Enrico Gregori, Simona Lo Iacono.

Il vincitore è: Enrico Gregori con il racconto L’ILLUSIONE DI ABRAXAS

Di seguito il testo del racconto vincitore e quelli delle altre due finaliste

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L’ILLUSIONE DI ABRAXAS di ENRICO GREGORI

Signore e signori. Ragazzi e militari metà prezzo.
Eccomi qui, su questa pubblica piazza. Tra nani del circo, saltimbanchi, giocolieri e artigiani del monile.
Ma io, il grande Abraxas, mi concedo a voi con la mia nuova illusione. L’incantesimo per i vostri occhi e il vostro cuore…bambino lasciami lavorare…E non vi chiedo danaro e non vi chiedo cibo. Ma cinque minuti del vostro tempo e del vostro silenzio. Perché qualunque rumore e l’incantesimo svanisce…bambino vai a prenderti lo zucchero filato ché questo non è posto per te…cinque minuti per sognare e per stupirvi.
Come si stupirono nel mercato di Zanzibar, nella casbà di Tunisi e nel parco comunale di Novi Ligure. Lì, col cuore in gola, tutti ad ammirare il grande Abraxas che oggi regala a voi la magia, il sogno e la follia…bambino hai finito lo zucchero? E vai alle frittelle, ché qui Abraxas ha da fare…e tornerete nelle vostre case con il grande Abraxas nelle pupille e nella testa. Un sogno che continuerà a farvi visita ogni notte. Perché solo ciò che sembra ma non è sa stupire più di ogni miracolo.E scalò lentamente il palazzo antico in muratura mattonata.
Raggiunta la ringhiera vi salì, allargò le braccia come per spiccare un volo d’angelo.
Io, il grande Abraxas! disse. E si lasciò andare rimanendo sospeso al nulla. Lui, parallelo al suolo, mentre chiunque si portava le mani sulle labbra e sugli occhi.
Ammirate, disse, il grande Abraxas. Cosa mi tiene così levitato? Non è la forza, non è il trucco, non è il padreterno. E’ l’arte del grande Abraxas e il vostro silenzio.Due acrobati volteggiarono tra il pubblico con capriole e salti mortali. Applausi per loro. Uno scroscio frastornante……NO!, provò a supplicare Abraxas….NO!…bambino aiutami tu….NO!

Tra la folla festante e sorridente, piombò giù.
La testa esplosa sul porfido della piazza e un torrente di sangue fin sotto i piedi degli acrobati.
Il suo corpo scavalcato e oltrepassato da una fanfara in ghingheri. Meraviglioso Abraxas, dicevano tutti, stupefacente Abraxas. Dopo l’illusione dell’angelo sospeso anche l’incantesimo della morte.
Frittelle per tutti, grande Abraxas. Quando ti sarai rialzato ti aspettiamo al chiosco.

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LAGGIU’ di SIMONA LO IACONO

Mi dicevi laggiù dove muoiono i dannati, laggiù, amico, mi troverai. Mi dicevi guarda, mi dicevi resta, mi dicevi laggiù, dove vivono i dannati, laggiù, amico, mi troverai.
E sorridevi. Nudo l’inguine, vecchia la barba, perso lo sguardo su un punto inafferrabile che ti ostinavi a indicare.
Chi sono i dannati? Ti chiedevo mentre ti lasciavi prendere dall’infermiere di turno. Lavare. Vestire. Portare in bagno senza resistenza, scivolandomi addosso quella risata vuota – gengive e saliva – che si ostinava a imitare la felicità.
Proprio lì, in manicomio, dove la felicità non esiste.
Ma dicevi esiste, esiste, e te ne venivi con quell’ombrello a scaglie gialle e nere, me lo issavi in groppa roteandolo a tempo, esiste , esiste, e mi prendevi la mano. Continuavi a ridere. A lasciarti afferrare.
A dire laggiù dove muoiono i dannati, laggiù, amico, mi troverai.
Ma il giorno dopo non ti trovai.
Il giorno dopo in manicomio è una finzione, un letto chiuso con un nome che vacilla.
Volto le spalle all’infermiere di turno. Afferro un lembo del tuo lenzuolo. Un resto di te.
Poi ripenso, laggiù dove muoiono i dannati. Laggiù dove vivono i dannati…
Tra le lenzuola. Nel letto.
Abbasso lo sguardo, sollevo le coperte. Ne aspiro l’odore di disinfettante. Di piscio.
Le trovo incise di parole. Di versi. Di inchiostro che balla sotto i miei occhi e si intrama sulla lanugine.
La prima frase che leggo è laggiù, dove muoiono i POETI, laggiù, amico, mi troverai.

