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lunedì, 1 marzo 2010

DIBATTITO SULLA LETTERATURA DEI VAMPIRI… E DI ALTRI ORRORI

Aggiorno questo post dedicato al dibattito sulla “letteratura dei vampiri” (che nel frattempo si è trasformato in dibattito sulla “letteratura dei vampiri… e di altri orrori“), inserendo il contributo alla discussione fornitomi da Sergio Altieri (in arte Alan D. Altieri): scrittore, traduttore e direttore editoriale delle collane Mondadori distribuite in edicola. Ne approfitto per ringraziarlo. Segue il post originario pubblicato il 1° marzo 2010.
Massimo Maugeri

* * *

Il (nuovo) giorno del vampiro
Alan D. Altieri

ovvero

Il fascino (indiscreto & eterno)
dell’immortalita’ malefica

* * *

sergio-altieriWhat the hell! Proprio quando ricominciavamo a sperare nella validità dei vecchi metodi. Ma sì, ya all know what I mean: anzitutto santo martello & saKro piKKetto. Più crocefissi assortiti, aglio a grappoli, acqua pura (really? we still got that?) a damigiane, specchi possibilmente non incrinati, etc etc etc. Insomma, tutta l’attrezzatura obbligata e obbligatoria del piccolo vampirista perfetto, tale da sbarazzarci di quegli invadenti salassatori.
Giusto?
Tutto sbagliato.
Guess what: della lista di cui sopra – e senza, almeno per ora, ricorrere agli strabilianti trucchetti post-techno degli ultimi tempi, tipo proiettili di luce & affini – non funziona più un accidenti di niente. Di certo non funziona più un accidenti di niente nel “nuovo giorno del vampiro”.
Difatti, chi non muore – e questi mai che tirino veramente cuoia – si rivede. Per cui una nuova, radiosa alba popolata da orde si sukkiasangue è sorta su questo nostro pianetucolo dolente in attesa del catartico, liberatorio 2012. E non è affatto detto che non siano proprio loro, i vampiri, a mettere la parola fine al nostro inquinato, sovrappopolato, tormentato destino di bipedi imperfetti ormai decisamente e miseramente slittati nell’(in)umano.
Discutibili facezie a parte – pressoché in ogni forma della comunicazione scritta e iconografica – l’intera mitologia vampirica sta vivendo una inedita (ennesima) eterna giovinezza.
Francamente, e passatemi la notazione personale, allo scrivente la cosa va alla grande. Leggendo da ragazzo l’immortale – in senso di capolavoro letterario – “Dracula” di Bram Stoker, nella fenomenale traduzione dell’ugualmente immortale Francesco Saba Sardi, mi schieravo tutto dalla parte del Principe delle Tenebre. Già eretico nell’adolescenza, quindi? Peggio: eretico, blasfemo, nonché politikamente scorrettissimo. E vi argomento anche perché:
- Dracula è solo, ma proprio solo, (R.M. Renfield non è nemmeno il suo garzone di bottega) in lotta per sopravvivere contro un intero universo: sopravvissuto suo malgrado a un passato di orrori, costretto a fare i conti con un amore disperato e impossibile, condannato a coesistere con la propria mostruosità endogena. Ditemi voi se non è questo IL vero eroe romantico di tutti i tempi, letteralmente…;
- gli avversari di Dracula sono l’orgia degli scornacchiati: abbiamo il moscio rimbecillito (Jonathan Harker), il mandriano da trivio (Quincey Morris), il demente tossico (Dr. Jack Seward), e, dulcis-in-fundo, il vittoriano scassapalle sessualmente frustrato (Abraham Van Helsing). Come on, guys, get a life… No, even better: get a death!;
- le ganze di Dracula sono il meglio sulla piazza: a partire dalle tre sexy vampirelle su nella nera fortezza dei Karpazi (okay, ladies, let’s rock!), per passare alla spumeggiante Lucy Westenra (ready to jugular, old boy!), chiudendo in bellezza con la delicata (ma non troppo) Mina Harker (just suck me dry, my Prince!).
Insomma, Dracula Forever.
A tutti gli effetti, il forever di cui sopra continua a funzionare. Ormai da quasi due secoli l’oscuro eppure tormentato, truculento eppure fascinoso, Conte Dracula – e pressoché tutte le sue incarnazioni/deviazioni/ rivisitazioni/approssimazioni successive – rimangono una dominante primaria dell’immaginario individuale e collettivo.
A parere dello scrivente, è il fascino inevitabile dell’immortalità.
Esatto: transitare attraverso lo spazio e il tempo senza tutte quelle menate mistico-messianiche stile Highlander, osservando e studiando, testimoni occulti dell’umana fallacità senza peraltro farne parte. Al di sopra di tutto e al di là di tutti. In sostanza, quanto di più vicino si riesca ad arrivare alla divinità. D’accordo, c’è un prezzo da pagare: no immagini riflesse, no luce del sole, no cenette gourmet (che non siano emoglobiniche), no un po’ di altre inutili frescacce della vita diurna. Ma in definitiva, what the hell, right?
Senza nemmeno osare di ripercorrere l’intera epopea dei vampiri dalla carta stampata, al grande & piccolo schermo, tutta la strada fino ai fumetti e ai videogame, lo scrivente si limiterà a tentare di analizzare i trend più recenti di un filone narrativo (inteso nel senso più lato possibile) che si è già guadagnato l’immortalità’:

vampiritrend #1) vampiri “classic”: non a volte ma sempre ritornano, un po’ come quel buon barolo invecchiato al punto giusto. Profetessa indiscussa di questa rivisitazione rimane la grande Ann Rice. Nei primi anni ’80, con il vampirismo erroneamente considerato materiale da biblioteca, il Lestat creato da Ann Rice – e la sua intera saga susseguente delle “Vampire Chronicles” – riporta in primo piano queste creature ambigue e minacciose, efemeriche e seducenti. In film, abbiamo la riuscita trasposizione di “Interview with the Vampire”, magistralmente diretta da Stephen Frears, seguita purtroppo della bufala – al di là della presenza della meravigliosa e compianta Aliyah – tratta da “Queen of the Damned”. In ogni caso, l’universo estetizzante e diabolico creato da Ann Rice rende tuttora in modo fenomenale. In questa direzione, il vampiro classico, non va dimenticata l’opera della valida narratrice Chelsea Quinn Yarbro con la sua saga del Conte Saint-Germain, pubblicata integralmente in Italia della eccellente casa editrice Gargoyle. Così come non va trascurata l’ultimissima incursione meta-vampirica a opera niente meno che del nipote del divino Bram. Ecco quindi “Dracula the Undead”, a firma Dacre Stoker & Jan Holt (Undead, gli Immortali, PiEmme, 2010), ottima resurrezione del “Divin Conte” quasi in salsa steampunk, con la partecipazione straordinaria di Jack the Ripper, la Contessa Batory e via smembrando.
Insomma, quei volti lividi e affilati, quelle marsine con svolazzante jabeau appena chiazzato di rosso, continuano a tirare al massimo dei giri… Oops, dei kanini;

trend #2) vampiri “stylè”: o anche “vampiri Prada”. Difatti: alti ma non eccessivi, belli ma non sbracati, palestrati ma non ipertrofici, eleganti ma non azzimati, seducenti ma non ambigui, insomma dalla loro le hanno proprio tutte, inclusa una millenaria società parallela nemmeno troppo sotterranea rispetto alla strafottuta società umana. Avete presente? Ma sì, sono loro: la gang cromaticamente virata all’azzurrino di “Underworld”. Ipnotico okkione glauco-livido modello Ice 9 (Kurt Vonnegut for President!), magnifici spolverini di cuoio liscio e abbastanza volume di fuoco full-automatic da livellare Manhattan.
Da un punto di vista visuale, quella del vampiro “stylè” è diventata una proposta dalla quale è ormai difficile discostarsi. Sarebbe un po’ come fare vedere astronavi a forma di sigaro con le grandi ali (pure pulp anni ’50) al posto delle maestosamente lente strutture ipercomplesse inaugurate da Stanley Kubruck (2001), portate poi all’estremo da Ridley Scott (Alien).
Dalla orgiastica e sanguinaria proposta botti & spari, sesso & krudeltà della serie “Anita Blake: Vampire Hunter” a firma della dura & pura Laurell Hamilton, passando per i new gothic “Southern Vampire Mysteries” di Sherrilyn Kanyon, fino alla primariamente romantica (addirittura “vegetariana”) ninna-nanna adolescenziale di “Twilight”, con l’abile Stephanie Mayer al timone, il vampiro “stylè” domina ampiamente la scena. Sarà quindi interessante osservare quale sarà la prossima evoluzione di questo trend. Come on, boys & girls, non potremo avere kanini in salsa Dolce&Gabbana e Moccia per sempre… o no?;

trend #3) vampiri “monstre”: qui si fa addirittura un passo evolutivo all’indietro rispetto a Dracula, eterno vate. Il vampiro mostruoso è solamente una belva infame assetata di sangue. Troppi dentoni e troppo poco cervello, brutto come una qualsiasi sessione parlamentare itaGLiana e aggressivo come l’ultimo cretino analfabeta appena espulso dalla casa/casino di “pikkolo fratello scemo”. Il vampiro “mostre” è buono per una sola cosa: essere fatto fuori, se possibile nel modo più orrido & splatter immaginabile.
Decisamente spostati sul “monstre” sono i puzzosi e fetidi vampiri di “Midnight Mass”, non indifferente ritorno letterario del sempre azzannante F. Paul (“The Keep”) Wilson, pubblicato in Italia parimenti da Gargoyle con il titolo di “Messa di mezzanotte”. Nella loro cannibalica invasione del mondo, i vampiri di Wilson sono molto più attirati dai sanguinacci trucidi che non dalle pulzelle. Beh, a opera degli umani che non mollano, mal gliene incoglierà: come get it, sucka!
Piccolo grande trionfo di come si affrontano i vampiri “mostre” rimane “30 days of night”, trasgressivo fumetto ideato da Steve Niles & Nigel Templesmith, diventato poi un inaspettato successo cinematografico da quasi ottanta milioni di dollari d’incassi diretto dall’abile David Slade. L’idea di base è tanto semplice quanto sinistra: Barrow, Alaska, l’ultimo avamposto civilizzato del Nord AmeriKa, è alle soglie di un intero mese di notte artica. Da chissà dove (citazione diretta della nave dei topi di Dracula) arriva un tetro cargo maledetto. Dal cargo maledetto sbarca l’orda dei vampiri “monstre”, a cui frega solamente di aprire carotidi. Welcome to Barrow, suckers! Mai realmente scadendo nel clichè ma dando ampio spazio al mattatoio, il lavoro di Slade è la quintessenza di tutti i claustrofobici film d’assedio, un “Precinct 13” con i sukkiasangue al posto dei gangstar (o degli sbirri marci). Eppure, c’è almeno un passaggio magistrale. Marlowe, un nome una garanzia letale – interpretato da un irriconoscibile Danny Houston, figlio del compianto maestro John Houston – sta per cibarsi dell’ennesima vittima implorante la grazia di dio. Quasi con rassegnata tristezza, Marlowe indica verso in cielo, scuote il capo: “No god”. Dopo di che, slurp! Insomma, finalmente anche all’inferno ci siamo accorti che dio è morto;

trend #4) vampiri “epidemic”: per i quali il vampirismo è generato da un virus (in senso lato). Tante zanne, ecchissenefrega delle ali da pipistrello, potenziale capacità di affrontare la luce solare. In sostanza, il “virus vampirico” muta, distorce e inghiotte l’umano.
Fino a oggi, un unico, straordinario precursore di questa inevitabile variazione sul tema: Richard Matheson con il suo capolavoro della SF apocalittica “I am legend”. Portato in film ben tre volte – “L’ultimo uomo della terra” (1964, diretto da Sidney Salkow) “The Omega Man” (1971, diretto da Boris Sagal), “I am Legend” (2008, diretto da Francis Lawrence) – “I am Legend” affronta con incredibile maestria tutte le paure dell’uomo: solitudine, vuoto, alienazione, distruzione, autodistruzione… Non una sola sfumatura dello spettro emotivo è lasciata fuori da questo prodigioso apologo del lato oscuro. Sono davvero vampiri, le creature di “I am Legend”, o sono forse la prossima evoluzione di una razza già estinta? Nel suo libro, Matheson si limita a suggerire una risposta, lasciando al lettore le scelta interpretativa cruciale.
Meno riusciti i film: troppo datato il primo, troppo patriottico il secondo, troppo incompiuto il terzo. Pur con il valido Will Smith protagonista in un inaspettato ruolo duramente drammatico, pur con una fenomenale prima metà nella New York svuotata e spettrale, il terzo “I am Legend” si affloscia nel finale, anzi nei due finali, area dove più la narrazione discosta dal testo di Matheson.
Per contro, quello dei vampiri “epidemic” è il trend che contende ai vampiri “stylè” la supremazia del genere. In questo senso, un contributo determinante – sia visuale che scritto – viene dal fuoriclasse Guillermo Del Toro, sceneggiatore e regista iberico ormai solidamente trapiantato a Holly-weird. Imbattibile artista delle creature insettiformi – straordinari gli effetti dal crepuscolare “Cronos” (1993) fino all’estetizzante “Il labirinto del fauno” (2006) passando per il feroce “Mimic” (1997) – Del Toro inserisce nel tema vampirico una sua personalissima svolta già in “Blade II” (2002). Sta sorgendo una razza di vampiri “infetti”, meglio sterminarli o… modificarli geneticamente in vista della irresistibile ascesa del prossimo vampire empire?
Temeraria tematica biochimica che Del Toro riprende letterariamente in “The Strain” – “La Progenie”, Mondadori, 2009 – primo volume di ambizioso progetto trilogico scritto a quattro mani con Chuck Hogan. Anche qui, il vampiro è l’untore principe di New York.
Per molti versi, il vampiro “epidemic” potrebbe essere la saldatura di contaminazione – oh, come on, THAT again? – con il genere zombi. Emblematici in questa sanguinaria terra di mezzo i due non indifferenti film “28”, giorni e settimane dopo. Quelle orde assatanate e urlanti sono zombi, sono vampiri, o sono qualcosa d’altro?

Well, qualsiasi cosa siano le creature di cui sopra, qualsiasi validità vogliate dare ai trend di cui sopra, almeno su un punto possiamo concordare. Eh, già, proprio come il rock & roll:

Vampire is here to stay, vampire will never die!

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Post del 1° marzo 2010

vampiroSono molto lieto di poter avviare questo dibattito sulla “letteratura dei vampiri”… [intendendo per letteratura dei vampiri quella che ha (e che ha avuto) come protagonisti il conte Dracula and friends...]
Per discutere di questo tema ho invitato alcuni ospiti speciali:
- Simonetta Santamaria (altresì nota con l’appellativo di Simonoir), scrittrice di romanzi horror, la quale ha di recente pubblicato un sanguigno saggio edito da Gremese e intitolato, appunto, “Vampiri. Da Dracula a Twilight
- Laura Costantini, scrittrice e giornalista, la quale ha dichiarato pubblicamente il suo amore per le storie di Stephanie Meyer
- Flavio Santi, autore del romanzo “L’ eterna notte dei Bosconero” (Rizzoli)
- Danilo Arona (autore, tra gli altri, del romanzo “L’estate di Montebuio”, nonché di un contributo sulla nuova edizione di “Io credo nei vampiri” di Emilio de’ Rossignoli), Gianfranco Manfredi (che – tra le altre cose – ha predisposto la bella antologia “Ultimi vampiri”) e Claudio Vergnani (autore di “Il diciottesimo vampiro”)… tutti e tre della scuderia Gargoyle.
Ho poi esteso l’invito a Paolo De Crescenzo (uno dei massimi conoscitori di cultura horror in Italia, nonché editore della Gargoyle), Franco Pezzini (uno dei più preparati tra gli intellettuali specializzati in “letteratura terrifica”).

Premesso che il dibattito è aperto a tutti… altri ospiti potranno essere “invitati” nel corso della discussione.

Di seguito leggerete: la recensione di Francesco Di Domenico al saggio “Vampiri” di Simonetta Santamaria, un articolo sul caso “Twilight” firmato da Laura Costantini, le schede dei libri di Flavio Santi, Danilo Arona, Gianfranco Manfredi e Claudio Vergnani, Franco Pezzini. Nel corso della discussione avrò modo di fornire ulteriori notizie sui suddetti romanzi e sugli ospiti invitati.

Per favorire la discussione ho pensato di porre le seguenti domande:

- Perché la figura del vampiro è così prepotentemente entrata a far parte nell’immaginario collettivo mondiale?

- Il sentimento suscitato dal vampiro è più vicino alla paura o al fascino? E perché?

- Che scarto esiste tra la figura storica del vampiro e quella “trasfigurata” nella fiction letteraria, cinematografica e fumettistica? L’esistenza di questo scarto (ammesso che ci sia) è nota? È importante che lo sia? Che percezione avete, in proposito?

- Cosa è cambiato nella “letteratura vampirica” (ammesso che qualcosa sia cambiato) da Bram Stoker a oggi?

- La letteratura italiana che si “occupa” dei vampiri è all’altezza di quella espressa in altre parti del mondo (quella anglosassone, per esempio)?

- C’è un pregiudizio, da parte dei lettori italiani, a favore dei romanzi sui vampiri di matrice angloamericana (e a svantaggio di quelli scritti in Italia)?

- Avete mai letto “Le notti di Salem” di Stephen King? Che posizione occupa, questo romanzo di King, nella storia della “letteratura vampirica”?

- A cosa è dovuto il successo planetario della saga Twilight della Meyer?

- Rispetto all’età dei lettori: il successo di Twilight è generalizzato o è più generazionale? Rispetto al sesso dei lettori: è un successo “di genere” o è indistinto? Che percezione avete, in proposito?

- In generale: l’horror può esercitare una funzione “esorcizzante” delle paure legate alla quotidianità e alla vita reale?

Altre domande potrebbero essere formulate nel corso della discussione che sarà più che mai improntata sullo scambio, sull’arricchimento reciproco e sulla interattività.

Massimo Maugeri


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Vampiri” – Simonetta Santamaria
Gremese Editore – € 19.50

recensione di Francesco Di Domenico

Quando si è eliminato tutto ciò che è impossibile, quello che rimane,
per quanto improbabile, deve essere la verità.
Sherlock Holmes, “Il vampiro del Sussex” (The Sussex Vampyre, 1927)

Un volo sulla orrifica leggenda dei vampiri – così definisce Simonetta Santamaria – il suo viaggio documentale nell’orrore, quando lo presenta nell’introduzione. Un volo a planare sul mistero che avvolge questa epopea nera degli esseri sanguinari per eccellenza. La promessa di un viaggio a “vol d’oiseau” – a volo di pipistrello, diremmo noi – dove si potranno incontrare le centinaia di sembianze che quest’essere magico assume, e la loro visione nell’immaginario collettivo.
In questa serissima ricerca storiografica – curata con scientifica precisione dalla regina delle scrittrici horror italiane – l’autrice ha percorso tutte le vicende che parlano del fenomeno, mettendole a confronto; e tutte le epoche, andando a ritroso, talmente tanto, che si è fermata solo davanti alla figura più antica di vampiro quella di Lilith, la prima compagna di Adamo, ripudiata in favore della “politically correct” Eva.
Il trattato, scritto con una lievità sorniona e un finto distacco da saggista, narra delle origini del mito attribuendolo ai Sumeri (e siamo al 3500 a.c.), passando per la Mesopotamia, fino a raggiungere la figura mediaticamente più conosciuta, quella del principe Vlad III di Valacchia: Dracula. Ma si scoprirà ben presto che “Vlad l’impalatore” gode di una fama sproporzionata rispetto al suo ruolo effettivo nella leggenda del sangue: ci sono signori della notte ben peggiori.
Girando le deliziose pagine patinate del testo – a cui hanno lavorato direttamente i due figli dell’autrice, l’uno come graphic designer, l’altro come illustratore – si scopre che le tipologie degli esseri della notte sono variabili e con specifiche peculiarità. Non tutti i Vampiri sarebbero ematofagi, alcuni si nutrirebbero di liquido seminale e altri ancora di energia psichica.
Il volo della Santamaria diventa navigazione quando percorre le strade della mitologia, della letteratura, del cinema e perfino delle citazioni dell’alta moda, ma è un viaggio polemico rispetto alla oleografia che ne fanno oggi i vari remake’s, per rivendicare il ruolo dell’orrore che i vampiri ricoprono in tutta la loro storia, che ha poco di edulcorato. La scrittrice, cerca fortemente un’operazione di restauro del mito, dà una chiave di lettura sarcastica delle new age (Twilight, etc.), confrontandole con la severità fantastica e aspra dei veri e spietati vampiri della tradizione.
Il libro è addirittura didattico quando passa all’enucleazione dei modi per sopprimere i non-morti, e persino graziosamente ironico quando fa scoprire che non sempre “il paletto di frassino”può uccidere un Vampiro, perché ci sono esseri che vanno eliminati con della terra di sepoltura nell’ombelico, o perché esistono vampiri con due cuori: e in quale dei due si ficca il paletto?
O ancora, come nel film di Roman Polanski, “Per favore, non mordermi sul collo”, dove ci sono vampiri ebrei, che non riconoscendo la croce e la paura di essa, sono praticamente invincibili.
È incredibile scoprire come, sfogliando l’opera, il mito del vampiro sia presente in tutto il globo terraqueo. L’indagine della Santamaria raggiunge luoghi inusitati e impensabili – come ad esempio le isole Banks, nella lontana Oceania, dove esiste il Talamaur, un vampiro psichico che si nutre dell’energia residuale dei moribondi – svelando che i “non-morti” non sono presenti soltanto in una tradizione letteraria occidentale, che avuto come pietra fondante il “Dracula” di Bram Stoker, ma sostanzialmente nell’immaginario di tutte le culture popolari mondiali.

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IL FENOMENO TWILIGHT
di Laura Costantini

“Zia, questo lo devi leggere!”
È iniziata così, con mia nipote di 14 anni che mi mette tra le mani un tomo rilegato in nero, con due braccia bianche che porgono una mela rossa quanto doveva esserlo quella per cui Adamo fece il casino che fece.
“È un taglio (traduzione: è bellissimo, fico, cool). Troppo bello!”
Leggo la quarta di copertina: vampiri. Mi piace il fantasy, sono un’ammiratrice di Ann Rice e del suo ciclo dedicato a Lestat. E poi a mia nipote glielo devo. Di solito sono io a consigliarle libri da leggere, quindi in base alla legge di reciprocità…
Twilight”, “New Moon”, “Eclipse”. Mi sono sparata la trilogia nel giro di una settimana scarsa, e sono tutti tomi da 500 pagine. Mi si è aperto un mondo e io, che sono ahimè distante dall’adolescenza anagrafica, mi sono riscoperta adolescente pronta a innamorarsi perdutamente di Edward Cullen, il vampiro protagonista della fortunatissima saga dell’americana Stephenie Meyer, portata in Italia nel 2006 da Fazi Editore e approdata, sull’onda di un semplice passaparola, a superare il mezzo milione di copie. Auspici anche i due film (Twilight e Twilight-Newmoon), l’uscita a fine 2008 del quarto libro “Breaking Dawn” che sancisce la fine dell’amore impossibile tra il vampiro Edward e la mortale Bella per come lo conoscevamo, e un sapiente merchandising.
Ha scritto Giorgia Grilli di TTL-La Stampa:
“In tempi di cinismo quale il nostro, questo è un libro sull’amore, e non un banale amore, ma una metafora potente che nasconde un messaggio atavico.”
Visto il lavoro che faccio, non me ne sono rimasta nei panni della lettrice costretta dalla penna della Meyer a sognare di incontrare un uomo bello e perfetto come Edward (che è bello e perfetto soprattutto perché NON è un uomo), ma ho voluto approfondire l’argomento sviluppando una piccola inchiesta nella community di lettori di aNobii.com. Mi sono inserita in un gruppo dal titolo evocativo: Edward e Bella, amore intramontabile! E ho aperto una discussione chiedendo in soldoni: Cosa vi piace della saga di Edward e Bella?
Quelle che vi riporto sono le risposte di alcuni tra i più di 300 membri del gruppo creato dalla twilighter TuCCia. Le età spaziano dai 15 ai 35 anni (ho scoperto di essere il membro anziano del gruppo e adesso tutti mi chiamano zietta): ci sono studenti, donne sposate che hanno coinvolto i mariti, persone adulte, professionisti e impiegati. Insomma, la dimostrazione che la comunità dei lettori si muove compatta e senza pregiudizi di fronte a pagine che sanno emozionare.

Blackrystal ha 16 anni e vive a Roma:
“Immagino che il segreto del successo di T. (sta per Twilight) come pure di Harry Potter sia perché aggiungono fascino e mistero alla vita normale.
Si tratta infatti di romanzi ambientati in luoghi reali, dove gente bizzarra/speciale si mischia con le persone di tutti i giorni. Gli elementi soprannaturali aiutano a colorire un po’ le nostre monotone esistenze.”

Salleggiola di anni ne ha 30 anni e più che all’elemento soprannaturale imputa il successo all’amore:
“Da come lo imposta la Meyer sembra un amore che nella realtà non esiste, un amore assoluto, il VERO amore che oggi noi tutti sogniamo, ma che in pochi trovano. Se lo trovano.”

Dello stesso parere è Singing Angel 23 anni, romana:
“Per me Twilight è stato un ritorno al passato, a quelle emozioni adolescenziali per le quali inizio a essere grandicella.
È stato bello leggere pagine che mi toglievano il fiato e ritrovarmi a fantasticare con gli occhi a cuoricino, cose che nella vita non capitano spesso e dopo una certa età ancora meno. Il tutto condito con quel tocco di soprannaturale che in generale mi affascina sempre e che aiutava a controbilanciare l’effetto a volte zuccheroso della storia d’amore.”

Luce di anni ne ha 20 anni e non è, per sua stessa dichiarazione, una tipa da romanzetto, eppure… “Twilight ha risvegliato quella romantica dolcezza spesso sopita. Non amo i libri il cui fulcro sono le storie d’amore, provo un inspiegabile misto di imbarazzo e fastidio. Ma Twilight non è mai forzato, sdolcinato. E’ avvincente, senza creare quel sentimento di diffidenza dato dalla consapevolezza di leggere una storia fantastica: ti trascina dentro.
Molti hanno storto il naso di fronte all’immagine di me con Twilight in mano. Tu sei quella dei grandi classici. E comunque troppo grande per le storie d’amore. Smentisco. Anche io avevo gli occhi a cuoricino. E me ne vanto.”

L’analisi di Giada, anche lei ventenne, è tanto circostanziata e pensata da sembrare professionale:
“Quando ho preso in mano il libro per la prima volta non mi sembrava un granché, però la novità letteraria che rappresentava per me la figura del vampiro (anche se non quello classico) mi ha incuriosita e ho continuato a leggerlo.
Adesso sono completamente andata. Mi ha lasciato qualcosa dentro, non saprei dire cosa ma quello che c’è nel libro ha saputo trasmettermi delle forti emozioni e ancora oggi non saprei dire se è solo merito della storia o anche della semplicità di questa ragazza che ne è l’autrice. Non che scriva divinamente, ma la passione che traspira dai fogli è reale, palpabile. I profumi, i colori, le immagini si formano nitide e chiare come se io fossi una terza partecipante della storia lì presente!
Rispetto a Rowling la Saga di T. non ha portato grandi novità. Harry Potter ha veramente sconvolto il nuovo modo di pensare la magia, il mondo che ha creato la scrittrice inglese è mille volte più complesso e affascinante ma resta comunque un libro per bambini. I sentimenti privilegiati restano l’amicizia, il coraggio, la fiducia, fondamentali d’accordo ma Twilight portando come tema principale l’amore batte Harry Potter. Non sarà letto da bambini (forse) ma il pubblico a cui si rivolge è maggiore. Un altro punto a favore di Twilight è che Meyer non inventerà assurdità per far tornare umano Edward. Prende i fatti così come sono, Edward ucciderà Bella, in tal modo i fan avranno il loro Happy Ending dove non sarà la vita a trionfare ma la morte.”

V. ha 32 anni e vive a Milano:
“Ho letto Twilight per caso, mi è piaciuta la copertina. Credo poi sia stata la magia delle parole a portarmi dentro la storia. Ho sentito il bisogno di entrarci, di esserci e di provare a vivermi quelle emozioni che nella vita vera purtroppo non ci sono. Mi piace quel mischiarsi di razze diverse, mi piace la sensazione di eternità che esce prepotente a ogni frase d’amore, mi piace quel sospiro di passione continuo, le difficoltà affrontate e le scoperte vissute in due. E’ un amore maturo nonostante siano due ragazzi e forse è questa la particolarità. Un amore VERO e SICURO che va oltre il tempo e lo spazio. Oltre la vita e la morte.”

TuCCia (la fondatrice del gruppo su anobii) ha 16 anni e riporta l’attenzione sulla vera essenza di Edward Cullen:
“Mi è piaciuto molto soprattutto l’inizio che vede il vampiro sotto una luce diversa, con dei punti deboli e combattuto interiormente. Un vampiro decisamente diverso dalla figura classica o dal ritratto che ne ha dato Ann Rice nei suoi libri. La natura di Edward ha creato una grande attrattiva e posto condizioni e restrizioni a una storia d’amore con una umana che difficilmente si sarebbero create in altre circostanze. Se avessi dovuto prendere in mano il libro sapendolo la solita storia d’amore tra ragazzi… probabilmente sarebbe ancora nella mia lista di libri da comprare.”

Celiane ha 19 anni ridimensiona l’aspetto strettamente vampiresco:
“Quello che mi ha colpito è stato la forza, l’assolutezza dell’amore tra Edward e Bella. Edward all’inizio è attratto da lei, ma rifiuta l’attrazione (e qui scatta la figura del vampiro dannato che cerca di essere diverso da ciò che la sua natura gli impone). Poi, però, non resiste, e si arrende a ciò che sente. Compare la forza, l’inevitabilità, del loro amore. Non è semplice amore adolescenziale, ma qualcosa di più forte, di incontrollabile. L’elemento soprannaturale è importante, ma non fondamentale. La scelta poi di raccontare la storia in prima persona, rende tutto coinvolgente. Ti sembra di essere tu stessa Bella.”

Seleya ha 36 anni e fornisce un punto di vista più adulto, ma altrettanto coinvolto:
“Non ho mai amato le storie d’amore o quelle di vampiri. Però adoro, la storia di Edward e Bella. Stephenie Meyer ha saputo ricostruire le ansie, i timori, le speranze e i vissuti dell’adolescenza: leggere Twilight (e successivi), ha permesso a persone un poco più stagionate come me di rivivere la purezza, l’innocenza, l’assolutezza e la follia del primo, unico e incondizionato amore. Ha creato un personaggio (Bella) che, come molte ragazze della sua età, crede di non essere nulla di speciale ma che nell’incontro con l’altro, il suo primo amore, scopre di essere interessante. Bella subisce il fascino del mistero e del pericolo, si sente predestinata ad amare questo essere così diverso, bellissimo e letale, che incredibilmente per lei la corrisponde.
Le pagine del libro ci rendono partecipi di un sogno che si realizza.
Meyer inoltre, nel disegnare il personaggio di Edward, ha creato questo essere tormentato, immortale e perfetto, che si strugge per la sua anima perduta, e che alla fine cede alla debolezza umana per eccellenza: l’amore.
E qui rivela la sua umanità: pur sapendo che è la scelta sbagliata, che mette a repentaglio la sua famiglia (per non parlare della vita di Bella), alla fine si arrende e non può far altro che amarla.”

Alessia ha 26 anni ed ha coinvolto nell’epidemia di Twilight anche il marito (28 anni) e due cugine. Tutti entusiasti, soprattutto del messaggio che i libri della Meyer divulgano:
“La storia non avrebbe senso se Edward avesse solo pregi e il fatto che sia un vampiro non è così fondamentale. Quello che conta è la scelta politicamente corretta che entrambi compiono. Potevano essere lei americana e lui iracheno o afgano (o altre centinaia di casi del genere). Importanti sono le differenze iniziali tra i due, quelle che sembrano insormontabili, i pregiudizi di base da entrambe le parti.
La morale (come nelle favole per bambini) è che non importa cosa è la persona che hai di fronte ma chi. Credo sia questo il messaggio da recepire.”

Lettori. Comuni lettori che hanno saputo andare oltre la suggestiva copertina, oltre la scarsa pubblicità. Lettori che si sono lasciati guidare dal passaparola, dal consiglio di un amico, dalle recensioni su Internet, scritte da gente come loro e non certo da critici letterari con il patentino. Lettori che sanno leggere ben oltre le semplici righe sulla pagina, che sanno riflettere su quel che leggono. Saranno forse ancora pochi i lettori italiani. Ma dopo averli ascoltati, interrogati, punzecchiati (e vi assicuro che le voci erano molte, ma molte di più) non avrò scoperto il segreto di Twilight ma credo di aver capito che la rinascita, quanto mai necessaria, dell’editoria italiana passa soprattutto attraverso loro: i lettori.

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L’eterna notte dei Bosconero di Flavio Santi (Rizzoli)

È notte. Siete in un paese straniero. Non siete nel vostro tempo. Un ambiguo personaggio vi avvicina in una locanda e inizia a raccontarvi una storia di indicibili orrori, di mefitici miasmi e di presenze demoniache. E, più di tutto, voi siete J.W. Goethe: l’autore che rivoluziona la letteratura mondiale, l’alchimista, lo scienziato – uno che dovrebbe sapere tutto. In quella misteriosa e appassionante vicenda di sangue sparso e teste mozzate tutto può essere vero e tutto può essere falso. Il racconto è talmente ipnotico che non riuscite più a sottrarvi, vi trascina in un viaggio iniziatico e terribile, in una storia che non può essere detta, per il terrore che irradia, se non quando tutto è finito. E infatti quello che vi apprestate a leggere è l’ultimo libro di Goethe, il suo più tremendo, il capitolo assente dal celeberrimo “Viaggio in Italia”. La vicenda dei nobili decaduti Bosconero ruota attorno alle sospette catatonie dell’erede Federigo, al parricidio che ha condotto in manicomio suo fratello, alle sparizioni improvvise del servo Barcellona e del precettore Blasco Telamonio, agli efferati delitti e agli sconvolgenti ritrovamenti di resti umani. Sullo sfondo, una Sicilia borbonica, pestilenziale, epica e fantastica, strapiena di personaggi che vanno dal grottesco all’inquietante.

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L’estate di Montebuio di Danilo Arona (Gargoyle)

Nei primi giorni di gennaio del 2008, dalle acque gelide di un torrente sulla cima del Monte Buio, presso l’Appennino ligure, emerge il cadavere mummificato di una ragazzina scomparsa da diversi decenni seminando sgomento tra i pochi abitanti rimasti a vivere nell’omonimo piccolo borgo, sito ai piedi del monte. Le indagini vengono affidate a un carabiniere e un anatomopatologo che, in breve tempo, collegano la raccapricciante scoperta al suicidio del famoso scrittore horror Morgan Perdinka, avvenuto un mese prima nel suo loft di Milano.
L’inchiesta procede a cerchi concentrici: all’infittirsi di inquietanti coincidenze e macabri delitti, si sovrappongono, sapientemente combinati, percorsi introspettivi affidati a più voci che trovano il proprio culmine in un inquietante evento avvenuto nel lontano 1963. Il Male irrompe tumultuoso da un passato lontano trasbordando tutta la sua antica energia. Assoggettate al suo inesauribile flusso umanità appartenenti a secoli diversi della storia, tutte parimenti irretite in un dramma collettivo che sembra destinato a ripetersi all’infinito.
Ma Morgan Perdinka voleva davvero morire? O il suo gesto è stato semplicemente funzionale alla scoperta di una verità che non poteva trovarsi se non approdando in un mondo altro?
Benvenuti nello spazio quantico dove il tempo non ha più alcuna importanza e il Male è più reale che mai…

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Io credo nei vampiri di Emilio De’ Rossignoli (Gargoyle)

La trama. Emilio de’ Rossignoli - intellettuale che non perse mai di vista l’importanza della radice popolare della cultura – è il brillante cicerone di un viaggio suggestivo dove sfilano vampiri, lemuri, incubi, succubi, golem, mummie, licantropi, zombie, fantasmi, e dove storia, mito e cronaca si intrecciano in un raffinato montaggio di argomenti e interpretazioni. Una storia organica del vampirismo dalle origini ai nostri giorni, dal trascinante furore enciclopedico. La prosa limpida e lo stile sapientemente ironico conferiscono al testo una solida tenuta narrativa così che, pur trattandosi di un saggio, Io credo nei vampiri si legge come un romanzo, e proprio le pagine che sembrerebbero datate sono tra le più interessanti per i corsi e ricorsi di cui la storia del costume nostrano sembra essere popolato .

Il libro. Pubblicata dall’editore Luciano Ferriani per la prima volta nel 1961 e da allora mai più ristampata, Io credo nei vampiri è un’opera eccezionale che è stata e resta tuttora tra i primi e rari contributi non accademici sul vampirismo, dove studio e intrattenimento si accordano felicemente. Fu sulla scia dell’enorme successo mondiale della pellicola Dracula di Terence Fisher (Horror of Dracula, 1958) - qualcosa di molto simile a quanto sta accadendo ora con il romanzo Twilight di Stephanie Meyer e con l’omonimo film – che ’de Rossignoli maturò l’idea di scrivere Io credo nei vampiri.
Nel suo saggio, l’autore si mette letteralmente al servizio di un tema che, nelle sue mani, diventa straordinariamente fertile, e scandaglia tutto lo scandagliabile attorno ai vampiri, che vengono analizzati da un punto di vista cinematografico, letterario, musicale, pittorico, religioso, psicopatologico, mitologico, politico, scientifico, biologico, botanico, giurisprudenziale e di costume attraverso un avido e ricercato saccheggio di aneddoti, dicerie, leggende, credenze, folclori locali, visioni, formule e maledizioni arcane, cronache, trattati, rapporti ufficiali, testimonianze, antichi dizionari, libri e giornali. Oltre a offrire un’occasione di conoscenza unica e dai risvolti inattesi, de’ Rossignoli mette i lettori davanti alla loro disponibilità a credere, a fidarsi, sfuggendo qualunque paura nei confronti del vampiro, una figura avvolta da pregiudizi solo in quanto diversa.
Autorevolmente e piacevolmente persuasivo, Io credo nei vampiri è un libro che dà molte risposte sul senso del terrore nell’arte e nella vita.

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Ultimi vampiri di Gianfranco Manfredi (Gargoyle)

Con l’antologia Ultimi vampiri, pubblicata da Feltrinelli nel 1987, Gianfranco Manfredi si impone definitivamente all’attenzione della critica, accrescendo il suo già fitto pubblico di lettori. Sfuggendo a ogni prevedibilità e cliché, in una trascinante tensione verso l’inatteso, Manfredi si mette dalla parte dei vampiri: specie vivente con la stessa dignità degli umani, che ha attraversato la Storia parallelamente ad essi. Anche in questa extended version, arricchita di nuovi contenuti sia di carattere narrativo - tra cui spicca il racconto lungo “Summer of Love” - sia saggistico, e di una vivace e acuta prefazione dello scrittore Tullio Avoledo, pulsa il “realismo visionario”che caratterizza tutta la letteratura di Manfredi: non c’è nulla di “dato” che non debba essere anche “immaginato”. L’autore si distanzia dalla sintesi operata da Bram Stoker con il personaggio di Dracula, concentrandosi sulle diverse specie di vampiri presenti nei folclori locali. Manfredi mette a confronto i vampiri delle leggende popolari con momenti cruciali della storia, rivelatisi inevitabilmente fasi violente di trasformazione che hanno segnato l’emarginazione e la sconfitta di una specie, spesso attraverso veri e propri genocidi. Discriminati, sradicati, apolidi, ribelli, isolati, irriducibili cospiratori, eretici redivivi, militi uccisi resuscitati sono questi i vampiri che Manfredi passa in rassegna, devianti di un ordine sociale che li ha sempre tenuti ai margini a causa della cecità del pregiudizio.
La sofisticata eterogeneità delle cifre stilistiche adottate poggia su una base ricchissima di riferimenti storici, filosofici (i Discorsi a tavola di Martin Lutero, il Dizionario filosofico di Voltaire), teologici (De Daemonialitate, et Incubis et Succubis di Ludovico Maria Sinistrari e le Dissertations sur les vampires di Domi Augustin Calmet), letterari (Don Chisciotte di Cervantes e Manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki) e antropologici, oltre che su un originale uso delle cronache del tempo (per esempio i resoconti criminali della West Coast americana durante l’epoca hippie). Avventure, favole simboliche, resoconti storici, frammenti onirici, istantanee di umorismo nero si amalgamo in un ordito di grande potenza evocativa a dimostrazione delle infinità possibilità del narrare

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Il diciottesimo vampiro di Claudio Vergnani (Gargoyle)

A Modena uno squinternato gruppo di individui dai vissuti più diversi – body builder, operai, profughi, presunti agronomi, attori porno, giocatori di scacchi – viene assoldato da un’enigmatica donna, denominata “l’amica”, per uccidere vampiri. Se di giorno la situazione è sotto controllo perché i succhiasangue restano immobili, nascosti in ambienti degradati designati a covi – case abbandonate, cisterne, chiuse di fiume, palazzi fatiscenti –, di notte le orrende e feroci creature escono allo scoperto attaccando soprattutto soggetti indifesi come vagabondi, immigrati e persone sole. È allora che bisogna vigilare e agire.
Tra sinistri sopralluoghi, massacranti turni di guardia, visite a un’antica e misteriosa Rocca dove si compiono sconvolgenti rituali, suggestive visioni tra le acque di Venezia, la squadra di moderni Van Helsing fa la conoscenza di Grimjank, il 18° vampiro…

Pur raccontando una storia vampirica tout court, il testo ha un impianto di forte realismo hardboiled: Vergnani parla di vampiri in una maniera tale da persuaderci che questi potrebbero davvero entrare a far parte della nostra quotidianità: l’elemento sovrannaturale, infatti, si combina senza stridere con la routine di persone sui generis sì, ma comunque normali.
Dunque, come sarebbe se i vampiri fossero intorno a noi, nel pieno dell’attuale way of life tra telefoni cellulari, SMS, Internet? E come potrebbero venire contrastati dalla gente comune, che ha bisogno di dormire, mangiare, che ha il mal di testa, che talvolta alza un po’ il gomito o si scopre depressa?
È sullo sfondo di una plausibilissima precarietà postmoderna che Vergnani fa entrare in scena i suoi repellenti revenants: in un contesto già di per sé ansiogeno, i vampiri diventano un ulteriore motivo di malessere ma non l’unico né il più importante.
Più che i vampiri in sé, infatti, la storia raccontata da Vergnani è incentrata sulla loro caccia: elemento vitalistico e vivificante a un tempo nonché vera e propria modalità esistenziale. Deputato all’ingrato compito, un gruppo di scanzonati mercenari, disillusi ma non privi di senso etico.
Tra frammenti di horror crudo e momenti di incisiva introspezione, Vergnani ha scritto un intenso romanzo corale dove il valore rigenerante del gruppo torna a essere protagonista oltre ogni tentazione individualista.

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The dark screen. Il mito di Dracula sul grande e piccolo schermo” di Franco Pezzini e Angelica Tintori (Gargoyle)

Nessun personaggio, reale o di fantasia, ha conosciuto più trasposizioni sullo schermo – cinematografico o televisivo – del Conte Dracula. La creatura di Bram Stoker precede di gran lunga, in tale primato, Sherlock Holmes (insediato saldamente al secondo posto). Quali i motivi di un successo così clamoroso e longevo? Come si è evoluta la figura del Principe delle Tenebre dagli albori del cinema all’era degli effetti speciali? Qual è il filrouge che lega cineasti e interpreti tanto diversi tra loro, sconfinando nel musical, nel porno, nella pubblicità? The Dark Screen non è, attenzione, uno dei soliti libri di cinema, ricchi di foto e illustrazioni cucite insieme con un commento più o meno originale e corredate da un elenco di “schede” che oggi ogni fan può autonomamente (e gratuitamente) scaricarsi da Internet. Qui, il mito è analizzato nelle sue radici più remote e passato in rassegna in maniera completa e rigorosa, con competenza profonda e amore sviscerato, componendo un quadro di insieme probabilmente unico nell’ambito della saggistica su Dracula.

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Affettuosamente pungolato dagli amici dell’ufficio stampa della Newton Compton, inserisco questa nota sui «grandi libri» della casa editrice in questione e sulle connessioni con la figura “classica” del “vampiro”.
(Massimo Maugeri)

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I VAMPIRI SECONDO NEWTON COMPTON

Fondata a Roma nel 1969, la Newton Compton nasce con uno slogan destinato, negli anni a venire, a rappresentare, oltre che una linea editoriale, anche una filosofia aziendale: «I grandi libri dal piccolo prezzo».
I «grandi libri», questo è evidente, coincidono con quei testi – “i classici” – capaci di restare attuali con il passare del tempo; capolavori, all’interno dei quali, si fa immediatamente strada uno dei protagonisti assoluti dell’immaginario collettivo: il vampiro. Di quanto questo personaggio fantastico sia capace di catturare le angosce (ma anche i desideri) dei contemporanei, la Newton Compton se ne rende conto nel momento in cui, nel corso degli anni Settanta, dà alle stampe il capolavoro a cui, unanimamente, si riconosce il merito di aver fondato il genere: “Dracula” di Bram Stoker; creazione fortunata ma non esattamente isolata all’interno del panorama della letteratura vittoriana. Come dimenticare, infatti, che il libro di Stoker era stato preceduto dal “Vampiro” del medico italo-inglese John William Polidori, tutt’ora nel catalogo Newton all’interno della fortunata antologia “I grandi romanzi gotici”, curata da Riccardo Reim. E come dimenticarsi, restando sul terreno dei classici, del fondamentale “Carmilla” di Joseph Sheridan Le Fanu?
La celeberrima novella che lo scrittore di Dublino ha dedicato alla donna-vampiro è stata appena ripubblicata dalla Newton Compton a cura di Gianni Pilo, uno dei massimi esperti della narrativa fantastica e dell’orrore in Italia. È proprio a Gianni Pilo, d’altra parte, che si deve la traduzione di molti classici della letteratura sui vampiri. Un lavoro di ricerca che, nel 2000, ha prodotto, tra le altre cose, “Il grande libro di Dracula” (appena ripubblicato nella collana Nuova Narrativa): un’antologia che, al suo interno, spazia dall’immortale Bram Stoker fino all’importante scrittrice americana Nancy Kilpatrick. La Kilpatrick, nome di riferimento nella galassia dei romanzi sugli eredi del “conte pallido”, è presente nel catalogo Newton Compton (sempre nella collana Nuova Narrativa) con tre autentici best-seller: “La notte dei vampiri”, “La guerra dei vampiri” e “Gli amori del vampiro”; una trilogia capace di vendere oltre cinquantamila copie nel nostro paese, recuperando quell’elemento di sensualità e di erotismo che, da sempre, caratterizza le imprese dei discendenti di Dracula.
Nel segno del vampiro, la ricca produzione di antologie non può che confermare l’eccellente stato di salute dell’uomo-pipistrello. Tra le raccolte dedicate ai succhiatori di sangue, il catalogo Newton Compton comprende l’appassionante “Vampiri!”, curato dall’esperto inglese Stephen Jones che –ripensando la figura di Dracula – ha unito nelle stesse pagine la penna di un Edgard Allan Poe e l’inventiva di un Clive Baker. Nomi decisamente altisonanti, poi, sono quelli di Stephen King, Woody Allen e Anne Rice: soltanto alcuni degli autori raccolti nell’antologia “La maledizione del vampiro”, a cura dello storico inglese Peter Haining.
La lista dei vampiri, all’interno del catalogo Newton Compton, è lunga ma non si ferma qui! Nel 1997, la casa editrice romana pubblicava “Il patto con il vampiro” di Jeanne Kalogridis: la narrativa dell’autrice californiana conquistava immediatamente i lettori italiani che, nel giro di pochi mesi, fecero salire a quota ottantamila il numero di copie vendute. Un successo che decretava d’autorità il proseguimento della saga della Kalogridis portando in libreria anche “I figli del vampiro” e “Il signore dei vampiri”: due nuovi bestseller per una vendita complessiva superiore alle duecentocinquantamila copie!
Oggi la saga della Kalogridis è raccolto in un unico volume: “I diari della famiglia Dracula”; un vero e proprio punto di riferimento per tutti gli appassionati. Gli stessi lettori che, recentemente, hanno accolto con grande soddisfazione la pubblicazione di “Cacciatori di vampiri” di Colleen Gleason: una nuova serie che ha per protagonista una famiglia – i Gardella – votata al controllo degli esseri succhiasangue che infestano il pianeta. È stato pubblicato di recente – della Gleason – “Il bacio del vampiro” (2010).

Ambientati tra ragazzi adolescenti, invece, sono i libri della nuova stella del firmamento del new gotich, la statunitense Lisa J. Smith. La Smith ha firmato “Il diario del vampiro”, una serie davvero intrigante, iniziata con la pubblicazione del primo volume, “La lotta”, e, in attesa de “La messa nera”, atto conclusivo della saga, proseguito con “Il risveglio”. E poi… “La setta dei vampiri“…

Ma quali sono le ragioni del successo editoriale dei vampiri?
Le risposte date nel tempo a questa domanda sono le più svariate. C’è stato chi, osservando l’assetto geopolitico, ha creduto di scorgere delle analogie tra il sistema di produzione capitalistico e l’atto di succhiare il sangue. Ancora, rincorrendo il tema del sangue, c’è chi ha messo in rilievo l’analogia tra il liquido ematico e il sesso. Altri ancora, alla luce del polimorfismo del vampiro, si sono soffermati sull’endiadi vampiro/liberazione della donna o vampiro/identità adolescenziale. Mentre la discussione resta aperta, una cosa è sicura: dal punto di vista dei lettori, la “fame” di vampiri è davvero tanta… strano destino per creature venute al mondo per cibarsi di sangue!

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AGGIORNAMENTO DEL 24 LUGLIO 2010

massimo-maugeriPubblicai questo post il 1° marzo del 2010. Da allora la discussione non si è mai interrotta, grazie agli interventi di tanti esperti/appassionati di letteratura vampirica (e letteratura horror, in generale).

Il merito principale è senz’altro di Gianfranco Manfredi (nella foto in basso), vera e propria colonna della letteratura dei vampiri prodotta in Italia (e non solo).
Manfredi ha davvero preso a cuore questa discussione, e grazie ai suoi interventi e ai suoi stimoli questo post veleggia oltre quota 2.050 commenti e – adesso posso dirlo – è certo che un giorno diventerà un volume cartaceo (si è fatto avanti un piccolo editore siciliano).

Per ringraziare Gianfranco Manfredi metto in risalto il suo intervento odierno che, per certi versi, rilancia la discussione.
Massimo Maugeri

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LA LETTERATURA DEI VAMPIRI E DI ALTRI ORRORI POST-2000
di Gianfranco Manfredi

gianfranco-manfrediDato che in tutti i sensi siamo ormai post-2000, c’è una questione che vorrei sottoporre a tutti e di cui, mi pare, non si parla mai. Siamo tutti d’accordo sul fatto che al centro dell’horror c’è la creazione (anzitutto letteraria) del Mostro, della Creatura. Ogni grande epoca dell’horror si è caratterizzata dalla comparsa di nuove Creature. Quelle Innominabili di Lovecraft erano, all’epoca, e sono rimaste a lungo, un’innovazione assoluta. Poi abbiamo visto spuntare gli Alieni, dai marziani verdi fino ad Alien, gli androidi (dai primi robot-giocattolo ai Terminator) . Nell’horror, come si è detto, la zombie plaga è sicuramente un fenomeno nuovo (anche se permanente da quasi cinquant’anni) ed espressivo del clima della nostra epoca. I fantasmi tecnologici giapponesi avevano fatto ben sperare, ma l’iperproduzione li ha schiantati in fretta. I vermoni giganti di Tremors sono stati un cult , ma chiuso in sé, non letterario e inquadrabile nel seriale minore. Per il resto, a parte qualche affioramento piuttosto unico e difficilmente replicabile (IT di Stephen King) gli autori horror contemporanei sono rimasti, tutti, sui filoni classici e sulle classiche creature in infinite riproposizioni rimodulate : vampiri, nuovi mostri di frankenstein da biologia avanzata, dottori e/o scrittori schizzati dalla personalità multipla, maniaci seriali alla Psycho sempre più “realistici” e ispirati alla cronaca criminale o sempre più surreali come Jason, Freddy e company, uomini lupo tra il satirico e il fumettistico, e infine streghe da Carrie a Wither… Ora: cosa significa questo? Gli scrittori non sono più capaci di inventare Creature che corrispondano in modo del tutto inedito e nuovo alle paure contemporanee? Sentono il bisogno di rimeditare sulle fonti originali (è il mio caso, lo ammetto)? Oppure preferiscono appoggiarsi sulla tradizione perchè è più comodo, più facile, più abituale anche per il pubblico, e comunque la creazione di una figura di Mostro veramente mostruosa perché Inedita è qualcosa di superiore alle loro forze e alla loro capacità espressiva? Parlando di horror (che editorialmente, da anni, va alla grande) stiamo parlando di una letteratura ancora vitale e creativa, o possiamo considerarlo in qualche misura istituzionalizzato come il Rock Imperiale della nostra epoca , abissalmente lontano ormai, dalle sue origini “wild” e provocatorie? Queste sono tutte domande cui non ci piace rispondere… sia perchè la risposta è difficile, sia perchè ci interrogano sulla nostra reale capacità/volontà (di scrittori e di lettori) di affrontare temi che riescano a turbarci davvero, nel profondo. E non per semplice, quanto apprezzabile, spasso e divertimento.

Gianfranco Manfredi
24.07.2010

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AGGIORNAMENTO DEL 3 GENNAIO 2011

Ecco un nuovo tassello di questa discussione dedicata alla “letteratura dei vampiri e di altri orrori”: l’uscita del nuovo libro di Franco Pezzini e Angelica Tintori. Si intitola: “Peter & Chris – I Dioscuri della notte” (Gargoyle books, 2010). Segnalo, tra i commenti, gli ottimi interventi del solito Gianfranco Manfredi. Di seguito, la scheda del libro. La rassegna stampa la trovate cliccando qui.
Massimo Maugeri

Poche coppie dello schermo hanno influito tanto profondamente sull’immaginario collettivo quanto quella formata da Peter Cushing e Christopher Lee. Nel corso delle rispettive, lunghe carriere, i due attori si sono cimentati nei piu’ svariati tipi d’interpretazione, ma la consacrazione a icone internazionali e’ avvenuta sul terreno dell’horror. A partire dai primi e ormai leggendari film in coppia per la Hammer, The Curse of Frankenstein (1957) e Dracula (1958), e via via di pellicola in pellicola, Cushing che muore nel ‘94, e Lee ancora oggi attivissimo a quasi novant’anni hanno saputo intessere un rapporto professionale e personale di profonda amicizia. Caratterialmente dissimili ma complementari: dotato di straordinario calore umano Cushing, aristocraticamente burbero e affettuoso Lee. Diversi per vissuto e ambizioni, e tuttavia accomunati da una tenacia che affiora nei rispettivi personaggi. Capaci di esprimere una comune britannicita’ anche nei frequenti ruoli stranieri o esotici. Entrambi eclettici e ricchi di doti artistiche (Cushing modellista, pittore, ornitologo; Lee cultore di storia, golfista, viaggiatore), questi Dioscuri della notte in transito incessante sullo schermo tra castelli e sepolcri rappresentano una testimonianza dello spessore professionale e personale che puo’ star dietro a film etichettati come ‘popolari’. Mai consumate in stereotipi, le maschere offerte da Cushing & Lee hanno spalancato all’Occidente del secondo Novecento una rinnovata galleria di mostri gotici. Con loro si e’ affermato un sofisticato sistema simbolico di enorme impatto sul pubblico ancora nell’eta’ di Twilight, come del resto testimonia un diffuso e appassionato culto che corre tuttora sul web, a riconoscere nella storia di questo tandem un’appassionante epopea umana e cinematografica, ma insieme un capitolo fondamentale delle mitologie dell’uomo moderno.


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Scritto lunedì, 1 marzo 2010 alle 16:21 nella categoria A A - I FORUM APERTI DI LETTERATITUDINE, EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, SEGNALAZIONI E RECENSIONI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.

2.809 commenti a “DIBATTITO SULLA LETTERATURA DEI VAMPIRI… E DI ALTRI ORRORI”

Cari amici, ci siamo…
Ecco l’annunciato post dedicato alla “letteratura dei vampiri”.
Gli “ospiti speciali” invitati sono davvero tanti e organizzare la discussione mi ha richiesto un certo “sforzo organizzativo”.
In ogni caso: ci siamo!

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 16:25 da Massimo Maugeri


Oltre agli ospiti, sono altrettanto numerosi i libri segnalati…
Insomma, credo proprio che questo post ci farà compagnia per parecchi giorni.
Ma veniamo a noi…

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 16:26 da Massimo Maugeri


Ed ora consentitemi di elencarvi gli “ospiti speciali” di questo post (poi, nei commenti a seguire, leggerete le loro minibiografie).

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 16:31 da Massimo Maugeri


Un primo ringraziamento speciale va a Francesco (Didò) Di Domenico e a Laura Costantini per i loro articoli che trovate sul post…

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 16:32 da Massimo Maugeri


Buongiorno… anzi, visto il tema, buonanotte a tutti. Digito da lavoro e prometto che interverrò il più possibile. Soprattutto perché il piatto è ricchissimo di spunti :-)

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 16:32 da laura costantini


Ma ne approfitto per ringraziare sin da adesso tutti gli ospiti che interverranno nel corso della discussione:
Per discutere di questo tema ho invitato alcuni ospiti speciali:
- Simonetta Santamaria (altresì nota con l’appellativo di Simonoir), scrittrice di romanzi horror, la quale ha di recente pubblicato un sanguigno saggio edito da Gremese e intitolato, appunto, “Vampiri. Da Dracula a Twilight”
- Flavio Santi, autore del romanzo “L’ eterna notte dei Bosconero” (Rizzoli)
- Danilo Arona, autore, tra gli altri, del romanzo “L’estate di Montebuio”, nonché di un contributo sulla nuova edizione di “Io credo nei vampiri” di Emilio de’ Rossignoli editi da Gargoyle,
- Gianfranco Manfredi, che – tra le altre cose – ha predisposto la bella antologia “Ultimi vampiri” edita da Gargoyle
- Claudio Vergnani, autore di “Il diciottesimo vampiro”… anche lui edito da Gargoyle
- Paolo De Crescenzo, uno dei massimi conoscitori di cultura horror in Italia, nonché editore della citata casa editrice Gargoyle,
- Franco Pezzini, uno dei più preparati tra gli intellettuali specializzati in “letteratura terrifica”.

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 16:35 da Massimo Maugeri


Laura è già intervenuta!!!
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Ciao, Laura… e ancora grazie.
Ne approfitto per comunicare che Laura Costantini e Nicoletta Santamaria (che qui a Letteratitudine sono di casa) mi daranno una mano a coordinare e a moderare la discussione.

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 16:37 da Massimo Maugeri


Piccola anticipazione: la suddetta Laura Costantini e la sua partner letteraria, Loredana Falcone, hanno scritto un “racconto vampirico” a quattro mani che avrete modo di leggere qui, nel corso della discussione.

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 16:39 da Massimo Maugeri


Come avrete notato la casa editrice Gargoyle è molto presente nell’ambito della discussione.
E io ne sono molto felice!
Credo che gli appassionati del genere non possono non sostenere la Gargoyle (acquistandone gli ottimi libri, ovviamente).
http://www.gargoylebooks.it/site/
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Ne approfitto per salutare Costanza Ciminelli dell’ufficio stampa… ringraziandola per il supporto.

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 16:43 da Massimo Maugeri


Ed ora… le minibiografie degli ospiti, partendo dagli “articolisti” Francesco Di Domenico e Laura Costantini.
Poi, quelle di tutti gli altri citati sopra…

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 16:50 da Massimo Maugeri


Minibiografia di Francesco Di Domenico
Francesco Di Domenico, nato a Giugliano in Campania (Na), nel 1975 partecipa alla fondazione delle prime radio libere a Napoli. Nel 1978 crea con Riccardo Marassi (attuale vignettista del “Mattino” e del mensile “Linus”) la trasmissione radiofonica umoristica Broadway. Alla fine degli anni Ottanta partecipa e collabora al progetto Ragù, pagina cult di satira del “Mattino”. Fino agli anni Novanta scrive di satira su varie riviste napoletane (tra cui “NdR”). Nel 2003 è finalista al premio “Movimento Comico”. Nel 2005 pubblica il racconto Triangolare “Old Biscardi” nell’antologia degli umoristi napoletani Quel sacripante del grafico si è scordato il titolo (Graus & Boniello Editori), vince il Premio “Noli Prize” con il racconto Messaggio in bottiglia, successivamente pubblicato nell’antologia Un mare di brividi e risate (Natrusso Editore), e si classifica al secondo posto al Premio “Vedi Napoli e poi scrivi” con il racconto Il Pensiero Mediocre, pubblicato in un libro omonimo dalla casa editrice Kairós. Nel 2006 con il racconto 1968/2006 Diari politici è semifinalista al Premio “Massimo Troisi”. Nello stesso anno il suo racconto Delitto al ristorante cinese napoletano esce nell’antologia Sangennoir (Kairós). Nel “2008” il suo racconto Frida è stato pubblicato nell’antologia “Le affinità affettive” (Albus Edizioni). A dicembre 2008 esce “Storie brillanti di eroi scadenti” (Centoautori).

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 16:52 da Minibiografia di Francesco Di Domenico


(Auto)minibiografia di Laura Costantini
“Mi chiamo Laura. Ho iniziato a scrivere favole a otto anni. A undici ho capito che volevo essere una giornalista. A tredici ho creato una serie di romanzi brevi accomunati dal personaggio di un alieno, Dankan, capitato sulla Terra.
Nell’estate tra l’esame di terza media e l’inizio del Liceo Classico, ho scritto il romanzo storico “Tiger”, che narra le gesta molto salgariane di un Lord inglese mezzosangue (madre inglese, padre indiano e pure paria, tanto per non farci mancare niente) durante tutta la seconda metà dell’800.
A quattordici ho cominciato a scrivere insieme a Loredana Falcone.
Nel 1994 ho frequentato un corso di giornalismo ed ho firmato il mio primo articolo sul quotidiano nazionale Il Secolo XIX.
Nel 1995 ho fatto parte della redazione del TG5, poi sono passata alla stampa periodica. Le parole hanno accompagnato ogni passo della mia vita, ed ogni passo ha puntato a realizzare il sogno di pubblicare i romanzi miei e di Loredana.
Nel 2003 è stato pubblicato “Eibhlin non lo sa…”.
Nel gennaio 2006 è la volta di “Testamento d’amore”.
Nel settembre dello stesso anno la Maprosti&Lisanti ha pubblicato “New York 1920 – il primo attentato a Wall Street”, primo romanzo di una trilogia storica dedicata al XX secolo. Ma la strada è ancora lunga e i sogni da materializzare in parole ancora moltissimi.”
Nel 2007 è stato rieditato “Eibhlin non lo sa”… ed è stato pubblicato “La guerra dei sordi”
Nel 2008 abbiamo pubblicato “Roma 1944 – lo sposo di guerra” ideale sequel di New York 1920 e “Le colpe dei padri”.

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 16:53 da (Auto)minibiografia di Laura Costantini


Minibiografia di Simonetta Santamaria
Simonetta Santamaria, giornalista, vive e scrive a Napoli.
Ha vinto l’XI edizione del Premio Lovecraft col racconto “Quel giorno sul Vesuvio” (CentoAutori 2007 – in volume con “Una foglia, un sasso, un fiore giallo”). Sua l’inquietante raccolta al femminile “Donne in Noir” (Il Foglio 2005), l’e-Book “Black Millennium” e il romanzo “Dove il silenzio muore” (CentoAutori 2008). Ha scritto anche “Vampiri”, il primo non-saggio sulle più affascinanti e temute creature della notte, già tradotto in francese e spagnolo (Gremese, 2009).
Ha pubblicato racconti in diverse antologie tra cui “Un cuore nuovo” (progetto Il Giralibro 2006), “Irrefrenabile passione” (San Gennoir – Kairòs 2006), “Confessione di un apprendista di bottega” (Partenope Pandemonium – Larcher 2007), “Necromundus”, da un’idea di Giuseppe Cozzolino (M Rivista del Mistero – Alacran 2007), “Nel nome dell’amore” (Questi fantasmi… – Boopen Led 2009), e ancora “Quel giorno sul Vesuvi”o (Gialli Mondadori 2009).
Il quotidiano La Repubblica l’ha definita una delle “signore della suspense made in Naples” mentre il Corriere del Mezzogiorno la consacra come “lo Stephen King napoletano”.
Dice: “Non mi prendo mai troppo sul serio, altrimenti sarei una serial killer”

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 16:54 da Minibiografia di Simonetta Santamaria


Minibiografia di Flavio Santi
Flavio Santi (1973) il male l’ha respirato fin da piccolo: per tutta la giovinezza è vissuto tra Novi Ligure, teatro del massacro di Erika e Omar, e il Friuli paterno, una delle poche regioni in Italia a mantenere vivo il ricordo e il timore dei vampiri (nella vicina Istria si registrò uno dei primi casi di vampirismo storico: Giure Grando di Corridico). Ma il destino ha voluto intrecciare a filo doppio il suo legame con le tenebre: nell’autunno del 2000 una borsa di studio lo porta per sei mesi a Ginevra. Trova una stanza in un sobborgo, Cologny. Chemin de Ruth 9. Una bella casa sulle brume del lago Lemanno. Proprio lì inizia a scrivere “L’eterna notte dei Bosconero”. Avverte strane presenze intorno al Lago, ma non capisce. Solo al ritorno in Italia scoprirà una coincidenza inquietante: la bella villa di Chemin de Ruth 16, la cui vista dalla finestra lo accompagnò in quei mesi, altro non era che la celebre Villa Diodati. La villa dove nel giugno 1816, in giornate uggiose, l’orrore prese forma di parola: Mary Shelley vi scrisse Frankenstein e lord Polidori Il vampiro. La letteratura gotica nacque lì.
Per il resto insegna all’università e traduce, soprattutto romanzi dall’inglese (Wilbur Smith, Barry Gifford, James Kelman, Robert Stone ecc.).
Il suo primo romanzo, una specie di Finnegan’s wake friulano, “Diario di bordo della rosa” (PeQuod, 1999, ora in corso di traduzione in Francia), è stato amato da Gesualdo Bufalino e criticato da Aldo Busi. Considerato uno dei poeti più interessanti della nuova generazione (responsabilità che ha dovuto difendere perfino in un’epica puntata del “Maurizio Costanzo Show” dedicata alla poesia), ha scritto diversi libri di poesia: dal primo, “Viticci”, vincitore del premio “Sandro Penna” insieme a Edoardo Sanguineti, alle raccolte in dialetto friulano “Rimis te sachete” (Marsilio, 2001) e “Asêt” (Barca di Babele, 2003), che gli valsero da più parti l’accostamento con Pier Paolo Pasolini, fino all’ultimo, del 2004, un’anticipazione di un poema in progress “ucronico” e impazzito, assolutamente inedito in Italia: “Il ragazzo X” (Ed. Atelier), storia, tra il civile e il fantascientifico, del clone di Giacomo Leopardi, riportato in vita nelle carni di un giovane precario dei nostri anni.

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 16:55 da Minibiografia di Flavio Santi


Minibiografia di Danilo Arona
Nato ad Alessandria nel 1950, Danilo Arona è laureato in filosofia con indirizzo psicanalitico. Saggista, critico cinematografico e letterario, scrittore, giornalista e chitarrista, dal 1978 a oggi, ha firmato oltre venti titoli tra saggi di cinema, inchieste sul lato oscuro del sociale e romanzi horror. Nella sua produzione più recente spiccano: “L’ombra del dio alato”, “La stazione del dio del suono”, “Palo Mayombe”, “Cronache di Bassavilla”, “Black Magic Woman”, “Finis Terrae”, “Melissa Parker e l’incendio perfetto”, “Santanta”, “Pazuzu e La croce sulle labbra”. Interessato a dimostrare che l’Italia è uno dei più vasti contenitori mitologici del pianeta, nella sua narrativa Arona un personale concetto di horror autoctono, legato alle paure del territorio.
http://www.daniloarona.com

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 16:55 da Minibiografia di Danilo Arona


Minibiografia di Gianfranco Manfredi
Cantautore, sceneggiatore, attore, scrittore, Gianfranco Manfredi nasce a Senigallia nel 1948. Si trasferisce a Milano all’età di otto anni. All’università, studia Filosofia e si laurea con Mario Dal Pra. Agli inizi degli anni ’70, si divide tra la ricerca universitaria sull’Illuminismo francese e l’attività di cantautore: escono gli album “La crisi” (1972), “Ma non è una malattia” (1976), e il saggio “L’amore e gli amori in Jean-Jacques Rousseau” (1978). A un passo dall’ottenimento della cattedra in Storia della Filosofia, Manfredi decide di dare spazio esclusivamente alla sua vena artistica. Come cantautore realizza gli album “Biberon”, 1978; “Liquirizia”, 1979 (colonna sonora dell’omonimo film di Salvatore Saperi); “Gianfranco Manfredi”, 1981; “Dodici”, 1985 (in coppia con Ricky Gianco); “In Paradiso fa troppo caldo”, 1993; “Danni collaterali”, 2003; firma, altresì, brani per interpreti del calibro di Mia Martini (“Io donna, io persona”, 1976), Gianna Nannini (“Riprendo la mia facci”a, 1977), e Gino Paoli (“Parigi con le gambe apert”e, 1988). Inoltre, comincia a lavorare per il cinema come sceneggiatore: Samperi (“Liquirizia”, 1979, e “Fotografando Patrizia”, 1981) e Steno (“Quando la coppia scoppia”, 1981) sono solo alcuni dei registi con cui collabora. Come attore recita in “Un amore in prima classe”, 1980, e “Fotografando Patrizia” di Samperi, è protagonista del Tv movie “Kamikaze” di Corbucci (1986), ed è tra gli interpreti di “Via Montenapoleone” di Carlo Vanzina (1987). Nel contempo Manfredi inizia a farsi conoscere come romanziere distinguendosi da subito per la sua raffinata propensione a ibridare i registri narrativi e a rimaneggiare in modo del tutto nuovo i tòpoi della letteratura di genere, e ottenendo, per questo, il plauso di personalità come Oreste Del Buono e Pier Vittorio Tondelli. Con Feltrinelli escono “Magia Rossa”, 1983 (riedito nel 2006 per i tipi Gargoyle); “Cromantica”, 1985 (riedito nel 2006 per Marco Tropea), “Ultimi Vampiri” (1987, ripubblicato per i tipi Gargoyle); “Trainspotter” (1989); con Mondadori “Il peggio deve ancora venire” (1992); con Marco Tropea “Una fortuna d’annata” (2000) e “Il piccolo diavolo nero” (2001). Dagli anni ’90 Manfredi avvia un’intensa collaborazione con la Sergio Bonelli, riferimento storico in Italia quanto a editoria del fumetto, creando le seguitissime serie di “Magico Vento”, 1997 (tradotto in diversi paesi ed è attualmente è al vaglio di opzioni cinematografiche americane) e di “Volto Nascosto”, 2007. Gianfranco Manfredi vive e lavora a Gordona (Sondrio).
http://www.gianfrancomanfredi.com

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 16:56 da Minibiografia di Gianfranco Manfredi


Minibiografia di Claudio Vergnani
Claudio Vergnani è nato a Modena nel 1962. Svogliato studente di Liceo Classico e ancor più svogliato studente di Giurisprudenza, preferisce passare il tempo leggendo, giocando a scacchi e tirando di boxe. Dopo una parentesi militare, sbarca il lunario alla meno peggio, passando da un mestiere all’altro. Dalle palestre di body building alle ditte di trasporti, alle agenzie di pubblicità, alle cooperative sociali, è sempre perennemente fuori parte e costantemente in fuga. “Il 18° vampiro” è il suo primo romanzo

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 16:57 da Minibiografia di Claudio Vergnani


Minibiografia di Paolo De Crescenzo
Paolo De Crescenzo è nato a Roma nel 1947. Dopo una lunga esperienza come direttore finanziario di un grande gruppo cinematografico italiano, è stato direttore generale dell’A. S. Roma, dell’A. C. Fiorentina e della Lux Vide di Ettore Bernabei (per la quale ha prodotto nel 2001 la miniserie “Il bacio di Dracula”, trasmessa da RAI UNO). È stato inoltre consigliere delegato della Rizzoli Produzioni Internazionali. Fondatore della Gargoyle nel 2004, ne è amministratore unico e responsabile editoriale. Sposato e padre di due figli, ama i viaggi, i gatti e si diletta in cucina nella preparazione di ricette tradizionali romane

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 16:57 da Minibiografia di Paolo De Crescenzo


Minibiografia di Franco Pezzini
Franco Pezzini, saggista, si occupa dei rapporti tra letteratura, cinema e antropologia, con particolare attenzione agli aspetti mitico-religiosi e al fantastico. Laureato in Diritto Canonico con una tesi su “Esorcismo e magia nel diritto della Chiesa”, è stato tra i fondatori della rivista “L’Opera al Rosso” (Marietti, 1990-92). Collabora alle riviste “L’Indice dei libri del mese”, “LN – Libri Nuovi” e “Carmilla on line”, ed è autore dei saggi “Cercando Carmilla. La leggenda della donna vampira” (Ananke, 2000); con Arianna Conti, “Le vampire. Crimini e misfatti delle succiasangue da Carmilla a Van Helsing” (Castelvecchi, 2005); con Angelica Tintori, “The Dark Screen. Il mito di Dracula sul grande e piccolo schermo” (Gargoyle Books, 2008) e “Peter & Chris. I Dioscuri della notte” (Gargoyle Books, in uscita dicembre 2010). E’ vicepresidente del Comitato scientifico di “Autunnonero – Festival Internazionale di Folklore e Cultura Horror”.

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 16:58 da Minibiografia di Franco Pezzini


E adesso… vi ripropongo le domande del post a cui tutti (“ospiti speciali”, frequentatori abituali e di passaggio del blog) sono invitati a rispondere.

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 17:00 da Massimo Maugeri


- Perché la figura del vampiro è così prepotentemente entrata a far parte nell’immaginario collettivo mondiale?

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 17:00 da Massimo Maugeri


- Il sentimento suscitato dal vampiro è più vicino alla paura o al fascino? E perché?

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 17:01 da Massimo Maugeri


- Che scarto esiste tra la figura storica del vampiro e quella “trasfigurata” nella fiction letteraria, cinematografica e fumettistica? L’esistenza di questo scarto (ammesso che ci sia) è nota? È importante che lo sia? Che percezione avete, in proposito?

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 17:01 da Massimo Maugeri


- Cosa è cambiato nella “letteratura vampirica” (ammesso che qualcosa sia cambiato) da Bram Stoker a oggi?

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 17:01 da Massimo Maugeri


- La letteratura italiana che si “occupa” dei vampiri è all’altezza di quella espressa in altre parti del mondo (quella anglosassone, per esempio)?

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 17:02 da Massimo Maugeri


- C’è un pregiudizio, da parte dei lettori italiani, a favore dei romanzi sui vampiri di matrice angloamericana (e a svantaggio di quelli scritti in Italia)?

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 17:02 da Massimo Maugeri


- Avete mai letto “Le notti di Salem” di Stephen King? Che posizione occupa, questo romanzo di King, nella stroria della “letteratura vampirica”?

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 17:03 da Massimo Maugeri


- A cosa è dovuto il successo planetario della saga Twilight della Meyer?

.
- Rispetto all’età dei lettori: il successo di Twilight è generalizzato o è più generazionale? Rispetto al sesso dei lettori: è un successo “di genere” o è indistinto? Che percezione avete, in proposito?

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 17:03 da Massimo Maugeri


- In generale: l’horror può esercitare una funzione “esorcizzante” delle paure legate alla quotidianità e alla vita reale?

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 17:04 da Massimo Maugeri


Perdonate i commenti “a raffica” (ma mi servono per introdurre meglio il post).
Come ho già anticipato… altre domande potrebbero essere formulate nel corso della discussione che sarà più che mai improntata sullo scambio, sull’arricchimento reciproco e sulla interattività.

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 17:05 da Massimo Maugeri


Off topic:
Mio ospite della puntata radiofonica di domani – a “Letteratitudine in Fm” (su Radio Hinterland) sarà Gianrico Carofiglio.
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Radio Hinterland è “ascoltabile”, su Fm 94.600 MHz, nel territorio della provincia di Milano e oltre… e in streaming via internet (ovunque) da qui: http://www.radiohinterland.com/streaming/radiolimpia.asx
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Per altre info:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/letteratitudine-radio-hinterland/

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 17:09 da Massimo Maugeri


Non so se mi sarà possibile riconnettermi.
In ogni caso auguro a tutti una buona serata…

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 17:10 da Massimo Maugeri


[...] Guarda Articolo Originale: DIBATTITO SULLA LETTERATURA DEI VAMPIRI [...]

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 18:04 da DIBATTITO SULLA LETTERATURA DEI VAMPIRI


Innanzi tutto un saluto e i miei complimenti a Francesco Di Domenico per la bella recensione. E complimenti anche a Laura Costantini. E saluti e un rigraziamento particolare a Massimo il quale sa centrare con precisione certi “umori letterari” che attraversano le nostre pagine quotidiane.
Un paio di citazioni letterarie da parte mia: su quello che potremmo definire “vampirismo psichico” ricordo la novella di Guy de Maupassant, “La Horla”. Qualche anno fa Robert Sheckley ha scritto un breve racconto, una interessante nuova versione della novella di Maupassant, intitolato appunto “The New Horla”.
Citazione cinematografica d’obbligo: uno dei capolavori di Werner Herzog, un film del 1979, “Nosferatu, il principe della notte”, con un cast straordinario: Klaus Kinski, Isabelle Adjani e Bruno Ganz. Straordinaria anche la colonna sonora dei “Popol Vuh”.

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 18:09 da Subhaga Gaetano Failla


Il mio percorso formativo sa troppo di psicanalisi del profondo per riuscire a sfuggirne. E poi non ho nessuna intenzione di farlo… Al di là delle alterne fortune letterarie e cinematografiche del filone (molto legate spesso a una maschera particolarmente efficace, classico esempio Chris Lee…), temo che siamo tutti, chi più chi meno, “vampiri dentro”, intenti ogni giorno a succhiarci vicendevolmente la linfa vitale tanto nei rapporti d’amore quanto nel mondo del lavoro. Troppo semplice? Nient’affatto. Nosferatu (Murnau) annunciava il nazismo sorgente e mai metafora sarebbe stata più puntuale soprattutto nel sottolineare lo spargimento del sangue e il furto del “plasma economico”, messo in piedi dall’ideologo Rosenberg ai danni del popolo ebraico (solo che la critica in genere, ma soprattutto a sinistra, ancora negli anni ‘70 non si accorgeva di quel che c’era stato dietro il sipario espressionista…). Il Dracula hammeriano (Fisher) scombinava eroticamente la società vittoriana, restituendo alle femmine del periodo il diritto-dovere di annullarsi nel momento estatico dell’orgasmo. Oggi il vampirismo avrebbe di che collegarsi con le politiche planetarie (quelle finte-solidali…), con i premier che possiedono castelli (nei Carpazi?), con le mafie e con le varie “addiction” sagacemente seminate ad arte nei meandri della società civile (coca non cola…). E poi che dire dei “vampiri della mente” che ti rubano quel poco che resta del cervello senziente dal tubo catodico? SIAMO vampiri, è per questo che ci credo… Ma qui mi blocco perché il cesto delle provocazioni mi sembra non pieno, ma alto quanto basta (per il momento…)

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 18:28 da Danilo Arona


Questa storiella l’ho sentita raccontare un po’ di tempo fa. Naturalmente è in tema, quindi metto in guardia gli animi più sensibili…
*
Un vampiro viandante giunge in piena notte in una città di vampiri. Ha bisogno di rifocillarsi. Trova un bar aperto. Entra.
Il bar è frequentato da numerosi vampiri i quali sorseggiano tazze di sangue caldo, consumano dessert di sangue rappreso, si inebriano con varie simili pietanze al sangue.
Il vampiro viandante va al bancone e ordina al vampiro barista:
“Una tazza di accqua calda, per favore.”
Il brusio che c’era nel bar si interrompe d’improvviso trasformandosi in un “Oooh” di disappunto. Tutti i vampiri volgono lo sguardo indignato verso il bancone.
E il vampiro viandante, togliendo dalla tasca del suo vestito nero un tampone mestruale usato, dice:
“Ma io volevo solo preparami una tisana!”

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 18:28 da Subhaga Gaetano Failla


“Il sentimento suscitato dal vampiro è più vicino alla paura o al fascino? E perché?”

a entrambi… perchè la paura ha il suo fascino! elementare no?
ciao

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 18:48 da Paola


Salve a tutti. Cerco di dare alcune rape risposte alle domande postate da Maugeri.

- Perché la figura del vampiro è così prepotentemente entrata a far parte nell’immaginario collettivo mondiale?
Perchè il vampiro incarna la summa delle figure mostruose e dei terrori atavici che popolano da secoli gli incubi degli esseri umani. Che sia un mostro imputridito o uno stucchevole damerino in frak con la faccia infarinata, in ogni caso proverà a sottarci la linfa vitale. Lo potrà fare alla dove cojo cojo, buttandosi come un cretino sulla prima gola disponibile, o circuendo la vittima di turno con moine da ballerino di tango argentino, annoiandola con storie lacrimevoli di secoli di solitudine e amori perduti, ma di certo mira al sangue. E il sangue – come diceva Woody Allen – è meglio che stia dentro.

Il sentimento suscitato dal vampiro è più vicino alla paura o al fascino? E perché?
Dipende dal vampiro. Un non-morto mitteleuropeo appena uscito dalla fossa e ancora ricoperto di fluidi e di vermi che si butta addosso al primo disgraziato che incontra sarà a dir poco un cafone, e – anche per motivi olfattivi – noi non vorremo aver a che fare con lui. Se proprio ci devono spillare il sangue, allora meglio avere a che fare con le tre spose di Dracula (pur nel lecito sospetto che si tratti di tre casalinghe frustrate private finanche della valvola di sfoga del cucinare) che almeno una coscia e un capezzolo (se gira bene) forse lo lasciano intravedere. Quindi, i vampiri (e le vampire) sono mascalzoni, ma un baciamano serve pur sempre a zuccherare la pillola.

Che scarto esiste tra la figura storica del vampiro e quella “trasfigurata” nella fiction letteraria, cinematografica e fumettistica? L’esistenza di questo scarto (ammesso che ci sia) è nota? È importante che lo sia? Che percezione avete, in proposito?
Il vampiro è un frequentatore ormai abituale dei nostri salotti horror. E’ il primo ad arrivare e l’ultimo a togliersi dai piedi (con la patetica scusa che si è alzato al tramonto non si leverà di torno prima dell’alba, lo sciagurato) E’ diventato quello che Bufalino avrebbe definito “un personaggio di romanzo”. Tutti sono convinti di conoscerlo a fondo. E vai a dar loro torto!, ormai di vampiri ce n’è per tutti i gusti. In fondo, come molti di noi, il non-morto si è fatto con il tempo, affinandosi come una brava ragazza al suo primo impiego. Ora come ora, l’ultimo dei vampiri di Blade (tanto per fare un esempio) si offenderebbe se gli chiedessimo se è in qualche modo imparentato con gli Upyr balcanici o con i demoni succhianeonati citati da Tacito. Ci toglierebbe il saluto, prima ancora del sangue.

Cosa è cambiato nella “letteratura vampirica” (ammesso che qualcosa sia cambiato) da Bram Stoker a oggi?
Credo che la differenzia essenziale sia che Stoker (ed epigoni) – checchè se ne dica – scriveva di vampiri per scrivere (giustamente!) di vampiri. Ora – per un processo che verrebbe da dire fisiologico – il vampiro, e ciò che egli si porta dietro in termini di terrore ed allucinazione, è un’occasione ghiotta (almeno in parte) per scrivere anche d’altro. Non una spalla, certamente, ma un buon amico che offre con aplomb il giusto spunto nel giusto momento. E ha un grosso pregio: non si tira mai indietro. Ficcalo in un castello dei Carpazi o mettilo in aula di scuola negli stati uniti, il suo canino non si appannerà mai.

Fine primo round … a dopo …

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 19:10 da claudio vergnani


Caro Max giusto il tempo di salutare iSubhaga che non sento da tempo e dirti che, prima di scrivere le cose strambe che ho scritto recentemente, ho lavorato a una trilogia di esseri ‘fantastici’. Il progetto era fantasmi – licantropi – vampiri. Ovvero lavorare sul tempo attraverso queste figure.
Il fantasma mi consentiva di ragionare sulla ciclicità del tempo (i fantasmi, si sa, appaiono a ore o giorni stabiliti).
Il licantropo sulla elasticità del tempo (si trasforma improvvisamente, ha breve vita, ritorna ‘normale’ all’improvviso)
Il vampiro sulla incommensurabilità del tempo (i vampiri, si sa altrettanto sono ‘eterni’).
Scrissi i primi due libri – ‘Il volo dell’occasione’ e ‘Cacciatori di notte’ nel 1994 e 1997 per Longanesi. (Il volo l’ho ripubblicato nel 2004 con Fazi) ma non arrivai mai a scrivere il terzo, conclusivo, sul vampiro.
Boh, magari, me lo tengo per la vecchiaia.
Però mentre ho una certa stanchezza per i thriller, gialli, noir, etc. etc. il fantastico mi attira sempre.
Però ho l’impressione che se cominciassi a scrivere il capitolo conclusivo della trilogia, uscirebbe quando la moda vampiri sarebbe già passata. In perfetta distonia coi tempi altrui e sintonia altrettanto perfetta coi miei che sono, spesso, controcorrente.
Ciao a tutti

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 19:15 da filippo Tuena


Eh, quanti siamo!! Innanzitutto ringrazio Massimo che ci ha aperto anche stavolta le porte della sua casa. A Francesco “Didò” Di Domenico che ha scritto la bella recensione intingendo per un momento nel sangue la sua penna umoristica. A Laura Costantini che mi affiancherà in questo complesso dibattito.
Proverò in breve a dare qualche info che poi approfondiremo strada facendo.
Nel turbinare della letteratura vampirica, ho voluto scrivere VAMPIRI perché non è un romanzo. In effetti ho cercato di mettere ordine in questo gran caos che vede un vampiro sempre più snaturato, vittima della modernizzazione e della tendenza modaiola. Appartengo alla vecchia guardia e perciò sono legata alla figura vampirica classica, quella letale, spietata, anaffettiva. Se volevo un vampiro tutto sentimenti e pentimenti mi andavo a vedere un film di Moccia. E leggo che pure Paolo De Crescenzo, direttore della Gargoyle Books, ha definito i personaggi di Twilight “vampiri di Moccia”.
La figura del vampiro fa parte dell’immaginazione collettiva mondiale perché ha radici che affondano nel mito e nel folklore mondiale. Potremmo addirittura costruire una torre di Babele vampirica.
La letteratura italiana che si occupa dei vampiri SAREBBE BEN all’altezza di quella estera se avesse la dovuta considerazione da parte della grossa editoria e dei media. All’estero spesso si costruisce dietro uno scrittore un’impalcatura solida fatta di marketing: qui sei solo, a meno che il tuo nome non venda per te. Di conseguenza, la reticenza del lettore italiano medio che non conosce bene l’autore e preferisce fidarsi del consiglio del quotidiano o della pubblicità in tv.
Di Stephen King ho l’opera omnia e “Le notti di Salem” resta uno dei miei preferiti: ambientazione, atmosfera, sana crudeltà sono gli ingredienti che fanno di quel libro una pietra miliare del genere. Ancora meglio, per lgi amanti del racconto, Jerusalem’s Lot e Il bicchiere della staffa, entrambi nella raccolta A volte ritornano: due gioieli.

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 19:29 da Simonetta Santamaria


Ciao Filippo! Ricambio con tanto affetto il saluto! E spero di leggere i tuoi “lavori sul tempo”.

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 19:43 da Subhaga Gaetano Failla


Ma che allegria! Ci sarà da divertirsi in questo post. Sto finendo di leggere il libro di Simonetta Santamaria, più che leggerlo direi lo sto gustando, sto trovando notizie sui vampiri che mai avrei immaginato. E ci sono anche ricette gustosissime, come il Didò al sanguinaccio. Interverrò con maggiore competenza non appena avrò finito di leggere il libro. Confesso che ne so ben poco sui vampiri. L’unico vampiro che conosco è mia suocera, la quale mi incute terrore solo a nominarla. Per adesso come biglietto da visita posso portare i miei tre anni che ho lavorato al cimitero. Aggiungo che non accetterei mai un invito a cena dalla signora Santamaria (ed eviterei pure la Costantini a dir la verità), ma neanche se mi firmasse un documento nel quale si certifica che è vegetariana.

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 20:13 da Salvo Zappulla


@Salvo: eppure i miei canini sono assolutamente nella norma.
Intervengo molto rapidamente, promettendo più corposi interventi in seguito. E intervengo per dire che definire i vampiri di Twilight i vampiri di Moccia è riduttivo. Il fascino che la Meyer ha saputo trasfondere nella famiglia Cullen, nei Volturi e in tutti i personaggi di contorno non ha niente da invidiare ad alcune pagine di Ann Rice, altra grandissima portabandiera del genere *succhiasangue*.

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 20:20 da laura costantini


Sulla letteratura vampiresca nostrana sto scoprendo cose grazie a questo post (e a Massimo Maugeri), ma da Bram Stoker in poi, ho seguito il genere con interesse: dalle ingenuità di LeFanu (Carmilla ormai non farebbe paura neanche ad un infante) per giungere alla saga di Lestat che meriterebbe un discorso a parte. Credo che nessuno come Ann Rice abbia innalzato la figura del vampiro ad emulo dell’angelo caduto Lucifero, infatti in Memnoch il diavolo (se non vado errata) dai vampiri si arriva direttamente a Dio.

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 20:27 da laura costantini


@ Laura: su fb mi pareva di aver capito che Twilight neanche a te aveva convinto… Per ciò che mi riguarda, comunque, l’ho trovato un romanzo basato perlopiù sulle incertezze adolescenziali; le connotazioni dei personaggi non sono bastate a rendere convincente la storia. La saga della Rice e di Lestat è tutt’altra pasta, le due autrici non mi paiono neppure accostabili, per carità. Anche la nostra Chiara Palazzolo ha scritto la sua storia d’amore dannato di Mirta/Luna, però con tutto un contorno degno del piatto di un re. La sua saga m’è piaciuta molto, e spero che intervenga in questa discussione per poter avere l’occasione di farle i miei complimenti.

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 20:59 da Simonetta Santamaria


2° round

La letteratura italiana che si “occupa” dei vampiri è all’altezza di quella espressa in altre parti del mondo (quella anglosassone, per esempio)?
Sì e no. E’ su un altro piano. Ed è un bene che lo sia, perchè il confronto sarebbe impari, anche perchè – molto spesso se non sempre – un libro è solo in parte ciò che narra e come lo narra. Marketing e promozione – che il libro sia buono o meno – sono il propellente che non solo lo farà conoscere, ma che servirà anche a connotarlo. Da questo punto di vista, qui in Italia siamo su un altro pianeta. Anzi, su un satellite. Che è anche un vantaggio, a ben vedere. Permette infatti ad autori oscuri come il sottoscritto d’avere un comodo alibi nel caso la propria opera non tiri. :)

C’è un pregiudizio, da parte dei lettori italiani, a favore dei romanzi sui vampiri di matrice angloamericana (e a svantaggio di quelli scritti in Italia)?

Fino a dieci anni fa mi verrebbe da dire di sì. Ora come ora, probabilmente molto meno. Di certo un vampiro di Salem venderà sia a Salem che a Roma. Un vampiro di Borgo Panigale rischia di non vendere nemmeno nella libreria sotto casa sua. Non sarà giusto, ma lo possiamo anche capire.

Avete mai letto “Le notti di Salem” di Stephen King? Che posizione occupa, questo romanzo di King, nella stroria della “letteratura vampirica”?
Sì, buono senza dubbio, ma non indimenticabile. Seicento pagine perchè il vampiro capo si faccia raggirare come un pirla sono francamente troppe. Il che non toglie che rimanga un cult. I libri cult non sono necessariamente libri perfetti. E poi, che altro potrebbe fare un vampiro cattivo, dopo dieci o seicento pagine, se non abbozzare più o meno malvolentieri, e farsi impalare … ?

A cosa è dovuto il successo planetario della saga Twilight della Meyer?

.
- Rispetto all’età dei lettori: il successo di Twilight è generalizzato o è più generazionale? Rispetto al sesso dei lettori: è un successo “di genere” o è indistinto? Che percezione avete, in proposito?
Direi che si tratta semplicemente di un buon prodotto, dove per buono si intende il termine nell’accezione più vasta. Ben confezionato, strizza l’occhio al suo pubblico, com’è giusto che sia. Tra l’altro, rivolgendosi dichiaratamente appunto ad una platea di adolescenti che di certo, almeno in massima parte, non possiede riferimenti letterari precedenti, non ha nemmeno il bisogno di confrontarsi con illustri antesignani. Chapeau.

- In generale: l’horror può esercitare una funzione “esorcizzante” delle paure legate alla quotidianità e alla vita reale?

Ho dei dubbi. Da un vampiro puoi ancora difenderti, dai politici italiani no.

Buona serata a tutti

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 21:08 da claudio vergnani


Sono d’accordo con Simonetta: quelli di oggi non sembrano più i bei vampiri di una volta! Non saranno di Moccia, ma non mi attirano proprio. Sono mosci figli dei nostri giorni, altro che epigoni del mito di Lilith, o di Satanasso in persona.
Quei bei Nosferatu, Vlad Drakul, Vurdalak, impersonati dai Boris Karlof, Christopher Lee, Klaus Kinski. Quella bella profusione di aglio: e dire che c’è chi lo elimina pure dal pesto alla genovese: anatema su costoro! Meriterebbero che un principe di Valacchia o Transilvania li trascinasse dritto dritto nella locanda della storiella di Gaetano Failla! Naturalmente in dispensa (tra le scorte di viveri).

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 21:16 da Carlo S.


Grazie Carlo, ti devo un caffè! ;)

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 21:24 da Simonetta Santamaria


@ Zap: non mi piace cucinare quindi t’inviterei a mangiare una bella pizza. E comunque fai bene a dubitare! ;)
Battutacce a parte sono contento che VAMPIRI sia di tuo gradimento, e che tu sia stato il primo qui a parlarne (hai battuto Didò sul tempo). Ho cercato di fare un buon lavoro a tutto tondo rendendo il libro al contempo piacevole e non noioso. Le tematiche sono molteplici perché molteplici sono le radici del mito del vampiro. Un saggio non-saggio per i vampirofili di ogni età.

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 21:30 da Simonetta Santamaria


Bellissimo questo post! E bravissimo Massi a creare una tale sovrapposizione di voci! Un abbraccio particolare a Laura Costantini e a Simonetta Santamaria che – ogni volta che posso – seguo con infinito piacere.
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Per rispondere alla prima domanda (Perché la figura del vampiro è così prepotentemente entrata a far parte nell’immaginario collettivo mondiale…) credo che, in realtà, si tratti di una suggestione molto antica che affonda nelle nostre paure, nelle pizzute e inaccessibili cavità del sonno, nel nostro – incessante – rapportarci col “dopo”, con “l’oltre”, col buio sprofondante che immaginiamo tra noi e la fine.
Non a caso riferimenti a figure mitiche come i vampiri si trovano ovunque nelle varie epoche storiche e fin dai primordi (pur con trasformazioni e trasfigurazioni).
Già nell’Odissea Ulisse attira Tiresia (che gli profetizzerà il suo esilio e il pellegrinaggio per mare) con sangue di pecora (il “sangue nero” cui i morti si abbevereranno). C’è quindi un ritorno al sangue come simbolo di vita ma anche di passaggio, di rito iniziatico e quasi lacustre. Un battesimo, ma per un’altra vita e un altro viaggio, a metà tra la luce e il buio.
Ti riporto un passo dell’Odissea “vampiresco”:
“… E quando con voti e suppliche le stirpi dei morti ebbi invocato, prendendo le bestie tagliai loro la gola sopra la fossa: scorreva sangue nero fumante. S’affollarono fuori dall’Erebo l’anime dei travolti da morte… ma io, la spada affilata dalla coscia sguainando, sedevo e non lasciavo le teste esangui dei morti avvicinarsi al sangue, prima che interrogassi Tiresia…”.

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 21:40 da simona lo iacono


E riagganciandomi alla Sicilia evocata da Flavio Santi (geniale l’idea dell’ultimo viaggio di Goethe e del capitolo sconosciuto del suo “viaggio in Italia”) devo dire che riferimenti vampireschi non mancano neanche nelle nostre tradizioni siciliane… Si tratta di leggende legate alla paura del male, delle pestilenze approdate dalle invasioni, delle diversità suggerite dai cambi di razza, di dominio, di nemici…
E infatti mia nonna mi raccontava sempre delle “donne di fuora” (le donne di fuori), donne che si avventuravano nella notte col solo spirito per congiungersi alle anime degli inferi per averne consigli, risposte e domande di cose future, secondo le richieste dei clienti.
Era credenza che le “signore” costituissero una società di 33 potenti creature, le quali erano sotto la dipendenza di una mamma maggiore, che si trovava a Messina. Tre volte la settimana, le notti di martedi, giovedi e sabato uscivano in ispirito e andavano a concilio a Ventotene, per deliberare sulle fatture da rompere, le legature da sciogliere, i castighi o i premi da proporre contro o in pro di chi ha meritato il loro odio o il loro amore. La donna di fuora prima di coricarsi ricordava al marito o ad altri che erano in casa che la notte era di uscita, e diceva a tutti che non doveva essere toccata durante la sua permanenza “fora” (fuori).

Chi voleva in casa una “bella signora” doveva prima della mezzanotte, ardere dell’incenso, foglie d’alloro e rosmarino. … La tradizione narra che le prime donne di fuora ricevettero la potenza direttamente dal demonio, a cui per contratto diedero l’anima.
Quando si insinuano in una casa non hanno forma di pipistrelli, come i vampiri, ma di creature notturne: lucertole, topi e gatti.
Sono simbolo di un’ostinazione alla vita e alle sue regole. Di una difesa indomita della casa e del territorio. Come i vampiri non si arrendono alla morte e non si arrendono al suo contrario. Mia nonna diceva che stanno “in mezzo”….
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E adesso, visto che inizio ad avere paura di fare brutti sogni, la chiudo qui….buona notte!

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 21:52 da simona lo iacono


Mi inserisco anch’io – dopo un lieve sobbalzo dopo aver sentito parlare (immagino per sana provocazione a discutere) di “ingenuità” a proposito di Le Fanu. Il fatto è che Carmilla non nasce affatto per far paura – perlomeno, non nel senso più immediato. Come ha detto qualcuno, Le Fanu è troppo furbo per credere agli esseri soprannaturali, troppo intelligente per non credervi: e nell’ambito di una vicenda tutta giocata sul potere vampirico della malinconia, la vergine funesta Carmilla emerge quale doppio della narratrice Laura, evocata dalla solitudine e da un inconosciuto, divorante desiderio – un volto oscuro, sovversivo e irresistibilmente seduttivo che le allusioni del romanzo (ben più di certe scollacciate rivisitazioni filmiche) circonfondono di pericolosa minaccia sessuale. Laura è prigioniera in un mondo di vecchi, e forse non a caso la vicenda è ambientata in quella Stiria la cui little capital Graz era chiamata scherzosamente “Pensionopoli”, in quanto classico luogo di ritiro di alti funzionari e ufficiali come suo padre. Nessuna sorpresa dunque se proprio il Mondo Vecchio da cui la narratrice aveva cercato scampo tramite Carmilla muoverà per stroncare quella pericolosa, irrisolta ribellione – una realtà profonda che Laura, non-morta alla vita, non riesce a razionalizzare e la condanna alla deriva schizofrenica del rimpianto. A ben vedere la vicenda di Carmilla rappresenta una ghost story di confine, e nell’ambiguità del personaggio è compresa una dimensione spettrale, fantasmatica e inafferrabile sopravvissuta persino al cinema in una certa libertà dagli stereotipi vampireschi. Si può serenamente concordare con Malcolm Skey nel riconoscere a Le Fanu piuttosto che a Dickens lo scettro di principe della ghost-story vittoriana: ancora in età postfreudiana la collezione di doppi e spettrali persecutori evocati da Le Fanu sul crinale ambiguo tra psiche e oltretomba appare portatore, con i piaceri di una rara eleganza narrativa, di genuine inquietudini ai lettori. Ma inquietudini, appunto, a un livello molto particolare: in Carmilla – per esempio – non ci sono “buoni”, visto che la giovane vampira resta un mostro, e nell’accanimento dei suoi avversari emerge il vampirismo di una senescenza che non è solo un dato biografico. Mi pare che una simile visione In a Glass Darkly (appunto) non possa lasciarci tanto tranquilli… Ma certamente, anche al di là dei rapporti con la ghost story, il rapporto perturbato dei vampiri con la rifrazione dice qualcosa su di noi a livello individuale e sociale. L’horror può evidentemente esercitare una funzione “esorcizzante” delle paure (di fronte al volo di Pazuzu, tutto sommato alzarmi al mattino per andare in ufficio resta ancora accettabile), ma è importante che al contempo sparigli le carte e mostri cosa è bene temere. A partire da ciò che abbiamo dentro.

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 21:55 da Franco Pezzini


Mi inserisco per un breve commento. Qualche anno fa (il 2005, mi pare) ci fu un clamoroso fenomeno editoriale. Un’autrice americana pubblicò un romanzo, molto studiato a tavolino: Il discepolo. Il libro parlava, guarda caso, proprio di vampiri e di caccia ai vampiri (una specie di Buffy l’ammazzavampiri molto acculturato). La scrittrice si firmò Elisabeth Kostova, utilizzando il cognome (mi pare) bulgaro del marito, anche per richiamare l’ambientazione centro-europea di molte scene del romanzo. Il successo fu enorme. Nonostante un’iniziale ritrosia, ho letto il romanzo e mi è piaciuto moltissimo: i riferimenti culturali e storici, la scrittura e anche l’inserimento dello “stile” epistolare rendono il lavoro della Kostova molto suggestivo. Putroppo non posso dire altrettando dei vampiri adolescenti di Twilight, in cui vedo solo un’accozzaglia di attributi soprannaturali e conflitti adolescenziali, variamente miscelati.
A presto!

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 22:16 da Luca


Un saluto affettuoso a Franco Pezzini, che ci fa illudere di vivere ancora in un mondo civile.

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 22:20 da claudio vergnani


Intanto chiedo scusa per non avere salutato nessuno nel primo intervento. Lo faccio adesso con un abbraccio collettivo. Purtroppo prima ero fuori, proprio all’addiaccio, e ho afferrato il primo PC a portata di mano… Dopo di che continuo. Non so se ho risposto (al volo) al primo quesito, ma continuo a regolarmi così, rispondendo in modo simmetrico alle domande una alla volta al fine di risultare il più possibile esaustivo. Quindi la seconda: paura e fascino. Sicuro, 50 e 50, interscambiabili, con-fusi, senza una vera prevalenza dell’una sull’altro. Anche perché la paura, sempre in ossequio alla psicanalisi del profondo – lo so, scasso… – è, ovviamente, l’Altra Faccia dell’erotismo. Eros & Thanatos, roba vecchia, verrebbe da dire… Sì, ma il vampiro non è giovanissimo in quanto mito. I primi succhiasangue sono di molto antecedenti all’archetipo dei Carpazi e, di sicuro, molto poco affascinanti, se ricordo bene. La fascinazione, “le mourir de plaisir” temo sia un valore aggiunto del cinema… il cinema che ha dato sostanza all’intravista forma letteraria. Da Bela Lugosi a oggi la tentazione a trasgredire incarnata dal vampiro è trasmigrata attraverso attori/feticcio destinati a identificarsi fortemente con il mito rappresentato: ancora una volta è Chris Lee a fornire un modello insuperabile e intoccabile (al punto tale che sarà Lee a far sua la parodia di Dracula in “Tempi duri per i vampiri”), quello del Grande Tentatore Erotico che tenta di sgretolare l’ipocrisia e il puritanesimo dell’epoca di Vittoria. Grande Fisher – e altrettanto i successivi epigoni – a dipingere le “vittime” di Dracula come autentiche complici del mostro, ex vergini di ferro finalmente divenute donne grazie al morso “penetratore”. Non c’è femmina a mia memoria, in tutto il serial Hammer, che non attenda fremendo che Drac affondi le sue zanne nei candidi colli. Perché il vampiro è vitale, vitalistico, e la sessualità delle varie vittime di turno sta invece dormendo da anni… Il fascino, ambiguo, gira da queste parti: c’identifichiamo totalmente in lui (anche perché parla poco e va al sodo), anzi non è sacrilego affermare che abbiamo parteggiato e parteggiamo tuttora per il vampiro… Alla fine di questi pensieri disordinati, ho l’impressione che vinca il fascino, laddove il Brutto può diventare persino Bello se non Sublime, e questa vittoria (di Pirro?…) magari ci porta a considerare con occhio meno sospetto il fenomeno “Twilight”… Fascino okay, ma l’orrore dov’è finito?

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 22:21 da Danilo Arona


Beh, sì; il morto vivente, proprio per rivivere (credo) deve nutrirsi di sangue, del principio vitale. Che il suo fluire dentro i corpi viventi abbia meravigliato e incantato anche i primitivi, che poi gli hanno conferito un significato magico e religioso, facendogli prendere ben presto un ruolo primario nei propri riti (i sacrifici, le offerte agli dei, o ai demoni per placare le loro ire …) mi pare indubitabile. In fondo si nasce anche nel sangue, e si muore tra il rapprendersi del sangue e il suo arrestarsi. Nell’Odissea questo mito primordiale si è già raffinato enormemente, e colorito di nuovi significati (passaggi tra mondi diversi, riti iniziatici, come dice Simona, ecc.).
E cos’è poi il miracolo di San Gennaro, stringi stringi, se non un ritorno alla vita attraverso il liquefarsi del suo sangue di un patrono in grado di proteggerti per tutto l’anno?
Il non verificarsi del miracolo, al contrario, testimonierebbe il sonno del Santo, il suo rifiuto a risvegliarsi e a donarti l’ausilio celeste.
In fondo Dracula e San Gennaro sono figli (a livello elementare) degli stessi ragionamenti .
Ma forse la mia è antropologia spicciola.
Io, da buon genovese, mi rifugio comunque nell’aglio del pesto e del fegato all’aggiadda (niente a che vedere con quello alla veneziana, che la cipolla, si sa, nulla può contro i dèmoni di qualsiasi specie). Non si sa mai.

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 22:31 da Carlo S.


Salve carissimi.
La vita mi ha concesso, quasi 8 anni fa di avere l’onore di conoscere Simonetta e di diventarne poi, successivamente, un fratellino acquisito.
Nessuno ci crederà, ma questo mostro è una donna dolcissima.
Genesi.
Dopo l’uscita del bellissimo “Dove il silenzio muore”, che ha avuto una distribuzione sfortunata ma, nel suo piccolo, un successo incredibile, Simonoir era un po’ abbacchiata, altro che “blocco dello scrittore”, aveva il sangue alle ginocchia – non si può dire “latte alle ginocchia” di una scrittrice horror – e vaneggiava facendo ghirigori su un foglio bianco.
«Simo? Che stai facendo?»
«Niente Didò, sto lavorando ad una cosa leggera e non ne ho neanche tanta voglia. Un libro sui Vampiri.»
«Ma è meraviglioso, in momenti di postsurrealismo come questi, un libro sull’irrealismo è quantomeno fantastico»
«Naah, non ho voglia di scrivere.»
«Simonetta, piantala e scrivi!»
Poi un giorno di novembre – e ti pareva, lei tutto a novembre fa – si presenta ad un bar della Riviera di Chiaja ( per chi non conoscesse Napoli è il secondo posto più bello dell’universo, il primo è il paradiso) per un caffè e tira fuori “Vampiri”, restiamo, Floriana Tursi ed io, con la tazza a mezz’aria:
«Simooooo! Qualsiasi cosa vi sia scritto li dentro non ha importanza, questo libro ha una veste grafica bellissima, proprio il tipo di volume che da ragazzi sfogliavamo nelle biblioteche dei nostri zii (io avevo lo zio colto, non so voi). E sapete che fa? Mi regala una la seconda copia che ha avuto da Gremese.
Potevo mai scrivere una recensione malevola?

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 22:46 da Francesco Di Domenico - Didò


Passo al volo giusto per ringraziarvi per questi primi interventi.

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 22:49 da Massimo Maugeri


Dò un caldo e “sanguinolento” benvenuto a: Danilo Arona, Claudio Vergnani, Franco Pezzini.
;)
Benvenuti a “Letteratitudine” e grazie per la vostra partecipazione!

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 22:52 da Massimo Maugeri


Per stasera solo un rapido saluto a tutti gli altri partecipanti (poi, magari, nei prossimi giorni, avrò modo di “riprendere” qualche commento che mi ha colpito in particolare).
Un caro saluto, dunque, a: Gaetano Failla, Didò (appena giunto), Simona Lo Iacono, Filippo Tuena, Luca, Simonetta Santamaria (co-conduttrice del post con Laura Costantini), Carlo S., Salvo Zappulla, Paola…

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 22:55 da Massimo Maugeri


Affettuosamente pungolato dagli amici dell’ufficio stampa della “Newton Compton”, ho inserito sul post una nota sui «grandi libri» della casa editrice in questione e sulle connessioni con la figura “classica” del “vampiro”.
La trovate, appunto, in alto… sul post.

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 22:57 da Massimo Maugeri


Prima di chiudere vi invito a interagire e a confrontarvi… soprattutto tra voi addetti ai lavori. Credo sia davvero molto interessante per tutti, potervi leggere.

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 23:10 da Massimo Maugeri


Per il momento chiudo qui e vi auguro buona notte.
Mi raccomando: finestre chiuse e aglio a portata di mano.
E almeno un buon libro sul comodino.
;)

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 23:11 da Massimo Maugeri


@ Didò: se sempre Unico, non c’è che dire, cheri.
Per riprendere il bel discorso di Carlo e la religione, anche il mistero della transustanziazione del vino nel sangue di Cristo, seppur simbolicamente, può essere assimilabile al fenomeno del vampirismo. E tra le religioni più diffuse viene esplicitamente vietato il nutrirsi di sangue, umano e non. Il che trasforma il fenomeno in un vero e proprio tabù.
Perr quanto riguarda Le Fanu e la sua Carmilla, se si considera che era il lontano 1872, fu un’indubbia innovazione per la coraggiosa tematica dal sapore omosessuale del racconto.
E per concludere, per stasera, mi associo al mio amico Danilo Arona: da Paura a Paura e Fascino a Solo Fascino. Attenzione o si rischia di non poter più assimilare la figura del vampiro alla tradizione horror.
Buonanotte, qualunque cosa voi siate.
:)

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 23:17 da Simonetta Santamaria


ULTIM’ORA: Un Racconto di Simonetta Santamaria è stato selezionato per la finale del
1° FANTASY HORROR AWARD in Italia di Orvieto 19/20/21/ marzo 2010

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 23:46 da Francesco Di Domenico - Didò


Bellissimo argomento Massimo.Ho letto tutti i commenti di un fiato e ora mi sento così giù che avrei bisogno di una trasfusione…Apprezzatissimo il commento di F.Pezzini,ho adorato Carmilla di Le Fanu,vampirizziamoci sì ma con gran classe,quel pallore lunare e ambiguo della protagonista è decisamente affascinante in pieno stile ghost story.Il vampiro affascina perchè attraverso la paura e il mosrso ci lega indissolubilmente al suo destino,creatura ancestrale predatore erotico e seduttore talvolta avvolto in un’aura romantica,penso alla trasposizione cinematografica di Dracula di Stoker nel film di Coppola con Gary Oldman.”Ho attraversato gli oceani del tempo per trovarti. ” Dice Dracula alla sua amata…e poi “L’uomo più fortunato che calpesta questa terra è chi trova il vero amore”.E la sua amata Mina dice di lui:”Non so ma ho quasi la sensazione che il mio strano amico sia qui con me, parla nei miei pensieri .
Con lui mi sono sentita più viva di quanto non lo sia mai stata, e ora senza di lui e presto sposa io mi sento confusa, smarrita, forse per quanto cerchi di non pensarci, ne sono attratta. ”
Miei cari amici di lettere e di mouse, tutta questa bellezza di parole e sentimenti varrà pure un morsicino sul collo??
:-)
Baci e morsi di una felice notte!

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 23:57 da francesca giulia


Mi unisco a tarda ora del primo giorno alla discussione, che si prospetta stimolante e ricca di spunti.
Per cominciare, un saluto a tutti. A Massimo, grazie per l’invito.
Eviterò di rispondere in sequenza alle domande/provocazioni proposte, preferendo “piluccare” un argomento alla volta, anche per evitare interventi-fiume.
Comincerò dalla domanda su “Le Notti di Salem” di Stephen King.
A proposito, sapete che ho avuto il piacere di incontrare personalmente “il Re”? Accadde nel 1992, nell’ascensore dell’Hotel Pierre di New York: ero lì per organizzare una tournée estiva della AC Fiorentina, di cui all’epoca ero general manager. King, scoprii più tardi parlando con il concierge dell’albergo, aveva un appartamento in affitto annuale a uno dei piani alti.
Non sono il tipo da importunare le personalità incontrate casualmente, ma nel caso di King non seppi resistere… Mi feci coraggio e gli dissi che ero un suo fervente ammiratore italiano. Per quanto riservato e, dal breve contatto
avuto, direi quasi timido, King fu gentile: mi strinse la mano e si fermò a conversare qualche minuto. Più tardi allungai una mancia al portiere e gli feci recapitare nell’appartamento un gagliardetto e alcuni gadget della Fiorentina. Con mia sorpresa, la mattina dopo trovai in portineria una lettera in cui mi ringraziava e faceva cordiali auguri a me e alla squadra.
Conservo con orgoglio la lettera in questione incorniciata alle spalle della mia scrivania…
“Le Notti di Salem” (1975) è il secondo romanzo di King (dopo “Carrie”) e appartiene al periodo d’oro del Re. Nella mia personale classifica è fra i 5 migliori libri sui vampiri (non nomino gli altri 4 perché comprendono alcuni titoli pubblicati da Gargoyle, e vorrei evitare accuse di partecipazione ispirata a intenti pubblicitari…) e una delle 3 opere di King che preferisco (le altre sono “Una splendida festa di morte-Shining” e “Pet Sematary”).
L’idea di base è micidiale: i vampiri che gradualmente conquistano una piccola comunità rurale, diventandone i padroni incontrastati. Lo spunto servirà a ispirare una lunga serie di opere letterarie (tra tutte, “Hanno Sete” di Robert R. McCammon), e cinematografiche (incluso il recente “30 giorni di buio” e la graphic novel di cui questo costitusce la trasposizione).
Ispirato da due racconti (“Jerusalem’s Lot” e “Popsy”), che all’epoca King custodiva in un cassetto in attesa di pubblicazione, “Le Notti di Salem” ottenne un successo clamoroso – amche perché all’epoca le storie di vampiri
erano infrequenti e desuete – ottenendo una prima trasposizione in miniserie tv (1979), circolata in Italia anche in versione cinematografica accorciata, diretta da Tobe Hooper e interpretata da David Soul, Bonnie Bedelia e il grande James Mason nei panni dell’antiquario Straker. La miniserie si ricorda soprattutto per avere raffigurato il vampiro Barlow con un trucco ispirato al Nosferatu di Murnau. Alla miniserie fece seguito un film dimenticabile, “I vampiri di Salem’s Lot” (1987), diretto da Larry Cohen.
Nel 2004, una nuova miniserie prodotta dalla TNT, diretta da Mikael Solomon e interpretata da Rob Lowe, Donald Sutherland e Rutger Hauer, sancisce il rinnovato successo di un romanzo intramontabile.
A titolo di curiosità:
- i racconti “Jerusalem’s Lot” e “Popsy” sono stati entrambi pubblicati, rispettivamente in “A volte ritornano” e in “Incubi e deliri”.
- In “A volte ritornano” compare anche il racconto “Il bicchiere della staffa”, che costituisce un bellissimo ancorché breve sequel del romanzo. Ogni tanto lo rileggo, e puntualmente mi mette i brividi”.
- il personaggio del prete asservito ai vampiri, padre Callahan, ritorna in diversi romanzi della serie “la Torre Nera” (“I lupi della Calla”, “La canzone di Susannah” e “La Torre Nera”).
Per finire: non sono un sostenitore di Stephen King a oltranza… Ritengo che negli ultimi 15 anni non abbia partorito un solo titolo che possa essere lontanamente paragonato alle sue prime opere. Tuttavia resta a pieno titolo
il Re, e “Le Notti di Salem” costituisce uno dei più solidi puntelli del suo trono.
In una recente intervista mi hanno chiesto quale romanzo uscito presso un altro editore avrei voluto pubblicare per Gargoyle: indovinate qual’è stata la risposta…
Buonanotte a tutti (Claudio e Franco, andate a letto presto e pensate a consegnare, invece di perdere tempo frequentando i dibattiti…!) e a presto.

Paolo De Crescenzo

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 00:11 da Paolo De Crescenzo


Ieri ho visto un vampiro uscire da un autonoleggio, con una macchina dell’Avis.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 00:16 da Maurizio De Angelis


Buongiorno Massimo, onorata del tuo esplicito invito che hai fatto nel post sul blocco dello scrittore (e del lettore): dici “Guarda che, ormai, ti considero letteratitudiniana (difficilissimo da pronunciare) acquisita.”

Im merito ai vampiri e alla letteratura dell’horror, sono come una bambina che fa i suoi primi passi… non riesco ad andare oltre Lovecraft (di cui leggo ogni tanto qualche racconto dalla sua opera completa) e anche quello mi procura incubi notturni, sebbene la sua letteratura sia eccelsa e finemente compiuta. Straordinariamente oculata nell’instillare il dubbio e poi la verità.
Anche lui, in fondo, in alcune sue storie, parla di vampiri, esseri che vivono in equilibrio tra i due mondi e che hanno un’equivalenza con la figura del mostro delle fiabe. Cioè col simbolismo rappresentazionale degli strati più profondi dell’inconscio, i quali non sono nè buoni nè cattivi, ma buoni o cattivi in relazione all’equilibrio contingente, alla qualità del vissuto del momento. alla capacità del singolo di porsi in relazione all’ignoto.
Preferirei non parlarne… preferisco leggere del mostro-Lupo di Cappuccetto Rosso o di Barbablù. Raggiungono ugualmente una funzione catartica; e sono sicura che alla fine “vissero tutti felici e contenti”
Nel frattempo leggerò i commenti e andrò a visitare un po’ di archivio.
Ciao ;-)

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 07:26 da Antonella Beccari


Saluto e rendo omaggio a Simonetta Santamaria, in arte Simonoir. Ho avuto il privilegio di conoscerla di persona qualche anno fa, frequentando un corso di scrittura. Sguardo inquietante, soprannome oscuro, iniziali lugubri, ha tutto per essere ciò che in effetti è: la regina dell’horror nazionale. I tanti premi ed i riconoscimenti che ha ottenuto, e che sono sicuro che otterrà, ci fanno bene al cuore; nel senso che ci dimostrano come in questo campo, con le proprie sole capacità e la propria sensibilità artistica, si possano raggiungere vette altissime. Tutto ciò, pur partendo da una città come la nostra, sì preziosa fonte di oscura ispirazione ma disgraziata ed emarginata, e pur iniziando senza avere alle spalle il sostegno di una casa editrice di primissime dimensioni. Brava Simonoir, continua così!
La donna che scrive Horror perché non sa pronunciarlo, farà molta strada, e ci delizierà ancora a lungo con i suoi inquietanti brividi.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 07:50 da Maurizio De Angelis


simonetta santamaria?
Se la incontri seduta ad un bar, la diresti una normale, di gradevole aspetto, con un magnifico, dolcissimo sorriso; ma è un attimo, ti accorgi subito da un’inflessione della voce, da un lampo dello sguardo che è Simonoir: nera dentro!
E terribili sono i suoi libri. L’ultimo partorito l’ho trovato geniale: un non saggio, un non romanzo: una corsa magnificamente illustrata nel fantamondo dei vampiri. La sensazione che mi ha dato è quella di quando bambina entravo nel “castello dei fantasmi del luna park”: eccitante, molto sorprendente, eccitante, veloce e PAUROSO

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 08:38 da floriana tursi


Buongiornissimo a tutti, siete sopravvissuti alla notte vampiresca? Occhio ai lampioni al sodio, sotto la loro luce sanguigna accadono strane cose, soprattutto dalle parti di Roma (giusto, Massimo ;-) ).
Intanto WOWWWWW per il racconto di Simonoir selezionato. Se non l’avete fatto dovete assolutamente leggere il suo “Dove il silenzio muore”, un horror di grandissima classe e originalita’ che andrebbe ripubblicato se qualche editore intelligente fosse in ascolto.
E adesso:
- Confermo che i vampiri adolescenti di Twilight mi sono piaciuti e che trovo in alcune pagine della Meyer una profondita’ di pensiero che Moccia se la sogna. Per chi ha letto la saga, il momento in cui Edward Cullen inveisce contro la propria natura che lo ha dotato di forza, bellezza, fascino, capacita’ di seduzione assolutamente spropositate rispetto alla possibilita’ che gli esseri umani (che ama molto piu’ di quanto abbia mai amato se stesso e i propri simili) possano difendersi da un attacco vampiresco.
- Confermo che Carmilla mi ha profondamente delusa. Ho apprezzato la chiave di lettura proposta da Franco Pezzini (grazie), ma da un vampiro pretenderei qualcosa di piu’.
- Sottoscrivo l’amore incondizionato per Stephen King e per le sue “Notti di Salem” di Paolo De Crescenzo e rilancio con “Io sono leggenda” di Richard Matheson (cui King rende evidente omaggio). In quel romanzo (che vi consiglio se non lo avete gia’ letto e riletto) i vampiri sorti come belve sanguinarie e incontrollabili da una pandemia di uno strano virus prima massacrano i superstiti, poi prendono coscienza di se stessi, diventano una comunita’ e decidono di difendersi dal loro nemico. E l’unico essere ancora umano presente sulla terra, quello che vorrebbe trovare l’antidoto alla mutazione, diventa la *leggenda*, il baubau, l’uomo nero da additare ai giovani vampiri disobbedienti. Un rovesciamento di fronte geniale. Perche’, diciamolo, non sta scritto da nessuna parte che i vampiri siano il male. Chi di noi non si e’ innamorato del dolente conte Dracula di Stoker? Per non parlare del vampiro fascinoso e canaglia Lestat e di tutta la sua corte, compreso quel Luis (nel film era Brad Pitt, per dire) che e’ un precursore dei vampiri della Meyer, colui che si rifiuta di uccidere esseri umani per nutrirsi e segue una dieta *vegetariana* a base di animali (topi, per la precisione, bleah!)

Il fatto che la figura del vampiro sia presente fin dalla notte dei tempi in quasi tutte le culture del mondo testimonia il fascino di questa figura: immortali. belli (ma non necessariamente), consapevoli di un destino da reietti e per questo, alle volte, infelici fino alla piu’ efferata crudelta’ verso gli altri e se stessi. In fondo rappresentano la risposta ai piu’ nascosti desideri dell’umanita’. Che anela all’immortalita’ e, al tempo stesso, la teme.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 09:03 da Laura Costantini


caro massimo, ti ringrazio per questo bellissimo post che mi pare davvero succoso.
dei vampiri ho letto la letteratura classica, ma è giunto il momento di aprirmi al nuovo.
più di tutto ti ringrazio per avermi fatto scoprire la casa editrice gargoyle di cui diventerò lettore e sostenitore.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 09:04 da seby


vengo alle domande.
- Perché la figura del vampiro è così prepotentemente entrata a far parte nell’immaginario collettivo mondiale?
- Il sentimento suscitato dal vampiro è più vicino alla paura o al fascino? E perché?

Secondo me le due domande sono legate tra loro. La figura del vampiro incute paura e fascino in egual misura. Due ingredienti che hanno, a volte anche paradossalmente, sempre attratto. Come le luci attarggono le falene. E’ questo, secondo me, il motivo per cui la figura del vampiro è prepotentemente entrata a far parte nell’immaginario collettivo mondiale.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 09:07 da seby


- Che scarto esiste tra la figura storica del vampiro e quella “trasfigurata” nella fiction letteraria, cinematografica e fumettistica? L’esistenza di questo scarto (ammesso che ci sia) è nota? È importante che lo sia? Che percezione avete, in proposito?

ammetto di non essere molto preparato e mi piacerebbe che gli esperti fornissero ulteriori informazioni su questo argomento.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 09:08 da seby


- Cosa è cambiato nella “letteratura vampirica” (ammesso che qualcosa sia cambiato) da Bram Stoker a oggi?

ai tempi di stoker la “letteratura vampirica” era una specie di novità… oggi mi pare un po’ inflazionata, e credo sia importante distingere tra libri di qualità e libri studiati a tavolino per piacere al grande pubblico. questa è la sensazione.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 09:10 da seby


- La letteratura italiana che si “occupa” dei vampiri è all’altezza di quella espressa in altre parti del mondo (quella anglosassone, per esempio)?

non lo so, ma ho intenzione di scoprirlo

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 09:11 da seby


- C’è un pregiudizio, da parte dei lettori italiani, a favore dei romanzi sui vampiri di matrice angloamericana (e a svantaggio di quelli scritti in Italia)?

credo ci sia un pregiudizio in generale a favore dei romanzi angloamericani

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 09:12 da seby


- Avete mai letto “Le notti di Salem” di Stephen King? Che posizione occupa, questo romanzo di King, nella stroria della “letteratura vampirica”?

sì : un capolavoro assoluto.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 09:12 da seby


- A cosa è dovuto il successo planetario della saga Twilight della Meyer?

non ho letto i romanzi della meyer, ma da quel che mi è dato sapere evidentemente questa scrittrice è riuscita a toccare corde sensibili soprattutto nelle nuove generazioni.
se così fosse, sarebbe comunque da applaudire. perché non è mica facile, altrimenti saremmo invasi da scrittori miliardari. e così, mi pare, non è…

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 09:14 da seby


- Rispetto all’età dei lettori: il successo di Twilight è generalizzato o è più generazionale? Rispetto al sesso dei lettori: è un successo “di genere” o è indistinto? Che percezione avete, in proposito?


mi pare che interessi di più alle giovani generazioni di sesso femminile

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 09:15 da seby


- In generale: l’horror può esercitare una funzione “esorcizzante” delle paure legate alla quotidianità e alla vita reale?

la funzione vera dell’horror, secondo me, è quella di esorcizzare la morte.
ciao a tutti.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 09:16 da seby


A proposito del terzo quesito, credo che ancora una volta un ottimo indizio lo fornisca il rapporto fra il Dracula di Stoker e le sue varie versioni filmiche. A parte un unico tentativo di Jesus Franco di ricalcare fedelmente il modello di partenza (paradossalmente interpretato ancora da Lee che ribaltava di 360° l’immagine elegante e attraente messa in campo da Fisher…). i Dracula dello Schermo Buio giocano la carta del Fascino quando Stoker mette in campo vecchiaia, paura della medesima e repulsione. Se il Dracula di Stoker è certamente ancora fiction, cionondimeno è l’immagine in qualche modo più vicino alla Storia. Perché i “vampiri” storici, laddove si dimostrò la loro – contestabile – esistenza, erano creature repellenti, votate a un unico ignobile “scopo” (De Masticatione Mortuorum in Tumulis…), che incutevano obbrobrio e timor panico di “contagio di massa”. Il filtro delle arti visive e della letteratura ci ha aggiunto del suo, pescando ovviamente dalle dinamiche dell’epoca di riferimento e dal mondo culturale del regista di turno. Horribili visu quindi per il Nosferatu di Murnau, un vampiro quasi “camp” per Browning, un seduttore bondiano per Fisher e persino una sorta di Tony Manero ante litteram per il Dracula di Frank Langella, diretto non a caso da John Badham (La febbre del sabato sera). Lo scarto – che esiste – è quindi legata alle contingenze, alle tendenze storiche, al sociale e alle istanze artistiche personali (la camaleontica ambiguità di Coppola…). Può dire molto in questi ultimi anni quindi il successo dei vampirelli della Meyer che traducono in “gothic” i disvalori giovanili del pianeta. E, senza dubbio, una delle immagini più forti – e che aprono scenari relativamente nuovi – è quella di “Lasciami entrare”, dove una ragazzina vendica nel sangue “sversato” lo scempio pedofiliaco perpetrato dalle avanguardie, quelle sì veramente oscure, del mondo adulto. Fine pistolotto e buona giornata a tutti, a dopo…

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 09:41 da Danilo Arona


Ho inserito un piccolo omaggio alla discussione,qui:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/12/23/il-difficile-ruolo-dei-traduttori-laboratorio-d/

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 10:13 da francesca giulia


Non so se qualcuno lo abbia già ricordato,ma parlando di cinema e vampiri,vi ricordo la stupenda Denevue e David Bowie in Miriam si sveglia a mezzanotte,film di T.Scott dell’83, anche con S.Sarandon.Musiche meravigliose e la vera protagonista è una vampira donna….perciò occhio alle Vamp!!Godetevi questa:
http://www.youtube.com/watch?v=ax72978hkVo
e buona giornata a tutti

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 10:24 da francesca giulia


Un piccolo affondo per la quarta domanda… Sì, si riscontra un orripilante cambiamento nella letteratura vampirica negli ultimi tempi… il vampiro è finito negli scaffali della letteratua rosa, stile Harmony. Un (intenzionale) equivoco del marketing… O…
… Intanto un bacione a Simonoir anche da parte mia…

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 10:46 da Danilo Arona


@ Paolo De Crescenzo: è un onore averti tra noi. Per cronaca dico coram populo che lui è uno dei rarissimi esemplari di direttori editoriali che risponde agli autori. Ti invidio moltissimo per aver stretto la mano al Maestro King. Io però ho fatto un viaggio fino nel Maine, fin sotto casa sua e sulle tracce dei luoghi dei suoi romanzi. Solo che non ho avuto il coraggio di bussare, ma la foto me la sono fatta! Se fosse ora busserei a quella porta, altroché! Condivido la tua disamina de Le notti di Salem, tra l’altro ho parlato di questo romanzo e dei racconti Jerusalem’s Lot e Il bicchiere della Staffa proprio ieri in un’intervista. Cose preziose è altrettanto fantastico: ila capacità di soggiogare un’intera cittadina sonnacchiosa è propria di un qualsiasi essere umano, non per forza vampiro. Il che ci fa riflettere su quanto di “mostruoso” ci sia in noi.
De resto, non siamo anche noi scrittori dei vampiri? Noi succhiamo le emozioni degli altri, le vite, le situazioni, i nomi e i gognomi, e le facciamo nostre, le manipoliamo a nostro uso e consumo. Perché ci fanno sopravvivere.
Meditate, gente… ;)

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 10:54 da Simonetta Santamaria


Ciao DANILO!!! Ci si vede a Orvieto, finalmente!!! :)
Hai ragione, credo che sia proprio come dici tu, si tratta di un ‘intenzionale “equivoco” (?) di marketing. Il marketing è l’anima nera di tutto quello che vuoi che riesca. Se facessimo un battage pubblicitatio serio su com eil mio gatto fa la cacca, stai certo che finirebbe col fare notizia e tutti i proprietari di gatti starebbero lì a guardare com’è quella del loro gatto. Le spietate leggi del mercato, purtroppo.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 10:58 da Simonetta Santamaria


- Avete mai letto “Le notti di Salem” di Stephen King? Che posizione occupa, questo romanzo di King, nella stroria della “letteratura vampirica”?

Il primo King ha lavorato su molti stereotipi horror reinventandoli a modo suo, cioè condendo un piatto in cui le idee portanti non venivano granchè rivisitate, ma piuttosto l’attenzione si soffermava sul contesto ambientale e sui suoi mutamenti. Credo che dal punto di vista “vampirico” questa storia non apporti nulla di nuovo alla figura del suo protagonista negativo, pur essendo un romanzo avvincente e ben scritto. Personalmente mi aspettavo qualche guizzo di originalità sul vampiro di turno, ridotto a un puro meccanismo narrativo. Ho trovato maggior odore di novità nelle storie della Rice, nonostante la stucchevolezza dello stile, ma in definitiva, una delle interpretazioni più forti – a mio avviso – è in un magistrale racconto di Richard Matheson (al momento mi sfugge il titolo, ma lo segnalerò presto). In questo caso, la “diversità” del mostro non è assimilabile alla società in nessun modo e non c’è romanticismo che tenga…

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 11:15 da


Cara Simonetta, il piacere è tutto mio, come diceva D’Annunzio… In quanto all’essere vampiri, credo che la cosa ci riguardi un po’ tutti, editori in testa, spesso accusati di succhiare a nostra volta il sangue agli scrittori…
Ma essere vampiri, in fondo, non è così male: sei figo (se poi sei del genere Twilight, non ne parliamo…) e non invecchi mai, la sera esci sempre, rimorchi senza problemi grazie al magnetismo che ti è connaturale, bevi e mangi allo stesso tempo come facevi da neonato e finalmente, dopo avere scorazzato in lungo e in largo, alle prime luci dell’alba te ne torni a dormire, senza alcun problema d’insonnia…
Scherzi a parte, una delle chiavi di lettura del successo del personaggio “vampiro”, risiede proprio nell’essere quello tra i mostri che può suscitare ammirazione e invidia. Non a caso, le storie di vampiri nella letteratura e sullo schermo pullulano di umani che chiedono di essere trasformati e di ottenere la vita eterna. Lo stesso non si può certo dire per licantropi, streghe, zombie, fantasmi e compagnia cantando, che al massimo – aldilà della paura – suscitano commiserazione.
A risentirci (o leggerci) presto.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 11:16 da Paolo De Crescenzo


Ci vorrebbe un medico per spiegare bene. Ma una volta mi dissero che l’origine del vampiro nasce da una malattia che colpisce i muscoli del volto fino a formare sulla faccia una specie di ghigno con conseguente esposizione dei denti tra i quali spiccano i canini.
Non so se e quanto sia vero. Per quel che mi riguarda il mio primo e indimenticabile incontro con i vampiri avvenne grazie a un film anni ‘30 interpretato dal “Sommo” Bela Lugosi.
Gli interventi e i contributi sono interessantissimi. Sottolineo la presenza di Paolo De Crescenzo perché sono molto contento di trovarlo qui.
Io e Paolo ci conosciamo. E’ editore di passione e di coraggio. E la sua “Gargoyle” è un’oscura creatura che si può definire tale solo per il mood gothic che rappresenta. Per il resto è una bella realtà splendente in un panorama editoriale spesso incolore e incapace di rischiare.
Copertine elegantissime e curate; scelta intelligente delle pubblicazioni; riconoscibilità. Ecco “Gargoyle”. E mi scuso con Paolo se ho detto poco, e con gli altri se ho detto troppo.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 11:17 da enrico gregori


Caro Paolo, l’ho sempre sostenuto anche io, e l’ho ribadito propio in questa recente intervista di Marilù Oliva per Thriller Magazine in cui, tra l’altro, ti ho citato; http://www.thrillermagazine.it/rubriche/9367
in cui sostengo di essere favorevole alla vampirizzazione. L’idea della vita eterna mi alluzza assai, anche perché non sopporto l’idea di dover morire e lasciare tutto questo, è la parte della faccenda che mi fa incazzare di più… In questo il Vampiro è un personaggio vincente: bello, eternamente giovane, mo’ li fanno pure ricchi (Edward Cullen possiede una Volvo S60R e una Aston Martin e non ha neppure i denti del giudizio…): raga’, se mi bussano alla finestra che dico, no grazie preferisco morire? Ma quando mai! L’idea di nutrirmi di sangue umano non mi spaventa, del resto con un’anima nera come la mia non avrei grosse difficoltà di adattamento.
E ora pausa: ne approfitto per salutare anche gli amici intervenuti del mattino, Laura Costantini, Maurizio de Angelis (la splendida frase “la donna che scrive horror perché non riesce a pronunciarlo” riferito alla mia erre moscia e che io riporto sul mio sito è sua!) e Floriana Tursi con la quale prendere il caffè ha tutto un altro sapore.
A dopo! ;)

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 11:35 da Simonetta Santamaria


Noi possiamo testimoniare che il fascino dei vampiri è assolutamente trasversale: nel 2009 il secondo audiolibro più venduto in Italia su iTunes Store è stato proprio Dracula, di Bram Stoker…

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 11:36 da Good Mood Edizioni


1° FANTASY HORROR AWARD in Italia di Orvieto… interessante… si potrebbe saperne di più?
ciao

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 11:45 da Paola


@ Paolo : Hai ragione. In effetti, per fare un esempio, un vampiro lo si può sempre portare in casa e farlo conoscere alla mamma. Quasi sempre si presenta bene, veste sobriamente (cosa che alle mamme non dispiace), esegue un baciamano perfetto, è spesso Old School (altra cosa gradita ai genitori), abbiente (i vampiri non hanno in pratica mai bisogno di denaro, mai visto uno che girasse in bicicletta), sa intrattenere una buona conversazione, non vuota la dispensa perchè non mangia e di solito parla bene dei bei tempi andati (altra cosa che serve ad accattivarsi l’uditorio over 40). Non si può dire la stessa cosa per l’uomo lupo, creatura screanzata per natura, che prima di entrare piscierà contro la porta, e di sicuro riempirà la casa di pulci e zecche, per tacere dell’abitudine intollerabile di ululare come un coglione ai primi sintomi di eccitazione …

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 12:05 da claudio vergnani


@ Paola: vai su http://www.fantasyhorroraward.com/ e troverai tutte le info! ;)

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 12:30 da Simonetta Santamaria


@ Claudio: oppure attaccarsi alla gamba della padrona di casa… Divertente e acuta analisi, la tua. Ci troviamo d’accordo. Sarà (anche) per questo che gli adolescenti amano Twilight? Ricchezza, bellezza, forza, potere… Cullen ha pure non so quante lauree di cui una in medicina… Il partito perfetto. Giustamente come può competere uno sfigato Nosferatu deforme e reietto… Ma come dice pure Danilo, la Paura, dov’è? :0

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 12:34 da Simonetta Santamaria


Grazie, Enrico. Non merito tutti questi apprezzamenti positivi: Gargoyle è una piccolissima entità, il cui unico merito è quello di esser in buona fede in un mercato dove le cose girano in maniera spesso diversa…
E, comunque, i 100 euro che mi hai chiesto per parlare bene di me sono troppi! fammi uno sconto, dai…

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 12:36 da Paolo De Crescenzo


Intanto salve a tutti e grazie dell’invito di Massimo.
Mi affaccio soltanto adesso dopo una notte di bagordi vampireschi, voi mi capite… Be’ c’è molta carne al fuoco – o sarebbe meglio dire molto sangue versato e da versare… La luce meridiana mi infastidisce, quindi spunterò fuori questa notte, ma intanto vi racconto il perché della mia “ossessione” per i vampiri. Avrò avuto sì e no sette-otto anni, ero a letto con la febbre, quando dal televisore-balia spunta una puntata del Pinocchio giapponese (fine anni Settanta, credo) con protagonista una vampira che – da par suo – vampirizza il povero Pinocchio nipponico. Qualcuno si ricorda quell’episodio? Qualcuno si ricorda quel cartone animato? Trauma infantile con quanto segue, per quanto mi riguarda.
Ah, uno splendido film che non so se è stato ancora citato è “The Addiction” di Abel Ferrara, potentissima metafora vampiresca in quel di New York, c’è qualche assaggio su San Youtube. Mentre il primo racconto vampiresco italiano è di un insospettabile Luigi Capuana (sì, proprio lui, il maestro del verismo!). La Sicilia non delude mai…
Be’, ciao e a questa notte… ah ah ah

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 12:36 da Flavio Santi


… un’ultimissima cosa, prima di richiudere il sarcofago definitivamente e tacere: grazie a Simona Lo Iacono per l’apprezzamento e i complimenti! Hai colto subito l’atmosfera giusta, e l’aneddoto menzionato è quanto mai significativo.
Flavio

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 12:46 da Flavio Santi


erano 1.000 gli euro, paolo. non scherziamo coi sentimenti :-)

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 13:08 da enrico gregori


Comunico che ho segnalato il dibattito sul post dell’Associazione Viv’arte:
http://vivarte.splinder.com/post/22331644/DIBATTITO+SULLA+LETTERATURA+DE
Per ora ho commentato la discussione su King e le notti di Salem, poi rimuginerò anche sugli altri (ottimi) spunti.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 13:18 da Fabio Lastrucci


Errata corrige: intendevo dire “sul blog dell’Associazione Viv’arte”…

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 13:19 da Fabio Lastrucci


Amch’io ho segnalato su FB e sul nostro blog.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 15:13 da Laura Costantini


Le mie risposte :-)

– Perché la figura del vampiro è così prepotentemente entrata a far parte nell’immaginario collettivo mondiale?

Perche’ gli esseri umani anelano al divino, in ogni latitudine e non potendo immaginarsi dei, hanno creato una figura che con gli dei possa in qualche malsano modo competere.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 15:15 da Laura Costantini


- Il sentimento suscitato dal vampiro è più vicino alla paura o al fascino? E perché?

Parlo per me: il vampiro mi affascina e da molto prima che venisse al mondo Edward Cullen. E’ una trasposizione del mito dell’angelo caduto. Essere potentissimo eppure tanto fragile da temere il legno, l’argento, la luce stessa del sole.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 15:16 da Laura Costantini


- Che scarto esiste tra la figura storica del vampiro e quella “trasfigurata” nella fiction letteraria, cinematografica e fumettistica? L’esistenza di questo scarto (ammesso che ci sia) è nota? È importante che lo sia? Che percezione avete, in proposito?

La spettacolarizzazione del vampiro e’ evidente negli sviluppi ultimi. Le figure mitologiche, spesso orribili a vedersi, hanno lasciato spazio ad esseri plasmati in una sorta di marmo vivo, statue canoviane dai canini affilati e dall’animo esacerbato dalla contraddizione di aver scelto una non-morte per non rinunciare alla vita.
Sapere che i vampiri originali sono creature animalesche e demoniache sicuramente eviterebbe la fascinazione di adolescenti pallidi ed emaciati, ma farebbe poco gioco a noi scrittori. Preferisco il vampiro bello e dannato :-)

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 15:20 da Laura Costantini


- Cosa è cambiato nella “letteratura vampirica” (ammesso che qualcosa sia cambiato) da Bram Stoker a oggi?

Qualcosa e’ cambiato perche’ la letteratura cambia. Il fatto che i vampiri, come ha scritto qualcuno, siano arrivati sullo scaffale dei tanto vituperati Harmony, a me non sembra motivo per cospargerci il capo di ceneri.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 15:21 da Laura Costantini


- C’è un pregiudizio, da parte dei lettori italiani, a favore dei romanzi sui vampiri di matrice angloamericana (e a svantaggio di quelli scritti in Italia)?

Il pregiudizio c’e’ nei lettori a causa degli scarsissimi investimenti pubblicitari degli editori. I quali editori italiani sono disposti a tradurre l’opera omnia della Meyer pur di non investire su uno scrittore vampiresco italiano. Investire sul sicuro (cioe’ su cio’ che ha gia’ avuto successo in un altro paese) e’ tutto cio’ che l’editoria italiana contempla come rischio d’impresa.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 15:23 da Laura Costantini


- Avete mai letto “Le notti di Salem” di Stephen King? Che posizione occupa, questo romanzo di King, nella stroria della “letteratura vampirica”?

L’ho letto almeno due volte, come quasi tutti i libri di King, e nel reparto vampiri si trova nei miei personali e primissimi posti.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 15:24 da Laura Costantini


- A cosa è dovuto il successo planetario della saga Twilight della Meyer?

Credo che a questa domanda abbiamo ampiamente risposto i lettori che ho interpellato per il mio articolo.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 15:25 da Laura Costantini


- Rispetto all’età dei lettori: il successo di Twilight è generalizzato o è più generazionale? Rispetto al sesso dei lettori: è un successo “di genere” o è indistinto? Che percezione avete, in proposito?

Come sopra. Twilight ha goduto e gode dell’attenzione di diverse fasce d’eta’ (dai 16 ai 40 anni) e di entrambi i sessi, anche se con maggior propensione per le donne. Perche’? Perche’ alle donne piace sentir parlare d’amore e piace immaginare un uomo ideale e perfetto, che e’ tale proprio perche’, nel caso specifico, non e’ un uomo.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 15:28 da Laura Costantini


- In generale: l’horror può esercitare una funzione “esorcizzante” delle paure legate alla quotidianità e alla vita reale?

L’horror nasce intorno ai falo’, nelle buie notti all’addiaccio, quando i motivi per aver paura erano tali e tanti da doverli esorcizzare con racconti pieni di suspence. Ogni volta che il mondo ha attraversato periodi di crisi, morale, economica, politica, l’horror ha svolto la propria funzione di valvola di sfogo. Mi viene in mente l’ondata di fantascienza orrorifica a ridosso della guerra fredda, quando c’era bisogno di identificare il nemico come diverso da noi, alieno. Un nemico che non potevi comprendere, ma solo distruggere. Si’ l’horror in qualche modo esorcizza le paure reali. Certo, poi ci sono i casi limite come me, che quando vidi L’esorcista lo trovai assolutamente ridicolo e risi dall’inizio ala fine :-)

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 15:31 da Laura Costantini


sono sempre stata affascinata dalla letteratura horror e da quella sui vampiri in particolare.
mi è sempre mancato l’ “effetto paura”. cioè, quando leggo queste storie, mi diverto. addirittura, mi rilasso. non so se capita anche a voi.
tra tutti, amo i libri di stephen king. concordo con chi ha considerato “le notti di salem” un testo di riferimento tra i romanzi sui vampieri.
ciao a tutti

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 16:21 da manuela


Una curiosità, o una riflessione suscitata dal post di Manuela. Si parla sempre di King. Solo di King. Con tutto che lui è il mio Maestro però mi chiedo: nessuno che abbia citato uno di noi scrittori italiani presenti in questa discussione?
Tranne rare eccezioni, mi si conferma la teoria che si parla molto di letteratura horror ma si va poco oltre gli stereotipi. Del prodotto nostrano poi… Siamo messi male. Ci leggiamo e ci citiamo vicendevolmente? E’ l’effetto della mancata pubblicizzazione di cui parlavamo Laura e io.
Ditemi che non è così, vi prego. Contraddicetemi dimostrando che qualcosa di italiano l’avete pur letto! :)

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 16:53 da Simonetta Santamaria


@ simonetta santamaria
come avevo risposto, prima…
credo ci sia un pregiudizio in generale a favore dei romanzi angloamericani. non solo cioè in riferimento al genere horror.
però king è il re dei re. punto di riferimento per tutti.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 17:12 da seby


in ogni caso credo che questo post contribuisca parecchio a far conoscere, quantomeno l’esistenza, di voi scrittori horrorifici italiani.
io vi leggerò e metterò i vostri libri nello stesso scaffale di king.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 17:14 da seby


@ Simonetta .

Sarebbe interessante anche vedere cosa un comune vocabolario definisce per vampiro. Vero è che la fantasia individuale non va troppo imbrigliata, ma certo se scrivo di qualcuno che non si nutre di sangue, non teme la luce del sole, non è immortale e va pure a messa la domenica, ebbene, probabilmente NON sto scrivendo di un vampiro. Personalmente ho qualche dubbio quando vedo o leggo di un vampiro che per rispetto della vita umana si nutre solo di sangue animale. Forse che allora non lo possono fare anche gli altri suo compari di merende ? Voglio dire … è giusto provare ad andare “oltre”, ma se descrivo un mostro di Frankenstein con un 35 di scarpa e con un principe azzurro pronto a sfilargliela tradisco il personaggio.
La paura … oggigiorno credo che sia veramente difficile fare “paura” narrando di vampiri … Questione di tempi e di saturazione. Il Dracula di Christopher Lee poteva ai tempi far strabuzzare gli occhi e far desiderare di non essere in un posto isolato al cinema (anche se a lungo e duramente avevi lavorato per attirarvi la ragazza). Ora, anche ottimi film dichiaratamente horror come 30 giorni di buio non spaventerebbero nemmeno la nonna. E a proposito di film, vedo che vengono fatte molte citazioni (anche io ho apprezzato Miriam si sveglia a mezzanotte, se si passa sopra al cretino titolo italiano), però mi azzardo a ricordare uno non dei più famosi (titolo italiano, mi pare, La setta delle tenebre) bistrattato dalla critica ma a mio parere onesto e coraggioso nel suo tentativo di aggiungere un altro tassello a quell’opera in continuo divenire che è la figura del vampiro.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 17:21 da claudio vergnani


@ Claudio Vergnani
Ma ci sono ancora “spazi di novità” per scrivere storie di vampiri, oppure tutto è stato già scritto?

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 17:34 da seby


@ Seby:

credo siamo solo all’inizio. Come forse avrebbe detto Raymond Chandler , il modo di liberarsi dei vampiri non è stato ancora inventato … :)
p.s. e comunque, visto che ad agosto uscirà il mio Il 36° Giusto , che porta i vampiri (ben poco compiacenti) dalle nostre parti, sarei un folle se sostenessi che tutto è già stato scritto.
No, sul serio, siamo solo all’inizio. Il vampiro rappresenta quel che di irrisolto con il quale la razza umana, bene o male, dovrà fare i conti vinchè vivrà. E con essa, anche la letteratura.
Poi, al di là delle polemiche tra letteratura cosidetta alta e letteratura bassa, nulla vieta ad un libro di “genere” di affrontare argomenti che nel genere non possono rimanere costretti. La paura, la sofferenza, la speranza, la messa in discussione di sè stessi e dei propri schemi, per esempio. Tali tematiche non sono esclusivo appannaggio di chi scrive di Camorra o di amori infelici. “Homo sum, nihil humani a me alienum puto.” Diceva (credo) Publio Terenzio Afro. E aveva ragione.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 18:01 da claudio vergnani


@ Claudio: caro, come ti capisco. E’ l’eccessivo stravolgimento del personaggio che non mi piace. E’ il volerlo snaturare che finisce per renderlo tutt’altra cosa. Come dico nell’introduzione del mio VAMPIRI (permettetemi una piccola citazione): “Il vampiro è una creatura randagia. Solitaria, indipendente, anaffettiva, orgogliosa. E per quanto lo si possa tentare di “umanizzare”, bisogna lasciargli quell’atavica impronta di randagismo. Altrimenti morirà, spogliato della sua essenza, snaturato e malinconico come una tigre in gabbia.
Altro che paletto di frassino. A volte l’immaginario collettivo può essere altrettanto letale. Già gli ha affibbiato nomi e cognomi, stirpi, casate e titoli nobiliari, lo ha imbellettato, infracchettato e reso un affascinante seduttore. Poi hanno provato a dargli un’anima e una coscienza, a ringiovanirlo fino a farlo diventare un liceale o un ragazzino di scuola media, l’hanno reso capace di provare sentimenti…”
Anche sul binomio Vampiro-Paura sono d’accordo, anche se qualcosa d’effetto c’è stato come il film 30 giorni di buio, già citato da Paolo de Crescenzo: una tipolgia vampirica diversa dallo standard, Homo Vampirus Sauria, per via della dentatura appuntita come quella dei rettili, appunto, e che agiscono in branco. Quella connotazione animalesca m’è piaciuta molto, devo dire.
Sulla questione spazi di novità: non so, forse il tutto esaurito è già arrivato da un pezzo; l’importante è come la scrivi una storia. Se volessimo riscrivere Carmilla secondo i canoni moderni, aumentando la suspense, modificando i dialoghi, uscirebbe una bella storia. L’importante è non banalizzare, secondo me.

@ Seby: ti ringrazio e spero, per tutti noi. ;)

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 18:08 da Simonetta Santamaria


Anzitutto ciao a tutti – e anch’io mi scuso di non aver adeguatamente salutato ieri. Con un particolare abbraccio ai cari amici Claudio, Danilo e Paolo – al quale ultimo confermo il mio ascetico impegno… Proprio la fretta di ieri mi impone di aggiungere una postilla a quanto scrivevo, per non liquidare banalmente l’ultima (e bella) domanda del nostro ospite sul potere esorcistico dell’horror. Al di là infatti di un primo livello, epidermico di sollievo che l’horror regala (suggerendo che i guai della nostra vita possono non essere gravi come quelli in scena), ci sono senz’altro altri step a maggiori profondità. Non so se, come qualcuno sostiene riguardo al cinema horror, la proiezione su schermo possa far “spurgare” in modo innocuo pulsioni socialmente distruttive: la tesi è difficilmente verificabile, ma se fosse vero si tratterebbe di una sorta di esorcismo a livello sociale. In termini più facilmente sperimentabili, il fatto stesso di una narrazione che “prende” nel profondo può avere una funzione consolatoria nel senso alto del termine: può aiutare a ricostruire dialetticamente un senso di avvenimenti vissuti, a ritrovarvi un filo o almeno imparare ad accettarli (straordinarie, in questo senso, le pagine di un Dumas virato horror, quello de ‘La donna dal collier di velluto’); può aiutare a ripartire da capo con una “novità” analoga, in fondo, a quella dei bambini a fronte delle storie (spesso nere) loro narrate, e che poi infinitamente chiedono di ripetere con una progressiva ruminazione. Se comunque l’esorcismo è la cacciata di un demone che toglie la libertà, la funzione esorcistica dell’horror – o più in generale del Fantastico – si lega alle sue straordinarie potenzialità di macchina per pensare. Aiuta a smontare paure becere o che comunque disumanizzano, e invece inquieta – o dovrebbe farlo – su altre dimensioni, scalzando tranquillità un po’ equivoche. Qualcosa insomma che ci aiuta a dare nome alle nostre paure (l’Adamo biblico che dà nome alle cose per comprenderle e dominarle), a prenderle in mano giorno dopo giorno (perché è impossibile sconfiggerle una volta per tutte) e a non restarne annichiliti. E di paure ne abbiamo tante, a livello individuale e sociale…

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 18:24 da Franco Pezzini


Simo, tesoro, so che ti deludo in modo cocente ma io a Orvieto non ci posso venire. In quel week-end lì dovrei essere in tre posti in contemporanea… Se si mettevano in ginocchio e pagavano, forse… Tornando a esseri seri, i vampiri da buoni parassiti si adattano sempre alle circostanze contingenti, dilagando (anche) nel noir, nel fantasy, nel western (ah, “L’uomo senza corpo”, “Billy the Kid vs. Dracula!!!”….) e nella fantascienza (Matheson, già ricordato), perciò mutano e costringono altri filoni a mutare con loro. Anche in quest’ottica si può discutere della Meyer, ma sostanzialmente negli ultimi anni – soprattutto al cinema – tutti sono diventati vampiri, dalle bande di strada alle rock star, dai soldati nazisti della 2° guerra mondiale agli astronauti… E’ un po’ il discorso di ieri: siamo TUTTI vampiri, anche quando soprattutto neghiamo di esserlo (e poi guardate quanta gente non digerisce l’aglio!). Saltando a pié pari sul quesito successivo, in Italia c’è un’ottima e misconosciuta tradizione letteraria sui succhiasangue che per noti e meno noti motivi non è praticamente venuta alla luce… Eravamo già carenti di marketing nell’800, mi sa… Secondo, scrittrici e scrittori dello stivale non hanno proprio niente da invidiare ai colleghi anglosassoni. E auspico che presto accada in letteratura quel che accadde nel cinema pizza e fichi degli anni ‘70, ovvero che in Italia si rifonda e si rinnova – con sangue fresco – il genere… New Italian Horror copiato all’estero dagli asfittici anglosassoni, come accade per il Western all’italiana fondato da Leone (Bob Robertson)… Dai, sognare fa bene…

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 18:33 da Danilo Arona


@ Danilo: NOOOO, accidenti, e io che già pregustavo il nostro incontro!! Vabbe’, tanto salgo a mIlano in primavera, Dom Nigro organizzerà un horror meeting al quale non potrai mancare altrimenti macumba!! :)
Il tuo auspicio in merito alla letteratura nostrana dell’orror è il mio: lottiamo per questo, no? Degno di essere riportato è stato il commento di Ruggero Deodato che ho avuto la fortuna di incontrare a Roma in occasione della presentazione di Paranormal Activity: dopo aver fatto la solita domanda provocatoria in merito alla scarsa attenzione di editori e produttori ai nostri prodotti, dietro le quinte lui mi fa: “Mi sei piaciuta, e ti dico che se ’sto film che è costato una miseria e ha incassato un botto di soldi, fosse stato proposto a un produttore italiano, anche allo stesso De Laurentiis, stai sicura che non se lo sarebbe cagato nessuno”. E detto da uno come lui c’è da fidarsi, purtroppo.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 19:14 da Simonetta Santamaria


Sposo in toto le belle risposte di Laura Costantini.Inoltre non mi pare tanto grave ammantare di un oscuro romanticismo la figura del vampiro,raccontare storie e farsi leggere con piacere è importante se poi nel farlo ci si concede la libertà di stravolgere un pò gli stereotipi mica sarà tanto un male?
Sul fatto di dare maggiore risalto agli autori nostrani sono perfettamente d’accordo,e a parte il nostro bravissimo Massimo con questo spazio bisognerebbe avere più fiducia e leggere e rendere visibili i nostri scrittori.
Un grande in bocca al lupo-mannaro a Simonetta !E a tutti gli altri horroristi…

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 19:53 da francesca giulia


Siete pronti per la sfilza dei miei “commenti a raffica”?
;)

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 20:18 da Massimo Maugeri


Intanto ringrazio tutti (di cuore) per i numerosi contributi.
Un caldo saluto di benvenuto a Paolo De Crescenzo e Flavio Santi

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 20:19 da Massimo Maugeri


Un ringraziamento speciale a Laura Costanti e Simonetta Santamaria, per la loro costante presenza.
(In un post come questo la parola “presenza” fa un certo effetto, vero?)

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 20:20 da Massimo Maugeri


A Simonetta vanno pure i complimenti per il FANTASY HORROR AWARD in Italia di Orvieto. Wow!

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 20:20 da Massimo Maugeri


Ne approfitto per salutare i nuovi intervenuti: Francesca Giulia, Maurizio De Angelis, Antonella Beccari (bentornata! ;-) ) ), Floriana Tursi, Seby, Fà, Enrico Gregori, Good Mood Edizioni, Paola, Fabio Lastrucci, Manuela…

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 20:21 da Massimo Maugeri


Tornando un po’ indietro a scorrere i commenti…
Nel suo primo intervento Danilo Arona (ciao, Danilo!) scrive: “SIAMO vampiri, è per questo che ci credo”.
Il “vampirismo” come metafora dell’esistenza umana…
Interessante. Vi convince?
Che ne pensate?

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 20:21 da Massimo Maugeri


@ Filippo Tuena
Ehi, Filippo… scrivilo al più presto il terzo libro della trilogia. Sono curiosissimo di immergermi in una storia di vampiri tratteggiata dalla tua penna ;-)
Grazie per essere intervenuto.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 20:22 da Massimo Maugeri


@ Simona
Simo, bellissimo il collegamento “vampiresco” con l’Odissea. E altrettanto bella la storia delle “donne di fuora”.
Grazie mille.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 20:22 da Massimo Maugeri


@ Franco Pezzini, Laura Costantini e tutti
Su Carmilla…
Come sapete il nome di Carmilla ha ispirato Valerio Evangelisti per il nome del suo magazine (Carmilla on line, appunto).
Nell’ambito di questa discussione…
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/10/09/la-luce-di-orione-intervista-a-valerio-evangelisti-di-ippolito-edmondo-ferrario/
…Valerio aveva scritto: Carmilla”, si ispira al racconto di Sheridan LeFanu (a mio avviso la più bella storia di vampiri mai scritta)

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 20:23 da Massimo Maugeri


E sempre in riferimento a Evangelisti, ne approfitto per ricordare che l’edizione Fanucci di “Io sono leggenda” di Richard Matheson contiene un’ottima postfazione firmata proprio da Valerio Evangelisti
http://www.ibs.it/code/9788834713624/matheson-richard/sono-leggenda.html

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 20:24 da Massimo Maugeri


@ Francesca Giulia
Cara Fran,
grazie per i tuoi contributi nello spazio dedicato al “laboratorio di traduzioni”: http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/12/23/il-difficile-ruolo-dei-traduttori-laboratorio-d/

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 20:24 da Massimo Maugeri


@ Paolo De Crescenzo
Caro Paolo, vorrei che ci raccontassi qualcosa sulla casa editrice “Gargoyle”.
Ti pongo qualche domanda…
Quando hai pensato per la prima volta di creare “Gargoyle”?
Cosa ti ha spinto ha “gettarti nella mischia”?
Qual è il progetto editoriale?
Volendo fare un bilancio, dall’esordio a oggi… cosa diresti?
Qual è stata la tua più grande soddisfazione editoriale fino a questo momento?
Progetti per il futuro?

.
P.s. vietato esimersi dal rispondere ;-)

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 20:25 da Massimo Maugeri


@ Laura Costantini
Mi avevi inviato un racconto “vampirico” scritto a quattro mani con Loredana Falcone…
Sei ancora sicura di volerlo pubblicare qui? Verreste lette da tutti gli esperti del genere…
Insomma, declino ogni responsabilità. L’eventuale rischio di ricevere “pomodori al sangue” ricadrà su di voi ;-)
Ovviamente scherzo. Se mi autorizzi, Laura, inserirò il racconto – qui tra i commenti – domani (così creiamo un po’ di suspance).
Che ne dici?

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 20:29 da Massimo Maugeri


In riferimento al collegamento di Simona Vampiri-Odissea: “Il testo classico più famoso che parla di esseri ascrivibili ai vampiri è l’Odissea di Omero. L’episodio in questione è quello che riguarda Tiresia (libro XI). Per interrogare lo spirito dell’indovino morto, Ulisse sacrifica un montone e una pecora e ne sparge il sangue in onore delle anime dei trapassati. Eccone una semplificazione tratta dalla traduzione di Ippolito Pindemonte: <>”

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 20:30 da Simonetta Santamaria


Scusami, Massimo, ma ho dichiarato fin dall’inizio che partecipo volentieri da appassionato di horror, ma che vorrei evitare qualsiasi intrusione di tipo pubblicitario a favore di Gargoyle. Limitiamoci a parlare di vampiri. Se proprio vuoi, mi rendo disponibile per un’intervista da rimviare alla prossima primavera…

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 20:31 da Paolo De Crescenzo


S’è magnato il virgolettato!
Dicevamo, eccone una semplificazione tratta dalla traduzione di Ippolito Pindemonte:: “…e quando con voti e suppliche le stirpi dei morti ebbi invocato, prendendo le bestie tagliai loro la gola sopra la fossa. Subito vennero fuori dall’oscuro Erebo le anime dei morti che si accalcarono su quel sangue nero fumante: giovanette spose, garzoni ignari delle nozze, vecchi da nemica fortuna assai versati, e verginelle tenere, che impressi portano i cuori di recente lutto; e molti dalle acute aste guerrieri… ma io, sguainando la spada affilata dalla coscia, sedevo e non lasciavo che le teste esangui dei morti si avvicinassero al sangue, non prima che interrogassi Tiresia”

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 20:32 da Simonetta Santamaria


A proposito de “Le notti di Salem” di Stephen King…
L’altro giorno Loredana Lipperini, su Lipperatura (http://loredanalipperini.blog.kataweb.it/lipperatura/2010/03/01/meno-del-sale/) ha ripescato un interessante passaggio di King tratto da “Danse macabre” [Capitolo quarto: “Una seccante pausa autobiografica”].
In questo passaggio King parla – anche – de “Le notti di Salem”.
Ve lo riporto…
“Non è che il passato non fornisca grano per il mulino dello scrittore; certo che sì. Un esempio; il sogno più vivido che ricordo lo ebbi a otto anni. In questo sogno vedo il cadavere di un impiccato penzolare da una forca su una collina. Aveva dei corvi appollaiati sulle spalle, e dietro di lui il cielo ribollente di nuvole era di un verde velenoso. Sul cadavere c’era un cartello: Robert Burns. Ma quando il vento fece girare il corpo, vidi che era la mia faccia, decomposta e beccata dagli uccelli, ma incontestabilmente la mia faccia. Poi il cadavere apri gli occhi e mi guardò. Mi svegliai urlando, sicuro che quella faccia morta fluttuasse sopra di me nel buio. Sedici anni dopo, ho usato questo sogno come una delle immagini centrali del romanzo Le notti di Salem. Ho solo cambiato il nome del cadavere in Hubie Marsten”.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 20:32 da Massimo Maugeri


Grazie, Simonetta… ;)

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 20:35 da Massimo Maugeri


@ Paolo De Crescenzo
Insisto! E poi la mia tariffa è più bassa di quella di Enrico Gregori… :)

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 20:40 da Massimo Maugeri


@ Paolo De Crescenzo: però sarebbe interessante sapere da te, in qualità di esperto del settore, che ne pensi dell’atteggiamento ancora scettico della grande editoria nei confronti dell’horror italiano. Eppure poi vedi che tutti dicono di leggere a amare King, ad esempio. Il popolo dell’horror, come lo chiamo io, è grande e vorrebbe dei punti dei riferimento nostrani, più tangibili, a cui poter arrivare, parlare, magari farsi autografare l’ultimo libro. Che non siano solo un nome e un mito.
Eh? ;)

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 20:40 da Simonetta Santamaria


Domanda per gli amici scrittori coinvolti in questa discussione…
-
Per qual motivo avete iniziato a scrivere storie “vampiriche” (o horror)? Perché, in altre parole, avete scelto di cimentarvi in questo genere (e non – per esempio – con il giallo)?
Insomma: raccontateci la vostra personale esperienza in riferimento al vostro percorso di scrittura (se ne avete voglia, naturalmente)…

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 20:41 da Massimo Maugeri


@ Simonetta
In riferimento a un tuo precedente commento…
Avevo scritto (prima di pubblicare il post) anche a Chiara Palazzolo…
Chiara, in questo momento, è alle prese con il suo nuovo romanzo (al quale sta dedicando tutto il suo tempo e le sue energie)… ma vi saluta tutti.
E noi facciamo tanti in bocca al lupo a Chiara in attesa di leggerla quanto prima…
Ciao, Chiara!

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 20:43 da Massimo Maugeri


@ Claudio Vergnani
Caro Claudio, perché non ci dài qualche coordinata sul nuovo romanzo a cui stai lavorando (se possibile)? Si intitola “Il 36° Giusto”, se non ho capito male…
Di cosa parla?