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TRE ANNI PER NON CAPIRE di LAURA COSTANTINI

Gianni guardò la foto incorniciata e pensò che Simona era una donna intelligente. Non che questa fosse una scoperta dell’ultima ora. Aldilà delle innegabili doti fisiche, Simona lo aveva conquistato proprio con la sua intelligenza, così poco comune tra le donne.
Sorrise, Gianni, a quel pensiero. Lo avesse detto ad alta voce avrebbe per sempre rovinato la propria reputazione di persona aperta e moderna e avrebbe dovuto spiegare a quale tipo di intelligenza si riferisse.
La foto di Yves Klein (una copia ma ben incorniciata) avrebbe potuto essere d’aiuto. Di solito le donne, anche le più dotate intellettualmente, pretendono conferme dagli uomini. Conferme prima, scelte irrevocabili poi. Pur essendo creature così leggere e fragili, nei rapporti interpersonali hanno bisogno di grossolani pilastri cui agganciare la loro esistenza. Simona no, Simona non era così. Simona era intelligente e quella foto era lì a dimostrarlo.
Gianni la guardò ancora una volta e il sorriso si fece più dolce. Si frequentavano da tre anni con Simona. Tre anni pieni di emozione fisica e mentale. Lei era stata il suo rifugio contro la noia delle apparenze, contro la monotonia del rapporto a due istituzionalizzato. Simona era la fuga, il distacco dalla realtà, il volo oltre le convenzioni.
Il volo, proprio come nella foto.
Non aveva mai chiesto niente, Simona. Si era creata il suo spazio in quella relazione adulterina che si nutriva di magia e leggerezza. Uno spazio piccolo, ma grazioso e comodo, proprio come la mansardina dove si incontravano una volta la settimana: il giovedì.
Un’abitudine, certo. Ma quanto diversa da tutte le abitudini che intessevano la sua vita come maglie di una rete. Di giovedì in giovedì il loro rapporto era cresciuto, si era consolidato.
Gianni non avrebbe mai creduto possibile che quell’appuntamento settimanale potesse diventare il centro stesso della sua esistenza. La meta cui giungere nel trascorrere dei giorni. Il ricordo da portare con sé per rendere più sopportabili tutti i venerdì, i sabati, le domeniche che seguivano inesorabili.
Il tempo, quando era con Simona, assumeva un sapore e una consistenza diversi. Era morbido, dolce, soavemente vischioso come una crema montata col burro.
E poi Simona, per tre anni, non aveva mai chiesto niente. Era stata questa la sua forza, la sua intelligenza, la sua marcia in più. Per Gianni lei era stata sempre e solo un valore aggiunto nella partita doppia della vita. Mai gli aveva creato un problema, mai gli aveva messo il broncio. Mai si era lamentata di essere sempre e solo l’altra, quella che doveva mettersi da parte quando arrivavano le feste comandate, le occasioni ufficiali o semplicemente la febbre del bambino piccolo, l’esame importante della grande o le paturnie di sua moglie.
Poi era arrivata quella foto. Gianni l’aveva trovata lì, sul tavolino della mansardina, incartata come un regalo. Un regalo per lui. Gianni ripensò che Simona era stata intelligente anche in questo: mai preteso regali, mai preteso uno stupido mazzo di rose, un gioiello pacchiano, niente. Il loro reciproco dono era incontrarsi lì, aprire la finestra sui tetti della città e rotolarsi tra le lenzuola fino allo sfinimento.
Un donarsi che alla fine era diventato importante. Tanto importante che Gianni scopriva ora, attraverso quella foto di Yves Klein, ciò che Simona desiderava.
Lei non lo avrebbe mai detto, intelligente ancora e sempre.
Nella foto c’era un uomo che saltava nel vuoto, con un’espressione di grande beatitudine. Esattamente l’espressione che aveva Gianni adesso mentre guardava la città dall’alto del minuscolo balcone. Un salto nel vuoto, una scelta. Voltare le spalle alla noia di una vita di regole e convenzioni e saltare nel caos gioioso di una storia d’amore vera.
Ecco, pensò, l’ho detto: amore. Di questo si tratta.
Gianni sentì la porta aprirsi. I passi leggeri di colei che aveva saputo guidarlo fin lì, in silenzio. Avvertì la presenza di Simona ma non si voltò. Le mani di lei sulla schiena, improvvisamente forti e pesanti.
Nel volo dal balcone della mansarda fino al marciapiede, sei piani più giù, Gianni non ebbe il tempo di capire. D’altronde, non gli erano bastati tre anni.

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giovedì, 10 luglio 2008

LETTERATURA È DIRITTO, LETTERATURA È VITA (di Simona Lo Iacono)

Simona Lo Iacono la conoscete molto bene, perché è di casa qui. Scrittrice dalla penna lirica e immaginifica, è la creatrice, la mente e il braccio di un importante salotto letterario che ha sede in casa sua, a Siracusa. Ma Simona Lo Iacono è anche un valente magistrato (dirige il Tribunale di Avola).
Ho pensato di intestare a Simona una nuova rubrica di Letteratitudine dove confluiranno talento letterario ed esperienza di giurista.
Il titolo è: Letteratura è diritto, letteratura è vita. Piuttosto evocativo, vero?
Qui potrete leggere storie nate nelle aule di Tribunale, articoli sulle “implicazioni giuridiche” della scrittura (soprattutto quella in rete), considerazioni su romanzi che incrociano la sfera del diritto e molto altro (perché letteratura è diritto… ma è, soprattutto, vita).

Intanto vi invito a gustarvi il pezzo omonimo della rubrica (lo trovate di seguito) e a interagire con l’autrice.

Vi ricordo che è disponibile, on line, il bellissimo racconto I semi delle fave, firmato – appunto – da Simona Lo Iacono.

Auguri, Simona!

Massimo Maugeri

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Letteratura è diritto, letteratura è vita

di Simona Lo Iacono

Ci sono albe che si somigliano. Che si sovrappongono. Che ci appartengono anche se le chiamiamo con nomi diversi.
Sono le albe in cui l’uomo ha immerso lo sguardo in se stesso. In cui si è contemplato e ha scoperto che era un’eredità. Che aveva un passato. Una storia da ricordare.
Le origini del diritto si confondono con le origini della letteratura. Con l’esigenza di raccontarsi e di codificare regole per migliorare la convivenza. E sebbene l’alba della parola sembri non avere assonanza con quella della norma, l’uomo le ha viste nascere insieme. Ha posato lo sguardo su di esse nello stesso momento.
Perchè raccontandosi e non perdendo memoria della propria storia, l’uomo la esaminava e formulava ipotesi per disciplinarla. Perché narrazione e regolamentazione fanno parte della stessa necessità: sopravvivere.
E perché laddove una smarriva la strada, l’altra sopravveniva a colmarla. Dove l’una perdeva la pietà, l’altra riesumava lacrime e dolori.
Letteratura e diritto sono sorelle.
Sono sorelle nel rappresentare l’uomo e i suoi errori. Nel raccoglierne i lamenti. Sono sorelle nell’identificarne la voce, nell’interpretarne i desideri.
Nessun intreccio è più complementare: diritto e letteratura. Rimandano l’uno all’altra lambendo un unico e misterioso continente: quello della natura umana.
Perché la legge non è un abito che dall’esterno ci vesta. Non è forma – indurita da precetti – che ignori la fragilità umana. La legge è frutto di quella fragilità. E’ sintesi della sua precarietà. E’ la stessa occhiata stupefatta su quell’alba. E nasconde lo stesso incanto nell’interrogarsi.
La pratica giudiziaria lo dimostra. Le norme più rispettate sono quelle percepite come conformi all’identità di un popolo. Alla sua esigenza di essere interpretato nei propri bisogni. Al risuonare della sua anima.
E le storie seguite con più passione sono quelle che nascono da una norma violata. Da un’esigenza di riparazione. Da un cambiamento che si concluda con una risposta. Non con un’altra domanda.
Perché la vita è già domanda. E’ già viaggio e cambiamento. Affastellarsi di umori sovrapposti che esigono giustificazione.
Il processo è una giustificazione. Così come il romanzo.
Io credo che il miglior processo sia quello che si conclude dopo aver scavato dolentemente e sinceramente nella ricerca di una giustificazione al mistero di esistere. E che tale sia anche il miglior romanzo.
Se entrambi conciliano pietà e fantasia, verità e desiderio di sottoporsi a questa verità, nessun imputato né alcun lettore potrà pensare di non avere avuto giustizia.
Simona Lo Iacono

Pubblicato in LETTERATURA È DIRITTO... È VITA (a cura di Simona Lo Iacono)   140 commenti »

giovedì, 3 luglio 2008

GERUSALEMME LIBERATA

torquato_tasso.jpgSono convinto che la grande Letteratura (il maiuscolo non è casuale), quella che rimane nel tempo, si possa leggere con immutato interesse… oggi come ieri. E oggi come ieri ritengo che possa fornire spunti di riflessioni.
Credo che sia così anche per la “Gerusalemme liberata” di Torquato Tasso.
Ha senso parlarne oggi, in Internet, nel contesto di un blog letterario? Io dico di sì.
Ecco a voi una nuova puntata di “Ritorno ai classici”, incentrata – per l’appunto - sulla figura di Tasso e sull’opera principale di questo grande autore.
Vi invito a discuterne partendo dal bel pezzo offertoci da Sergio Sozi.
Com’è noto “Gerusalemme liberata” narra della prima crociata ponendosi due obiettivi principali:
- raccontare la lotta tra pagani e cristiani
- raccontarla seguendo il filone della tradizione epico-cavalleresca.
Vi lancio una sfida…
Secondo voi “Gerusalemme liberata” è un’opera ancora attuale?
Se sì, perché?
Provate a tracciare delle connessioni con i “nostri tempi”.
È questa la sfida (e non credo sia una sfida particolarmente difficile da vincere, vero?)

Cominciamo…

Canto l’arme pietose e ‘l capitano
che ‘l gran sepolcro liberò di Cristo.
Molto egli oprò co ‘l senno e con la mano,
molto soffrì nel glorioso acquisto;
e in van l’Inferno vi s’oppose, e in vano
s’armò d’Asia e di Libia il popol misto.
Il ciel gli diè favore, e sotto ai santi
segni ridusse i suoi compagni erranti.

Bello, eh?

Massimo Maugeri

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La rabbia delle stelle – piccole notazioni tassiane in ritardo

                                 di Sergio Sozi

Come vede talor torbidi sogni
Ne’ brevi sonni suoi l’egro e l’insano;
Pargli ch’al corso avidamente agogni
Stender le membra, e che s’affanni invano;
Che ne’ maggior sforzi a’ suoi bisogni
Non corrisponde il piè stanco e la mano;
Scioglier talor la lingua e parlar vuole,
Ma non segue la voce o le parole: (…)

(Visioni dell’Arabo Solimano in procinto di morire per mano di Rinaldo, La Gerusalemme liberata, canto XX, st. 105)

sergio-sozi.JPGHo finito qualche pomeriggio fa di studiare, con passione lentezza e rigore, La Gerusalemme liberata. Prima l’avevo solo assaggiata (e fatta assaggiare) a piccole dosi in ambienti scolastici, poi niente piú per anni: la voce diretta di Torquato era sparita dal mio orecchio, eccetto citazioni e rimandi altrui, frammenti e accenni, dipinti del Guercino, del Domenichino, del Tiepolo, del Delacroix e di molti altri, visti chissà dove e come – ma questa è un’altra faccenda e la taglio subito, perché una voce come quella del Tasso ha in sé tutte le tonalità per vivere da sola in un timpano umano, quantunque moderno.