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 20:44 da Massimo Maugeri


@ Franco Pezzini
Caro Franco, mi pare molto interessante questa tua “visione” della funzione esorcistica dell’horror:
”la funzione esorcistica dell’horror – o più in generale del Fantastico – si lega alle sue straordinarie potenzialità di macchina per pensare. Aiuta a smontare paure becere o che comunque disumanizzano, e invece inquieta – o dovrebbe farlo – su altre dimensioni, scalzando tranquillità un po’ equivoche.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 20:45 da Massimo Maugeri


Per stasera chiudo qui. Vi ringrazio ancora una volta per la vostra partecipazione…
Off topic vi ricordo che a partire dalle 21:20/21:30, avrò come ospite della puntata radiofonica di “Letteratitudine in Fm” (su Radio Hinterland) Gianrico Carofiglio.
(In chiusura accennerà a questo nostro dibattito)
-
Radio Hinterland è “ascoltabile”, su Fm 94.600 MHz, nel territorio della provincia di Milano e oltre… e in streaming via internet (ovunque) da qui: http://www.radiohinterland.com/streaming/radiolimpia.asx
-
Per altre info:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/letteratitudine-radio-hinterland/
-
Una serena “vampirica” notte a voi tutti…

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 20:49 da Massimo Maugeri


“Peppino Esposito non s’era chiamato sempre così, fu per la maledetta italianizzazione littoria che gli aveva modificato il nome.
Quandò arrivò a Latina dalla Intramenia Ungarica, con la sua carrozza nera, i suoi documenti di viaggio recitavano ancora Joseph Von Espost, Gran Damigiano di corte e Terzo Vetturino di Re Garonzh.
Era scappato dai tragici sommovimenti che ridussero l’impero ad una repubblica odontoiatrica per le randellate che davano sui denti i sanfedisti durante i pogrom a chi era sospettato di essere un vampiro, ma anche a quelli che addentavano una bistecca troppo al sangue.
Il paese era sconvolto dalle apparizioni e dalle sparizioni.
Lo stesso principe Jugas Casjellas, che entrando in camera da letto aveva trovato la principessa nell’atto di succhiare qualcosa da un essere sovrannaturale, si rese conto che bisognava fare pulizia, mentre l’essere strano saltava a cavallo dando un urlo bestiale (ad occhio attento e luce migliore, si sarebbe visto un giovine, forse un vampiro – ma di solito sono loro a succhiare – che urlava dal dolore dopo essere montato a cavallo senza mutande, saltando da una finestra).
Il principe destitui il re in un momento di estrema debolezza del sovrano (era intento anch’egli – o mala tempora current – a succhiare liquido bianco dalle poppe di una cortigiana, anch’essa ormai svenata; o no? Bha!) e instauro la dittatura del sangue.
Cominciò così l’esodo che costrinse molti vampiri e molte principesse a fuggire verso il “Bel Paese”.
I primi scesero a Napoli, le seconde si fermarono un po’ prima, sulla Domitiana, dalle parti di Mondragone e Castel Volturno.
Peppino, arrivato con la sua carrozza ricoperta di magiche piume nere (un attimo prima della fuga, alcuni buontemponi l’avevano cosparsa di catrame e ricoperta di piume di gallina nana del Belucistan), dalle parti del Duomo di Napoli, scese stanco e accaldato per rifugiarsi nella cattedrale e vedendo una fresca ampolla di liquido rosso, la ingollò avidamente, credendolo vino per la messa.
Era un buon quarto di sangue di San Gennaro, per fortuna il vescovado ne aveva conservato una damigiana negli scantinati santi.
Nacque cosi la prima leggenda del “Vampiro Napoletano” , talmente sfaticato che non andava a succhiare nessun collo, leggenda che si regge a malapena, visto ché fu conclamato che Peppino aveva perso i suoi canini durante lo sbarco degli americani a Salerno, dopo aver addentato un tarallo di Castellamare caduto dalla bisaccia di quello spilorcio di Curzio Malaparte…

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 20:55 da Francesco Di Domenico - Didò


Grazie per questo post. Sto avendo la possibilità di approfondire la conoscenza di un genere letterarioche conoscevo solo in parte. Auguri a tutti gli scrittori italici di vampiri.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 21:27 da Samuele


il buono di arrivare per ultima è che sposo tutte le risposte che mi aggradano.
Per Simonetta i miei complimenti vivissimi.
Laura Costantini pare abbia scritto anche per me.
la mia esperienza si ferma davanti a una cantina con in bella mostra bocce e boccioni di un certo generoso vin de roses, sanglant.
Una vampira di classe ha spesso l’hobby del giardinaggio :) ))
Noblesse oblige.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 21:43 da cristina bove


Salve, sono Miriam, o meglio Mia, l’autrice di “Io, vampira”, e come potete intuire, affascinata dal genere horror e in modo particolare dalla figura del vampiro, tanto da scriverne un romanzo…
Penso che la figura del vampiro non sia entrata in modo prepotente nell’immaginario collettivo mondiale ma sia stata semplicemente riscoperta, soprattutto con il successo dei romanzi della Meyer, però, tale figura a parer mio non corrisponde all’originale vampiro succhiasangue e senza pietà presentato dal classico di Bram Stoker, ma è notevolmente cambiata seguendo forse i tempi, o ciò che comunque va di moda e può interessare ai lettori, soprattutto ad un pubblico giovanile. Al giorno d’oggi, la maggior parte delle ragazze, cerca il principe azzurro ma si innamora del famigerato bello, dannato e impossibile, così come è presentato il vampiro moderno, un bello ma dannato che vuole amare ma non sa amare e che smuove le così dette farfalle allo stomaco per le più romantiche lettrici che poi interpretano nella realtà tale figura confondendo il tutto… ecco forse il perché tale figura che dovrebbe terrorizzare il lettore invece affascina…

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 22:11 da Miriam


@ Cristina: grazie di cuore, davvero!
Per rispondere alla domanda di Massimo “per qual motivo avete iniziato a scrivere storie “vampiriche” (o horror)? Perché, in altre parole, avete scelto di cimentarvi in questo genere (e non – per esempio – con il giallo)?”: a parte una insana passione per il genere che avevo fin da bambina, la fissa di disegnare teschi e scheletri e bare e cimiteri, l’attrazione-rifiuto per il tema della Morte (ve l’ho detto, l’idea di scomparire mi rende l’idea della Morte insopportabile), ho scelto di cimentarmi nel genere quando ho scoperto che tutte le firme erano maschili. E allora mi sono detta che se lo sapevano fare loro, allora l’avrei potuto fare anche io. Non ho mai sopportato le preclusioni imposte dal sesso, e poi chi mi conosce sa di quella certa propensione verso tutto quello che è insolito per una donna. Ora magari sarà pure all’ordine del giorno ma quand’ero ragazzina io, l’idea di fare il meccanico faceva inorridire, come quella di voler suonare la batteria, guidare la moto, pilotare un elicottero, giocare a biliardo.
Tonando a noi, in Italia le firme femminili nell’horror sono ancora rare, siamo mosche bianche. E allora la scelta: lanciarsi in un genere di sicuro appannaggio di una moltitudine di lettori (e scrittori), con una maggiore possibilità di sfondare, o scegliere l’unicità. Io ho scelto. Non mi andava di infilarmi nella massa. Ho voluto rischiare, non ho fatto una scelta commerciale ma di cuore. Quando mi sento ancora dire “ma perché non scrivi un bel giallo” dico con orgoglio che io nasco e resto scrittrice di horror, e non mi va di “vendermi” a un altro genere. Si fatica il triplo, ci potete giurare, ma mi piace pensare che posso farcela, che possiamo farcela.
:)
Con questa ottimistica visione vi lascio la buonanotte: a domani!

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 22:21 da Simonetta Santamaria


E’ arduo leggere tutto quello che avete detto, ho scorso in fretta e mi complimento per le cose dette che sono molto approfondite. E sono contenta che questo post venga a illuminarci su un argomento che mi sono posta anch’io. La mia risposta, molto semplice, è questa: i libri sui vampiri in questo momento hanno successo perché mettono in scena un meccanismo di dipendenza. Mi riferisco ai libri della Meyer (li ho letti tutti e 4 + il famoso quinto della saga, i 12 capitoli che l’autrice ha rilasciato al pubblico), e alcune opere di scrittrici italiane esordienti (che come avete detto più sopra non avrebbero nulla da invidiare ai libri anglosassoni, è che i nostri editori non hanno di meglio da fare che propinarci libri stranieri). In tutti questi libri ho notato che il meccanismo di base del romanzo, pur con diverse declinazioni, è il medesimo: il vampiro (bello, dotato di poteri, muscoloso ecc.) è attratto e a sua volta attrae la ragazza (che di solito ha lei pure poteri eccezionali nascosti) e tra i due scatta un legame di dipendenza. Il lettore assimila questo rapporto di simbiosi tra i due e si assuefà alle pagine andando avanti nella lettura…scatta il problema della libertà che inconsciamente attraversa le pagine di romanzi sui vampiri. Già, perché il lettore andando avanti s’accorge che la libertà non esiste, che l’attrazione tra vampiro e donna prescelta supera il libero arbitrio e diventa ossessione, forza inconscia, diabolica, misteriosa, ineffabile. Un mix di sensazioni che incantano il lettore, come le sirene di Ulisse.
Almeno questo è quello che ho provato io. Non so se altri hanno provato queste sensazioni. In ogni caso ho lasciato il mio contributo che spero sia utile per qualcuno.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 22:29 da Elisabetta


Massimo, è da tanto che non mi senti perché siamo stati rallegrati dalla nascita della nostra quarta figlia! Volevo rallegrarmi con tutti voi!

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 22:30 da Elisabetta


Simonetta parla di perdurante scetticismo della grande editoria nei confronti dell’horror italiano. A parte il fatto che l’affermazione trova alcune significative smentite (Eraldo Baldini ch pubblica con Einaudi e Sperling, la Palazzolo con Piemme, Evangelisti con Mondador, Filippo Tuena con Longanesi, Fazi e Rizzoli), a me sembra già un grande passo avanti il fatto che la grande editoria si sia buttata all’improvviso sull’horror tout-court, cavalcando la tigre del fenomeno Meyer. Sdoganare un genere è comunque operazione meritoria, e di questo va dato atto a Twilight e ai suoi epigoni, per antipatici che mi possano essere. Sta poi al pubblico distinguere, anche e soprattutto in base al gusto personale, cosa è valido e cosa lo è meno… In quanto ai riferimenti nostrani, credo che gli autori che partecipano a questo dibattito siano ampiamente rappresentativi del meglio della produzione nazionale. In attesa che Gianfranco Manfredi scenda in pista con un suo intervento, suggerisco a Massimo di invitare anche Valerio Evangelisti e Sergio (Alan D.) Altieri, poi mi sembra si possa dire di essere al gran completo… Dimenticavo: Francesco Dimitri, dopo Gargoyle, è passato a Marsilio e poi a Salani. Alla faccia dello scetticismo…
Buonanotte a tutti.

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 22:39 da Paolo De Crescenzo


erano mesi che una discussione non mi interessava tanto, la direi scoppiettante…l’omaggio che ci ha fatto Francesco Di Domenico è davvero una chicca. Laura Costantini: un pozzo di scienza senza spocchia, fantastica. Cristina Bove, una nitida principessa. I magnifici maestri di casa Massimo Maugeri e la micidiale Simonetta Santamaria

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 22:40 da floriana tursi


Anzitutto un saluto a Flavio Santi, con cui abbiamo finora avuto contatti indiretti tramite il comune amico Scorsone.
Preso da sacro zelo riguardo alle domande posteci dal nostro ospite, vorrei tornare brevemente alla questione sul successo del vampiro – in particolare oggi. Il tema è immenso, studiatissimo, e non si può che condividere qualche considerazione partendo dall’età moderna, quando nasce (erede di una variegatissima famiglia) e presto dilaga il vampiro vero e proprio. Certo c’è un’enorme differenza tra il vampiro del folklore, l’impresentabile babau dalla faccia rubizza e vestito col sudario che i chirurghi militari asburgici del Settecento indagano nelle loro autopsie, e quello della fiction figlio del romanticismo, sempre più urbano e carino, varato dalla contemporanea apparizione del Ruthven di Polidori e della Lamia di Keats. Ma questa trasformazione piuttosto radicale non è strana: l’eversore del termine fisso per antonomasia, quello della morte, non poteva che abbracciare equivocamente ogni altra distinzione naturale, esistenziale e persino estetica. Al contrario dei fantasmi mattatori nel primissimo gotico, il vampiro non solo è più facilmente rappresentabile (un bel vantaggio, in teatro) e permette di riciclare con libertà certi stereotipi nobili e tenebrosi dei Mefistofeli romantici, ma – soprattutto – ha un corpo. Il che permette un’estrema libertà alle trame, e l’ulteriore semplificazione di trattare dinamiche con altri corpi (e non con le anime): il che in soldoni, nei termini censuratissimi di inizio Ottocento, significa interferire con la sessualità… Ma proprio questa plasticità e duttilità del personaggio, un trasformista/attore (come Carmilla, come Dracula…) pronto ad assumere continuamente nuove maschere come Fregoli, gli permette di adeguarsi via via all’immaginario delle diverse stagioni storiche – fino al successo di oggi. A cavallo tra umano e ferino, corporeo e spettrale, ripugnanza e fascinazione, il vampiro diventa così figura di un’ambiguità che risponde molto bene alla nostra condizione contemporanea di fedi oscurate, categorie in crisi, mancate scelte e possibilità non chiuse. E sorto dalle nebbie di un oscuro immaginario sulla sessualità dei morti per divenire divoratore sessuale, si presenta come icona efficace di quell’Età della Seduzione (erotica ma anche mediatica, politica, finanziaria) in cui ci arrabattiamo a vivere.
Però questa figura dell’ambiguità, questo signore dell’indecidibile fermo al crocevia della possibilità come un perenne adolescente in agguato all’incrocio tra tutte le determinazioni di natura e cultura, finisce col diventare oggi una a livello narrativo una supermetafora del fantastico: un passe-partout per spendere i temi della morte, del sesso e dell’irresolubilità esistenziale nell’ambito dei più vari generi. Vampiri detective o eroi fantasy, pistoleri, astronauti o appunto sui banchi di scuola…
Sempre più attraente, sempre più carino, non poteva che diventare anche buono: ed ecco Twilight, dove il vampiro ex-eversore diventa paladino delle regole familiari e sociali, minoranza attiva e militante per un Yes, we can di stirpi diverse. E piace tanto agli adolescenti anche perché condivide con loro una condizione di indefinitezza che pare proiettata verso ogni futuro possibile, la sensazione d’immortalità e di potere illimitato, la scoperta del sesso ma anche delle nostre zone più oscure e segrete… e i fastidi per i paletti del mondo adulto.
Può essere però difficile rispondere ad alcune delle domande maugeresche in termini corretti. Ad apprezzare Twilight non sono soltanto i giovanissimi, anche se evidentemente rappresentano una parte preponderante dei lettori: sarebbe interessante disporre di dati statistici. Tra i compagni dei miei figli – chiedo scusa anticipatamente per la formulazione – circola l’interpretazione che sia una lettura “da ragazze”: anche su questo credo ci sia terreno per ricerche, posto che la situazione è fluida. Non resta che augurare la buona notte nel modo più classico:

“Solo un momento, signore e signori! Solo una parola prima che ve ne andiate. Speriamo che le memorie di Dracula e Renfield non vi procurino cattivi sogni, e per questo solo una parola per rassicurarvi. Quando tornerete a casa stanotte, spegnerete le luci e avrete paura di guardare oltre le tende per timore che un volto appaia alla finestra… Bene, rientrate in voi e ricordatevi che, dopo tutto, queste cose esistono.”

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 23:04 da Franco Pezzini


Rispondo alla domanda di Massimo (Per qual motivo avete iniziato a scrivere storie “vampiriche” (o horror)? Perché, in altre parole, avete scelto di cimentarvi in questo genere (e non – per esempio – con il giallo)?.

Dunque, nel mio personalissimo caso, non facevo che leggere ovunque che il genere horror non era “roba” per scrittori italiani, e che non esistevano romanzi italiani puramente horror degni di essere pubblicati, e così ho pensato che forse si poteva provare a sfatare questo mito molto simile ad una condanna senza appello. Ero e rimango sicuro che si possa fare. Per come la vedo io, il genere – quale che sia – è solo un fondale, una struttura portante – indispensabile ma limitata. E’ quello che riuscirai a inserirvi all’interno che farà la differenza. Sono partito dal presupposto di provare a scrivere un racconto originale ed interessante insieme (che nell’ambito letterario è di per sé l’obbiettivo più ambizioso di tutti) e ho usato i “binari” horror, per orientarmi da un lato e per sperimentare dall’altro. Lasciando libero spazio ad un’avventura nella quale un lettore non potesse che trovare continuamente (e spero con piacevole stupore) qualcosa di nuovo e non scontato in un contesto – quello della caccia ai vampiri – che nell’ambito della letteratura horror è un vero e proprio “classico” . Il problema dello scrivere di vampiri non è tanto la materia inflazionata, quanto che ognuno di noi ha i suoi vampiri “preferiti”, e fatica ad accogliere quelli che non sente nelle sue corde. Ma anche questo aspetto fa parte del gioco. Il vampiro è la figura sioprannaturale più diffusa e conociuta. Piccolo esempio: andate su Second Life e cercate le location horror e creepy. troverete tutti vampiri che vorrete. Vampiri, non altre creature sovrannaturali.
Piccolo spunto di riflessione: speculari ai vampiri sono gli umani che con essi – nel bene e nel male – interagiscono. Paradossalmente, più ancora che i Revenants, sono costoro che possono portare una ventata di novità nella materia…

Postato martedì, 2 marzo 2010 alle 23:08 da claudio vergnani


Oggi ho fatto una sosta a un self-service di benzina lungo la tangenziale di Pavia. Finito di far benzina (gasolio per la precisione), ho imboccato la strada che reimmette sulla tangenziale, però invece di svoltare regolarmente a destra seguendo il flusso, mi sono fermato allo stop per girare a sinistra, contromano, la riga sull’asfalto era continua, dunque la manovra non solo era proibita ma anche pericolosa. In quel momento c’era molto traffico, soprattutto camion. I secondi passavano, io cercavo un varco per inserirmi. A un certo punto vedo la strada libera. O meglio, c’è un tir alla mia sinistra, ma mi sembra in lontananza. Allora ingrano la prima e parto sgommando maldestramente. Il tir alla mia sinistra non era così lontano come sembrava. Me lo vedo praticamente davanti, quasi sotto il naso. Adesso muoio, ho fatto appena in tempo a pensare. La macchina ha sbandato, ho sterzato, e per un soffio sono riuscito finalmente a mettermi sulla mia corsia. Oggi ho rischiato di morire, e quel pensiero mi ha accompagnato poi per buona parte del viaggio. Ecco, il vampiro un’angoscia del genere non la prova. Il vampiro va oltre. E in questo credo stia anche il suo fascino. Infrangere la barriera della morte, guardare a morte a viso scoperto e spavaldo. Poter dare del tu alla morte, lambirla, ma superarla.
Poi c’è anche la faccenda del sangue: il sangue come principio di vita. Lo dice già il Vecchio Testamento: “il sangue è la vita”. Eschilo ha scritto un verso pazzesco: “L’odore del sangue mi sorride”.
L’orrore, fin dall’antichità, ha nobilissime radici. L’Epodo 17 di Orazio parla di streghe, Petronio nel Satyricon parla di necrofagia e licantropia, Apuleio di zombie nel racconto di Telifrone, le Baccanti di Euripide sono splatter puro, meglio del primo Peter Jackson; l’Inferno di Dante è una sarabanda di purissimo splatter, Petrarca in una epistola latina racconta una possessione demoniaca, Baudelaire parla spesso e volentieri di vampiri, Gogol vi dedica un racconto, ecc. Gli autori e le opere citate sono gotiche? Per carità!, direbbe qualcuno, magari storcendo il naso. Eppure vivono degli stessi elementi del cosiddetto gotico (suspense, sangue, morti viventi, fantasmi, nebbie avvolgenti, fuoco e fiamme, mistero, ecc.). Allora? Allora secondo me i generi semplicemente non esistono: esistono solo, come diceva Oscar Wilde, libri scritti bene o male.
P.S.: ricambio il saluto a Franco Pezzini e saluto Danilo Arona, gran maestro e cerimoniere.

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 00:06 da Flavio Santi


@ Flavio Santi: non avrei saputo dirlo meglio. :)

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 00:08 da claudio vergnani


Lasciami Entrare.

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 03:09 da tonidagos


Buongiorno, di nuovo. Un grazie speciale a Floriana Tursi che mi definisce “pozzo di scienza” :-)
L’unica scienza che possiedo in abbondanza e’ la consapevolezza di essere all’inizio in qualsiasi campo. Ho troppo da imparare, ancora.
Riguardo alla richiesta/minaccia di Massimo:

Hai il nostro consenso: posta il racconto vampirico mentre io e Lory ci mettiamo contro il muro e aspettiamo il fuoco di fila.

Ci piacera’ molto sottoporci al giudizio dei frequentatori di questo post, persone che hanno molto da insegnare sull’argomento. E prima che qualcuno ci ponga la domanda, rispondo: abbiamo scritto un racconto vampirico perche’ ce lo hanno chiesto per un concorso su Progetto Babele. Siamo state selezionate per la pubblicazione, insieme a parecchi altri. Il personaggio del vampiro e’ troppo affascinante per uno scrittore, ma anche se siamo state tentate piu’ volte, abbiamo ritenuto che scrivere oggi (dopo l’ondata Meyer) un romanzo di vampiri significasse in qualche modo rendere omaggio al marketing. E non e’ mai stato questo lo scopo della nostra scrittura.

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 08:44 da Laura Costantini


tonidagos, ma qui la porta è aperta. certo si entra a proprio rischio e pericolo. ognuno è responsabile del proprio collo :)
grazie per le risposte

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 09:06 da seby


non conosco elisabetta, ma : quattro figliiii. :)
auguri di cuore e congratulazioni per la bella e numerosa famiglia. merce rara di questi tempi.

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 09:08 da seby


…ed io che mi lamento che due figli sono impegnativi….Super auguri a Elisabetta che anche io non conosco,ma se scrive su questo blog è amica nostra :-)

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 09:48 da francesca giulia


Un salutoa tutti, anche se non mi faccio vivo da circa un anno. Mi spiace, ma la vita è veloce e troppo piena. Vista la presenza di vecchi amici come Danilo e Franco (che ne sa ancora di più di quanto non sembri) volevo fare un piccolo intervento su senso dell’Horror. Più che un aspetto esorcistico, che riconosco, ho sempre pensato che la paura fosse una chiave d’accesso privilegiata per l’inconscio. Freud parlava del sogno come “via regia” verso l’Es. Allo stesso modo mi pare si possa pensare della paura. Una strada per quello che sta in fondo e che ci chiama. Cosa poi sia quel qualcosa non so. Il mio lavoro di analista mi fa pensare agli archetipi che, in quanto tali, non possono che essere numinosi (come diceva R. Otto) e quindi dotati di attributi come il fascinans e il tremendum. Detto meno tecnicamente ho sempre percepito, sia come psicoanalista sia come scrittore che la paura conducesse verso il mistero e verso il sacro, verso quel dio interno che ci abita e che Jung chiama il Sé. Faccio poi un’equivalenza, del tutto personale tra il sacro/mistero e il senso. La percezione dell’ulteriore che ci dà la letteratura fantastica è uno dei modi attraverso i quali noi possiamo accedere al sacro (in senso religioso e non clericale come percezione di un ulteriore) e quindi al senso. “Degli angeli” -scrive Rilke- “ciascuno è tremendo”. La paura è simbolicamente l’abbraccio dell’angelo.
Alessandro Defilippi

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 09:54 da Alessandro Defilippi


Pur non essendo un appassionato del genere horror rimango affascinato dalla ricchezza di questo dibattito. Complimenti a tutti.

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 09:59 da Matteo Piccione


Ragazze (e ragazzi…). questo forum è di una ricchezza strabordante, vertiginosa. Io tento di seguire una linea logica nelle domande, ma i sottotesti immessi durante la “lunga marcia” dialettica sono veramente tanti e straordinari per interesse. Adesso lancio il mio pensiero sul pregiudizio: io sto constatando che in ambito editoriale il famoso pregiudizio nei confronti degli italiani che scrivono horror e quasi – quasi – praticamente scemato (l’amato genere è arrivato persino in Einaudi in modo esplicito e non mascherato… Diana con “Demonio” per dire uno). Adesso deve scemare da parte del pubblico. Perché in Italia sono veramente ancora troppi quelli “che non si fidano”, che per capirci e semplificare comperano King a scatola chiusa, ma su tre italiani due non li prendono perché seguono una via autoctona, legata alle paure nostrane e a quel minimo di sperimentalismo che il genere, da par suo, richiede. Insomma, c’è da lottare, ma qui sta il bello. Anni fa quando avevo ancora un agente, mi fu proposta una saga vampiresco-metropolitana da pubblicarsi con pseudonimo anglosassone. Dissi di no per incapacità a procedere, ma ero sicuro che il marketing la vedeva lunga… Preferisco sperimentare, creare “mostri nuovi” (passatemela, giusto per capirci), ma soprattutto amo essere IO… E credo che nel filone vampirico si sia ancora spazio per la novità perché no, italiana… Adesso vi lascio, perché il lavoro mi sta beccando la giugulare… Non prima di avere promesso a Simonoir che sì, ci vedremo a Milano, giuro… anche perché le tue foto mi rimandano un’immagine sì pericolosamente bella… e mi sento molto Dracula la prima volta che vide la foto di Lucy…
argh! A dopo…

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 10:14 da Danilo Arona


… Beh, il lavoro in Italy, quello sì che sta scemando… Veniamo alle Notti di Salem. Certo che l’ho letto, è un must. E nessuna versione filmica o Tv ne è all’altezza. Grandi idee e grandi svisate sul tema. Allora funzionò meravigliosamente la struttura Peyton Place all’interno della Vampire Story, struttura che come tutti sapete il Re ha sempre più espanso sino ad arrivare all’incredibile reticolo umano prigioniero della Cupola… Sì, mi rendo conto, parliamo sempre di King. Ma King ha dimostrato che l’horror può inglobare – come un Blob culturale – tanti altri generi, se non tutti… Pensateci, così magari c’inoltriamo in un altro sentiero biforcante…

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 10:54 da Danilo Arona


Grazie a Seby e a Francesca Giulia che mi fanno gli auguri per la nascita della mia quarta bimba!

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 11:27 da Elisabetta


Giusto Danilo (mmm, che bei complimenti mattutini, quando lo specchio ti rimanda a tutt’altra realtà…): King credo abbia il merito di inglobare nell’universo orrorifico qualsiasi particolare quotidiano senza necessariamente ricorrere a creature soprannaturali. Da Cujo a Il Gioco di gerald, Misery, Dolores Clayborne, The Dome… Molti di questi libri potrebbero anche non essere catalogati come horror eppure… Come c’è riuscito King a diventare un fenomeno mondiale tanto che i suoi libri ormai si vendono da soli, anche quando fanno cagare? Com’è che i lettori hanno capito e apprezzato questo inglobamento di generi e poi qui storcono il naso quando si parla di horror?
Paolo dice che non c’è scetticismo nell’editoria, però c’è da dire che nessuno dei nomi citati da lui ha preso il debito volo, nessuno è diventato il King italiano, purtroppo. Mi chiedo come mai.
Quindi è giusto dire che l’horror può avere tante sfaccettature, noir, thriller, giallo, molto più degli appena citati colleghi generi. L’horror è poliedrico, non è sempre guidato da un commissario o un serial killer, non è inscatolato in cliché. E’ solo una questione di preconcetti, e mi pare che in questa discussione un po’ di sana demolizione la stiamo facendo ;)

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 11:36 da Simonetta Santamaria


Rispondendo a Simonetta, mi viene da dire che King sia unico perchè certi fenomeni richiedono – appunto – l’unicità (esiste questa parola ?) per essere riconosciuti come tali. Viene istintivo ad ogni lettore – a me per primo – guardare ad un possibile emulo di King come un usurpatore (nel senso buono, intendo). King ha avuto il merito … di essere King, e di aver scritto così bene e così tanto che diventa difficile per chiunque, ora come ora, sia misurarsi con la sua leggenda che sfuggirvi. A volte il merito non sta solo nel talento, ma anche nel venire prima (che è poi talento esso stesso). Però l’horror va ben oltre la figura di King (anche il nome, a volte, fa gioco). E penso ormai siamo tutti d’accordo nell’affermare che nel genere detto horror possano starvi comodamente anche tutti gli altri, di generi. Il problema è che a volte si tende – per comodità, più che per ignoranza – ad etichettare un autore con un genere. Il trucco, mi pare di capire, sia di non farsi etichettare come autore horror. Bisognerebbe fare (tanto per citarne uno) come fece Cortàzar, che ha scritto romanzi e racconti splendidi dei generi più vari e poi ha inserito qua e là dei veri horror che sono gioielli. Ma nessuno si è mai sognato di etichettarlo come autore horror. Poi ripeto, l’Italia mi pare un paese particolare anche dal punto di vista della letteratura: credo (poi magari sbaglierò) che spesso si proceda anche per luoghi comuni e figure preconfezionate. E poi l’editoria derve pur campare. A che pro promuovere un bel libro che però va controcorrente o non sfrutta la scia del momento ? Per la gloria ? Meglio andare sul sicuro con quello che tira e con i nomi che fanno vendere. Io per esempio sono rimasto impressionato (sfavorevolmente) dal fenomeno scatenato dal libro di Saviano, che va ben oltre i meriti e i demeriti del lbro stesso. Ora come ora sembra che la Camorra l’abbia scoperta lui. E’ diventato addirittura un consulente televisivo sull’argomento. Ancora un po’ e ce lo vedremo roganizzare la forza pubblica e guidare i raid. Questo credo ci dica qualcosa sulla faciloneria di chi gestisce una buona fetta di cultura nel nostro paese.

@ Massimo. certamente! E grazie dell’occasione.

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 12:19 da claudio vergnani


Simo, se nessuno prende il volo, il problema mi sa che stia molto più nelle mani del lettore (che poi è il compratore…) che in quelle dell’editore. L’alchimia che si ritrova dietro un successo o un insuccesso è sempre qualcosa di arcano che spessissimo dribbla il marketing. Non faccio l’editore, ma ne ho frequentati e, per quel che può valere la mia esperienza, li ho visti sempre equamente innamorati di ogni loro creatura, fosse l’esordiente di turno, il vecchio nome eterna promessa che mai decolla, quello che di sicuro t’infila il best-seller e quello che ha l’idea bella ma rischiosa. Torno sulla frase che ho usato prima: “non ti compro perché non mi fido”, molti compratori (anche forti. ovvero quelli che puntellano il nostro traballante mercato) disdegnano gli horroristi italici perché temono – come di dice a Roma – “la sola”, che possiamo tradurre in scopiazzatura, derivazione dai soliti modelli anglosassoni, cliché triti e ritriti, noia nonché l’eredità storica, pesante, del “marziano a Roma” o del vampiro a Cascina Gobba che non funziona (perché poi, Cascina Gobba è un posto terrificante…). Un credito di fiducia che non ti arriva dai tuoi simili, quelli che sono come te appassionati delle stesse Cose vampiri compresi, è un mistero, anzi il Mistero… Ai tempi di Interno Giallo, il mio grande amico Marco Tropea tentò – tramite le sue uscite di McCammon e Simmons – di capire quanti horroristi lettori ci fossero in Italy… Non lo capì mai. E mi puntava il dito contro: “Ma in quanti siete? Seimila per Danza Macabra e mille per Stephen Callagher? Voi non siete pubblico ma carne da macello da trasformare in galoppini politici!” Per carità, i tempi sono cambiati, ma questi sono anche i tempi in cui Dalai (Dalai!) dichiara che un suo autore diventa di successo (ovvero, prende il volto) a quota tremila copie vendute. Dalai non pubblica horror (ogni tanto gli scappa un John Saul o Una carezza dell’Uomo Nero…) e men che mai horror italico. Ma allora di che parliamo? … Il punto è: azzerare la sfiducia preventiva che non fa bene a nessuno… Riuscirci…

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 12:32 da Danilo Arona


Premetto, non sono un’appassionata del genere vampiresco ma quando ho letto la trama del 18°Vampiro di Claudio Vergnani ne sono rimasta subito colpita. Non era la solita storia del vampiro bello e dannato o del cacciatore supereroe come in molti film si è soliti vedere. Era qualcosa di tutt’altro genere, qualcosa di originale. Così L’ho comprato e nel giro di una settimana l’ho letteralmente divorato.
Per me che sono di Modena è stato bello riscoprire i luoghi che sono solita frequentare sotto una luce diversa. Ma quello che più mi ha colpito è stato il mix di ironia, umorismo, citazioni colte e terrore allo stato puro. Qui i vampiri sono esseri putrefatti, esseri corrotti e non c’è nulla di seducente in loro. Così come i cacciatori…gente comune, alle prese con i problemi della vita quotidiana, la depressione, la disperazione…Nessun supereroe ma gente reale, vera che cerca di trovare il proprio posto in questo mondo.
Il romanzo offre riflessioni sull’attualità davvero meritevoli ed i personaggi hanno una psicologia molto ben caratterizzata in cui chiunque, per un verso o per l’altro, può riconoscersi.
Lo consiglio a tutti, specialmente a chi è stanco di leggere sempre le solite storie sui vampiri.

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 14:44 da Lucia De Carlo


Eh la madonna, finalmente qualcuna/o che ci trova umorismo e ironia nella letteratura Horror (e vampiresca in particolare).
Io avevo postato un “Instant Raccont”, ma non sono stato cag…oops, considerato per niente perchè gli amici erano troppo impegnati a tirar fuori esegesi psicoanalitiche.
C’è, ma forse c’è stato in passato, tutto un mondo di persone che andava nei cinemini di Iv categoria per schiattarsi dalle risate vedendo Cristopher Lee ed altri, la voce dev’essere arrivata a Mel Brooks, che inventò un capolavoro giocando sui luoghi comuni e sul loro rovesciamento: “Frankestein Junior”.
Qualcosa del genere era già stato fatto da Polansky con i vampiri con “Per piacere non mordetemi sul collo”.
La questione che pongo è:
La ricerca di sorriso, scherno, umorismo nei film horror e dovuta alla paura che molti cercano di dissimulare, o ad un approccio approssimativo del fenomeno?

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 15:39 da Francesco Di Domenico - Didò


Il successo planetario di King, secondo il mio modesto parere, è derivato , aldilà dei suoi meriti oggettivi, dalle innumerevoli trasposizioni cinematografiche e televisive delle sue storie, iniziate con Carrie e Shining in un momento in cui la letteratura horror produceva ben poco di rilievo e Hollywood era in cerca di qualcosa di innovativo… Che poi alla regia si siano ritrovati rispettivamente De Palma e Kubrick, proiettando il Nostro su scala mondiale, be’, un po’ dipenderà dalla bravura dell’agente di turno (a quando un thread su quelli italiani, Massimo?), che ha saputo proporre le storie del suo assistito a gente con le palle; per il resto, da culo… scusate il francesismo, come direbbe il nostro Claudio.
I nostri agenti non riescono a vendere un horror italiano nemmeno in Lussemburgo o in Andorra, neppure se l’autore e l’editore rinunciano a qualsiasi anticipo o minimo garantito. Se proponi, che so, una storia di fantasmi, ti rispondono che in questo momento tirano solo i vampiri. Se proponi i vampiri, ti dicono: ancora? adesso basta, il mercato è saturo.
Delle medie di vendita sul mercato interno ha gia detto Danilo. Il nostro cinema horror è fermo a un Argento non più vivo da anni, oltre che a improbabili esordienti che hanno la presunzione di scriversi e filmare le proprie storie con budget risibili (gli unici che, con estrema difficoltà, trovano copertura). A parte Pupi Avati (con il cui fratello produttore ho appuntamento a breve per proporgli due titoli), che predilige comunque la commedia e che si (e ci) regala un horror ogni dieci anni…
Ma dove vogliamo andare?!
Il che, naturalmente, non vuol dire rinunciare a combattere e non fare il possibile per accrescere la cassa di risonanza. Personalmente, sono sempre alla ricerca del nuovo autore che renderà se stesso famoso e me ricco…

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 15:47 da Paolo De Crescenzo


John Travolta dichiara spesso nelle interviste di essere un vampiro. In effetti il mondo e’ pieno di vampiri che succhiano la vita delle altre persone. Ad esempio gli attori, i personaggi televisivi, i cantanti per non parlare delle top model: loro succhiano la vita degli altri, per osservare la loro vita noi smettiamo di vivere la nostra. La vita passa davanti alla televisione e arriviamo in fondo con una bella fregatura: aver buttato tutto il nostro tempo a immaginare un’altra realta’, altre realta’ senza averne vissuta una. D’altra parte anche le donne troppo belle sono vampiri che ti rubano la vita: le guardi vivere tanto sono belle, qualsiasi cosa tocchino o facciano ti rapisce, e tu rimani ancora una volta fregato. Ecco forse per questo i vampiri ci piacciono ancora: perche’ alludono a una condizione estremamente reale. Siamo noi vestiti con una maschera.

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 17:07 da Marco Candida


ma che bel post! ma che voglia di scrivere storie di vampiri! e mi viene anche una certa sete…
@didò
io non faccio la psicoanalista: sarà per questo che mi è tanto piaciuta la tua “chicca”?

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 17:43 da giorgia


Vorrei soffermarmi un attimo sulla capacità del’horror di esorcizzare le paure quotidiane.
Sono decisamente orientato in senso positivo. L’horror, l’ho ripetuto in più di un’occasione, è la forma d’intrattenimento più rassicurante: leggere un romanzo horror nella confortevole morbidezza di una poltrona o sotto l’ombra rinfrescante di un ombrellone, così come godersi un film horror nel buio amniotico di una sala cinematografica o alla luce ipnotica del televisore domestico, nella consapevolezza che siamo assolutamente al sicuro, ci riporta a un’emozione primaria: al brivido di paura e piacere insieme che, quando eravamo bambini, provavamo nel sentire genitori o nonni o tate compiacenti narrarci, per favorire il sonno, favole che, immancabilmente, includevano una strega, un orco, un lupo cattivo… E quanto gusto nel meccanismo iterativo di terrori già noti: dai, raccontamela ancora…
E poi c’è una considerazione che appare incontestabile: nella storia più recente, i periodi di maggiore successo dell’horror sono stati:
- gli anni dei grandi mostri cinematografici della Universal, cioè quelli immediatamente seguenti al crollo di Wall Street e alla Grande Depressione derivatane;
- gli anni del revival operato dalla Hammer (con Cushimg, Lee, Fisher, ecc.). cioè il periodo in cui i sonni della popolazione del pianeta erano turbati dalla Guerra Fredda e dalla paura dell’atomica
- i nostri giorni, in cui le vicende sdolcinarte dei vampiri alla Moccia e i (pochi) brividi che ne derivano vanno a distrarre da un mondo in cui di orrori e paure c’è solo l’imbarazzo della scelta: dalle vicende politiche, alla crisi economica, alle guerre sempre in atto, all’AIDS, al proliferare improvviso di calamità naturali che fanno pensare a un Dio incazzato e vendicativo…
Non ci sono, mi pare, altri generi letterari o cinematografici capaci di fare altrettanto.
Ma qui va sentito necessariamente il filosofo Arona…
P. S. Sono intervenuto anche troppo in questo dibattito. Mi riservo, nei prossimi giorni, un ultimo sfogo su un qualcosa che proprio non mi va giù e che esula dalle provocazioni del padrone di casa. Dopodiché mi limiterò a seguire con interesse tutti gli altri, compresi quelli che ancora non si sono fatti vivi, o almeno non-morti…

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 18:08 da Paolo De Crescenzo


Fra tanti Vampiri nei corsi e ricorsi storici ( a partire dall’impero romano ad oggi) che hanno dissanguato Napoli,Peppino Esposito,rappresenta,quello che si potrebbe definire un vampiro atipico.Succhiatore non per bestialità,ma per necessità di vita. Male in arnese come tante figure del popolo napoletano,emerge per il suo surrealismo(che poi nella città partenopea tanto surreale non è) Un racconto humor-noir che non ha nulla da invidiare alle collane classiche del genere. Ho riso. E’ questo è l’importante ..il risultato. Bravo Francesco -DiDo’

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 19:25 da Maria Assunta


Dolorante dopo una orrorifica seduta dal dentista (stasera non riuscirei a mordere neppure una mozzarella, figuriamoci un collo…) dico che non si può non essere d’accordo con Claudio, Danilo e Paolo. Siamo sulla stessa lunghezza d’onda.
L’etichetta… Ebbene sì, l’etichetta di scrittore horror non piace, almeno in Italia non funziona granché. Ricordo quando agganciai l’agente del fortunato Paolo Giordano dopo una presentazione. Le dissi chi ero, le diedi il mio libro, le spiegai che non sono una autrice splatter.. E lei mi fa: “Ma perché non scrivi un bel giallo? Qui di bravi non ce ne sono!” Ma se io personalmente, solo a Napoli tra giallisti e “noiristi” ne conosco almeno una dozzina di cui tre sicuramente affermati… Superfluo aggiungere che non mi ha mai contattata.
E qui confermo che sarebbe interessante un post sulle agenzie letterarie in Italia.
Allora, se la Nord edita libri come Il vangelo secondo Satana di Patrick Graham (bellissimo libro, devo dire, peggiore il sequel) etichettandoli come THRILLER, allora io che scrivo? Non lo so mica più. Come mi devo presentare a un eventuale quanto anelato agente per convincerlo a rappresentarmi? Almeno si leggessero gli scritti e poi mi rifiutasero.. Invece è un no a prescindere. Questione di etichetta, dunque?
@ Didò: tu saresti capace di trasformare pure Pulcinella in un vampiro assatanato, la tua duplicità è incredibile! ;)
Ora vado a piangere sul mio dente martirizzato… :(

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 20:35 da Simonetta Santamaria


ho letto il libro “Io vampira” di Mia .. davvero un bel libro.. un mix tra horror e romanzo d’amore.. uno stile che cattura l’attenzione del lettore e lo spinge a leggerlo tutto di un fiato..

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 20:40 da Sebina


Ultim’ora:
annunciata imminente marcia su Roma da inconsueti gruppi di vampiri. Il New Gothic è tra noi.

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 20:49 da Subhaga Gaetano Failla


Rispondo @ Massimo che ha chiesto: Caro Claudio, perché non ci dài qualche coordinata sul nuovo romanzo a cui stai lavorando (se possibile)? Si intitola “Il 36° Giusto”, se non ho capito male…
Di cosa parla?

Sì, il titolo è proprio “Il 36° Giusto”. Si tratta del seguito de “Il 18° vampiro” (i riferimenti numerici ovviamente non sono casuali). L’idea portante – al di là della trama – è quella di mixare horror non scontato, un approccio interessante, umorismo e uno sguardo scanzonato ma profondo nella natura umana (anche e soprattutto nelle sue debolezze meno lusinghiere). I personaggi inoltre – a differenza di quanto accade spesso – conoscono molto bene la letteratura vampiresca, e si divertono a confrontare la “realtà” che si trovano ad affrontare con le varie finzioni lettarie e cinematografiche. Ho utilizzato un linguaggio crudo, ma proprio per questo decisamente realistico. Così come per Il 18° vampiro, ho voluto provare a scrivere un romanzo che potesse accontentare e appassionare chi – come il sottoscritto – ha ormai letto e visto tantissime cose sull’argomento vampiri. Poi, ovviamente, come ho già detto nei post precedenti, l’ambientazione horror è anche uno “sfondo” nel quale inserire spunti e riflessioni su che tipo di sentimenti debbano affrontare i personaggi alle prese con avvenimenti terribili. E come riescano (e più spesso NON riescano) a farvi fronte.

In ogni caso , per chi fosse interessato a saperne un po’ di più, consiglio di dare un’occhiata al Blog Gargoyle, dove potrà trovare informazioni e recensioni

Un grazie a tutti per la pazienza.

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 22:30 da claudio vergnani


Il successo dei vampiri è solo una recrudescenza. Non ha mai avuto davvero battute di arresto dopo la prima uscita di “Dracula”. Semmai, oggi, vi si unisce il senso di angoscia e incertezza che attanaglia i giovani, privi di concrete prospettive di inserimento nella vita e nel lavoro, dunque inclini a cercare uno scampo virtuale nel fantastico più sanguinario.
Per gli adulti, invece, specie in età matura, il vampiro incarna il sogno della non-morte e dell’ipersessualità. Meglio del Gerovital di una volta e dei vari Viagra e Cialis.
Il problema, per chi scrive, sta nell’escogitare formule narrative che sviscerino l’antropologia e il folklore. Gli angloamericani hanno il vantaggio dell’eredità celtica. Stephen King non esisterebbe senza Halloween. Preceduto magistralmente da Ray Bradbury. Anche Edgar Allan Poe, pur non avendo toccato direttamente le corde vampiriche, ne ha lasciato scorci abbondanti (Waldemar), sempre attingendo a quell’albero genealogico delle culture nordiche.

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 22:30 da Enzo Verrengia


Nel salutare altri amici arrivati – in particolare Alessandro – mi sembra bello sottolineare quanto importante sia per profondità, ricchezza di spunti e qualità di scrittura, l’apporto di una serie di interlocutori nostrani – parecchi dei quali presenti a questo dialogo. Grandi scrittori e spesso persone splendide, il che non mi pare secondario. Se per esempio siamo qui a parlare di vampiri è anche perché Danilo, diavolo di un uomo, ha aperto la strada in anni in cui questi argomenti erano out: col suo lavoro di saggista – quando i film horror non si trovavano nella videoteca sotto casa, e bisognava inseguirli in remoti cineforum o evocarli medianicamente – ha buttato basi per una critica sociale e psicologica a cui tutti poi ci siamo rifatti. Di più, come specialista di leggende metropolitane, o meglio di quella risacca psichica che si svela – ambigua e a volte minacciosa – della stessa natura dei fantasmi, ha inventato una forma tutta sua, originalissima di romanzo-saggio: e le sue Melisse & Co., frantumate in infiniti grumi di soggettività dispersi tra autostrade nebbiose e vie del web, sono sicuramente imparentate coi vampiri di domani. Con la differenza che lui sa vederli già oggi… Penso a Gianfranco Manfredi, che ha regalato capolavori come Magia Rossa, Ho freddo e quello straordinario Ultimi vampiri dove troviamo i nostri amici nella forma prestokeriana di esuli da tutte le patrie, fuoriusciti da tutti gli schemi sociali noti, e sbandati della storia (tra l’altro, I figli del fiume è anche una storia d’amore formidabile). L’avevo letto tanti anni fa e sto godendo ora questa ultima versione estesa, riscoprendo a ogni pagina la sua coltissima, lussureggiante eleganza visionaria. Penso a Valerio Evangelisti, con le creature vampiresche del ciclo di Eymerich, uno dei personaggi più potenti della letteratura fantastica contemporanea a livello internazionale… E, per le nuove leve, penso al delizioso Claudio Vergnani, con l’immenso Trionfo della (non-)Morte che ha saputo affrescare, e ora vogliamo assolutamente sapere come continuerà; penso a Flavio Santi, col suo sabba vampiresco di narcolettici, uomini-specchio e piovre fluttuanti su un mondo alla deriva – e mi limito a qualche nome, senza assolutamente voler far torto ad altri narratori. O narratrici, e mi vengono in mente i languidi vampirismi torinesi (addirittura una setta di succhiasangue, per di più collocata vicino a casa mia…) dell’amica Anna Berra. E d’altra parte spererei che un altro formidabile evocatore di inquietudini fantastiche tra angeli ribelli e possessioni psichiche, il già citato Alessandro Defilippi dalla penna di rara eleganza, volesse regalarci anche un romanzo di vampiri. No, non abbiamo niente da invidiare agli altri…

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:27 da Franco Pezzini


Ringrazio ancora una volta tutti voi per i nuovi interventi. Devo dire che questo dibattito si sta sviluppando in maniera “sanguigna”!
(Ma forse avevo già sfruttato questa battuta… non ricordo).
-
Anticipo che in conclusione dei miei soliti “commenti a raffica” inserirò le risposte alle domande che mi ha inviato via mail Gianfranco Manfredi.

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:29 da Massimo Maugeri


@ Franco Pezzini
Caro Franco, ci siamo incrociati.
Grazie di cuore a te e a gli amici che hai (giustamente) citato nel precedente commento.

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:31 da Massimo Maugeri


@ Samuele e Cristina
Grazie a te, Samuele…
E grazie anche alla cara Cristina Bove.
(Un ri-saluto a Didò)

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:32 da Massimo Maugeri


@ Miriam/Mia
Cara Miriam (o meglio Mia). Raccontaci un po’ di questo tuo romanzo: “Io, vampira”.
Da chi è edito? Di cosa parla?

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:32 da Massimo Maugeri


@ Elisabetta Modena
Cara Elisabetta, ti faccio (di vero cuore) tantissimi auguri per la tua quarta figlia. Per portare avanti famiglie numerose, oggi, ci vuole molto coraggio. Ancor più che affrontare vampiri…
Eroina! (senza alcun riferimento a droghe e simili).
:-)
Un abbraccio forte.

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:33 da Massimo Maugeri


@ Simonetta
Dài, Simonoir… secondo me, oggi, c’è una gran riscossa dell’horror al femminile (di cui tu sei una delle paladine).

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:33 da Massimo Maugeri


@ Paolo De Crescenzo
Caro Paolo, so che Valerio (Evangelisti) sta attraversando un periodo particolare (e temo sia impossibilitato a partecipare)… comunque proverò lo stesso a invitarlo.
Per il resto, il dibattito è aperto a tutti.
Mi rivolgo a te e agli altri amici “addetti ai lavori”: se conoscete altri “esperti” da coinvolgere nella discussione (quali Sergio (Alan D.) Altieri, ecc.), vi prego di invitarli voi stessi.
Auspico una ulteriore moltiplicazione di voci. ;-) )
Ne approfitto, ancora una volta, per ringraziare te, Franco Pezzini, Danilo Arona, Claudio Vergnani e Flavio Santi per i nuovi ottimi spunti.

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:35 da Massimo Maugeri


Un saluto (e un benvenuto) a Matteo Piccione.

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:35 da Massimo Maugeri


@ Alessandro Defilippi
Grazie per il tuo intervento, Alessandro. La tua presenza qui a Letteratitudine è sempre graditissima. Ti faccio tanti in bocca al lupo per il tuo nuovo romanzo in uscita per Einaudi (ti inviterò per discuterne insieme).
-
p.s. Alessandro Defilippi è anche l’autore dell’ormai mitico articolo sul carnevale – orginariamente pubblicato su “Tuttolibri de La Stampa”che ho praticamente adottato in questo post
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/02/13/un-carnevale-da-raccontare/
:-) )

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:36 da Massimo Maugeri


@ Laura Costantini (e Loredana Falcone)
Di seguito, il vostro racconto “vampirico”… eh, eh, eh :-) )

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:37 da Massimo Maugeri


NELLA NOTTE SANGUIGNA DEI LAMPIONI
racconto di Laura Costantini e Loredana Falcone

***
***

Ci risiamo. Come si fa a costruire una metropolitana in una città dove basta infilare un dito nel terreno per trovare un reperto archeologico? Siamo indietro con i tempi. Chi glielo dice adesso al geometra? Mi faccio largo tra gli operai curiosi e snocciolo tre bestemmie delle mie. I cunicoli mi mettono ansia e l’idea di infilarmi lì sotto proprio a fine turno… Accendo il faretto sul casco e cerco di non pensare che sono ingrassato e che il cunicolo è ancora solo un abbozzo. Giuro che se lì sotto non c’è la tomba di Augusto, mi faccio i cazzi miei e faccio spianare tutto.
Terra umida e grassa, Pietrisco. Fuori trenta gradi e qua sotto mi cago sotto dal freddo. Peggio di una catacomba. Ma dove l’hanno visto ‘sto sarcofago? Qualcosa mi cammina su per il polpaccio. Lo so che è solo un’impressione. E poi il pericolo non viene mica da ragni, scarafaggi o topi. Però prude, cazzo! Mi strofino e sento qualcosa di umido: una poltiglia di ragno mi impasta i peli, che schifo. Mi pulisco con una manciata di terra mentre continuo a muovere la testa per illuminare il più lontano possibile. Se mi hanno fatto scendere qua sotto per niente se la vedono con me. Altro che turni di riposo. Li faccio scavare pure il giorno di Ferragosto.
Eccolo. Pietra chiara sul fondo del tunnel. Non sembra niente di che. Non è neanche scolpita. Però è una parete. Vuoi vedere che abbiamo trovato sul serio la tomba di uno importante… Quelli delle Belle Arti ci fanno il culo, altro che storie. Questa è proprio una cripta. Tre pareti di travertino e la quarta l’abbiamo sfondata noi con la trivella. A ‘sto punto, perso per perso, io un’occhiata la do. Trovassi qualche pezzo da rivendere…
***
Sapevo che sarebbe successo. Il paradosso del genere umano è che non può vivere senza spargere sangue. Il salvifico odore del sangue. E il sapore. Immergo le labbra nella pozza che stilla ai miei piedi. E’ come rinascere. La vita che defluisce dal tuo corpo agonizzante mi riempie, mi restituisce forza. Emergo dalla nuda terra, incontro i tuoi occhi e ritrovo la pietà. Soffri ancora. La trappola è scattata e la lancia ha compiuto il tuo destino. La trappola che era lì per me. Stolti. Davvero pensavate fosse facile liberarsi di quelli della mia razza? Mio sfortunato amico, non sarei ancora qui dopo quanto… dieci, cento, mille anni? Ritrovo brandelli di lana sul mio corpo nudo e sempre più tonico ora che il tuo sangue si unisce al mio. Non resta traccia della mia toga. Ma la pelle riprende colore mentre i tuoi occhi si spengono. Vale.
***

Il mistero della metro C
Brancolano ancora nel buio gli inquirenti chiamati a indagare sulla morte di Luigi Borghetti, 45 anni, operaio specializzato trovato trafitto da una lancia all’interno di una cripta di età romana. L’uomo, chiamato a fare un sopralluogo per il ritrovamento di resti archeologici in un tunnel della nuova metropolitana, è stato trovato nudo e completamente dissanguato dai colleghi, insospettiti dalla prolungata assenza. Al momento nessuna ipotesi viene scartata. E se è stato scoperto il meccanismo che ha fatto scattare la lancia, nessuno sa ancora spiegare che fine hanno fatto i vestiti, il casco e, soprattutto, i resti del cittadino romano di epoca imperiale tumulato nella nuda terra. Prassi questa piuttosto inusuale per membri della nobiltà romana, quale doveva essere lo sconosciuto proprietario della tomba.
***
Marinella accartoccia la copia del “Messaggero” del giorno prima e la lancia nel cassonetto. Quel cantiere della metro, quello del morto, è proprio vicino casa sua. Lì dove la periferia prende il suo aspetto indeciso tra strade a scorrimento veloce, palazzine abusive e capannoni industriali. Un panorama spettrale alla luce rossastra dell’illuminazione al sodio mentre, traballando sulle zeppe da venti centimetri, torna alla stanza in subaffitto. E’ stata una nottata fiacca. Ormai la concorrenza delle minorenni slave e dei trans sta prendendo il sopravvento su quelle come lei. Prostitute qualsiasi, tra i venti e i trenta, con tariffe oneste e la pretesa di usare il guanto. Nella borsetta minuscola, imitazione di Gucci, ci sono 50 euro. Tutto quello che è riuscita a guadagnare passeggiando avanti e indietro sul suo tratto di marciapiede. Mo’ chi glielo dice a Dodi? Marinella è più stufa di prendere schiaffi che cazzi. Fosse stata in centro, si sarebbe attardata a bere un caffè. Ma lì non c’è niente, solo il cantiere della metro C, circondato dai bandoni gialli e dai nastri della Polizia. Le da un brivido pensare all’operaio impalato lì sotto. Un brivido che le si attacca addosso, come la merda dei cani sotto le suole delle scarpe. Si guarda intorno, nella luce senza ombre. E’ sola, a parte le rare automobili che transitano sulla Casilina. Ma c’è uno sguardo. Ne è sicura. Se lo sente strisciare addosso, acuminato come un coltello, minaccioso. Affretta il passo, anche se significa correre incontro a Dodi, portandogli soltanto 50 euro. Una miseria che non le perdonerà. Si prepara a parare la mano pesante di anelli mentre, con un sollievo inaspettato, riconosce da lontano la sagoma della Yamaha.
***
Non conoscevo la paura prima di trovarmi sbalzato in un mondo che non è il mio. La parte più razionale di me mi impone di considerare che il mio sonno può essersi protratto ben al di là delle mie supposizioni. Quello che ho intorno è un universo sconosciuto. Una realtà che ha ingoiato la mia città, lasciandone solo dei macabri resti dimenticati dagli uomini. Rovine. Solo rovine restano dei fasti che sono appartenuti al mio tempo. Roma è caduta. Come me si è addormentata per risvegliarsi tra mura grigie e luci fredde, sotto un cielo privo di stelle, umiliata da un idioma straniero.
Ho paura di questo mondo, di questa gente che non mi vede né mi teme. Uomini, donne e bambini confusi in una folla amorfa. Tutti. Meno lei.
Si è accorta di me. Sento il suo cuore battere in fretta, pompare l’odore dolce del sangue oltre la barriera della pelle, arricchito dall’aroma della paura. Ho sete. Tanta sete.
***
Gli ultimi passi di Marinella somigliano a una corsa. Quasi stia per gettarsi tra le braccia di Dodi. Quasi sia un’innamorata che rivede l’amato dopo tanto tempo e non una prostituta che va incontro all’ennesima fregata di botte.
“Oh, frena. Che te stanno a rincore?”
Marinella si volta a guardare il tratto di strada percorso. Ha il cuore in gola, ma l’asfalto è deserto e quasi lucido alla luce dei lampioni.
“Allora?”
“E’ stata ‘na serataccia. Ce so troppe brutte facce in giro.”
“Caccia li sordi, Marinè, che nun ce casco.”
Ecco, il momento è arrivato. Non ha senso mandarla per le lunghe. Apre la borsetta e prende le banconote, le conta. Neanche fossero aumentate nel frattempo. Le mette nella mano tesa di Dodi, senza alzare gli occhi.
“E questo che è? ‘Na presa per culo?”
Non le dà il tempo di rispondere. Le strappa la borsetta, la fruga, poi la getta lontano. Non fa caso ai suoi occhi spaventati. Neanche la guarda mentre, con un tono di voce che è tutto un programma le fa: “E’ che nun ce metti passione. Manco come mignotta vali un cazzo!”
Il manrovescio non la coglie di sorpresa, ma fa male. Sente le labbra rompersi, prese in mezzo tra anelli e denti. Il sapore del sangue è salato e tristemente noto. Cade a terra e Dodi comincia con i calci.
***
L’odore è fortissimo. Da stordire. Non è solo il sangue e la paura di lei. E’ la rabbia prepotente di lui. Lo guardo infierire sulla donna come neanche un barbaro. La sete ha preso il sopravvento. Esco allo scoperto.
***
“Manco li carci te meriti”, dice Dodi cercando le sigarette in tasca. “Che ce devo fa co’ te?”
Marinella vorrebbe rimanere lì, raggomitolata contro l’asfalto caldo. Sa che qualsiasi cosa dica, servirà solo a riaccendere la sua rabbia. Non sente dolore, quello arriverà dopo. Ma il freddo sì. Sembra avvolgerla come un bozzolo, costringendola a stringere i denti.
“Arzete, cammina.”
Dodi la prende per un braccio, sollevandola quasi di peso.
“Te ne devi guadagnà armeno artri cento prima de chiude bottega.”
Marinella non lo ascolta, non lo guarda neppure. I suoi occhi frugano la notte sanguigna dei lampioni, sgranati.
***
Mi ha visto. Incrocio il suo sguardo e mi assale una sensazione che avevo dimenticato. Esisto. Il terrore nei suoi occhi è la mia legittimazione. Il riconoscimento di questa nuova vita. Ma l’emozione non basta. Ho bisogno di sangue. Tanto sangue.
***
Marinella non capisce l’ondata di orrore che la investe. Quello che si avvicina rapidamente alle spalle di Dodi è un uomo. Un semplice uomo, con le vesti di un operaio, troppo grandi per lui e chiazzate di scuro. Forse un barbone. Eppure la voce le rimane incagliata in gola, mentre tenta di avvertire Dodi del pericolo. Non fa in tempo. Marinella vede lo sconosciuto mettere una mano sulla spalla di Dodi e costringerlo a voltarsi.
“Ma che caz…”
Il rumore è terribile. Disgustoso. Un gorgoglio vischioso mentre tutto il corpo di Dodi freme, guizza, si consuma.
La bocca dello sconosciuto è sporca di sangue quando lascia cadere l’involucro accartocciato di quello che era un uomo.
Marinella è caduta in ginocchio. Non crede, non vuole credere a quello che ha appena visto. E’ ancora lì che cerca di convincere se stessa che è tutta un’allucinazione quando il vampiro le porge la mano.
“Surge.”
E’ un sussurro gentile. Marinella non capisce, ma afferra la mano. E’ fredda mentre l’aiuta a tirarsi in piedi. Lo sguardo del vampiro è attratto dalla sua bocca insanguinata dal manrovescio e lei si ritrova a pensare che sembrano tutti e due reduci da un banchetto.
“Ne time. Nolo tibi male facere.”
E’ latino. Una vaga reminescenza scolastica la assale e la sconvolge. Neanche nella più fervida delle allucinazioni potrebbe immaginare quelle parole.
***
Non capisce. Non può capire. La mia lingua, la lingua dell’Impero più grande del mondo, è ormai morta. Mi guarda e l’orrore danza nei suoi occhi unito alla curiosità. Il sangue sulle sue labbra promette delizie. E’ bella come un’etera di Cipro e la brama che mi agita rivela la profondità della mia solitudine. Sarebbe così facile spingerla a offrirmi la tenera curva del collo. Ma spegnere la sua vita mi lascerebbe ancora più solo in questo mondo che non mi appartiene.
***
Le dita fredde scivolano via da quelle di Marinella e lei batte le palpebre, come risvegliata da un sogno. Il vampiro fa un passo indietro e le indica la strada deserta. La lascia libera. Libera di correre via, di rivedere la luce del sole. Marinella esita. Fa qualche passo, poi si volta a guardarlo. Lui è sempre lì, ombra tra le ombre, immobile. Lei non sa se riesce a scorgere il sorriso che le distende timido le labbra dolenti. Ciò che sa con certezza è che qualcosa li ha uniti, qualcosa che non svanirà con le prime luci dell’alba ma tornerà a trovarla ogni sera, nella notte sanguigna dei lampioni.

Laura Costantini – Loredana Falcone

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:38 da NELLA NOTTE SANGUIGNA DEI LAMPIONI (racconto di Laura Costantini e Loredana Falcone)


Mentre che ci sono ne approfitto per pubblicizzare il racconto di uno scrittore mio concittadino. Non è un racconto sui vampiri, ma è dotato di una netta atmosfera gotica e ha a che fare con i fantasmi. Lui sostiene che sia un “peccato di gioventù”… ma io non sono molto d’accordo.
Potete scaricarlo e leggerlo gratuitamente da qui: http://www.imalavoglia.it/index2.php?option=com_content&do_pdf=1&id=31

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:38 da Massimo Maugeri


Ah… dimenticavo…
Lo scrittore mio concittadino si chiama Giovanni Verga. Il racconto si intitola: “Le storie del castello di Trezza”.
;-)

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:39 da Massimo Maugeri


@ Didò
Credo che la tua “chicca” si passata tutt’latro che inosservata…

Un caro saluto e un ringraziamento a Lucia De Carlo e a Giorgia

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:40 da Massimo Maugeri


Ancora per Paolo De Crescenzo:
Prima o poi organizzerò un dibattito coinvolgendo gli agenti letterari… sarebbe interessante, in effetti.
Credo, tuttavia, che il problema dello “sdoganamento” dei romanzi (vampirici e non) all’estero riguardi non solo l’Italia. Anche se – a mio avviso – in questo momento le produzioni letterarie ispaniche e quelle nordeuropee (sull’onda del successo di Larsson) stanno conoscendo una discreta fortuna.
-
P.s. Intervieni ancora, dài… :-) )

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:40 da Massimo Maugeri


Un saluto e un ringraziamento a Marco Candida.
Marco è autore de “Il mostro della piscina” (Intermezzi):
http://www.intermezzieditore.it/il_mostro_della_piscina.php
nonché del sito: http://www.websitehorror.com/

Saluti anche a Maria Assunta e a Sebina (benvenute a Letteratitudine!)

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:41 da Massimo Maugeri


@ claudio vergnani
“Il 36° Giusto” si profila come un romanzo da divorare… anzi, da “succhiare”.
Pare molto interessante, Claudio. Ti faccio tanti in bocca al lupo perché tu lo possa realizzare al meglio.

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:42 da Massimo Maugeri


Ringrazio e saluto anche Enzo Verrengia per il suo intervento.
Enzo è autore di questi libri: http://www.ibs.it/libri/verrengia+enzo/libri+di+verrengia+enzo.html

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:42 da Massimo Maugeri


E ora ecco a voi le risposte di Gianfranco Manfredi alle mie domande (le inserisco qui di seguito a suo nome).

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:43 da Massimo Maugeri


- Perché la figura del vampiro è così prepotentemente entrata a far parte nell’immaginario collettivo mondiale?
Non è entrata, c’è da sempre e non ne è mai uscita. Riguarda fondamentalmente il nostro rapporto con i morti. Dunque è un dato antropologico. Qualcosa di più di una figura dell’immaginario.

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:44 da Gianfranco Manfredi


- Il sentimento suscitato dal vampiro è più vicino alla paura o al fascino? E perché?
Le alternative o-o nel caso dei vampiri non esistono. Il vampiro è un ossimoro cioè una compresenza di contrari (cadavere vivente). Per lui si può usare solo la congiunzione “e”. In ogni “passione” del resto si cela un contrasto. L’energia si trasmette tra poli opposti.

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:45 da Gianfranco Manfredi


- Che scarto esiste tra la figura storica del vampiro e quella “trasfigurata” nella fiction letteraria, cinematografica e fumettistica? L’esistenza di questo scarto (ammesso che ci sia) è nota? È importante che lo sia? Che percezione avete, in proposito?
A prima vista il vampiro letterario è un totale ribaltamento del vampiro storico. I presunti vampiri dissepolti e straziati per più di due secoli nella Storia europea e non solo europea, erano contadini e in prevalenza donne e bambini, cioè i membri più deboli della famiglia. Il vampiro letterario nasce aristocratico oppure è un giovane dandy borghese. Credo però che questa trasformazione stesse nelle cose. Alla figura storica del vampiro ha contribuito la diffusione delle malattie cosiddette “consuntive”, come ad esempio la tubercolosi. L’infezione è partita dal popolo e si è propagata alle classi superiori. Analogo decorso ha avuto la Melanconia o depressione che all’origine era una malattia prostrante dovuta a condizioni di vita e di lavoro affliggenti, ma che nel passaggio tra settecento e ottocento si sparse a tal punto tra i commercianti, gli uomini d’affari, l’alta borghesia, da diventare addirittura la malattia simbolo prima dell’ascesa e poi della decadenza borghese. Nel ribaltamento di classe, il vampiro non ha affatto smarrito la sua forza simbolica. Già presente nelle tradizioni dei popoli di tutto il mondo, non c’era da stupirsi che si insediasse anche a tutti i livelli di classe. Il vampiro vive di contagio. Sarebbe tuttavia importante se ci si rendesse maggiormente conto che tra figure simboliche, costumi sociali e pratiche rituali c’è sempre, in tutte le culture, un collegamento profondo. Non esiste la vita concreta da un lato e l’immaginazione dall’altro. E’ davvero importante ricordare (e ho cercato di farlo con il mio romanzo “Ho freddo”) che i vampiri storici non sono stati riesumati e mutilati dal dottor Van Helsing o da tenebrosi Inquisitori, ma dai loro stessi famigliari, i padri in particolare, che infierivano sui cadaveri dei figli, e questo è accaduto nel nostro mondo civilizzato fino alla fine dell’ottocento. Stoker immaginava, è vero, però le cronache delle profanazioni di cadaveri poteva anche leggerle sui giornali. Questo cambia non poco la prospettiva.

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:45 da Gianfranco Manfredi


- Cosa è cambiato nella “letteratura vampirica” (ammesso che qualcosa sia cambiato) da Bram Stoker a oggi?
Il vampiro sul piano squisitamente letterario è un essere mutante. Un mainstream vampirico non esisteva neppure ai tempi di Stoker. Lasciamo pure perdere i vampiri del folklore, ma anche se ci limitiamo ai vampiri letterari c’è una notevole differenza tra il Vampiro di Polidori, le vampire di Poe, Varney, Carmilla e Dracula. Venendo ai nostri giorni si sono visti vampiri del tutto devianti rispetto alla tradizione più consolidata: vampiri immuni al crocefisso, addirittura vampiri preti, vampiri che si muovono in pieno giorno con l’unica accortezza di un paio di Ray-Ban, vampiri mondani da discoteca o da concerto rock, vampiri non-violenti che si alimentano con il sangue delle sacche ospedaliere, vampiri eternamente adolescenti e (tra l’altro) ripetenti a vita perché (come la Meyer insegna) frequentano sempre la stessa classe (pensa che rottura). In sostanza non mi pare abbia alcun senso richiamarsi a una presunta fedeltà al Mito, che nel caso del vampiro non c’è mai stata. Il vampiro è una perpetua trasgressione, anche da se stesso. L’unico aspetto davvero ineliminabile è la sua natura di non-morto che ritorna ad angosciare in vario modo i vivi.

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:45 da Gianfranco Manfredi


- La letteratura italiana che si “occupa” dei vampiri è all’altezza di quella espressa in altre parti del mondo (quella anglosassone, per esempio)?
La scrittrice californiana Chelsea Quinn Yarbro, con cui ho avuto modo di parlare di recente, trova quanto mai naturale ambientare storie di vampiri in Italia. La stessa Meyer ha ambientato alcune situazioni in Italia. Questa tradizione, in America, risale a Hawthorne e Poe. Il nostro strano paese è stato la culla del romanzo dell’orrore moderno, letterariamente (a partire da Dante Alighieri), geograficamente (si pensi alle ambientazioni italiane del gotico inglese), scientificamente (si pensi agli anatomisti del seicento, ai pre-Frankenstein del galvanismo, allo spiritismo positivista).Se dunque l’Italia è insieme scenario e culla del romanzo horror moderno, perché non ha espresso una cospicua letteratura di genere? Forse perché gli scrittori italiani hanno preferito spargere umori “perturbanti” fuori dai confini di genere. Al di là dello specifico tema “vampiri”, c’è un “nero” diffuso italiano su cui richiamava l’attenzione Oreste del Buono e che percorre trasversalmente la nostra letteratura. Un esempio di altissimo livello di come il visionario e l’orrifico non siano affatto estranei alla letteratura italiana moderna è “La pelle” di Curzio Malaparte.

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:46 da Gianfranco Manfredi


- C’è un pregiudizio, da parte dei lettori italiani, a favore dei romanzi sui vampiri di matrice angloamericana (e a svantaggio di quelli scritti in Italia)?
Alla fine dei settanta, dopo aver tradotto per Bompiani “Frankenstein Liberato” di Brian Aldiss, proposi (non dico a chi, ma trattavasi di figura eminente dello stesso gruppo editoriale) il mio “Magia Rossa”. Mi si rispose senza neppure lasciarmi il tempo di esporre il tema del romanzo, che dell’horror in Italia non fregava niente a nessuno. Pubblicai in seguito il romanzo da Feltrinelli senza alcun ostacolo e l’esito fu ottimo. Diversi anni dopo, proposi alla stessa Feltrinelli, il mio “Ultimi Vampiri” e anche quella volta l’idea fu ben accolta. Alla rituale riunione dei venditori però, questi, compattamente, emisero il solito verdetto: dei vampiri in Italia non frega niente a nessuno. A una settimana dall’uscita il libro era già in classifica. Conclusione: non sono i lettori a nutrire pregiudizi. Sono piuttosto i cosiddetti “esperti” a esserne imbevuti. Ma questo non è un fenomeno soltanto italiano. La stessa identica cosa avviene in America. Solo un grande successo riapre la pista e in genere per poco perché la sovraproduzione riseppellisce il vampiro per anni. Se però andiamo a vedere i dati delle letture in biblioteca, segnalano (tanto in Italia, quanto in America) che l’horror e la narrativa vampirica in particolare, a differenza di altri generi, non registra mai flessioni ed è sempre ai primi posti nella scelta e nel gradimento dei lettori. Cioè il flusso editoriale è intermittente, il flusso delle letture costante. Il filtro tra i due flussi sta nella diffidenza per la letteratura popolare di cui si alimenta l’addetto ai lavori medio. La cultura davvero alta, nell’editoria come nelle Università, non conosce queste prevenzioni, né di genere, né nazionali. Per persone di formazione e inclinazione cosmopolita, la letteratura o è universale oppure non è. Il nazionalismo culturale è un residuato bellico.

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:46 da Gianfranco Manfredi


- Avete mai letto “Le notti di Salem” di Stephen King? Che posizione occupa, questo romanzo di King, nella storia della “letteratura vampirica”?
Modesto. Stephen King non si è mai particolarmente distinto riguardo ai vampiri. Sono altri i suoi temi forti. Mi è stato riferito in proposito, dalla Yarbro, un divertente aneddoto. In un convegno letterario, King parlando del suo “Salem’s Lot”, sostenne che era perfettamente plausibile che una comunità vampirica potesse sopravvivere insospettata in America. La Yarbro replicò con un racconto nel quale una comunità vampira del New England (nell’immaginaria città di Jericho) viene smascherata da un ispettore fiscale. Lo inviò a King che rispose: Hai perfettamente ragione, una comunità vampira può vivere indisturbata, ma a patto che paghi le tasse.

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:47 da Gianfranco Manfredi


- A cosa è dovuto il successo planetario della saga Twilight della Meyer?
Sicuramente agli adolescenti, svezzati prima dai “Piccoli Brividi” di Stine e poi dai telefilm di “Buffy”. Erano già predisposti alla Meyer. Brava lei ad accorgersene.

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:47 da Gianfranco Manfredi


- Rispetto all’età dei lettori: il successo di Twilight è generalizzato o è più generazionale? Rispetto al sesso dei lettori: è un successo “di genere” o è indistinto? Che percezione avete, in proposito?
I lettori oggi sono prevalentemente lettrici. I maschi purtroppo leggono pochissimo. Il successo di Twilight è anche un successo di “genere” (nel senso di genere femminile). Completamente diverso dal successo di Harry Potter, che invece va ben oltre il mercato generazionale e alle distinzioni maschio-femmina, come del resto è sempre stato per la letteratura fiabesca che non è mai stata esclusivamente per l’infanzia o l’adolescenza. Dubito fortemente che la saga della Meyer, se resta immutata nei suoi tratti, possa avere la stessa durata e solidità. In genere gli adolescenti al secondo titolo già si stancano, come è vistosamente avvenuto per Moccia. L’onda si allarga accogliendo i ritardatari e i curiosi e grazie a sfruttamenti collaterali come quello cinematografico, ma a ogni nuovo titolo della saga il rallentamento è evidente. Il target degli adolescenti è per sua natura incostante (lo si vede molto bene nella musica pop), per il semplice fatto che crescono. Un adolescente può passare in un anno da Britney Spears al post-punk.

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:48 da Gianfranco Manfredi


- In generale: l’horror può esercitare una funzione “esorcizzante” delle paure legate alla quotidianità e alla vita reale?
L’horror, lo si comincia a leggere da bambini come “prova di coraggio” . La sua funzione è cioè al principio “sciamanica” e simile a quella delle fiabe fosche: condurre al superamento della paura. Questo resta valido nell’età adulta, dove le prove di coraggio da superare si fanno più complesse, cioè meno basiche e “primitive”, pur conservando caratteristiche ancestrali. Il gotico in particolare (che prediligo) è un percorso dalla mostruosità all’elevazione spirituale. Un percorso, non un esorcismo. Cioè, la liberazione dalla paura e dagli incubi non avviene per opera di un celebrante esterno (lo scrittore), ma è esperita direttamente dal soggetto-lettore. Lo scrittore può essere al massimo una guida (il Virgilio che conduce Dante attraverso l’Inferno). Un autore horror dovrebbe sempre guardarsi dal proporsi obiettivi scopertamente consolatori. Non facciamo anche dell’horror una palestra per buonisti, altrimenti siamo davvero rovinati.

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:48 da Gianfranco Manfredi


Ringrazio di cuore Gianfranco Manfredi per le ottime e interessanti risposte alle mie domande e per il contributo notevole allo sviluppo di questa nostra discussione.

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:49 da Massimo Maugeri


Naturalmente siete tutti invitati a interagire, anche alla luce dei nuovi contributi.

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:50 da Massimo Maugeri


In conclusione vi comunico che, dato che questo è un dibattito sui non-morti, ho intenzione di “immortalarlo” all’interno del nuovo volume di “Letteratitudine, il libro” (uscita prevista: dicembre 2010).

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:52 da Massimo Maugeri


Forse domani mi prenderò un giorno di vacanza dal blog… ma tanto ci sono Laura e Simonetta… e poi, ovviamente, ci siete tutti voi.
;-)
Una serena notte a tutti (e ancora grazie per i numerosi interventi).

Postato mercoledì, 3 marzo 2010 alle 23:52 da Massimo Maugeri


Non sono i lettori a nutrire pregiudizi. Sono piuttosto i cosiddetti “esperti” a esserne imbevuti. Ma questo non è un fenomeno soltanto italiano. La stessa identica cosa avviene in America. Solo un grande successo riapre la pista e in genere per poco perché la sovraproduzione riseppellisce il vampiro per anni.

Lo dice Gianfranco Manfredi e io ci credo e lo sottoscrivo. La domanda a seguire, poco attinente al tema vampiresco (o forse no?) e’ questa: agli addetti ai lavori, di qualunque settore, si chiede di cavalcare semplicemente l’onda, di vampirizzare il fenomeno gia’ avviato o di annusare l’aria e capire da che parte girera’ il vento? Forse sbaglio, forse come scribacchina ho la tendenza a considerare coloro che lavorano nel mondo dell’editoria come deus ex machina, ma se a uno stilista si chiede di creare uno stile nuovo, se ad un agente cinematografico si chiede di scovare il nuovo talento che buchi lo schermo, allora perche’ agli agenti letterari si chiede di prendersi cura di chi ha gia’ sfondato le barriere del mercato con decine di migliaia di copie? Perche’ i venditori sono persone che riescono a vendere solo cio’ che in pratica si vende da se’?

Lo so che sono domande cosmiche, ma i vampiri sono tra noi e, nel mondo dell’editoria, succhiano fino allo sfinimento solo coloro che hanno gia’ avuto successo. Un comportamento poco salutare, sia dal punto di vista ematologico, sia dal punto di vista strettamente legato al marketing. Non e’ forse il ricambio dei prodotti la logica vincente del consumismo? ;-)

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 08:49 da Laura Costantini


Pur non essendo un’appassionata del genere horror e della letteratura gotica, rimango molto affascinata da questo post e dagli scambi che ho letto.
Mi colpisce in particolare anche l’aspetto metaforico della figura del vampiro, che molti di voi anno messo in evidenza.

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 09:41 da Amelia Corsi


La prima domanda d Massimo è questa.
Perché la figura del vampiro è così prepotentemente entrata a far parte nell’immaginario collettivo mondiale?
Può sembrare una domanda banale, ma non lo è.
Manfredi sostiene questo: “Non è entrata, c’è da sempre e non ne è mai uscita. Riguarda fondamentalmente il nostro rapporto con i morti. Dunque è un dato antropologico. Qualcosa di più di una figura dell’immaginario”.
Io non sono molto d’accordo. E’ vero che il rapporto con i morti, con la morte, nasce con l’esistenza stessa, e che l’uomo, di conseguenza, ci ha sempre dovuto fare i conti. Secondo me, però, il dato antropologico, rispetto alla fattispecie, si risolve e confluisce nella nascita delle religioni. La figura del vampiro, secondo me, viene dopo. Mi sembra le derivazione della figura demoniaca presente un po’ in tutte le religioni. Di più, la figura del vampiro è una “figura demoniaca” che discende fortemente dalla religione cristiana. Infatti il rapporto del vampiro con la croce cristiana è strettissimo, indissolubile.
Il vampiro è una sorte di anticristo. Se Cristo risorge attraverso la Croce, attraverso la Croce il vampiro ri-muore. Se Cristo dà il proprio sangue per la salvezza dell’altro, il vampiro prende il sangue dell’altro per la propria salvezza.
Una figura speculare. Un angelo della notte: il principe delle tenebre, appunto. E forse è proprio per via di questa sua specularità che è entrato così fortemente nell’immaginario collettivo.

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 09:54 da vincenzo cusumano


scusate i refusi, dovuti alla fretta. Il senso del discorso, tuttavia, mi pare chiaro.
saluti a tutti.

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 09:55 da vincenzo cusumano


Complimenti a Laura Costantini e Loredana Falcone per il loro racconto. Mi è molto piaciuto.

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 09:57 da Amelia Corsi


@Vincenzo: tutto giusto, ma la figura del vampiro era presente molto, ma molto prima della religione cristiana. La troviamo nell’Antica Grecia, a Roma, nella cultura assiro-babilonese e tra i fenici. In questo senso e’ meravigliosa la contaminazione tra dato storico e fantasia che ne fa Ann Rica immaginando la creazione stessa del vampiro, nato dal connubio tra un demone assetato di sangue e la carne umana.

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 10:04 da Laura Costantini


@Amelia Corsi: grazie, anche a nome di Loredana :-)

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 10:05 da Laura Costantini


Sottoscrivo in pieno quanto scritto da Gianfranco Manfredi, che è un maestro e un punto di riferimento. In particolare ha messo il dito sulla piaga – è il caso proprio di dirlo – di un paio di snodi a mio avviso fondamentali.
Intanto il fenomeno Meyer è un falso problema in prospettiva “letteratura vampirica e affini”: lì a fare da traino è la storia d’amore, il romance, condito di elementi fiabeschi (il fatto che siano dei vampiri è abbastanza casuale alla fine). Dunque poco o nulla c’entra. Il fenomeno Meyer è interessante in chiave di sociologia della letteratura tout court, semmai.
Secondo punto: i lettori. E qua giù la maschera: se i libri italiani di vampiri, zombie e affini non creano addiction nei lettori nostrani, il problema è del libro (i controesempi ci sono: i libri di Manfredi vendono, e bene). Vuol dire che finora non sono stati scritti libri efficaci, intriganti, *** (mettete l’aggettivo che più vi trova in sintonia), perfino ruffiani, perché no? (anche essere ruffiani e bucare la pagina non è facile, tutt’altro, ci vuole, come diceva il buon Montale, un mix di genialità e imbecillità). Probabilmente per funzionare l’horror non deve essere fine a se stesso, pura marmellata splatter, ma deve essere metafora, allegoria di qualcos’altro. Prendete un libro meraviglioso, stranamente (tutta invidia?) non ancora citato: “Lasciami entrare” dello svedese Linqvist (il libro, non il film, che purtroppo è molto più semplicistico). Lì il vampiro è metafora della condizione adolescenziale, del passaggio di età, dell’incomunicabilità, dell’amore che ti rende schiavo, ecc. Non c’è mai compiacimento sul vampiro in sé, che invece è sempre tratteggiato in chiave psicologica. Non a caso è stato un bestseller. Non a caso perché ha saputo cogliere qualcosa dello “Zeitgeist”.
(Vero è che le problematiche legate al lettore sono dannatamente complessse. Ad es. da noi manca la percezione dell’orrore come mezzo di conoscenza, percezione molto viva fin da sempre nel mondo anglosassone. Per cui forse partiamo svantaggiati su questo fronte. Poi i gusti comunque variano da cultura a cultura spesso, e ciò che è bestseller in Olanda, poniamo, qua vende due copie. Penso a un meraviglioso libro sugli zombie uscito da noi per Cooper, World War Z, di Max Brooks, praticamente passato sotto silenzio. Oppure, per cambiare ambito, il thriller scientifico “Un semplice caso crudele” di Juli Zeh, super-mega-bestseller in Germania, e qua da noi totalmente ignorato. Perché?)

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 10:19 da Flavio Santi


Sì, però la figura del vampiro che “è così prepotentemente entrata a far parte nell’immaginario collettivo mondiale” per come la conosciamo noi oggi è quella che ho descritto e che è divenuta popolare dopo il Dracula di Bram Stoker. Non so se sei d’accordo e cosa ne pensano gli altri.
Ancora saluti a tutti.

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 10:20 da vincenzo cusumano


Il filosofo Arona raccoglie il lancio del Master De Crescenzo e, sbilanciando il suo ordine di risposta, propone una considerazione risalente al ‘95 appartenente a Michele Serio, scrittore – mi pare – napoletano (Pizzeria Inferno) che già allora sosteneva quanto: l’horror è dilagante in molti altri generi, da quelli più ovviamente contingui ad altri meno sospetti e verrà il giorno che sarà il vero collante di tutte quante le categorie estetiche della società (certi telegiornali, compresi…). Ed è chiaro, già da qui, come l’horror esprima nel profondo – ma anche un po’ più su – la ormai cronica dimensione di alterazione coscienziale e di disagio collettivo che più o meno tutto il mondo vive dall’11 settembre. Citando un vero filosofo, Virilio, noi viviamo tutti i giorni a stretto contatto con l’idea di Apocalisse, perché cìè un’Apocalisse permanente nei cervelli di chiunque dal momento in cui ci risvegliamo. Naturalmente quasi tutti lo negheranno, perché trattasi di meccanismi non consapevoli né percepiti e perché poi c’è nella società una bella fetta di personaggi-marketing che “normalizzano” gli eventi con il filtro che “è tutto normale, tutto sotto controllo, tutto statiscamente prevedibile” (un bell’esempio qualche giorno fa: si stacca dall’Antartide un iceberg grande come il Piemonte ma il riscaldamento globale non c’entra nulla… ma si sprecherebbero gli esempi e andremmo fuori tema), però chiunque in Occidente vive con questa spada di Damocle, con l’informazione sepolta della strage in aereo, alla stazione o l’onda anomala di 8 metri che ti ghermisce DENTRO una nave da crociera (appena successo… ma già tutto visto sul Poseidon), Che voglio dire? Che a livello mediatico – e quando vogliono tranquillizzarci ottengono risultati opposti – Tutto è Paura: il futuro, l’ignoto, il nuovo, il vecchio, la bolla, il cibo, l’amore, la morte, la notte, la solitudine, la malattia, lo spazio, il sottosuolo, il gay, il migrante… non c’è soggetto-oggetto che non possa essere spiegato e identificato con la Paura. E naturalmente con l’orrore, il thriller, il grottesco, lo splatter e quant’altri mai elemento di quella vasta Zona crepuscolare, visionaria e culturalmente “alta” che per comodità di definizione chiamiamo “horror”. In tutto questo sedimentare di idee cozzanti e vaganti, si appura innanzitutto che “l’horror non abita più qui” ma ha debordato, aggiudicandosi il potere di spiegare al mondo- se volessimo… – persino i misteri della politica italiana (ah, Dan Simmons, come volteggiò sul tema con Danza Macabra…) e si annota anche che i vampiri in tutto ci azzeccano e ci marciano alla grandissima. Perché, “sotto”, ci ricordano – nelle viscere – che il vampirismo è soprattutto “contagio”, l’ossessione planetaria di questi anni sbarellati. Contagio come terrore del contatto con lo straniero. Contagio dei corpi malati. Contagio erotico da contrapporre alla campagna puritana in atto sul pianeta…. E tanto, troppo sangue sversato sull’altare del consumo quotidiano (che neppure ai tempi del Vietnam televisivo…): le stragi, corpi straziati all’ora di colazione, mass murders familiari, le 97 coltellate della strage di Novi contro i 9 anni di galera di Omar Favaro… Insomma, i vampiri sono fra noi (Volta) e Io credo nei vampiri (De Rossignoli) da decodificare come verità e pulsioni in cronaca… Pant, stacco un attimo, mi esce SANGUE dal naso!