Chiusa dunque l’ultima pagina, non so come mai, invece di riandare con la memoria e con le emozioni ai commoventi episodi di Olindo e Sofronia, Tancredi e Clorinda, Rinaldo e Armida, mi vengono stranamente in testa, a mo’ di consuntivo, dei numeri: io ho quarantatré anni e questa opera ne compirebbe quattrocentotrentatré (la stesura finale è del 1575), ora siamo nell’Anno Domini MMVIII e la storia è ambientata attorno al 1096, poiché narra della prima Crociata iniziata da Goffredo di Buglione in quell’anno e terminata nel 1099 con la conquista di Gerusalemme.

Cifre, queste, che esprimono delle dissonanze esplicite ed incrociate: una dissonanza esiste, anche se minuscola, già fra me e il 2008; un’altra, ben maggiore, fra il 2008 e il 1575; l’ultima è fra il 1096 e tutte le altre date, ed è quella piú evidente.

Ci sono dei veri e propri abissi cronologici fra gli elementi che si relazionano in tutto ciò – mi dico – come ad inanellarsi in una catena di forzature delle quali l’ultima è rappresentata dalla mia ostinazione all’esame del poema, con l’ausilio di note scarne e senza apparati critici. Uno strano gioco, il mio, chissà da dove scaturito, dentro o fuori di me.

Già: perché voglio riconquistare il Tasso, chi me lo suggerisce, chi mi obbliga ad inchiodarmi sulla sua opera principale pur senza ammanettarmi entro scadenze esteriori o necessità interiori?

Poi però penso ai due maghi, contrapposti, del poema: Ismeno (musulmano, infernale, ovvero Pagano secondo la terminologia dell’autore e dell’epoca) ed Ascalona (cristiano, celestiale) e alla fugace apparizione della dea Fortuna – pagana tout court ma qui stante dalla parte dei cristiani, poiché salvifica nei confronti di Rinaldo, eroe cristianissimo lasciatosi traviare dagli incantesimi erotici della strega/fata Armida. Una Fortuna del tutto moderna, questa, che, lontana anni luce dal significato originario, porta la buona sorte a chi vuole il Creatore Unico.

Inoltre, a controbilanciare l’aiuto che l’Arcangelo Gabriele offre (Hermes cristiano dotato di armi invisibili) al campo di Goffredo, vedo la forsennata furia Aletto, altro alleato delle potenze demoniache strappato alla mitologia classica, che qui, prese le sembianze del vecchio Araspe, stuzzica l’onor islamico del condottiero arabo Solimano: Ardisci, ardisci: entro ai ripari suoi / Di notte opprimi il barbaro tiranno (attenzione: il barbaro tiranno da opprimere entro ai ripari suoi è Goffredo di Buglione).

In sovrappiú Idraote, un ennesimo mago oggi poco notato, invia la seduzione per antonomasia ad indebolire le armi cristiane, nei panni e nelle tornite carni della stupenda maga Armida (forse il personaggio piú riuscito dell’intero poema, anche perché vicina alla Didone virgiliana e come ella strumentalizzata per una sorta di ragion di Stato, qui vista col prisma della biblica missione spirituale e dunque infine graziata dall’artefice, Dio o Tasso che sia).

A rappresentare una guida spirituale in diretta comunicazione col Dio cristiano ed affiancata ad un già angelico Goffredo, troviamo inoltre Pietro l’Eremita, i cui consigli spesso sono vaticini e rimedi contro gli incantesimi avversi – fra i quali certamente i piú temibili sono la zizzania, o meglio il sospetto reciproco, e la seduzione erotica femminile. L’Eremita, Goffredo e Ascalona sostituiscono, credo, completandosi a vicenda nell’assolverla, la funzione che nella poesia classica avevano i re, gli aedi e gli oracoli.

Ma tali interventi magici, cioè a dir meglio ultraterreni, sempre puntualmente motivati secondo la contrapposizione dottrinale Bene/Male ed Inferno/Paradiso nonché accuratamente portati entro una visione controriformistica dell’arte (il Concilio di Trento si era chiuso nel 1563), non bastano: ancora troppo profano, per le esigenze dell’autore, verrebbe cosí a configurarsi il racconto in ottave; dunque l’Inferno e il Paradiso stessi, visti con geografico-realistico sguardo e anticlassicistico zelo, vengono portati a partecipare direttamente all’agone in Terrasanta mostrando i due Sommi Protagonisti stessi in prima persona: Il Diavolo, Plutone, Gran nemico delle umane genti, da perfetto re della cittadella ínfera, si comporta infatti come segue, irato per la buona sorte cristiana: Contra i Cristiani i lividi occhi torse; / E lor veggendo omai lieti e contenti, / Ambo le labbra per furor si morse; / E, qual tauro ferito, il suo dolore / Versò mugghiando e sospirando fuore. (Canto IV).

Descritto direi con tratti michelangioleschi, Plutone poi, con fare da condottiero, aduna nella propria reggia sotterranea il suo mostruoso e orrido popolo-bestiario (composto di dèmoni ed esseri dalle orribil forme: Idre, Chimere, Polifemi, Scille, Gorgoni e quant’altro di tolto al mondo pagano) e arringa quei sudditi spronandoli ad andare in aiuto dei musulmani assediati. Si tratta di una replica in evidente polemica con Dio stesso, il quale, all’inizio del poema, era intervenuto per legittimare ed avviare la missione di Pietro l’Eremita (braccio spirituale) e Goffredo (braccio anche secolare): Dio, visti gli eroi cristiani inattivi, Chiama a sé da gli angelici splendori / Gabriel, che ne’ primi era secondo. / (…) / Giú i decreti del Ciel porta, ed al Cielo / Riporta de’ mortali i preghi e il zelo. / Disse al suo nunzio Dio: Goffredo trova, / E in mio nome di’ lui: perché si cessa? / Perché la guerra omai non si rinnova / A liberar Gerusalemme oppressa? (Canto I).

Tutto ciò finora esemplificato sta, non solo ma pure, a dimostrare quanto diversa, rispetto al periodo pre-tridentino dell’Umanesimo italiano (uno per tutti: l’Ariosto), fosse qui la progettualità morale e letteraria di fondo di un poeta dopotutto pur sempre calato nell’Umanesimo, ma i cui ben diversi intenti vengono dichiarati sin dai primi versi, i quali espongono una ben strana invocazione: O Musa, tu che di caduchi allori / Non circondi la fronte in Elicona, / Ma su nel Cielo infra i beati cori / Hai di stelle immortali aurea corona.  Sí, strana invocazione, perché scopertamente rivolta non a Calliope (la musa della poesia epica) ma alla Madonna stessa (con lo pseudonimo di Musa, vero?), alla quale il Tasso annuncia chiaramente piú oltre, scusandosene, la sua ferma volontà di edulcorare, in modo strumentale, il messaggio cristiano unendolo a delle dolcezze parnassiane, perché (…) Il vero condito in molli versi, / I piú schivi allettando ha persuaso.

Allora la Gerusalemme liberata nasce con la funzione sinceramente apostolica di recuperare alla Vera Fede gli incerti, i dubbiosi e gli agnostici, ma in punta di piedi, col guanto di velluto, insomma senza che essi se ne accorgano: Cosí all’egro fanciul porgiamo aspersi / Di soave licor gli orli del vaso: / Succhi amari ingannato intanto ei beve, / E da l’inganno suo vita riceve.

Il modernissimo (Collodi lo porterà nel suo Pinocchio) paragone del bambino ammalato (egro fanciul) che rifiuta di bere lo sciroppo amaro (qui metafora di Messaggio Cristiano) e dunque rischia di morire (cioè di dare in pasto l’anima al Diavolo) è sufficiente motivo per il Tasso di concepire e sviluppare, senza ambiguità nòtasi, un intero poema che, sotto una superficie epico-cavalleresca, contenesse un apologetico ingannare per fini religiosi il lettore suo coevo, il quale, malato di profanità, rischiava altrimenti di restare nell’ignavia rappresentata dalla Letteratura umanistica precedente – il cui atteggiamento liberale e filopagano Tasso rigetta dal profondo dell’anima.

Naturalmente i destinatari dell’opera restano confinati nella cerchia degli uomini di cultura, vista la palese noncuranza dell’autore per ogni manifestazione plebea e l’accettazione dei dettami stilistici petrarcheschi, l’eloquio cortigiano ed aristocratico, l’aristotelismo integrale, la sua fiducia indirizzata (almeno nei suoi risvolti terreni) unicamente al sovrano assoluto, cioè al Dio Sovrano in Terra.

Sí, sappiamo tutto questo e non possiamo non considerarlo malato, egro, questo furore  missionario; frutto di un’anima instabile e bambina, o quanto meno profondamente decontestualizzata, persa nel deserto delle mutazioni epocali – e la sua fu una di quelle piú dure del nostro Paese. Ma sappiamo anche quanto la Gerusalemme Liberata sia penetrata a fondo nel cuore e nella memoria individuale e collettiva degli Italiani e degli Europei, interclassisticamente diremmo, cosí sviluppando in straordinaria autonomia una fortuna tutta sua, andante ben al di là della stilistica barocca, di cui anticipa molte peculiarità formali, e soprattutto ben oltre gli intenti missionari del Tasso stesso. Non per niente Leopardi ne fu un estimatore e Goethe nel 1790 scrisse il suo noto dramma Torquato Tasso. Eh sí: l’incessante fama popolare lo predisponeva all’arrembaggio unilaterale delle fazioni che fossero di volta in volta à la page. Comunque, anche se tirato per la giacca e cosí misinterpretato da romantici e positivisti, inserito fra gli odiati poeti classicisti dai pittori francesi eccetera, il poeta puro Tasso, negli anni Settanta del Novecento, credo abbia avuto tuttavia una piccola rivincita personale, facendosi commentare dal critico Mario Pazzaglia come segue: ”Il tentativo tassiano (…) cerca di attuarsi sullo sfondo delle due istituzioni del suo tempo nelle quali il poeta credette fino a illudersi sul loro effettivo valore: la corte e l’accademia. La prima era per lui un’aristocratica accolta di spiriti eletti, di cui si sentiva chiamato a celebrare le virtú magnanime, sollecitandola ad alti ideali e a nobili imprese; l’accademia gli offriva l’insegnamento di un’arte eletta e rara, adatta ad esprimere quel nobile ideale di vita.”Inutile precisare che, proprio come prosegue il Pazzaglia nello stesso brano ”Il tentativo del Tasso si infranse nell’urto contro una società spoglia di dignità e grandezza; e fu per lui una sconfitta sul piano poetico (la Conquistata) e su quello umano.”