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 10:29 da Danilo Arona


Prendete un libro meraviglioso, stranamente (tutta invidia?) non ancora citato: “Lasciami entrare” dello svedese Linqvist

Perche’ invidia? Quel libro non l’ho ancora letto, ma e’ in lista. Non ho visto il film. Immagino che Flavio non intendesse aprire un dibattito in questo senso e quindi mi scuso preventivamente, ma sono un po’ stufa di sentir dare dell’invidioso a chiunque per il semplice fatto di non aver dato lustro a questo o quell’autore. In questo sono una seguace di Stephen King che scrisse: leggete! Leggete sempre, con la massima ammirazione, se il libro lo merita, o con il massimo disprezzo, se non lo trovate brutto, ma leggete.

Io, nel mio piccolo, ammiro sfegatatamente, se e’ il caso. E ignoro, se a mio giudizio il libro non vale. Ma non invidio il successo di nessuno. E vorrei che qualcun altro si esprimesse su questo punto. E’ vero, secondo voi, che gli scrittori sono una massa di serpi invidiose di chi vince il premio, becca la recensione, sbanca il botteghino? Siamo veramente cosi’ miserabili, oppure ci dipingono cosi’?

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 10:33 da Laura Costantini


@Vincenzo: si’, lo stereotipo e’ quello tramandato da Bram Stoker. Ma a me affascina molto la figura del vampiro precristiano, del vampiro/demone che non teme nulla, tanto meno due pezzi di legno legati a croce :-)

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 10:34 da Laura Costantini


Laura: naturalmente la mia era una provocazione, calata infatti tra parentesi. (Non è il caso di spostare il baricentro della discussione sull’argomento, perché adesso si parla di vampiri e molto bene, e l’ultimo post di Arona, ad es., è molto illuminante. Però visto che siamo in argomento lancio una proposta a Massimo Maugeri per un prossimo dibattito: l’invidia degli scrittori. Che non è, come potrebbe sembrare, un argomento così pellegrino, visto che gli scrittori sembrano così solidali con tutti i vizi capitali, tranne l’invidia e poco altro – tutti golosi, lussuriosi, accidiosi ecc. Per fortuna ci sono Alessandro Piperno e Martin Amis a ricordarci come l’invidia sia un sentimento molto ambiguo e potente, che può anche trasformarsi in singolare carburante creativo – l’ammirazione è un sentimento statico, l’invidia è dinamico, ma per questo e altro magari a un’altra occasione).

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 10:52 da Flavio Santi


@ Laura, sono d’accordo con te. Caro Flavio, se alcuni dei nostri libri non vendono bene non è detto che non siano efficaci, intriganti ma perché se pubblicati con una piccola casa editrice TE LI SCAFONANO IN FONDO AL PIU’ REMOTO SCAFFALE!! Senza offesa, ma i libri di Feltrinelli, Mondadori, Einaudi, Sperling e via dicendo sono esposti in bella mostra, non puoi non vederli e quindi è facile che conquistino anche il lettore che non conosce l’autore. Le librerie sono le prime a fare questa selezione quasi nazizta e lo fa perché sa bene che vende il grosso editoe più del piccolo sconosciuto, ovviamente. Ma io sostengo (e mi batto) che piccola o media casa editrice non vuol dire piccolo o medio prodotto. Non è sempre necessario acquistare un bestseller per avere una buona lettura. Però ci devi faticare, farti amico il libraio, controllare se il tuo libro è ancora lì, sullo scaffale. Con VAMPIRI ho avuto più fortuna in quanto la Gremese ha un maggior credito nelle librerie ma poi ci si cheide perché la corsa al grosso editore: perché sennò nessuno sa che esisti, purtroppo. Tanti piccole realtà meriterebbero ma le barriere sono troppe, e lo scrittore non decolla.
Per ciò che riguarda l’essere scrittore, invece, cara Laura, di serpi ce ne sono eccome, dietro ogni angolo. L’importante è battere sentieri in cui sai di non incontrarli.

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 11:03 da Simonetta Santamaria


@ Flavio: non conosco abbastanza il mondo degli scrittori per dirlo, ma nel mio piccolissimo – almeno per ora – ho trovato simpatia, accoglienza e sostegno. O almeno così mi è parso. Non ho percepito un’atmosfera da “nido di vipere” , ma naturalmente posso sbagliarmi (forse nel mio caso non c’è nulla da invidiare, tutto qui)
Sono sicuramente invidioso – spero nel senso buono, perchè di certo non ci perdo il sonno alla notte – di chi scrive un libro che vende moto. Gli invidio le entrate, non la gloria. Un libro può essere buono e non vendere, essere buono e vendere, fare schifo e vendere, fare schifo e non vendere. Personalmente, neanche a farlo apposta, Lasciami entrare non mi è piaciuto, il che – ovviamente – non significa che non sia un buon libro. Semplicemente non incontra il mio gusto. Tutto qui. Valutare un libro non è come correre i 100 metri, dove c’è un cronometro imparziale a stabilire chi ha fatto meglio. I parametri variano continuamente e – fatte salve le solite eccezioni nel bene e nel male – tutto è opinabile. Anche per la stessa persona (romanzi che mi piacquero vent’anni fa ora mi lasciano freddo, e viceversa). Per ciò che concerne il “qualcos’altro” e “l’allegoria” ti rimando al mio posto precedente dove si dice – mi pare – proprio questo.

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 11:30 da claudio vergnani


@Flaivio: l’ammirazione è un sentimento statico, l’invidia è dinamico

Sara’, preferisco ammirare oppure criticare, non invidiare. E credo che la mia fantasia sia in grado di galoppare anche senza il pungolo di un sentimento cosi’ inutile e negativo quale l’invidia. Se poi galoppi su sentieri gloriosi o su stradine solitarie, questo e’ un altro paio di maniche. Ma dubito fortemente che le grandi opere della letteratura abbiano avuto bisogno dell’invidia per essere partorite.

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 11:37 da Laura Costantini


@Simonoir: Le librerie sono le prime a fare questa selezione quasi nazista e lo fa perché sa bene che vende il grosso editore più del piccolo sconosciuto, ovviamente.

Vero, ma non troveremo mai un libraio disposto ad ammetterlo. Devo ancora trovare un libraio che consigli libri al di fuori delle classifiche di vendita e per me che non ho mai puntato all’arricchimento, quanto piuttosto alla possibilita’ di raggiungere il maggior numero possibile di lettori, e’ una cosa inconcepibile. Non c’e’ proprio piu’ niente che non sia soggetto a regole di mercato. Tutti a sacrificare sull’altare del dio denaro.

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 11:40 da Laura Costantini


L’idea che il vampiro derivi dall’idea cristiana di Diavolo risale a Voltaire, ma invito tutti a leggere il capitolo dedicato ai vampiri dal grande antropologo James George Frazer nel suo Le religioni primitive. L’idea di vampiro è intimamente legata al rapporto tra vivi e morti e ai rituali di seppellimento, è presente in tutte le culture del mondo (dagli eschimesi ai Maori) e risale a millenni prima del cristianesimo (la nostra idea della Storia umana è in genere troppo corta, alcuni miti egizi cui si ricollega il cristianesimo e la figura stessa di Cristo strettamente imparentata con Horus, risalgono al 3000 A.C.). Smettiamola col ritenere che il cristianesimo sia la religione suprema, questa è una bufala suprema. Una volta Paolo De Crescenzo disse in risposta a un’intervista, che il cristianesimo e in particolare la Chiesa cattolica tende a pretendere il monopolio sulle questioni legate alla vita e alla morte. La sopravvivenza della letteratura vampirica testimonia che l’elaborazione del tema va ben al di là dell’appartenenza confessionale. L’idea stessa di vampiro mette profondamente in crisi la teologia cattolica: se la resurrezione dei corpi non è post-apocalisse, ma è possibile in QUESTO mondo, l’idea stessa della salvezza va in crisi, come molte altre ad essa collegate. Nella letteratura italiana pre-Dante si ammetteva (da parte di autori vicini al cattolicesimo) che il demonio potesse resuscitare i morti sulla terra servendosi del loro corpo, poi però secoli dopo, e proprio in epoca di peste vampirica, la Chiesa Cattolica rinnegò questa convinzione. Il Papa che più si battè per escludere la possibilità dell’esistenza dei vampiri fu Benedetto XIV (1675-1758). Ci avete fatto caso che l’attuale papa ha voluto chiamarsi Benedetto XV? Il centro del suo messaggio sta proprio nel ristabilire l’autorità indiscussa e universale della Chiesa Cattolica sui temi della vita e della morte.

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 11:45 da Gianfranco Manfredi


chiedo scusa a tutti se è da un po’ che non intervengo assiduamente. leggo sempre, ma il tempo per commentare si è ridotto :(
però l’argomento di questo post è particolarmente affascinante.

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 11:50 da letizia


@ Laura: e qui torniamo al discorso del marketing, dunque.
@ Claudio: concordo. E anche a me Lasciami entrare non m’è piaciuto. Se analizzato dal punto di vista strettamente horror, l’ho trovato lento e noioso. A livello di significati e metafore, forse… ma non è quello che cerco in un horror.
E non credo che siamo tutti totalmente scevri di invidia; non cerdo nel totale buonismo di sentimenti. Credo invece che un’invidia buona, come l’ha definita Claudio, sia quella certa spinta che t’impone di andare avanti, cercare di meglio. Un sentimento dinamico mi pare un’ottima definizione.
@ Danilo: Michele Serio è sì un bravissimo scrittore napoletano, simpaticissimo nonché mio amico.

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 11:52 da Simonetta Santamaria


non essendo una esperta, non mi addentro in argomenti tecnici che non conosco. però raccolgo la provocazione di flavio santi, senza voler spostare il dibattito fuori argomento.
l’invidia è un sentimento umano, ed è forse uno dei più diffusi. in quanto sentimento umano diffuso è evidente che esista anche tra gli scrittori e tra gli artisti in generale. anzi, paradossalmente, dato che secondo me l’artista è un egocentrico ( lo dico non necessariamente in senso negativo ), l’invidia in campo artistico è all’ordine del giorno forse ancora più che in altri ambiti.
non credo sia un bene, perché è fondamentale la distinzione tra competizione (che è sì un sentimento dinamico) e l’invidia ( che è un sentimento che , secondo me, nuoce sia chi lo riceve sia chi lo manifesta).
quello che ho apprezzato in questo blog è il tentativo di dare spazio allo spirito di condivisione,al confluire delle voci, che va in direzione opposta rispetto a quello dell’invidia

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 11:56 da letizia


una domanda in tema con il precedente commento potrebbe essere: ma il vampiro è un essere invidioso? ciao a tutti :)

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 11:58 da letizia


Laura: anch’io tifo per l’ammirazione (la frase è una citazione da Amis), però cerco sempre di pormi in maniera critica e di vedere le cose con il maggior numero di punti di vista possibile (migliori, peggiori, ecc.). Certo, poi come dice Ovidio “Video meliora proboque deteriora sequor”, e lì è un altro paio di maniche, e a me scatta il dubbio – anche perché io sono un essere imperfettissimo e le mie invidiuzze le ho avute e le ho, perché negarlo? Perciò mi chiedevo: l’invidia è un sentimento esecrabilissimo, certo, però non ha un che, paradossalmente o no, di potentemente creativo o distruttivo? Trovo solo un po’ semplistico liquidarlo come una cosa che non ci tocca, tutto qui. Ma parliamo di vampiri – che a ben pensarci sono dei gran invidiosi, invidiano il sangue, l’amore, noi umani…

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 12:01 da Flavio Santi


i vampiri invidiano il sangue o ne hanno semplicemente bisogno per sopravvivere?

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 12:03 da letizia


Riguardo all’altro tema, tra i più trattati in questo forum, e cioé il rapporto editori-scrittori-vampiri, suggerisco il racconto di Poe “Vampiri a Manhattan” pubblicato in Italia da Shakespeare & Company nell’antologia di Poe “Scritti ritrovati” (1984). Il racconto di Poe si apre con una nota del Sindacato Scrittori in merito alla “rapacità degli editori che ingrassano sul sangue degli scrittori” . Poe mette in satira questo atteggiamento. L’ansia degli scrittori nasce dalla pretesa di essere sempre pubblicati “ad alta tiratura” naturalmente al nobile scopo di “elevare la qualità della vita del Paese”. Segue un mini dramma in sei atti, intitolato La Tragedia dello scrittore Vampirizzato ovvero Il perfido editore succhiasangue. Vi si ricorda: 1. che gli editori abitualmente non leggono i manoscritti, casomai si limita a “catalogarli”; 2. che al cospetto dello scrittore, fingono di averlo letto; 3. che il valore di un’opera sia per l’editore che per lo scrittore si misura sull’entità dell’anticipo; 4. che dopo infiniti tira e molla, il povero scrittore offre la propria opera gratis purché venga pubblicata oppure segnalata e raccomandata ad altro editore; 5. che lo scrittore trova la sua opera pubblicata “su carta di infima qualità, rilegata con copertina di colore sporco, e venduta al dettaglio per non più di un misero quarto di dollaro”, eppure lo scrittore se ne appaga ugualmente con queste precise parole :”dopotutto ho avuto anch’io il mio quarto d’ora di gloria” (alla faccia di Andy Warhol… Poe lo aveva anticipato); 6. nel finale lo scrittore muore e un editore inglese annuncia la pubblicazione delle sue opere, che grazie all’effetto morte ora venderanno molto di più. Senonché lo scrittore resuscita come un vampiro. L’annuncio lo ha fatto rivoltare nella tomba e risvegliare per la rabbia. Nella sua nuova vita vampirica, decide però di fare il calzolaio.

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 12:09 da Gianfranco Manfredi


Un’ultima cosa e poi non rompo più – ho rotto fin troppo, credo.
Sarebbe interessante a questo punto interrogarci, ognuno di noi, su cosa cerchiamo in un horror (lo spunto me l’ha dato Simonetta, grazie!, quando ha detto che non le è piaciuto Linqvist, e che lei cerca altro nell’horror: benissimo, che cosa? Ecco, magari proviamo, ognuno di noi, a fare il decalogo dell’horro perfetto, che dite? è un gioco, ma potrebbe essere utile a semplificare e sintetizzare le varie posizioni).
Grazie e ciao.
Flavio

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 12:11 da Flavio Santi


@ gianfranco manfredi
:-D

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 12:11 da letizia


@ Giancarlo: Prospero Lambertini, alias papa Benedetto XIV, scrisse anche il trattato “Vampiri al lume della scienza” nel 1749.in cui han tentato di smontare con la logica fenomeni a suo avviso inconoscibili in quanto impossibili, perché contrari non solo alla fisica ma soprattutto alla teologia: se solo Cristo e i suoi fedeli possono risorgere, il vampiro come entità maligna deve essere per forza un’illusione o un fenomeno meccanico non definibile come resurrezione.

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 12:11 da Simonetta Santamaria


@ Flavio: fico! Parliamo di film o libri?

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 12:13 da Simonetta Santamaria


@ Simonetta: tornando a quanto dicevi tu sulla distribuzione e sulla visibilità delle case editrici piccole, concordo pienamente. Devo anche ammettere però che io per primo – per banalissimi motivi economici – da qualche anno mi servo essenzialmente della biblioteca, che purtroppo (dico non a caso purtroppo, paradossalmente) è molto fornita e aggiornata. Esempino terra terra: il mio libro – Il 18° vampiro – è presente in tutte e tre le succursali cittadine della biblioteca (e Modena non è New York) e il libro è sempre in prestito in tutte. Rientra, è prenotato e riesce. Ottima cosa, da un certo punto di vista, però non posso fare ameno di chiedermi quanti tra quei lettori, se il libro non fosse stato presente nelle biblioteche, magari lo avrebbe acquistato. Si parla ovviamente di numeri molto piccoli, però, insomma …

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 12:13 da claudio vergnani


l’idea del decalogo dell’horror perfetto mi pare geniale. si potrebbe arrivare, dopo varie contrattazioni, alla formulazione di un documento condiviso. alla faccia dell’invidia.
:)
che ne dite?

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 12:14 da letizia


sono d’accordo. Si potrebbe ragionare anche al contrario. Scrivere, cioè, tutto quello che un orror perfetto non dovrebbe contenere.

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 12:27 da seby


Il decalogo dell’horro perfetto? Roba da far ghiacciare il sangue nelle vene. Non so se sono in grado di produrne uno. Sono una kinghiana convinta, leggo un po’ di tutto, ma non scrivo horror (non ancora) e… insomma, posso provarci, ma non garantisco.
Per cominciare: a me fa paura cio’ che non e’ definito, catalogato, descritto nei particolari. Pur avendo visto numerosi film horror, la scena che mi ha veramente fatto saltare sulla poltrona e’ contenuta nel primo Alien (propriamente un film di fantascienza): il capitano dell’astronave decide di andare a stanare il mostro nei condotti di aerazione. Fino a quel momento nessuno lo ha visto bene, piu’ che altro hanno visto i risultati dei suoi attacchi. Il capitano si avvia carponi nel tunnel buio, seguito via computer dalla Weaver. E’ lei ad accorgersi che una specie di sonar invididua un’altra presenza nel tunnel, una presenza sempre piu’ vicina ma che il capitano, in un dialogo concitatissimo, non riesce a vedere. Fino a quando non e’ troppo tardi.
Ecco, in un horror cerco la paura distillata allo stato puro, la paura dell’ignoto che e’ tanto piu’ grande quanto piu’ ignoto resta il pericolo.

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 12:41 da Laura Costantini


Solo un commento al volo per complimentarmi con tutti i partecipanti (e ovviamente con l’ideatore Massimo) per l’interessante e feconda discussione, che ho seguito, sto seguendo e seguirò con molta attenzione. Da parte mia, la letteratura horror – ancorché gotica – ha “coperto” le mie letture ormai una decina di anni fa, limitatamente ai classici (Walpole, Shelley, Stoker, Meyrink poi Poe e Lovecraf, qualcosa di King), quindi non sono molto “competente” sulle tendenze attuali, ammetto che devo aggiornarmi (ma questo post è utilissimo in tal senso!). Un saluto a tutti!!

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 12:42 da Luigi Grisolia


Cosa cavolo significa “decalogo dell’horror perfetto?” Nulla. Chi pensa che alla base di una narrazione ci possa essere una ricetta non sa nulla di letteratura. Il fantastico in particolare è legato all’inconscio. L’idea contemporanea secondo cui la tecniche della scrittura e la scelta di temi base siano fondamento della creatività, è un colossale imbroglio mercantile. Le scuole di scrittura creativa coltivano e dilatano questo pericoloso equivoco. Suggerirei invece Scuole di lettura, perché se non si impara a leggere, difficilmente si impara a scrivere. Suggerirei anche di partecipare a iniziative che stanno appena fiorendo in italia, ma già molto diffuse all’esterno. Mi riferisco alla cosiddetta “persona-libro”. Consiste nel leggere ad alta voce (leggere non recitare) racconti, brani letterari o interi volumi per capitoli in pubblico, sia presso case di amici, sia per strada. La diffusione orale della letteratura è stata fondamentale per la vita dei romanzi alle sue origini. Lo strano caso del dottor Jekill e Mr. Hyde di Stevenson vendette al momento dell’uscita venticinque mila copie, ma la sua eco fu immensa perchè ogni copia veniva d’abitudine letta ad alta voce in famiglia, tra gruppi d’amici , in sale conferenze e altri luoghi pubblici. E’ questo a cui dobbiamo lavorare: alla rinascita della tradizione orale, al piacere di raccontare e di raccontarci storie gli uni gli altri. E’ leggendo e raccontando a voce che si scopre l’arte del narrare, non compilando ricette.

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 13:16 da Gianfranco Manfredi


@ gianfranco manfredi
mi sa che ha preso l’idea del decalogo un po’ troppo sul serio. credo si tratti di una specie di gioco. nulla di più.
bella l’idea della “persona-libro”.

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 13:39 da letizia


comunque, a proposito di ricette e di vampiri http://www.halloween.it/italia/ricette/sangue_provetta.htm
;)

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 13:41 da letizia


M’inserisco su un tema delicato che è stato sfiorato, quello dell’invidia… intorno alla quale mi sto rendendo conto che molti di voi danno ragione a una tesi primaria di qualche giorno fa (siamo in cuor nostro tutti vampiri… sì? no?), l’invidia dello scrittore come metafora dell’invidia del vampiro – lo scrittore negletto che invidia il suo analogo di successo e il vampiro non amato che invidia l’amore, fisicamente non eterno, dei mortali – Possono quagliarsi reciprocamente queste due posizioni ideali?
Vediamo… Un po’ di tempo fa, sconcertando la platea, Claudia Salvatori se ne uscì sostenendo che lo scrittore “è l’essere più narciso e ipocrita nel suo campo di azione” e “che gli scrittori, quando si dichiarano solidali ai propri simili, mentono sapendo di mentire” (metto un virgolettato simbolico, ma il concetto espresso da Claudia era esattamente questo…). Io ero – forse sono ancora – tra gli sconcertati (ma non ritengo di stare ad assillarvi con quanto mi suggerisce al proposito la pancia perché non suonerei credibile…), però Claudia non parlava né a vanvera né a sproposito. La ragazza, mia cara amica – dalla cui esistenza come scrittice non mi sento affatto minacciato nella mia integrità di scrittore -, ha credo provato sulla sua pelle il peso di una “pericolosa diversità” all’interno dell’invisibile mondo degli Scriptori. Esistono queste problematiche, non fingiamo il contrario, soprattutto per chi vuole usare il genere in senso “contro” o in chiave “meta”: esistono a cominciare da uno strisciante isolamento dell’artista in oggetto. Presumo che l’horror, come campo d’azione mestierante di uomini e donne che ne scrivono, si presti – o debba farlo – a un uso sovversivo dei suoi codici (per dirla con Paco Taibo, sovvertire il genere per affermarne l’universale funzione di macrocategoria), ma presumo anche che chi lo sovverte sul serio corre il rischio di non incontrare l’apprezzamento dei suoi simili (simili che poi forse tramutano supponenze in invidia nei confronti di chi è giudicato un po’ troppo avanti dalla critica…). Non conosco le vicende di Claudia così bene, ma so per certo che Claudia è un oggetto scomodo all’interno dei generi – non sai mai dove e come “catalogarla”, fattore sulla mia agenda di totale pregio… Ma, estrapolando anche qualcosa di me e del mio percorso, garantisco che i soggetti che deviano sono un po’ invidiati e un po’ detestati (parliamo sempre di meccanismi non sempre consci…) e spesso volutamente “ignorati”. Ci sono 2 anime nell’horror: semplificando al massimo banalizzabile, l’una è restauratrice (trionfo della luce sul buio, i mostri che vengono sconfitti, il paletto vendicatore che disintegra il vampiro, insomma si è capito…), l’altra no (non sto a dire rivoluzionaria, ma un po’ sovversiva sì…) perché “sperimenta” le mille possibilità intrinseche del genere di scagliarsi contro le stesse fondamenta del gotico nonché di proporsi come scheggia metalinguistica subdolamente vagante… Insomma, scrittrici e scrittori della 2° categoria appaiono un po’ come rompicoglioni, perciò passibili d’invidia per il coraggio dimostrato di romperle a tutti. Forse l’ho già detto, ma se l’horror non osa, non ha molto senso. Però dentro il genere ci stanno tanti che non osano mai, propongono compitini pulitini che inquietano ma poi alla fine tranquillizzano, e che di sicuro invidiano gli Altri – i veri abitanti dell’isola di Lost – che lo fanno perché “quella è la Mission”… Non so se l’antifona è chiara. Ma probabilmente non si è scrittori se non si è narcisi. Per “L’estate di Montebuio” ho ricevuto lodi sperticate da chiunque. Ho fatto una statistica della pertinenza territoriale dei recensori con 4 stellette: nessun scrittore… ah, no, uno straordinario e super partes che si chiama Sergio Altieri che sempre legge quel che deve leggere…, per il resto confermo: nisba. Sintomatico: scrivi un’opera “contro “, “meta” – che attacca persino l’editoria e gli scrittori del gruppo addetto al Restauro, e nessun collega che ti dica niente. Invidia? Invidia di un presunto coraggio? Sospetti strani sul fatto che “Montebuio” vada stretto al genere? Boh, che ne so… Però uno scrittore qui presente – se vuole, può svelarsi – tanti anni fa mi disse: “Tu hai un bel coraggio a scrivere l’horror che scrivi”… Lo presi come un complimento, chissà se lo era?…
Ciò detto, chiudo con Arona (perché il Narciso sta prevalendo) e lancio quel che mi attendo io dall’horror (che però è diretta conseguenza del discorso sui Narcisi…): io voglio un horror che mi parli delle paure di oggi, delle Twin Towers e dell’energia demoniaca che circola per il pianeta – quella che entra nei cervelli e che arriva in cronaca alla voce “omicidio inspiegabile” – , voglio un horror che mi racconti l’Apocalisse in atto, le poesie di Bondi, la Tanatosfera e il Progetto HARP. Voglio un horror che non mi faccia dormire e che sia totalmente VEROSIMILE (perché, smettiamola di far distinguo tra Reale possibile e Giochino intellettuale…), vampiri, demoni e fantasmi sono anche entità verosimili… Io ne ho incontrato qualcuno, ma non è più argomento da forum… Acc, ricomincia il sangue dal naso!

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 13:42 da Danilo Arona


Avrei una domanda da porre agli esperti. Più che una domanda è una curiosità. O meglio una domanda che mi sono posto io stesso più volte senza darmi risposta. Mi riferisco ai vampiri, ma si potrebbe estendere al genere horror (o letteratura del brivido) in generale.
La domanda è: secondo voi oggi è più facile o più difficile incutere paura scrivendo storie, rispetto al passato?

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 14:17 da Romeo Antoci


Che cavolo, Danilo! Ti esce il sangue dal naso e lo sprechi così… Pensa quante vampire, o aspiranti tali, sarebbero pronte a correre per lapparlo fino all’ultima goccia…
In quanto all’idea della persona-libro, anche se in termini un po’ diversi, mi sembra ci avesse già pensato tempo fa un certo Ray Bradbury che, se non sbaglio, è uno dei tuoi modelli di riferimento, isn’t it?

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 14:36 da Paolo De Crescenzo


Bradbury, yeah… Il mio amico Gian Maria Panizza, quello dell’Ora del Lupo (le tre del mattino), sostiene che Bradbury ha già scritto tutto prima di tutti… Sul sangue dal naso tranquilli… E’ la metafora della pressione creativa che sale sino a quando non suona la campanella della ricreazione. Ho scoperto con una certa sorpresa che i forum m’infiammano… C’è un meccanismo perverso che vado a studiare, un “rapporto di sangue” tra i forumisti…

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 14:48 da Danilo Arona


L’idea contemporanea secondo cui la tecniche della scrittura e la scelta di temi base siano fondamento della creatività, è un colossale imbroglio mercantile. Le scuole di scrittura creativa coltivano e dilatano questo pericoloso equivoco. Suggerirei invece Scuole di lettura, perché se non si impara a leggere, difficilmente si impara a scrivere

Mi dichiaro disposta a fondare il fanclub di Manfredi. Se non esiste. Se esiste mi iscrivo subito, anche pagando la tessera se necessario :-)

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 14:50 da Laura Costantini


@Danilo Arona:
Per “L’estate di Montebuio” ho ricevuto lodi sperticate da chiunque. Ho fatto una statistica della pertinenza territoriale dei recensori con 4 stellette: nessun scrittore…

Non so se posso considerarmi una scrittrice, ma il tuo libro e’ in lista di lettura. Ti faro’ sapere ;-)

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 15:05 da Laura Costantini


@ Romeo Antoci
qualcuno l’ha scritto anche prima. storie come quelle dei vampiri, vengono lette maggiormente quando aumenta la paura del reale. dunque, non so se oggi è più facile o più difficile incutere paura scrivendo storie di vampiri, ma forse ce n’è più bisogno proprio per esorcizzare o controbilanciare la paura del presente.

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 15:59 da seby


Claudia Salvatori, caro Danilo, è una scrittrice notevolissima, Nel mio caso credo lei non possa dire né che io l’abbia invidiata, né trascurata, dato che appena ho letto il suo romanzo Superman non deve morire (dove tra l’altro mi infilava come personaggio pur non avendomi mai conosciuto) , l’ho contattata, invitandola anche a collaborare come sceneggiatrice prima con la Dardo, poi con la Bonelli. Ha anche pubblicato un romanzo con il mio editore Tropea cui l’avevo segnalata. Tra le ultime cose sue, la sua Valchiria Nera mi ha entusiasmato. Un po’ meno , anche se brillante, il suo Sorriso di Anthony Perkins. Posso però dire, senza invidia alcuna, che il suo ultimo Abel invece non mi ha convinto affatto? Il protagonista è uno zombie giovane, bello e sapiente. Questo è uno di quei casi che per quanto io sia alieno dai mainstream e aperto a tutte le devianze possibili, mi lasciano assai perplessi. Lo zombie è un uomo massa, del tutto spossessato da pensieri autonomi e da passioni umane, a parte la fame atavica e una disordinata memoria di comportamenti meccanici. Se diventa una sorta di genio ordinatore, principe delle creature dannate e persino dotato di buoni sentimenti e di senso umanitario, che fine fa lo zombie? In questo dibattito, molti hanno sottolineato la stessa cosa riguardo ai vampiri della Meyer. Dando per scontato che i miti sono mutanti, e in costante adattamento e trasformazione, c’è un limite non valicabile oltre il quale diventano irriconoscibili. Se resta soltanto il Nome, temo finiscano per somigliare alle patate transgeniche che alla lunga non sono più nemmeno patate, ma solo etichette di patate. L’attualizzazione, se diventa un nuovo abito di comodo, pura confezione per intrigare il consumatore del momento, è pericolosissima. A me sinceramente, non frega nulla delle Torri Gemelle sul piano del racconto horror. Mi frega invece molto di quel simbolico che è all’origine di quanto raccontiamo anche se non ce ne rendiamo conto. Nel Satyricon di Fellini si vedono i Budda Afgani sforacchiati dalle pallottole, vent’anni prima che il fatto accadesse. In Fight Club si vedono crollare le torri prima che l’attentato venisse addirittura pensato. Questo vuol dire che la visionarietà insita in un racconto ha tratti profetici e ciò non sarebbe possibile se i simboli non sprigionassero la loro forza in noi. Invece di limitarsi ad accogliere ed elaborare la cronaca, uno scrittore con la propria immaginazione può anticipare gli eventi. Questo è accaduto spessissimo e ben al di là di quel genere di narrativa di anticipazione che é la fantascienza. La visione, nel pensiero degli Indiani d’America cui sono molto legato, è percezione onirica di quanto era implicito nel passato, cova nel presente e si rivela nel futuro. Questo è anche uno dei motivi per cui molti autori “fantastici” vengono riscoperti a distanza di decenni. Rileggendoli ci si accorge di quanto siano stati anticipatori, mentre all’opposto autori sempre in sintonia con la loro attualità, a distanza di anni diventano illeggibili. Keats, nella sua epoca, non lo conosceva nessuno, mentre tutti celebravano Byron. Oggi Keats è unanimemente riconosciuto come uno dei massimi poeti della Storia, mentre Byron è puramente e semplicemente illeggibile. Se ci preoccupiamo solo di essere in sintonia con il nostro tempo, in realtà si rischia di perdere l’unica sintonia che appartiene a uno scrittore e che è quella suggerita da Salman Rushdie: perdersi nel fiume delle storie. Il fiume è sempre lo stesso, l’acqua (quando ci immergiamo la mano) non è mai la stessa acqua. Per uno scrittore, rinunciare all’invidia e restare appassionato lettore, significa distaccarsi dal proprio piccolo ego e rendersi conto che le storie sono sempre più importanti di chi le scrive. Noi siamo parte di qualcosa di molto più ampio di noi, che è il narrare in quanto tale. Oscar Wilde (fior d’autore e anche personaggio popolare) diceva che la massima aspirazione di un autore dovrebbe essere quella di diventare Anonimo. Cioè l’esatto contrario di quanto si fa oggi, dove gli scrittori si propongono non attraverso le opere, ma al contrario attraverso gli scritti cercano di imporre se stessi come merci- persona. Questo è il narcisismo di cui parla Claudia. L’autoreferenzialità che fa degli scrittori dei non-leggenti, come se quanto raccontano gli altri non li riguardasse. Ecco perchè è diventato importantissimo propagandare il leggere. Circolano troppi scrittori non-leggenti!

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 16:26 da Gianfranco Manfredi


Pero’ io il romanzo di Simonetta Santamaria l’ho letto, giuro! :-)
Certo, dovrei aver letto anche tutti gli altri, ma finanze a parte (che i libri costano troppo e anche questo sarebbe tema da trattare) c’e’ anche il tempo a farsi tiranno, i classici che magari si sono lasciati indietro, la scrittura che ogni tanto chiede udienza e lo spazio ormai concluso delle mie cinque librerie… Ok, non ho convinto nessuno e vado a cospargermi il capo di cenere prima di correre in libreria a comprare tutti i volumi consigliati da questo post :-(

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 16:32 da Laura Costantini


Confesso allora che io invece il romanzo di Simonetta non l’ho letto e prometto di farlo. E’ ovvio che non si riesce a leggere tutto, è però anche molto spiacevole quando a un convegno si incontrano altri autori , anche molto affini, e dopo poche parole si scopre che nessuno ha letto i lavori degli altri. In questo gli anglosassoni sono più seri. Se uno viene invitato a una tavola rotonda, si preoccupa di informarsi in anticipo su cosa hanno scritto gli altri. Anche perché altrimenti si chiacchiera sul nulla.

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 16:41 da Gianfranco Manfredi


@Gianfranco Manfredi: hai ragione, da vendere. Ma confesso che il tempo di leggervi tutti prima di questo post non lo avrei mai avuto… Ok, adesso la testa la infilo direttamente nel caminetto.

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 16:44 da Laura Costantini


Straordinaria replica di Gianfranco alla quale è impossibile non accodarsi. Mi riprometto di tornare sul tema delle “visioni” con esempi concreti… A poi, spero al più presto.

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 16:58 da Danilo Arona


Non posso parlare per altri, personalmente mi ritengo un lettore vorace ed onnivoro, ma lavorando a tempo pieno, scrivendo nei ritagli e alla sera e cercando di dare spazio ad un minimo di vita privata, francamente fatico anche a leggere tutto. Seguo il più possibile blog e news sul web per tenermi aggiornato. Ovvio che se potessi mantenermi solo scrivendo potrei avere un approccio più professionale nei confronti della materia, ma ora come ora non è assolutamente ipotizzabile.

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 17:18 da claudio vergnani


Signore, signori, vampiri e scrittori, mi duole lasciarvi, ma il dovere quotidiano mi chiama. A rileggerci domani mattina, quando anche Massimo Maugeri e Simonoir saranno tornati tra noi dopo una rifocillante assenza a caccia di… sangue fresco.

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 17:26 da Laura Costantini


…. però il mio riferimento alle Torri Gemelle è proprio in senso profetico. Ovvero, per la serie “quando l’horror anticipa quel che accadrà….”. Uno a caso, che la vide lunga (e qualcosa di quel che vide lui noi non l’abbiamo ancora visto…) è Lovecraft….
Toccata e fuga, ma alcuni scrittori horror – che conosco – hanno le visioni (come Magico Vento…)

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 17:30 da Danilo Arona


Cara Laura,
per amore della precisione, i versamenti per la sottoscrizione delle tessere vanno effettuati sul conto di Gargoyle. Coordinate bancarie a richiesta…

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 17:32 da Paolo De Crescenzo


@ Danilo: bisogna vedere se l’horror profetizza o ispira …

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 17:35 da claudio vergnani


@ Romeo: scusa, mi era sfuggita la tua domanda. Credo sia infinitamente più difficile. A mio parere il motivo è chiaro, i lettori sono più informati, esperti e disincantati, e molte trovate già sfruttate più e più volte. Ovvio, esiste ancora un pubblico abbastanza disinformato, che però si nutre di tonnellate di prodotti horror (soprattutto cinematografici) di ogni tipo. Ma il fruitore esigente e informato (e appassionato), cui credo tutti ci rivolgiamo, ha visto di tutto e più volte. Ma il bello è proprio questo. A chi scrive oggi andare oltre – o provarci – facendo tesoro della tradizione del passato.

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 17:56 da claudio vergnani


Dubito che a Bin Laden sia venuta l’idea, vedendo Fight Club, tantomeno mi risulta che i taliban siano appassionati di Fellini. Non volevo tanto dire che si profetizza un singolo evento, anche se ciò può accadere, ma che a volte si intuisce oscuramente un percorso futuro, quando tutti o quasi nel proprio tempo prevedono il contrario. La condizione di mostruosità dell’unico uomo normale sopravvissuto del capolavoro di Matheson Io sono leggenda, del tutto sconciato dall’orrido remake con Will Smith, da un lato certo poteva essere letto nel contesto della letteratura post-atomica dell’epoca, dall’altro però illuminava perfettamente la condizione futura dell’individuo che cerca di costruirsi una vita autonoma e autosufficiente in un contesto di post-consumismo, in cui regna il cieco dominio di masse spossessate. Nell’opera di Malaparte che citavo e che parla delle ultime fasi della guerra di liberazione dai nazifascisti a Napoli e in Italia, sono sterminate le osservazioni e le riflessioni che allora venivano spesso considerate bizzarre e anche incongrue, ma che oggi saltano agli occhi come profetiche. Illuminante quanto scrive a proposito del suo modo di vivere la Resistenza: cioè come una lotta contro il tiranno inseparabile dalla lotta contro la tirannia di massa. Questo non vale soltanto per l’epoca in cui il romanzo è stato scritto. E non si tratta di un’osservazione ideologica, bensì di una conclusione maturata nei fatti e nell’esperienza. L’altezza della sua visionarietà e della sua capacità di penetrazione simbolica raggiunge un altissimo vertice d’orrore quando narra del suo incontro con una foresta di uomini crocefissi che si rivelano per ebrei. Non doveva essere facile in quel periodo scrivere che l’immagine concreta di Cristo erano gli ebrei, cioè che l’Olocausto era anche una tragedia cristiana. Una visione del genere pare oltraggiosa anche oggi. Leggete, vi prego, quel capitolo (e gli altri ovviamente). E’ tra la pagine più orrifiche della Storia della Letteratura italiana. A volte la propensione al “genere” confonde. In Italia i sapori orrifici e visionari si sono sparsi trasversalmente in letteratura, invece di rinchiudersi in un ghetto di genere. Qualcosa di molto simile è avvenuto in Francia. Hugo, Zola, Celine hanno scritto pagine d’orrore altissime, ma non sono qualificabili autori horror. Ecco perché è fuorviante cercare ricette per l’horror. Il vero orrore , il visionario, non hanno confini di genere. In tutti o quasi i romanzi di Amanniti ci sono una quantità di situazioni orrifiche, per quanto egli non si definisca uno scrittore horror. Viceversa molto horror americano degli anni 80, ha potuto raggiungere notevoli livelli letterari e larghi strati di pubblico, perché a forza di contaminazioni, ha liberato l’horror dal ghetto del paperback . E’ vitale per uno scrittore leggere al di là del proprio campo di riferimento, cioé a tutto campo. Ed è vitale quando si scrive cercare sempre di andare al di là dell’ambito di genere. L’horror in particolare, vive d’orrore più che di paura. L’orrore nasce quando si legge qualcosa che non è soltanto inatteso , è osceno. E’ la rivelazione di una realtà orribile cui preferiamo non pensare. L’horror migliore non è affatto un esorcismo, è al contrario sprofondare nel delirio quotidiano vivendolo in prima persona ed esprimendolo simbolicamente. Si comincia a lettere romanzi horror o a vedere film horror da bambini, come “prova di coraggio”. E’ in qualche modo un’esperienza sciamanica che ci guida ad affrontare fino in fondo la paura, ad elaborarla e a superarla. Questa esperienza è vissuta dal lettore. Lo scrittore può al massimo guidarlo lungo un percorso, come un Virgilio che accompagna Dante nell’Inferno. Ma non opera alcun esorcismo, cioè non sposta altrove il Male, né consola rimuovendolo o presentandolo sconfitto, anzitutto si pone il compito di rappresentarlo. Sta al lettore compiere il cammino, con la propria sensibilità. Ed è spesso il lettore a comprendere il senso delle visioni ben al di là dell’interpretazione che ne dà lo scrittore. Adesso la pianto, non preoccupatevi. Era per buttare là qualche stimolo…

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 18:30 da Gianfranco Manfredi


Temo di essermi anche ripetuto, ma dal web arrivano in certi periodi interviste a raffica e a un certo punto uno non ricorda più cosa ha detto in un blog e cosa ha detto in un altro.

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 18:39 da Gianfranco Manfredi


Per Claudio: bisogna vedere se profetizza o ispira…

soprattutto bisogna VEDERE, re-imparare a esercitare lo sguardo. Ha ragione da vendere Gianfranco sull’horror visionario che non ha (non deve averne) confini di genere…
… ma allora perché vuoi confinare le Torri Gemelle nel recinto di una lettura realistica ? (non certo perchè una fatto “realmente” accaduto… )…
… ma secondo me ci sta l’ultimo sassolino della giornata:
se la smettessimo di chiamarlo “horror”?

(del resto nessuna chiama “horror” il Vampire Harmony cresciuto a ridosso del fenomeno Twilight – anzi, i fan s’incupiscono non poco…)
A domani, almeno per me…

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 18:55 da Danilo Arona


Arieccomi! saluto Laura che se ne va e gli altri che restano. Mamma mia quanta produzione! Se avessimo modo di incontrarci più spesso ne avremmo di cose da dirci, verrebbe fuori un gran bel dibattito!
E’ chiaro che non possiamo leggere tutto di tutti, è giustificabile e ovvio. Io, ad esempio, mi rubo una mezz’oretta di mattina presto e mi dedico al libro che è sul comodino. Una volta finito lo ripongo in libreria e subito un altro libro prende il suo posto. Non credo che ci sia mai stato un vuoto, su quel comodino. Eppure non riesco a tenere il passo. Così cerco di darmi un ordine, per evitare che un libro diventi troppo “vecchio” prima che arrivi su quel comodino.
L’importante è conoscerci tra noi, sapere che esistiamo. E Letteratitudine ci sta dando un’opportunità eccellente. Alcuni di noi sono amici su Facebook e non si sono mai incontrati. Però ci passiamo notizia, e compriamo i loro libri. O, come nel caso di Laura, comprò il mio romanzo prima che ci conoscessimo.
E sono d’accordo sul dire che non ci sono ricette per l’horror perfetto perché il concetto di perfezione è soggettivo. Anch’io amo l’horror quotidiano e verosimile, l’eccesso di fantasy mi spegne la suspense.
E, un’ultima cosa, anche per avallare il discorso di Danilo sul rapporto scrittore-scrittore: prima di modificare il mio sito (e anche qui il buon Arona mi consentitì di scopiazzarne la struttura.. ;) ) avevo una pagina dedicata ai libri italiani in uscita, con linkaggio all’autore e all’editore. Mi affannavo a stare dietro alle uscite. Poi mai un grazie, cacchio. E allora, dopo tre anni, ho tagliato la pagina. Un faticaccia inutile. Anche la mia libreria su Anobii dev’essere aggiornata. Pure le recensioni di tutti i libri che ho letto (asnche lì solo italiani). Ora vedo con piacere che c’è una certa sinergia tra noi e la cosa mi fa molto piacere. Io, nel mio piccolo, ho proposto una giovane autrice di fantasy alla Gremese e la cosa è andata in porto. Non sono invidiosa (nel senso becero del termine) ma mi piacerebbe sperare che all’occorrenza un amico facesse lo stesso con me. Sapete bene quant’è difficile arrivare ai direttori editoriali, ecco perché elogiavo Paolo de Crescenzo (devo avere ancora la sua risposta di qualche anno fa da qualche parte (peccato che sbagliai a fidarmi dei falsi consiglieri di allora: Paolo, se ci ripensi… ;) ) Ma purtroppo capita pure di incappare nelle “orecchie da mercante”. Vabbe’…

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 19:22 da Simonetta Santamaria


Giusto, non chiamiamolo più horror: e come? Come ho detto in un’intervista per Thriller Magazine, non rimangono molti vocaboli a disposizione: brivido se lo contendono il giallo e il thriller, nero è ormai appannaggio del genere noir… Manco più un colore ci è rimasto. Ma la Paura, quella non ce la toglie nessuno. Ditemi chi cosa scriviamo, noi, che così so come devo presentarmi agli agenti letterari che tanto mi schifano.
A proposito, se ne avete uno in gamba da presentarmi…
Sì, sulle Torri gemelle ci si potrebbe scrivere un grande horror (per ora chiamiamolo ancora così). Forse è ancora troppo recente e cocente per trarne un romanzo che non sia “realista”. Ma vedrete che prima o poi qualcuno ci pensa.
Finisco di rispondere all’ennesima (grazie a Dio!) intervista.
A dopo! ;)

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 19:30 da Simonetta Santamaria


Buona sera. Una rapidissima precisazione. Il gioco del decalogo era – appunto – un “giuoco”, come direbbero quelli chic, con nobilissimi natali, ispirato alle Ten rules di Elmore Leonard (cfr. http://www.elmoreleonard.com/index.php?/weblog/ten_rules_for_writing_fiction/). Mi sembrava un modo simpatico per sintetizzare e chiarire certi nodi e snodi, tutto qui. Ognuno dava le sue dieci regole auree su cui discutere e confrontarsi. D’accordissimo poi su quello che dice Danilo: smettiamola di chiamarlo “horror”. Infatti non esistono i generi (gli unici generi che conosco sono i mariti delle figlie, diceva Flaiano), ma solo libri scritti male o bene (Oscar Wilde, stavolta)

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 19:40 da Flavio Santi


Sta al lettore compiere il cammino, con la propria sensibilità. Ed è spesso il lettore a comprendere il senso delle visioni ben al di là dell’interpretazione che ne dà lo scrittore.

Concordo. E’ giusto e naturale che sia così. Gli autori che più stimo sono quelli che, interrogati dai lettori sulla genesi di una qualche loro allegoria o significato recondito su quanto hanno scritto, si animano e rispondono: “Bello! Non ci avevo pensato!”

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 20:16 da claudio vergnani


P.S. Amici horror writers, a proposito di interviste, in quest’ultima per Liberi di Scrivere vi ho citati tutti ;)

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 20:51 da Simonetta Santamaria


Un punto già sollevato nel nostro scambio di questi giorni, ma che meriterebbe qualche riflessione più ampia – in particolare degli amici narratori presenti – è il rapporto tra vampirismo e atto del narrare. Per molto tempo il vampiro è stato l’inconosciuto/inconoscibile, raccontato sempre da altri: non si accedeva al suo mondo interiore, ai suoi pensieri, non parliamo poi deai suoi sentimenti (laddove pure se ne riconoscessero), se non attraverso sue manifestazioni esteriori raccontate da altri. Per esempio, Carmilla la sentiamo parlare attraverso le memorie di una testimone (morta) al dottor Hesselius (morto) consegnateci dal suo esecutore testamentario (tonto, il che è persino peggio): un sistema di cornici che rende sempre meno affidabile la testimonianza. Mentre Dracula parla solo attraverso le memorie dei suoi nemici, oltretutto persone sempre in dubbio sulla propria lucidità e sanità mentale: mentre i vampiri suoi epigoni brilleranno per presenzialismo e magari rilasceranno interviste, Dracula resta distante, inconoscibile, ombra irriconosciuta – per questo forse non appare allo specchio – dei suoi stessi avversari e lettori. Spesso, invece, oggi il vampiro parla in proprio, nel segno di un’osmosi/vampirizzazione prima con il narratore e poi col lettore. Lo scotto è che ovviamente il vampiro si fa (direbbe qualcuno) umano, troppo umano – ma questo può anche piacere. Personalmente resto più affascinato dai vampiri “altri” – che in realtà siamo sempre noi ma nelle nostre proiezioni più involontarie e più imbarazzanti, e forse più interessanti – però mi piacerebbe capire come la vedete.

Postato giovedì, 4 marzo 2010 alle 23:16 da Franco Pezzini


Vorrei ritornare brevemente sul tema del decalogo dell’horror. Certo che non ha molto senso definire regole che poi verrebbero immediatamente disattese (o proprio questo è il senso di avere delle regole in letteratura, che ci spingano ad affinare scrittura e fantasia per aggirarle?), però credo esistano aspetti che non possono essere dimenticati. Domanda: ma l’horror è sempre letteratura fantastica? Io credo che abbia ragione Todorov, quando dice che a caratterizzare il fantastico è l’esitazione tra spiegazione razionale e spiegazione sovrannaturale di un evento. A me pare che sia questo a definire il campo. Il brivido più forte ci arriva (o perlomeno a me arriva) quando non so capire se sono di fornte alla realtà o all’intrusione di qualcosa che non conosco (il mistero di cui parlavo in precedenza). Alcuni racconti di Cortazar sono in questo senso perfetti e naturalmente il testo assoluto è Il giro di vite di James.
Approfitto per salutare Massimo e ringraziarlo per gli auguri e per salutare Danilo Arona e Franco Pezzini.

Alessandro Defilipppi

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 08:55 da Alessandro Defilippi


@ Ad alessandro: sono d’accordo … Tra l’altro, per Cortazar, vedi un mio post precedente … :)

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 09:29 da Anonimo


Ciao, grande Ale, maestro jamesiano dell’ambiguità contemporanea… Con la tua solita intelligenza senza confini (stasera mi paghi, però…) hai scoccato la freccia giusta: di che parliamo quando parliamo di horror… Qual è la linea discriminante? Hannibal è horror? No, eppure fa a gara con Faccia di Cuoio per la concia di maschere a base di pelle umana… Faccia di Cuoio appartiene storicamente all’Horror Territory, nessuno mai lo metterebbe in dubbio, però… Se l’horror oggi fosse soltanto quello del Body Language, per capirci lo splatter dei corpi da scannare inaugurato da cinema e letteratura negli anni ‘80 tra serial killer e psicopatici? E se il resto, per capirci, fosse solo letteratura fantastica caratterizzata dalla post-moderna fusion dei generi? Sto lanciando sassi nello stagno, non intendo proporre risposte. E’ mattina e sono rintronato… Però il percorso è quello giusto. Una volta, stabilite delle discriminanti di “accesso” al genere (per me resta sempre valida la condizione “esitante” di supernatural per dire che stiamo nell’horror…), poi ci confrontiamo su dove ficcare i vampiri (ovviamente creature fissate tra questo e l’Altro Mondo…) e le Torri Gemelle, grande “fantasma” planetariio del Millennio… Per la dolce Simo: ne hanno già scritti alcuni, notevoli, romanzi horror sul MegaCrackMentale dell’11 settembre: c’è uno straordinario racconto di King di fantasmi, il bellissimo “Giochi d’infanzia” di Schwartz Lynne (Fazi, che per molti versi “esitanti” ci sta dentro…), Black Magic Woman della mia metà oscura, persino “Il sangue di Manitou” di Masterton (Gargoyle Books) è un bell’esempio in tal senso… Palla al centro, vado a svegliarmi con caffé doppio ristretto in tazza grande…

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 09:53 da Danilo Arona


Grazie mille a Claudio ed a Seby per le risposte alla mia domanda.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 10:19 da Romeo Antoci


un passaggio per ringraziare tutti i partecipanti al forum. sapete qual è l’impressione che ho, leggendovi? quella di gustarmi un ottimo saggio scritto a più mani, interattivo, che si autoalimenta. bellissimo.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 10:31 da antonella morelli


Sull’horror. Confrontate Le benevole di Littell e The Dome di King, dopodiché c’è da chiedersi: è più dell’orrore un romanzo che non si propone come horror o uno che si propone per tale? Al di là delle etichette ( i generi ormai sopravvivono solo come categorie merceologiche) il problema è di “punto di vista” del narratore. I western di Larry McMurtry (inediti in Italia nonostante abbia vinto il Pulitzer) ridondano di horror . Difficile comprendere Cormac McCarthy se non lo si confronta con McMurtry. Però McMurtry non lo si traduce per la convinzione editoriale secondo cui del western in Italia non frega niente a nessuno, il che in parte è vero, almeno se si presenta un libro così cioè all’interno di un recinto di genere. Però uno scrittore notevole resta uno scrittore notevole e se non lo si pubblica si opera una censura di gusto e si impedisce al lettore italiano di conoscerlo.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 10:46 da Gianfranco Manfredi


@ danilo.
Ciao Danilo, Ti mando un bonifico al più presto!.
Hai toccato proprio una delle cose che mi lasciano più perplesso e cioè la spaltterizzazione dell’horror. Ammetto che lo splatter non mi fa paura per nulla. Mi pare anzi che quanto più si accentua tanto più si avvicini al grottesco o al già visto. Non propone simboli, in genere e per di più spiega troppo. Fa vedere le cose invece che evocarle. In un pezzo di qualche settimana fa su Tuttolibri paragonavo Avatar alla pornografia e il ciclo di Gormenghast all’erotismo: nel senso che l’uno mostra tutto e l’altro invece evoca, permettendoci di attivare il nostro immaginario. Ecco: se l’horror non evoca, come avviene quando ci mostra troppo, non stimola le nostre personali paure e quindi non ci dà il brivido vero. Perchè la paura è dentro di noi e il fantastico la va a stanare.
Il tuo Estate di Montebuio funziona benissimo perchè dà corpo agli incubi infantili di ciascuno: offre cioè una struttura su cui ciascuno evoca il suo personale incubo. Come già ti dissi, meglio di Dan Simmons.

@anonimo: cercherò il tuo post su Cortazar. Scrittore straordinario

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 10:50 da Alessandro Defilippi


Sul leggere. Il punto non è tanto tenersi aggiornati seguendo l’attualità, perché ciascuno di noi segue percorsi di lettura diversi. Ho una certa età e posso dunque assicurarvi che un tempo non si faceva distinzione tra la lettura di un libro appena uscito e quella di un libro pescato su una bancherella dell’usato. Io da ragazzo, Dracula l’ho letto in un’edizione del 1945 e sono nato nel 48! Una delle tante cose per cui sono grato a Paolo de Crescenzo è la sua capacità di ritrovare autori e romanzi che sono stati negati in passato al lettore italiano, opere di decenni fa che alla lettura di oggi si rivelano illuminanti e anticipatorie. Perchè l’editoria normale non fa questo lavoro? Perchè ad esempio , nonostante l’attuale voga vampirica, nessuno ha provveduto a ristampare un libro fondamentale come “I vampiri tra noi” di Ornella Volta?

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 10:52 da Gianfranco Manfredi


Riallacciandomi a qualche post precedente : Le definizioni stanno strette, e lo sappiamo tutti, ma sono pur sempre un orientamento e un punto di partenza (e uno strumento almeno per iniziare a capirsi) … Per curiosità, di seguito, ecco quella di Wikipedia … che ne pensate ?

Una narrazione si può definire horror quando, agendo sulla fallacia delle percezioni sensoriali e sulle differenze soggettive della rappresentazione del reale, descrive possibili irruzioni di elementi irrazionali nella vita quotidiana e ne immagina le conseguenze, spesso connotate da reazioni violente e da sviluppi estremi, talora altamente drammatici e tragici.

Il tipico racconto dell’orrore alimenta le paure ancestrali radicate nell’inconscio collettivo dell’essere umano, come quelle:

per la morte e per le incognite che si celano nel mistero dell’esistenza,
per il buio e per i luoghi inesplorati,
per l’isolamento o per la perdita delle relazioni con le persone care,
per il sovvertimento delle regole della scienza e della vita in società.
Spesso l’autore del romanzo horror deforma, in modo a volte sensazionalistico e grottesco, le convinzioni presenti nelle fedi religiose, oppure enfatizza i contenuti emozionali e istintivi che si annidano nei rapporti sentimentali o nelle relazioni erotiche.

Alle volte, più banalmente, l’horror fa leva sulle comuni ossessioni e sulle fobie più diffuse nella pische umana, ed ottiene reazioni forti ed immediate facendo leva:

sull’istinto di conservazione,
sul disgusto provocato dalla malattia (fisica e mentale) o dalle deformità,
sull’angoscia suscitata dalla violenza e dal dolore,
sul disagio dovuto a condizioni di vita estrema, esposta alle avversità climatiche,
sulla reazione al contatto con certi animali ripugnanti (insetti, serpenti, ecc.).
L’orrore letterario trae origine dalle contrapposizioni violente dei rapporti umani, che vengono spinte ai limiti del paradosso, con percorsi e contenuti a tratti persino grotteschi ed ironici, e quindi in modo analogo, sia pure con maggiori estremismi, ai contenuti tipici del racconto tragico della classicità. Proprio come le cosiddette tragedie dell’orrore della tradizione greca e shakespeariana, il romanzo horror ricava gran parte della sua attrattiva dall’effetto catartico che si genera spontaneamente nel lettore, dopo che questi è stato messo brutalmente a confronto con le sensazioni più forti ed estreme, tali da far apprezzare con sollievo il ritorno all’esistenza normale.

Analogamente alla letterautura poliziesca o gialla, la narrazione horror si serve spesso della tecnica della suspense per mezzo della quale, insinuando progressivamente dubbio o senso di attesa circa gli sviluppi narrativi, determina nel lettore l’ansiogena sensazione di temere e, al tempo stesso, trepidare per la sorte dei personaggi principali e per quelle che saranno le rivelazioni e gli sviluppi presenti nella conclusione del racconto.

Elemento imprescindibile del racconto horror è la presenza di componenti soprannaturali, senza le quali il racconto, per quanto possa avvalersi di ambientazioni e situazioni tipiche dell’horror oppure determinare effetti psicologici analoghi, non appartiene a questo genere, ma può eventualmente rientrare nella letteratura gialla (thriller o noir).

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 10:55 da claudio vergnani


Per Gianfranco Manfredi: ci siamo conosciuti a Genova qualche mese fa durante il convegno di Autunno Nero. D’accordo su molto con te, soprattutto quando parli di quelle straordinarie cacce che si facevano sulle bancarelle anni fa. Oggi è più difficile, mi pare, trovare il vecchio libro, mescolato com’è a quintali di novità subito obsolete. D’accordo anche su Littell e King.
Un po’ meno sul fatto che non si possa capire McCarthy senza McMurtry: tu dici giustamente che ognuno ha percorsi personali di lettura. Questo fa che ognuno abbia il suo McCarthy senza che ci sia un McCarthy più vero degli altri. Avrai certo provato anche tu, come me, lo sconcerto di chi ha letto un tuo libro e te ne parla come se fosse profondamente diverso da quello che tu stesso pensi e credi.
Opinione del tutto personale, comunque.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 11:02 da Alessandro Defilippi


Sull’invidia e sul silenzio tra autori di cui ha parlato Danilo. Spesso non ci si legge vicendevolmente, ma altre volte ci si legge e si tace. Perché? Perché bisognerebbe discutere ed è imbarazzante dire a un altro autore che su certi aspetti della sua opera non ci si trova d’accordo. Se poi lo si scrive, succede un disastro. Da un critico si tollera una recensione negativa o limitativa, da un altro scrittore no. Di solito si scatena una polemica non in merito alle questioni sollevate, ma di tipo personale. Una volta ho scritto una recensione negativa su un romanzo italiano (non dico di chi) e per tutta risposta sono stato attaccato sul piano personale (da signore, non ho replicato). Ora il confronto tra scrittore e scrittore non dovrebbe essere uno scontro da arena di galli, se no si parla d’altro. Uno scrittore può essere nostro amico, possiamo anche aver molto apprezzato un suo romanzo e averne trovato brutto un altro. Bisognerebbe dirselo apertamente o quantomeno in privato. Alcune critiche fanno molto bene, perché giuste o sbagliate che siano, ci offrono un punto di vista diverso sulla nostra opera, cioè ne vediamo gli effetti. Il comune lettore è molto più sincero. Se vogliamo discutere proficuamente tra noi bisognerebbe anche accettare critiche senza risentirsene e reagire con attacchi personali. E invece… qualcuno ricorda l’insensata rissa dello Strega? O le polemiche contro tizio o caio non per le loro opere ma perché pubblicano dal tale o tal altro editore? Cosa c’entra questo con la letteratura? Nulla. Sono soltanto piccole meschinità. Ecco perché a volte si preferisce tacere, per non essere fraintesi e non finire implicato in risse da cortile.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 11:03 da Gianfranco Manfredi


@ Alessandro. Sono d’accordo con te.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 11:06 da Gianfranco Manfredi


Aggiungo solo a quanto sopra che nella definizione si insiste sull’elemento soprannaturale come imprescindibile. Cosa sulla quale – se ho ben capito – non tutti sono d’accordo …

Poi, ripeto, una definizione non è scolpita nella Tavole della Legge, ma può essere interessante riflettervi sopra e confrontarsi …

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 11:11 da claudio vergnani


Ancora sullo scrivere: Gianfranco ha perfettamente ragione rispetto al punto di vista dell’autore. E questo, naturalmente, ci fa domandare (insieme a James Ellroy, peraltro) se i generi esistano davvero o esistano solo gli scrittori e ancor di più la scrittura.
Ma d’altro canto categorizzare è un bellissimo gioco, anche se un po’ pericoloso. E allora perchè non proporre una triade: fantastico, horror, gotico (mi riferisco più alla ghost story vittoriana e postvittoriana con tutto qul che ne deriva: Machen , Hodgson…). Tre contenitori permeabili, che possono slittare l’uno nell’altro, ma tra i quali ci sono nette differenze.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 11:12 da Alessandro Defilippi


C’è una questione su cui vorrei sentire il vostro parere. Io ritengo che questo sia un momento molto importante, direi cruciale, per gli autori italiani sensibili all’horror. Fino a dieci anni fa ci si poteva contare sulle dita di una mano, oggi si nota un’indubbia crescita, a diversi livelli. E’ importante non perdere l’occasione. Due sono le strade: buttarsi sul genere in senso stretto e così facendo si rischia comunque di infilarsi in quell’imbuto di cui ha parlato Danilo citando Tropea: “ma quanti siete se di Simmons vengo solo cinquemila copie?” . E’ la scelta del ghetto. L’altra strada è cercare di capire come si inserisce la letteratura horror contemporanea nel percorso della letteratura in generale. Gli autori classici dell’horror (prendete Stevenson ad esempio) non erano autori horror, nel senso che scrivevano di tutto. e quand’anche puntavano su un tema cosiddetto horror lo facevano non rivolgendosi a un target di gusto, ma a tutti i lettori. La letteratura americana horror degli anni 80 è riuscita ad avere rilievo (anche di mercato) andando al di là dei confini di genere anche e soprattutto nel modo di scrivere e nei contenuti delle proprie opere. Uno dei temi favoriti e più importanti di King (e di quella generazione di autori) è stato ad esempio quello dell’infanzia e del passaggio tra l’infanzia e l’età adulta. Questo tema spesso è stato espresso con notevole forza poetica e assolutamente a prescindere dall’horror. Nei romanzetti pulp dell’età precedente, gli editor avrebbero detto: taglia questa parte perché non fa paura e non c’entra niente. E’ invece l’irruzione dell’altro e di quello che “non c’entra” che si superano i ghetti. Quando un romanzo sarà letto in quanto romanzo, non in quanto romanzo etichettato, allora potremo dire di essere tornati a un nuovo livello al modo di lavorare e di scrivere degli autori classici che l’horror hanno fondato. Ciò significa porsi degli obiettivi alti, nel lavoro di scrittura. Maturare stilisticamente, staccarsi da modelli prefabbricati e ripetitivi. Pensate a cosa è avvenuto recentemente alla narrativa gialla italiana. Nuovi autori a raffica, perchè il genere “commissario” funzionava. Iperproduzione, noia abissale del lettore, stanchezza degli scrittori, coro di massa: basta con i commissari dal volto umano, non se ne può più! Vogliamo che accada la stessa cosa con il nuovo horror italiano?

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 11:22 da Gianfranco Manfredi


sulle critiche: nel mio piccolo – riconoscendo ovviamente che una recensione positiva fa più piacere di una stroncatura (e ci mancherebbe!) – posso dire che ritengo che le valutazioni negative siano parte del gioco, perchè se pubblichi non puoi poi pretendere di avere solo ritorni positivi, tanto più che in campo artistico – a qualunque livello – mancando per forza di cose unità di misura assolute come un cronometro o una bilancia, quasi tutto, se non proprio tutto, è opinabile. Se pubblichi è perchè – ritorno economico a parte – vuoi essere letto. Speri nella recensione positiva e nell’accoglienza calorosa, però poi non puoi non mettere in conto anche il rifiuto. Personalmente ritengo fastidioso il giudizio negativo fine a sè stesso, senza cioè un minimo di esplicitazione dei presupposti, personali o meno che siano. Dissentire non è un reato, nè una mancanza di rispetto, se la critica è fatta con educazione e avendo l’umiltà di chiarire qual’è la propria griglia di riferimento.
Poi, concordo con Gianfranco nel rilevare la differenza esistente tra ricevere critiche da un lettore o da un compagno di merende scrittore … In quest’ultimo caso brucia di più, perchè un minimo di competizione credo sia inevitabile avvertirla. Anche qui è però questione di misura. Personalmente non sto sveglio alla notte se qualcuno non gradisce ciò che ho scritto … :)

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 11:26 da claudio vergnani


Scusate i refusi del precedente post.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 11:26 da Gianfranco Manfredi


Bonjour! Scusate il ritardo ma dovevo adempiere a una serie di “postaggi” e aggiornmenti dei siti…
Bella, quella della linea discriminante dell’horror: qual è? Ribadisco che io non riesco più ad edentificarla. Prima era diverso, prima c’erano le storie di fantasmi e vampiri, e dopo ancora zombi… Ora si aggiungono generi talmente affini come il thriller, lo stesso noir ha spesso connotazioni soprannaturali. Perciò rilancio per l’ennesima volta la domanda: come vi definireste voi, horror writers? Se vi doveste presentare direste piacere, sono x scrittore di…?
Le varie sfaccettature dell’horror di oggi risentono dell’influenza dello splatter anni ‘80 e il genere si porta dietro questa sfortunata connotazione che lo rende un po’ il brutto anatroccolo. E, visto che si è menzionato lo Strega, mi piacerebbe sapere se mai un libro horror verrà inserito in un premio letterario italiano che non sia settorializzato.
@ Claudio: l’elemento soprannaturale potrebbe essere l’unico distintivo del nostro genere, ma ormai anche thriller e noir ne fanno uso. Ci stanno ripulendo bell’e meglio con il risultato che gli altri generi si evolvono e noi restiamo ancorati al Body Language di cui parlava Danilo.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 11:30 da Simonetta Santamaria


@ a claudio. Posso garantirti che il tuo romanzo mi è piaciuto molto. la tua raffigurazione dei vampiri derelitti e disgregati nelle fogne è formidabile. Posso dire, e ti assicuro, non è per fare il professorino, che però secondo me tagliando la parte tra Padova e Venezia e qualche mangiata di panini di troppo, secondo me il tuo romanzo sarebbe stato formidabile? La cosa non riguarda soltanto te, ci riguarda tutti. A volte capita che scrivendo una vicenda, per identificazione con i personaggi, ne seguiamo le mosse giorno per giorno e minuto per minuto. Anche qui, i modelli classici invece insegnano. Certi passaggi andrebbero stretti . Dickens alterna una cronaca giorno per giorno dei personaggi con salti di tempo di una settimana o di un mese. Il tempo letterario è cosa diversa dal tempo reale. Te lo dico perchè anch’io spesso quando scrivo, seguo i personaggi quasi minuto per minuto. Poi però in sede di editing sono spietato e vado giù con l’accetta eliminando pagine e pagine, che magari di per sè sono espressive, ma nuocciono al ritmo dell’insieme. Spesso parlando con altri scrittori anche superprofessionisti e campioni delle classifiche ho invece scoperto allibendo che nemmeno rileggono quanto hanno scritto. Se poi un editor (dei sopravvissuti) della casa editrice gli corregge una virgola si imbufaliscono e gridano al delitto d’autore. Io sarò sempre grato a Grazia Cherchi che facendo l’editor dei miei primi romanzi, mi ha convinto a togliere interi capitoli , con il risultato che il romanzo ci ha guadagnato stilisticamente e che io ho imparato a scrivere e a farmi l’editing da solo con assoluta spietatezza.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 11:36 da Gianfranco Manfredi


Grazie, Ale (adesso sono in debito io per entità di cifra…). Comunque la discussione è tosta, anche se per età (quasi) manfrediana – nacqui nel ‘50 nel giorno natale di Jeffrey Dahmer… -, attesto che è una querelle quasi istituzionale che prima si consumava esclusivamente in certi salotti editoriali o in convegni accademici. La bella novità è questa dimensione allargata che permette il formarsi in diretta di un Pensiero collettivo per quanto (positivamente) non uniforme od omogeneo al suo interno. Sparata la prima tavanata del mattino, tento di tornare a bomba sull’ordine delle domande poste per cui eccoci… alla Meyer, che francamente non mi attizza perché in primo luogo non sono di quella generazione. Al proposito quoto ancora Gianfranco che spiega benissimo e in pochissime righe le motivazioni basiche di tanto successo… Soprattutto da dove viene (Stine, Buffy, certa teen Tv…), considerazioni che fanno pensare a strategie di marketing mirate laddove si elaborano concetti di horror generazionali, di horror “d’amore”, passionali… Horror in cui il tono d’intensità deve restare basso a tavolino. Ovvio che il lettore tradizionale del genere fugge infastidito… Però intanto mai i vampiri hanno venduto tanto. Il tutto mi fa tornare in mente certe classiche teorie – sempre intorno alla definizione – che sostengono che l’horror altro non sia che una versione adulta e non censurata delle favole dell’infanzia. Il vampiro stesso, a livello folcloristico, sarebbe un prodotto di trasformazione a metà strada tra gli archetioi demonaici, certi animali notturni caratterizzati dall’aggredire il prossimo eccitati dal sangue e certe figure incubiche (elencate in Psicanalisi dell’incubo di Jones), caratterizzate dall’essere nightcomers, visitatori notturni che di solito violavano la casa passando dalle finestre in volo…

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 11:51 da Danilo Arona


@ Gianfranco. Be’, intanto ti ringrazio. E sono molto contento di quello che dici. Adesso, tra l’altro, sono qui che “taglio” a più non posso le bozze de Il 36° Giusto, perchè Paolo mi ha detto che non lo pubblica se non accorcio :) Faccio fatica, ma naturalmente è un limite mio, e Paolo ha ragione. Come hai ragione tu. E’ una difficoltà tecnica, la mia, alla quale spero di rimediare con un po’ di esperienza in più. Per le correzioni dell’editore ancora una volta posso riferirmi solo al mio rapporto con Paolo De Crescenzo,e quindi non posso che definire il suo apporto un aiuto prezioso e un valore aggiunto (lo dico senza piaggeria, anche se può apparire poco credibile). Disgraziatamente, sono talmente miserabile che non ho nessuno cui far leggere le bozze prima di inviarle all’editore, e quindi al poveretto arriva un malloppone di 700 pagine davanti al quale egli – pur navigato e di robusta spalla – atterrisce come e più che davanti – a proposito – all’orrore più viscerale. Nel mio e nel suo caso forse l’horror più autentico – al di là delle definizioni – sono proprio le mie bozze da correggere. :)

Ancora grazie per le belle parole sul mio libro …

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 11:58 da claudio vergnani


Sullo splatter. Non sarei così negativo. Ha gettato un po’ di luce sul tema del “corpo” nella letteratura contemporanea. E non solo nella letteratura. Ero a Roma a fare lo sceneggiatore quando si consideravano i film di Fulci come bassa macelleria punto e basta, però un giorno salta fuori l’orrida vicenda di cronaca del mostro della Magliana, così mi sono chiesto se Fulci non avesse svelato in anticipo cosa covava nel sottoproletariato romano. La stessa cosa ci si potrebbe chiedere riguardo a orrori della cronaca come Abu Ghirab , pressocchè contemporanei al fiorire del torture-horror di Saw e di altri film. Mi viene anche in mente una discussione fatta anni fa con Laura Grimaldi la quale sosteneva che non si poteva in Italia scrivere di serial killer perchè i serial killer non esistono nella nostra tradizione criminale. Eppure bastava aspettare un po’… oggi non lo si potrebbe più dire. Tanto che arrivano qui dall’estero per informarsi ancora sul Mostro di Firenze. Spesso la sensibilità degli autori avverte il “clima dell’epoca” prima che i fatti lo confermino. Questo intendevo per anticipazione. Se invece esaminiamo le tendenze come puri ingredienti, questo legame tra simbolico e reale rischia di sfuggirci.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 12:02 da Gianfranco Manfredi


@ claudio. Le mie lodi erano sincere. Riguardano non solo la tua caratterizzazione dei vampiri, ma anche i tuoi personaggi randagi, drop out, le case scassate, gli intermezzi di desolante quiete apparente, quell’ondeggiare (come in Dylan Dog) tra la paranoia per un nonnulla e il prendere alla leggera situazioni davvero allarmanti. Erano anni che non leggevo un horror così. Proprio per questo, nel momento in cui il tuo romanzo si avvita un po’ su se stesso, mi sono un po’ irritato, quasi si trattasse di cosa mia (un lettore partecipa con la sua sensibilità alla costruzione del romanzo). D’altro canto il punto è che la riprova non c’è mai. Non si può sapere se i tagli giovano o nuocciono. Baricco ha proposto di recente (non so però che fine abbia fatto la sua proposta, probabilmente è caduta nel nulla come molte altre sue provocazioni queste sì da professorino) di pubblicare romanzi senza editing alcuno. A mio parere sarebbe disastroso. Favorirebbe proprio quel narcisismo egotista di cui parlava Danilo citando la Salvatori. Il problema è riuscire a un certo punto a staccarsi dal flusso narrativo di prima scrittura e rileggersi come se il proprio romanzo lo avesse scritto un altro. Appena intimamente avvertiamo la sensazione che una certa cosa non funziona o non risolve o è ripetitiva, insomma non quadra, dobbiamo toglierla. Carmelo Bene diceva che il lavoro artistico è tutto a togliere. In questo, le scuole di scrittura americane, qualcosa hanno insegnato. Si fanno esercizi del tipo: scrivi un periodo, poi prova a scriverlo con metà parole. Per autori generosi e tendenzialmente fluviali può anche essere una rovina stilistica, ma in genere c’è da guadagnarci. Quanti giganteschi romanzi di Stephen King (tipo Tommy Knockers) dilatano per centinaia di pagine un contenuto che sarebbe stato molto più efficace se condotto nella misura di un semplice racconto? I contratti di King sono “a parola”. Questo tipo di contratti è stato escogitato in America dagli autori per non farsi imporre un format dall’editore, cioè l’obbligo a mantenersi in un certo numero prefissato di pagine. Si è però rivelato un boomerang. Infilare in un romanzo due pagine di elenco di medicinali nello stipetto di un personaggio è sul piano della lettura affliggente. Se questo genere di contratti venisse applicato in Italia, si può star certi che gli autori invece di un aggettivo ne userebbero tre. Viva l’editing! Se ce lo facciamo da soli, tanto meglio.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 12:22 da Gianfranco Manfredi


@Manfredi: Sull’invidia e sul silenzio tra autori di cui ha parlato Danilo. Spesso non ci si legge vicendevolmente, ma altre volte ci si legge e si tace. Perché? Perché bisognerebbe discutere ed è imbarazzante dire a un altro autore che su certi aspetti della sua opera non ci si trova d’accordo. Se poi lo si scrive, succede un disastro. Da un critico si tollera una recensione negativa o limitativa, da un altro scrittore no.

Parole sante!

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 12:31 da Laura Costantini


Di recente ho letto il romanzo di un collega che apprezzo molto. A un certo punto, tra un capitolo e l’altro, c’era un buco. Nel capitolo successivo ci si riferiva a fatti che non erano avvenuti. Così, pensando di non aver capito, ho chiesto al collega quale fosse il senso di quello scarto. La sua risposta è stata la seguente: la situazione mancante era una scena madre che mi ero riservato di scrivere dopo a conclusione del romanzo, per studiarla meglio nell’insieme. Però poi quando ho finito me ne sono dimenticato. Il libro stava per andare in stampa. Ho comunicato la mia dimenticanza all’editore che mi ha risposta: fa niente, non se ne accorgerà nessuno, e poi il libro è già lungo così. Ecco… quando sento queste cose mi pare di sognare. Possibile che la fretta di consegnare e di rispettare i tempi editoriali (tra l’altro eterni perché passano mesi oggi tra quando un romanzo viene consegnato e quando esce) debba spingerci a non rileggere parola per parola quanto scriviamo?

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 12:31 da Gianfranco Manfredi


@Manfredi: Quando un romanzo sarà letto in quanto romanzo, non in quanto romanzo etichettato, allora potremo dire di essere tornati a un nuovo livello al modo di lavorare e di scrivere degli autori classici che l’horror hanno fondato. Ciò significa porsi degli obiettivi alti, nel lavoro di scrittura. Maturare stilisticamente, staccarsi da modelli prefabbricati e ripetitivi. Pensate a cosa è avvenuto recentemente alla narrativa gialla italiana. Nuovi autori a raffica, perchè il genere “commissario” funzionava.

Verissimo anche questo, ma mi consento di segnalare la saga del Commissario Ricciardi di Maurizio de Giovanni, che e’ l’esempio principe di come si possa prendere un filone sfruttato, rivoluzionarlo e farne vera letteratura.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 12:34 da Laura Costantini


@Manfredi: A volte capita che scrivendo una vicenda, per identificazione con i personaggi, ne seguiamo le mosse giorno per giorno e minuto per minuto. Anche qui, i modelli classici invece insegnano. Certi passaggi andrebbero stretti . Dickens alterna una cronaca giorno per giorno dei personaggi con salti di tempo di una settimana o di un mese. Il tempo letterario è cosa diversa dal tempo reale.

E’ quello che succede quando ci si innamora dei propri personaggi. A me (a noi, me e Lory) e’ successo spesso. Adesso non succede piu’, siamo cresciute, abbiamo studiato, ascoltato critiche che erano veri e propri insulti, letto, commentato, editato, capito. Lo scambio con gli altri, lettori o scrittori che siano, fa crescere. Questo e’ certo.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 12:37 da Laura Costantini


@Claudio: Disgraziatamente, sono talmente miserabile che non ho nessuno cui far leggere le bozze prima di inviarle all’editore, e quindi al poveretto arriva un malloppone di 700 pagine davanti al quale egli – pur navigato e di robusta spalla – atterrisce come e più che davanti – a proposito – all’orrore più viscerale.

Il tuo non e’ un editore, e’ un sant’uomo ;-)

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 12:39 da Laura Costantini


@Manfredi: Viva l’editing! Se ce lo facciamo da soli, tanto meglio.

Ma bisogna esserne capaci, altrimenti ci si deve rivolgere ad un editor professionista e pagarlo di tasca propria. Esattamente quello che pretendono alcuni agenti letterari per prendere in considerazione un’opera sulla quale vogliono garanzie da altri. Evidentemente non sempre sono in gradi di fiutare da soli il materiale buono da quello che non lo e’.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 12:43 da Laura Costantini


Ho comunicato la mia dimenticanza all’editore che mi ha risposta: fa niente, non se ne accorgerà nessuno, e poi il libro è già lungo così.

Ecco, questo e’ un editore tipo italiano.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 12:44 da Laura Costantini


Tra le ten rules di Leonard ci sono delle autentiche bestialità. Ad esempio quando sostiene che per uno scrittore usare gli avverbi è una sconfitta. Ora: questi benedetti americani prima ci hanno scassato con le rules di Hemingway che ad esempio sosteneva che tra una parola facile e conosciuta da tutti e una ostica, bisogna sempre scegliere la prima. Fesseria, perchè il facile e l’ostico di oggi, non sono il facile e l’ostico di domani. Molti libri degli anni 60 che fanno largo uso di linguaggio “facile” d’epoca oggi sono illeggibili perché quel linguaggio è caduto in disuso. Inoltre c’è un valore sonoro e musicale della parola che andrebbe considerato. E c’è anche un valore evocativo del termine sconosciuto che è importantissimo. I Figli della mezzanotte di Rushdie è avvincente proprio perché moltissimi termini “indiani” sono intraducibili e dunque ci tocca interpretarli fantasticamente. L’editing non vuol dire azzerare la qualità stilistica, né tantomeno limitare l’immaginazione e la libera interpretazione del lettore, senza la quale un romanzo infiacchisce. Il guaio della letteratura contemporanea spesso è quello della riduzione della lingua a basic . La rinunce stilistiche sono sempre più evidenti, specie nei best sellers. In Bikini, Patterson descrive così il suo protagonista: “somigliava a Daniel Craig, il nuovo James Bond”. Eccheccazzo! Lo so che così il lettore evoca più facilmente, però non è proprio questa scaciatezza una rinuncia stilistica dello scrittore a fare il suo lavoro? Vi figurate cosa sarebbe accaduto se Bram Stoker avesse descritto Dracula così: “somigliava a Henry Irving”? Un lettore di oggi cosa capirebbe? Nessuno si ricorda più la faccia dell’attore Henry Irving.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 12:49 da Gianfranco Manfredi


@ Gianfranco. Come non essere d’accordo. ? Era Gramsci (forse no) che alla fine di una sua lettera si scusò con il destinatario dicendo che non aveva avuto il tempo di essere breve ? Io rimasi colpito a suo tempo da Jan Fleming che nei suoi romanzi – del resto brevi – con protagonista James Bond, ogni volta che citava un prodotto, fosse una bevanda, un orologio, o un paio di scarpe, ne indicava anche marca e caratteristiche. Per non parlare delle descrizioni di pranzi e cene che erano parte integrante dela storia e contribuivano a definirne l’atmosfera. Rimasi anche colpito da ciò che un lettore disse di un romanzo d’azione (mi fare fosse di Altieri, ma anche qui non ne sono certo). Venivano citate le armi con le relative marche e caratteristiche, e questo si lamentava perchè non veniva specificato l’anno di fabbricazione del modello, spiegando che invece avrebbe aiutato un lettore informato a visualizzare meglio il tutto. Ovvio che questo è un caso limite, però credo chiarisca come magari un determinato lettore (forse anche in un deetrminato momento) ami avere dettagli che sono francamente tutt’altro che vitali. Detto ciò, anche io penso che tra due descrizioni di impatto più o meno simile, quella più breve si anche la più valida e pregevole.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 12:50 da claudio vergnani


@ Laura. L’autore cui mi riferivo non lo nomino, ma l’editore era Mondadori. Lo nomino volentieri perchè nell’anno in cui pubblicai da loro, uscirono con l’autobiografia del mio quasi omonimo Nino Manfredi. Il libro venne pubblicato in una collana per un target popolare e per famiglie. Nei primi capitoli Nino Manfredi raccontava che il suo primo rapporto sessuale era avvenuto con una pecora e che durante la guarda aveva organizzato un casino con le donne sole del paese. All’uscita del libro qualche critico lo fece notare. In Mondadori non se n’erano neppure accorti perché non avevano letto il libro.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 12:58 da Gianfranco Manfredi


Ecco, appunto… E pensare che il sogno della maggior parte degli scrittori e’ pubblicare con Mondadori. Che tristezza!

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 13:01 da Laura Costantini


@ Gianfranco. Spero che il citato libro di Nino Manfredi fosse un horror … :)

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 13:04 da claudio vergnani


Il fatto che esista un casa editrice come la Gargoyle credo sia un patrimonio per il “genere” horror e i suoi appassionati (metto le virgolette perché anche a me piace distinguere i libri buoni da quelli scadenti, e non parlare di generi).
Come fare per tutelare questo patrimonio? Sostenendo la casa editrice, comprandone i libri. Ringrazio per questo post e auguro alla Gargoyle di conquistare fette di mercato sempre più importanti.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 13:06 da Filippo


È chiaro che per conquistare fette di mercato, oltre alla qualità e alla progettualità, occorrono mirate politiche di marketing. Ci vorrebbe qualche idea forte, e innovativa, in tal senso.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 13:09 da Filippo


@ Claudio. Sì il romanzo era Città Oscura di Altieri. Su queste cose gli autori americani tendono ad essere molto precisi e fanno bene. Il thriller in particolare è un genere prediletto dalle lettrici, che esigono dettagli. Credo Deaver ha detto che se in un romanzo si portano i quattrini di un riscatto in una valigetta è bene precisare di che valigetta si tratti, se non altro perché un milione di dollari in biglietti di piccolo taglio in una ventiquattrore non ci stanno. Questo vuol dire documentarsi. Non sono attenzioni superflue. Da noi si scrivono storie di polizia senza essere mai entrati in una stazione di polizia e senza avere la minima idea di come lavorano i poliziotti veri. Così i carabinieri non sono i veri carabinieri, ma maschere da commedia dell’arte, in parte da barzelletta (i sottoposti) in parte dei finissimi intellettuali (il protagonista). Ora: se uno scrive di carabinieri, non dovrebbe cercare quantomeno di conoscerne qualcuno? Basta… sono andato fuori dall’argomento horror, scusate. Però anche il racconto fantastico ha bisogno assoluto di realismo, anche sul piano del linguaggio. Se metto in bocca a un faraone la parola “inconscio” è la stessa identica cosa che se gli metto al polso un Rolex. Nell’horror in particolare le cose incredibili svettano tanto più se emergono da un contesto realistico. In Vergnani per esempio è proprio il contesto realistico a farci sobbalzare quando si trasforma in visionario. La precisione nella descrizioni dei luoghi, dei personaggi, delle abitudini quotidiane non è superflua, è fondante. Ovviamente con la giusta misura , perché a meno che il racconto non lo richieda, non è rilevante la marca delle mutande del protagonista.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 13:11 da Gianfranco Manfredi


Parlando di Nino Manfredi mi rendo conto d’aver scritto “durante la guarda” volevo dire “durante la guerra”. Faccio pausa, sto andando in tilt e ho già scritto troppo.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 13:16 da Gianfranco Manfredi


Ok, allora che Gargoyle sia! Vado a vedere il catalogo :-)

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 15:10 da Laura Costantini


E poi dite che non sono di parola, io!

@Paolo De Crescenzo: Ho cercato di ordinare dal sito una copia del libro di Danilo Arona “L’estate di Montebuio”, ma non riesco a compilare l’ordine perche’ il modulo non mi consente di indicare tutti i dati richiesti (paese, provincia, tipo di carta di credito e numero di carta di credito). Come posso fare? Lo trovo in libreria? Oppure devo venire a prenderlo in sede visto che siete a Roma? Fateme sape’ :-)

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 15:47 da Laura Costantini


@ Laura: Io l’ho comprato da Fnac: ma Gargoyle ha una buona distribuzione.
Sempre a te, in riferimento al tuo commento “E pensare che il sogno della maggior parte degli scrittori e’ pubblicare con Mondadori. Che tristezza!” io credo che gli autori se ne fregherebbero se l’editore si chiama Mondadori o Ciccillo Vattelapesca se Ciccillo avesse la stessa distribuzione e visibilità di Mondadori. Ma se scriviamo, almeno per quanto mi riguarda, lo facciamo perché vorremmo essere letti. E se non ci conoscono nessuno ci legge. Quindi bisogna essere presenti nelle librerie, in bella mostra sugli scaffali, sui giornali, nei blog, alle trasmissioni tv… Che palle!! Io finora ho ottenuto qualcosa in più perché ho pubblicato con Gremese: il resto (e ne ho scritte di cose…) sono tutte parole al vento e tempo sprecato, compreso il mio romanzo (che peccato… Quando ci penso mi viene su un arabbia…)

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 16:40 da Simonetta Santamaria


Parole al vento? No, non lo sono. Per pochi che ti abbiano letta, quei pochi si sono nutriti delle emozioni che hai saputo trasmettere e non le hanno dimenticate. Riguardo al mio dire: che tristezza! il riferimento era alla totale indifferenza di Mondadori per cio’ che viene mandato in stampa. Da una casa editrice di tale importanza e tradizione, uno si aspetterebbe una cura minuziosa del prodotto “libro” e invece sono sullo stesso piano del Filo, che pubblica tutto quello che gli si manda, senza alcun controllo (e ti credo, li paghi!)

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 16:45 da Laura Costantini


@ Filippo: da giornalista ritengo che un’adeguata politica di marketing sia soprattutto fondata da un ufficio stampa con le palle che supporti editore e scrittore. I miei libri sono stati tutti abbondantemente coperti dalla stampa (tranne quando dell’ufficio stampa se n’è occupato il collega della CentoAutori…) perché mi sono dovuta autopromuovere. E non si può scrivere, farsi l’ufficio stampa, promuoversi organizzando presentazioni, stare in campana per eventi ecc… E’ dispersivo e poco professionale, oltre che deprimente, a volte: con la stampa nazionale fai spesso la figura dello sfigato.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 16:47 da Simonetta Santamaria


@ Laura, e lo capisco, però almeno ti si vede. Mondadori ti dà un nome, anche una sorta di falso credito se vuoi, ma per la massa purtroppo funziona. Parole al vento, sì, Laura: il romanzo (che reputo un buon prodotto) è buttato al cesso (infatti non ti nascondo che voglio vedere se qualcuno vuole rieditarlo con qualche modifica, come Fandango ha fatto per de Giovanni. Noi tutti sappiamo quanta faticca c’è dietro un romanzo. Il racconto è diverso, quello puoi anche permetterti di regalarlo a destra e a manca (io ne ho pubblicati alcuni di davvero belli che stanno lì a morire) perché non ti costa tanto scriverlo. Ma il romanzo è cosa diversa. E farlo finire così è ingiusto per lo scrittore, immorale per un editore che si prende un impegno. Ecco perché mi mangio.. . Se non mi fossi lasciata consigliare da chi credevo un amico forse l’avrei pubblicato diversamente. Sì, Laura, è proprio fatica sprecata.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 16:53 da Simonetta Santamaria


Eh, il problema è questo: i grossi editori pubblicano talmente tanto che non hanno tempo di leggere quello che pubblicano e nemmeno di studiare promozioni ad hoc. I piccoli e medi non sono tutti uguali… c’è chi cura con notevole scrupolo (come Gargoyle) e c’è chi va all’ingrosso anche quando pubblica i grandi. Certe traduzioni di Lansdale (non quelle di Einaudi) fanno accapponare la pelle dalla bruttezza e dagli errori. Si leggono cose tipo: sparò con la pompa! (Si intende col fucile a pompa). A proposito di Lansdale: è mai possibile che dopo che Einaudi lo ha scoperto debba uscire da qualsiasi editore qualsiasi scarto del suo cassetto anche roba assolutamente illeggibile, che viene il dubbio sia stata scritta da qualche ubriaco amico suo, e per di più tradotta da cani? E’ vero quello che dite: oggi a un autore si chiede di fare tutto, scrivere, controllarsi, autolimitarsi, promuoversi sbattendosi in proprio, fare il personaggio pubblico e le donne non hanno neanche la chance di partecipare alla nazionale di calcio scrittori ( c’è, certo che c’è!). Chi poi colto da improvviso quarto d’ora di celebrità entra nel turbine dei convegni, dei festival, degli incontri, degli inviti più disparati cui non si può dire di no, non ha davvero più il tempo per scrivere, non qualcosa di decente comunque. E non parliamo nemmeno dei Premi Letterari che per solito sono passerelle per gli assessori più che per gli autori . Uno si sbatte avanti e indietro e bene che gli vada accumula orride targhe, statuette di santi, opere scultoree di innominabili artisti locali. Ah quanto sarebbe bello venire almeno premiati in natura con prodotti gastronomici del posto! Senza contare che per parlare tra noi ci vogliono occasioni come questa, perché spesso ai convegni non è neppure previsto un cazzo di posto dove gli autori possano trovarsi a fare quattro chiacchiere tra loro. Io, a costo di fare la figura dell’orso, da mesi non vado più da nessuna parte. Andrò a Orvieto dove so che troverò qualcuno di voi e così avrò il piacere di conoscervi. Per il resto, dato che devo sorbirmi anche le Fiere del Fumetto, ho deciso di non uscire più di casa e starmene a scrivere. Ma lo sapete che c’è una Fiera del Fumetto a settimana? Come si fa a lavorare stando sempre in giro?

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 17:16 da Gianfranco Manfredi


A proposito di decalogo. Tempo fa ne ho buttato giù uno su: le 10 ragioni per cui di uno scrittore si parla al telegiornale. 1. Conduce un programma sulla stessa rete; 2. Non sapevano di chi cazzo parlare; 3. Ha molestato il suo badante; 4. Ha vinto lo Strega; 5. E’ perseguitato dalla camorra o dai fondamentalisti; 6. E’ morto lasciando un grande rimpianto; 7. Fa anche il giornalista, il magistrato e il parlamentare (meglio se tutti e tre); 8. Ha venduto milioni di copie e tutti si chiedono perché ; 9. Da un suo romanzo hanno tratto un film , un telefilm e un Cd di canzoni di Mario Apicella; 10. E’ stato arrestato per droga o (a scelta) è stato pestato a sangue da un drogato.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 17:37 da Gianfranco Manfredi


Grande Gianfranco!! Parole sante, davvero. Sono comunque felice che ci sarai a Orvieto, così potremo incontrarci. Domenica io presenterò VAMPIRI e QUESTI FANTASMI, un’antologia. Spero ti tratterrai. Come spero che magari sabato sera riusciremo ad andare tutti a cena fuori per parlare un po’ (FINALMENTE!) tra noi. E’ vero, le occasioni sono davevro poche. E ci perdoni Massimo se stiamo un po’ uscendo fuori traccia ma la tematica dell’editoria tocca un po’ tutti, non solo noi horro writers.
E comunque, tanto per rafforzare quello che dici a proposito delle tavole rotonde, alla tavola rotonda di sabato sull’horror io non ci sarò. O meglio, ci sarò senz’altro ma nel pubblico, non certo come relatrice. Quando riuscirò a vedere la platea dall’altra parte del tavolo, sarò certamente più soddisfatta. Abbiamo di che faticare, noi donne, per un posto al sole… ;)

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 17:45 da Simonetta Santamaria


P.S. Al tuo splendido decalogo aggiungerei: 11) E’ stato ospite di un reality e ha preso a badilate qualcuno dei partecipanti; 12) E’ stato al Maurizio Costanzo Show e ha mandato affanculo qualche ospite.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 17:47 da Simonetta Santamaria


A integrazione del n.5, è importante che il perseguitato dalla camorra o dai fondamentalisti abbia anche fatto i soldi, altrimenti vuol dire che se l’è proprio voluta.
Arrivederci a Orvieto. Spero proprio che avremo occasione di parlare insieme, perché alla tavola rotonda siamo in cinque per la durata complessiva di un’ora. Il che significa che un coglione come me che sta vicino alla Svizzera si deve sorbire qualche centinaio di chilometri di viaggio per parlare dieci minuti. E’ già una conquista dato che al recente Premio Alziator di Cagliari dove ero tra i premiati, siamo stati tenuti in teatro dalle 19 di sera all’una di notte, senza mangiare e senza che ci sia stata concessa facoltà di parola nemmeno per un minuto. Le targhe premio ci sono state consegnate in pulmann mentre ci riportavano in albergo. In compenso sul palco è sfilata la giunta al gran completo.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 18:05 da Gianfranco Manfredi


Presentava Michele Mirabella il quale nulla sapeva dei premiati né dei loro editori e leggeva i nomi da un foglietto facendo anche confusione. Essendo il presentatore di Elisir, man mano che andava avanti l’incredibile serata, mi è sorto il dubbio che si trattasse del premio Alzheimer. Il vincitore assoluto,lo hanno fatto arrivare in aereo dalla Cina. Quando passata l’una di notte è stato insignito del premio sul palco, Mirabella passandogli il microfono gli ha detto queste precise parole: “adesso mica ci rifilerai una sinossi del tuo romanzo!” No, figuriamoci… uno arriva dalla Cina e vuoi anche farlo parlare?

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 18:13 da Gianfranco Manfredi


Che Italia felliniana… Immagino il cinese col sangue agli occhi. Se fosse stato giapponese avrebeb sfoderato la katana…

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 18:26 da Simonetta Santamaria


No, era Ugo Barbara un giovane autore italiano, ma che facendo il giornalista si trovava in Cina. Avrebbero dovuto esserci anche due autori stranieri: un egiziano e un palestinese. Nella loro sezione aveva vinto un’autrice israeliana progressista che non vedendoli alla serata c’è rimasta malissimo perché temeva che non fossero venuti a causa sua. E’ stata informata invece perché al contrario di noi si erano informati per bene e alla prospettiva di dover affrontare il viaggio per vedersi rifilata una targa e non poter nemmeno parlare dei loro libri hanno saggiamente rinunciato. Questo paese è al totale collasso. Lo so che reclamiamo tutti un po’ di attenzione per il nostro lavoro, però quando l’attenzione c’è sarebbe stato meglio che non ci fosse stata.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 18:38 da Gianfranco Manfredi


L’ho scritto da cani l’ultimo post. Vado a leggere che è meglio.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 18:40 da Gianfranco Manfredi


Miei “vamp-irosi” amici, io sono qui che vi guardo e che vi leggo… ;)
[scusate... "vamp-irosi" mi è venuta fuori adesso... non c'entra nulla ma non sono riuscito a resistere].

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 18:51 da Massimo Maugeri


Ringrazio tutti per i numerosi commenti pervenuti e per gli ottimi contributi.
Come vi dicevo penso di rincodurre questo dibattito sul prossimo volume di “Letteratitudine, il libro”.
Letteratitudine-libro, è un biannuario: http://www.ibs.it/code/9788860030931/letteratitudine-libro.html

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 18:58 da Massimo Maugeri


In effetti, anche questo post, è una specie di “libro” scritto a più mani. Pensate un po’… ricopiando post e commenti in un file word (times new roman 12), vengono fuori più di 120 pagine…

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 19:00 da Massimo Maugeri


@ Gianfranco Manfredi
Caro Gianfranco, una curiosità “fumettistica”… o meglio, una domanda che ti pongo nella tua doppia veste di esperto di “letteratura vampirica” e addetto ai lavori nel mondo dei fumetti (sei il creatore di “Magico Vento” della Bonelli).
La domanda è: cosa pensi della serie Marvel “The Tomb of Dracula” di Gene Colan?
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Inserisco qualche link a beneficio di chi non conoscesse gli argomenti correlati alla domanda:
http://www.sergiobonellieditore.it/magico/servizi/autori.html
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http://fumettidicarta.interfree.it/Garage_Ermetico/DRACULA/Tomba_scoperchiata.htm
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http://it.wikipedia.org/wiki/Gene_Colan

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 19:06 da Massimo Maugeri


Estendo la domanda del precedente commento a tutti, ovviamente…

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 19:08 da Massimo Maugeri


Intanto ne approfitto per ringraziare Simonetta e Laura per la costante presenza e il supporto.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 19:09 da Massimo Maugeri


Andrea Ballarini mi segnala questo suo articolo “vampirico” uscito su “Il Foglio” nell’ambito della rubrica da lui curata “Vie Traverse”:
http://www.ilfoglio.it/vietraverse/
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Riporto il testo dell’articolo nel commento di seguito, come contributo alla discussione…

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 19:12 da Massimo Maugeri


“Mondo canino” di Andrea Ballarini
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L’accademia dei vampiri; I tarocchi dei vampiri della notte eterna; La setta dei vampiri; La guerra dei vampiri; Il crepuscolo dei vampiri; L’impero dei vampiri; La rivolta dei vampiri; L’ora dei vampiri; La città dei vampiri; Io credo nei vampiri; Il vangelo dei vampiri; Il signore dei vampiri; Scopri e colora i vampiri; Dizionario dei vampiri e dei lupi mannari; e poi tutti libri da cui sono tratti gli episodi della serie tv True blood, dove i titoli contengono la parola morto in tutte le sue declinazioni: Decisamente morto; Morto stecchito; Morti viventi a Dallas; Morto per il mondo; Il club dei morti; Morti viventi.

Questi sono solo alcuni dei titoli che si trovano girando per librerie in questo periodo. Sulla scia del successo planetario della saga di Twilight, in cui si narrano le avventure di Bella ed Edward, la coppia mista umana-vampiro di teenager che difendono il loro amore fuori dagli schemi – roba che nemmeno la versione più illuminata dei DICO ha previsto – agli editori è partita la brocca. Ma è solo comprensibile avidità di denaro o c’è dell’altro sotto un’epidemia di vampirismo di proporzioni tali al cui confronto quella vittoriana è solo un’anemica anteprima?

Innanzitutto quando ero ragazzino il vampiro era sempre al singolare: Dracula, il vampiro, appunto e aveva immancabilmente la faccia pseudocarpatica di Christopher Lee. Certo, la produzione culturale pop è sempre stata attratta dalla figura del non morto e ha con regolarità tentato variazioni sul tema. Per citare solo un esempio legato alla mia giovinezza, ricordo una serie di epici albi in cui Za-gor-te-nay, ovvero lo Spirito con la scure, per gli aficionados solo Zagor, affronta e sconfigge un epigono del conte stokeriano, il barone Bela Rakosi. Ma nella fluviale produzione del personaggio di Gallieno Ferri e Guido Nolitta (alias Sergio Bonelli) si trattava pur sempre di episodi marginali. E comunque, il vampiro era e restava Dracula.

Quelli che avevano studiato sapevano che c’era anche un romanzo di Bram Stoker oltre i canini e gli occhi rossi dell’attore della Hammer. E qualche nerd antelitteram l’aveva perfino letto, ma finiva lì. Del vampiro si sapeva che era un essere fuori del comune, raro, misterioso. E proprio su questa eccezionalità si fondava gran parte del suo fascino. C’era anche una punta di superomismo in questo aristocratico transilvano che aveva la forza di dieci uomini, la velocità del lampo, il potere di assumere varie forme (lupo, pipistrello, topi, nebbia), che era invulnerabile alle pallottole e che, per di più, indossava il mantello foderato di rosso senza essere ridicolo e, anzi, nessuna delle bellissime donne che pullulavano nei suoi film si negava l’ebbrezza di farsi succhiare il collo dal sexyssimo conte: insomma, era una specie di James Bond delle tenebre.

Adesso, invece, il vampiro ci viene proposto in tutte le salse, moltiplicato, pluralizzato, serializzato. Ci manca solo la Barbie vampira nel suo castello di Moplen con tanto di gothic-Jacuzzi e poi abbiamo visto tutto. Così il vampiro si inflaziona e perde il suo charme; diventa il vicino di casa un po’ scemo che invece di fare la spesa al supermercato ogni tanto si succhia qualche ragioniera di passaggio. Praticamente uno sfigato con dei disturbi alimentari. Per non parlare poi di quando smette anche di essere cattivo. Che dire di quei poveretti di Twilight che, siccome sono vampiri sì, ma con il senso di colpa, succhiano solo lepri, caprioli, cervi e altri mammiferi della fauna nordamericana? Ma siamo matti? Cos’è, una versione ematica del metadone? Il vampiro dev’essere cattivo, santo cielo! Va bene che siamo in tempi di relativismo e che abbiamo capito che l’unica certezza è che non ci sono certezze, ma se cominciamo anche a sindacare i miti è veramente la fine. Adesso che perfino l’Inter si è messa a vincere non ci sono proprio più certezze. Poi dice che i ragazzini crescono sbandati in mancanza di parametri di riferimento…

Per la verità, il fenomeno dei vampiri si inquadra in un più vasto interesse per la magia, l’occulto, l’extrasensoriale, il sovrumano che negli ultimi decenni sta dilagando in tutto l’Occidente. Harry Potter è la dimostrazione che con ingredienti simili, frullati in proporzioni diverse – per la verità con un notevole talento, va pur detto – si possono scrivere storie di enorme successo. Evidentemente la gente ha bisogno di spaventarsi, di eccitarsi, di provare la catarsi della liberazione. E tutte queste cose gli riescono più facili se avvengono in quella zona grigia tra sacro e profano che è il terreno dell’immaginario esoterico, o meglio, pseudo tale.

Senza entrare in una letale dissertazione sui limiti epistemologici dell’esoterismo, da non confondere con l’occultismo eccetera, per i quali conviene rivolgersi ad autorevoli testi che scavando nel ciarpame misterico delle librerie è ancora possibile reperire, mi pare chiaro che i vampiri di oggi sopperiscano a una mancanza. Vi ricordate quei fantastici racconti in cui sacro e magia erano elargiti a piene mani, tra una spuma al ginger, una partita a bigliardino e un Mottarello, negli oratori di una volta? Chi non si è emozionato con le avventure di Mosè, il mejo fico del bigoncio dell’Antico Testamento? Uno che, tanto per dirne qualcuna, parlava a tu per tu con Dio, trasformava i bastoni in serpenti, divideva le acque del Mar Rosso e faceva delle cose che nemmeno David Copperfield. Oggi in chiesa ci va sempre meno gente e le storie ai bambini le racconta più Disney Channel che la nonna. L’unico vero tabù rimasto a questa società è la morte che, non a caso, è stata accuratamente rimossa dai mass media, salvo nelle sue forme più ecumeniche, quelle delle disgrazie naturali e degli attentati che, però, per il fatto di essere collettive sono sempre qualcosa che riguarda gli altri. E che i vampiri siano i non-morti forse qualcosa vorrà dire. Del resto, si sa, il rimosso tende a ritornare.

Non per metterla giù troppo dura, ma consentitemi qualche citazione. Nel 2003 il Vaticano per voce dell’allora cardinal Ratzinger condannava il maghetto con gli occhiali come agente di uno strisciante complotto magico-diabolico (ultimamente pare che, invece, il Principe Mezzo Sangue gli sia piaciuto). Ben prima del prelato bavarese il discusso scrittore tradizionale René Guenon ne “Il regno della quantità e i segni dei tempi”, se la prendeva con la desacralizzazione della società moderna che, chiudendo la porta agli influssi spirituali provenienti dall’alto spalancava la finestra a quelli provenienti dal basso. E prima ancora il caro Sigmund Freud metteva in guardia Jung contro la nera marea dell’occultismo. Alla luce di ciò mi verrebbe da dire, un po’ alla buona, ne convengo, ma sono un ragazzo semplice, che il modo più rapido per rimettere i vampiri al loro posto e riavere delle librerie meno monotematiche sia di ricominciare a mandare i bambini all’oratorio. O, per i laici, adesso che sta tornando di moda il vinile, di ritirare fuori le Fiabe sonore dei Fratelli Fabbri, dove gli orchi erano orchi, i lupi, lupi e Biancaneve non aveva ancora scoperto le gangbang con i sette nani. “A mille ce n’è, nel mio mondo di fiabe da narrare… da narrarar…”

© 2009 – FOGLIO QUOTIDIANO
di Andrea Ballarini
http://www.ilfoglio.it/vietraverse/3

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 19:14 da “Mondo canino” di Andrea Ballarini


Ritorno più tardi per inserire ulteriori contributi.
Intanto, ancora grazie a voi tutti per la partecipazione…

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 19:19 da Massimo Maugeri


Molto bello l’articolo di Andrea. Che dire, abbiamo già detto tutto. Ci sono i pro e i contro la modaiola metamorfosi vampirica. Io sono essenzialmente contraria. Anche per me il vampiro è e deve restare cattivo. Un’icona del mondo orrorifico non può essere “deportata” e snaturata fino a questo punto.
belle le fiabe sonore, pure io ce le avevo. Solo che poi sempre qui sono finita.
A domani! ;)

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 20:17 da Simonetta Santamaria


Grazie, cara Simonetta. A domani!

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 21:04 da Massimo Maugeri


Come ulteriore contributo inserisco la postfazione di Loredana Lipperini a “Io credo nei vampiri” di Emilio de’ Rossignoli (Gargoyle).
Ringrazio Loredana Lipperini e la Gargoyle per averla messa a disposizione di “Letteratitudine” autorizzandomi a pubblicarla.
Per favorire la lettura suddividerò la suddetta postfazione in cinque parti.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 21:08 da Massimo Maugeri


BRUCIARE LE STOPPIE di Loredana Lipperini (parte I)
-
Credo nei vampiri, dice de’ Rossignoli.
La chiave non è il vampiro. È la parola iniziale: credo. È l’atto di fede e di passione verso la storia che si racconta. La certezza della sua plausibilità nell’essere, per definizione, non plausibile. I vampiri non esistono, così come non esistono uomini che si mutano in lupi sotto la luna piena. I vampiri non esistono, così come non esistono porte che si spalancano per far tornare i morti tra i vivi. I vampiri non esistono, così come non esistono i mondi roteanti, folli, sbagliati su cui si affacciò Lovecraft. Eppure, se chi scrive crede, riesce a convincere chi legge a guardare nella stessa fessura e a scrutare le stesse tenebre, per quanto spaventoso possa – e debba – essere.
Credo.
È lo stesso verbo usato da Stephen King nella prefazione a “Incubi e deliri”.
Credo.
“Credo che una monetina possa far deragliare un treno merci. Credo che nelle fogne di New York ci siano alligatori, per non dire di topi grossi come pony Shetland. Credo che si possa strappar via l’ombra a una persona con un picchetto da tenda. Credo che esista davvero Babbo Natale e che tutti quei tizi vestiti di rosso che si vedono in giro per le strade a Natale siano i suoi aiutanti. Credo che intorno a noi ci sia un mondo invisibile. Credo che le palline da golf siano piene di gas velenoso e che, a tagliarne una in due respirando l’aria che ne viene fuori, si resti uccisi. Soprattutto, credo nei fantasmi, credo nei fantasmi, credo nei fantasmi”.
Credo.
Provate a domandare, oggi, se qualcuno crede nei vampiri. Si alzerebbero fin troppe mani: ma l’idea di vampiro che hanno in mente non è quella di de’ Rossignoli, o di King, e tanto meno di Stoker. Nella maggior parte dei casi si affannerebbero a spiegarvi che, sì, stanno pensando ad una creatura dannata, ma la cui bellezza è stata miracolosamente preservata nel tempo. Una creatura che non snuderebbe le zanne come i non-morti narrati non solo nei libri, ma in film o serial fedeli al mito, come “Buffy the Vampire Slayer”. Il vampiro che sognano sarebbe, invece, diverso dagli uomini e per questo solitario: ma in cerca di un amore che lo scaldi. Magari avrebbe anche qualche riconoscibile debolezza: le moto, o le automobili potenti, esattamente come i maschi umani. Magari indosserebbe persino un giubbotto di pelle. Come, prima di lui, hanno fatto gli eroi delle adolescenti: Fonzie di “Happy Days” e Step di “Tre metri sopra il cielo”. Come avviene, ecco il punto, in “Twilight”.
Credo, direbbero.
Credo che i vampiri non siano così diversi da un ragazzo disadattato, magari con genitori separati. Credo che il potere dell’amore (del mio, che sono una lettrice di quindici anni, o una madre mai cresciuta) possa annientare il Male. Credo che il Male, infine, sia qualcosa che viene sempre ricacciato indietro, e che scivolerà via dalla nostra bella vita perfetta: da quella che noi sogniamo come una vita perfetta, non è per questo che ci piacciono le ronde e che i diciottenni hanno votato Lega?
Queste, temo, sono le parole che si ascolterebbero oggi: perché – è inutile negarlo – la saga creata quasi per caso da Stephenie Meyer ha aperto una porta che non affaccia sul buio, ma sul tinello di una sposa americana degli anni Cinquanta. Il mondo è andato avanti, direbbe King: vale anche per il mondo dell’horror. Avanti, verso il lieto fine e la Bella che addolcisce la Bestia.
Credo.
Il problema, però, è che l’Italia è il paese dove, dopo l’America, la saga di “Twilight” ha avuto più successo.
Il problema è che l’horror italiano è assai lontano dall’aver conquistato le posizioni americane.
Il problema è che molti difensori italiani del genere sono responsabili diretti della sua deriva verso il romance.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 21:10 da BRUCIARE LE STOPPIE di Loredana Lipperini (parte I)


BRUCIARE LE STOPPIE di Loredana Lipperini (parte II)
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All passion spent
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Che cosa significa davvero la parola horror? Una copertina con una macchia di sangue rosso vivo? Il soffio di un gatto nero? No, questa è paccottiglia. Allora, riproviamo: una storia con morti inspiegabili? Un visitatore che bussa alla porta? Una ragazza molto bionda con la gola squarciata da due canini appuntiti? Ancora una volta, no: o almeno non dovrebbe essere soltanto così. Occorre dare nuovamente la parola a King, che in una vecchia intervista dichiarava che il suo obiettivo non aveva nulla a che fare con lo splatter:

“uno dei miei compiti in quanto scrittore è quello di assalire le vostre emozioni e forse di aggredirvi – e per far questo uso tutti gli strumenti disponibili. Forse sarà per spaventarvi a morte, ma potrebbe anche essere per prendervi in modo più subdolo, per farvi sentire tristi. Riuscire a farvi sentire tristi è positivo. Riuscire a farvi ridere è positivo. Farvi urlare, ridere, piangere, non mi importa, ma coinvolgervi, farvi fare qualcosa di più che mettere il libro nello scaffale dicendo: “Ne ho finito un altro”, senza nessuna reazione. Questa è una cosa che odio. Voglio che sappiate che io c’ero”.

Ha ragione, come sempre. Cosa sarebbe la letteratura horror senza le emozioni, senza la passione, senza personaggi forti e storie che guardano al mondo che abbiamo intorno? Perché nessun rovescio è possibile se non si ha presente il punto di partenza, e King, e Lovecraft, e Poe lo sapevano benissimo. Stereotipi. Perché soltanto il talento di un narratore che vuole suscitare emozioni può rendere reale, e temibile, il volto pallido di un vampiro, o la carne marcia di uno zombie, o il ghigno di uno scheletro. Non avviene così spesso: molti autori italiani – e non pochi lettori dei medesimi – pensano che la via all’horror sia semplicemente quella di fornire bocconcini di sangue a chi li chiede.
Così, mentre altrove si galoppa – grazie a King, grazie a Clive Barker, grazie a Neil Gaiman – qui si resta ancora agli anni in cui il giovanissimo Stevie pubblicava “Ero un giovane profanatore di tombe” su una fanzine (1966). Oppure, se va molto bene, a quel 1988 in cui vide la luce il primo libro del ciclo del “Drive in” di Joe Lansdale. Vero: i grandi scrittori di genere sono passati, tutti, attraverso l’omaggio allo stereotipo ingenuo. Ma trasformandolo. In Italia, rischiamo di fermarci a quello. Con pochissime eccezioni, che si contano sulle dita di due mani, la narrativa italiana horror sembra preoccuparsi molto poco delle emozioni e moltissimo dei vecchi ingredienti: coperchio di tomba che si solleva nella notte, scricchiolio di porte, sangue. Tette, quanto basta.
Fate, prego, un giro per siti amatoriali, fanzine, gruppi di discussione dedicati all’horror. Troverete che, a fronte di una potenzialità notevolissima, la narrativa italiana di genere rischia di restare saldamente nelle mani di una nicchia. E quando il varco si apre a testi che usano almeno una parvenza di emozione, tingendo il nero di rosa, quella stessa nicchia si divide in due fazioni: alcuni si indignano, altri sostengono che in fondo “Twilight” è un horror.
C’è un vampiro, che diamine.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 21:12 da BRUCIARE LE STOPPIE di Loredana Lipperini (parte II)


BRUCIARE LE STOPPIE di Loredana Lipperini (parte III)
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Children of the corn
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Dunque, ripartiamo da qui. La parola vampiro, nei tempi recenti, si associa a una fisionomia ben precisa: ha i capelli color bronzo, lo sguardo ardente e le buone maniere di Edward Cullen, principe più adatto al castello di Biancaneve che a quello di Dracula. La tetralogia di Twilight di cui è protagonista è da mesi in testa alle classifiche dei libri più venduti, inonda forum e gruppi di discussione, dove spesso si contrappongono fanciulle che gridano al genio e appassionate difese della purezza dell’horror. Quale horror? In tema vampiresco, non si difende Polidori, non Stoker, non King, non Lindqvist. Ma Anne Rice e Laurell K. Hamilton, creatrice della saga di Anita Blake. Su entrambe ci sarebbe qualcosa da dire: più avanti, però.
Cullen beve solo sangue animale e rispetta gli umani: qualcosa di inedito, e di profondamente sbagliato, nella letteratura fantastica, dove i vampiri sono, sempre, sintomo di ribellione. Cullen incarna l’esatto contrario. Invece di essere portatore di una non morale, ne ripristina una. Invece di spezzare le norme comunitarie, se ne fa difensore: è integrato nella società umana, impone il matrimonio alla sua amata Bella, rimandando il contatto sessuale a dopo le nozze, non intende farne una sua simile mordendola. E, non casualmente, il sole, indispensabile agli umani e fatale per i non-morti, non lo uccide, ma lo fa brillare come un gioiello.
Dunque, la saga della Meyer si fonda non sull’emozione, ma su un’astuzia: laddove il vampiro è portatore di eros, qui l’eros si nega, si rimanda, si allude. E quando, dopo il matrimonio, viene infine consumato, viene nascosto dietro la – vieta – metafora di “annegare in acque profonde”. Il modello Cullen si estende a non pochi dei numerosissimi libri sui vampiri usciti in questi ultimi tempi. Newton Compton ha mandato in stampa due dei quattro volumi de “Il diario del vampiro” di Lisa J. Smith, autrice specializzata in romanzi per giovani adulti e vampiri innamorati. La casa editrice ReNoir pubblica un’accoppiata romanzo più serie manga che si chiama Vampire Kisses, di Ellen Schreiber, dove si narra la storia d’amore fra una goth-girl di nero vestita e il bel ritornante Sterling. Ovunque, ci si imbatte in modelli più o meno estremi di inserimento dei vampiri nella società degli uomini, con la perdita della loro parte aliena. Avviene in Marked di P.C. e Kristin Cast. Avviene in manga come “Vampire Knight” e nell’acclamatissimo serial televisivo “True Blood”, nato dai romanzi di Charlaine Harris: dove il sangue c’è, ma è sintetico.
In Italia la Harris è pubblicata da Delos: editore attivissimo in rete, che pubblica anche due fanzine di genere come “Horror Magazine” e “Fantasy Magazine”. Un’occhiata alla vetrina. Senza guardare i titoli. O gli autori. Ma soltanto le trame:

“Kate McAlliston, giovane studentessa, accetta di lavorare come stagista presso una prestigiosa rivista di moda, “Tasty”. Dopo le prime angherie e umiliazioni inferte dalle colleghe e dalla direttrice, Lillian, quando finalmente Kate sta conquistando un piccolo spazio per sé, all’improvviso si trova di fronte a una rivelazione terrificante: l’intero staff della rivista sarebbe composto da vampiri”.

Ancora:

“Vicki Nelson, in passato detective della sezione omicidi della Polizia di Toronto e ora investigatrice privata, è stata testimone del primo attacco sferrato da una oscura forza magica che ben presto scatena il suo regno del terrore. A mano a mano che i casi di morti inesplicabili si succedono, Vicky si trova coinvolta in un’indagine per individuare la fonte di questi attacchi e che la portano a conoscere Fitzroy, un individuo che possiede conoscenze relative a regni che esulano da quello mortale, acquisite nel corso dei secoli che ha trascorso impegnato a dominare il suo personale, insaziabile bisogno, l’avidità di sangue propria di un vampiro”.

Oppure:

“Tutto quello che Damali ha sempre desiderato è creare musica e suonare davanti a un pubblico. E ci è riuscita: è diventata una apprezzata artista di Spoken Word e la principale attrazione della Warriors of Light Records. Quando cala la notte, però, Damali si trasforma. E inizia la caccia a predatori che la maggioranza delle persone considera soltanto miti o leggende: i Vampiri… L. A. Banks ha creato un mondo immaginario magico e brillante, che dona una vita intensa alle nostre più profonde paure, e Damali Richards, la dura e sexy cacciatrice di vampiri, è un’eroina destinata a durare nel tempo”.

Poi, leggete questo:

“Briana Davenport è la modella di punta delle campagne pubblicitarie dei diamanti Blackstone ed è per questo che non può permettersi di essere sedotta da un Hammond. Ma Jarrod è così maledettamente sexy che Briana cede alla folle richiesta di diventare la sua amante per un mese intero. Sia chiaro, ogni prestazione ha un prezzo, quando c’è di mezzo un Hammond, e il suo, Briana, l’ha già messo bene in chiaro: un milione di dollari e il divieto di innamorarsi. I sentimenti però non si possono imbrigliare e la passione tra i due divampa dentro e fuori dal letto, finché una misteriosa collana rischia di allontanarli per sempre”.

I primi tre sono horror. L’ultimo è un “Harmony”. Serie “Destiny”. I vampiri non hanno nulla a che vedere con la storia. Ma le parole sono, quasi, le stesse.
Non è un caso. La Harlequin ha deciso di aprire una sezione “paranormal”, Harmony Bluenocturne, primo titolo “Sulle ali della notte”. Storie: demoni e vampiri, che si innamorano di umane. Bellissimi. Potenti. Soli. Ma pronti a “illuminarsi con la promessa di un amore eterno”. Slogan: “Ti piacerebbe conoscere il lato oscuro dell’amore?” Spiegazione:

“Romanzi dove le vicende di vampiri, demoni e creature fantastiche si intrecciano alla realtà, in un turbine di passioni travolgenti e amori eterni, ma sempre tormentati. D’altra parte, lo sapeva bene già Bram Stoker, quando, in “Dracula”, dipinse una delle più grandi storie d’amore di tutti i tempi (…) Insomma, ci troviamo di fronte a favole moderne, non meno credibili, alla fine, di tanti altri romance; lo conferma il fatto che spesso uno dei commenti espressi dalle amanti del paranormal è proprio l’alto tasso di immedesimazione nelle vicende narrate. Che dire? L’amore non ha confini, di questo eravamo certe.
Un esempio su tutti, il grande successo riscosso da Stephenie Meyer: con il suo romanzo “Twilight” ha venduto 11 milioni di copie, riscuotendo un clamore tale da approdare a Hollywood: proprio oggi esce in Italia il film tratto dal libro e, grazie al fascino degli attori protagonisti, la pellicola si è già trasformata in vero e proprio fenomeno di massa”.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 21:13 da BRUCIARE LE STOPPIE di Loredana Lipperini (parte III)


BRUCIARE LE STOPPIE di Loredana Lipperini (parte IV)
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Colui che cammina tra i filari.
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Il grano è cresciuto troppo: e tra le spighe non si nasconde una creatura misteriosa, come ne “I figli del grano” di King, bensì una caricatura di vampiro. Neanche più un gentleman, ma il ragazzo della porta accanto che desidera solo una cosa: essere come noi.
Perché quel che predomina nel filone romance dell’horror è un sovrannaturale addomesticato, che si rende identico al naturale. Mentre la dimensione altra del mondo dovrebbe, per citare di nuovo Stephen King, colare a poco a poco nella nostra realtà come liquido dal fondo di un sacchetto di carta. Contaminandola. Questa, per King, è la paura. Che è anche la parola chiave del nostro tempo: e forse è proprio l’accresciuto timore verso quel che ci è estraneo a spingere gli scrittori ad ammorbidire la figura mitica più spaventosa dell’immaginario. I vampiri sono morti che tornano. Sono, dunque, incarnazione di una tremenda anomalia sociale. Peggio: la estendono attraverso il contagio, rendendoci contemporaneamente vittime e colpevoli, come raccontò in modo esemplare Abel Ferrara in un film di oltre dieci anni fa, “The Addiction”, dove il vampirismo si diffonde rabbiosamente col morso di una studentessa (una versione più morbida dello stessa tema è in un altro romanzo, “Vampirus” di Scott Westerfeld: una versione di ben altro spessore è quella di Gianfranco Manfredi, in “Ho freddo”).
Di contagio (il male subito porta a commetterne altro) parla anche il semiologo Renato Giovannoli nel saggio “Il caso Manzoni-Dracula e altri casi di vampirismo letterario”. E ne parla John Ajvide Kindqvist, autore di uno dei romanzi più belli sul vampirismo usciti di recente, “Lasciami entrare”. Eli, il vampiro bambino, diffonde il male, anche se suo malgrado. Contagia il suo ex-protettore umano, un pedofilo ossessionato dal desiderio di possederla, al punto di non trovare requie neanche dopo la non-morte. Contagia Virginia, una donna alcolista, che respinge il suo nuovo status e cerca volontariamente la fine esponendosi alla luce (il sole, qui, consuma la pelle dei vampiri come acido). Non contagia Oskar: non fisicamente, almeno, anche se una delle pagine più belle del romanzo è dedicata al timore del bambino di essere diventato un vampiro (o di essere un omosessuale, quando scopre che Eli non è esattamente una femmina). L’influenza di Eli è semmai mentale: perché dopo averla incontrata Oskar troverà il coraggio di reagire, anche con la violenza, ai suoi aguzzini.
Negli indifferenti anni Ottanta in cui è ambientata la storia di Lindqvist, esseri umani picchiano, sniffano, bevono, insidiano bambini. Eppure, è Eli la loro paura. Perché non appartiene all’umanità, non ha un sesso, non ha dimora. Poco conta che sia capace di provare tenerezza davanti a un giocattolo e di lasciare messaggi d’amore a Oskar usando i dialoghi di “Romeo e Giulietta”. Infatti, non sarà lei a integrarsi: sarà Oskar a trasgredire ogni possibile norma pur di restarle vicino, allontanandosi per sempre dalla comunità. I docili vampiri di Stephenie Meyer, al contrario, cercano con ogni mezzo di adeguarsi al mondo umano: facendo propri gli aspetti superflui del medesimo, come le automobili lussuose e le carte di credito da donare alla fidanzata.
Ma l’horror, dice Lindqvist, non deve rassicurare, bensì mostrare “le cose in agguato degli angoli bui. Del mondo. Della mente”. Questo non accade più. Cosa è successo per trasformare il vampiro in figurina, o in sex symbol, come l’assai celebrato Jean Claude creato da Laurell Hamilton?
C’è stato un inganno. C’è stata, appunto, una deriva.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 21:14 da BRUCIARE LE STOPPIE di Loredana Lipperini (parte IV)


BRUCIARE LE STOPPIE di Loredana Lipperini (parte V)
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In qualunque punto ci aprano, siamo rossi
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Però c’è altro. Le onde arrivano, travolgono e poi si ritirano. Accadrà anche in questo caso. Ma cosa lascerà l’onda sulla nostra spiaggia? Non mostri, ma granchiolini che scambiano le proprie chele per quelle dell’aragosta gigante creata da King. Manca, in Italia, la consapevolezza della potenza letteraria dell’horror. Quella che potrebbe avere, e quella che ha avuto. È esistito, nel Novecento, un gotico italiano che sembra essere passato senza lasciare traccia: quello di Tommaso Landolfi, di Dino Buzzati, dello stesso Italo Calvino. L’horror italiano, oggi, è – salvo la decina di eccezioni di cui si parlava – quello di un piccolo gruppo che si trincera dietro l’incomprensione altrui, e che vivacchia senza guardarsi attorno.
In un’intervista di pochi mesi fa, Valerio Evangelisti mi ha detto:

“Abituati al ghetto, esistono scrittori che lo scambiano per il mondo intero. Finiscono per adattarvisi e per ritenere ostile, in nome del loro comfort, tutto l’universo ‘esterno’, che li ignora. Li comprendo, li stimo, ma ho fatto una scelta diversa dalla loro. A me interessa una narrativa che si scontra-incontra con grandi temi storici e sociali, che si confronta con il presente (anche se mascherato da passato o da futuro). Io non ho una formazione letteraria, ho studiato e per un po’ insegnato scienze politiche, storia, sociologia, economia. La grande fantascienza che lessi daragazzo era piena di suggestioni di quel tipo. Si parlava del futuro per riferirsi all’oggi. Chi si chiude nei recinti dell’horror, della science fiction, del giallo ecc. rischia di creare da solo il proprio campo di concentramento”.

Per esempio: diverso tempo orsono uscì un’antologia curata da Raul Montanari. Si chiamava “Incubi – Nuovo horror italiano”. La stroncatura che venne dai fan non era tanto sul contenuto. Ma sui nomi. Molti autori venivano da altri generi (Gianni Biondillo o Marcello Fois, per citarne due). Vennero definiti “immigrati clandestini”.
Eppure il rinnovamento del giallo e del noir italiano avvenne proprio grazie ai clandestini. Ancora Evangelisti lo ricorda:

“Il giallo-noir di Macchiavelli, Lucarelli, Carlotto, De Cataldo, Camilleri, Fois e altri, è stato il primo a sfondare le barriere. Parlava di società italiana proiettandole contro una luce fredda, mentre i bestseller correnti mettevano in scena drammi individuali magari interessanti, però avulsi dal contesto socio-economico, ed evitavano di prendere posizione. Qualche volta si limitavano a esercizi linguistici… Insomma, il ‘genere’ regge solo se è sorretto a sua volta da un progetto e da una filosofia. Altrimenti si riduce a trame stente e marionette spacciate per personaggi”.

Quei nomi arrivavano in un panorama che si aggrappava ai propri recinti, difendendone la presunta purezza: e lo rinnovarono. L’horror, evidentemente, è più resistente. Negli ultimi sei mesi scrittori che non frequentavano il genere fantastico hanno pubblicato libri che possono a pieno titolo essere definiti horror. Girolamo De Michele ha scritto una ghost story, “Con la faccia di cera”. Fred Vargas ha pubblicato “Un luogo incerto”, una storia di vampiri. Jacques Chessex, scrittore svizzero vincitore del premio Goncourt 1973, ha scritto “Il vampiro di Ropraz”. Giuseppe Genna, con lo pseudonimo di Lidia Colleoni, ha scritto “L’assedio del male”, horror ambientato a San Giovanni Rotondo, con Padre Pio in campo. Sono tentativi, esplorazioni, desiderio di riportare al reale l’irreale. Nessuno di questi romanzi viene citato nelle webzine di settore: Horror magazine (che invece dedica ampio spazio alla Meyer), Horror.it, il Cancello, Scheletri.
Il punto è qui. A fronte del disinteresse dei media tradizionali per la letteratura di genere, la rete dovrebbe essere il luogo dell’approfondimento e dell’ampio respiro: lo è nei singoli blog, o su aNobii. Nelle webzine (eccezion fatta per Carmilla) manca la consapevolezza di cosa sia stata e sia la grande letteratura gotica italiana ed europea: l’horror è caricatura, b-movie, schizzi di sangue. Roba da nerd malintesi e, va da sé, incompresi.
Invece, bisogna credere.
Credo, ancora una volta.
Credo nei fantasmi, credo nei vampiri: ma è il mio mondo quello che si rispecchia, capovolto, nei loro occhi. Per questo va raccontato: rovesciandolo e fingendo che sia altrove.
Credo che l’horror non sia una scorciatoia per la letteratura: ma che ne sia una delle forme più alte.
Credo che nella narrativa fantastica dormano possibilità ancora non colte. Che possano e debbano esserci, al suo interno, quelli che Wu Ming indicava come tratti comuni ai testi New Italian Epic: che valgono anche e forse soprattutto per l’horror: “assunzione di responsabilità, visione del futuro, comunicazione con altri mondi e messaggio alla comunità”.
Credo nel fuoco.
Credo che il fuoco sia necessario, oggi, affinché le stoppie brucino, e la consapevolezza cresca insieme alla passione.
Credo che sia necessario discuterne, ora, subito. Per ripartire.
Credo.
Credo nei vampiri, e credo che a volte ritornino. Anche quando tutto sembra finito.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 21:15 da BRUCIARE LE STOPPIE di Loredana Lipperini (parte V)


Ringrazio ancora una volta Loredana, per la postfazione… e tutti voi per essere qui.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 21:18 da Massimo Maugeri


Considerato che di nuova “roba da leggere” ce n’è abbastanza, io vi saluto e – come sempre – vi auguro una serena notte.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 21:20 da Massimo Maugeri


Salve a tutti, rispondo al post inserito dal professore Maugeri.
Per quanto riguarda il mio romanzo: “Io,vampira”, è stato pubblicato dalla libreria editrice Urso e si narra di una vampira particolare, Maya, che non è attratta dal sangue e si sente diversa. Diversa dalla sua specie e diversa dagli uomini. Presto si renderà conto che la famiglia che l’ha messa al mondo vuole fare di lei un essere mostruso, una macchina che trasformi tutti gli uomini in vampiri, e si ribellerà.
La salvezza del mondo dipenderà da lei e sarà combattuta. Maya non sa chi o cosa sia veramente ma sa che tutto ciò che deve fare è non cedere al sangue, alla tentazione…

Inserisco qui di seguito il brano iniziale tratto dal mio romanzo…

IO, VAMPIRA

3 GENNAIO 2009

L’odore nauseante di chiuso mi riempì i polmoni infastidendomi notevolmente, sentivo la polvere solleticarmi la gola ma tossire fu peggio perché subito dopo ne inalai ancora di più.
Il mio respiro cominciava a diventare sempre più regolare e non mi accorsi di essere stata in preda all’agitazione fino a poco tempo prima.
Tutto appariva buio intorno a me, forse stavo per svegliarmi ed ero ancora in quella fase di incoscienza tra il sonno e la veglia. Nel frattempo, come se tutte le mie articolazioni si fossero a lungo congelate, sentii il bisogno di muovermi, e senza pensarci alzai d’istinto il braccio che mi parve pesante. Confusa cercai di grattarmi la testa, volevo sentire le dita a contatto con la mia pelle, ma anche queste sembravano non reagire.
Un impulso improvviso mi percorse il braccio, ancora sollevato a mezz’aria, e di scatto, sobbalzando insieme a tutto il resto del corpo, lo sbattei contro qualcosa di duro e freddo, sopra di me. Borbottai ricacciandolo di nuovo lungo il fianco, quasi arresa da un tentativo che avevo ripetuto già varie volte. Infine sospirai, avvolta da un buio che non riuscivo a comprendere.
Forse stavo sognando: era questa l’unica spiegazione razionale che potevo darmi.
Ebbi l’impressione di essere distesa su di una lastra solida e gelida, tra polvere e terra e pensavo che delle catene mi legavano al suolo limitando i miei movimenti.
Strani pensieri mi rendevano sempre più cosciente di essere sveglia e l’incapacità di muovermi cominciava ad innervosirmi, non riuscivo più a tollerare lo stato in cui mi trovavo e il bisogno di alzarmi era sempre più forte.
Lo desideravo, ardentemente.
Ci riprovai. Un brivido freddo mi percorse lungo la schiena tanto da farmi deglutire e mi accorsi che la bocca era arsa, la gola completamente asciutta e la lingua come la pietra in cui giacevo.
Sfiorai le labbra, erano secche, fredde, asciutte, desiderose di bere.
Volevo qualcosa di caldo.
Dissetarmi. Era questo che desideravo più di ogni altra cosa.
Borbottare mi fu naturale, un gemito soffocato, e ascoltarmi mi fece capire di essere sola.
Singhiozzai, ma senza piangere, non avevo lacrime da gettare, e mi sentivo piccola e indifesa.
Forse stavo davvero sognando. Nessuno poteva aiutarmi.
Dovevo solo svegliarmi.
E adesso desideravo svegliarmi.
Solamente io potevo aiutarmi, e dovevo aiutare me stessa.
Gettai la testa da un lato e il collo scricchiolò.
Rimasi così non so per quanto tempo.
C’era freddo, lo sentivo fin dentro le ossa e tutto sembrava reale, e poi, all’improvviso, delle voci infransero quella cortina di ghiaccio che mi avvolgeva.
Restai impietrita, e spalancai gli occhi.
Sogno o realtà ?
Sbattendo le palpebre più volte cacciai ogni mia incertezza.
Non ero ancora cosciente di dove fossi, né tanto meno come ci fossi arrivata: tutto era buio.
Tutto era vero.
Reale.
Mi resi conto di essere sveglia e il buio che mi circondava mi fece entrare nel panico.
Un luogo strano ed insolito.
Paura.
E mentre le voci, sempre più forti, si avvicinavano a me, iniziai a lamentarmi.
Volevo urlare, chiedere aiuto ma non feci né l’una né l’altra cosa.
Solo una lunga serie di lamenti e poi, quando le voci divennero un ronzio incomprensibile, mi azzittii, per paura di essere rimasta nuovamente sola.
Un tonfo. Dei passi sempre più pesanti e poi, il vento.
Misi da parte il panico, non mi avrebbe fatto capire ed io continuavo a non capire.
Luce.
Infastidita da un lungo bruciore chiusi gli occhi per un istante e udii altre voci, poi, tornò nuovamente il silenzio. Improvviso.
Anche il mio cuore aveva smesso di battere e il mio respiro era fermo, irregolare.
Un rumore, solo un’altra voce ed io avrei urlato, chiesto aiuto e anche implorato, se necessario, per ritornare ad essere libera.
Striscio.
Fremito.
Qualcosa di vivo mi sfiorò la gamba.
Sobbalzai ancora, la sensazione era piacevole.
Era caldo. Come desideravo.
Si spostava velocemente accanto a me, lo sentivo zampettare e volevo sentire ancora il suo contatto.
Lo cercai con lo sguardo, i miei occhi immersi in un buio terrificante.
Non c’era, io non riuscivo a vederlo eppure lo sentivo, era accanto al mio braccio e il calore che emanava mi turbava profondamente.
Lunghi baffi iniziarono a vibrare solleticandomi il dorso della mano, l’essere si stava orientando, e nel buio ci riusciva ancora meglio di me.
Provai un rancore improvviso e muovendo la mano lo sfiorai.
Scattò, spaventato, ma la mia mano voleva soltanto il suo calore e con forza brutale lo afferrai impedendogli di fuggire.
Gli stavo rubando la vita.
Le dita fredde si strinsero contro il suo debole corpo, erano pietra contro tenera carne.
Nel mordermi, per difendersi, gli si spezzarono i lunghi incisivi e il palmo della mia mano, assassina, continuava a chiudersi in una presa mortale. Non sentivo dolore ma percepivo il suo e il versetto stridulo che emise mi rese ancora più aggressiva.
Non mi rendevo più conto di ciò che stavo facendo, mi interessava il suo calore, volevo il suo contatto e poi, ero diventata crudele.
La presa divenne sempre più soffocante, spietata.
Invidiavo la sua vita e per questo lo stavo annientando.
Il misero corpo del ratto si sciolse tra le mie mani ancora chiuse in una trappola fredda ed il suo sangue cominciò ad arrossarmi le unghie, i polpastrelli e le dita di pietra.
Era caldo. Il sangue del miserabile era molto caldo.
Mi sentii infuocare, tutto il mio corpo era come avvolto da fiamme invisibili, bruciavo dentro e per un lungo attimo provai di nuovo piacere, poi le narici si spalancarono improvvisamente e mischiato all’odore dell’umida terra, sentii il sangue. Era come assaggiarne il sapore e il disgusto che provai fu immenso. Volevo scappare, contava solo questo e la reazione che ebbi fu spaventosa.
Niente piacere, nessun desiderio.
Adesso dovevo fuggire.
Non potevo più controllarmi, mi dimenavo e picchiavo forte contro le pareti freddi e pesanti che mi circondavano. Sentivo le ossa spezzarsi ma non provando alcun dolore non mi fermai.
Picchiavo con tutto il mio corpo. Mi lanciavo contro il muro.
Ogni parte di me si era improvvisamente svegliata, io volevo uscire da quell’insolito posto in cui mi trovavo e tutte le mie articolazioni collaboravano con me, per questo.

Il luogo che mi imprigionava era stretto, non c’erano vie di uscita ma io ero viva e da qualche parte doveva pur entrare l’aria che respiravo.
- Ah…-
L’odore disgustoso del sangue era diventato molto forte, mi sentivo di nuovo febbricitante e arricciando il naso portai i pugni verso le pareti per picchiare ancora.
L’aria era sangue.
Un altro pugno contro la parete, qualcosa di caldo cadde sul mio volto.
Sangue, l’odore era inconfondibile.
Disgustata e stringendo anche gli occhi mi accorsi che in una mano stringevo ancora il cadavere liquefatto del roditore.
Feci una smorfia. Mi gettai contro la parete e ricaddi in posizione supina.
Basta.
Mi arresi. E nel silenzio mi riaddormentai.

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 23:43 da Miriam Vinci


Scusami Massimo, ma non conosco niente dei libri che hai citato. Chiedo scusa anche agli intenditori.
Mi ricordo soltanto la scena di un famoso film intitolato Dr Jack e Mr Hide dove illustre dottore al plenilunio si trasformava in lupo, gli crescevano rapidamente arquate unghia lunghe, peli folti e ispidi sul dorso delle mani e sulle braccia, il volto assumeva le sembianze di una scimmia, in quell’antro, dimenandosi, lo scenziato alchimista era sopraffatto dalla bestia. Tutt’oggi la trovo una metafora della vita sulla quale riflettere.
Sono altresì daccordo con quanto ha scritto Andrea Ballarini (articolo acuto e divertente) e ne condivido lo stesso stupore di fronte al successo di “certi libri” – che a questo punto non riguardano solo fasce adolescenziali- un termometro, questo, che segnala una società con bisogni di ritorno al gotico,processi antievolutivi…trovo più interessante,invece ,osservare il comportamento di colui che appare un componente “qualunque” della società, il singolo che compone la collettività, per esempio il tizio che s’incontra quotidianamente sulla metro, l’insegnante di pesistica, il professore alla university, il borsista, lo scentista, quel popò di professionista ben vestito, profumato, lacchè,
ma che quando c’è la luna piena tira fuori lo scimmione senza ragione e sentimento, il bruto soddisfa comunque Darwin il quale, avendo paragonato l’essere umano agli animali, non ha comunque mai provato le vere origini del suo falso spiritualismo…
Ciao
Rossella

Postato venerdì, 5 marzo 2010 alle 23:45 da Anonimo


Chiedo scusa se non sono più presente. Ho un’emergenza casalinga. Se il forum si protrae sino a domani, interverrò di sicuro. L’articolo della Lipperini già a suo tempo ha provocato diversi malumori e fervide discussioni tra addetti ai lavori e non… Appena posso, dico la mia o le mie. Abbiate pazienza… Comunque grande forum.

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 08:47 da Danilo Arona


Carissimi,
vi avevo annunciato un ultimo intervento prima di uscire di scena (momentaneamente) e lasciarvi concludere questo dibattito che – mi pare –
ha superato ogni aspettativa più rosea… Complimenti a Massimo.
Generalmente evito di parlare male di qualcuno o qualcosa, soprattutto quando si tratta di concorrenza, ma stavolta sento davvero la necessità di togliermi dalla scarpa quello che è molto più di un sassolino…
Mi riferisco al libro di vampiri più brutto mai scritto, UNDEAD-GLI IMMORTALI di Dacre Stoker e Ian Holt, edito da PIEMME (quindi MONDADORI) al modico prezzo di Euro 20 per 407 pagine di carta riciclata che, con una “gabbia” più contenuta, avrebbero potuto tranquillamente essere ridotte a 350 (Massimo, un altro spunto per un prossimo forum: il prezzo vergognoso che vanno assumendo le nuove uscite dei grandi editori – Dan Brown e King a 24 o addirittura 24,50 euro, mentre Gargoyle viene accusata di essere cara pur sbattendosi la testa per mantenere contenuti i prezzi al pubblico…)
Dunque: il pronipote (o preteso tale) di Bram Stoker decide di mettere mano a un’operazione editoriale che riguarda il principale asset di famiglia ( e fin qui niente di male) e decide di scrivere un sequel di Dracula. Essendo, ovviamente, a digiuno di scrittura, si rivolge per assistenza sul campo a un co-autore la cui qualificazione – cito dalla terza di copertina – consiste nelle seguenti credenziali: È appassionato di Dracula fin da giovane, tanto che ha visitato la Transilvania e ha anche passato una notte tra le rovine del castello di Dracula nella città di Poenari…
Nessuno, in una tale prospettiva, si attende di trovarsi di fronte a un capolavoro; ma qui ci troviamo al cospetto di un vero e proprio oltraggio!
Prendiamo i personaggi che compongono la squadra di eroi sopravvissuta alla caccia al vampiro: Jack Steward è diventato un drogato, Mina una derelitta combattuta tra pulsioni sessuali (è stato Dracula a sverginarla e ingravidarla, non il marito, impotente), Jonathan si dedica con puntualità alla mission di cornuto e fallito, Arthur Holmwood/Lord Godalming si macera nel ricordo colpevole di Lucy e della sua cruenta eliminazione, Van Helsing è ridotto a un rudere cardiopatico che finirà vampirizzato dal primo stronzo che si trova davanti. Poi c’è il figlio di Mina, Quincey (in memoria dell’americano morto, l’unico che – in quanto tale – si salva…): un paino azzimato che coltiva velleità di attore e che si sceglie come modello tale Basarab, la cui vera identità, dopo tre righe, diventa palese anche al più sprovveduto fra i lettori.
Ma non è finita qui: il personaggio sullo sfondo del romanzo, il vero villain, è la Contessa Bathory, nemica dichiarata di Dracula e – udite udite – l’effettiva colpevole dei delitti attribuiti a Jack lo Squartatore… Aggiungeteci un paio di poliziotti alla Ispettore Clouseau, Bram Stoker in persona, l’incendio del Lyceum, le trasvolate tra Francia e Inghilterra a volo di pipistrello, il Titanic (!), e un finale aperto che lascia la strada a un possibile quanto deprecabile sequel del sequel.
Per comporre questo sciagurato minestrone, gli autori non si limitano a scardinare in maniera vergognosa le caratteristiche con cui avevamo imparato ad amare i protagonisti di Dracula, ma arrivano addirittura a retrodatare di cinque anni l’azione del romanzo di Stoker per rendere non dico plausibile, ma cronologicarmente compatibile il ridicolo castello di carte messo in piedi.
Aggiungeteci, come tocco finale, alcuni personaggi secondari che, come originale citazione che testimonia la grande cultura horror degli autori, si chiamano Lee, Price, Joudan, Langella, etc.
Per spiegare il tutto, vengono aggiunti a titolo di postfazione:
- un intervento della Prof. Elizabeth Miller, massima autorità su Dracula, (pagata presumibilmente pesanti quattrini per convincerla a scendere in campo), la quale, in ogni caso, si guarda bene dall’esprimere una qualsiasi valutazione sul romanzo, limitandosi a rilevarne aggiustamenti e incongruità cronologiche;
- una nota degli autori, dove vengono spiegate le sofisticate citazioni di cui ho detto sopra;
- dei ringraziamenti finali, che avrebbero dovuto essere invece delle “scuse finali” a tutto e a tutti.

L’operazione, naturalmente, recando il nome Stoker ed essendo gestita da un grande agente americano (Danny Baror), ha avuto diffusione mondiale…
Mi chiedo se qualcuno a casa Mondadori abbia letto il romanzo prima di accettare di pubblicarlo. Altra domanda: perché non è apparsa una sola stroncatura da parte della critica? A voi la risposta.
Chiedo scusa per lo “sbrodolamento”, ma quello per Dracula è un amore che non tollera insulti di questo tipo… Se vi avanzano venti euro, fatevi voi stessi un’idea.
Un caro saluto a tutti e grazie per le espressioni di apprezzamento che, quasi all’unanimità, avete rivolto a Gargoyle. A presto per altri temi.

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 11:28 da Paolo De Crescenzo


Finalmente abbiamo toccato un tema vampirico urticante. L’attuale epidemia buonista, nella quale inserirei anche i romanzi della Hamilton della serie Anita Blake. I vampiri in sostanza (per altri autori anche gli zombi) diventano attori della lotta per i diritti civili e si normalizzano. Perchè la lotta sopravviva, ovviamente, ci crea una razza di irriducibili dalla cattiveria addirittura insensata, contro la quale si battono sia gli umani che i vampiri. In questo modo si crea una razza intermedia, dove i buoni sono i collaborazionisti. E’ una visione simile a quella che scaturisce dagli attuali assetti coloniali: le nazioni neo-imperialiste si creano delle borghesie nazionali servili. I buoni sono servi, i cattivi sono talmente cattivi per cui non si può nemmeno ammettere l’idea di una qualche forma di trattativa. Sono alla lettera demonizzati, infatti caratteristica dei vampiri neo-cattivi è che sono sempre impegnati in riti demoniaci, organizzazioni segrete e pratiche terroriste: non attaccano la singola persona, ma l’umanità intera. A mio avviso la critica a questa impostazione deve toccarne il cuore politico, non il semplice slittamento simbolico, altrimenti non si capisce che genere di mentalità rappresenti e quale operazione ideologica la sottenda.

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 11:40 da Gianfranco Manfredi


Da questo a sostenere il vampiro superuomo, però ce ne corre. Stiamo attenti, perchè il vampiro, ripeto, è un ossimoro. Cioè la sua potenza coesiste con un’infinità fragilità e debolezza. Basta un raggio di sole a dissolvere Nosferatu. Cioè forza e fragilità coesistono nello stesso essere, ai loro estremi. Dracula è anche uno sfigato, fin dal principio. Ma non ci avete fatto caso che pur possedendo ricchezze abbastanza da potersi pagare una residenza in Inghilterra il nostro conte vive in una dimora mal ridotta e deve persino guidarsi la carrozza da solo perchè non ha uno straccio di servitore? Se teniamo presente solo i caratteri di forza, potere e cattiveria e non consideriamo il lato triste, miserabile e affliggente della sua condizione di non morto , non contrastiamo affatto la tendenza buonista, portiamo acqua e sangue a questa nuova riscrittura del mito che prevede appunto, la separazione dei due estremi: vampiri buoni , arrendevoli e amici degli umani, contro vampiri dai superpoteri malvagi.

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 11:48 da Gianfranco Manfredi


Il Dracula di Colan, da un lato potenziava gli aspetti da superpotere e dava rilievo alla cattiveria anche da un semplice tratto grafico: i baffi, che nel fumetto americano, a parte il caso isolato di Mandrake, sono sempre un segno di cattiveria. Il cattivo ha i baffi. D’altro lato però Dracula restava errabondo, impigliato in vissuti molto complessi, e alle prese con un Van Helsing che per quanto su sedia a rotelle era molto più cattivo e antipatico di lui. In seguito si sono aggiunti cacciatori di vampiri come Blade, e filiazioni come Vampirella che qualche risvolto buonista ( e anche un evidente risvolto bonista) ce l’aveva.

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 11:52 da Gianfranco Manfredi


Sul carattere ideologico della figura di Dracula. Non dovrebbe nemmeno sfuggire il risvolto ideologico della creatura di Bram Stoker. Semplificando, la storia del romanzo può anche essere letta così: in Inghilterra, delle giovani donne restano vittime di una strana malattia consuntiva, che ha risvolti deliranti (per sottolineare i quali, le suddette vivono in un manicomio, anche se non sono pazze). Nei vicoli di , Londra, una di loro, compare come White Lady( cioè in abito da infermiera, come Stoker sottolinea esplicitamente) e fa strage (cioè: Jack Lo squartatore era una donna). Questo è un primo elemento misogino ( e radicato nell’omosessualità misogina inglese che è cosa molto caratteristica e si ritrova anche nel libro di Raven “Il morso sul collo” pubblicato da Gargoyle, ma ha un’origine in Dracula. Stoker era gay, per quanto sposato. E Dracula allontana le sue vampire da Harker, perchè Harker lo vuole lui, è il suo boccone prelibato). La colpa della diffusione della malattia consuntiva però non sta in Inghilterra, ma origina da un principe rumeno ! Se l’Inghilterra si ammala, la colpa è di un immigrato che dev’essere rimandato a casa sua e colà ucciso da un’armata transazionale in cui è incluso un americano dotato di armi più moderne di quelle di Van Helsing (un fucile a ripetizione). Van Helins dal canto suo, per un lungo tratto scompare dalla storia, perchè va a Roma a prendere acqua benedetta direttamente dal papa! Ora: avete idea cosa rappresentasse per l’inghilterra non papista da secoli, questo omaggio al primato di Pietro operato da Bram Stoker? Uno scandalo, un esplicito invito alla Chiesa d’Inghilterra a sanare la rottura con Roma ( e alla Britannia a guarire la piaga dell’Irlanda) . Insieme, si proclama l’unità tra guerra combattuta militarmente e guerra religiosa.

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 12:03 da Gianfranco Manfredi


Perchè questi tratti di Dracula non sono stati affatto evidenti, per quanto marcati, ai lettori? Perché ci sono nel vampiro connotati simbolici ancestrali che vanno molto al di là delle loro versioni ideologiche e di comodo nelle varie epoche. La forza vera di Dracula è simbolica. E’ la forza del non-morto. Ogni epoca applica i suoi esorcismi e la sua interpretazione ideologica, ma questi mezzucci sono davvero irrilevanti, secondari, e patetici rispetto al fatto che il vampiro è un morto che ritorno, è la testimonianza che tra essere vivi ed essere morti c’è la possibilità di una condizione intermedia, è il non detto che permane anche nell’uomo moderno, civile e razionale di fronte alla morte di una persona cara. Al funerale si recita: Riposa in pace, perchè si nutre il sospetto che ove non debitamente onorato, il morto in pace non dorma affatto e possa tornare a perseguitarci . Quando una persona cara muore, chi resta in vita sovente si sente in colpa, come se di quella Morte forse oscuramente responsabile, per mancanza d’amore, di cure, di devozione. E’ il dramma di Roderick Usher si fronte a sua sorella. Di fronte alla potenza simbolica della Morte, tutte le ritrascrizioni politiche diventano insignificanti. Al momento della Morta nostra o dei nostri cari, della politica non ce ne frega assolutamente niente.

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 12:10 da Gianfranco Manfredi


chiedo di nuovo perdono per i refusi, in questo genere di comunicazione è facile scrivere pensando…

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 12:16 da Gianfranco Manfredi


Buongiorno! Sto cercando, a spizzichi e a bocconi, di leggere i lunghi post della mattinata. Intanto, la questione pratica mi colpisce sempre prima di quella filosofica, che volete fa’, so’ camionista…
@ Paolo: Piemme pubblica Stoker perché il nome arriva prima del contenuto. Che poi il lettore bestemmi sui 20 euro buttati è relativo, tanto quel libro (e probabilmente l’autore) non avrà un seguito e intanto il prodotto è venduto, e pure bene suppongo. Io non l’ho letto, confesso di essere stata guidata da una sorta di scetticismo che mi ha fatto deviare verso altri autori. Italiani, santoddio.

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 12:37 da Simonetta Santamaria


La mancata stroncatura: non so, forse perchè guardo con una certa diffidenza i critici letterari (quel loro modo di “smontare” alcuni libri, di analizzarli, vivisezionarli, non mi convince granché) dico che non è “comodo” mettersi contro una chiara (e spudorata) operazione commerciale gestita da un colosso dell’editoria, magari suo stesso datore di lavoro?

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 12:43 da Simonetta Santamaria


Sul discorso della Lipperini, che saluto, ci sarebbero da fare diversi step. Su alcuni concetti sono d’accordo, su altri meno.
La stroncatura dell’antologia Raul Montanari “Incubi – Nuovo horror italiano” da parte dei fan del genere è logica, capperi, se la intitoli in quel modo e poi lasci fuori nomi come Arona o la Teodorani o Baldini o lo stesso Manfredi, Evangelisti… Scrittori tipo Biondillo o Fois o (?) Nove… definirli “immigrati clandestini” è pure poco. Che cacchio c’entrano costoro con l’horror? Ma Nuovo horror italiano cosa?? Questi sono esperimenti letterari, autori prestati a generi “tanto per provare”, come se l’horror fosse la cazzata del secolom tutti possono scrivere horror, che ce vo’…
Scusate il turpiloquio, mi sono infervorata…

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 13:03 da Simonetta Santamaria


Chi siamo noi, allora? Noi che ci facciamo il culo per scrivere comunque un romanzo “di genere” pur sapendo che non avrà la stessa eco dell’ultimo noir col commissario Sticazzi di turno; noi che ci battiamo per tenere su la testa e non affogare tra la melma che ci circonda (perché di gente che pensa che scrivere horror sia facile ce n’è eccome…), noi che non siamo di certo i responsabili diretti della deriva dell’horror verso il romance.
Noi che CREDIAMO, quando scriviamo. Crediamo sempre.
Chi siamo noi, allora?

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 13:13 da Simonetta Santamaria


La parte iniziale del libro “Io vampira” in cui vi è la scena disgustosa dell’essere caldo di cui la protagonista si nutre, in un certo senso, è la parte più orribile.. secondo il mio parere.. dell’intero libro..

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 13:15 da sebina


Chi siamo noi, allora?
Mi pare il titolo perfetto per un romanzo… ;)
-
Dài, Simonetta… discutiamo con serenità…
:)

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 13:18 da Massimo Maugeri


Ringrazio tutti per i nuovi contributi.
Tornerò a intervenire più tardi…

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 13:19 da Massimo Maugeri


Vai tranquillo, caro Massimo, il fervore è il sentimento positivo di chi crede (appunto), da non confondere con la rabbia… Io sono serenissima, però sollevo la questione e aspetto il parere degli altri. Se diciamo sempre tutto ok, tutto bello, tutti d’accordo, non c’è più confronto, il dibattito muore.
O no? ;)

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 13:26 da Simonetta Santamaria


Aggiungo un piccolo comma a quanto scritto, riguardo alla Bathory. Perchè Stoker va a scegliersi Vlad, che era un eroe nazionale tipo Garibaldi, invece della Bathory? Perchè aveva proprio bisogno di un eroe nazionale. All’Impero Britannico, doveva contrapporsi un altro Impero, decaduto, primitivo, ma ancora letale. Danilo, se ci sei batto un colpo. Sei stato tu a provocare con le Torri Gemelle. E dunque: possibile che non ci dica nulla la teoria di Bush dell’Impero del male? Vi siete resi conto di cosa sarebbe accaduto se Giovanni Paolo II non l’avesse fermamente respinta? Una devastante guerra mondiale. Da Stoker in avanti, il potere della picca per essere risolutivo, ha bisogno di venire affiancato dal potere dell’acqua santa. La nuova narrativa vampirica che sembra apparentemente così giocosa, adolescenziale ed evasiva, in realtà adatta al nostro tempo una serie di superstizioni ideologiche davvero fetenti. Tornare al vero vampiro, significa ripulirsi nell’acqua non-santa di Edgar Allan Poe, cioè andare alla radice del dato antropologico, intimamente vissuto da ciascuno di noi, che è alla base del Mito del Vampiro. Le versioni ideologiche sono inevitabili adattamenti ai tempi, cui si possono certo contrapporre opposte visioni ideologiche. Però non è questo l’elemento determinante. I lettori possono anche non accorgersene, di questi correlati e ricadute, ma noi che scriviamo dovremmo saper leggere le metafore e capire quel è il senso politico di certe scelte narrative.

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 13:31 da Gianfranco Manfredi


Riguardo a quanto scrive Simonetta, non posso che essere d’accordo circa i contenuti di certe antologie. Non mi offendo di non esservi stato incluso, anzi lo considero un motivo d’orgoglio. In genere il curatore di un’antologia si attribuisce un ruolo di potere, reclutando amici suoi o persone su cui potrà poi rivendicare la primogenitura. Questa è l’Italia, bellezza!

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 13:34 da Gianfranco Manfredi


Ma certo, Simonetta. Non mi pare che il dibattito sia stato impostato per dire tutto ok, tutto bello, tutti d’accordo. Tutt’altro. E le domande che ho posto, del resto, sono “provocatorie”.
Però so bene – per esperienza – che se gli animi si scaldano troppo il rischio di “rissa” è sempre dietro l’angolo.
Ma non mi pare questo il caso.

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 13:45 da Massimo Maugeri


Assolutamente! :)

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 13:49 da Simonetta Santamaria


A proposito di provocazioni…
Cosa penseresti (pensereste) se, un giorno, l’uomo con la camicia celeste (ovvero, il sottoscritto), si svegliasse e decidesse di cimentarsi per la prima volta con una storia “horror”?
:)
Brrrrrrrrr!

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 13:50 da Massimo Maugeri


Vi tranquillizzo subito, via… secondo me non sono capace di fare paura a un neonato. ;)
Mi sa che mi limiterò a leggere le vostre (bellissime) e orrorifiche storie.
A dopo.

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 14:02 da Massimo Maugeri


Trovo particolarmente interessante il penultimo commento di Gianfranco Manfredi (quello delle ore 1:31 di oggi), e trovo acute le molteplici sue considerazioni precedenti. Non so se sia già stato citato, ma, a proposito di saggistica letteraria e non, ho trovato di notevole importanza il libro di Valerio Evangelisti “distruggere alphaville” (L’ancora del mediterraneo, 2006): una raccolta di testi che ha come titolo introduttivo, nella prima parte, “escursioni nella paraletteratura che fu”, dove si trova anche, per rimanere più specificatamente in tema, “dracula cristiano, carmilla pagana” ed altri validissimi testi sulla letteratura “di genere”.

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 14:24 da Subhaga Gaetano Failla


@ Massimo: sarebbe un interessante esperimento letterario, come ho detto. Ma, con tutto l’affetto – e il rispetto – non mi sentirei di parlare di “nuove frontiere dell’horror”, almeno non finché non ne produrrai almeno una decina, di racconti… ;)

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 14:54 da Simonetta Santamaria


@ gaetano. Suggerisco anche la lettura dell’introduzione di Claudio Lippi al romanzo vampirico di George Martin, Il battello del delirio, in uscita da Gargoyle. In questa introduzione, Lippi , che del tema se ne intende davvero e ha curato al contrario di altri antologie davvero convincenti, traccia una mappa delle modifiche intervenute nella figura del vampiro nella letteratura americana recente.

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 15:16 da Gianfranco Manfredi


Sono stato ad ascoltare affascinato gli sviluppi della discussione, e ringrazio in particolare Gianfranco che come sempre fa emergere spunti fondamentali nascosti tra le pieghe del tema. Credo si possa trovarvi conferma, se mai ce ne fosse ancora bisogno, del fatto che sul vecchio gotico c’è molto più da dire, da analizzare e da provocare di quanto si pensi – e solo pregiudizi grossolani impediscono oggi (quando ormai ci sono fior di studi) di coglierne l’importanza. Le categorie implicate sono alle radici di noi e della nostra società: prezioso che la Gargoyle stia riproponendo il ‘Varney’, che riporta alla luce una fase di evoluzione non sufficientemente nota al grande pubblico. Vi incontreremo un vampiro decisamente spiazzante, che si preoccupa di questioni di proprietà ed è afflitto da uno strano male di (non-)vivere… Ma – ripeto – un testo stampatissimo come ‘Dracula’ resta una miniera, anche se il suo protagonista ci sembra una creatura stranota, consumata dall’uso e persino dalla caricatura. Certo, parla il linguaggio storico, sociale e di costume, ma anche metatestuale e simbolico del proprio tempo: per esempio i riferimenti religiosi sottotraccia sono continui, e conferiscono a personaggi e situazioni una forza simbolica molto più provocatoria e inquietante di quanto possiamo cogliere a una lettura veloce. Solo un esempio: l’immagine di Dracula che fugge davanti alla croce è diventata talmente frusta (ricordate lo sfigatissimo Drak del fumetto ‘Zio Boris’?) che lo stesso cinema a un certo punto ha sentito l’urgenza di distaccarsene, mostrando il conte immune al sacro. Il problema è che per capire ‘Dracula’ dobbiamo metterci nei panni dei lettori vittoriani, cercare di cogliere le loro emozioni: e da questa prospettiva veniamo a scoprire che l’impatto dovette essere fortissimo – con le ovvie differenze, qualcosa di simile all’impatto de ‘L’esorcista’ negli anni Settanta (Danilo ha scritto pagine molto belle in materia). Parliamo di lettori che avevano una frequentazione ben diversa da quella di oggi con un linguaggio sacro e liturgico, e nel tessuto del ‘Dracula’ ne ritrovavano gli echi ma virati in nero: ci sono antisacramenti a base di sangue; c’è uno Sposo che viene che non è quello del Cantico dei cantici ma la sua contraffazione blasfema, un “maestro” anticristo e signore degli ossessi. Ed è proprio in questo quadro, per contrastare una simile potenza del male che Stoker fa un’operazione innovativa: Stoker non è cattolico ma anglicano, però è irlandese ed è affascinato dalla simbologia cattolica, e affida allo sciamano buono Van Helsing la santabarbara esorcistica di cui accennava Gianfranco – croci, ostie, eccetera – e che si rifà ai riti cattolici, anche se liberissimamente riletti. È vero che un anno prima dell’uscita di ‘Dracula’ nel 1897 una pellicola di Georges Méliès, Le manoir du Diable, 1896, aveva mostrato un cavaliere che cacciava un diavolo in forma pipistrellesca proprio impugnando un crocifisso: ma questo succedeva in Francia, mentre fino a questo punto il gotico letterario di lingua inglese aveva guardato con avversione al mondo simbolico dei papisti. Da questa funzione provocatoria nel romanzo, l’arsenale sacro del Dracula dilagherà nel cinema, e noi tendiamo a considerarlo ovvio – ma non lo è affatto e reca alle spalle tutto questo peso simbolico. Ma questo è solo un esempio e ci sono una serie di aspetti dirompenti anche più ideologici: il tiranno immagine del predatorio Oriente (dotato di un’harem dal sapore di incesto, e di una sessualità piuttosto equivoca) che acquista case – e dunque usa i contratti segno della “civiltà” – per infiltrarsi nella metropoli-segno dell’Occidente, la Londra vittoriana. Portando un’infezione che ha molto a che vedere con quelle che all’epoca tanto preoccupavano i vittoriani (dove abbiamo già sentito questi rigurgiti timorosi, gli stranieri che porterebbero malattie?); e per prima cosa dissangua e (orrore!) rende simile a sé Lucy Westenra, “la luce dell’Occidente”… Ciò che resta minacciosamente implicito – allora, come in certe paure di oggi – è cosa accadrebbe se Dracula diventasse l’Adamo di una nuova civiltà: qualcosa che va persino oltre la prospettiva di Matheson (che, non a caso, parte di lì) perché sta con un piede nella storia e con l’altro alle radici della nostra interiorità. Sto forzatamente banalizzando, perché il romanzo abbraccia uno spettro simbolico molto più vasto e variegato.
Per Paolo: non credo si parli male di Undead-Gli immortali perché ho la sensazione che non se ne parli affatto. L’ho comprato, mi sono arenato e non mi sento di giudicare un libro che non ho letto; ma mi ha profondamente deluso che in un romanzo che poteva trovare un punto di forza giocando sulla filologia (e questo pretende, chiamando in causa personaggi estratti dagli appunti di Stoker) ci siano libertà così pesanti non solo sul significato della storia ma anche su dati di cornice. Perché?
Il mio sogno sarebbe piuttosto un’edizione filologica – che a oggi non ho trovato, neppure in inglese – delle carte preparatorie trovate nel famoso baule di Philadelphia.
Ho invece trovato formidabile – e mi sento di chiedere all’Editore di investigare sull’Autore alla ricerca di altri testi in nero – ‘Il morso sul collo’ di Simon Raven, che affronta la categoria del vampirismo con un movimento narrativo obliquo, torpido e allusivo, elegantissimo, in termini insieme psicoantropologici e sociali. A evocare un male antico e sfuggente, annidato in comunità arcaiche attraverso la sopravvivenza di pratiche sadomasochistiche dall’insidioso potenziale infettivo; e insieme una prassi attiva di plagio legata alla gestione accademica di britannicissimi college, che riflette tentazioni, derive e cannibalismi delle istituzioni culturali (e non solo) di ogni tempo. Qualcuno ha detto che Il morso sul collo non costituisce tecnicamente un romanzo horror, e in effetti l’orrore che suscita la vicenda non è quello che più banalmente si attenderebbe dal topos vampiresco: e si connette da un lato a quel brivido antico che connota le esperienze indicibili, ma insieme ai meccanismi stritolanti, manipolatori permessi dalla vita civile. Letali, l’uno e l’altro, per vittime più o meno disponibili.

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 15:47 da Franco Pezzini


@ Simonetta. Diamo pure per scontato che nei prossimi due anni vedremo fiorire scritti vampirici di persone che dei vampiri se ne sono sempre fregate e che ora accorrono festanti al tema o perché se sono stati improvvisamente fulminati (cosa che può accadere) o perché intendono profittarne economicamente (cosa che accade regolarmente e non costituisce scandalo, bisogna pur campare e in passato una quantità di scrittori italiani che si occupavano d’altro, poi sotto falso nome pubblicavano horror pulp da edicola per KKK e altre serie commerciali, incluse quelle porno). Questo fatto ha da un lato un risvolto negativo perchè i veri appassionati restano disgustati da queste invasioni di campo, e perché creano un’ondata di superproduzione che poi ammazza il mercato. Ma hanno anche risolti interessanti perché spesso certi autori che nel passato di erano viste rifiutate certe loro opere inclini all’horror dagli editori, adesso invece possono permettersele. E anche perché le invasioni degli estranei spesso sono benefiche, apportano nuovi punti di vista, nuovi stili e nuove trasgressioni. Dunque non bisogna essere troppo categorici nel giudicarle. E soprattutto bisogna tenere distinto il giudizio sul fenomeno in generale dal giudizio sulle singole opere. E’ bene comunque avvertire sempre il lettore che nel gran mare della produzione sono più affidabili gli scrittori e gli editori che di questi temi si sono interessati per anni per un motivo non commerciale, ma di vocazione. Gli editori in particolare meritano il sostegno dei lettori, perché se prima certi editori “di nicchia” almeno non avevano troppa concorrenza, poi rischiano di finire stritolati dalla macchina del consumo. Gli autori su cui hanno lavorato per anni e che sono riusciti ad imporre a un mercato diffidente, poi nel momento del trionfo del genere gli vengono sottratti da case editrice grandi che possono garantire anticipi maggiori, pur restando pronte a scaricarli quando il tema non è più di moda. Insomma, bisogna propagandare, a cominciare dal web, i “marchi di qualità”, di origine controllata, i non-ogm, e fare di tutto per sostenerli, a cominciare dal fatto di comprarne i libri.