A giudicare dal Pazzaglia (1979) ci sono voluti quattrocento anni, a noi Italiani, per capire che i numeri non contano nulla. Ed io, be’, non l’ho capito mica subito; l’ho capito solo grazie ai maghi di cui il capolavoro è disseminato che per sentirsi in familiarità col Tasso (non lo stesso sarebbe per altri, pur altrettanto grandi) bisogna annullare tali dissonanze stupidamente epocali sciogliendole nel miracolo di un’opera realmente magica, sofferta e scomoda: magica per la capacità che ha insita di unire tutto il Medioevo (ed oltre) in un solo racconto; sofferta perché mai essa fu, è o sarà, affermazione adeguata al candido desiderio d’ortodossia cristiana del suo autore e scomoda per tutti, cristiani e non. Scomoda all’ennesima potenza, inevitabilmente, per il Tasso, che divenne pazzo a voglia di riscriverla – già: anche nella stesura del 1575 vediamo quanto egli non avrebbe potuto esprimersi senza ”Abusare di minuziosità, di giuochi di parole, di concettini, di contrasti artificiosi, di lungaggini”, come disse il critico Enrico Bianchi negli anni Sessanta; espressione già chiara, questa, credo, di un travaglio interiore ai limiti dell’umanamente tollerabile. Scomoda per l’Occidente, che ci si rispecchia al di là dei falsi moralismi che lo hanno sempre accompagnato durante l’era cristiana. Scomoda, infine, per chiunque sia sincero o cerchi la sincerità scavando sempre piú nel profondo di ogni cosa.

Dunque non mi chiedo piú che senso abbia leggere, oggi, l’edizione integrale di un poema epico cavalleresco che probabilmente era stato già di molto sorpassato, per modernità complessiva e struttura narrativa, dall’Orlando furioso dell’Ariosto diversi decenni prima (l’ultima stesura dell’Orlando è del 1532). No, non me lo chiedo piú: eh, ce ne sono di atti inconsulti, nella vita: fra i quali anche l’anelito a Vincer la rabbia de le stelle e il fato (Canto XIII, st. 80) nonostante la propria ed altrui debole umanità. 

Sergio Sozi (Lubiana, 29 VI 2008)

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martedì, 1 luglio 2008

L’ACQUARIO DEI CATTIVI. Incontro con Antonella Del Giudice

Trent’anni fa – il 9 maggio del 1978 – moriva Aldo Moro. Se ne è discusso tanto nelle scorse settimane. In maniera più o meno diretta.

Cosa ci rimane di quegli anni? Cosa resta oltre alle ferite non ancora del tutto rimarginate?

Parliamo di quegli anni e di quello che è accaduto dopo: del post terrorismo.

L’occasione ce la fornisce il nuovo romanzo di Antonella Del Giudice (nella foto). Si intitola “L’acquario dei cattivi” (Alet, 2008, pagg. 176, euro 13).

Quattro ex militanti si rincontrano a distanza di trentanni. Un passato di terrorismo li accomuna. Fra loro c’è chi ha pagato con la prigione, chi è riuscito a fuggire all’estero, chi si è integrato nel sistema e oggi è addirittura magistrato. Ma gli scheletri del passato non esitano a riaffacciarsi sul presente quando le trame del destino chiamano al confronto. Il ricordo di un conflitto a fuoco, la morte violenta del capo del gruppo e un regolamento di conti sospetto. Chi fra loro ha veramente tradito?

Vi propongo la recensione di Monica Bardi (pubblicata sulle pagine de L’Indice dei libri del mese), e la lettura di Sergio Pent pubblicata su Tuttolibri.

Di seguito potrete leggere un brano estratto dal libro (l’incipit lo trovate qui).

Chiudo con una domanda posta da Monica Bardi nella sua recensione: è possibile vivere rimuovendo la tragedia?