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 15:58 da Gianfranco Manfredi


@ a Franco Pezzini. Profondamente grazie per i tuoi commenti sempre così lucidi e ad ampio spettro. Spesso ne ho ritrovati di simili nella ricerca di tanti studiosi italiani e stranieri che vivono a contatto con la ricerca viva, quella che si fa attualmente nelle Università di tutto il mondo e che è distante anni luce dalla critica che si legge sui giornali che su queste cose testimonia quotidianamente la sua ignoranza e pochezza. Il vostro lavoro fa ben sperare per il futuro. Su Raven. Ha interessato molto anche me. Vi ho però trovato un elemento per me ideologicamente insopportabile. Quel genere molto british di omosessualità virile (che qui ha il merito di essere non allusa, ma portata alla scoperto, confessata e rimarcata) che si nutre di valori guerrafondai e insieme trasgressivi, alla Lawrence d’Arabia, ma che è fondamentalmente unita da una profonda avversione per le donne, cosa che gli attuali movimenti gay invece rinnegano e non vivono affatto (anche se a mio avviso, qua e là cova, e lo si vede benissimo nella moda, pensate a Dolce e Gabbana) . Tutto il romanzo è la storia di un gruppo di amici omosex o bisex per puro opportunismo, che decide di andare a salvare un loro amico disperso in Grecia e sedotto da una mefitica creatura femminile che loro nemmeno conoscono, né si preoccupano di conoscere: è vampira da eliminare in quanto donna fascinatrice che ha sottratto un amico al circuito dei giochi da club esclusivo maschile (e omosex). C’è qualcosa di profondamente ripugnante in questa concezione, ma dopotutto è proprio dell’horror essere ripugnante. Dunque ringrazio De Crescenzo d’averlo pubblicato, anche se personalmente preferisco il ripugnante alla Ketchum. Queste opere comunque dimostrano come sotto certa letteratura considerata a torto facile, si nascondano e spesso si rivelino apertamente, problematiche molto difficili, persino inconfessabili, che la letteratura ufficiale preferisce non considerare , se non altro per non venire accusata di oscenità, con tutti i rischi di persecuzione che ciò comporta. Se dunque l’horror continua nonostante la trasgressioni e le prove letterarie a volte altissime “di genere”, è perché ha in sé un elemento profondamente contro-culturale e sovversivo che urta non solo le accademie, ma il comune senso del pudore e del “buon gusto” borghese.

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 16:19 da Gianfranco Manfredi


Errata corrige: nonostante le prove letterarie altissime, ad essere “di genere”…

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 16:21 da Gianfranco Manfredi


La generazione di vampiri buonisti (cui corrisponde la creazione di vampiri cattivissimi e alieni ) suona da questo punto di vista come un invito rivolto agli scrittori horror a “purificarsi”. Diventate più civili, diventando romantici, adolescenziali, giocosi, troverete anche maggior soddisfazione economica perché avrete più lettori. Perché insistete con il “perturbante”? Non capite che così facendo siete “alleati del Male”? Non capite che il vostro rock e la vostra letteratura diventano trasmissione di pulsioni demoniache? No! La vocazione di uno scrittore horror è più semplicemente quella di affrontare senza pudore le contraddizioni dell’umano. I mostri siamo noi. O come ha detto Tiziano Sclavi rispetto a Dylan Dog “Io non sono Dylan Dog, io sono i mostri”. Leggere il mostruoso in sé e nelle pieghe del sociale è impervio, ma è il compito che compete a uno scrittore horror. Il resto sono ingredienti accessori.

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 16:28 da Gianfranco Manfredi


Prometto che per oggi mi taccio. Spero davvero che questo bellissimo forum non si concluda proprio quando è arrivato al suo nocciolo e al punto più vivo. Mi auguro di poter leggere interventi di chi finora non ha partecipato. Mi auguro, insomma, come ogni vampiro dovrebbe fare, tanto più il vampiro via web, che si sparga il contagio, e spero che Massimo che ha inaugurato il tutto con felice intuizione, riesca a sollecitare in proposito i molti citati e anche i non citati affatto a intervenire. Cosa penso io lo so già e cosa pensano gli altri che si sono espressi finora l’ho capito, li ringrazio e mi auguro che non abbandonino. Vorrei però leggere anche opinioni di altri, a cominciare da coloro che hanno seguito la discussione, ma hanno esitato ad esprimersi. Grazie a tutti.

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 16:37 da Gianfranco Manfredi


Ma che bella la visione di noi scrittori horror come i veri Mostri.
E concordo, ormai le nostre opinioni si sono delineate: aspettiamo dunque ulteriori apporti.
Intanto continuo a scrivere…
;)

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 18:19 da Simonetta Santamaria


Ho letto i classici DRACULA e IL VAMPIRO di Polidori…
Nel libro di Bram Stoker la componente sensuale era molto presente data l’età in cui venne scritto. Bella comunque la compagnia di amici che tenta strenuamente di salvare le contagiate, tra cui proprio la fidanzata del protagonista (Mina, poi Mrs Harker).
Il perturbante è una categoria che si attaglia perfettamente al gothic tale… l’Unheimlich, cioè il non familiare, l’elemento estraneo che si insinua in una situazione apparentemente Heimlich, cioè familiare. Dracula che compra case e che poi – bara spedita – viene a far danno in Inghilterra… il medico che si ritrova un caso particolarissimo, il matrimonio vittoriano sconvolto da vampiresse (ricordate?)…

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 20:01 da Maria Lucia Riccioli


Qualcuno ha per caso citato – visto che si è parlato di epigoni Draculiani – Kim Newman ? Se non erro le sue rivisistazioni ironiche e – mi pare – affettuose (e il suo espediente narrativo di disseminari i suoi romanzi di camei più o meno evidenti) del mito di Dracula hanno fatto discutere …
Personalmente mi sento più propenso ad essere indulgente se chi maneggia (ed inevitabilmente rimaneggia) cotanta materia lo fa senza prendersi troppo sul serio …

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 22:05 da claudio vergnani


@ a Gianfranco. Completamente d’accordo: il tema della lega degli uomini ordinari che fa fuori la minaccia femminile è inquietantemente classico, e il quadro di Raven – che peraltro non era un simpaticone – ideologicamente molto brutto. Anche lo sfondo greco cui si rifà la storia va a rabastare nelle pagine più torbide di Graves (la Dea che ama e che strazia, il giovane Re sacrificato…), e il tutto è circonfuso da un’atmosfera febbricitante, malsana. Ma, a parte la mia personalissima passione per gli autori britannici, ho trovato splendidamente raccontata questa rifrazione tra diversi vampirismi. Che è in fondo un topos, con una forma di bellezza abbacinante in ‘Lamia’ di Keats poi infinitamente rifratta: Gautier, Le Fanu… E che instilla un dubbio: che cioè dove la narrazione contempla un vampiro ce ne debba essere un altro nascosto – o una struttura-vampiro, spesso collegata a insospettabili poteri o istituzioni – di segno eguale e contrario. Come se il vampiro non potesse darsi, non potesse neppure essere pensato, senza una logica di oscura rifrazione, e in un contesto in cui non c’è spazio per “buoni” – proprio alla luce di quel che in un post successivo dici tu sulla lettura del mostruoso. Perché infatti il problema non sta tanto nel ravvisare chi sia buono e chi non lo sia (lascio questo a Hollywood) ma nel percepire gli aspetti mostruosi – ecco l’orrore – di un contesto più ampio in cui i personaggi si muovono.

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 22:39 da Franco Pezzini


@ a Claudio. ‘Anno Dracula’ è delizioso, una vera festa… e anche i seguiti sono niente male.

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 22:41 da Franco Pezzini


Chiedo scusa. Torno solo un attimo su King e i suoi vampiri. Come ho già detto, concordo con Gianfranco nel non ritenere indimenticabile il suo Le notti di Salem. Però mi torna ora in mente un suo racconto breve (anzi, brevissimo) intitolato The Night Flier (dal quale, manco a farlo apposta, è stato tratto l’ennesimo film) che è poco più di uno scherzo, ma che – nel suo non prendersi minimante sul serio – riesce a toccare corde profonde nel rapporto portagonista-lettore alle prese con un orrore prima deriso (il giornalista che se ne occupa crede che l’autore degli efferati delitti in aeroporti sempre differenti sia un pazzo che si crede un vampiro), poi lentamente compreso e, infine, subito senza alcuna difesa, raggelato dall’evidenza.

Postato sabato, 6 marzo 2010 alle 23:01 da claudio vergnani


Buongiorno a tutti. Contribuisco al dibattito postandovi un mio pezzo uscito tempo fa sul settimanale “Gli Altri” di Piero Sansonetti.

Non si vive di solo Twilight

Basta Twilight e New Moon! Basta con il predominio monoculturale dell’inglese! Ma vi siete mai chiesti che lingua parlavano i vampiri? Be’, a giudicare dai famosi casi settecenteschi del contadino Peter Plogojowitz (1725) e del soldato serbo Arnold Paole (1732), avrebbero dovuto parlare almeno ungherese, rumeno, o comunque slavo. Invece no: i vampiri parlavano latino. Molto prima di Bram Stoker (il suo Dracula esce nel 1897) ci si rompeva la testa sui vampiri, e lo si faceva nella lingua universale: il latino. È questo uno degli aspetti meno noti di tutto l’affaire vampirismo; così noi lanciamo la scialuppa, poi se qualche lettore curioso vuole afferrarla e vedere verso che lidi porta, è il benvenuto. Per secoli lingua ecumenica come l’inglese ai nostri giorni, il latino era ormai tenuto in vita quasi esclusivamente per affrontare le questioni scientifiche, o cosiddette. Tra queste cosiddette imperversavano quelle relative al vampirismo. Bisognava spiegare devastanti epidemie, misteriosi contagi, allucinazioni collettive? ecco pronta la categoria del vampirismo: cadaveri che succhiano il sangue, molestano i vivi e diffondono pestilenze. Certo, cominciavano a prendere piede per le comunicazioni scientifiche anche le lingue nazionali: si pensi al Traité sur les apparitions et sur les vampires ou le revenans d’Hongrie, de Moravie del benedettino Augustin Calmet del 1749, sempre nel 1749 il trattato Del congresso notturno delle Lammie di Girolamo Tartarotti, mentre in tedesco è compilato uno degli articoli meglio documentati al riguardo, la voce Vampiri nel Lessico universale del 1745 di Johann Heinrich Zedler. Ma il primato spetta ancora al latino. Con quella stessa lingua nel 1749 il papa Benedetto XIV nel De servorum beatificatione et beatorum canonizatione nega decisamente la loro esistenza.
Ma accade un fatto singolare: se nelle lingue moderne si cerca di spiegare scientificamente il fatto, è nella lingua morta che si rievocano gli stessi eventi con grande compiacimento e gusto dell’orrido. Si può partire da lontano, da uno dei più famosi trattati di stregoneria: il Malleus maleficarum, scritto a due mani, da Heinrich Kramer detto Institor e da Jacob Sprenger, e pubblicato a Norimberga nel 1519, dove si parla già di morti che mangiano il lenzuolo in cui sono avvolti. Si può proseguire con un frate francescano di Pavia, Ludovico Maria Sinistrari, autore della Daemonialitas expensa, manoscritto del 1699, pubblicato da Carlo Carena nel 1986 per i tipi di Sellerio. Ma la nostra simpatia va a tutta una serie di eruditi tedeschi, per lo più medici con tanto di studi seri e seriosi: comincia Christian Friedrich Garmann, De miraculis mortuorum, del 1676; prosegue Philip Rohr con la dissertazione tenuta presso l’università di Lipsia, Dissertatio historico-philosofica de masticatione mortuorum (Lipsia, 1679) in cui si parla di una straordinaria fame animalesca che porta i defunti a mangiarsi gli abiti in cui sono avvolti, e le loro stesse carni. Michael Ranft, De masticatione mortuorum in tumulis liber (Lipsia, 1728) riprende Rohr e riferisce che ai defunti veniva posta sotto il mento una zolla di terra per impedire di mangiare e masticare. Il 1732 è un anno mirabile, perché vede la stampa di addirittura tre opuscoli (“dissertatio”, come si chiamano in latino): a Jena Johann Christian Stock con la Dissertatio physica de cadaveribus sanguisugis; a Lipsia Johann Christoph Pohl con la Dissertatio de hominibus post mortem sanguisugis; a Duisburg Johann Heinrich Zopff con la Dissertatio de vampyris serviendibus. Ed è divertente scorrere questi scritti, dove nella lingua togata per eccellenza si dà voce al massimo dello splatter: i vampiri sono chiamati sanguisughe, “cadaveres sanguisugi”, si parla di “vampertio”, vampirizzazione, si fa sfoggio di particolari truculenti insieme a commenti anatomici o filosofici di grande erudizione. Insomma una lingua morta per parlare di morti viventi. È proprio vero che le lingue si scelgono i loro interlocutori, gli argomenti preferiti e perché no? il loro destino. Il grande regista inglese Derek Jarman scelse proprio il latino come lingua per il suo provocatorio film Sebastiane (1976) sul martirio di san Sebastiano. Allora perché il prossimo regista della saga di Twilight non prova a far recitare Bella ed Edward in latino?

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 10:38 da Flavio Santi


Amici, eccomi di ritorno e chiedo scusa per il lungo silenzio. Vedo con assoluto piacere che nel frattempo Magico Vento, da par suo, ci ha regalato praticamente un saggio nel saggio con punte d’intelligenza critica che mai noi comuni mortali… Grandi, ragazzi (tutti, ragazze comprese): In quella frase, foriera di 1000 approfondimenti, “il vampiro è un ossimoro”, forse ci sta un bel pezzo di tutto il senso di qs. forum (che ormai è dilagato a potenziale macro-testo estendibile agli sfortunati che non he hanno potuto godere…). Constato anche che del saggio, importante, di Loredana si è parlato in lungo e in largo e allora transiterei oltre… Dove? Ma dalle parti, visto che c’è una richiesta in corso, ancora delle intuizioni profetiche e delle Torri Gemelle… Ultimamente, su Carmillaonline, mi sono occcupato di Renfield, questo personaggio apparentemente secondario che secondo me Thomas Harris ha “piratato” per costruire il suo Hannibal (personaggio che in seguito è stato materiato anche con frammenti del Conte in persona…). Non ho bisogno di ricordarlo a voi, ma Renfield è l’Annunciatore, colui che apparentemente “pazzo” (ma che vuol dire poi pazzo…), entra in “risonanza” vibrazionale con l’arrivo del Conte nella capitale di Albione. Ora, assodato che le avvisaglie sono divenute nel tempo – e lo sono ancora oggi – un pilastro del gothic, vedo in Renfield (e soprattutto nella decisione di Dracula di ridurlo al silenzio…) un più che stimolante aggancio al “tempo reale” stokeriano – il “calendario di Dracula” così significativamente preciso… – e ai non pochi riferimenti “sociali” menzionati anche da Gianfranco. Renfield, personaggio quasi sempre travisato dal cinema, è la Sirena che suona l’allarme, una presenza che ambiguamente assimiliamo al Male ma che in realtà lo “anticipa” perché vive su un Confine dimensionale in grado di farlo viaggiare tra i mondi. Negli anni di riferimento – il tempo reale dello scrittore e il tempo del romanzo – stava arrivando qualcosa di terribilmente concreto: la rivolta contro il presunto ordine civile di Vittoria e la falsa rispettabiltà borghese dei mille bordelli londinese e le decantate virtù delle mogli altolocate. Puttane senza volto, ma non per questo meno reali, che corrono il rischio di guidare, salendo da Whitechapel, la rivolta contro il più ingiusto dei sistemi sociali, donne a cui bisogna tagliare la corde vocali e per questo si scatena l’aristocratico Jack… E’ il popolo oscuro, miserabile e cialtrone iul demonio che minaccia l’apparentemente tranquillo mondo vittoriano e Dracula con la sua nave “pestilenziale” in diretta dai Carpazi non solo lo evoca, ma potrebbe scatenarlo contro i “padroni”… La sconcertante modernità di Stoker ci regala ancora oggi un modello applicabile non solo al prototipo vampiresco… Renfield è tuttora vivo e presente, perché il pianeta – tanto in letteratura che Oltre … – è pieno di Renfield annuncianti. Il 2012 stesso è un’estensione fenomenologica della visione alla Renfield.
Personalmente mi basterebbe questo per de-ghettizzare il genere. Stoker, come molti – ma non tutti – colleghi suoi, temeva e annunciava l’Apocalisse (in questo non gli furono secondi i suoi rapporti con la Golden Dawn). E questo, a mio trascurabile parere, dovrebbe essere la Mission – o una delle … – dello scrittore di gotico moderno. Provate a guardare con questi occhi le invasioni di campo elencate nel saggio di Loredana: Genna, Vargas, Di Michele, Wu Ming, Evangelisti…. Estranei? Estranei a “chi dalla nascita si occupa di horror”? Tipica ingenuità da fan… Questi sono Orologiai dell’Apocalisse, i Renfield… E se ripenso a quel che scrisse Matheson negli anni ‘50…. A dopo.

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 11:57 da Danilo Arona


Torno a questo dibattito, che avevo seguito con attenzione all’inizio ma avevo poi (lo confesso) abbandonato (un po’ per impegni che hanno impedito una lettura costante, un po’ per pigrizia di fronte alla mole degli interventi). Torno dietro l’invito a esprimere un parere rivolto a tutti da Gianfranco Manfredi, per dire che trovo estremamente riduttivo leggere di vampiri “buoni” o “cattivi”, ed estremamente noiose (per me) le storie che si limitano a questo aspetto. Non è il fatto che un vampiro (incarnazione del male) possa essere capace di esprimere buoni sentimenti (come l’amore, p.es.) a rendermi una sua storia interessante.
E’ semmai come possa porsi di fronte alla sua condizione di morto-non morto, di non pienamente vivo. In possesso di immortalità pur senza una vera vita. Come vive questo, come una condanna? Come un potere ? Con nostalgia verso la vita vera precedente? E’ di indole melanconica o solo una crestura bestiale asseta di sangue?
Poco mi frega invece se sia capace di innamorasi di una ceatura uguale o diversa da sè, se segua le mode del momento, se vada a ballare in discoteca, o guardi in TV il grande fratello. Per questo trovo ben poco affascinanti i vampiri moderni.
Meglio quelli di una volta, o che comunque seguano quel solco così sinistramente (e divinamente) malsano.

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 11:57 da Carlo S.


@ Flavio. Il latino di cui parli era la lingua dei trattati scientifici e filosofici, come tu stesso osservi. Gli anatomisti scrivevano in latino, Cartesio scriveva in latino. Parlare in latino ovviamente è tutt’altra cosa. Però è importante ricordare che sulla peste vampirica furono i ricercatori e gli studiosi a indagare per primi, cioè molto prima che se ne occupasse la letteratura romanzesca (che nasce dopo). Questo già differenzia i vampiri che so, dalle fate, dagli gnomi, dagli unicorni o da altre creature prodigiose. I vampiri contribuiscono a creare la moderna casistica medica. Nei tempi antichi , in Galeno, per esempio, i trattati di medicina non prevedevano casistica. La casistica ( cioè l’indagine di casi concreti per svelare la natura di una sintomatologia e studiarne le possibili terapie) nasce con i vampiri.

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 12:07 da Gianfranco Manfredi


Di nuovo su Twilight. Lipperini sottolinea in sostanza come il buonismo vampirico sia una deviazione perniciosa dal mito. Lippi, nell’introduzione che citavo, sottolinea invece il contrario e cioé che in America il buonismo vampirico è il vero mainstream e porta diverse prove (incluso il film di Coppola) a sostegno. Chi ha ragione? Secondo me, tutti e due. I due filoni ci sono sempre stati. In America il buonismo è stato prevalente, però, solo se si guarda al cinema, perché inerente all’uso hollywoodiano della letteratura (si è cambiato in happy end persino il finale tragico di un classico della loro letteratura come La Lettera Scarlatta). Nel caso di Corman però farei un’eccezione… è non è un’eccezione da poco! Comunque, non mi pare che lo stesso (cioè che l’inclinazione buonista sia prevalente) si possa dire della Letteratura in quanto tale. Lippi ad esempio non cita i vampiri di Woolrich, di Robert Bloch, di Fritz Leiber, di William F.Nolan, di Charles Beaumont, di Lansdale, di Simmons, cioè una schiera infinita di “americani” maledetti che con il mainstream buonistico non hanno proprio nulla a che fare. In sostanza: la tendenza buonista non risale affatto a Hamilton e Meyer, è di molto precedente. Questo è vero. La tendenza più “controculturale” e perturbante è però altrettanto presente e diffusa in terra d’America e lo è sempre stata a partire da Poe ( il cui ruolo nella letteratura vampirica Lippi sottovaluta troppo, citando la sola Berenice come vampira, peraltro dubbia. E Lady Ligeia chi è allora? E tutte le altre sepolte premature e risorgenti? All’epoca, come ho detto, consunzione e vampirismo erano la stessa cosa. Poe non aveva certo bisogno di esempi letterari, dato che sua moglie e sua madre erano morte di consunzione). Ora, sia la tesi Lipperini, che la tesi Lippi sono state pubblicate in quanto introduzioni o post-fazioni da Gargoyle. A parte il fatto che risulta evidente che a Paolo de Crescenzo bisognerebbe dare il Premio Par Condicio, vorrei far notare (questa è un’idea tutta sua) che le introduzioni e prefazioni dei romanzi Gargoyle si possono leggere e godere di per sé , come contributi saggistici a un’ideale rivista critica che esce a puntate in sintonia con l’uscita dei singoli romanzi. Insomma: si mantiene un legame tra narrativa e saggistica critica che credo possa far bene ad entrambe.

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 12:33 da Gianfranco Manfredi


@ Carlo S.

Per quel che vale (visto che comunque è breve) ho postato di seguito proprio la risposta di uno scalcinato vampiro alla tua domanda.

Accantonai paure, frustrazioni, amarezza, il desiderio di consultarmi con gli altri sul da farsi, e finalmente formulai la domanda – banale fin che si vuole ma essenziale – che avevo dovuto rimandare per tanti anni.
, chiesi,
Tutti, anche lo scarnificato, si fecero improvvisamente attenti. Tutti, compreso Wuker, si girarono verso Lorri, muti, in attesa.
Lorri, come riprendendo vita, alzò il capo. Mi guardò, poi, volgendo lo sguardo intorno, si rese conto dell’attenzione generale concentrata su di lui. Si leccò il liquido che gli impiastrava la faccia. Per un attimo parve ritornare alla sua catarsi, poi, stringendosi le mani in una sorta di tic, iniziò a parlare, dapprima con impaccio poi con maggiore disinvoltura.

Com’era essere un vampiro? Se lo era chiesto anche lui, quand’era capitato. Ebbene… – sorrise – magia, grande magia. All’inizio aveva creato ansia e timore, ma non più di come quando si cambia un vecchio lavoro conosciuto per un altro pieno di incognite. Le cose con il tempo si erano sistemate da sole. Quel che dapprima sembrava enorme si era rivelato una delle tante pieghe dell’esistere umano. Certo, c’erano regole da seguire. Ma alle regole – come alle rotture di coglioni – non si sfugge mai. Il rapporto con l’inesplicabile non dava problemi; c’erano più cose in cielo e in terra che eccetera eccetera… Confidava in Dio, che ci credessimo o meno. No, nessun rimpianto, non più. E di cosa, poi? Del sole? Del farsi una famiglia? Del lavoro ? Ma via! La notte era bella come il giorno. Come conviveva con i rimorsi? Be’, non era colpa sua se una notte, mentre tornava da un pub, una ragazza dallo sguardo di ipnotico (e anche dalle grandi tette, doveva ammettere) lo aveva abbordato e condotto in auto a una vecchia fornace fuori mano, appena fuori città. Ma non c’erano stati né sesso né amore. Solo cambiamento. No, niente genitori o parenti che lo potessero piangere. E non era casuale. Non ne era sicuro, ma probabilmente ne era stata dichiarata la morte presunta. Rischio di essere riconosciuto ? Non proprio: la morte modifica l’aspetto, almeno in parte. La pelle si contrae, il sangue morto tende a fare scherzi strani ai lineamenti. Certo, gli dispiaceva che per continuare a vivere qualcun altro dovesse morire, ma a quasi tutti veniva offerta la possibilità della non-morte. Una scelta c’era. Sì, lo sapeva, era un modo per mettere la sordina alla coscienza. Ma chi non lo faceva? In fondo vivevamo tutti, comunque, in un mondo di finto amore e dubbia giustizia. E se Amore vero c’era, allora esisteva solo a tratti, preziosissimi certo, ma infinitamente brevi.
Aveva trovato un mondo solo in parte diverso da quello che aveva conosciuto. Erano cambiati alcuni canoni, ma certo non lui. Né migliore, né peggiore. Stessi pregi e difetti. Da collocare, questo era ovvio, in una differente situazione. Era tutto lì. Era tutto quanto lì. Il sole portava con sé un senso insopportabile di sfinimento e di febbre, oltre alla seconda, definitiva morte. Ma la notte era dolce. Adesso doveva fare i conti con differenti schiavitù fisiche, questo sì. Ma erano l’altra faccia della medaglia della condizione umana. Vampiro era solo una parola. Era rimasto un uomo, misero e meraviglioso insieme. E poi con il Maestro si stava bene. Lui era la fonte di energia e una guida. Ovvio, si doveva rigare diritto. Ma dove mai ci si può permettere di non rigare diritto, quando si dipende da altri?
Ecco, più o meno… quello era essere un vampiro. Sì, mangiava e sentiva i sapori, ma i cibi non nutrivano, e diventava anche fastidioso liberarsene, perché lo stomaco era diventato solo un contenitore. La putrefazione? Non era chiaro. Alcuni imputridivano, con il tempo (e aveva guardato per un attimo, imbarazzato, lo scarnificato). Altri meno. Altri ancora no. La forza fisica? Magia! Magia anche quella! Una notte, in un’oscura periferia, era stato aggredito. Aveva sgominato i suoi assalitori unicamente mulinando le braccia. Una cosa impensabile, in passato. Ma soltanto in un secondo momento si era reso conto di essersi fratturato un osso dell’avambraccio e che una scheggia dell’ulna aveva perforato la pelle. E le ossa non si aggiustavano tanto facilmente, in quelle condizioni. Bisognava stare attenti. Se la vita era dura, la morte lo era altrettanto. Ma tutto, dopo un po’, diventava normale. Nuove abitudini, nuovi piaceri, nuove afflizioni. E poi, se parlava con noi, lì, in quel momento, allora voleva dire che non era del tutto morto, no? L’aldilà? Gli dispiaceva deluderci. Lui non aveva visto un cazzo. Ah, sì. La sete era molto brutta. Ma il sangue ancora caldo che pian piano gli riempiva il corpo mentre lo suggeva era l’estasi che – vivo – non aveva mai nemmeno immaginato.

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 12:47 da claudio vergnani


Sollecitato da Danilo, butto l’ultimo e definitivo sasso. Mettendola giù piatta, il pazzo Renfield che si nutre di insetti, che ha antenne molto sensibili e che è pronto ad adorare e servire il Mito, può essere metafora dello scrittore horror? In effetti, pensateci bene: su cosa lavora uno scrittore horror? Quando un racconto horror “funziona”? Quando ci si concentra sul mostro. Chi è il protagonista di Frankenstein? La creatura. Chi è il protagonista di Jekill? Hyde. Chi è il protagonista di Dracula? Non Harker, non Van Helising, ma il mostro. La forza simbolica di un racconto horror si misura sull’evocazione e sul protagonismo occulto, di ciò che nella letteratura epica e avventurosa ad esempio, è l’antagonista. In Salgari il protagonista è Sandokan, non James Brooke. Nell’horror il protagonista vero è il mostro. Non credete che le migliori storie di King siano quelle (come Carrie, The Shining, Misery, Children of the corn) dove è il mostro a svettare? In It, cosa terrorizza? Il clown. Quando alla fine arriva il ragnone sotterraneo, beh di quel ragnone non frega niente a nessuno. E’ un mostro troppo generico, troppo incorporeo, troppo poco identitario per fare davvero paura. Si ispira chiaramente al Blob, ma il Bolb è molto più corente, perchè non zoomorto, perchè cioè della sua natura caotica e informe fa il suo stesso corpo. O sbaglio? In sostanza, quando noi scriviamo horror, il lavoro veramente difficile è quello di dar vita a una creatura orripilante, a indentificare l’orrore in un personaggio- simbolo reso in concreto, in una visualizzazione dello spirito fatto Materia. Che poi l’insieme della narrazione sia perturbante o consolatorio, non importa. Il mostro, la creazione del mostro, resta comunque l’elemento dominante. Questo non risulta affatto dall’articolo di Wikipedia citato da Vergnani che invece colleziona ed elenca elementi di tipo accessorio. Quanto sopra detto, riguarda anche la fantascienza horror. Chi è il protagonista e l’elemento vincente de L’Invasione degli Ultracorpi? Gli ultracorpi. In tutta la narrativa marziana, cosa conta davvero ? Che i marziani siano buoni oppure cattivi? No, conta il modo di rappresentare il marziano (l’alieno) in sè. Lo scrittore si pone il compito, come diceva Lovercraft, di narrare l’indicibile. Dire l’indicibile è un ossimoro. Se è indicibile come fa a essere detto? Se è fantasma come fa a essere persona? Se è morto come fa a essere vivo? Eppure è proprio questo ossimoro (risolto) a rappresentare il centro di un racconto horror. E dunque… non credete che per noi scrittori, l’elemento su cui davvero ci si dovrebbe concentrare, non è tanto e solo il plot, gli ingredienti, l’inclinazione “morale” delle storie, ma la creazione del personaggio-mostro, cioè il dare carne, vita e personalità, a un mito antagonista. Non l’eroe, ma l’antieroe. Ecco perché ritengo che accostare come pare fare Lipperini, horror e epico sia sbagliato ( a prescindere dal fatto che Lipperini citerebbe i Wu Ming per sua rispettabilissima preferenza anche se si discutesse di Botanica). Nell’horror il protagonista non è Teseo, ma il Minotauro. Non sono gli umani in quanto tali, ma i mostri evocati dagli umani.

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 14:11 da Gianfranco Manfredi


d’accordo con carlo sirotti su tutta la linea. mi è sempre stato difficile prendere in considerazione il “male” un tanto al chilo fornito dai vampiri classici, che sforzarmi di includere nell’analisi le virate buoniste del nostro reo tempo quanto a vampiri e mostri vari, proprio mi pare uno sforzo eccessivo per la mia personale noja complessiva nei confronti della carta stampata. per interessarsi ai vampiri vecchi e nuovi ci vuole una piega dell’animo come una superficialità altrimenti inconfessabile. non a caso il successo attuale. se l’epoca in cui viviamo avesse profondità, si interesserebbe ai vivi, non ai morti: tantomeno ai non morti, foss’anche buoni.
hoc dictum sine iniuria

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 14:18 da lucy


A integrazione ove non fossi stato chiaro. In un racconto d’avventura, gli ostacoli, i nemici, le prove da superare, vengono escogitati in funzione dei poteri e delle debolezze dell’Eroe. In un racconto horror gli eroi (spesso non a caso corali) sono funzioni dell’avversario. Nel racconto epico, l’eroe può, deve vincere. Nel racconto horror l’eroe può venire inghiottito dall’incubo, può cioè conoscere la suprema sconfitta. Commentando il Pozzo e il Pendolo, il grande Vincent Price scrisse: siamo sicuri che il racconto abbia un happy ending? E’ vero che il protagonista viene salvato dal pozzo, ma un uomo che ha attraversato una simile esperienza non ne resta marchiato? La sua apparente salvezza, non è il prolungamento angoscioso , agonico , di un trauma insanabile?

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 14:20 da Gianfranco Manfredi


Lucy, a tua scusante si può solo dire che hai un nome vampirico. L’aspetto sostanziale della vita (e basta guardare il telegiornale per accorgersene) è che i morti sono tra noi.

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 14:21 da Gianfranco Manfredi


@ Lucy: Come ebbe a dire l’ispettore Callahan (occupandosi peraltro di vivi) , Le opinioni sono come le palle: ognuno ha le sue.

Sia detto, ovvio, sine iniuria :)

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 14:40 da claudio vergnani


Ah, che bello. NOI siamo i Renfield, stirpe scriptoria che ha le antenne e si nutre di insetti. Gente pericolosa, Bradbury docet in F 451. E’ uno spunto di straordinario interesse. Là fuori – dove i morti camminano fra noi – è forse in atto una planetaria strategia di contagioso parassitismo psichico e “qua dentro” i Renfield, magari inconsapevoli, stanno mettendo in atto un audace piano di controstrategia, semplicemente strepitando, scrivendo, discutendo sul Grande Fratello Vampiro…
… So che non c’entra nulla, ma questa straordinaria catatonica indifferenza collettiva di fronte di fronte allo Spettacolo quotidiano della Realtà, mi ricorda non poco la narcolessia della vittima, una volta subito il Bacio – telecatodico – del mostro…
Tornando a raffica, però il buonismo mutante con cui l’Archetipo è stato addomesticato potrebbe andare proprio in questa direzione. La normalizzazione del mostro come contromisura “politica” di un genere che di per sè è sovversivo nonché frequentato da folli che mangiano insetti e annuncano il Caos. La Gargoyle come serbatoio autentico dei tanti, volti dell’Archetipo (a presto il grandioso anello mancante, Varney) contro gli appiattimenti di senso di certi prodotti proposti da altri marchi editoriali… Uno lo avete citato ieri, ordito da un presunto discendente di Stoker… Chissà se qualcuno ricorda “Ritorno a Casa Usher” scritto da Robert Poe?…. Oh, ma andiamo, il vero Poe cavalca a fianco di Magico Vento!

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 15:28 da Danilo Arona


“Ritorno a casa Usher” è una delle più colossali bufale mai pubblicate, condivido. Appropriarsi di un nome glorioso fa parte del grottesco editoriale.
Devo fare un’errata corrige obbligata. In un precedente post mi sono riferito a Giuseppe Lippi come Claudio! Porca puttana! Proprio io che mi sono sempre impermalito dall’essere chiamato Nino!

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 15:56 da Gianfranco Manfredi


Tra l’altro quando ho conosciuto Nino Manfredi, la prima cosa che mi ha chiesto è stata: Ma tu ti chiami davvero Manfredi? Pensava che avessi applicato la tradizione dell’avanspettacolo di darsi un simil-nome confondibile con un nome famoso. All’epoca si esibiva in avanspettacolo un cantante che si era chiamato Enzo Jannace. L’equivoco purtroppo andò avanti a lungo. Una volta apparve su Panorama una foto di Nino Manfredi con didascalia che lo indicava per Gianfranco Manfredi. Un’altra volta è capitato che il mio agente cinematografico è stato contattato per una versione cinematografica dello scudo di Talos di Valerio Manfredi. Mi sono premurato di mettere in contatto la persona con l’agente di Valerio Massimo Manfredi. Detto agente, ridendo, ha detto al mio: “ah, non sa quante volte mi sono giunte telefonate per Valerio Massimo che invece si riferivano a Gianfranco!” Piccolo particolare. L’agente di Valerio Massimo non ha mai telefonato al mio per avvisarlo. A questo va aggiunto che essendomi esibito spesso con Ricky Gianco, un’infinità di volte ci hanno chiesto: chi di voi due è Rick e chi di voi due è Gian? Il che conferma che un autore o un personaggio dello spettacolo, per il pubblico è una categoria vaga di appartenenti allo stesso Circo infinitamente mutanti gli uni degli altri. Nessuno invece confonde Madame Bovary con Anna Karenina. I personaggi immaginari sono più riconoscibili e identitari delle persone. Noi siamo al loro umile servizio come Renfield con Dracula.

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 16:06 da Gianfranco Manfredi


Già, chi era Baby e chi era Lonia?

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 16:15 da Danilo Arona


La confusione tra persone è favorita dall’omonimia, ma non dipende da questa. Una volta in un ristorante uno mi è corso incontro con le lacrime agli occhi e mi ha detto. “Maurizio! Ho tutti i tuoi dischi! Mi fai un autografo?” Ho ovviamente firmato Maurizio senza capire di chi stesse parlando. E Faletti mi ha raccontato che all’epoca di Drive In, durante le serate gli chiedevano a gran voce di fare il paninaro che era il personaggi di Braschi. Il grande vantaggio di fare lo scrittore è di scivolare nell’anonimato. Se Wilbur Smith va in giro per strada, nessuno lo riconosce, e magari se firma Smith in albergo pensano che sia il solito Smith cioè l’anonimo per eccellenza!

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 16:23 da Gianfranco Manfredi


Già che ci sono ne dico un’altra che mi è stata raccontata la settimana scorsa da Andrea Brambilla in arte Zuzzurro. Dopo essersi dedicati per anni al teatro, Zuzzurro e Gaspare sono tornati in televisione a Zelig e hanno dunque ricominciato ad essere “riconosciuti” per strada. Un tipo a un parcheggio, va incontro a Zuzzurro e gli chiede un autografo. Sbuca Nino Formicola ( cioè Gaspare) e quello fa: “Ah, ma c’è anche Vecchioni!” Ora. quale collegamento fisico o artistico può esserci tra Nino Formicola e Vecchioni? Nessuno. Apparentemente il regno dello Spettacolo è quello della riconoscibilità assoluta, in realtà non è così. Tutti quelli che ne fanno parte sono percepiti come una sorta di indiscriminata razza aliena di tizi e di caio trasmutanti gli uni negli altri. A nessuno invece capita di confondere l’Uomo Ragno con Batman.

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 16:32 da Gianfranco Manfredi


Ultima. A volte con la confusione ci si guadagna. A un festival cinematografico di Taormina, sono stato invitato insieme al mio amico regista Salvatore Samperi. Però a lui hanno dato una singola, a me un principesco appartamento perché mi avevano confuso con Nino Manfredi. L’appartamento in questione era stato appena liberato da Dustin Hoffmann. Non c’entra nulla con l’horror, ma dopotutto è domenica.

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 16:41 da Gianfranco Manfredi


Mah, alla fine forse c’entra… Il Doppelganger è una delle anime, forse la più importante, dell’Horror, soprattutto quello “esitante” che piace tanto a Defilippi e me. Gemelli (metafisici e nascosti), Stark, Hyde, Norman & Norma, donne che vissero 2 volte, i 94 Hiltler di Ira Levin, Studenti di Praga e William Wilson. E – ancora dedicata ad Ale Defilippi- Miles versus Quint e Flora vs. Miss Jessell. A questo punto nel gioco di Specchi occorre infilarci Dracula e Van Helsing. Dracula non può specchiarsi ma può riconoscersi “al contrario” nel suo Alter Ego persecutore. E sull’aspetto è doveroso ricordare il geniale ribaltamento Hammer in cui Van Helsing-Cushing è spesso ossessionato, sino a quasi incarnare lui l’essenza del mostro persecutore, sino alla patologia dalla sola possibilità di esistenza di un Dracula di volta in volta tornato in vita… Io personalmente, in più di un episodio, ho parteggiato per il vampiro. Grama vita la sua, soprattutto nei sequel e negli apocrifi.

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 17:10 da Danilo Arona


Posso?

Insomma, bisogna propagandare, a cominciare dal web, i “marchi di qualità”, di origine controllata, i non-ogm, e fare di tutto per sostenerli, a cominciare dal fatto di comprarne i libri.

Io con questa dichiarazione qui non sarei tanto d’accordo. La qualità è ciò che cerco nei libri, sempre. Ma non erigerei paletti del tipo: scrivi romanzi storici? Allora non puoi scrivere gialli. Scrivi di vampiri? Allora niente licantropi.
Trovo che la contaminazione dei generi sia una ricchezza in letteratura. Questo ovviamente senza nulla togliere al lavoro di chi si è dedicato all’horror per passione e preparazione. Da questo punto di vista, la mia stessa presenza in questo dibattito non avrebbe motivo di essere, poiché sui vampiri mi sono limitata (ci siamo limitate, io e Loredana Falcone) ad un racconto e con l’horror stiamo tentando un timidissimo approccio. Che dobbiamo fare? Non essendo veterane del genere non dovremmo neanche provarci? Noi andiamo, da sempre, dove ci porta la penna, la suggestione, l’emozione. E trovarci, eventualmente, un giorno additate al pubblico ludibrio per aver osato tentare la strada della paura, beh mi sembrerebbe poco intelligente da parte di chi alzasse l’eventuale indice. Ancor più se dovessimo riuscire a produrre qualcosa di interessante.

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 17:22 da Laura Costantini


Perdonate l’assenza, ma ho avuto qualche problema di connessione.
Intanto buona domenica a tutti e grazie (di cuore) a tutti per i nuovi commenti pervenuti.

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 17:28 da Massimo Maugeri


vergnani e manfredi: certo che ognuno ha le sue opinioni e io non vedo perché dovrei essere “scusata” delle mie, per il mio nome vampiresco. tanto per cambiare, le opinioni non nel coro sono un po’ meno opinioni, nevvero?

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 17:28 da lucy


Lucy, abbiamo scritto insieme. Ho dato una rapida occhiata ai nuovi commenti (non li ho letti tutti… spero di farlo tra oggi e domani). Ma no, tranquilla, Lucy… esprimi tranquillamente le tue opinioni. Quella di Nino Manfredi, no… ehm… Valerio… cioè, no… Gianfranco… insomma, l’autore di “Ho freddo” – sul tuo nome vampirico – è una battuta. ;)
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Scherzi a parte, non tutto può e deve piacere… ci mancherebbe.
Io, però, sono personalmente grato a tutti gli intervenuti perché ho appreso tante cose nuove sull’argomento. E il confronto credo sia stato (parlo almeno per me) molto interessante.
Ciò premesso, immagino che chi ama i libri della Meyer continuerà ad amarli, e viceversa. Chi non ama la “letteratura vampirica” continuerà (probabilmente) a non apprezzarla… e viceversa.

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 17:37 da Massimo Maugeri


@ Laura
Sono d’accordo con il tuo commento delle h. 5:22 pm.
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Ne approfitto per rispondere scherzosamente a Simonetta: se dovessi decidere, un giorno, di cimentarmi con il genere horror… in un modo o nell’altro per il lettore sarà un’esperienza terrificante.
:)

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 17:44 da Massimo Maugeri


Un paio di risposte su commenti di ieri che ricordo a memoria…

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 17:45 da Massimo Maugeri


@ Danilo Arona e a tutti
Questa discussione continuerà fin quando ci sarà qualcuno che avrà qualcosa da dire. Questo, a prescindere dalla pubblicazione di nuovi post.
Io auspico che si protragga il più a lungo possibile.

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 17:46 da Massimo Maugeri


Intanto notifico che questo post rienterà nella classifica di post più commentati di Letteratitudine (che aggiornerò nei prossimi giorni):
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/post-piu-commentati-e-post-permanenti/

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 17:48 da Massimo Maugeri


Ho inviato un paio di mail ad altri “addetti ai lavori” nella speranza di aggiungere ulteriori “voci” alla discussione.
[Certo... quando dovrò selezionare gli interventi per farli rientrare nel nuovo volume di "Letteratitudine, il libro" sarà un'impresa tutt'altro che facile... della serie: troppa grazia!]

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 17:50 da Massimo Maugeri


WOW! Beh, essere stata presente in uno dei post più commentati mi riempie di orgoglio, anche se nell’ambito vampirico/horror sono una extracomunitaria ;-)

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 17:52 da Laura Costantini


@ Miriam Vinci
Prof. Maugeri? Macchè professore! Io sono qui per imparare. :-) )
Grazie a te per essere intervenuta e in bocca al lupo per questo tuo romanzo e per il tuo futuro di scrittrice.
Approfittane, però, per leggere con attenzione gli interessanti interventi dei veterani del genere.
Io alla parola “confronto” aggiungo sempre quella di “condivisione”. Per me è fondamentale. Non condividere necessariamente le opinioni (altrimenti il confronto verrebbe meno)… ma senz’altro condividere i saperi, le esperienze, le idee…
Per questo ringrazio, ancora una volta, tutti gli intervenuti.

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 17:59 da Massimo Maugeri


Intanto ne approfitto per annunciare che ospiti della prossima puntata radio di “Letteratitudine in Fm” (sulle frequenze di “Radio Hinterland” per i residenti a Milano e provincia e per tutti – in streaming – via internet) saranno Gianfranco Manfredi e Simonetta Santamaria: martedì, 9 marzo, h. 21:30 circa.
Per info: http://letteratitudine.blog.kataweb.it/letteratitudine-radio-hinterland/
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@ Laura
:)

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 18:04 da Massimo Maugeri


@ laura. Sono d’accordissimo con te. Io stesso mica scrivo solo horror e mi sono dilungato anche troppo sul valore delle contaminazioni. Lì stavo parlando di altra cosa e cioè dell’exploitation. Sarò candido, però da appassionato, un film targato Hammer mi dà più garanzie di un horror prodotto da de Laurentis. Il che non toglie che il secondo possa risultare epocale. E mi girano le palle che notissimi editori che abitualmente respingono lavori di tendenza perché li disprezzano, poi quando col filone si ci guadagna, inzeppano il catalogo di porcherie dell’ultimo minuto. Non c’è l’ho affatto con la grande editoria in quanto tale. Mondadori ad esempio nelle Collane Urania, in quelle attualmente curate da Altieri, nei suoi spesso coraggiosissimi e frustrati tentativi di collane horror, è stato serissimo, ha avuto e ha ancora un ruolo di assoluto rilievo. Tra l’altro i curatori di queste collane, leggono le opere che pubblicano. Non altrettanto si può dire della sezione “generalista”. Spesso si individua a priori un target di mercato e si cercano titoli che possano rientrarci, senza nemmeno accorgersi che magari, quel titolo in particolare non c’entra niente. Altre volte si inventano collane del tutto farlocche, tipo quella Best sellers, nella quale compaiono una quantità di titoli che Best Sellers non sono stati affatto, anzi sono stati dei veri e propri fallimenti, cioè best sellers annunciati, ma non verificatisi. In questo caso l’etichetta è un imbroglio per il pubblico. Un espediente per recuperare un titolo di cui si erano stampate decine di migliaia di copie e che aveva invece venduto pochissimo.

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 18:05 da Gianfranco Manfredi


@ Gianfranco
Tra gli altri ho scritto proprio a Sergio Altieri: magari avrà la possibilità di fare un salto qui. Vedremo…
Per il momento vi saluto e auguro a tutti una splendida domenica sera.
(Qui piove a dirotto).

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 18:08 da Massimo Maugeri


Informo Massimo che ho personalmente contattato altri autori (quelli di cui avevo la mail) per invitarli a partecipare, così che il dibattito si allarghi e chi ha postato finora possa concedersi e concedere agli altri una pausa ristoratrice. Invito gli altri a fare altrettanto. Purtroppo non ho la mai di Claudia Salvatori, mi piacerebbe moltissimo leggere il suo parere sui temi trattati.

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 18:09 da Gianfranco Manfredi


Ottimo, Gianfranco. Grazie di cuore.
Se il dibattito si “ingrossa” ancora, potremmo prendere in considerazione la possibilità di farne oggetto di un volume a parte (opportunamente rielaborato). Una sorta di “dossier”, a più mani, sulla “letteratura dei vampiri”.
La buttò lì… che ne dite?
-
Di nuovo buona serata e buona domenica a tutti.

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 18:14 da Massimo Maugeri


Ti prego in previsione libro, di correggere i molti refusi in cui sono incorso per il deplorevole vizio di scrivere alla velocità del pensiero. Quando pubblico qualcosa rileggo almeno venti volte con maniacalità (e poi alla fine qualche diabolico refuso resta sempre, comunque. Il refuso è da sempre il nostro nemico occulto), ma così corrispondendo al volo la mano scorre sui tasti, e a volte il refuso fa allegria.

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 18:41 da Gianfranco Manfredi


Volevo proprio dire allegria, non allergia.

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 18:42 da Gianfranco Manfredi


Un saluto a tutti e, per quel che vale, un riangraziamento a chi, intervenendo, ha allargato i miei orizzonti.
Spero di risentirvi tutti presto …

Uno a parte ovviamente, a Massimo Maugeri per la bontà dimostrata invitandomi a cotanto agone …

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 18:42 da claudio vergnani


@ Massimo. Aggiungo solo una cosa. Mi avevi chiesto se non ho capito male di infilare un mio scritto, un incipit o qualcosa di narrativo in questo blog. Non l’ho fatto e non per motivi di diritto d’autore (personalmente sono anche oltre il creative common, ritengo che nelle forme attuali il diritto d’autore sia un abominio … se continua così anche leggere un brano in pubblico diventerà preda della SIAE perdendosi tra l’altro in un calderone diritti di cui agli autori non va un dollaro bucato) . Non l’ho fatto perché mi piace seguire e partecipare alla discussione collettiva e i contributi letterari (anche quelli che sono stati pubblicati) mi riservo di leggerli alla fine, con calma e autonomamente dalla discussione.

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 18:48 da Gianfranco Manfredi


E nella prefazione al libro, ti prego di non mettere un decreto interpretativo.

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 18:53 da Gianfranco Manfredi


Credo che Gianfranco non abbia interpretato al 100% il mio punto nell’articolo sul “Vampiro in America” (Gargoyle). Dove ammetto, sì, che il buonismo abbia rappresentato la chiave di volta per l’ingresso del vampiro americano nel mainstream, ma considero questa una disgrazia! Quanto al film di Coppola, gli do il fatto suo (impegno produttivo a parte…). Se sono diventato lettore di vampiri, è perché volevo averne paura, ammirarli – in segreto – ed esorcizzarli. Ora, con i buoni diavoli non mi riesce proprio!

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 19:23 da Giuseppe Lippi


Qualcosa si potrebbe ancora dire… intanto, per caso o per complotto, la diffusione del virus dell’AIDS ha rimpinguato, piaccia o meno, di metafora linfa la parabola vampiresca. In letteratura c’è chi ne ha approfittato in modo sublime come Rex Garton (Ragazze vive) e Dan Simmons (I figli della paura), mentre per il cinema diventa ibbligatorio menzionare il cupo e intenso The Addiction di Ferrara. Ma poi ci stanno negli ultimi anni al cinema titoli alquanto devianti che non si collocano affatto nella tradizione, ma che ci buttano addosso dallo schermo problematiche tutt’altro che consolatorie. Pensate a “Il buio si avvicina” della Bigelow (una famiglia di vampiri poveracci che gira l’America alla disperata ricerca di sangue con cui sopravvivere); a “Nadja” di Almereyda con un buffo Van Helsing che si sposta in bicicletta per la Grande Mela; il western Vampires di Carpenter, dove i Cacciatori suscitano molto più ribrezzo dei poveri mostri cotti vivi alla luce del sole del deserto, e molti altri ancora… Titoli alla rinfusa che dimostrano come il più arcaico esemplare del filone gotico sia una stupena lente dì’ingrandimento per portare alla visione di tutti i Mali nascosti del pianeta… Se guardate ad es. “Vampires” nell’ottica pensata da Carpenter, vi accorgerete che è il più incredibile attacco mediatico al Vaticano degli ultimi anni… altro che la finta tenzone alla Dan Brown…
Siete già stanchi? Ma va… Per Magico Vento: l’anno scorso ho commemorato un amico in pubblico dentro il Foyer del Teatro Comunale e il Comune ha dovuto pagare la SIAE… Vampiri? Dracula è un bambino in fasce…

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 19:38 da Danilo Arona


Un piccolo contributo sulla letteratura dei vampiri :

http://giannidemartino.splinder.com/post/21040741/Morsi+e+scrittura+nel+Dracula+

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 19:54 da Gianni De Martino


@ lucy
Confesso di non avere compreso in pieno quello che dici, e che pare abbia un po’ irritato (e lo capisco) Manfredi. Siccome ti conosco, anche se solo blogghianamente, e ti stimo (spesso mi trovo anche io in piena sintonia con te), proviamo a intenderci: tu premetti di condividere tutto quello che ho detto, poi scrivi “per interessarsi ai vampiri vecchi e nuovi ci vuole una piega dell’animo come una superficialità altrimenti inconfessabile. non a caso il successo attuale. se l’epoca in cui viviamo avesse profondità, si interesserebbe ai vivi, non ai morti: tantomeno ai non morti, foss’anche buoni”.
Ma io non dicevo questo. Anzi. Io dicevo che non mi interessa se un vampiro sia buono o cattivo, se sia capace di innamorarsi o meno. In pratica che non mi interessano minimamente i vampiri umanizzati (o parzialmente svampirizzati) che oggi sembrano fare “nuova tendenza”.
E che mi interessa invece, e ne subisco il fascino, di vampiri (o mostri di qualsiasi tipo) capaci di interrogarsi sul loro stato, sulla loro diversità. Trovo che nei vampiri (vecchi o nuovi) possa benissimo esservi grande qualità letteraria. Non capisco perché solo interessarsi ai vivi (alla realtà del mondo?) debba connotare profondità di pensiero, e interessarsi a i mostri debba essere indice di superficialità. Come se Stevenson, o Poe, o Lovecraft (o il mio amato Machen), fossero nella storia della letteratura solo di straforo, o per un accidente del caso. E tutti quelli che oggi amano King? (io, confesso, non particolarmente, ma riconosco diversi pregi in alcune sue opere, anche se certamente non tutte, forse anche poche nella vastità della sua produzione). Parlare di morti (o di non morti, o comunque di mostri) in fondo è parlare delle nostre paure, è parlare di noi, e quindi sempre parlare della nostra realtà. Forse però di quella più nascosta, e per questo ci affascina tanto.
Mostri, streghe, vampiri, licantropi, alieni, cosa sono infatti se non la metafora del diverso? E la paura che possono suscitare nel lettore, cosa se non la paura del diverso? Ben lo sapeva il cinema USA degli anni ’50 che lanciò il nuovo genere della fantascienza, che in piena guerra fredda e in clima di maccartismo serviva allo scopo di instillare nel pubblico la paura dei russi (L’invasione degli Ultracorpi, La cosa di un altro mondo, .. ecc.) . Ma al di là dell’utilizzo politico, quei film sono godibilissimi ancora oggi, e anche da chi quella superficie ideologica è in grado di riconoscere e detestare. Vuol dire che al di sotto della superficie c’è qualcos’altro, che ha a che fare con la paura nel nostro essere più profondo, indipendentemente dall’ideologia o da qualsiasi suo uso “politico” che se ne puù fare.
Fantascienza, horror, noir, terrore, in fondo sono solo tanti modi diversi per inventare storie che parlano sempre di noi, per parlare a noi, per interrogare noi e provare a dare a noi delle risposte, che non sono necessariamente delle verità, ma non è questo l’importante, né il fine.
L’unica vera distinzione possibile (come sempre) è in termini di qualità. C’è chi fa buona letteratura, chi la fa cattiva o chi scribacchia senza farla per niente. Indipendentemente da qualsiasi genere.
Nel tuo discorso sembrava invece che tu non volessi riconoscere “dignità” ad alcuni di essi. E questo non lo condivido per niente. Sorry.

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 20:21 da Carlo S.


no no, carloesse, confermo. tu insistevi sul buonismo di oggi e io quello sottoscrivevo. punto. dopo il punto mettevo in campo un’ obiezione sulla letteratura vampiresca del passato, del tutto personale, in termini di tiepido apprezzamento, al cospetto del quale, in proporzione, la produzione più recente mi lascia del tutto indifferente. converrai che quando un fatto letterario diventa fenomeno, moda, boom, forse c’è da essere un po’ sospettosi. sai, oltre tutto sono una conquistata al poliziesco e al noir da poco tempo, i miei retaggi mi impediscono di aprirmi troppo: sul momento, poi chissà. sono altresì restia a riconoscere pieno statuto letterario a certa para-letteratura fantasy, horror etc.: è un mio limite, ma credo che anche le persone limitate (diverse?) abbiano diritto di esprimere le loro perplessità. non ti volevo coinvolgere in idee che non sono tue, scusami. la brevitas del web può indurre a tagliare passaggi logici, necessarie soluzioni di continuità.
a proposito: touchée! io sono una che scribacchia, ma non leggiucchia!
:D

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 21:11 da lucy


Più ancora del film Vampires l’attacco al Vaticano – molto divertente ma non per questo meno duro – lo si può trovare in Vampire$, il romanzo di Steakley da cui il film è tratto … e che credo valga la pena di leggere.

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 21:46 da claudio vergnani


Brevissimamente: per Danilo, guarda che Garton si chiama Ray, Rex è, a scelta, il piroscafo o il commissario…
Avete tirato in ballo la figura emeblematica di Renfield: non riesco a trattenermi dall’annunciarvi per il 2011 un romanzo che, a mio avviso, si prospetta come un vero capolavoro. Parlo del THE BOOK OF RENFIELD, di Tim Lucas, fin a oggi il più straordinario tra i prequel/sequel/spin-off del Dracula di Stoker che mi sono passati tra le mani…. Attualmente ce l’ho in corso di revisione, e mi comunica sensazioni che mi non fanno rimpiangere di avere scelto l’impervia strada dell’editore.

Postato domenica, 7 marzo 2010 alle 22:00 da Paolo De Crescenzo


@ Gianfranco
Tutti refusi verranno immancabilmente corretti. Parola di uomo con la camicia celeste :-) )
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p.s. leggendo i tuoi commenti si scopre una tua vena ironica che – a mio avviso – potrebbe fare concorrenza a quella horror.

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 00:27 da Massimo Maugeri


@ Claudio Vergnani
Sono io che – ancora una volta – ringrazio te e tutti gli altri intervenuti.
Davvero.

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 00:29 da Massimo Maugeri


Ringrazio Gianni De Martino per il contributo
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@ Carlo S.
Curiosità. Tra i libri di King che hai letto, qual è quello che ti ha convinto di più (e, viceversa, quello che ti ha convinto di meno)?

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 00:30 da Massimo Maugeri


@ Giuseppe Lippi
Caro Giuseppe, grazie per essere intervenuto e benvenuto a Letteratitudine!
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Giuseppe Lippi, tra le altre cose, è il curatore della collana Urania.
Altre informazioni, qui: http://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Lippi

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 00:32 da Massimo Maugeri


@ Paolo De Crescenzo
Attendiamo l’uscita italiana di THE BOOK OF RENFIELD, di Tim Lucas (per i tipi della Gargoyle): http://www.bookofrenfield.com/

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 00:35 da Massimo Maugeri


Auspico che la discussione “vampirica” possa continuare.
A tutti voi una serena notte e un buon inizio settimana.

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 01:14 da Massimo Maugeri


Buona giornata a tutti.
Mi ero dimenticato di invitare (e faccio riferimento anche a un precedente commento di Gianfranco Manfredi) gli autori coinvolti in questa discussione a inserire uno o più brani (decidete voi la lunghezza) tratti dalle vostre opere.
Se volete e potete, naturalmente…

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 07:27 da Massimo Maugeri


Chiedo venia a Garton e a Paolo. Scrivo a memoria, purtroppo sempre più fallace.
Aderendo al cordiale invito di Massimo, vi linko qui:
http://www.carmillaonline.com/archives/2009/08/003147.html
A dopo

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 10:53 da Danilo Arona


Questa notte, a Hollywood, in una serata ad altissimo tasso di buonismo, ha vinto la vampirologa Bigelow (prima donna regista ad ottenere il premio , in data 8 marzo, e con un film che più macho non si potrebbe ah, le sintonie e gli equilibrio hollywoodiani!). A metà serata ha fatto colpo una clip omaggio dedicata all’horror, genere tuttora emarginato dall’Oscar. L’effetto nel contesto è stato: “Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare”. Era presente in sala uno degli attori di Twilight, giovanissimo, a rimarcare che ancora parlando di Horror si parla di futuro, e a omaggio a un horror non-horror palatabile e in quanto commercialissimo, apripista a una ventura riconsiderazione dell’horror come genere. Brillante il commento di Gianni Canova che ha ricordato come il miglior film di vampiri dell’anno sia stato Il Divo di Sorrentino, dove in effetti Andreotti non è rappresentato “come”, è davvero Nosferatu. Canova ha anche ricordato la sottile parentela nell’esclusione dai premi, tra horror e porno.

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 11:26 da Gianfranco Manfredi


Cari amici, intanto complimenti per l’iniziativa della quale mi ha fatto partecipe l’amico Gianfranco Manfredi, vi segnalo che proprio per festeggiare l’8 marzo a tema vampirico ho editato sul sito della mia trasmissione radiofonica di Radiodue “Tutti i colori del giallo”, l’intervista che ho fatto in questi giorni ad Anne Rice, credo che vi divertirà, leggetela pure o linkatela se preferite è su http://giallo.blog.rai.it/ buona settimana a tutti
luca crovi

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 11:30 da luca crovi


MORSI E SCRITTURA di Gianni De Martino
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I DUE PUNTI DI DRACULA:

L’incontro di Dracula con il corpo di Lucy ha lasciato due piccole tracce che diventano oggetto di una serie di letture da parte di parenti, conoscenti e amici della vittima. Inizialmente, i due puntini rossi sembrano quasi insignificanti… Solo quando le due piccole piaghe non solo non guariscono, ma si allargano, mostrando bordi bianchicci e malsani, ci si rende conto della gravità del caso. Nel film “Dracula di Bram Stoker” (1992), il dottor Jack Seward è disperato: la sua Lucy sta morendo di una malattia incurabile di origini sovrannaturali, cosi è il momento di far intervenire il professor Abraham Van Helsing , docente universitario olandese che conosce molto bene – perlomeno così crede lui – la natura del vampirismo.

Nel film, come nel romanzo ( 1897), vengono più volte descritti in dettaglio i buchini lasciati nella carne. Il primo piano letterario anticipa quello cinematografico e il lettore-spettatore vede i bordi di due piaghe con orli che si allargano a tutto lo schermo. Nel primo piano dei buchini slabbrati si trova un messaggio che dice: DRACULA E’ SBARCATO SULL’ISOLA, HA PERCORSO LE VIE AFFOLLATE DI LONDRA, E’ VENUTO DENTRO LA NOSTRA CASA E HA ADDENTATO LA NOSTRA PICCOLA LUCY, PENETRANDOLA CON LE SUE GROSSE ZANNE INFETTE.

Le due piaghe sembrano costituire una nuova forma di scrittura: la scrittura di un forestiero che ha un’altra lingua, un altro corpo e due dentoni grossi così. Insomma, i due punti incisi nel vivo sono la scrittura di Dracula.

Si tratta di un morso sulla giugulare che – come si vede nella scena feticcio del romanzo di Stoker riprodotta in maniera quasi caricaturale da Christopher Lee e Barbara Shelley nel film Dracula, Prince of Darkness, di Terence Fisher (1966) – segna con un marchio indelebile il momento dell’estasi, l’istante di un’intrusione nel corpo che ne modifica la grammatica: il desiderio si libera dalle costrizioni borghesi che lo limitano e la vittima diventa, a sua volta, un vampiro furbo e crudele.

I due punti, che segnano nella frase un tempo di pausa per un cambiamento di direzione, hanno aperto il corpo del vampirizzato verso altri spazi: quelli della notte; anzi di molte notti abitate da una Lucy diventata euforica, trasformata in una fiera seduttrice, lubricamente proiettata verso altri desideri, scambi scellerati e attività sotterranee che resistono alla legge. Dracula è la droga delle sue vittime e il suo morso è un’ouverture ( ouverture in musica e apertura nella carne). E’ quel che accade alla povera Lucy, che dopo la puntura di Dracula si sottrae alla società puritana dell’Inghilterra vittoriana che la destina al matrimonio e alla fedeltà, e diventa una specie di umbratile punk ante-litteram.

Il primo morso non si scorda più; e il piacere si disegna dal profondo del sangue: sempre sul punto di cominciare e mai di finire. Morso dopo morso, in un vero e proprio delirio di filiazione negativa, i vampiri si generano indefinitivamente… Così come anche i più di mille film e i numerosi rifacimenti delle storie di vampiri. Per non dire dell’espansione dei media e dei blog, di cui Dracula rappresenta la figura: un’espansione indefinita che confonde i sistemi chiusi, le ortodossie di ogni genere – mentre per noia o sazietà, la classe letterata europea si lascia sedurre dalla barbarie e si apre ai multiculturalismi e alla bontà dei meticciati e delle contaminazioni di ogni genere…

… Forse è solo la ricchezza corrosiva della vita, non il nostro benessere da difendere da ogni minima minaccia, tutta questa ricchezza “ sotto cui – come teme l’amico Vincenzo Consolo, mangiando una razione di piccantissimo zichinì – “finiremo schiacciati, sepolti, bianchi e immobili per sempre” (cfr. “Porta orientale”, in AA.VV., Milano per le strade, Azimut, Roma 2009 – libro pervenutomi grazie alla gentilezza di Mariano Bargellini, autore del racconto, landolfiano e di ascendenze metafisiche, intitolato “L’indossatore morto di freddo”). Ma non è di noi vecchi Europei esangui ed evanescenti che volevo parlare… ODDIOOO, nello scrivere, o meglio, nel digitare ti ha forse morso qualche zanzaraaa…? Scusate: il Vampiro non ha solo “scongelato”, per così dire, il corpo e l’anima di Lucy, ma ha anche introdotto un desiderio di far durare la frase, di accumulare, di viaggiare e deviare, di aggiungere proposizioni subordinate: e di dirlo per inciso, grazie ai suoi perversi incisivi.

Il cerchio della sinistra congrega dei nosferatu non cessa di allargarsi. Occorre mettere fine a tutto questo, cioè al vampirismo. E’ quel che raccomanda anche Van Helsing a Jonathan Harker (Keanu Reeves) e alla sua fidanzata Mina (Winona Ryder), descrivendo con fanatismo tranquillo la decapitazione di Lucy. Sono tutti e tre a tavola, Mina lo guarda esterefatta e Jonhatan Harker ha appena fatto la spia, rivelando dove si trova il conte Dracula. Ingurgitato in fretta e furia un bicchiere di vino, Helsing improvvisamente si anima e si rivolge alla giovane coppia per una veloce lezione sul vampiro e le sue abitudini : “ Il vampiro esiste ed è questo che combattiamo, questo affrontiamo. Egli ha la forza di venti e più persone, e voi lo potete testimoniare signor Harker, costui esercita il suo potere anche sugli esseri più infimi, il pipistrello il ratto, il lupo, può apparire sottoforma di bruma, vapore o nebbia e dileguarsi quando vuole. Ora…Dracula puo fare tutto ciò, ma non è libero, per accumulare tutta questa forza malefica deve riposare nella terra del suo paese natio, è li che lo troveremo e lo annienteremo definitivamente”.

Nella lotta contro Dracula occorre opporre una chiusura a sempre nuove aperture, doppi e multipli. E’ difficile contrastare il potere dei vampiri, capaci di metamorfosi, replicazioni, teletrasporti, allenamenti agli ultrasuoni ( come i pipistrelli ), comunicazioni telepatiche. Difficile, ma non impossibile: la forza malefica di Dracula può essere annientata con un punto; non il punto e virgola, punto con una piccola colata di sangue, ma un punto fermo e definitivo. Perlomeno così pare. Ad ogni modo, la scrittura di Van Helsing sarà il punto lasciato dall’ago nel braccio di Lucy nel corso delle numerose trasfusioni da lui effettuate per sostituire il sangue contaminato da Dracula con quello dei suoi familiari.

A differenza di Frankenstein, inquieto e disperato, in lotta con se stesso ( come ogni buon eroe romantico), il professor Van Helsing – l’ayatollah dei cacciatori di vampiri – appare come uno stupido vittoriano. Come anche Jonhatan ( impiegato di uno studio legale) e sua moglie Mina, egli è convinto di rappresentare il Bene, e ne è soddisfatto. Lo testimonia il paletto – segno dell’autorità, dell’uno – conficcato nel cuore del Vampiro.

Tecnica patetica dei cacciatori di vampiri. Li si può vedere ogni giorno sfrecciare in automobile o marciare con il cuore in mano alla luce del sole, del grande sole mentitore. Non dormono nella bara, ma quando non organizzano le ronde si rigirano nei loro letti, anche matrimoniali, minimizzando i buchini che si aprono nelle calze, nelle lenzuola e nel corpo. Oh, dicono, non sono altro che buchini quasi insignificanti, piccole ferite, anche narcisistiche, volendo. Neanche il loro accumulo, l’accumulo di tante piccole ferite, potrebbe convincerli di una gravità. Loro, i cacciatori di vampiri, rappresentano il Bene tranquillo, e ne sono soddisfatti.

Forse i veri vampiri sono quei “virtuosi” masochisti che chiudono un occhio e gli occhi sui bordi slabbrati, si tappano il naso, la bocca, le orecchie e l’uretra, per non dire dell’ano, ben stretto, o dei seni rifatti – in modo che tutto sia ben chiuso e sigillato dall’uno. Insomma, i veri vampiri non cessano di riempire e chiudere i buchi, proprio come fa la morte…

La morte: ? Se il Vampiro, sia pure mor(d)endo qua e là, potesse parlare, forse direbbe: “Contro le sofferenze dell’amore, il più sicuro rimedio è il disprezzo: quando non c’è più confidenza né stima, la piaga del paletto di quello sciocco professore olandese si cicatrizza subito”. Per fortuna o sventura, con quel bugiardo di Dracula c’è sempre un seguito. Punto. Anzi, due punti :

BIBLIOGRAFIA ( morsi d’autore)

- Gilles Deleuze e Felix Guattari, Mille Plateaux. Capitalisme et schizophrénie, Minuit, Paris 1980; tr. it. G. Passerone, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 1987;
- Gianni De Martino, L’ultima lettera di Vlad il Vampiro, con quattro tavole di Giorgio Bertelli, coll. “Chirografie”, edizioni di Barbablù, Siena, 1993;
- Sara Thornton, Écriture et morsure : l’extase de la ponctuation dans Dracula de Bram Stoker, in “Savoirs et clinique. Revue de psychanalyse”, n.8, Éditions Érès, Ramonville-Saint-Agne. 2007.

Da ( con qualche variante): http://giannidemartino.splinder.com/post/21040741/Morsi+e+scrittura+nel+Dracula+

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 11:32 da Gianni De Martino


Bonjour! Perdonate la mia assenza di ieri ma la domenica è dedicata a mio padre, un notevole peperino di 86 anni dalla penna fine e tagliente… Se c’è qualcosa di buono nella mia scrittura devo averlo ereditato geneticamente da lui.
In breve: innanzitutto volevo esprimere il mio orgoglio (concedetemi ’sti 5 minuti da pavone) per essere ospite di Massimo Maugeri in radio insieme a Gianfranco Manfredi: due personaggi che accostati alla sottoscritta la gasano come un palloncino all’elio.
Molto acuto l’accostamento Renfield-scrittore horror. E’ vero, noi siamo la linea di confine, siamo quelli che comunicano con le due dimensioni, una sorta di medium della pagina. E stiamo dalla parte dei mostri, ci asserviamo al loro potere e assecondiamo le lloro storie. Forse per questo la gente crede ancora che per scrivere horror bisogna essere dei pazzoidi psicolabili. Ma forse un fondo di verità, in questa ipotesi, c’è. E l’uscita di The book of renfield è una lietissima novella che attenderemo con trepidazione. E magari troveremo una risposta al mio quesito.
Sulla contaminazione: no, non bisogna mettere i paletti e confinare gli scrittori nei loro rispettivi generi e guai a chi tenta di evadere; come dice Laura, la penna ci porta dove vuole. Però dico che non è giusto poi definirli come “nuova frontiera dell’horror” o titoli similari. Attenzione all’uso delle parole. La nuova frontiera dell’horror già esiste ed è formata da ben altri scrittori.
Il mio racconto “Quel giorno sul Vesuvio” vincitore del XI edizione del premio Lovecraft è stato ospitato nel mitico Giallo Mondadori da Sergio Altieri, una persona dalla penna fine e dall’occhio attento e, soprattutto, super partes, che non teme di varcare quei detti confini, di mescolare generi che dopo tutto sono rami di una stessa pianta, hanno le stesse radici. E’ questa l’intelligenza. Ma non per questo sono diventata una giallista. Speriamo riesca a intervenire.
Intanto, buon resto di mattinata a tutti. Io intanto ho un mostro da alimentare: vuole crescere, il maledetto, sapete? ;)

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 11:44 da Simonetta Santamaria


L’Academy Awards sugella l’8 marzo concedendosi alla Bigelow per il suo The Hurt Locker, la quale batte così anche il suo ex marito James Cameron. Doppia vittoria, dunque? E poi addirittura la clip horror… Genere di solito emarginato da ogni tipo di premio o manifestazione. Bene: dobbiamo ringraziare Twilight per questo o sarà solo un effetto momentaneo?
Comunque, troppa grazia, sant’Anto’!

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 11:56 da Simonetta Santamaria


Credo che tutto nella letteratura abbia un moto, per così dire, “ondulatorio”, con i suoi picchi e i suoi bassi. Non c’è da essere sospettori se un genere (che poi nel nostro caso si parla di un icona del genere: il vampiro) ha una riaccensione d’interesse, ci sarebbe piuttosto da chiedersi perché, da approfondire, da leggere, magari.
Del resto, il noir al momento sta vomitanto scrittori e commissari peggio di un’assatanata in piena crisi possessiva.

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 12:28 da Simonetta Santamaria


Ripeto, cara Simonetta: non sottovaluterei la sottolineatura di Canova riguardo al Divo come vampiro. Stamattina ci siamo anche risvegliati con una nuova puntata del feuilleton liste elettorali. Liste che dovrebbero contenere le sottoscrizioni a un elenco di candidati che al momento della firma della lista stessa non erano ancora precisati. Si è letto anche (voci?) che, cosa non nuova in Italia, tra i sottoscrittori dei candidati fantasma, ci fossero ( ci siano) molti defunti. In un ormai antico post facevo osservare che in America i vampiri hanno un unico modo per sopravvivere: pagare le tasse. Se ne deduce che il loro paese elettivo è l’Italia dove se non le paghi nessuno se ne accorge e dove i morti hanno da sempre diritto di voto, con largo anticipo rispetto alle rivendicazioni di diritti civili per i vampiri della Hamilton e di True Blood. E poi dicono che noi Italiani non possiamo scrivere di vampiri!

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 12:42 da Gianfranco Manfredi


@ Simonetta : A proposito di The Hurt locker (che ritengo un ottimo film e che, per una volta, fa pensare che l’Oscar venga assegnato usando la testa) , mi viene in mente che si tratta di un film cosidetto di guerra (ed è un fatto) ma che nessuno si sogna di ghettizzarlo in un recinto scomodo etichettandolo, appunto, come di genere. E dire che gli elementi ci sono tutti – il buon soldato coraggioso e spaccone, gli scontri a fuoco, il nemico invisibile e spietato, l’amicizia cameratesco/virile, l’ufficiale buonista e un po’ coglione, il generale idiota alla John Wayne, gli orrori nell’inevitabile coinvolgimento dei civili e dei non cambattenti, il sentimento d’amicizia nei confronti del bambino non ancora contaminato dall’odio tra popoli ecc … E dire che il messaggio non è poi di una profondità che ti toglie il sonno. La guerra può dare dipendenza. (è scritto tra l’altro all’inizio della pellicola) Sic et simpliciter.
Ma poichè si parla (in buona fede ma non senza furbizia) di un tema reale e d’attualità, allora il prodotto assurge a vette negate ad altri che – magari apparentemente – d’attualità non sono.

Butto lì una provocazione alle donne nel giorno della loro festa: mi domando se il regista fosse stato un uomo … come minimo avrebbero detto che era un reazionario bieco e ottuso ? :)

p.s. Sempre in The hurt locker c’è anche parecchio splatter, vedi la sequenza in cui il protagonista estrae dal ventre di un bambino ucciso l’esplosivo … ma nessuno mai lo definirà splatter, ma solo una trsite e coraggiosa sequenza …

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 13:40 da claudio vergnani


Non a caso in America esiste l’American Vampire League (c’è anche un gruppo su fb a cui sono iscritta, ovviamente…) con lo scopo di far rispettare i diritti dei vampiri inseriti nel cotesto sociale umano. Vogliono portare la loro carta dei diritti al Congresso, chiedendo di uniformare vampiri e umani anche davanti alla legge. Petizione firmata dall’”eternamente vostra” Nan Flanaghan, presidente dell’AVL. Che il vampiro (e ripeto, ce ne sono diverse, di tipologie vampiriche, abbandoniamo lo stereotipo che lo vuole solo come Dracula) sia tra noi mi pare ogni giorno più palese, il fenomeno si va via via superficializzando. E se il Congresso accetterà le proposte dell’AVL, allora guardiamoci bene intorno, anche noi…

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 13:43 da Simonetta Santamaria


… e soprattutto i vampiri, senza specchio, ci rimandano il Reale e ci fanno riflettere su di esso… soprattutto se è Reale (del resto sono Ossimori!)… Alla fine ci parlano anche delle Torri Gemelle (dai, Gianfra, scherzo). Però Andreotti-Nosferatu non sta molto lontano. E chissà perché, di rimbalzo, ecco l’ingener Nosferatu di “Hanno cambiato faccia” di Farina, anni ‘70, un Adolfo Celi troppo in anticipo…

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 13:44 da Danilo Arona


@ Claudio: è vero. Del resto la guerra è realtà, quello che si vede è cruda realtà e anche se fa ben più orrore delle ferite inferte da Freddy Kruger nessuno lo ammetterà mai perché quella “è realtà” e a dirlo ci farebbe la figura del coglione. E non sono tutti uguali, i film di guerra? Gli ingredienti da te citati non sono quelli storto o morto presenti in Platoon, Mission, Apocalypse now e hai voglia a citarne (la mia memoria fa schifo, lo confesso…). Terminator? Anche lì ci sono gli orrori di una guerra ma siccome ci sono i robot allora è fantascienza… NO! Tutto è la nostra realtà, ogni elemento ci appartiene, cambia solo il mix di ingredienti. Purtroppo.

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 13:50 da Simonetta Santamaria


A me il film della Bigelow è piaciuto molto. Però extra film, ma non tanto, non è da trascurare il suo oggettivo significato ideologico (al di là della volontà dell’autrice). Dopo lo scandalo (ben più horror) di Abu Ghirab, l’America si ripulisce raccontandoci che il vero eroe è lo sminatore. Cioè non sarebbero lì a portare lutti, ma per intento umanitario. Attendiamo ancora, Gino Strada docet, che mandino sminatori nella ex jugolavia a rendere inoffensivi i Pappagalli Verdi, persino più letali dei Berretti Verdi. Dunque: evviva per l’Oscar a una donna, per di più esperta in vampiri, però gliel’hanno dato per un film maschilissimo, patriottico ad oltranza con annessa dose di ipocrisia, e trattasi oltretutto di creatura femminile alta due metri e di tale piglio autoritario che potrebbe abbattere con un soffio la nostra cara Sigourney. Cioè donne sì, ma devono pagare uno scotto piuttosto alto.

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 13:59 da Gianfranco Manfredi


Per inciso, il film è sotto causa, perchè si ispira alla figura storica e alla biografia di uno sminatore al quale nessuno ha pensato di versare quota dei diritti e di rendere giustamente partecipe del successo.

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 14:03 da Gianfranco Manfredi


@ Simonetta: esattamente. Poi, ovviamente, sono il primo a riconoscere che, finzione per finzione, film per film, i morti di The Hurt Locker richiamano purtroppo morti “veri”, mentre – ad esempio – i morti in Vampires di Carpenter … no.
Nulla toglie però che in qualsiasi libro – anche e soprattutto in Alice nel Paese delle Meraviglie e fantasie similari – chi ne ha voglia possa inserire – al di là della finzione – elementi umani attuali e sentiti. Fatte le debite proporzioni, chi crede che veramente lche o spettro del padre abbia parlato ad Amleto ? Forse che il suo messaggio è per questo meno incisivo ? E le streghe di McBeth ? Shakespeare era dunque un superficiale scrittore horror … ?

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 14:07 da claudio vergnani


E’ pieno pomeriggio e presumo che stiamo tutti lavorando. Invito però a considerare con attenzione il bellissimo post inviato a Gianni De Martino. Tanto per rispondere, se necessario alle accuse di superficialità. So che magari persino gli appassionati possono considerarlo improprio però c’è sempre un fondo filosofico nella questione vampirica. E va ringraziato chi lo porta alla luce. Uno dei ghetti della letteratura vampirica è quello predisposto da cui la considera evasiva. Nel contributo di Lippi che purtroppo non avete potuto leggere, la conclusione è illuminante. Scrive: “Quando l’ultimo filo delle marionette del diavolo sarà roso e spezzato dall’uso, chi potrà animarle se non lo spirito del vuoto, il Nulla?” Per marionette del diavolo, Lippi intende a riferirsi ai vampiri , “che danno un brivido anche quando sembrano ridotti a pallide controfigure di se stessi”. Cioè, se non ho capito male, lo svuotamento cui ci sembra di assistere del mito del vampiro nelle attuali versioni più in voga, non ci conduce esso stesso all’inquietante radice del Nulla, cioè del Vuoto che ci spaventa? Ci sono aggiungerei, sotterranei legami, nella narrativa vampirica contemporanea, con la teoria filosofica del Caos. Il compianto Michael Crichton gli aveva dedicato i capitoli introduttivi di Jurassic Park.
Fateci caso: i dinosauri (cioè i grandi rettili primigeni precedenti all’uomo) clonati dagli scienziati allo scopo di venire esibiti in un colossale Parco dei Divertimenti, non sono forse inquietanti vampiri fatti risorgere con la pretesa di confinarli in un recinto per lo spasso degli adolescenti? Ecco un altro profeta ( e filosofo) già dimenticato, a soli pochi anni dalla morte.

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 15:40 da Gianfranco Manfredi


Ho nel frattempo riletto il vivace contributo di Loredana Lipperini , scritto tra l’altro, magnificamente bene. Per quanto pieno di riferimenti che testimoniano la natura dell’attuale infestazione, continuo a ritenere che a dispetto delle operazioni (indubbie) di svilimento del Mito, anche in questa nuova veste il Mito morda sottilmente. Un punto in particolare mi colpisce, proprio la de-erotizzazione di cui parla Lipperini. Per la mia generazione il genere “vampiri” era (al di là dei grandi modelli letterari, parlo ad esempio dei film di serie Z proiettati nelle sale due film due, nelle quali tuttavia ho visto anche il perturbantissimo e necrofilo dottor Hichock o un nome del genere, di Freda) indubbiamente parallelo e confinante con il pre-porno. Questo perché il sesso, nella nostra generazione andava liberato. Oggi viviamo , gli adolescenti vivono, in un contesto assolutamente diverso in cui il porno è manifesto, sbandierato, unica ragione di vita congiuntamente con denaro e Potere, da un lato come diceva Marx “prostituzione universale” , dall’altro mera “prestazione” depurata di ogni “peccato” dalla ginnastica . E’ anche ossessione da vecchi, come testimoniano le cronache giornalistiche di tutti i giorni. Per gli adolescenti, il “proibito” e l’inaccessibile non è il porno, bensì l’universo dei sentimenti del quale come ha acutamente osservato Umberto Galimberti non possiedono più il codice. Questo codice, osserva lo stesso Galimberti, è esplorato nei minimi dettagli nella letteratura, e si riferisce alla letteratura alta, non ai romanzetti rosa. Questa letteratura è diventata inaccessibile alla stragrande maggioranza degli adolescenti, per una serie di motivi che qui non mi dilungo a indagare. Viene loro ammannita la versione retorica ed insulsa del rosa più tradizionale. Resta Il fatto che trattasi di una prima esplorazione e che il “tradizionale” ricompare in forma sia pure artatamente “dark”. A me la cosa pare significativa. Troverei pericoloso se per prendersela con la odierna letteratura per adolescenti, ce la prendessimo con gli adolescenti stessi. Anche Dylan Dog è stato un tipico fumetto per adolescenti (anche se dall’eco ben più vasto) ma ha toccato altre corde : la melanconia, gli stati depressivi, l’alternanza tra “massimi sistemi” (la Vita, la Morte, la Mostruosità del mondo adulto, la fantasia infantile prolungata all’età matura) e un umorismo cabarettistico (sottovalutazioni, barzellette, pause liberatorie di spasso tra un incubo e l’altro e spesso persino all’interno dell’incubo, quasi un’esigenza a togliere dopo aver messo, cioè a rimuovere appena ci si avvicina al nodo) . C’è sentimentalismo anche in moltissimi episodi di Dylan Dog (si piange in particolare per la sorte degli animali, quasi sempre in versione pet ). Tuttavia Dylan Dog non è in alcun modo assimilabile a Twilight. E nemmeno Harry Potter lo è. In sostanza, diffido di un’interpretazione eccessivamente schierata del mondo simbolico, e confido molto negli adolescenti.

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 17:32 da Gianfranco Manfredi


Altro elemento caratteristico di Twilight. Gli adolescenti oggi tendono a fare gruppo chiuso. Come Peanuts cresciuti considerano il mondo adulto, non più come un modello o un punto di confronto-scontro, ma come un mondo “altro” che non li riguarda. Sono dunque portati a riconoscere il diverso soltanto all’interno del proprio gruppo. Il vampiro non è per loro riconoscibile come grande seduttore proveniente da un’altra dimensione, come incubo infestatore totalmente estraneo. Il vampiro possono riconoscerlo soltanto se fa parte del loro gruppo. Se è un compagno di scuola. Cioè il diverso della tribù. Il diverso fuori dalla tribù è tendenzialmente, come giustamente rimarca Lipperini, uno da sprangare. Se in un racconto per adolescenti occidentali di oggi si mettesse un uomo lupo zingaro, non ne sentirebbero il fascino, starebbero dalla parte della marmaglia con le fiaccole che esce di notte alla caccia del mostro. Inoltre in Twilight il vampiro adolescente è diverso anche perché molto più unito alla sua famiglia di quanto non sia l’adolescente medio umano alla propria (il che in qualche oscuro modo, lo fa soffrire). Loredana avrà indubbiamente altro da fare in questo momento, ma mi piacerebbe se esplicitasse cosa pensa in proposito. Tra l’latro lamenta giustamente la pochezza di certi blog, questo mi pare costituisca esempio di differenza, cosa che mi ha stupito molto e mi ha, confesso, “vampirizzato” strappandomi al lavoro quotidiano e imponendomi riflessioni che di solito si fanno solo tra sè e sè, nel puro isolamento dello scrittore. La tendenza ideologica di certa letteratura contemporanea è evidente, il disagio degli adolescenti però richiede di essere interpretato e capire da dove deriva. ” Lasciami entrare”, ad esempio, qualche spunto interessante lo offre.

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 17:48 da Gianfranco Manfredi


Forse è proprio la tendenza adolescenziale a fare branco la causa della nascita del “fenomeno”. Quello che dice uno è legge per tutti. Significa che la massa non è capace di pensare autonomamente. Come un grosso Blob comandato da un’entità aliena, l’universo adolescente si muove e ragiona “mediatizzato” da imput di facile fruizione come la tv, il cinema. Già il libro è cosa più complessa, la storia va compresa, metabolizzata, interpretata… A volte è troppa fatica.
Ribadisco: parlo di massa, non voglio generalizzare sull’adolescente italiano perché anche io (da madre di ex adolescenti, per fortuna con capacità cognitive autonome fin troppo sviluppate) ci credo e spero. Però ne vedo tanti. Sono gli stessi che credono nell’amore alla Moccia, che amano Twilight perché sognano il principe azzurro modello, ricco, potente, che combatte per te. Se fosse un mannaro sarebbe ugualmente affascinante. Gli stessi che vedono nella professione di velina o la partecipazione a un reality lo sbocco della loro vita.
E’ il pensare da branco che mi spaventa. E’ lo sprangare l’uomo lupo zingaro che mi fa paura. E’ il non avere autonomia pensante che mi risulta una minaccia. Del resto non operò su terreni similari anche gente come Hitler?
Il loro disagio è un classico generazionale, ne abbiamo sofferto tutti. Il ‘68 ha aperto solo i rubinetti, da allora si sa che esiste. Non dev’essere una scusante.
Questo per dire che cosa? Che abbiamo assistito a due fenomeni di massa, l’evento Harry Potter e Twilight, che ha affondato sopratutto nel mondo degli adolescenti. Toccando e banalizzando alcuni temi superficiali di una letteratura ben più profonda e metaforica, semplificandone e”semplicizzandone” i contenuti.
Spero di aver reso l’idea; cavoli, io non potrei mai tenere un blog, e faccio tanto di cappello a chi qui riesce ad esprimere valanghe di concetti senza perdersi mai. ;)

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 18:38 da Simonetta Santamaria


@ Simonetta. Coraggio! Mai cedere allo sconforto. Ogni massa è comunque fatta di individui. E’ già confortante che gli adolescenti, seppur all’interno del loro gruppo, cerchino un diverso. Significa che non accettano felici l’omologazione. E in ogni caso, Cullen è migliore dell’arrogante bruto proposto come modello dal Grande Fratello. Sarà anche bello e modello (nel senso della moda), ma è sessualmente ambiguo e indeciso, ancora in formazione e imprecisato, più che asessuato, in questo è simile ai personaggi dei manga. E per esplicita sottolineatura della Meyer, è intimamente melanconico come l’Uomo Ragno, che dei suoi super-poteri vorrebbe fare a meno, per riuscire se non altro a vivere e coltivare uno straccio di rapporto sentimentale (prima che erotico) che abbia senso . Inoltre non dimentichiamo che agli adolescenti oggi vengono proposti (e sono altrettanto bene accolti) anche personaggi di tutt’altra natura, come il Johnny Depp della Maledizione, non solo zingaresco, ma anche visionario e stralunato. Per non parlare (e invece parliamone) di quel bellissimo film vampirico che è “La sposa cadavere” di Tim Burton e che, in modo assai affine a Dylan Dog, considera gli elementi di profonda melanconia insiti nella condizione dell’adolescente e non solo della sua, anche della nostra. Insomma: comprendere la condizione degli adolescenti, non significa affatto abbandonarli alle influenze ideologiche metifitiche, al contrario, dovrebbe spingerci a proporre loro delle alternative. Sinceramente, io sono sulla linea Evangelisti , considerando le citazioni fatte da Lipperini. Nei miei romanzi, prescindo da generi e da target, metto in primo piano, anche quando tratto temi horror o gotici, problematiche storico-sociali, però non presumo perciò di riuscire a parlare agli adolescenti. Riesco a farlo un po’ coi fumetti, ma in letteratura il mio gusto mi mantiene ancorato a un’idea di letteratura e a uno stile letterario che non corrisponde affatto al gusto adolescenziale di massa. Però questo lavoro qualcuno dovrà pur farlo. E qualcuno, per fortuna, lo fa. Non è inevitabile che gli adolescenti siano e restino schiavi di modelli ideologici reazionari. Per questo ritengo che la critica a certi clamorosi esempi di narrativa adolescenziale non debba mai diventare critica dell’adolescenza.

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 20:42 da Gianfranco Manfredi


Beh, potrebbero non accettare felici la loro omologazione ma neppure quella di un diverso. Se il diverso è un uomo lupo zingaro lo si bracca e finisce a randellate; se il diverso è il vampiro Cullen allora hip hip hurrà. Perchè è bello e ricco e romantico…
Bah, non so. La letteratura, come il bombardamento massmediatico di certi programmi, potrebbe creare degli stereotipi nocivi. Neppure io nei miei libri mi rivolgo a un pubblico di adolescenti, quelli che mi leggono che lo facciano di loro sponte e allora ben vengano. VAMPIRI è un conto a parte, essedo un libro illustrato ammicca un po’ di più ai ragazzi.
Anche la musica sta avendo un risvolto strambo, si pensi alla farsa che è è diventato Sanremo: sono due anni che vince uno della cricca di Amici, giusto? Perchè vince col televoto da casa, mica perché votato da una giuria di esperti. E a casa la massa vede Amici, mica ascolta Bach…
Il vero musicista, lo studioso, l’esperto, che peso ha sulla vittoria di un cantante? Meno di zero. La competenza di quest’ultimo in fatto musicale? Pressoché inesistente, infatti nascono e muoiono come meteore nell’arco di un anno.
Comunque ripeto, non voglio affatto far critica all’adolescenza in generale, piuttosto a quel caravanserraglio fatto di letteratura, musica, tv, cinema che fa leva sugli adolescenti per creare un fenomeno commerciale e poco educativo.

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 21:09 da Simonetta Santamaria


@ Simonetta: I tempi sono questi. Cambieranno, è ovvio. Forse in peggio, per determinati versi, ma di sicuro le persone ricominceranno a studiare, anche perchè così non si va proprio avanti. Sono cicli, poco da fare. Ho un sacco di amici giovani che hanno due lauree ma non sanno cos’era – ad esempio – la Repubblica di Salò. Magari si dicono radicalmente (sic) antifascisti, ma se chiedo loro cos’era la marcia su Roma pensano che si stia parlando di una mezzofondo. Alcuni non sanno nemmeno prepararsi il curriclum vitae. E’ un’epoca di schieramenti. Fuori dallo schieramento pare non esservi nulla. Le volte che ho fatto una presentazione del mio libro inevitabilmente c’era sempre chi mi chiedeva cosa pensavo di Twilight. “Niente.” Rispondevo. Ed era vero.
Ma non è un problema solo adolescenziale. L’altro giorno, su una discussione su Facebook mi hanno pelato vivo perchè osavo dire che, pur di sinistra, dubitavo della posizione politica del PD sull’immigrazione. Mi hanno dato del razzista. I gruppi sono impermeabili e autoreferenziati. Il problema, per come la vedo io, non è che in tanti leggano Twilight, ma che in tanti non leggano altro.

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 21:38 da claudio vergnani


Giustissimo. Parole sante. ;)

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 22:24 da Simonetta Santamaria


Non so se sia così ovvio che i tempi cambieranno, speriamo in meglio – purché non si resti, come tanti, nell’attesa inerte verso l’esterno… Chi conosce i segreti tirannici del tempo? Nessuno sa veramente cosa c’è lì fuori…
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La questione vampirica « riguarda fondamentalmente il nostro rapporto con i morti. Dunque è un dato antropologico. Qualcosa di più di una figura dell’immaginario». Sottoscrivo in pieno quanto scritto … da Gianfranco Manfredi. E lo ringrazio dell’attenzione, sottolineando l’esitazione tra « a » e « da »… (« E’ pieno pomeriggio e presumo che stiamo tutti lavorando. Invito però a considerare con attenzione il bellissimo post inviato a Gianni De Martino. Tanto per rispondere, se necessario alle accuse di superficialità.… ». )

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E’ un’esitazione minuscola affiorata in superficie, un buchino nel testo che proprio per la sua quasi invisibilità potrebbe, volendo, richiedere a GRAN VOCE una spiegazione. Salvador Dalì, che era un mezzo-vampiro, inventore fra l’altro del celebre metodo critico-paranoico, ne sarebbe deliziato… Il professor Van Helsing tirerebbe subito fuori la sua grossa lente d’ingrandimento… Mallarmé invece parlerebbe del « dubbio » di dover tutto ricreare con la scrittura… L’ « esitazione » è un termine che ricorre in Derrida per dire che la posta in gioco nella scrittura è il rischio, liberamente consentito, di un certo smarrimento di sé… A partire dalla lingua, la lingua madre, ecc.

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Perlomeno è quel che mi è capitato con « L’ultima lettera di Vlad il Vampiro », pubblicato nel 1993 dalle edizioni di Barbablù, un libretto ormai introvabile in cui mi avventuro nel genere « vampirico » e faccio parlare Dracula in prosa secentesca…che inizia dicendo : « Sai dove siedo io ? ». Ponendo la questione del luogo della propria emergenza ( da dove parlare? ), Dracula addenta la sua angoscia e, vampiro di se stesso, vi trova sangue e linfa per impastare la farina di un mondo e diventare metafora della solitudine dello scrittore…E della sua inadeguadezza a influire sugli eventi, specialmente in un tempo in cui a creare un’immagine del mondo sono i terroristi, i soli oggi a parlare davvero alle masse in mondovisione…
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Continuo a pensare che ad aprire la strada a questa figura dello scrittore moderno, post-moderno, post-mortem e post-tutto, siano stati gli scrittori del XIX secolo. A cominciare da Chateaubriand, quando libera la sua parola dalla severità del tempo installandola strategicamente nella tomba. “Preferisco parlare dal fondo della mia bara”, dice per cominciare. Dopo di lui, Victor Hugo avverte il lettore delle Contemplations: ” Questo libro va letto come il libro di un morto”. Vedi anche Baudelaire, eccetera…

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Forse l’autorizzazione a scrivere arriva, quasi incidentalmente, dall’invisibile, che è anche il regno dei morti…Se uno non ha paura della parola « morte » e, sentendosi convocato, cede all’appello a riparare e quasi a rentegrare l’alterità, forse può fraternizzare con i vampiri e diventare uno scrittore postumo. In quanto sodale della morte, può confrontarsi con tensioni forti. E, mettendosi da parte, facendo il morto, può dare la parola ai vampiri…
Mi accorgo, per esempio, che nel Sito non ho messo la recensione all’ « Ultima lettera di Vlad il Vampiro » di un’ottima e misteriosa amica scrittrice purtroppo dimenticata, l’ottima Idolina Landolfi ( ne scrisse in « Tribuna Stampa », 3/4 -1994)…Incomincio a vivere questa omissione come una mancanza, rivedo il sorriso triste di Idolina, ricordo la sua gentilezza, mi accorgo che è – come alcuni di noi – una non morta… Il fatto ( « fatto », come si dice nel gergo dei drogati) è che se un morto incomincia a parlare, sarà difficile fermarlo…Qualche traccia del rapporto scrittura- gioco- morte si può trovare qui, in questa specie di ossario o Sito >
http://www.giannidemartino.it/schede/vlad/index.html

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In effetti i post, così come i libri, giungono dai morti ai vivi, « sono i doni » – mi pare che abbia scritto una volta il compianto Giuseppe Pontiggia – « che i morti fanno ai vivi ». Così pare che solo dall’altra parte una scrittura veramente decisiva sia possibile. Mettendosi dalla parte del silenzio dei morti. Solo che oggi niente è più difficile che tener fermo un morto …Insomma, persiste ancora il vecchio sogno di creare qualcosa di non-morto, se non di non-mortale, tramite la letteratura, o anche e soprattutto le tecnoscienze.

*

… A tale proposito l’accenno fattone da Gianfranco Manfredi, mi fa venire in mente che nel dicembre del 1990 incontrai lo scrittore americano Michael Crichton nel suo hotel milanese, a due passi dal Museo di Scienze Naturali, dove Piero Angela e il compianto Guido Almansi presentavano il suo libro Jurassic Park . Lo scrittore americano, 47 anni, l’aria dello scienziato distratto, con quegli occhiali da studioso e la figura allampanata ( era alto circa due metri, come si poteva non notarlo?) era a Milano per la presentazione del suo libro in uscita per Garzanti, un bestseller annunciato dal quale poi Spielberg avrebbe tratto un film da cento milioni di dollari.

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Il libro era un racconto di quanto poteva succedere se si fossero riportati in vita i dinosauri per destinarli a un lucroso parco giochi per bambini, e voleva essere una parabola sui rischi insiti nelle nuove tecnologie. “ L’ingegneria genetica – disse Crichton – presenta un campo di grandi promesse e di immense possibilità, ma io sono preoccupato dal fatto che possa essere usata con troppo libertà, se non addirittura con incoscienza”. Poiché nel suo libro La vita elettronica ( Garzanti 1984), Crichton aveva citato l’ I King, il libro oracolare cinese che si dice “abitato” dagli spiriti detti “scenn”, confessai di averlo interrogato anch’io sui rischi dell’ingegneria genetica, e che la risposta ottenuta era l’esagramma LU – IL PROCEDERE : “ Procedere sulla coda della tigre” : una sentenza che suggeriva prudenza e circospezione nel corso di impresa pericolosa.
“ Mi sembra una risposta congrua – osservò allora Chrichton. – Anch’io talvolta interrogo I Ching e ottengo risposte sensate come questa. E’ un libro che m’interessa molto e ho anche scritto parecchi programmi di computer per poterlo interrogare ( …). Il segno da lei ottenuto m’incuriosisce. Leggendo l’I Ching, mi ha sempre fantasticamente colpito. Tra l’altro c’è un film di Kurosawa sull’uomo che cavalca la tigre: un’immagine che potrebbe essere riferita a quanto avviene in Jurassic Park e, più in generale, ai rischi delle manipolazioni genetiche.” ( Il testo completo della mia intervista con Michael Crichton si trova in “Rinascita” n.46, 30 dicembre 1990, pp.52-54, pubblicata con il titolo : ‘ Brevetti per catastrofi’ ).

*
L’individuazione della realtà del nuovo potere bio-tecnologico con le sue immense possibilità, il suo sogno di far fuori l’inconscio ed eternizzare il transitorio, e anche le sue minacce attribuite alla nuova tecno-eugenetica che si profila all’orizzonte, circonda oggi di un chiaro malumore non solo il cosiddetto uomo della strada ma anche scienziati, tecnologi e quello che resta, ahimè, degli scrittori.
Se infatti il libro dev’essere ristampato e letto, il quadro e il Sito restaurati, un dibattito sui non-morti « immortalato » all’interno del nuovo volume di “Letteratitudine, il libro” (come pare sia intenzione del nostro castellano, il professor Massimo Maugeri), allora questa deperibilità e tutta la fragile felicità della catastrofe dei nostri incontri non fa che rafforzare l’ipotesi che l’idea della morte già al suo nascere era presente nell’opera.

*
Forse sembrerà improprio agli appasionati del genere vampirico, ma immagino un testo, questo, che – per avermi succhiato tempo e sangue, per poi volare verso i lettori e azzannarli dolcemente – è esso stesso un vampiro…Perlomeno così pare. Ad ogni modo, forse la Letteratura, quello che oggi ne resta, potrebbe trovare qui una delle sue raffigurazioni nel vampiro. :-)

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 22:42 da Gianni De Martino


Vorrei anch’io aggiungere una parola di speranza. Se Twilight è l’occasione per aprire un dialogo con i ragazzi, per aiutare a scomporre il quadro del premasticato (de masticatione mortuorum, è il caso di dirlo) e imparare a farsi carico della complessità – che in fondo è cifra della vita – allora non si tratterà di tempo perso. Ciò presuppone, ovviamente, il dialogo: e per questo mi sembrerebbe così importante costruire occasioni, coinvolgere gli insegnanti, proporre il Fantastico (nell’accezione più ampia, horror compreso) nelle scuole. Marcovaldo appartiene alla buona letteratura, ma per i ragazzi di oggi è più remoto del gotico vittoriano. Certo, questo non è sempre capito. Un’insegnante voleva chiamarmi a parlare di vampiri in una scuola media, ma la preside l’ha bloccata: temeva che apparisse propaganda satanista. Ma in un’altra scuola mi hanno dato spazio, e a giudicare dalle reazioni mi pare che ai ragazzi sia piaciuto. Mi sembra pazzesco che un intero mondo di letture che (ci piaccia o no) coinvolge una percentuale importante dei nostri figli, e che dunque dovrebbe essere preso in considerazione dalle agenzie educative, resti ignorato – ovviamente dal punto di vista di una discussione critica. Certo il tempo è poco, i programmi son quel che sono… ma si potrebbero inventare delle cose.
Tanto più importanti, dunque, le sedi critiche aperte a un tipo di pubblico anche molto giovane. Per quello che è la mia esperienza, penso alla rassegna ligure Autunnonero su Folklore e Cultura Horror, ai cui incontri il pubblico conta anche giovani (compresi i miei figli – quarta ginnasio e prima media – che venendo l’anno passato a Genova sono stati affascinatissimi dalle relazioni). E questo dialogo, nella nostra realtà italiana, è qualcosa di (vorrei dire) profondamente eversivo. Ma a questo punto Letteratitudine verrà chiuso e noi arrestati tutti in base a un nuovo Decreto antigotici…

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 22:49 da Franco Pezzini


@ Franco. Il dibattito, per sua natura, richiede umiltà, apertura, buona fede e desiderio di onesto confronto. E sopra ogni cosa la fatica di voler davvero ascoltare e riflettere. Il rischio è che come al solito si attenda solo il proprio turno per parlare e dire la propria. In quanto all’essere arrestati … be’, sono pronto a passare dieci anni in cella insieme a te come novello Dantes che pende dalle labbra di un Faria più colto e simpatico …

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 22:57 da claudio vergnani


Una buona serata a tutti e grazie di cuore per i nuovi interventi.
Ho l’impressione che questo dibattito continuerà a crescere per ancora molto tempo… che non morirà.
Insomma, credo che questo diventerà un post “non morto”. :)

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 23:22 da Massimo Maugeri


E tutti i partecipanti all discussione, sono – di conseguenza – “vampirizzati” ;)

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 23:24 da Massimo Maugeri


Scherzi a parte. Vi ringrazio davvero: Gianfranco, Danilo, Claudio, Franco, Simonetta, Claudio.
Una squadra da fare paura!
(Ultima battuta, giuro… almeno per stasera)

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 23:26 da Massimo Maugeri


Saluto Luca Crovi.
Grazie per essere passato, Luca. E per averci segnalato l’intervista a Anne Rice.

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 23:28 da Massimo Maugeri


Ne approfitto per “inviarvi” i saluti di Loredana Lipperini.
Loredana mi ha spiegato che difficilmente riuscirà a intervenire (peraltro leggere tutti gli interventi dall’inizio comincia a diventare… improbo).

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 23:30 da Massimo Maugeri


@ claudio. Come sempre sei carissimo. Hai in mente l’Abate Faria di Walter Chiari nella parodia del Quartetto Cetra?

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 23:34 da Franco Pezzini


@ Franco : :) Ti confesso che non l’ho mai vista ma – coerente con quanto ho sempre detto sull’opportunità di cogliere al volo ogni spunto per allargare i propri orizzonti – vado a godermela su YouTube …
un abbraccio … e buona notte a tutti …

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 23:39 da claudio vergnani


@ Gianni De Martino
Grazie per il tuo corposo e interessante nuovo intervento.
Anche tu mi dài del prof? Guarda che gli appartenenti alla categoria potrebbero offendersi.
(Lo so… sopra avevo promesso di non fare più battute…).
Per quanto riguarda la possibilità di inserire questo dibattito nel nuovo “Letteratitudine, il libro” la situazione è questa: ho provato a ricopiare tutti gli interventi su un file word (il classico times new roman 12 in A4); al momento ne viene fuori un volumone di 180 pagine con oltre 504.000 caratteri (spazi inclusi).
Temo che potrei “salvare” non più del 5% di tutto ciò che si è sviluppato finora.
Dunque, sto valutando altre idee.
Vi dirò…
(Comunque sia, in pochi giorni avete buttato giù un libro… o un “non-libro”… fate voi).

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 23:41 da Massimo Maugeri


Buonanotte, Claudio.
Un paio di comunicazioni, prima di salutarvi.
La prima riguarda la nuova immagine inserita sul post. Vi piace?
Secondo me è più invitante e “ospitale” della foto con l’omino in camicia celeste.

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 23:44 da Massimo Maugeri


Seconda comunicazione.
Se qualcuno di voi amici scrittori (bene ha fatto Danilo a linkare Carmilla) volesse farci assaggiare uno o più brani tratti dalle loro opere vampiriche, gli amici del blog “Terzapagina” (http://terzapagina.blog.kataweb.it/) si sono offerti di fare da sponda. Nel senso che i brani (che dovreste inviare a me per email) potrebbero essere pubblicati lì (un post per ogni brano) e linkati da qui. Il tutto per migliorare la visualizzazione e la lettura.
Pensateci…

Postato lunedì, 8 marzo 2010 alle 23:47 da Massimo Maugeri


Forse mi è sfuggito, ma abbiamo parlato del real vampire? A furia di buttarla in letteratura, ce ne siamo dimenticati. Vi linko ancora una curiosità che tutti possono andare a verificare
http://www.carmillaonline.com/

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 05:30 da Danilo Arona


…. la notte è una brutta bestia, allora riformulo:

http://www.carmillaonline.com/archives/2005/04/001304print.html

Chiedo scusa, un dito è partito contro la mia volontà. Il vampiroide taciturno venuto a salutare forse un proprio simile sta qua

http://www.carmillaonline.com/archives/2005/12/001603.print.html

Se ne deduce che il vampirismo può divenire porta d’accesso per far branco. Un’alternativa alla solitudine urbana fondata sulla condivisione del sangue. Una fusion tra la banda di strada e la setta iniziatica. Forse “Twilight” potrebbe essere visto anche sotto quest’ottica…

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 05:40 da Danilo Arona


@ Danilo: il secondo link dà errore!

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 11:58 da Simonetta Santamaria


A proposito di competenze editoriali. Giunge notizia che Maurizio Costanzo è stato nominato Direttore del Giallo Mondadori. Parenti e amici del Giallo si stringono prostrati intorno alla salma.

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 12:13 da Gianfranco Manfredi


IO, VAMPIRA

3 GENNAIO 2009

L’odore nauseante di chiuso mi riempì i polmoni infastidendomi notevolmente, sentivo la polvere solleticarmi la gola ma tossire fu peggio perché subito dopo ne inalai ancora di più.
Il mio respiro cominciava a diventare sempre più regolare e non mi accorsi di essere stata in preda all’agitazione fino a poco tempo prima.
Tutto appariva buio intorno a me, forse stavo per svegliarmi ed ero ancora in quella fase di incoscienza tra il sonno e la veglia. Nel frattempo, come se tutte le mie articolazioni si fossero a lungo congelate, sentii il bisogno di muovermi, e senza pensarci alzai d’istinto il braccio che mi parve pesante. Confusa cercai di grattarmi la testa, volevo sentire le dita a contatto con la mia pelle, ma anche queste sembravano non reagire.
Un impulso improvviso mi percorse il braccio, ancora sollevato a mezz’aria, e di scatto, sobbalzando insieme a tutto il resto del corpo, lo sbattei contro qualcosa di duro e freddo, sopra di me. Borbottai ricacciandolo di nuovo lungo il fianco, quasi arresa da un tentativo che avevo ripetuto già varie volte. Infine sospirai, avvolta da un buio che non riuscivo a comprendere.
Forse stavo sognando: era questa l’unica spiegazione razionale che potevo darmi.
Ebbi l’impressione di essere distesa su di una lastra solida e gelida, tra polvere e terra e pensavo che delle catene mi legavano al suolo limitando i miei movimenti.
Strani pensieri mi rendevano sempre più cosciente di essere sveglia e l’incapacità di muovermi cominciava ad innervosirmi, non riuscivo più a tollerare lo stato in cui mi trovavo e il bisogno di alzarmi era sempre più forte.
Lo desideravo, ardentemente.
Ci riprovai. Un brivido freddo mi percorse lungo la schiena tanto da farmi deglutire e mi accorsi che la bocca era arsa, la gola completamente asciutta e la lingua come la pietra in cui giacevo.
Sfiorai le labbra, erano secche, fredde, asciutte, desiderose di bere.
Volevo qualcosa di caldo.
Dissetarmi. Era questo che desideravo più di ogni altra cosa.
Borbottare mi fu naturale, un gemito soffocato, e ascoltarmi mi fece capire di essere sola.
Singhiozzai, ma senza piangere, non avevo lacrime da gettare, e mi sentivo piccola e indifesa.
Forse stavo davvero sognando. Nessuno poteva aiutarmi.
Dovevo solo svegliarmi.
E adesso desideravo svegliarmi.
Solamente io potevo aiutarmi, e dovevo aiutare me stessa.
Gettai la testa da un lato e il collo scricchiolò.
Rimasi così non so per quanto tempo.
C’era freddo, lo sentivo fin dentro le ossa e tutto sembrava reale, e poi, all’improvviso, delle voci infransero quella cortina di ghiaccio che mi avvolgeva.
Restai impietrita, e spalancai gli occhi.
Sogno o realtà ?
Sbattendo le palpebre più volte cacciai ogni mia incertezza.
Non ero ancora cosciente di dove fossi, né tanto meno come ci fossi arrivata: tutto era buio.
Tutto era vero.
Reale.
Mi resi conto di essere sveglia e il buio che mi circondava mi fece entrare nel panico.
Un luogo strano ed insolito.
Paura.
E mentre le voci, sempre più forti, si avvicinavano a me, iniziai a lamentarmi.
Volevo urlare, chiedere aiuto ma non feci né l’una né l’altra cosa.
Solo una lunga serie di lamenti e poi, quando le voci divennero un ronzio incomprensibile, mi azzittii, per paura di essere rimasta nuovamente sola.
Un tonfo. Dei passi sempre più pesanti e poi, il vento.
Misi da parte il panico, non mi avrebbe fatto capire ed io continuavo a non capire.
Luce.
Infastidita da un lungo bruciore chiusi gli occhi per un istante e udii altre voci, poi, tornò nuovamente il silenzio. Improvviso.
Anche il mio cuore aveva smesso di battere e il mio respiro era fermo, irregolare.
Un rumore, solo un’altra voce ed io avrei urlato, chiesto aiuto e anche implorato, se necessario, per ritornare ad essere libera.
Striscio.
Fremito.
Qualcosa di vivo mi sfiorò la gamba.
Sobbalzai ancora, la sensazione era piacevole.
Era caldo. Come desideravo.
Si spostava velocemente accanto a me, lo sentivo zampettare e volevo sentire ancora il suo contatto.
Lo cercai con lo sguardo, i miei occhi immersi in un buio terrificante.
Non c’era, io non riuscivo a vederlo eppure lo sentivo, era accanto al mio braccio e il calore che emanava mi turbava profondamente.
Lunghi baffi iniziarono a vibrare solleticandomi il dorso della mano, l’essere si stava orientando, e nel buio ci riusciva ancora meglio di me.
Provai un rancore improvviso e muovendo la mano lo sfiorai.
Scattò, spaventato, ma la mia mano voleva soltanto il suo calore e con forza brutale lo afferrai impedendogli di fuggire.
Gli stavo rubando la vita.
Le dita fredde si strinsero contro il suo debole corpo, erano pietra contro tenera carne.
Nel mordermi, per difendersi, gli si spezzarono i lunghi incisivi e il palmo della mia mano, assassina, continuava a chiudersi in una presa mortale. Non sentivo dolore ma percepivo il suo e il versetto stridulo che emise mi rese ancora più aggressiva.
Non mi rendevo più conto di ciò che stavo facendo, mi interessava il suo calore, volevo il suo contatto e poi, ero diventata crudele.
La presa divenne sempre più soffocante, spietata.
Invidiavo la sua vita e per questo lo stavo annientando.
Il misero corpo del ratto si sciolse tra le mie mani ancora chiuse in una trappola fredda ed il suo sangue cominciò ad arrossarmi le unghie, i polpastrelli e le dita di pietra.
Era caldo. Il sangue del miserabile era molto caldo.
Mi sentii infuocare, tutto il mio corpo era come avvolto da fiamme invisibili, bruciavo dentro e per un lungo attimo provai di nuovo piacere, poi le narici si spalancarono improvvisamente e mischiato all’odore dell’umida terra, sentii il sangue. Era come assaggiarne il sapore e il disgusto che provai fu immenso. Volevo scappare, contava solo questo e la reazione che ebbi fu spaventosa.
Niente piacere, nessun desiderio.
Adesso dovevo fuggire.
Non potevo più controllarmi, mi dimenavo e picchiavo forte contro le pareti freddi e pesanti che mi circondavano. Sentivo le ossa spezzarsi ma non provando alcun dolore non mi fermai.
Picchiavo con tutto il mio corpo. Mi lanciavo contro il muro.
Ogni parte di me si era improvvisamente svegliata, io volevo uscire da quell’insolito posto in cui mi trovavo e tutte le mie articolazioni collaboravano con me, per questo.

Il luogo che mi imprigionava era stretto, non c’erano vie di uscita ma io ero viva e da qualche parte doveva pur entrare l’aria che respiravo.
- Ah…-
L’odore disgustoso del sangue era diventato molto forte, mi sentivo di nuovo febbricitante e arricciando il naso portai i pugni verso le pareti per picchiare ancora.
L’aria era sangue.
Un altro pugno contro la parete, qualcosa di caldo cadde sul mio volto.
Sangue, l’odore era inconfondibile.
Disgustata e stringendo anche gli occhi mi accorsi che in una mano stringevo ancora il cadavere liquefatto del roditore.
Feci una smorfia. Mi gettai contro la parete e ricaddi in posizione supina.
Basta.
Mi arresi. E nel silenzio mi riaddormentai.

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 12:40 da Miriam Vinci


Nomina Costanzo, aggiornamento notizie. Il Sindacato Detective dichiara sciopero a tempo indeterminato. Del resto già non avevano più fondi per istruire indagini. Sezione oltranzista del sindacato proclama: “Ispettore Callaghan, il caso Sgobrio è tuo!”

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 12:47 da Gianfranco Manfredi


Purtroppo abbiamo appreso, già da un pezzo girava la voce. Per fortuna Sergio Altieri resta al timone. Avete letto i commenti sul blog ufficiale del Giallo? Avrei voluto inserirne uno pure io, ma vedo che sono già stati cancellati alcuni e lasciati solo i complimenti e gli auguri. Magari delle stesse persone che due settimane fa gridavano con noi GIU’ LE MANI DA ALTIERI E DAL GIALLO! Quanta ipocrisia.

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 12:48 da Simonetta Santamaria


@ In effetti non pare una bella notizia. Non so nulla però di Costanzo giallista, anche se mi pare di rammentare che abbia scritto a quattro mani insieme a Pupi Avati la sceneggiatura di La casa dalle finestre che ridono (che non fu male). Mi sbaglio ?

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 12:54 da claudio vergnani


Impazza intanto il toto nomine per le altre collane. In pole position a Segretissimo, Licio Gelli. Curatore dell’horror, Bruno Vespa. Alla Fantascienza, piazzatissima Mariastella Gelmini.

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 13:23 da Gianfranco Manfredi


Costanzo testimonia che ha davvero scritto di tutto, anche a sedici mani.

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 13:25 da Gianfranco Manfredi


Preoccupazione alla Marvel italiana per la candidatura a Presidente Onorario di Guido Bertolaso.

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 13:29 da Gianfranco Manfredi


Viva emozione ha suscitato il comunicato emesso dal Collettivo “Herbert West, il rianimatore”. Questo il testo: “Zyweso, wekato keoso, Xunewe-rurom Xeverator.” Chiedo scusa per la sintesi, ma il comunicato dura dodici pagine ed è pieno di refusi. Passo alla conclusione: “Vieni, Yog-Sothoth! Vieni!”

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 13:38 da Gianfranco Manfredi


È stata avanzata l’ipotesi che la figura del vampiro sia l’interpretazione fantastica della malattia oggi nota come porfiria.
Cosa ne pensate? Siete d’accordo?

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 13:47 da Giacomo Tessani


Mi piacerebbe anche che si aprisse una finestra sull’aspetto etimologico del termine.
Mi risulta che il termine vampiro abbia origine slava: riconducibile alla radice “-pi” (mago, stregone), e al verbo lituano “wempti” (bere, succhiare).
Sono chiamati “vampir” in Serbia, “wampyr” in Bulgaria, “upiór” in Polonia, upyr’ in Russia.
Avete altre notizie?

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 13:49 da Giacomo Tessani


Altra considerazione: nel folklore cinese i vampiri hanno la capacità di volare e di uccidere con il soffio, nutrendosi, anche a distanza, con il sangue.
Mi piacerebbe saperne di più sulla tradizione vampirica dell’Oriente del mondo. Non so se qualcuno ne sa qualcosa…

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 13:51 da Giacomo Tessani


SULLE ORIGINI DEL MITO…
***
Nella tradizione ebraica antica, compare “l’aluka” cioè il “succhiasangue”. Quest’essere assale i viandanti che si sono persi nel deserto e ne beve il sangue. Non a caso, tra i precetti della Torah, c’è anche il divieto di bere il sangue, veicolo dell’essenza vitale degli esseri viventi.

La stessa figura biblica di Lilith, che riprende il demone assiro lilitu, era un demone di genere succubus (la versione femminile degli incubus, demoni dalla forma spettrale piuttosto che corporea). Prima e malvagia moglie di Adamo, Lilith è ritenuta nella tradizione ebraica la madre di tutti i vampiri: come tutte le succubi, è golosa di seme umano e per questo entra di notte nel letto degli uomini per prosciugarli della loro forza vitale. Da Lilith discendono anche le lilin, che succhiano il sangue dei bambini. Secondo la tradizione, se un bambino sorride nel sonno durante la notte del sabato ebraico, si dice che sta giocando con Lilith: per salvarlo, gli si strofina il naso per tre volte e si dice la frase augurale: Adamo, Eva, fuori Lilith!. Foglietti con questa stessa frase augurale vengono appesi nella stanza e nella casa delle partorienti.
***
Anche greci e romani avevano una loro mitologia vampirica, perlopiù rappresentata da vampiri di sesso femminile, che si unisce con una certa tradizione sciamanica europea. La lamia, ad esempio, regina dei succubi, è una sorta di strega, che a volte appare in forma di bella fanciulla, a volte come vecchia donna, a volte anche con sembianze animali, preferibilmente un serpente con la testa di donna. Nella Roma antica si aggiunge anche la strix, diretta antenata delle strie italiane e degli strigoi rumeni. Questo essere dalla forma d’uccello rapace assetato di sangue, che beveva con un lungo e affilato becco, viene così descritta da Ovidio:
“Si dice che strazino i fanciulli ancora lattanti
e pieno di sangue tracannato abbiano il gozzo
Hanno nome di strigi: causa del nome
è che sogliono di notte orribilmente stridere ”
-
Altra letale fanciulla era l’empusa, che per una particolare malia, appare come una splendida fanciulla, quando in realtà nasconde mostruose e ripugnanti fattezze: ha un piede di bronzo ed uno di sterco d’asina.

Infine ricordiamo le mormos, vampire un po’ più gradevoli, al servizio di Ecate, dea della notte, della magia nera e protettrice delle streghe.

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 13:55 da Giacomo Tessani


Avete altre notizie oltre a quelle riportate sopra?

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 13:56 da Giacomo Tessani


@ Gianfranco: che ti sei fumato, Gianfra’, che lo voglio pure io?! :)
@ Giacomo. Tutte queste notizie le trovi nel mio VAMPIRI (Gremese): non so se posso ridurre qualche piccola info qui…
Comunque la relazione porfiria-vampirismo è esatta. Ovviamente riportala in un’epoca in cui le nozioni di eziopatogenesi erano praticamente a zero. Mi autocito: “Anemia, fotofobia, eritrodonzia (i denti presentano una fluorescenza rossastra, se illuminati con una luce ultravioletta), unite all’intolleranza all’aglio, avrebbero contribuito a creare intorno alle persone affette da porfiria un’aura di inquietante mistero, tanto più che per curare il pallore causato dall’anemia pare venisse prescritto loro di bere sangue bovino. Un altro disturbo legato alla malattia è il rachitismo, aggravato dalla mancanza di esposizione alla luce solare, che col tempo deforma il corpo – in special modo le mani – conferendogli un aspetto disumano.
Quando la malattia è in uno stadio avanzato, la pelle si scurisce e si crepa per effetto dei raggi UV, le labbra si spaccano e si ritirano scoprendo i denti, il naso si erode e in qualche caso le dita delle mani si consumano, facendole assomigliare ad artigli. La leggenda che i vampiri emergono dalle tenebre con la luna piena è giustificata dal fatto che coloro che ne soffrivano uscivano solo dopo il tramonto per evitare il sole.
E la paura di questi vampiri per la croce appare più che comprensibile: i poveretti erano terrorizzati dal simbolo degli inquisitori, i quali li avrebbero di certo additati come fedeli di Satana e condannati al rogo.”

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 13:57 da Simonetta Santamaria


@ Giacomo. Sicuramente qualcuno risponderà . Altro che libro! Questo blog è ormai una carrozza in libero viaggio scortata dai lupi. Commento riguardo alla porfiria: l’antropologo e vampirologo Paul Barber ha ampiamente dimostrato che la porfiria non c’entra nulla coi vampiri. Qui mi taccio per limitarmi a leggere affascinato i nuovi contributi che giungono inarrestabili. Spero si aggiunga anche Mauro Boselli, autore del fumetto Dampyr, che alle domande di Giacomo potrebbe dare risposte certe.

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 14:02 da Gianfranco Manfredi


@ Simonetta. Mentre postavo arrivava il tuo sulla porfiria, per cui cito e traduco alla svelta dal Barber: “Recentemente alcuni studiosi hanno cercato di spiegare il vampiro con la porfiria. Come teoria generale (già usata in passato per spiegare gli uomini lupo) questa spiegazione presenta le stesse difficoltà della teoria dei seppellimenti prematuri: pare plausibile soltanto se non la si considera da vicino. Se ci basiamo sulle testimonianze storiche di de Tournefort e Flukinger, non corrispondono affatto alla sintomatologia della porfiria. Non c’è del resto nulla nella tradizione vampirica che possa fare pensare a una malattia sfigurante: i vampiri non cambiano l’aspetto che avevano in vita. E quando Leatherdale dice che la porfiria “si evidenzia nei denti, nei capelli e nelle unghie che diventano fosforescenti” non offre alcuna prova che questi fenomeni comparissero nei rapporti medici sui vampiri europei. David Dolphin su il primo ad applicare la teoria della porfiria al folklore vampirico. (…) Ma i tratti vampirici di cui parla non vengono dal folklore, bensì dalla fiction. Vukanovic, i cui studi sui vampiri della tradizione serba e zingara sono i più dettagliati di cui disponiamo, non menziona mai la pratica di succhiare il sangue”.

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 14:15 da Gianfranco Manfredi


Nel mio Ultimi Vampri ho cercato di raccontare i vampiri pre-Stoker della tradizione folklorica mostrando come essi fossero di tutt’altra natura dai succhiasangue. Più coerente alla tradizione vampirica folklorica è da questo punto di vista l’ Horla di Maupassant che rubava il respiro. Gli studi degli anni 90 sui cadaveri dei presunti vampiri del New England hanno dimostrato che in almeno in quei casi, la malattia (al tempo qualificata come consunzione) era una forma complessa di tubercolosi, complicata da affezioni febbrili e deliranti, e congiunta ad altre malattie (in un caso, sifilide). Il torto è si cercare la causa in un’unica malattia, ma nella storia, e in particolare nel periodo delle gradi pesti europee (tra la quali la più dilagante fu l’epidemia di rabbia) le malattie non colpivano separatamente, ma tutte insieme, su fisici sfibrati.

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 14:25 da Gianfranco Manfredi


Ah. Barber fa anche notare che l’unica menzione di sangue nei disseppellimenti era la presenza di tracce di sangue sulle labbra, dalle nari, o in qualche caso autentici sbocchi di sangue. Non si trattava di segnali che il vampiro presunto avesse succhiato, ma che avesse perso sangue da morto. In realtà non si trattava di sangue, ma di siero di decomposizione.

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 14:32 da Gianfranco Manfredi


Ciò non significa che nel folklore extraeuropeo in particolare, non esistesse nei Miti la figura del succhiasangue, come giustamente ricorda Giacomo. Il punto è che c’è uno iato tra folklore e fiction, e in mezzo ci sta la storica fisicità dei vampiri veri, cioè dei dissepolti e sconciati. Noi non sappiamo se siano realmente esistiti i vampiri, ma sappiamo per certo che gli umani hanno nei secoli e ad ogni latitudine profanato i cadaveri. Cioè: i mostri siamo noi, c.v.d.

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 14:39 da Gianfranco Manfredi


@ Simonetta Santamaria @Gianfranco Manfredi
Grazie mille per le risposte. In effetti avevo letto da qualche parte che sulla questione-porfiria c’erano diversità di vedute.

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 14:59 da Giacomo Tessani


Qualche altra considrazione sui primi esempi di “letteratura dei vampiri”, per dirla alla Maugeri.
Mi risulta che il primo racconto compiuto sui vampiri a noi pervenuto è di Filostrato. Questi riporta, nella “Vita di Apollonio di Tiana”, la storia del giovane Menippo che salva il suo maestro Apollonio dalle terribili trame di una empusa, utilizzando una lingua sciolta e tanta fantasia.
Risulta anche a voi?

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 15:02 da Giacomo Tessani


Oppure.
Pare ci siano testimonianze sui non-morti dell’antica Roma, per via del resoconto di un certo Flegone Tralliano, liberto dell’imperatore Adriano.
Questo Tralliano pare abbia narrato la vicenda di Philinnio, giovane fanciulla da poco morta.
La storia, in breve, è questa: Philinnio torna dalla tomba per amore di Machate, giovane ospite nella casa dei genitori di lei. Svegliata da rumori notturni la vecchia balia della ragazza si alza e la scorge nel letto del giovane. Scoperta quindi dai genitori ansiosi di riabbracciarla, Philinnio deve fare ritorno al suo stato di morta e crolla sul letto senza vita. Sconvolti per l’accaduto gli abitanti del villaggio si rivolgono al saggio Ryllus che ordina loro che per nessuna ragione il corpo di Philinnio deve essere ricollocato nel sepolcro. Non solo, dispone che venga immediatamente incenerito in un luogo lontano, fuori dalle mura della città. Al vedere bruciare il corpo della sua giovane amata, il povero Machate si suicida.
C’è chi sostiene che questa vicenda sia stata ripresa, in poesia, da Goethe, che l’ambientò a Corinto.
Altri sostengono che la suddetta vicenda ispirò anche Théophile Gautier per la scrittura del racconto “Arria Marcella”.

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 15:06 da Giacomo Tessani


Nella bara di un presunto vampiro, ciò che in apparenza sembrava sangue, non era altro che il fluido prodotto dalla decomposizione degli organi interni. All’atto dell’impalamento, poi, quelle che sembravano urla erano in realtà suoni, certo poco aggraziati, provocati dall’improvvisa fuoriuscita dei gas putrefattivi causata dalle ferite inferte al cadavere. E, per concludere, la pressione di questi gas provocava, nelle donne morte in gravidanza, l’espulsione del feto dando origine al cosiddetto “parto nella bara”.
Non conoscevo invece la leggenda descritta da Giacomo ma è chiaro che anche i romani avevano timore degli spiriti dei morti (in generale) tant’è che, oltre alle già citate empuse, lamie, strigi, per tenere lontani questi spiriti furono istituite addirittura delle feste chiamate Lemurie; l’origine si farebbe risalire a Romolo per rabbonire lo spirito furibondo del fratello da lui ucciso. Le Lemurie ricorrevano il 9, 11 e 13 maggio. In quel periodo non si celebravano matrimoni e i templi rimanevano chiusi. A mezzanotte ogni pater familias si premurava di far indossare ai figli la bulla, un amuleto che li avrebbe protetti, poi si lavava le mani tre volte in acqua di fonte e si aggirava a piedi scalzi per la casa facendo schioccare le dita e mettendo in bocca fave nere che poi gettava dietro di sé, ripetendo una formula di scongiuro.
Sulla porfiria, be’, le teorie sono varie tuttavia, a studiarne bene la sintomatologia, a me mi ha convinta abbastanza…

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 16:33 da Simonetta Santamaria


@ Simonetta. Pare che soffrisse di porfiria Re Giorgio III . E’ una malattia ereditaria del sangue che occasiona convulsioni, frenesia, crisi di irrequietezza. Quando se ne soffre non ci si può proprio muovere. Il fenomeno della ritrazione delle gengive che fa apparentemente spuntare i canini è invece più frequente nella rabbia. Tra l’altro gli affetti di rabbia spaccavano gli specchi perché non sopportavano di vedere riflessa la propria immagine. Comunque, cara Simonetta, a quest’ora rilevo che siamo quasi solo noi a chiacchierare. Per questo indulgo, è una chat, più che un blog. Non so se ci hai fatto caso, ma Danilo ha postato i suoi ultimi messaggi tra le 5.30 e le 5.40 del mattino! A lui la palma del vampiro doc!

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 16:40 da Gianfranco Manfredi


@Simonetta e Gianfranco : io ascolto nell’ombra, pronto a farvi le scarpe … :)

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 16:44 da claudio vergnani


Tra l’altro i rabbiosi sono aggressivi. I porfiriaci no. Non riuscendo a governare le crisi per solito cadono preda di attacchi epilettici. Fanno del male a se stessi, più che agli altri. Quando Re Giorgio entrava in crisi, un suo valletto adibito allo scopo, lo rovesciava a terra e gli si sedeva sopra. Te lo immagini Van Helsing che usa Dracula come un divano?

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 16:45 da Gianfranco Manfredi


Il fatto comunque, assai vernagnano, che i vampiri veri fossero dei poveri malati derelitti, è importante. Da marxista, avevo sempre tenuto in considerazione tutte le classi possibili, ma la classe dei malati come categoria sociale dell’emarginazione, no. Invece è quella che ci riguarda trasversalmente tutti. Il malato entra in una condizione di paria sociale. Quando lavoravo in cinema, non posso citare i nomi, ma se qualche produttore non voleva un attore o un regista famoso in un film perché avrebbe dovuto cacciare troppi soldi, diceva: quello no, è malato. Ora, a prescindere. I progressi della medicina (la scoperta dei batteri tanto per dirne una) sono stati possibili grazie ai malati e in particolare alle grandi epidemie che hanno devastato il vecchio mondo. Non dicevo per scherzo osservando che gli studi anatomici secenteschi, le descrizioni delle condizioni dei morti e la nascita della moderna casistica, devono molto alle indagini scientifiche sui cadaveri in generale e sui vampiri in particolare.

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 16:53 da Gianfranco Manfredi


E che facciamo, rimandiamo i post alle 5 di domattina? Io la mattina non servo, meglio se restassi sveglia tutta la notte…
E che, tra un paragrafo e l’altro del mio romanzo, guardo qui e leggo i nuovi interventi, se il caso rispondo…
Andiamo in silenzio stampa, allora? Come vedi, i Vampiri sono in agguato… ;)
Claudio!! Che, fai fare solo a noi due la parte degli sfaccendati??? :)

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 16:55 da Simonetta Santamaria


Segnalo un libro molto bello (primo di una serie)pubblicato in italiano da Rizzoli l’anno scorso, o forse no, due anni fa. Si intitola La storia Stupefacente di Octavian Nothing traditore della nazione. Volume primo: La festa del vaiolo. Autore: M.T. Anderson. Il romanzo è un raffinato finto memoriale settecentesco, in cui lo schiavo Octavian Nothing narra la sua autobiografia, in quel di Boston. Su infezioni epidemiche , ferocie ospedaliere e manicomiali dell’epoca in America, è un romanzo imperdibile. Negli USA è stato adottato come testo scolastico (tanto per rispondere a Pezzini!) . Forse distratti da questo, alla Rizzoli lo hanno pubblicato in una collana di libri per l’infanzia! Considerate che il romanzo è persino stampato imitando caratteri d’epoca e pagine tagliate a mano. E’ cosa di una raffinatezza e di una accuratezza storica da capogiro. Con i libri per bambini non c’entra assolutamente niente. Il fatto di averlo pubblicato in quella collana lo ha negato ai lettori in generale. Quando si dice il naso fino degli editori generalisti!

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 17:03 da Gianfranco Manfredi


Allo straordinario Gianni De Martino per il quale rinuncio volentieri a lavorare nella speranza di leggerlo ancora. Scusa l’ignoranza, ma dato che si è parlato anche di omonimie. Sei parente dell’incommensurabile Ernesto de Martino autore tra l’altro del fondamentale “Il mondo magico”?

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 17:11 da Gianfranco Manfredi


Ma come, libro per l’infanzia uno che parla di ospedali, epidemie, manicomi e morti? Comunque sì, dev’essere molto interessante, me lo sono appuntato.

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 17:23 da Simonetta Santamaria


Dal sito di de Martino, citazione:

Poi c’è stato l’episodio di quando sono andato alla Biblioteca Sormani per una ricerca di testi sui vampiri. Ho fatto la fila per fotocopiare alcune pagine del libro di Fabio Giovannini, Il libro dei vampiri, e precisamente il capitolo intitolato “Il morso dell’artista”.
Domande, domandine, tutta una burocrazia piuttosto ottusa e regole che non sembrano avere altro scopo che quello di complicare le cose semplici con procedure assurde.
Avrei voluto che tutto procedesse più speditamente. Invece, brancolavano e perdevano tempo. Io sbuffavo, e l’impiegata delle fotocopie se n’è accorta e ha incominciato a guardarmi storto. “Stia in fila, lei!”, ha gridato a un certo punto. “Io la conosco, sa?”. Ha aggiunto.
Quando mai io ho conosciuto una così? L’ho guardata più attentamente. Era rossa in viso e scuoteva la testa, facendo tintinnare orecchini berberi. “Ah, sì?”, ho chiesto. “Mi conosce?” E lei, cafona e scorbutica, tentennando il capo per la bizza misteriosamente ha ancora gridato: ” Non mi costringa a dire cosa penso di lei…”
Una minaccia? Mi sono guardato intorno, c’erano gli studenti della Statale, a capo chino, come tante pecore, a riempire moduli e modulini per le fotocopie. ” Che gente strana si vede in giro”, ho detto a me stesso.

Il giorno dopo ho raccontato l’episodio a un amico dirigente dei servizi della Biblioteca, che mi ha detto trattarsi di un caso di esaurimento nervoso, dovuto a una Biblioteca che non funziona, assediata da un bacino d’utenza, così ha detto, esorbitante, per cui gli impiegati diventano sempre più demotivati, apatici, scorbutici, e talvolta vanno in tilt come quella signora delle fotocopie.”Esaurimento nervoso, credimi”.
Chissà se le parole dell’amico funzionario possono spiegare quelle frasi misteriose, quasi deliranti: “Io la conosco… Non mi costringa a dire quello che penso di lei…”

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 17:48 da Gianfranco Manfredi


Per il mio nuovo romanzo, Tecniche di Resurrezione, avevo bisogno di documentazione introvabile in rete. Cose molto specifiche, pignole. Del tipo: quale commedia si programmava al Drury Lane di Londra, il giovedì 20 gennaio 1803? Spedisco la domanda via mail a un amico della British Library. La mattina dopo ricevo risposta incluso testo della commedia. Gratis. Non costringetemi a dire cosa penso della Biblioteca Sormani.

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 17:55 da Gianfranco Manfredi


Anch’io per Vampiri ho ricevuto ben tre risposte – cordiali ed esaustive – dal British Museum, e non conoscevo nessuno. Forse per loro è normale, per noi qui, invece, il posto accanto alal fotocopiatrice dà diritto a un certo potere, incluso quello di rivelare pubblicamente i propri deliri.

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 18:08 da Simonetta Santamaria


(Scusate il tono spigoloso delle righe che seguono, è solo che devo scrivere in fretta.) Il libro delle meraviglie di Flegone di Tralle contenente l’episodio “vampiresco” che ispirerà Goethe potrà essere apprezzato per la prima volta nell’interezza di ciò che ne resta – cioè non solo nel brano in questione, spesso antologizzato – nell’edizione curata da Tommaso Braccini e Massimo Scorsone, di prossima uscita per Einaudi.
Sull’altro episodio corinzio, che riguarda in origine un’empusa (Filostrato, Vita di Apollonio) ma nelle versioni successive (a partire da Robert Burton, nel suo immenso trattato-biblioteca The Anatomy of Melancholy) una lamia – anzi in Keats, Lamia – sono disponibili vari riferimenti nei repertori. Il tema è però enorme, con implicazioni che interessano tutto il fantastico ottocentesco e arrivano fino a noi, e con sottotesti allarmanti sia dal punto di vista degli stereotipi geografici che di quelli sessuali (il tema della seduttrice orientale: il demone si presenta infatti come una donna fenicia, dunque il corrispettivo greco di una Dragon Lady).
Spero di potervi segnalare presto (beh, qualche mese) l’uscita degli atti al Convegno tenuto da poco all’Accademia Albertina di Torino, in cui nel contesto di un discorso sul rapporto tra donne-serpenti orientali e occidentali compare anche un articolo-dittico di Massimo Scorsone e del sottoscritto – lui per l’Estremo Oriente, io per le tradizioni occidentali compresi Filostrato, Burton e Keats.

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 18:28 da Franco Pezzini


Per concludere degnamente la mia giornata, vi posto l’articolo di Gianni Canova su Il divo di Sorrentino, dopo che me l’ha gentilmente spedito a integrazione del blob.

Il divo

Giù giù nella profondità di campo, il divo sembra galleggiare in una nicchia di luce sospesa nel buio. La macchina da presa gli si avvicina con un movimento immersivo che equivale a una discesa all’inferno. Lì, a capo chino e con le orecchie storte, insofferente della luce, il divo rivela da subito – in voice over – la sua natura vampiresca, il suo essere un non-morto, un nosferatu: “Alla visita di leva il medico militare mi diagnosticò sei mesi di vita. Seppi tempo dopo che era morto. Io sono ancora vivo”. Come ogni divo, anche il divo Giulio è immortale. Gli altri – amici e nemici, compari e cortigiani – gli muoiono attorno, accanto, davanti e dietro, lui sopravvive. E lo sottolinea compiaciuto, consapevole di essere uno di quelli che restano per sempre: gli dei, come i vampiri, non muoiono mai. Hanno bisogno del sangue e delle vite degli altri, e se le prendono. E aborrono la luce. Il divo Giulio, non a caso, vive di notte. Non dorme mai. Gira con la scorta per le vie deserte di una Roma fantasma in lunghe e solitarie passeggiate notturne. E passa il tempo a spegnere gli interruttori di casa sua. I veri divi non sono quelli che godono all’accendersi delle luci, ma quelli che decidono quando le luci si possono spegnere.

“Il carattere più proprio del grottesco – scriveva S.M. Ejzenstejn – è il raccapriccio”.
Il divo è un film grottescamente raccapricciante e capricciosamente grottesco. Lo è nel suo incessante convertire – in un movimento di perenne andirivieni – il comico nel tragico, il caricaturale nel mostruoso, il ridicolo nell’orrido. Paolo Sorrentino riesuma Elio Petri – quello sublime di Todo modo, quello feroce e kafkiano di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto – e lo usa per allestire il più vasto, spericolato, eccessivo e stordente campionario di sosia che si sia mai visto sullo schermo. Roba da far impallidire i sosia di altri autori diversamente grotteschi come Giuseppe Ferrara (Giovanni Falcone, Il caso Moro) o Nanni Moretti (Il Caimano). Ma anche i ministri democristiani di Petri, impegnati nel rito annuale degli esercizi spirituali. Così discreti, così felpati, così spietati. La Storia – in Il divo – diventa museo delle cere, defilé di maschere, carnevale del senso. Bachtin, non c’è dubbio. Ma anche, ancora, Ejzenstejn: cinema come montaggio delle attrazioni. Visivo e sonoro cozzano, il divo dorme sotto il ritratto di Marx, il ritmo sbanda, salta, accelera, frena, si blocca. E la chiamano estate. La prima cosa bella. I migliori anni della nostra vita. I morti si accumulano, i misteri si accrescono, le trame si aggrovigliano. Ma lui, il Divo, è sempre lì. Nel buio. Non ha rivali (“So di essere di mediocre statura, ma non vedo giganti intorno a me”), non ha antagonisti che non siano suoi alleati “traditori”. Dove sono i movimenti, le masse, il Partito Comunista, l’opinione pubblica? Dal punto di vista del Divo, sono solo formiche: quelle che zampettano sulla sua mano in una delle immagini apparentemente più incongrue, in realtà più pregnanti del film. Raccapriccio. C’è stato o no il bacio raccapricciante fra il Divo e il Mafioso? Ci sono cose, al cinema, che è bene non sapere. Come nella vita. Ipse dixit. Certo, il Mafioso è morto e il Divo è vivo. E’ il destino dei vampiri, quello di dare la morte baciando.

Viene in mente Sokurov (Moloch), vedendo Il divo. Quel suo Hitler in mutande intento ad ammazzare il tempo in un castello bavarese in compagnia di Eva Braun. Ma Hitler non era un Divo, era un Mostro. Il divo Giulio, in mutande, non lo si vede mai. Mai senza cravatta, senza occhiali, senza abiti di scena. Grottesco: come se in lui coabitassero, e si fondessero, le anime degli altri film di Sorrentino (l’usuraio gobbo di L’amico di famiglia, il mafioso garbato e innamorato – come il Divo lo è della sorella di Vittorio Gassman – di Le conseguenze dell’amore, il sosia di L’uomo in più). Corpo senza anima, carne resistente al tempo e al caso, il Divo comunica con un cerimoniale semiotico rigoroso e immutabile (le punte dei polpastrelli che tamburellano, i pollici che girano, l’indice e il pollice della destra che fanno ruotare la fede nuziale sulla sinistra). Codice cifrato, messaggi per iniziati. Un po’ gangster movie un po’ spaghetti western, Il divo è un film necrofilo e necroforo: ama la morte che aborre. E la mette incessantemente in scena, e non sa evitarla perfino quando tenta di inscenare la vita. Il divo e sua moglie Livia, non a caso, si sono incontrati da giovani in un cimitero. E la Storia fa del cimitero il suo punto d’attrazione fatale. Non dite per favore che questo è cinema della realtà. Qui la realtà non c’entra nulla. Qui c’è molto di più (e molto di meno) della realtà. Benvenuti nel deserto del reale.

Gianni Canova

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 18:33 da Gianfranco Manfredi


Ho scritto il blob al posto del blog, è vero che gli errori non sono mai casuali.

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 18:37 da Gianfranco Manfredi


@ Pezzini. Cito in anteprima assoluta dal mio nuovo romanzo la mia traduzione di un frammento dell’Anatomy of Melancholy di Burton:

Ch’io giaccia o sieda o m’incammini solo
gemo, mi struggo e molto m’addoloro
In cupo bosco o in mia tediosa tana
mi sento afflitto o in preda a Furia strana
mille malanni insorti, e nello stesso istante,
m’empiono l’animo, e il cor si fa pesante
ogni desiata gioia è ormai follia
tranne la dolce mia melanconia

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 18:42 da Gianfranco Manfredi


@Manfredi
Me lo chiedono spesso, ma non posso dire di essere parente, se non forse alla lontana, dell’incommensurabile Ernesto de Martino.

Non so cosa m’abbia morso e rimorso, ma ho riscritto :
*
L’ULTIMA LETTERA DI VLAD

Che dirà il caro Wolf quando udrà la morte del suo Dracula? Qui la burocrazia mantiene il massimo riserbo sulla data delle esecuzioni, ma per le voci che questa notte circolano nella Torre non tarderà molto la novella; perché all’alba entreranno nella cella e spalancheranno la finestra sul sole. Nell’attesa, non inerte, di quanto vorranno ancora farmi, sai dove siedo, io?
*
Il mio sedile è l’incavo d’una vecchia tomba; la mia scrivania il dorso d’una pietra tombale caduta, resa liscia dalla devastazione dei secoli; il mio unico lume è il chiarore della candela e tuttavia vedo chiaramente, come se fosse mezzogiorno, anche negli angoli più bui e lontani. E nella scrittura continua la visione di tanti corpi addormentati. Li vedo sospesi nell’effimera danza tra la vita e la morte, tutti giacere su un letto di spine; e uno strano, malinconico affetto mi coglie, simile a un dolore lancinante.
*
“Male al cuore? Serve sangue?”, chiedono i miei guardiani. Le voci risuonano ironiche, rimbombano sotto le alte volte del sotterraneo, quasi immenso cranio rovesciato. Anche adesso ridono della mia domanda di avere altro inchiostro. Mi chiamano « succhiasangue », « stregone » e « malato », « f-o-t-o-f-o-b-i-c-o » dicono. E’ gente amara, quella, il loro riso è vuoto. E anch’io rido. Di me, di loro, i guardiani. Rido giù per il grugno… Ah!… così. Come se mi sentissi dolcemente azzannare rido – silenzio, prego – dell’infelicità. Allora divento tutto unghie e denti. Ed è improvvisamente vuoto ciò che mi circonda. L’inchiostro è finito. Non me ne daranno più. “E’ tardi”, dicono. ” E’ giunta l’ora in cui ci libereremo di te, vampiro sporco e immondo”. Allora scrivo col sangue che cavo da una vena. E la scrittura, come la morte, riempirà i buchi…
*
Malato ? Un tremito della mano che scrive fa vibrare le pareti della cella e si comunica come per magia alla luna, alle stelle e ai pianeti che vacillano fra tante ombre al guizzo della morente lampada… Tante ombre, ma non la mia – tutta racchiusa in me, come vorrebbero i miei calunniatori, privo come sarei d’ombra e di riflesso quasi fossi una lucertola o un pesce. Dunque per i posteri non sarò che un fantasma tremolante sulle rive dei loro sogni; ma tu mi hai visto levarmi vivo, con un corpo vibrante come una bandiera sotto il cielo dei campi di battaglia : energico, pieno di vigore, infaticabile nei miei quotidiani sforzi di respingere le armate dei barbari oltre il Danubio, al servizio del Re e del Papa – del Papa, sì, che allora non mi chiamava “vampiro”.
*
Mi ricordi forse senza ombra alla battaglia di Varna, quando mio padre mi lasciò il comando dei soldati che combattevano accanto ai crociati, o quando , poco più che adolescente, mite e religioso, vestivo di rosso scuro, con una mantiglia di seta verde, e durante le cerimonie portavo al collo due catene d’oro, unite da una croce a doppia sbarra, dalla quale pendeva quel drago rovesciato per cui si farneticò di culti fumosi e catramosi con diavoli e stregoiche, tra spaventevoli eresie, feroci ma necessari impalamenti e odiose sodomie. E ti ricordi come correvo, quel giorno, come un giovanotto, quel giorno di Aprile pieno di sole che ti lasciai in asso col martello a verificare le artiglierie, e poi andando io stesso a raccogliere un pezzo di cannone che mi pareva dubbio?
*
Ero un guerriero sfolgorante di gioventù e di freschezza; e ora corro dietro ai fantasmi della mia identità passata… Corro su anelli di pitone nero di scrittura… quando mi costringono al buio e all’immobilità di una fredda cella e i guardiani mi privano persino dell’ombra e per derisione mi obbligano a calzare lucide ciabatte di donna. Maneggiavo la spada, e ora tasto solo una sudicia penna.
*
Mi guardo le mani, sono i confini del mondo. Sembravano linee colme di fuoco, ma è solo un po’ di sangue misto all’inchiostro che sbiadirà con il tempo. Così ti faccio segno, fedele amico, dal capolinea, parcheggiato sull’orlo dell’abisso o baratro che hanno voluto spalancare sotto la mia vita e l’opera; qui dove la morte s’annuncia nel moltiplicarsi dei riflessi della mia leggenda e si dilata tra le pietre sporgenti delle arche, paurose, in una tenebra senza visibili confini e come sospesa, per consentir sortite di fantasime o resurrezioni delle carni.
*
Chi varcò il Danubio e sconfisse i turchi sul loro stesso suolo? Era un Dracula! Ma non è più tempo ch’io parli delle guerre in difesa della Cristianità e della sfortuna, per non dire delle infami leggende che si tramanderanno con la pretesa di aver fatto finalmente chiarezza; né delle menzogne che di me racconteranno testimoni incappucciati. Non è più tempo ch’io parli dell’ingratitudine, la quale ha pur voluto aver la vittoria di rinchiudermi in una fetida ed estranea prigione ; quando io pensavo che quei servizi guerreschi non m’avrebbero lasciato in alcun modo senza ricompensa.
*
Trame politiche, lo avrai saputo, e congiure dinastiche hanno deciso la mia sorte. Da alleati qual erano, Papa e Re son diventati i miei persecutori; e altro ormai non potrà più fare il buon frate Nicolaus, dai cui passi per la revisione della sentenza mi aspettavo qualche vantaggio e che ora tace, imbarazzato, forse per ordine del Papa – quel piccolo satrapo indifferente al mio caso e malvagio unicamente per noia o per presunzione.
*
Tutti han creduto alle terribili leggende che i compagni di un tempo hanno diffuso sul mio conto, fino a quella notte di vento e di neve in cui mi gettarono, con tutte le mie carte e i venerati libri di Alchimia, in fondo alla prigione della Torre: nel buio dove centinaia di topi mi circondano; e la ragione vacilla, in attesa d’esser rapito dalla luce di una morte ingiusta che ora mi è chiara come il sole. Ah, il grande sole mentitore e la fastidiosa luce che m’uccide! Quasi rapido torrente d’improvviso splendore, del quale, senza poter aver alcun appiglio, vedo smagliarsi l’ombra mia… Tristi pensieri! Tristi immagini! Ascolta, Wolf, amico mio, non senti soffiare un vento terribile, sentimentale, che mi fa ammalare, ci farà ammalare tutti, di umor nero o di peste, forse.
*
Che cosa sarà di te? Ti lasceranno almeno la tua abitazione, almeno la tua camera? O forse hanno già bruciato tutto e tu vaghi ai limiti della foresta, in attesa di avere notizie della mia sorte, notizie che non ti arriveranno mai?

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 19:14 da Gianni De Martino


Miei cari, vampirici, amici. Passo al volo per lasciarvi un saluto dopo una estenuante non-giornata.
I commenti arretrati da leggere aumentano: impossibile starvi dietro!
Ma recupererò. Poco ma sicuro.
Intanto mi sembra che questo post, più che in un “libro”, si stia trasformando in una “enciclopedia” tematica. ;-) )

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 19:44 da Massimo Maugeri


Mi ha scritto Sergio Alan Altieri per dirmi che sta predisponendo un intervento dei suoi a beneficio nostro.
“Ti pare che mi possa tirare indietro quando c’e’ da spillare sangue? Eh, no!”
Parole di Alan.
E noi lo aspetteremo.
Tanto, questo, è ormai un non-post sempre vivo (o meglio, appunto, non-morto).

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 19:47 da Massimo Maugeri


Ovviamente vi ringrazio per i nuovi interventi e dò il benvenuto ai nuovi arrivati.
(Occhio al collo, gente!)

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 19:49 da Massimo Maugeri


Molto bella questa pagina, caro Gianni, complimenti. La visione introspettiva, il turbamento del vampiro rendono “trasferibili” le sensazioni, che non sono di gloria e potenza ma profonde incertezze sul futuro, sul “che sarà di noi”.
E vedo con piacere sul sito della Gargoyle che a breve dovrebbe uscire Varney il Vampiro, il conteso romanzo di Thomas Preskett Prest e James Malcolm Rymer. Il romanzo, che mi risulti, venne considerato dalla critica un feuilleton di basso rango dai sapori forti adatti al popolino, e disprezzato dai fanatici dei vampiri più raffinati Ma anche qui vediamo la consapevolezza del vampiro di essere una creatura portatrice di male e l’angoscia che ne consegue.

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 19:51 da Simonetta Santamaria


Scusate, ho dimenticato di virgolettare la parola “vampiro” riferita a Vlad III, ovviamente. Pietà e perdono…

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 19:55 da Simonetta Santamaria


Tornando seri…
Nella puntata radio di “Letteratitudine in Fm” di stasera (a partire dalle h. 21,20 circa), parleremo di vampiri e avrò come ospiti Gianfranco Manfredi e Simonetta Santamaria.
“Letteratitudine in Fm” va in onda su Radio Hinterland (Fm 94.600 MHz – nel territorio della provincia di Milano e oltre) e dappertutto, in streaming, via Internet: basta cliccare qui http://www.radiohinterland.com/streaming/radiolimpia.asx

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 19:55 da Massimo Maugeri


EVVAI!!! Ok, ora possiamo tornare seri ;)

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 20:06 da Simonetta Santamaria


Appena finito di sentire l’intervista: grande Gianfranco, è stato un onore affiancarmi a te. E grazie infinite a Massimo Maugeri che è stato un perfetto padrone di casa! :)

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 22:18 da Simonetta Santamaria


Cara Simonetta, sono io che ringrazio te e Gianfranco. Mi ha fatto davvero piacere avervi come ospiti anche in radio.
Ne approfitto per ringraziare tutti gli amici milanesi che hanno avuto la bontà di ascoltarci in Fm… e tutti gli altri che ci hanno ascoltato in streaming via Internet.
Nei prossimi gioni la puntata sarà ascoltabile (o ri-ascoltabile) anche in podcast in questa pagina del blog: http://letteratitudine.blog.kataweb.it/letteratitudine-radio-hinterland/
A tutti voi, una serena notte.

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 22:41 da Massimo Maugeri


Anche a voi tutti, a domani! Ma in notturna aspettatevi ulteriori commenti da quella creatura del buio di Danilo Arona! :)

Postato martedì, 9 marzo 2010 alle 22:49 da Simonetta Santamaria


E’ vero, creatura del buio, ma stanotte – come in qualche spin-off kinghiano – ho lottato contro la tormenta di neve e non ho potuto intervenire. Per Simo: effettivamente quel post che segna errore è un errore, perché mi è partito un dito su “invia” prima di finire l’intervento (che peraltro segnalava solo 2 link carmilliiani…). Francamente, amici, che cosa si può dire ancora con mostri – nel senso benevolo della parola – sacri in qs. forum come voi? In questo momento sto al lavoro però… ci potrebbe ancora stare un accenno sul vampirismo orale (che forse ci azzecca con Twilight). Già, perché certi ragazzotti un po’ inquietanti chiamansi “emo”? Perché gli occhi si iniettano di sangue? Se uno si arrabbia, vede rosso (e se uno non va a punto e si cucca un due di picche, “va in bianco”…? Perché il sangue va alla testa? O il vino fa buon sangue? E il vino della messa? Insomma, nella tradizione orale quotidiana, i vampiri sono ancora e sempre fra noi. Vampiro= sangue = inconscio… Parole che sono sintomi, signs del mondo infero emergente a propria insaputa.

Postato mercoledì, 10 marzo 2010 alle 11:57 da Danilo Arona


… I primi succhiotti nel collo che l’adolescente-vittima nasconde alla vista dei genitori, con collane, maglie girocollo, etc… come le vittime complici di Dracula… I rituali d’iniziazione di certe bande giovanili che si caratterizzano con i tagli e la fuoriuscita di sangue… Certo satanismo acidio giovanile che presuppone il bere sangue da piccoli animali all’uopo sacrificati… E saltando nella storia del crimine, quanti casi di psicopatologia criminale caratterizzati dal vampirismo reale o da quello simbolico (es. Il vampiro del Sussex…). Ricacciato nei meandri nobili del mito, il vampiro si fa beffe del medesimo infestando il quotidiano…

Postato mercoledì, 10 marzo 2010 alle 12:03 da Danilo Arona


Volevo soltanto informare Massimo che ieri ho sentito Loredana Lipperini. Mi dice che ogni tanto si aggiorna con interesse sull’andamento del blog e che ne apprezza la maggior parte degli interventi, ma che proprio non ce la fa a partecipare attivamente, divisa com’è tra conduzione radiofonica, scrittura e gestione di Lipperatura. Mi chiede di salutarvi tutti cordialmente.
Mi fa invece piacere che Sergione Altieri, che avevo a mia volta invitato, si prepari a scendere in campo. Tra l’altro lui sta vivendo un’esperienza diretta di vampiri, trovandosi a interfacciarsi con il nuovo direttore responsabile del Giallo Mondadori, visibilmente gonfio di sangue che drena da mille rivoli diversi, aiutato dalla pallida ma attivissima consorte…

Postato mercoledì, 10 marzo 2010 alle 12:09 da Paolo De Crescenzo


Bonjour Danilo!!
“Prendete e bevetene tutti, questo è il mio sangue…” Simbolico ma pur sempre vampirica come immagine.
I ragazzotti “emo” che a mio parere sono più inquietanti di un naziskin, prendono questo nome non dal sangue ma è semplicemente una contrazione della parola “emozioni” e sono quelli che in genere girano con fila di lato, capelli lisci appiccicati al viso pallido; la loro corrente è l’esasperazione delle emozioni: Poco a che fare con la corrente emo punk rock degli anno ‘80, l’emo è diventato un orrido sottogenere pop dal 2000… Di più nin zo.

Postato mercoledì, 10 marzo 2010 alle 12:13 da Simonetta Santamaria


Vedo che la neve ha costretto vampiri e non-morti vari a rimanere chiusi nei loro avelli, il che ci fa anche gioco.
A proposito di diffusione del mito vampirico, segnalo un bel gioco da pc francese – la ditta è Microids – intitolato proprio Dracula. La struttura è quella del “clicca e gioca”, dove si usano puntatore e mouse per muoversi attraverso bellissimi e suggestivi scenari. Il giocatore – nei panni di Johnatan Archer – ripercorre il romanzo di Stoker viaggiando verso i Carpazi e facendo conoscenza con il Conte più celebre della letteratura (pari merito con Montecristo?). La cosa curiosa è che NON potrà comunque cambiare le linee principali del romanzo. Ma vale la pena provare. Piccola curiosità: JoJonathan Archer è anche il nome di uno dei personaggi principali della nuova serie di Star Trek.

Come ulteriore spunto allego anche il breve articolo apparso di Stefano Priarone apparso sulla Stampa il 15 novembre 2008.

Perché le donne amano i vampiri
Belli e immortali, sono loro la nuova icona sexy

di Stefano Priarone (La Stampa, 15 novembre 2008)

“Immortali, inquietanti e bellissimi – giusto un po’ pallidi – i vampiri sono il sex symbol del momento. Se una ragazza in autobus prende un libro dalla borsa, è molto probabile che sia uno dei quattro romanzi della saga vampirica di Stephanie Meyer, «Twilight», adesso anche un attesissimo film nelle sale venerdì, storia della timida liceale Bella che perde la testa per il vampiro ragazzo Edward: i due si amano ma non possono vivere la loro passione, perché lui è sì buono e succhia solo sangue animale, a patto di non starle troppo vicino. E così Bella medita di diventare vampira anche lei. Mina Murray la capirebbe molto bene. La ragazza ha sposato il noioso perbenista vittoriano Jonathan Archer ma in cuor suo non ha mai dimenticato un nobile della Transilvania, l’unico uomo che le abbia davvero scaldato il sangue. Se uomo si può chiamare, visto che si trattava di Dracula il vampiro.

C’era già tutto nel romanzo di Bram Stoker, uscito nel 1897: Dracula è un aristocratico straniero che viene a Londra e sovverte l’ordine borghese e vittoriano. E’ detestato dagli uomini, che si coalizzano per combatterlo sotto la guida del Professor Van Helsing, ma le donne (Mina, ma anche la sua amica Lucy), ne sono perdutamente attratte, il suo morso è metafora del godimento sessuale, all’epoca pressoché proibito alle donne. E se oggi siamo lontani dall’epoca vittoriana, il vampiro incarna sempre un’icona erotica che ha fascino anche sulle attuali ragazze post-post femministe: è l’uomo del mistero, che segue solo le regole che egli stesso si crea, il ribelle. Il ragazzo che ti ignora e così facendo si rende seducente (in «Twilight» Edward è l’unico a non dare confidenza a Bella nella nuova scuola in cui si è trasferita). Non a caso, il primo vampiro letterario era stato il Lord Ruthven del romanzo «Il vampiro» scritto da Joseph Willliam Polidori, segretario personale di Lord Byron che gli aveva dato il fascino tenebroso del suo datore di lavoro verso cui nutriva un rapporto di amore-odio.

Il cinema ha colto bene il fascino del vampiro: in «Dracula» di John Badham il conte non morto è interpretato dal seducente Frank Langella e in «Dracula» di Bram Stoker diretto da Francis Ford Coppola è evidente che Mina (Winona Ryder) è molto più attratta da lui (Gary Oldman) che non dal belloccio ma scialbo Jonathan (Keanu Reeves). E che dire dei perfidi, affascinanti e irresistibili vampiri Tom Cruise e Brad Pitt di «Intervista col vampiro»? Adesso il giovane Robert Pattinson di «Twilight» ha il compito non facile di raccogliere il testimone di questi bellissimi, ma lui ci si è gettato con l’entusiasmo dei vent’anni: «In fondo è solo un tipo con l’esperienza di un 80enne e gli ormoni di un 17enne!»

Anche la vampira è presente nell’immaginario maschile, famosa è Vampirella, vampira a fumetti creata da Forrest Ackerman negli anni 1960 ma ha una valenza piuttosto diversa, è la femme fatale che distrugge gli uomini (da cui il termine «vamp»), mentre il «bel tenebroso» ha un’accezione molto più positiva per le donne . Non a caso nella serie televisiva «Buffy l’ammazzavampiri» creata da Joss Whedon l’eroina Buffy, pur combattendoli, si innamora di due di loro: del «vampiro buono» Angel ma anche di quello «bello e dannato» Spike. Gli archetipi di due tipi maschili che da sempre piacciono alle donne: Angel è il «bravo ragazzo con un lato oscuro» (se fa l’amore con Buffy diventa malvagio e quindi il sesso torna ad essere un tabù, come nell’Ottocento e come in «Twilight»), mentre Spike è il «cattivo ragazzo che può essere redento».

Che Buffy sia stata indubbiamente fra le fonti d’ispirazione della serie di «Twilight» lo dimostra anche il triangolo Edward-Bella-Jacob (quest’ultimo è un lupo mannaro), in parte modellato su Angel-Buffy-Spike. L’autrice Stephanie Meyer ha creato una storia di formazione con metafore fin troppo palesi, e il suo successo dimostra che i tipi rassicuranti alla Jonathan Archer devono rassegnarsi: oltre cent’anni dopo Dracula le ragazze preferiscono sempre i bad boys. Anche se magari non vestono in frac come il conte.

document’s author(s), not of CESNUR or its directors.

Postato mercoledì, 10 marzo 2010 alle 12:24 da Anonimo


Poveri emo! Non demonizziamoli. Non sono altro che reviviscenza dei dark. Ripeto: non possiamo prendercela insieme con i palestrati abbronzatissimi, con i mocciosi moccisti, coi velini, e anche con gli oscuri, se no finiamo per prendercela con gli adolescenti in quanto tali. Ma vi ricordate come gli adulti trattavano noi da adolescenti? Se uno per tentare il Jimi Hendrix hair style si cotonava come veniva considerato? Se a un altro piacevano i Black Sabbath come veniva giudicato (spesso anche dagli stessi suoi amici folk)? E non parliamo neanche degli anarchici Sex Pistols e dello scandalo causato dalla loro esibizione provocatoria e de-costrutta delle svastiche! La sociologia giornalistica spicciola sui giovani , che li riduce a marionette, se prima riguardava i diciottenni, adesso comincia quando sono ancora in fasce. Non si tiene mai presente il fenomeno di continuo nomadismo tra una tribù all’altra, né la giocosità del travestimento. Gli abiti non fanno i monaci, nemmeno quando i Monaci sembrano usciti dal Confessionale dei Penitenti Neri. In particolare gli emo… non sopravvive forse in loro quello spleen fondante dell’horror romantico? Nulla è più eterno del precario. Come dice il grande Leslie Nielsen nel secondo episodio della Pallottola Spuntata (parafraso): “Passiamo la vita a occuparci di stronzate, ma sono le nostre stronzate e nessuno può permettersi di togliercele!”

Postato mercoledì, 10 marzo 2010 alle 12:30 da Gianfranco Manfredi


L’ironia è preziosa. Quando Stephen King proclama: io credo in Babbo Natale, é un atto di fede ironico e insieme melanconico. Ricordo quando la mia prima figlia da piccolina mi convocò in camera sua per dirmi, incupita: “Dimmi la verità! Babbo natale siete voi!” “Ebbene sì, confesso.” Al che, delusa: “Uffa! Possibile che non esista niente?” Dire, ironicamente, io credo a Babbo Natale è una vendetta compiuta in nome dell’infanzia. Detto questo, se diffido di qualcuno, è degli adulti ritardati. I cosiddetti eterni Peter Pan. Quelli che non capiranno mai, un’altra divertente e amara ironia. L’ironia del Gaber quando diceva: “Va bene tutto, basta non crederci troppo.” Agi adulti dovrebbe spettare l’accesso allo spirito critico. Purtroppo ogni giorni si dimostra che questo alberga di più nella confusa anti-moda mutante degli adolescenti.