Massimo Maugeri

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Recensione di Monica Bardi

Per parlare di terrorismo italiano, di un piccolo nucleo di brigatisti meridionali, Antonella del Giudice usa la stessa prospettiva decentrata scelta da Philip Roth in Pastorale americana, in cui il sogno statunitense si rifletteva impietosamente nell’immagine di Merry, ragazza obesa e balbuziente, ex terrorista e barbona, persa nel mondo e seguace di sette esoteriche. Eppure il fenomeno italiano, nell’intreccio tra società e cultura, stili di vita e ideologia, ha i caratteri peculiari che sono stati individuati (grazie al recente interesse per quegli anni, diffuso fra storici e giornalisti) e che mostrano profonde differenze rispetto a quelli del terrorismo americano, legato alla contestazione degli anni settanta e alla guerra nel Vietnam, ma isolato anche nell’esplosione violenta e sanguinosa del movimento dei Weathermen.
La prospettiva decentrata scelta dall’autrice dell’Ultima papessa (Avagliano, 2005), ora al suo secondo romanzo, risponde a quell’esigenza di stacco temporale utile a ogni bilancio e anche, forse, al tentativo di non aderire a quella “superficie rassicurante e piuttosto autoconsolatoria” dei racconti sugli anni di piombo, di cui parla Filippo La Porta nell’introduzione a un bel saggio di Demetrio Paolin, Una tragedia negata, pubblicato recentemente dalla casa editrice Il Maestrale. Analizzando una ventina di libri sugli anni settanta (i romanzi di Baliani, Culicchia, Doninelli, De Luca, Lambiase, Moresco, Villalta, i racconti in prima persona di ex terroristi come Braghetti, Morucci e Peci, le inchieste di Stajano), Paolin svolge in modo conseguente la sua tesi sulla costante rimozione della tragedia; tale negazione si esprime, a suo parere, “proibendo alcune voci, trasformando gli scenari tragici in interni di casa borghese, anestetizzando la violenza agita ed eclissando la figura del nemico”. Il romanzo di Antonella del Giudice si sottrae a questo meccanismo di rimozione proprio operando quello spostamento temporale di cui dicevamo: i membri di un nucleo armato si ritrovano dopo trent’anni, fisicamente manomessi da obesità, malattie, carcere o interventi plastici e con i loro destini disegnati da casi diversi (uno è magistrato di una qualche visibilità).
Per tutti, sommersi e salvati (c’è anche l’ombra di un cadavere e quindi il sospetto, gettato su tutti e legato alla sua morte), vale come contenitore ideale l’acquario, una villetta a schiera, perfetta per una villeggiatura impiegatizia al mare oppure per una base operativa: “Un ambiente come questo è ideale per noi: mobili svedesi a buon mercato, poltroncine di midollino, cuscini ocra stinti, soprammobili casuali, un lampadario a gocce colorate ricettato da uno scarto di arredamento cittadino, un obsoleto televisore a valvole, l’antenna a cerchio, plastificato rosso, lo schermo contro il muro come un occhio in castigo”. Nell’incalzarsi di voci all’interno di un luogo chiuso (che fa pensare a una possibile trasposizione teatrale del romanzo), gli anni settanta vengono ripercorsi attraverso la ricostruzione perfetta di un sistema di valori, di relazioni strettissime e di un linguaggio interno. L’autrice riesce, nell’intrecciarsi dei dialoghi, a stare in equilibrio, tenendo lontana da un lato l’apologia dei migliori di una generazione e dall’altro il compiacimento degli integrati nel mondo.
La domanda che rimane aperta è proprio quella posta da Paolin: è possibile vivere rimuovendo la tragedia? Ma la risposta va ricercata nella ricomposizione (sia pure posticcia) del nucleo originario, nel confronto fra uguali: sovrapporsi di voci in cui tutti sono obbligati a svelarsi, a gettare la maschera, a spiegare come è stato possibile, dopo la militanza e la violenza, stare nel mondo e arrivare integri a quell’appuntamento. Per tutti il senso va trovato insieme; solo il corpo del gruppo può attribuire colpe e fissare responsabilità. Questo il senso politico di un gesto offensivo sulla cui necessità tutti trovano un accordo, come viene spiegato in uno di quegli inserti in corsivo che costituiscono il sottotesto del romanzo, il flusso dei pensieri, il tentativo di riportare l’ordine nel caos dell’acquario, la luce nel buio: “–Ti tengo – sussurriamo l’uno all’altro. E ancora, a vicenda, a fil di fiato, come a proteggere il sonno d’un bambino, con tono di preghiera e panico: – Chi sei? Sei tu? – Ci rinneghiamo, divincolandoci come pesci renitenti all’amo che ci uncina per le branchie: non siamo, non fummo, non ne sappiamo nulla, non ci riguarda. Catalogarci per negazioni è la nostra estrema difesa per un’ultima offensiva”.

 

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Recensione di Sergio Pent

Nel romanzo di Antonella Del Giudice «L’ACQUARIO DEI CATTIVI» (Alet, pp. 165, e13) i personaggi sono emblematici, assoluti. Su un palcoscenico ideale, rappresentano – ciascuno a suo modo – il dilemma della nostra coscienza collettiva. Quattro persone mature, ex-militanti del terrorismo, si incontrano a distanza di trent’anni per fare i conti col passato e con il segreto della morte di un loro compagno. In una villetta di vacanza presso un mare agitato da un violento uragano, il momento dei resoconti e delle confessioni diventa l’arma di un’autoanalisi spietata, senza vincitori, in una beffarda messa in scena che determinera’ l’ultima scelta, quella forse piu’ grottesca e impensabile, ma necessaria. In un aspro delirio di umanita’ mai uscite dalla memoria di quegli anni, Antonella del Giudice mette in scena una piece impietosa e sarcastica, con personaggi tanto assurdi quanto credibili. L’avvocato Eligio Di Fiore – Floreligio – divenuto emblema di una legalita’ sempre piu’ provvisoria; Giangiorgio Scotto – Giancio – divo delle soap opera sudamericane dopo un opportuno lifting; Milo Osci – Mosci – condannato da un cancro devastante; e Terri. Terri l’Apache, la donna di tutti, il figurino esile ora tramutato in una scostante matrona infossata nel lardo. Chi di loro causo’ la morte del compagno Giulio, in una disperata azione di trent’anni prima? Gruppo terrorista in un interno: il romanzo non risponde a verita’ determinanti, ma diventa il perfetto gioco di ruolo di una generazione sconfitta.

 

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Brano estratto dal libro

Ma Milo la rintuzza: «Siamo tutti un po’ acciaccati, Terri, però possiamo ancora farcela. Siamo in tempo. E sono convinto che legioni di scontenti e delusi di buona volontà non aspettano che un esempio per reagire. Noi non dovremmo che attizzare il fuoco mai spento dell’indignazione, della brama di giustizia. Lo dobbiamo, Terri».

«A chi?» Terri sta a ravanare nella borsa alla ricerca di sigarette e accendino. Ma non è disattenta.

«Alla Storia.» Il tono solenne di Milo le fa il solletico per quanto le suona grottesco. Rovescia impaziente il contenuto della borsa sul tavolino mentre replica, sfigurata da una risata che le si ritorce dentro e contro: «Ma che dici? Della Storia noi non fummo che una malconcia retroguardia: fattene una ragione».

Milo tace. Si guarda le mani. Gialle zolfo. Le unghie a teschio dissotterrato.

Terri non ha tregua. Mentre ristipa in borsa – senza ricordare cosa cercasse – chiavi, biro, ricevute fiscali, caramelle sfuse, pile scariche, cicche, spiccioli, un borsellino, il cellulare dalle dimensioni fuori moda, qualche molla, tre accendini a perdere, un pacchetto di sigarette quasi vuoto, una scatolina di mentine in latta acciaccata – attacca greve: «Siamo stati sfortunati, noi, Milo, a nascere in questa era imbelle, in questo emisfero da limbo. Con tutta la forza d’amore bruto che ci bruciava in corpo, in altri tempi, avremmo fatto epica, ci avrebbero eretto statue nelle piazze e dedicato scuole. Avremmo guidato la carica, avremmo centrato, lancia in resta, il bianco degli occhi dei nemici. Invece? Eccoci qui, caro il mio Mosci: pensionati del partito armato, a giocare a rimpiattino coi ricordi, intrappolati da una pioggia di fine stagione, con una vogliaccia sorda e indefessa di linciaggi e incendi. Ma piove, Milo, e l’acqua spegne, infradicia e affoga. Nemo non c’è e non ci sarà mai più. E l’unica soddisfazione è che il responsabile delle nostre rovine, Nino Meo, ha avuto il fatto suo. Te lo immagini? Io sì, come se ora, in questo preciso momento, stesse annegando sotto i miei occhi. Lo vedo: stordito ma cosciente quanto basta, sudato freddo, incaprettato. Il tuffo.

L’acqua negli occhi. Più si dibatte e più affonda.

La morte grigioverde, ghiacciata, entra dal naso, perché Nino Meo, quella boccaccia da Giuda infame, stavolta la deve inchiavare. La lingua è un nodo, il collo contratto, il capo rovesciato indietro per istinto di conservazione, la spina dorsale tesa ad arco. Invano. Perché Nino va giù, va giù e vomita quel che inghiotte e inghiotte quel che vomita, e sa che se lo merita di morire così. Però non vuole ancora arrendersi al nulla in cui scende.

Ancora, per quella scintilla di consapevolezza che lo fa espiare, non ci crede. Resiste. E perdeil controllo delle viscere. L’amaro acido della bile gli infiamma la trachea. Gli si scioglie l’anima in acque di vergogna e orrore. Ma nessuno lo salverà.

Non c’è niente da fare, potrebbe anche squagliarsi tutto, tanto tutto è liquido e dannatamente scorre.

Panta rei, Mosci, panta rei».

Una risata da iena stravolge Terri.

«Insomma, Terri: ti va o no di tornare a combattere?» domanda ingobbendosi Milo, preparandosi a una delusione che, proprio da Terri, non prevede.

Terri si compiace di contraddirsi e di sorprenderlo.

«Sicuro che mi va di combattere. Ho una foia addosso che potrei farmi esplodere sotto la statua equestre che mi hanno negato. E non soffro di mal di testa. E non ho il cancro. E nemmeno una pubblica rispettabilità. E sono viva. Non ho mai pensato di aver torto, mai. Se penso alle mie vittime, una a una, le beccherei tutte senza esitare, come se loro dal purgatorio me lo chiedessero sbavando.

Sono cattiva, Milo, e non ho che questo rancore sordo, radicato, da offrire a una causa di cui ho perso la ragione, ma che pur doveva averne una, se a essa ho votato la mia esistenza. Tutto, tutto pur di non essere la rotellina anonima di un ingranaggio fermo. Dammi l’abbrivio, Milo, e ancora una volta girerò all’incontrario per inceppare la macchina

immobile dell’ordine.»

Milo sorride appagato, la bragia in fondo alle pupille.

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