Postato mercoledì, 10 marzo 2010 alle 12:43 da Gianfranco Manfredi


Ménage con il Vampiro
*
…Ti ricordi come mi vide quella pulce di Jonathan Harker, il giovane e goffo impiegato giunto in missione al nostro castello?
Non trovando traccia né di campanello né di picchiotto, levò lo sguardo verso le mura e le negre aperture delle finestre, sollevandosi in punta di piedi, come se avesse voluto lanciare una voce, che non usciva, di là da quelle mura mai esistite, se non nella sua testa nebbiosa.
A che razza di luogo era mai approdato, e tra che gente? E che sforzi faceva per svegliarsi dall’interno del suo proprio sogno !
Agitandosi come un pollo addormentato, si aggrappava al trespolo della propria identità. E ipnotizzato da se stesso, diceva, ridiceva: ” Im-piegato di uno studio l-legale! A Mina la definizione non piacerebbe. Procuratore l-legale, piuttosto!”.
E cominciava a fregarsi gli occhi e a pizzicottarsi per vedere se era sveglio.
*
Noi lo osservavamo per un tetto aperto, una finestra scomparsa. Le nostre mani gli gettavano ritagli d’unghia, torsoli di mela, croste di pane, pezzetti di carta dove non c’è mai scritto niente… E quando la porta si aprì mi vide alto, vecchio, accuratamente sbarbato a parte i lunghi baffi bianchi, e nerovestito da capo a piedi, senza una sola macchia di colore in tutta la persona: solo vuota cornice di spavento.
*
A casa mia, vivevo negli interstizi del castello e negli intervalli della sua giovane vita. Gli facevo il letto, gli facevo trovare una copia dell’Odissea sul comodino, gli servivo pranzo e cena di nascosto, mentre lui era di là. A casa mia, al cuore del più familiare, il giovanotto deponeva il rasoio, volgendosi alla ricerca di un cerotto, e il mio sguardo cadeva sul suo volto dove brillava una goccia di sangue. Era sangue, era. E mi gettava negli occhi l’immagine di Nostro Signore, con tutti i suoi arcobaleni. Riluceva. Giù per il mento… Ah… che vita!
*
Mi avvicinai. Si ritrasse. ” Attento” dissi ” attento a non tagliarvi! E’ più pericoloso di quanto non crediate, in questo paese.” Quindi, con braccio indurito, dato di piglio allo specchio lo lanciai fuori dalla finestra, sul selciato del cortile dove andò a frantumarsi in mille pezzi. ” Via! – esclamai – E’ questo dannato oggetto che ha combinato il misfatto. E’ un lurido strumento che ci obbliga a trascinare care immagini. Via!”. Lo specchio era un vero e proprio carcere, e io non volevo essere prigioniero! Prigioniero di un Procuratore legale che si ritrae, verde di orrore.
*
Là, nello specchio dove scorreva nero sangue fumante, noi, anime dei travolti da morte, eravamo tutti freddi intorno alla fossa… Di qua, di là, a pigiarci verso una goccia del tiepido sangue di Jonathan con grida raccapriccianti. Tutti bianchi eravamo: giovani donne e ragazzi e vecchi che molto soffrirono, fanciulle morte prima che il loro cuore conoscesse l’amore e il dolore, e molti guerrieri col petto squarciato, uccisi in battaglia, con l’arme sporche di sangue – tutti a sghimbescio intorno alla fossa… A chinarci verso la culla, la bara, la conca e il cratere. All’abbeveratoio andavamo, di qua, di là, ovunque lui ci gettasse l’immagine viva negli occhi.
*
…Dalla ferita era uscita qualche goccia di sangue, e questo gli colava sul mento. Giù per il collo, brillava… Cristo… Che vita! Feci un gesto, come per afferrarlo alla gola. Lui si ritrasse, e la mia mano sfiorò il rosario cui era appeso il crocifisso. Da lontano sentiva di biancospino la carogna del cane morto da tempo, e il letame giù in cortile spandeva odori muschiati…Un subitaneo mutamento si verificò in me: l’acquolina che avevo in bocca si seccò, cessò il ronzio alle orecchie e il furore scomparve con tanta rapidità, da far dubitare che ci fosse stato. “Impiegato! Laissez moi partir, mi lasci stare! Sono un onesto e rispettabile impiegato – blaterava, rosso in viso. – Impiegato di uno studio legale! A Mina la definizione non piacerebbe. Procuratore legale, piuttosto, perché, proprio sul punto di lasciare Londra, m’è giunta comunicazione che avevo superato l’esame; e ora sono un procuratore legale a pieno diritto!” E ricominciava a fregarsi gli occhi.
Oh mentitemi, ditemi che era vivo e sveglio, e nei Carpazi! Un volto putrefatto e fuggitivo, lontano da casa sua, tra le mie negre braccia.
*
Bevono sangue anche la zanzara, la sanguisuga, la cimice, la pulce, il ragno e il pidocchio. E noi? Meno di un pidocchio. La cesta di concime si ritraeva da noi, hélas! invecchiati di colpo, curvati dal tempo come un punto di domanda… Così? Dando ali alle braccia sollevate all’altezza delle spalle, le mani contratte, le dita a simulare artigli, lampi… Senza denti, risucchiati in bocca e fallendo qui come nessun altro osa fallire, con i morti affacciati all’altezza della testa: una. Era quando andavamo a sghimbescio per il castello agitando le mani di larva. “Per piacere! Signor Dracula! Per piacere! Mi lasci partire!”. L’abbeveratoio, verde di orrore, gridava che il buco è così grande che è come scopare il vento.
E io morto, senza colore; soffiato via, bianco per sempre… Occhi e bocca così aperti e vuoti. Morto non-morto. Occorre aggiungere altro?
*
Maschera vuota di dietro, uscita dal muro, io scrivevo nell’intervallo del tempo di Jonathan. Armato di oggetti appuntiti – penne, matite conficcate nel cuore – controllavo le parole, non solo le emozioni e i sentimenti; da lassù, il mio tavolo di fakiro, mi dissanguavo per colorare uno straccio di carta, senza valore.
*
Scrivere nel bianco? Scrivere fino alla fine? E smetterla per non arrivare alla paura della morte? Ho vegliato tutta la notte. “Vampiro”, dicono. E non mettono neanche le virgolette… Dalla finestra elevata filtrano i raggi dorati di un tenero sole e le grida di bambini che passano: “Vampiro! Vampiro!” A guidarli e istigarli è l’Eremita della Torre, un padre domenicano di origini napoletane, accanito cacciatore di “vampiri” e autore di un voluminoso saggio dal titolo “ Nient’è chiù pegge ca na mane e’ vampire n’copp’o pesce do’ guaglione”: un malefico libercolo che sostiene di aver scoperto il piano dei vampiri per dominare l’universo mondo, e che per i nefasti effetti che ha sul popolo, è un po’ l’equivalente del Mein Kampf, del Corano e dei Protocoles des Sages de Sion. Insomma, se la gente crede a questi apocrifi, allora può succedere di tutto…
*
Dalla cella vicina, dove sezionano i cadaveri dei giustiziati, giunge la cordiale intellettuale risata del dottor Zeta. Dice che non dovrei prestare orecchio alle “voci che corrono”. E che sarei troppo sensibile. Ieri mi parlava di quel particolare umore che si accompagna alla debolezza dei miei organi, alla delicatezza dei nervi, alla vivacità dell’immaginazione, che rende inclini a compatire, a rabbrividire, ad ammirare, a temere, a turbarsi… Ma, nel mio caso, senza mai che qualcosa di umido possa spuntare ai bordi degli occhi, in modo che l’interminabile siccità possa finire – e anche l’interminabile possa, chissà, finalmente cedere… ” Gardez la tête froide, monsieur Dracula, la testa fredda che v’impedirà tra l’altro l’identificazione morbosa con i topi e i pipistrelli della vostra cella…”.
*
“Ma – ho balbettato – ma io sono orrendo: la pancia mi esplode, ho le gambe gonfie perché non mi fate mai andare in cortile, i pantaloni non si chiudono e so che non uscirò vivo da qui…”. “Uscirà… uscirà…”, ha blaterato misteriosamente. Poi ha aperto lo spioncino della porta della cella. E porgendomi con un fruscio un quaderno ha detto: “E’ il Diario che abbiamo sequestrato al signor Harker… lo legga… lo legga… E si tiri su, non si avvilisca… Su, su con la vita!”
-
DAL DIARIO DI JONATHAN HARKER
*
Cara Mina,
Aiuto! abito da un minuto o un secolo presso un vampiro in pensione del quale sono quasi il padrone…
*
(continua… – debbo continuare?) :-)

Postato mercoledì, 10 marzo 2010 alle 13:41 da Gianni De Martino


Oh, l’ironia è vitale! La frase che scrivo dappertutto è “non mi prendo mai troppo sul serio, altrimenti sari una serial killer”. E nei miei scritti in genere c’è sempre una punta di ironia. Del resto, chi spende più tempo con morti, fantasmi e mostruosità varie, delitti, sangue e fantasia, come potrebbe mantenersi lucido se non si avesse la capacità di ironizzare su quello che scrive (e soprattutto quello che pensa)?

@ Gianni: ho letto sul tuo sito la versione per teatro de L’ultima lettera di Vlad il Vampiro, ed è proprio un bel pezzo di storia. Davvero, ancora complimenti.

Postato mercoledì, 10 marzo 2010 alle 17:06 da Simonetta Santamaria


Cara Simonetta, scusa se invado con una comunicazione personale, ma non ho la tua mail. A Orvieto sei invitata a cena sabato sera. Non è un invito galante e non è neanche la cena dei Dieci Piccoli Indiani. A Paolo de Crescenzo farebbe piacere conoscerti e così potremo fare quattro chiacchiere tranquille tutti insieme, se ti va.

Postato mercoledì, 10 marzo 2010 alle 17:39 da Gianfranco Manfredi


Non è d’obbligo il vestito da emo.

Postato mercoledì, 10 marzo 2010 alle 17:40 da Gianfranco Manfredi


A proposito di vestiti. Un appassionato di gotico come va, prova sempre un certo imbarazzo quando navigando in rete al termine goth o gothic vede spuntare siti con avvenenti modelle dai lunghi dentoni abbigliate in stile bondage. Una rosa è una rosa è una rosa? Si ha sempre più l’impressione che le terminologie non abbiano più senso. Le eroine goth non erano quelle che si andavano a infilare nei guai percorrendo in sottoveste i corridoi dei castelli con o senza candela? Non erano anche quelle spossessate vampire di Matheson che per provocare “L’ultimo uomo sulla terra” si masturbavano freneticamente davanti a casa sua? Le nuove goth dei siti da dove escono? Da una vecchia festa di Ceaucescu?

Postato mercoledì, 10 marzo 2010 alle 17:46 da Gianfranco Manfredi


un appassionato di gotico come va?! Volevo scrivere come me! Mi sto inconsciamente mandando un vaff da solo perché resto appiccicato al blog come una zecca? Ma quando arriva questo benedetto intervento di Altieri? Vuoi farci soffrire?

Postato mercoledì, 10 marzo 2010 alle 17:51 da Gianfranco Manfredi


@ Simonetta. Anche tu non scherzi. Hai scritto: altrimenti sari una serial killer. Una serial killer in sari , cioè una sari-killer, è una gran bella idea!

Postato mercoledì, 10 marzo 2010 alle 17:52 da Gianfranco Manfredi


Non so se è capitato anche a voi, ma a questo blog si sono accavallate corrispondenze private a parte. Ho ricevuto e scambiato mail con chi ha seguito in questi giorni, ma non è intervenuto per timidezza, suppongo. Guardate che la discussione non è mica riservata agli addetti!

Postato mercoledì, 10 marzo 2010 alle 17:56 da Gianfranco Manfredi


@ Gianfranco: la mia mail la trovi sul mio sito, basta cliccare qui sul mio nome. Che bello, sabato vi incontrerò tutti e ne sono felicissima!! Non vedo l’ora! :) )

Postato mercoledì, 10 marzo 2010 alle 18:01 da Simonetta Santamaria


A proposito, viso che hai alluso in un tuo divertente post dopo qualche mia esternazione mattutina e ancora onirica: Santamaria è la stessa Maria della nota band musicale milanese di ottoni tutta femminile che ha nome “In balia della Maria”?

Postato mercoledì, 10 marzo 2010 alle 18:02 da Gianfranco Manfredi


A proposito delle corrispondenze: caro Gianfranco hai ragione. E’ la prova che ancora pochi si affacciano con la dovuta curiosità al mondo dell’horror. Ce ne vorrà ancora prima che riusciamo a deghettizzare (si potrà dire?) questo genere, a ripulirlo delle false etichette che gli si sono appiccicate addosso.
In particolare, per Miriam Vinci, che ha postato due brani del suo IO VAMPIRA. La inviterei a restare in dibattito. Vorrei dire qualcosa sul suo brano ma non so molto del libro, né lei ci ha illuminati più di tanto sul suo modo di pensare e scrivere vampirico. Forse l’abbiamo ignorata? Se è così faccio ammenda, e la richiamo a parlare dei suoi vampiri. ;)

Postato mercoledì, 10 marzo 2010 alle 18:06 da Simonetta Santamaria


No, il mio cognome non ha corrispondenze note se non con l’attore Claudio Santamaria. In quanto a ottoni preferisco l’hard rock ;)
Però sto leggendo La ruota del buio di Preston e Child in cui c’è un personaggio a cui dedicano tre righi, una certa Juanita Santamaria, cameriera di bordo, che si ammazza dopo essersi cavata gli occhi con una scheggia di legno. Mica male per una che porta il mio cognome!! :)

Postato mercoledì, 10 marzo 2010 alle 18:09 da Simonetta Santamaria


No, il vestito da Emo no, per carità!!
Però confesso il mio amore per il nero. Vesto prevalentemente di nero (anche perché maschera bene la trippa) e ho una bella collezione di magliette con teschi. Mi difettano relativi abiti invernali, perciò sabato ripiegherò su giacca di pelle con due spille a teschio e una cintura vampirica, ovviamente! :)
A dispetto dell’età non proprio verde, mi piace portare qualcosa che mi distingua, una sorta di marchio horror, se volete. Anche in moto porto un casco tutto teschi, dei guanti che sembrano una radiografia, una bandana stile Svalvolati on the road (il mezzo teschio dal naso in giù) e ho due bei teschi sanguinolenti anche sul bauletto, opera di mio figlio. E tra poco mi farò anche un tatuaggio: un Ouroboros, ovviamente (chi ha letto il mio romanzo sa di che parlo): hai visto mai portasse bene…
E quando mi dicono che sono matta, ben venga. Io sono fatta così.

Postato mercoledì, 10 marzo 2010 alle 18:17 da Simonetta Santamaria


@Simonetta Santamaria: Grazie dei complimenti!

*

E auguri per sabato.
( Se ho capito bene, andate tutti al ballo degli artisti e degli… addenti ai lavori, alcuni in sari-killer… Ai miei tempi i non-morti indossavano lunghe tuniche indiane stampate a fiori enormi, tremendi, oppure dei sari color albicocca suonata. Echeggiando Jimy Hendrix, dicevano di essere figli/e del Voodoo, e alcuni/e indossavano fruscianti abiti in pelle di serpente…- tipo Jim Morrison, il Re Lucertola. Erano fatti e fatte così. Che tempi!).
:-)

Postato mercoledì, 10 marzo 2010 alle 18:50 da Gianni De Martino


Se ti capiterà di leggere il mio Summer of Love nella nuova edizione di Ultimi Vampiri, li ritroverai in pieno quei tempi. Che comunque, non so poi così remoti. Io appena posso vado ancora a San Francisco. Pensa un po’.

Postato mercoledì, 10 marzo 2010 alle 18:55 da Gianfranco Manfredi


@ Gianni. Troverai anche un video sul sito gargoyle, se cerchi alla pagina su ultimi Vampiri, un doc in due parti di venti minuti in totale che ho realizzato a San Francisco sui luoghi dove ho ambientato il mio Summer of Love. C’è tra l’altro una visita a China Beach, luogo di ritrovo nell’ottocento dei vampiri cinesi locali. Purtroppo non sono ancora riuscito a conoscere nessuno degli organizzatori dell’annuale Ballo Eduardiano , specializzati in performance che la tua compagnia teatrale di riferimento dovrebbe obbligatoriamente conoscere. Per Eduardiano non si intende ovviamente Eduardo, ma Edward Gorey il grande disegnatore neo-gotico senza il quale non sarebbero esistiti i film di Tim Burton.

Postato mercoledì, 10 marzo 2010 alle 19:02 da Gianfranco Manfredi


Ehi, boys and girl, non intendevo parlar male degli emo. Io alla loro età facevo assolutamente paura. Il mio soprannome, subito dopo la faccenda di Bel Air, era “Satana” perché assomigliavo in peggio al vecchio Charlie. In Alessandria c’era un tale che chiamavano “Anima” e un giorno costui telefonò a casa mia, presentandosi per soprannome e chiedendo di me per le stesse vie, ovvero: “Buongiorno, signora, sono Anima c’è Satana?”. Non c’entra nulla coi vampiri, ma quel che volevo dire – accatastando analogie – era semplicemente che il goth, il dark, il vampire look (e chi più ne ha, ne metta…) girano e s’incistano in certi gangli sociali, e non solo giovanili. Pensate ad Halloween. Pensate a come in Italia questa “festa” serissima e dai natali nobili ed europei viene metabolizzata a tanti strati. Dimenticatevi le discoteche e il Dark Carnival – comunque molto interessante sotto un profilo antropologico – al momento ludico collegato. In Italia c’è un sottobosco folclorico sovrapponibile a Halloween, dalla val d’Aosta alla Puglia, che farebbe impallidire Carpenter in persona… Se avete voglia, procuratevi “La strega e il crocefisso” di Paolo Portone che racconta cose straordinarie su Halloween da noi… I vampiri non stanno molto lontano, anzi le vampire… Poi c’è un altro argomento che vorrei lanciare nello stagno (per magari riapparire stanotte all’Ora del Lupo): avete mai parlato con un rumeno – autentico – di Vlad Drakul? Capperi, sapete quanti rumeni e rumene mi spergiurano che l’Antico Abitatore del Castelul Bran era realmente un vampiro? L’avete imparato dal cinema, sicuro! No, rispondono, l’avete imparato voi… Noi lo sapevamo già. A tutti piace considerarlo un grande, spietato guerriero, ma quello beveva sul serio il sangue dei suoi nemici. La vendo come l’ho comprata… A poi.

Postato mercoledì, 10 marzo 2010 alle 19:08 da Danilo Arona


@ Gianfranco
Già, i revenants :
*
http://dailymotion.virgilio.it/video/xaq8eh_trailer-summer-of-love_creation

*
Non so cosa ne sia della compagnia teatrale del teatro “ì”… Hai notizie?

Postato mercoledì, 10 marzo 2010 alle 19:13 da Gianni De Martino


… comunque adesso stacco, smetto di fare la zecca… e vado a vedere “L’isola dei famosi”, sono curioso di seguire Busi & gli altri mostri… Insomma, non solo debbo imparare a usare le parole ma anche cercare di capire il punto di vista dei mostri… Scrivere è uno strano mestiere….

Postato mercoledì, 10 marzo 2010 alle 19:23 da Gianni De Martino


@ Gianfranco. Grazie dei bellissimi versi da Burton. E a proposito di testi in versi, già leggendo “Ultimi vampiri” nell’edizione vecchia ero rimasto colpito dai canti vampireschi – “Tanto ha colpito, tanto ha straziato…”, e gli altri – che hai costruito. Colgo l’occasione per chiederti se per questi frammenti ti sei liberamente ispirato a qualcosa (che so, ballate esistenti) oppure hai forgiato tutto ex novo. E butto lì un desiderio che credo risponda a un desiderio condiviso: sarebbe bellissimo ascoltare questi testi in una loro (borgesiana) interezza, debitamente musicati. La Canzone di Varney, per esempio, in accompagnamento alla lettura del “Varney” in arrivo… Potrebbe diventare una canzone-simbolo, in fondo, di quel ripensamento collettivo che qui tutti insieme andiamo auspicando. Pensaci…

Ma volevo anche sottolineare – e davvero, senza piaggeria – quanto sia importante la connessione che proprio le tue ricerche americane hanno evidenziato tra vampirismo e consunzione. Immagino ci vorrà un po’ di tempo perché tutto ciò venga recepito nei repertori, e non è strano che anche autori eccellenti continuino a considerare Poe come poco significativo per l’immaginario sul vampiro. Anche occasioni come questo dialogo sono dunque preziose per ricalibrare la questione.
È ben vero che l’associazione vampirismo/patologie restituisce tutte le ambiguità del rapporto con una creatura-ossimoro (come l’hai felicemente definita): attraverso la lunga storia delle paure dell’uomo comune, il vampiro ha finito con l’apparentarsi a vari generi di malattie e stati patologici. Fino a diventare, in fondo, l’immagine stessa del contagio (la parola “nosferatu” inesistente in quanto tale in rumeno, ma forse corruzione di “nosophoros”) – senza peraltro esaurirsi in essa.
Pensiamo alla varietà di sintomi presentati dalle vittime degli attacchi dei demoni meridiani, che con i protovampiri mediterranei hanno parecchio in comune: da un impatto sulla mente che conduce alla sragione – in cui si potrebbe ravvisare la lettura mitizzata del colpo di calore – al drenaggio più o meno pernicioso di energie fisiche e sessuali. Una caratteristica, quest’ultima, che nel caso di protovampiri come empuse e lamie sconfina in un vero e proprio divorare la vittima, come faranno gli orchi (e le orchesse) delle fiabe; anche se il divorare può rappresentare un significato metaforico legato agli esiti fatali dell’attacco e all’ingordigia (anche sessuale) dell’aggressore. Proprio nell’episodio dell’empusa di Corinto narrato da Filostrato una serie di elementi inducono a ravvisare il resoconto “arricchito” di un caso di esorcismo compiuto dall’Apollonio storico su un giovane posseduto – con la risacca di sintomi fisici e psichici che gli antropologi associano a simili condizioni.
D’altra parte l’uomo antico esprimeva il concetto “vita” soprattutto attraverso i due diversi componenti del respiro-spirito e del sangue, quest’ultimo legato in alcune culture a uno specifico tabù: e se la tradizione occidentale letteraria sui vampiri mostrerà particolare interesse per il secondo, come già avete rilevato i vampiri del folklore europeo mostrano di attingere a qualcosa di più sottile – che, più che bere, “aspirano” (per non parlare di quelli che uccidono chiamando per nome, cioè attingendo alla natura magica più intima della persona). Il classico morso sul collo è codificato da Stoker sulla base di un duplice binario: da una parte l’immaginario sul sangue che richiama a elementi dalle agevoli potenzialità narrative (le trasfusioni…) e fortemente simbolici (veicolando suggestioni del tabù biblico e del simbolismo cristiano, in particolare nell’antieucarestia del vampiro); dall’altra una localizzazione alla gola che rende più “naturale” l’abbeverazione per quella via (anche se, all’atto pratico, è difficile immaginare come Dracula riesca a fare… provare per credere). Ma forse c’è un altro motivo: parlando di gola, il vittoriano Stoker usa anche una censura linguistica d’epoca per non citare il petto delle signore coinvolte. Invece in Le Fanu l’area interessata ai morsi di Carmilla è (sia pur vagamente) individuata tra collo e petto, e dunque più o meno corrispondente alla zona frequentata dal vampiro soffocatore dei resoconti settecenteschi. Il che apparenta la contessina non-morta al genus affine di incubi e succubi e le sue vittime alle giovani prone di Füssli; e insieme richiama alla misteriosa sottrazione del respiro-spirito da parte delle predatrici-vampire arcaiche come le strigi e la stessa Lilith delle morti in culla. È evidente che (al di là della dimensione psicanalitica, su cui evocherei l’amico Alessandro) le patologie cifrate da queste letture possono essere diverse, ma un rilevo particolare si può riconoscere alle affezioni polmonari.
Poi probabilmente ogni epoca ha associato al vampiro le proprie patologie e derive fisiche. Stoker, forse affetto da sifilide e che comunque vive in un momento in cui le malattie veneree movimentano l’attenzione pubblica (per esempio la battaglia dell’eroina femminista Josephine Butler contro i Contagious Diseases Acts, provvedimenti che per limitare la diffusione di tali morbi finivano col ledere pericolosamente la libertà personale di tutte le donne) proietta quel tema nel “Dracula”, nelle sue donne perdute che cadono sotto il paletto come sotto il pugnale di Jack, nei suoi conciliaboli di maschietti con medici amici. Le Fanu ha in mente le condizioni dei relitti umani di un’Irlanda devastata dalla vampirica crisi della Grande Carestia, seguita dal tifo e dall’emorragia sociale di una impressionante emigrazione… E citare i vampiri dell’epoca AIDS è persino banale.

Postato mercoledì, 10 marzo 2010 alle 19:41 da Franco Pezzini


Forse la gola rappresenta il punto di confine tra la visione sensuale (e sessuale) e puramente fisica. E’ il confine oltre il quale si scende verso lidi proibiti, quelli che Stoker non citava, appunto. In questo ribadisco il mio plauso verso Le Fanu che nella sua Carmilla incarna un ibrido bisessuale (con espliciti riferimenti omo) molto audace per quegli anni.
Del resto la gola è ancora oggi un bersaglio molto ambito dagli amanti, specie quelli focosi: i cosiddetti (almeno dalle mie parti) “succhiotti” di cui vedo spesso ornato il collo dei miei figli, altro non è che una sorta di vampirizzazione, suzione, segno, simbolo di appartenenza. Il messaggio sembra essere “questo è territorio privato di caccia”. E sono prevalentemente le donne a infliggerlo. Come mi sembrano più audaci le vampire della letteratura rispetto ai colleghi maschi.

Postato mercoledì, 10 marzo 2010 alle 19:55 da Simonetta Santamaria


Su Vlad III ho parlato con diversi rumeni, di varie età: tutti mi hanno confermato che per il loro popolo Vlad è considerato un eroe nazionale. E’ stato uno spietato e feroce assassino ma solo per punire i nemici mentre, con il suo popolo e con i meritevoli, era un uomo giusto.
Narrano la vicenda che lui aveva messo sul pozzo della piazza una coppa d’oro e chiunque poteva berci. Notte e giorno, e nessuno osava rubarla. Perché sapevano di cosa era capace Vlad III. E se da un lato i rumeni sanno che la figura di Vlad porta loro turismo e soldi, dall’altra li infastidisce vederlo a volte ridicolizzato, ridotto a sì poca figura. Pochi conoscono la sua storia di condottiero, tutti lo conoscono come Il Vampiro.

Postato mercoledì, 10 marzo 2010 alle 20:04 da Simonetta Santamaria


[...] collegamento con il dibattito “Letteratura dei vampiri“, che Massimo Maugeri sta conducendo su Letteratitudine, presentiamo un brano estratto dal [...]

Postato mercoledì, 10 marzo 2010 alle 21:13 da Kataweb.it - Blog - TERZAPAGINA, articoli selezionati da magazine e pagine culturali dei quotidiani » Blog Archive » “Il diciottesimo vampiro” di Claudio Vergnani


@ Simonetta. Mah, Vlad III resta una figura molto complessa. Intendiamoci, sono convintissimo di quanto dici sulle risposte oggi offerte dalla gente, e posso capirle. Da un lato Vlad gode ancor oggi della grande campagna di promozione che ne ha condotto Ceaucescu, ma dall’altro rischia di restare avvilito da questa lettura ingessata, ufficiale, almeno quanto dalle confusioni col personaggio del romanzo. Le fonti storiche del resto discordano, una feroce campagna di stampa contro di lui è stata orchestrata quando ancora era vivo, ma lui stesso utilizzava la crudeltà anche a fini (diciamo così) mediatici e con pratiche oggettivamente agghiaccianti. Sicuramente aveva subito una serie di traumi spaventosi, e che fosse un po’ psicopatico in fondo non stupisce – tanto più in un’epoca in cui non si andava per il sottile. Un uomo di un coraggio terrificante, capace di arrivare a pochi metri dalla tenda del sultano nel bel mezzo dell’accampamento con un attacco che neanche Tom Cruise… ma che allo stesso tempo si barcamenava tra equilibri instabili fuori e (forse) anche dentro di lui. Sicuramente un personaggio di grandissimo fascino.

Postato mercoledì, 10 marzo 2010 alle 22:21 da Franco Pezzini


Eccomi di nuovo qui.
Vi ringrazio tutti per i nuovi interventi e per gli ulteriori contributi.

Postato giovedì, 11 marzo 2010 alle 00:10 da Massimo Maugeri


@ Gianfranco Manfredi
La vena ironica compete alla pari con quella vampirica :)
Per l’intervento di Sergio Alan Altieri temo che dovremo avere un po’ di pazienza (ma arriverà). Del resto non è facile immergersi in questo post dove si è già scritto così tanto…

Postato giovedì, 11 marzo 2010 alle 00:16 da Massimo Maugeri


@ Paolo De Crescenzo
Grazie di cuore, Paolo. :-) )
Anche io avevo avuto modo di interloquire con Loredana Lipperini e Sergio Altieri (con gli stessi riscontri che hai comunicato tu).
Ne approfittiamo per salutare Sergio e Loredana.

Postato giovedì, 11 marzo 2010 alle 00:18 da Massimo Maugeri


Tra i nuovi possibili interventi aspetto pure quello di Fabio Giovannini

Postato giovedì, 11 marzo 2010 alle 00:19 da Massimo Maugeri


Ne approfitto per ringraziare gli amici del blog Terzapagina per aver ospitato il brano estratto dal romanzo di Claudio Vergnani: “Il 18° vampiro”

Postato giovedì, 11 marzo 2010 alle 00:20 da Massimo Maugeri


IO Stamattina nn ho molto tempo per rispondere e per leggere tutto, ma volevo soltato dire a Laura Costantini di non fidarsi troppo dei commenti che hanno dato le ragazze che sono state amaliate da twilight, perchè ne meno loro sanno il perchè di tanto coinvolgimento e poi non hanno nemmeno capito il messaggio dell’autrice -.-
cmq ti ricordo solo che la maggior parte dei libri si fonda sull’amore ed ha storie simili a questa e pure solo twilight ha fatto il giro del mondo..
XD adesso devo andare a scuola
cmq io vorrei rispondere alle domande appena riesco a leggere tutto quello che c’è scritto su questa pagina (sulla discussione) e appena trovo un po’ di tempo tra un compito e un’altro XD.
by e scusa x questo mio commento inutile

Postato giovedì, 11 marzo 2010 alle 06:35 da Chiara


@ Franco Pezzini. Come sempre encomiabile il tuo intervento. Sinceramente, non mi ricordavo nemmeno dei canti vampirici, anche perché assai di rado rileggo le cose pubblicate. Le rileggo talmente tante volte prima di pubblicarle che poi la pubblicazione chiude il discorso. Ipotizzo di essermi basato su qualche tradizione, come sempre, però… dovrei andare a cercare gli appunti dell’epoca, frutto peraltro di esplorazioni alla Biblioteca Sormani! Riguardo a Varney. Forse tu puoi darmi un lume. Mi ha sempre incuriosito il nome… perché Varney non è certo un cognome abituale della tradizione anglosassone, tanto che io in Ultimi Vampiri l’ho fatto passare come un Principe Francese, con una voluta deviazione. Però di recente a San Francisco mi sono comprato un librone eccezionale , corposissimo saggio di Adrian Tinniswood sull’antica famiglia britannica dei Verneys (non è un refuso: Verney con la e). In testa al volume, una galleria assai vampirica di ritratti di famiglia. Questa importante famiglia ha attirato l’attenzione degli studiosi perché ha conservato nei secoli la sua corrispondenza, lasciandoci quindi una cronaca minuta degli stili di vita e della conversazione quotidiana dal 1600, fin quasi la metà del settecento. E poi, le vite incredibili dei membri della famiglia! Eroici combattenti morti sul campo di battaglia, bucanieri nei Mari del Sud, rivoluzionari, donne di doti inaudite sul piano dell’amministrazione dei beni (a loro affidata perché i maschi regolarmente delapidavano) , criminali, una donna fuggiasca per amore con un reverendo, un marito adultero al punto da far impazzire la moglie per la gelosia (ricoverata in allucinante manicomio) eccetera eccetera. Il sottotitolo del saggio è infatti: A True Story Of Love, War and Madness in Seventh Century England. Il saggio è uscito nel 2007 e credo si trovi anche in edizione economica nei Penguin. La corrispondenza dei Verney consta di circa 100.000 pagine! Non potevo non chiedermi se la scelta del nome Varney non fosse in qualche modo citazione occulta dei Verney.

Postato giovedì, 11 marzo 2010 alle 12:11 da Gianfranco Manfredi


Bonjour a tutti!
@ Chiara: nessun commento è mai inutile. Anzi, visto che sei una giovane studentessa mi (e credo ci) farebbe piacere ascoltare un parere fuori dal coro. Aspettiamo il tuo rientro da scuola, dunque!
In trepidante attesa di Segio Altieri e Fabio Giovannini…
Sto lavorando con mio figlio alla graphic novel del mio racconto pubblicato nell’antologia Questi Fantasmi: lui è la matita, io la penna. E siccome entro domenica dobbiamo consegnare tra poco mi strappo la giugulare…
Ribadisco il mio lato gradimento per la vena ironica nella letteratura. Lo stesso King usa spesso una sottile ironia nei suoi libri, anche nelle prefazioni.
Vlad III era di sicuro un personaggio di gran fascino, dotato di un’enorme forza eppure fragile nei sentimenti più profondi. Un senza cuore che credo sapesse di averne uno, solo che aveva deciso di seppellirlo molto, molto in fondo.
Mio figlio bercia: c’è un fantasma che mi aspetta. A dopo! :)

Postato giovedì, 11 marzo 2010 alle 12:13 da Simonetta Santamaria


Riguardo invece a Lilith, ai miti delle donne succhiasangue ecc. , il riferimento è più ovvio e cioè quanto scrive Jung (un po’ dappertutto nei suoi saggi) sul mito della Madre Divoratrice e in particolare su quello della Vagina Dentata. Non ho mai capito come mai i vampirologi non citino mai Jung (e i “mai” sono tre). E gli “artisti”… si può essere visionari anche senza aver studiato Jung, certo… però Fellini si proclamava junghiano. Quando lo diceva ai giornalisti, quelli prendevano nota, come di bizzarria o di vezzo d’autore. Non sapevano di cosa stesse parlando. Non bisogna dimenticare l’anti-psicanalismo della cultura accademica italiana prevalente e di tutti i filoni: quello cattolico, quello comunista e quello liberale. In pieno 68, alla Statale di Milano, il corso di psicanalisi che frequentai tra l’altro con il mio carissimo amico Romano Madera, era sui neurofisiologi del Settecento. Per poter studiare Freud (e Jung) dovemmo farci un corso autogestito e portammo quello all’esame… ma che lotta per poterlo fare!

Postato giovedì, 11 marzo 2010 alle 12:22 da Gianfranco Manfredi


in un precedente post Giacomo Tessani aveva fatto questa richiesta:
“nel folklore cinese i vampiri hanno la capacità di volare e di uccidere con il soffio, nutrendosi, anche a distanza, con il sangue.
Mi piacerebbe saperne di più sulla tradizione vampirica dell’Oriente del mondo. Non so se qualcuno ne sa qualcosa…”
………
spero che il seguente contributo possa essere utile
……..
Le terre denominate con l’evocativo Oriente hanno avuto un peso fondamentale nella definizione dei miti e delle leggende vampiriche (e non solo) di moda nel mondo moderno, soprattutto per gli aspetti mostruosi e orripilanti, caratteri distintivi dei vampiri d’Oriente.
Per quanto concerne la Cina in particolare, una delle credenze cinesi più diffuse riguarda la molteplicità dell’anima; si ritiene, infatti, come già nell’Antico Egitto, che ogni essere umano possegga più anime, ognuna delle quali con un differente destino. Una di queste si pensa resti nel cadavere: è il p’o, il livello più basso: se il corpo ospite non viene distrutto completamente e viene anzi a trovarsi esposto ai raggi della Luna, o se entra a contatto con il sangue di un qualche animale, l’essenza vitale del p’o si fortifica, dando origine al chiang-shi. Esso è uno spirito in grado di rianimare cadaveri o di costruirsi egli stesso un corpo partendo da materia putrescente e in decomposizione: ha gli occhi rossi, artigli affilati, una folta peluria e il colorito verdastro tipico dei cadaveri. Può volare, tramutarsi in nebbia, rendersi completamente invisibile. Per distruggerlo bisogna trovare il luogo del suo riposo diurno e dare fuoco al corpo marcescente.

Affiancato al chiang-shi c’è il kuei: questa razza di demoni viene generata dalle anime di coloro che in vita sono stati malvagi. Hanno la particolarità di muoversi sempre in linea retta, ma subitaneamente si voltano indietro non appena incontrano un ostacolo, anche semplice come un paravento di bambù.

Parte di questi miti ci sono giunti anche grazie al gran lavoro di ricerca di Jan Jacob Maria de Groot, trascritto nell’opera The Relìgious System of China: in questa sede, ad esempio, egli traduce il nome del chiang-shi letteralmente come corpo-spettro, riassumendo già nel nome l’essenza di questo mito.

In Tibet, infine, i vampiri sono rappresentati come terribili creature dagli occhi iniettati di sangue e con la bocca verde, divoratori di morti e padroni dei cimiteri.

Postato giovedì, 11 marzo 2010 alle 12:37 da piero


@ Piero : … occhi iniettati di sangue, bocca verde e padroni dei cimiteri ? Sicuro si tratti di vampiri tibetani ? Mi ricordano di più alcune giunte nostrane del sud …

Postato giovedì, 11 marzo 2010 alle 13:47 da claudio vergnani


Sempre sui vampiri cinesi: In Cina si ritiene che ogni essere umano possegga più anime, di cui una resta nel corpo delle persone morte. L’esposizione ai raggi lunari o il contatto con animali prima della sepoltura fortificherebbero quell’anima dando origine al jiang-shi, uno spirito in grado di rianimare altri cadaveri. Per ovvi motivi legati alla putrefazione, tali redivivi cadaveri, oltre ai classici segni della decomposizione delle carni, hanno serie difficoltà nei movimenti, quindi sono più simili a zombi che ai classici vampiri. Ma ecco che ancora una volta il sangue diventa fluido portatore di vita, anche per un corpo marcescente. Nel malaugurato caso in cui questo accada, per distruggere il jiang-shi bisogna andare di giorno sulla sua tomba e dare fuoco al cadavere che lo ospita. Ho citato la luna: infatti, secondo la visione orientale dei vampiri, essi traggono la più grande energia dalla sua luce, quindi è nelle notti di plenilunio che si può verificare il maggior numero di efferati attacchi vampirici.

Postato giovedì, 11 marzo 2010 alle 14:14 da Simonetta Santamaria


IL VAMPIRO E LO ZOMBIE

Oggi mi attende una dura sessione di lavoro, dunque questo è il mio ultimo post della giornata. Da questo forum sono nate corrispondenze private. Ho ricevuto, come già detto, mail e messaggi da persone che seguono il forum ma non vogliono intervenire pubblicamente, per motivi di riservatezza o di timidezza rispettabilissimi. Questo mi ha sollevato, perché a tratti, nonostante Massimo mi avesse assicurato che questo forum è molto seguito, ho temuto che la discussione avvenisse tra noi (entreneuse, come dicono i francesi) e che i lettori potessero considerarsi pure ruote di scorta (escort, come si dice da noi) . Rispettando la privacy, non posso però fare a meno di citare un’osservazione che mi è stata inviata da una lettrice via mail, lettrice che suppongo non giovanissima, perché ha citato un mio LP del 1977/78 intitolato Zombie di tutto il mondo Unitevi. In seguito al mio rilievo sul romanzo Abel di Claudia Salvatori appena pubblicato nella collana Epix diretta da Altieri, la lettrice mi ha anche ricordato il personaggio chiamato Zombie del noir di Nicoletta Vallorani “Buonanotte, e ciao”. Se non ho capito male, la lettrice sostiene che quando nella conversazione quotidiana si dà a qualcuno dello zombie o si soprannomina un amico Zombie, tutti capiscono cosa vuol dire. Se invece si esce dalla metafora quotidiana, e si affronta il mito dello Zombie, le cose si fanno estremamente complicate e spesso non si capisce di cosa si stia parlando. Mi è venuto di conseguenza in mente che se invece nella conversazione quotidiana si dice che quel tipo è “un vampiro” , il significato non è altrettanto trasparente. Si vuol dire che sfrutta il prossimo? Che è un vecchio assetato di potere? Che è un nottambulo? Che ha la pressione bassa? Insomma, pare affacciarsi un’ipotesi: che il vampiro resti molto più legato all’immaginario letterario di quanto non sia diventato lo zombie figura trasmigrata quasi direttamente dal folklore al cinema con rari passaggi letterari intermedi e oggi più legata di quanto non sia il vampiro al quotidiano. E’ cioè come se il vampiro appartenesse ancora al mondo onirico, mentre lo zombie possiamo riconoscerlo a vista per strada e delle sue radici mitiche e simboliche non ce ne fregasse niente. Se Nicoletta Vallorani è all’ascolto, gradirei sapere cosa ne pensa.

Postato giovedì, 11 marzo 2010 alle 14:28 da Gianfranco Manfredi


Gianfranco: credo che molto semplicemente tutto dipenda dal fatto che la figura dello zombie – così come ci è stata presentata da cinema (essenzialmente) e letteratura di massa (poco, per ora) è piuttosto monodimensionale, ancorchè (almeno per me) affascinante. Lo zombie non ha molti grilli per la testa. Ti aggredisce per divorarti. Fine. L’occhio non rimanda alcun bagliore passionale, ma anzi è vitreo, e l’odore che emana imbarazzante. Si presenta in branco,e in ogni caso non spicca per personalità (a volte si produce in una corsetta astiosa, ma poi è finita lì). Mettici anche che si muove come un lobotomizzato (di qui il senso comune) e, se proprio va grassa, come in uno dei tanti film epigoni di Romero, spiccica qualche concetto elementare, come “Fameeee!” o “Dolooore.”. Oggigiorno, qui da noi in Italia, se qualcuno si prendesse la briga di infilargli una giacca, potrebbe fondare un partito politico.
Il vampiro, invece – e come questo dibattito ha sottolineato – sfugge ad una facile definizione, essendo infinitamente più sfaccettato. Non c’è gara.

Postato giovedì, 11 marzo 2010 alle 19:45 da claudio vergnani


Eccomi qui. Gianfranco in effetti mi ha scritto. Non conoscevo questo blog, e sono un po’ un disastro non tanto nel fare queste cose, quanto nel seguirle. Perciò non potrò che fornire un parere disinfomato e approssimato. Parola di scrittrice, appunto, e una di quelle scrittrici che rispettano i loro personaggi come fossero figli, nati per andarsene per la loro strada. Zombie e il suo nome sono nati senza troppi ragionamenti. Doveva essere così, semplicemente. Evocava incontri e profili davvero conosciuti, che si sono fatti scrittura. Dunque, questo per dirvi che nel personaggio in sè, che risale appunto a Dentro la notte, e ciao (e non è un problema, gianfranco, se tir icordavi male il titolo ;-) , non c’è alcun riferimento consapevole e nessuna scelta tra lo zombie e il vampiro. Penso tuttavia che il vostro dibattito abbia un senso profondo, che è culturale e come tale legato a fasi e atmosfere che hanno a che fare col mondo in cui viviamo. GLi zombie non sono più di moda dal video di Michael jackson. Non evocano più molto (e a mio parere torneranno, tra breve, a illustrare un rapporto con la morte che si sta facendo, nel reale, sempre più complicato). I vampiri hanno grande fortuna. Specie tra gli adolescenti, che si riconoscono in questa ibridità in qualche modo nobile e lì proiettano quest’età strana, di transito, in cui non si è nè carne nè pesce. Sono la differenza vincente, là dove, appunto, gli zombie puzzano anche un po’. Ed è difficile farli belli. Ecco qui. Non sono sicura che siano cose molto intelligenti da dire, ma questo è. Un abbraccio :-) nix

Postato giovedì, 11 marzo 2010 alle 20:52 da nicoletta


@ Nicoletta: per quel che mi riguarda lo zombie è la creatura che più mi ha provocato brividi. Mi spiego. I vampiri non mi hanno mai turbato (dove per turbamento intendo qui un senso di viva angoscia), i morti viventi sì. O almeno quelli di Romero (e di conseguenza quelli di Dawn of the dead). Il cadavere che ritorna affamato di carne vivente è qualcosa di profondamente orribile, e va a toccare un tabù – quello della morte corporea – che è il più grande di tutti. Non conoscevo il tuo libro, ma colmerò presto questa lacuna.

Postato giovedì, 11 marzo 2010 alle 21:40 da claudio vergnani


Errata corrige: nel mio messaggio di ieri, mi accorgo di aver accennato nella fretta alle “giovani prone di Füssli”: ovviamente non “prone” ma “riverse”…

Postato giovedì, 11 marzo 2010 alle 22:28 da Franco Pezzini


@ Gianfranco. Sul nome di Varney, la suggestione che proponi è legittima e intrigante. In realtà c’è anche una famiglia Varney abbastanza famosa in Inghilterra (e arrivata fino in America), ma come ci dicevamo in queste faccende il meccanismo è sempre “e… e…”. Tra l’altro potrebbe esserci proprio un’origine francese… come quella del tuo principe! Non so però se qualcuno si sia mai posto la questione con ricerche mirate. Mentre, a posteriori, si può pensare che la Varna sul Mar Nero tanto importante nella storia di Dracula rappresenti anche un ammiccamento sotto traccia a questo “zio” illustre…
Sulla “dimenticanza” di Jung da parte dei vampirologi, credo si spieghi col fatto che abbastanza di rado ci si è occupati di vampire. In generale, i trattati sul vampiro affrontano la sua controparte femminile più come un’appendice che come un soggetto degno di studi autonomi. Forzatamente autonomi, perché se il vampiro maschio è molto più fortemente influenzato dagli sterotipi pseudostokeriani (fluiti cioè dall’irrigidimento cinematografico del canone di Stoker) le vampire hanno mantenuto l’imbarazzante parentela con creature altre, spettrali e demoniache – ma per altri versi divine – i cui miti mal si prestano a un rigido asservimento alla vulgata. Quando me ne sono occupato, ho trovato una bibliografia molto frantumata, e non “vampirologica” nel senso più ovvio del termine. Per trattare di vampire, occorre analizzare i rapporti con Gorgoni e donne-uccello neolitiche, spauracchi dei bambini e seduttrici su tutti (per così dire) gli stati della materia – dagli spettri a donne in carne e ossa demonizzate…

Postato giovedì, 11 marzo 2010 alle 22:29 da Franco Pezzini


Sugli zombie mi ritrovo sostanzialmente con quanto detto da Claudio. E aggiungerei che un altro elemento banalizza in metafora “facile” la nostra immagine di zombie: il fatto che la complicatissima cultura nel cui ambito trova la più compiuta definizione – il sincretismo Vudu – ci resta molto più inafferrabile dei remoti Carpazi o del remoto (in altro senso) mondo antico europeo. È vero che cadaveri viventi sono registrati in tradizioni diverse, ma è dall’immaginario Vudu – sia pure semplificato per il grande schermo – che lo zombie arriva nell’immaginario contemporaneo. Per perdere poi anche il retroterra etnico e restare sempre più povero, sempre più immagine di una forza-lavoro schiavizzata e senza coscienza. “Magia rossa”, coi suoi spettri zombeschi, resta abbastanza un unicum nella produzione letteraria europea del Fantastico. (E a questo punto chi legge dedurrà che sono pagato da Gianfranco…)

Postato giovedì, 11 marzo 2010 alle 22:30 da Franco Pezzini


Per inciso, nell’horror contemporaneo l’immagine dello zombie tende a confondersi (in modo un po’ inquietante) con quella di vittime vive ma abbrutite di morbi di laboratorio, inquinamento o altre amenità – accomunati da una ribellione cieca e distruttiva. Certo, dopo Romero gli zombie stanno al cinema come gli scheletri dei Trionfi della Morte a certa arte dell’inquietudine tardomedioevale: un’ondata di non-soggetti che sorge a divorare i vivi (una prospettiva temuta, peraltro, già in testi sumeri) e ne divora anzitutto i ricordi attraverso l’incontro con cari estinti zombizzati. Ma, se arrivano “i nostri”, gli zombie sono poi eliminati a grandi numeri, scomponendosi magari in pezzi (la testa, un braccio…) sotto i colpi degli eroi come l’uomo della canzone di Gaber. Al brivido si accompagna dunque, mi pare, un senso di acuta desolazione.

Postato giovedì, 11 marzo 2010 alle 22:56 da Franco Pezzini


Ciao Nicoletta e grazie del tuo intervento!! A me capita spesso di sentirmi chiamare Nicoletta: anche qui, all’inizio dei post Massimo mi chiama Nicoletta… ;)
Sugli Zombi (o zombie, all’americana) devo dire che anch’io li trovo interessanti personaggi. Mi inquietano di più dei vampiri, forse perché il vampiro rappresenta un po’ quello che potremmo voler essere, mentre lo zombi incarna ciò che NON vorremmo mai diventare dopo la morte. E’ la coscienza di quello che saremo e oggettivamente non piace a nessuno l’idea. Purtroppo, anche se non ci alzeremo dalla tomba in cerca di cervelli da sbranare, quello sarà uno dei tanti step che la decomposizione imporrà al nostro corpo.
Personalmente ho scritto (da un’idea di Giuseppe Cozzolino) proprio un bel (lo dico perché mi piace proprio assai) racconto sugli zombi pubblicato su M-Rivista del mistero. Il progetto è quello di ampliarlo e farne un bel romanzo ambientato in tempi…(e qui non aggiungo altro per non rovinare il racconto). Ecco, il soggetto zombi stuzzica di più la mia fantasia rispetto al vampiro (ecco perché sulle creature della notte ho preferito scrivere un saggio). Sarà pure meno inflazionato, sarà il lato orrido della morte ma sì, o trovo un personaggio davvero interessante.

Postato giovedì, 11 marzo 2010 alle 23:08 da Simonetta Santamaria


@ Gianfranco: ma che bello il tuo video su Ho freddo che ho visto sul sito della Gargoyle! Che belle atmosfere… La storia delle pietre attraverso cui il vento passa mi ha ricordato quella della mia “montagna che respira” descritta in Dove il silenzio muore. A Providence non ci sono stata ma ho fatto un lungo giro nel bellissimo New England (non potevo mancare Salem) che m’è rimasto nel cuore.
E, a proposito di libri, video e booktrailer: perchè non postare qui i nostri, così per dare un’idea di cosa parliamo? Anche questa è comuncazione.
Il mio booktrailer di VAMPIRI – DA DRACULA A TWILIGHT è qui:
http://www.youtube.com/watch?v=g52j-zQKOCI
Buona visione!

Postato giovedì, 11 marzo 2010 alle 23:22 da Simonetta Santamaria


@ Franco: Occhio a parlare di sincretismo. Magari tra chi legge c’è qualche Templare o Rosacrociano silenzioso che potrebbe pensare che sai di più di quel che dici (tipo Pendolo di Focault) :)
Sugli Zombie in effetti a me per prima cosa vengono in mente i film di Romero, mentre dei culti vudù so quel poco che sanno tutti (Baron Samedi, crocicchi, galli neri sgozzati e compagnia bella). Ovverosia niente. Il che ovviamente è un peccato. Una cosa che mi disturba nei film è che i protagonisti di turno sembrano essere vissuti in un mondo dove – appunto – non è mai stato girato un film sui morti viventi. Mai una volta uno che vedendo un cadavere che lo ricorre dica: “Toh! Uno zombie.”
Non ricordo commistioni tra figure horror come vampiri e zombie. Forse nei film di A>bbott e Costello, ma ho qualche dubbio … Ah! I bei tempi di Maciste contro Dracula!

Postato giovedì, 11 marzo 2010 alle 23:38 da claudio vergnani


Forse non è pertinente ma rileggendo l’ultimo commento- eh ragazzi starvi dietro è veramente impossibile,fa crescere i canini….-mi avete fatto venire in mente una storia meravilgiosa che parla in modo originale di un morto che ritorna,per amore,invocato,ma a dar fastidio,una storia che ho molto amato “Dona Flor e i suoi due mariti”di J.Amado.I morti possono tornare per mille ragioni,Vadihno che torna ad infastidire la sua donna mentre fa l’amore con il nuovo marito e lei divisa fra il nuovo e lo spirito del vecchio amore.Insomma esistono tanti modi per raccontare storie di morti che ritornano e di riti magici ma questa è per me una delle più belle.
complimenti a tutti gli esperti vampirologi per l’ampia discussione,siete da leggere come una “Vampikedia”. :-)
buonanotte

Postato giovedì, 11 marzo 2010 alle 23:55 da francesca giulia


E sì, Francesca Giulia: il termine “vampikedia” mi pare proprio azzeccato! :-) )

Postato venerdì, 12 marzo 2010 alle 00:30 da Massimo Maugeri


E ovviamente grazie a tutti per i nuovi interventi e per le ulteriori e interessanti finestre aperte.
Questo non-post non ne vuole proprio sapere di rientrare nella cripta. ;)

Postato venerdì, 12 marzo 2010 alle 00:32 da Massimo Maugeri


@ Simonetta
Hai ragione… in uno dei commenti mi sono rivolto a te chiamandoti Nicoletta Santamaria (e usando pure il grassetto). Chiedo venia… anzi, per rimanere in tema: chiedo vena! :)
-
P.s. Se ti può consolare il sottoscritto viene spesso chiamato Maurizio (anziché Massimo).

Postato venerdì, 12 marzo 2010 alle 00:35 da Massimo Maugeri


Un caldo e sanguigno saluto di benvenuto a Nicoletta Vallorani.
Grazie per essere qui con noi, Nicoletta.
Qualche info su di te, a beneficio di chi ci legge:
http://www.nicolettavallorani.com/
http://www.thrillermagazine.it/rubriche/2540/
-
E segnaliamo questi due nuovi nati particolare:
http://www.ibs.it/code/9788884519689/vallorani-nicoletta/come-una-balena.html
http://www.ibs.it/code/9788883723926/vallorani-nicoletta/muore-bambini.html

Postato venerdì, 12 marzo 2010 alle 00:41 da Massimo Maugeri


@ Gianfranco
Scrivi: “Da questo forum sono nate corrispondenze private. Ho ricevuto, come già detto, mail e messaggi da persone che seguono il forum ma non vogliono intervenire pubblicamente, per motivi di riservatezza o di timidezza rispettabilissimi. Questo mi ha sollevato, perché a tratti, nonostante Massimo mi avesse assicurato che questo forum è molto seguito…
-
Sì, Gianfranco. Te lo confermo. La percentuale di chi interviene è bassissima rispetto a chi legge senza intervenire.

Postato venerdì, 12 marzo 2010 alle 00:44 da Massimo Maugeri


So che attendete l’interventodi Sergio Alan Altieri.
Sergio mi ha riscritto oggi:
Caro Massimo,
sei d’accordo, cerco di fare un’analisi dal punto di vista editoriale delle tendenze attuali del genere: rivisitazione del vittoria, biochimico-epidemico, love story hybrid etc.
Se la cosa ti appizza, ti preparo diciamo 10/12000 battute per la fine di questo mese.
A suivre,
Serg


Insomma, ho l’impressione che Sergio Altieri ci regalerà un intervento memorabile.
E noi lo aspetteremo. ;-) )

Postato venerdì, 12 marzo 2010 alle 00:47 da Massimo Maugeri


Cari amici “vampirici”,
su quest’altro post sto proponendo un dibattito sulla “alimentazione” e sull’alimentarsi di carne (animale). Il tutto partendo dal recente libro pubblicato da Foer “Se niente importa, perchè mangiamo gli animali?”.
Questo il link:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/03/11/se-niente-importa-perche-mangiamo-gli-animali/
Perché non fate un salto pure voi a dire la vostra?
-
Vi lancio una provocazione…
I vampiri si nutrono di sangue umano a discapito dei malcapitati, gli essere umani si nutrono di carne animale.
Può avere senso questa relazione?
Il vampiro sta all’uomo, come l’uomo sta all’animale.

Postato venerdì, 12 marzo 2010 alle 01:06 da Massimo Maugeri


Sugli zombi. Anzitutto mi scuso con Nicoletta per aver citato male il titolo del suo romanzo , sono andato a memoria, anche citando la lettera che ho ricevuto. Se la mittente mi riscrive vi farò sapere se sono stato fedele o no al suo pensiero. Un altro lettore mi ha scritto che lui non interviene mai nei forum col suo nome perché li segue in orario d’ufficio e dunque non vuol lasciare traccia. Prometto di non girare la sua mail a Brunetta. Comunque, tornando agli zombi. C’è un fatto molto significativo da Romero in poi. Lo stile prevalente dei film di zombi è documentaristico. Il film di Romero ha per molti versi anticipato il digitale. In un film di stile documentaristico la fisicità conta più delle luci. Un film di vampiri in digitale farebbe ridere temo. Qualcuno ne ho visto (per esempio il desolante Jesus Christ Vampire Hunter) e mi sono rafforzato in questa convinzione. I vampiri richiedono un apparato cinematografico più classico. Il cinema vampirico, non dimentichiamolo, è nato non alto, ma altissimo, con Dreyer e Murnau . Il vampiro è estetica pura. Lo zombi è (controculturalmente) povero e antiestetico. Il vampiro è figurazione dell’altro che diventa noi possedendoci. Gli zombi siamo noi che ci autodivoriamo visceralmente, senza alcun contatto spirituale, carne che si fagocita, totale miseria incarnata e de-individualizzata. Mai visti i reportage dell’annuale Marcia degli Zombi che inscenano gli studenti di Sydney Australia? Si truccano da zombie e attraversano la città. Ah, quanto sarebbero più forti le manifestazioni politiche e sociali da noi se si scendesse in piazza senza bandiere di partito, ma truccati da zombie! Dubito che lo Zombi possa mai essere un vero protagonista letterario, a meno di non alterarne la figura (come fa la Salvatori) oppure di considerarlo pura metafora, un soprannome-identificazione (come fa la Vallorani). Lo zombie del mito non ha pensiero. E questo esclude qualsiasi possibilità di discorso interiore dello zombie. Non scrive e questo esclude la possibilità della prima persona anche in veste “diaristica”. Non ha memoria se non istintuale, fondata sulla coazione a ripetere. Nemmeno legge perché i suoi bisogni sono assai più elementari: fare massa e mangiare junk food. Il vampiro ci parla della reviviscenza del Passato, lo Zombie si coniuga al presente-futuro, ma è al di qua e al di là della lingua. La sua unica lingua é il linguaggio del corpo. E trattasi di corpo putrescente. E per venire alla domanda di Massimo. Il vampiro (nel senso del pipistrello) si nutre di sangue animale, lo zombie non divora gli animali perché riconosce solo l’identico. Occhio dunque ai vegetariani cannibali!

Postato venerdì, 12 marzo 2010 alle 09:37 da Gianfranco Manfredi


Un’ultima piccola cosa riguardo al Mito della Madre Divoratrice (Medea e le altre). Si collega direttamente al vampirismo in quanto ossimoro. Unisce in sé, infatti, la figura di Nutrice e quello di Cannibale dei propri figli. Tutti i miti vampirici ci illuminano sulla compresenza dei contrari nell’uno. Da questo punto di vista i vampiri sono Critica incarnata. Non si può affermare una cosa senza visualizzare il suo contrario. Il mito ha anticipato la filosofia quantistica: lo stesso oggetto può transitare contemporaneamente da due punti opposti. Si smentisce il principio Aristotelico di non-contraddizione. Si stabilisce l’eternità della contraddizione. Il mondo è sempre Tutto e il Contrario di Tutto. Ed è questo il motore della sua eterna reviviscenza.

Postato venerdì, 12 marzo 2010 alle 09:48 da Gianfranco Manfredi


@Gianfranco e @Franco, che citano molto giustamente Jung, inserisco qui un brabo da un mio intervento fatto ad Autunno Nero di tre anni fa. Non sono riuscito a seguire tutto il post per motivi di lavoro e quindi mi scuso se scriverò cose che altri hanno già detto, ma mi pareva n contributo interessante, in attesa dell’analisi di Sergio.
Ecco il brano:

Renfield è un personaggio del romanzo Dracula, indiscusso capolavoro di uno scrittore irlandese –Bram Stoker- per altri versi mediocre. In Dracula, in effetti, Stoker attinge in qualche modo al mondo degli archetipi e ci presenta una delle immagini archetipiche più folgoranti del Male. Il Vampiro. Di Dracula, principe transilvano, Renfield vorrebbe essere un famulus, un servo, ed in questo modo accostarsi alla luce oscura del Male. È un personaggio singolare, complesso, un personaggio –direbbero gli psichiatri attuali- borderline, di confine, e, in effetti, è rinchiuso nel manicomio dove lavora il dr. John Seward. Renfield è una sorta di guardiano della soglia tra la follia e il Male: rappresenta quello snodo tra i due aspetti centrali di tanta letteratura fantastica. Cito direttamente dal romanzo di Stoker:

R. M. Renfield, anni 59. Temperamento sanguigno, grande forza psichica, morbosamente eccitabile, con periodi di cupezza che confluiscono in qualche idea fissa da cui non riesco a distoglierlo. Presumo che il temperamento sanguigno e l’effetto disturbante possano dare origine a un uomo probabilmente pericoloso se generoso. Negli uomini egoisti, la prudenza è una sicura difesa per loro stessi e i loro rivali. Quel che penso a questo proposito è che quando l’Io è il punto centrale, la forza centripeta è bilanciata dalla centrifuga. Quando il dovere, o un ideale, ecc. sono il punto fisso, la forza centrifuga prevale e solo dei fatti incidentali possono bilanciarla. (Sanguine temperament, great physical strength, morbidly excitable, periods of gloom, ending in some fixed idea which I cannot make out. I presume that the sanguine temperament itself and the disturbing influence end in a mentally-accomplished finish, a possibly dangerous man, probably dangerous if unselfish. In selfish men, caution is as secure an armour for their foes as for themselves. What I think of on this point is, when self is the fixed point the centripetal force is balanced with the centrifugal. When duty, a cause, etc., is the fixed point, the latter force is paramount, and only accident of a series of accidents can balance it.) – From Dr. John Seward’s journal

Renfield dunque è un folle: non è un vampiro, ma desidera diventarlo. Il suo desiderio è talmente forte da farlo diventare un personaggio paradigmatico. Lo psichiatra Richard Noll (di formazione junghiana) definirà infatti con il suo nome una particolare sindrome, di tipo psicotico (entriamo dunque nei territori della follia propriamente detta), caratterizzata da dal bisogno dell’assunzione orale di sangue.
La sindrome di Renfield insorgerebbe in epoca infantile e presenterebbe un carattere evolutivo, con tre distinti stadi: 1. lesioni autoinferte, provocandosi ferite, al fine di succhiare il proprio sangue; 2. zoofagia, con l’assunzione del sangue animale; 3. desiderio di bere sangue umano, di un’altra persona, che può condurre ad atti di violenza, fino all’omicidio. La sindrome sarebbe di frequente associata con aspetti di sessualità deviata.
Non è difficile ravvisare nell’emofagia (o meglio emodipsia), come si potrebbe definire il vampirismo, delle forti valenze antropologiche: il cibarsi di organi del nemico dà al guerriero la forza, il coraggio, il mana del nemico stesso; può anche condurre alla morte, come nel caso del kuru, malattia presente in Nuova Guinea, legata al consumo di parti del corpo di nemici uccisi, soprattutto il cervello. Certo non a caso si desidera cibarsi di sangue: il “sugo della vita”, come lo definì Camporesi, o anche la parte di Dio, come nell’antico testamento (né sangue né sperma vanno versati invano, proprio perché essi sono proprietà di Dio).

Alessandro Defilippi

Postato venerdì, 12 marzo 2010 alle 09:49 da Anonimo


Mi scuso e reinvio il post, apparso come anonimo

@Gianfranco e @Franco, che citano molto giustamente Jung, inserisco qui un brabo da un mio intervento fatto ad Autunno Nero di tre anni fa. Non sono riuscito a seguire tutto il post per motivi di lavoro e quindi mi scuso se scriverò cose che altri hanno già detto, ma mi pareva n contributo interessante, in attesa dell’analisi di Sergio.
Ecco il brano:

Renfield è un personaggio del romanzo Dracula, indiscusso capolavoro di uno scrittore irlandese –Bram Stoker- per altri versi mediocre. In Dracula, in effetti, Stoker attinge in qualche modo al mondo degli archetipi e ci presenta una delle immagini archetipiche più folgoranti del Male. Il Vampiro. Di Dracula, principe transilvano, Renfield vorrebbe essere un famulus, un servo, ed in questo modo accostarsi alla luce oscura del Male. È un personaggio singolare, complesso, un personaggio –direbbero gli psichiatri attuali- borderline, di confine, e, in effetti, è rinchiuso nel manicomio dove lavora il dr. John Seward. Renfield è una sorta di guardiano della soglia tra la follia e il Male: rappresenta quello snodo tra i due aspetti centrali di tanta letteratura fantastica. Cito direttamente dal romanzo di Stoker:

R. M. Renfield, anni 59. Temperamento sanguigno, grande forza psichica, morbosamente eccitabile, con periodi di cupezza che confluiscono in qualche idea fissa da cui non riesco a distoglierlo. Presumo che il temperamento sanguigno e l’effetto disturbante possano dare origine a un uomo probabilmente pericoloso se generoso. Negli uomini egoisti, la prudenza è una sicura difesa per loro stessi e i loro rivali. Quel che penso a questo proposito è che quando l’Io è il punto centrale, la forza centripeta è bilanciata dalla centrifuga. Quando il dovere, o un ideale, ecc. sono il punto fisso, la forza centrifuga prevale e solo dei fatti incidentali possono bilanciarla. (Sanguine temperament, great physical strength, morbidly excitable, periods of gloom, ending in some fixed idea which I cannot make out. I presume that the sanguine temperament itself and the disturbing influence end in a mentally-accomplished finish, a possibly dangerous man, probably dangerous if unselfish. In selfish men, caution is as secure an armour for their foes as for themselves. What I think of on this point is, when self is the fixed point the centripetal force is balanced with the centrifugal. When duty, a cause, etc., is the fixed point, the latter force is paramount, and only accident of a series of accidents can balance it.) – From Dr. John Seward’s journal

Renfield dunque è un folle: non è un vampiro, ma desidera diventarlo. Il suo desiderio è talmente forte da farlo diventare un personaggio paradigmatico. Lo psichiatra Richard Noll (di formazione junghiana) definirà infatti con il suo nome una particolare sindrome, di tipo psicotico (entriamo dunque nei territori della follia propriamente detta), caratterizzata da dal bisogno dell’assunzione orale di sangue.
La sindrome di Renfield insorgerebbe in epoca infantile e presenterebbe un carattere evolutivo, con tre distinti stadi: 1. lesioni autoinferte, provocandosi ferite, al fine di succhiare il proprio sangue; 2. zoofagia, con l’assunzione del sangue animale; 3. desiderio di bere sangue umano, di un’altra persona, che può condurre ad atti di violenza, fino all’omicidio. La sindrome sarebbe di frequente associata con aspetti di sessualità deviata.
Non è difficile ravvisare nell’emofagia (o meglio emodipsia), come si potrebbe definire il vampirismo, delle forti valenze antropologiche: il cibarsi di organi del nemico dà al guerriero la forza, il coraggio, il mana del nemico stesso; può anche condurre alla morte, come nel caso del kuru, malattia presente in Nuova Guinea, legata al consumo di parti del corpo di nemici uccisi, soprattutto il cervello. Certo non a caso si desidera cibarsi di sangue: il “sugo della vita”, come lo definì Camporesi, o anche la parte di Dio, come nell’antico testamento (né sangue né sperma vanno versati invano, proprio perché essi sono proprietà di Dio).

Alessandro Defilippi

Postato venerdì, 12 marzo 2010 alle 09:54 da Alessandro Defilippi


@ De Filippi. Molto interessante e bizzarro (non me me ricordavo) l’idea della generosità legata alla follia e dell’egoismo legato all’equilibrio dell’Io.
Seward … chissà come l’avrebbe giudicato Foucault. Gli indiani lakota hanno questo proverbio: “per trovare se stessi, bisogna indossare i mocassini di un altro”. In altri termini, l’identità è fuori di noi, è nell’uscire da noi. Il loro percorso spirituale è un cerchio lungo il quale si cammina. Al principio del cammino si osserva chi sta dalla parte opposta del cerchio, cioè il nostro contrario, e poi si cammina in cerchio attraversando tutti i punti che conducono gradualmente a quella posizione. Il cammino della completezza passa dalla nostra capacità di accogliere il punto di vista dell’altro, cioè dal saper essere Contrari . Il Contrario è una figura centrale nelle pratiche sciamaniche native. L’officiante celebra un rito religioso. A conclusione del rito, il Contrario della tribù, ne fa una feroce, violenta parodia ( una delle pratiche è ad esempio il simulare accoppiamenti con gli animali). Ora: una religione che accoglie in sé il sentimento del contrario, invece di tutelare il “patrimonio sacro” nella sua inaccessibile Arca, è tra l’altro, incomparabilmente più “democratica”. L’egotismo , come i nostri tempi dimostrano ampiamente, è una gravissima malattia dello spirito. L’uscire da sé , l’essere “fuori di sé”, come attributo del “matto” è invece, se vissuto come percorso di crescita, l’unica possibile sanità.

Postato venerdì, 12 marzo 2010 alle 11:40 da Gianfranco Manfredi


Nella teoria psichiatrica di Seward emerge una significativa corrispondenza con l’idea di cui scrisse Mandeville nella Favola delle Api e ripresa poi da Smith secondo cui perseguendo i propri interessi (nell’ambito dell’Economia) si fanno gli interessi sociali. E’ cioè pura psichiatria capitalistica. Questo, credo, penserebbe Foucault del dr. Seward.

Postato venerdì, 12 marzo 2010 alle 11:46 da Gianfranco Manfredi


A questo punto, propongo di ufficializzare il Collettivo Renfield. Non si accettano iscrizioni perché la “visione” non richiede pratiche burocratiche da espletare. Nel periodo della Rivoluzione Francese e del Terrore si diffuse in Francia la cosiddetta Controrivoluzione delle Sonnambule. Le Sonnambule, cioè pitonesse che cadevano in trance, collegate al movimento di Mesmer, avevano annunciato la Rivoluzione profetizzando la condanna a morte della Famiglia Reale. Tutti i leadear rivoluzionari accorsero alla loro corte, da Marat a Robespierre fino a Napoleone. Solo che poi avvenne questo: Charlotte Corday, la terrorista assassina di Marat, era cugina della più famosa delle profetesse, Mademoiselle Marie-Anne Lenormand. La stessa Marie-Anne profetizzò (dal carcere) che Robespierre sarebbe finito sulla ghigliottina come il Re, e così fu. Le Sonnambule rivoluzionarie divennero così emblema della Controrivoluzione . Si sosteneva, da parte di ex-mesmeristi diventati funzionari di Stato, che esse potessero comunicare telepaticamente tra loro e causare con le loro visioni, sollevazioni popolari. Dopo averle in parte ammorbidite e in parte represse, cosa ne fu di loro? Uccise dalla Celebrazione Ufficiale. Avete fatto caso che il Simbolo della Rivoluzione, istoriato nel celebre quadro di Delacroix, è la Marianne? Del nome si sono date molte interpretazioni esoteriche, senza badare al riferimento più elementare: la regina delle Sonnambule Marie-Anne Lenormand! Si cerca da sempre di istituzionalizzare la “visione”, la la visione, che è “essere fuori di sé” non si lascia mai irretire.

Postato venerdì, 12 marzo 2010 alle 12:01 da Gianfranco Manfredi


la la visione è un refuso, ma è bello, richiama la psico-lalia.

Postato venerdì, 12 marzo 2010 alle 12:07 da Gianfranco Manfredi


@ Francesca Giulia. Bellissimo il tuo riferimento a Dona Flor! Quanti morti reviviscenti popolano le pagine dei classici della letteratura? Che ne dici del marito morto annegato di Teresa Raquin che si materializza nel letto dei due amanti omicidi? Di relativamente recente, ricordo il romanzo Magdalena Peccatrice, di un’autrice austriaca di cui adesso non mi sovviene il nome, che è una cronaca di incontri sessuali e amorosi con uomini di varia natura, tra i quali un vampiro. Il vampiro, come figura, va ben al di là del genere horror.

Postato venerdì, 12 marzo 2010 alle 12:20 da Gianfranco Manfredi


Prima di rientrare nei turni lavorativi, vi faccio l’omaggio di questo brano da Teresa Raquin di Zola:

Quando i due assassini erano distesi sotto le stesse lenzuola e chiudevano gli occhi, credevano di sentire il corpo umido della loro vittima, coricato in mezzo al letto, che raggelava la loro carne. Era come un ostacolo ignobile che li separava. La febbre, il delirio li prendeva, e quell’ostacolo diventava per loro materiale; toccavano il corpo, lo vedevano disteso, simile a un brandello verdastro e disgregato, respiravano l’odore infetto di quel mucchio di marciume umano; tutti i loro sensi si allucinavano, dando alle loro sensazioni un acume intollerabile. La presenza di quell’immondo compagno di letto li teneva immobili, silenziosi, sconvolti dall’angoscia. (…) I due si strinsero in un amplesso orribile. Il dolore e lo spavento vi sostituirono i desideri. Quando le loro membra si toccarono, credettero di essere precipitati in un braciere Lanciarono un grido e si strinsero ancora di più per non lasciar posto all’annegato tra la loro carne. Ma avvertivano sempre brandelli di Camille, schiacciato ignobilmente in mezzo a loro, raggelare certe parti della loro pelle, mentre il resto del corpo bruciava. I loro baci furono spaventosamente violenti. Teresa cercò con le labbra il morso di Camille sul collo gonfio e rigido di Laurent e ci incollò impetuosamente la propria bocca.

Postato venerdì, 12 marzo 2010 alle 12:45 da Gianfranco Manfredi


Alcuni critici sostengono che sconvolto dalla lettura di questo brano, Renato Zero scrisse: Il triangolo no!

Postato venerdì, 12 marzo 2010 alle 12:45 da Gianfranco Manfredi


Ho trovato di gran fascino, buoni ritmi, parallelo tra realtà e finzione la sig.ra ANNE RICE. per intenderci quella di Intervista con il Vampiro. Ma tutta la collana è di rilievo

Postato venerdì, 12 marzo 2010 alle 13:48 da marco


Buonasera a tutti, giorno 27 Marzo, ad Avola, ci sarà la presentazione del mio romanzo: “Io, vampira” e di altri libri, presso il centro giovanile, ingresso viale La Pira, dalle ore 18:00. Chi è della zona, se vuole può partecipare :-)

Postato venerdì, 12 marzo 2010 alle 21:54 da Miriam


Il Vampiro non puzza. Lo Zombi invece è come l’ospite dopo tre giorni…
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Il Vampiro sarebbe in astrale, quindi può assumere le più diverse forme e tracimare ovunque senza lasciare odore ( se non due punti qua e là : da dove prenderanno origine altri nosferatu… ) ; lo Zombi è invece troppo materiale e concreto, fisso e contratto al corpo marcio che si ritrova dopo due/tre giorni – nonostante il ghiaccio impiegato per preservarlo dalla decomposizione.
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Ha un bel riposare su un letto di satin color porpora, gli occhi chiusi, le mani giunte sul lenzuolo senza pieghe, in una stanza abbastanza fredda perché la morte non abbia odore. Un raggio di sole, un po’ di vento, una porta semiaperta, qualche giorno di ritardo per l’inumazione, e il defunto si altera, spandendo la punta acerba di un profumo che scivola dalle narici allo spirito e fa urlare d’angoscia il parente, l’amico, il conoscente che si è appena avvicinato alla guancia glaciale del proprio caro.
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… Era per dirgli addio, ma non c’è più tempo… Quando giù attende la nera automobile per portarlo via da casa, e i gas si diffondono da tutti gli orifizi che invano tentano di richiudersi, il mondo appestato perde tutti i suoi oggetti, la percezione è sospesa e la memoria non ha più il potere di ricordare…
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Infezione e vergogna occupano ogni cosa, pervadono ogni minimo desiderio, ed è impossibile sterminarli… Ogni riconoscimento d’un segno di attrazione per l’alterità diventa impossibile : l’odore – più di qualsiasi parola – dice che è morto.
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L’altro è davvero morto quando una zaffata nascente sfiora gli astanti che si ritraggono o sfuggono, mentre l’odore s’impadronisce dell’atmosfera, e il defunto sorride per aver giocato un tiro mancino ai suoi vicini…
Un Vampiro, a differenza di quei fetenti di Zombi, non farebbe mai una cosa del genere. Perlomeno così pare.
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Non per slittare su un terreno duro, mortuario e direi mefitico, ma se – come osserva acutamente Manfredi –« lo Zombie si coniuga al presente-futuro, ma è al di qua e al di là della lingua », non è forse perché ci occupa al più profondo di noi stessi ? Il corpo, molto più di qualsiasi « spirito », ci occupa al più profondo di noi stessi, sfuggendo alla comunicazione, e direi quasi alla percezione, perché è Reale – vale a dire Impossibile. Il corpo di quelli che i Greci chiamavano « i mortali », sarebbe, per così dire, il « punto zero » della questione vampirica – e, più in generale, della questione natura/cultura.
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Che ne facciamo del corpo ?
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P.S. Che ne facciamo del corpo tra culla e bara, vale a dire tra due pulsioni? Be’, oggi lo seppelliamo in fretta. Fino a ieri, invece, lo si accompagnava alla nascita con trilli di gioia, e alla morte con cerimonie pubbliche e pianti rituali che avevano la funzione di « separare » i morti dai vivi – raccontando ai morti delle storie per indirizzarli verso l’aldilà dove dovevano andare, e insegnando ai vivi a sopportare – sopportare anche quello che Ernesto De Martino avrebbe chiamato « crisi della presenza » (“il rischio di non esserci nella storia umana si configura come un rischio di intenebrarsi nella ingens sylva della natura”).
E. De Martino ( ancora marxisteggiante, eppure attirato dallo spiritismo) giudicava i rituali in qualche modo cerimonie ipocrite, perché comandati ad essere consolatori.
Tuttavia è un fatto che ci si sente meno soli, e forse abbiamo meno paura, se ci si sente in qualche modo, se non proprio inquadrati, partecipi di qualcosa che sembra conservare la sua parte, pur nell’annientamento del vivente che tante meditazioni e tante angosce genera nell’uomo cosiddetto civilizzato – fin dai tempi dei primi cacciatori, poi degli agricoltori, ecc.
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A questo proposito, sono andato a risentire i canti di Transilvania ( distretto di Gorj) degli archivi sonori del fondo dell’etnomusicologo rumeno Constantin Brailoiu . Si trovanono presso il museo di etnologia di Ginevra dove lavorò dal 1944 fino alla sua morte nel 1958, e si possono ascoltare anche in Rete >
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http://www.ville-ge.ch/meg/musinfo_ph.php
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E’ possibile trovare le registrazioni dei ” canti del morto del distretto di Gorj” (Ale mortului din Gorj), raccolti negli anni ‘30 nei villaggi del sud-ovest della Romania dall’autore, consultando [brailoiu gorj] :
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http://www.ville-ge.ch/meg/musinfo_ph.php?what=brailoiu+gorj&debut=0&bool=AND&Recherche.x=34&Recherche.y=8
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I testi di alcuni di questi canti sono stati pubblicati in: Constantin Brăiloiu , “Consigli al morto – Ale mortlui”, traduzione e cura di Dan Octavian Cepraga, Stampa Alternativa, Viterbo, 2005.

A meno che non vogliate fare un salto, un teletrasporto a Ginevra. :-)

Postato venerdì, 12 marzo 2010 alle 22:35 da Gianni De Martino


@ Franco: visto che Stoker torna sempre fuori … Me lo sono sognato o era amico di Dante Gabriele Rossetti e in qualche modo quindi legato all’episodio della riesumazione della salma della di lui moglie a Highgate ?

Postato venerdì, 12 marzo 2010 alle 23:17 da claudio vergnani


Buongiorno! Francamente non ricordo dell’amicizia di Stoker con Rossetti. Ma volevo testimoniare il fascino incredibile del cimitero di Highgate: è davevro qualcosa di unico, gli amanti del gotico non dovrebbero perdersi un posto simile. Tombe antiche agggrovigliate tra le radici di vecchi alberi che pian piano si stanno riappropriando della terra. Ogni simbolo sulle lapidi ha un significato preciso, e il tour con la guida (obbligatorio nella parte ovest, dove c’è la tomba della Siddal, molgie di Rossetti) è importante per capirlo a fondo. Che io sappia questo cimitero ha ispirato Stoker che ne fece il luogo di sepoltura di Lucy anche se sotto un altro nome.
Buona giornata a tutti, spero di poter ripassare in serata. Comunque oggi c’è il sole, qui: evviva!! :)

Postato sabato, 13 marzo 2010 alle 12:19 da Simonetta Santamaria


@Gianfranco M. grazie mille per il brano che hai inserito di Zola,molto bello,naturalmente c’è anche il senso di colpa che gioca un ruolo importante fra i due assassini amanti,comunque il parlare con gli altri riporta alla mente anche storie che abbiamo dimenticato e ci spiega innanzi tutto lo spazio immenso che la lettura offre a noi….quanto tempo,quanta vita ci vorrebbe per leggere,rileggere e sognare nuove storie leggendo fra le vecchie.
Quando ho parlato di Dona Flor,intendevo-come hai ben capito- riportare una storia in cui il morto che ritorna è sdoganato da certi ruoli tipicamente di paura,ma con la sua presenza va a toccare anche altre corde.Esempio:qualcuno che torna perchè vuole continuare ad essere amato e non per uccidere,qualcuno che torna perchè si sente solo,o perchè ha dimenticato di fare qualcosa nella vita precedente.Credo che la gabbia dei generi attualmente sia molto più elastica,e non è un male,proprio perchè un personaggio non deve necessariamente rispondere ai clichè del genere dove è nato,ma può sorprenderci e mescolarsi con altro.L’importante poi è farsi leggere con piacere e curiosità,perciò ben vengano le commistioni di genere,a mio parere.Sarebbe importante scrivere bene e partorire storie interessanti.
cari saluti

Postato sabato, 13 marzo 2010 alle 12:28 da francesca giulia


Un carissimo saluto alla brava e simpatica Simonetta Santamaria-ti ricordi di me?-
…eh sì oggi c’è un bel sole che scoraggia ogni vampiro e altre forme oscure a venire fuori….buona giornata a tutti.

Postato sabato, 13 marzo 2010 alle 12:36 da francesca giulia


@ A Francesca Giulia. Anche nelle cronache storiche dei vampiri, il morto ritorna per amore. Un caso tipico è quello (storico) di Sarah Tillinghast, che ho messo al centro del mio romanzo Ho freddo. Sarah , secondo le cronache d’epoca, non riposava in pace perché non riusciva a lasciare la sua famiglia, cui era legatissima. Appariva ai fratelli e alle sorelle per abbracciarli, rubava loro il respiro, li contagiava e ad uno ad uno, li portava con sé nella tomba. Durante le sue apparizioni piangeva e si lamentava della sua condizione, ripetendo: “Ho freddo”. L’abbraccio era il tentativo di ritrovare calore. Siamo al vampirismo degli affetti. Le cronache dei vampiri autentici, intrecciate al folklore, portano in luce elementi che poi la sistematizzazione in fiction della figura del vampiro ha purtroppo escluso, ma che non molti romanzi non horror invece sono state espresse magnificamente e non soltanto per far paura. Ma ci sono casi, come quello di Zola, in cui la narrativa senza aggettivi ha prodotto pagine dell’orrore più agghiaccianti di quanto non abbia fatto la letteratura di genere.

Postato sabato, 13 marzo 2010 alle 13:26 da Gianfranco Manfredi


refuso, ho infilato un non al posto di un in. La versione giusta è: Ma che in molti romanzi non horror…

Postato sabato, 13 marzo 2010 alle 13:28 da Gianfranco Manfredi


W il Re Fuso ! :-)

Postato sabato, 13 marzo 2010 alle 13:37 da Gianni De Martino


@ Gianfranco. E’ ben vero. Ci sono tanti esempi. A me, qui su due piedi, viene in mente anche Il Maestro e Margherita, di Bulgakov, che in alcune pagine ha una virata agghiacciante dal visonario all’ horror che spiazza.
In quanto ai motivi che spingolo all’uscire dalla tomba – e qui mi riallaccio ai post di Francesca Giulia – be’ … non c’è mai nessun buon motivo per farlo (citazione di Dean Winchester da Supernatural; tanto per passare da Zola e Bulgakov alla cultura popolare :) )

Postato sabato, 13 marzo 2010 alle 14:07 da claudio vergnani


@ Claudio. Sì, Stoker doveva conoscere l’episodio (autunno 1869) della violazione della tomba di Lizzie Siddal da parte del marito Dante Gabriele Rossetti che voleva recuperare un manoscritto di poesie sepolto con lei: il motivo dei capelli della morta che invadevano la bara potè ispirare il racconto stokeriano ‘The Secret of the Growing Gold’. Tendo a credere che, al di là di una conoscenza diretta con Rossetti, la vicenda sia stata raccontata a Stoker da gente del giro, visto che il mondo culturale a Londra non era esageratamente ampio. Se poi non tutti i commentatori sono d’accordo, certamente il Kingstead dove è tumulata (e impalata) Lucy ha i connotati topografici per corrispondere ad Highgate, che in seguito sarà set per film, romanzi (‘Un luogo incerto’ di Fred Vargas) ma anche appunto per la saga del cosiddetto Vampiro di Highgate.
Per inciso, su questo e altri luoghi vampireschi, consiglio senz’altro lo splendido sito http://www.shroudeater.com/ del caro amico Rob Brautigam, dotto vampirologo olandese e persona deliziosa.

Postato sabato, 13 marzo 2010 alle 15:36 da Franco Pezzini


Ottimi tutti i commenti precedenti,ma siamo in attesa della traduzione italiana del libro di un autore dark americano, Bob Tsokony ,dal titolo ,
“The dwarf wampire” nel quale si parla di un vampiro nano che partito
come vampiro psichico è diventato un criminal mind con molti seguaci ,
per il quale è stato necessario l’uso del palo acuminato di frassino.
Miei amici americani che l’hanno letto dicono che ricorda molto qualcuno qui in Italia … Attendiamo speranzosi.
Roberto

Postato sabato, 13 marzo 2010 alle 16:18 da Roberto


Cari amici, ancora una volta ringrazio (di cuore) tutti voi per i vostri interventi, che mantengono non-morto questo post e il relativo dibattito.
;)
Vi leggo con grande interesse.

Postato sabato, 13 marzo 2010 alle 17:24 da Massimo Maugeri


Intanto vi comunico che questa discussione si è conquistata l’8° posto nella classifica dei post più commentati di Letteratitudine:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/post-piu-commentati-e-post-permanenti/

Postato sabato, 13 marzo 2010 alle 17:57 da Massimo Maugeri


@ Franco (e a tutti gli altri, ovvio): Il romanzo della Vargas lo sto leggendo or ora. Ne ho sentito dire mirabilia (ora vedremo). I capelli che crescono all’interno della tomba sono – anche se magari minore – un altro topos horror. Mi viene in mente il bellissimo (e semisconosciuto) Nelle spire di Medusa, di Lovecraft. Conosco Highgate, e sono pienamente d’accordo con te. Fu anche al centro – se ricordo bene – negli anni ‘70 del caso del vampiro di Londra, peraltro mai risolto. La butto lì: per mostrare che siamo non solo uomini (e donne) di pensiero (stentato, il mio) ma anche e soprattutto d’azione e fegatosi, direi di organizzare una spedizione nel suddetto loco per sgominare una volta per tutte il cosidetto Maestro di Highgate, con susseguente bevuta finale al pub limitrofo. Tengo per fermo che nessuno del gruppo si defilerà. Armi consigliate: soliti paletti, spray al peperoncino per scoraggiare eventuali mariuoli comuni, denaro (nel caso finisca male e si debba pagare una forte cauzione) e molto repellenti anti insetti. E un tronchese, perchè non siamo in un romanzo di Dan Brown e quindi molte porte e cancelli saranno chiusi.

Postato sabato, 13 marzo 2010 alle 19:03 da claudio vergnani


Trasversalità letteraria del vampiro. Citazione. “Pietro Fauci detto Nosferatu, braccio destro di Mantos e storico fondatore delle Belve, si era sposato e aveva aperto un negozio di termoidraulica all’Abetone.” (Niccolò Ammaniti, Che la festa cominci).

Postato sabato, 13 marzo 2010 alle 19:36 da Gianfranco Manfredi


@ Claudio: il cimitero di Highgate è stato al centro dimolte polemiche riguardo la caccia al presunto vamiro avvistato da diverse persone che transitavano davanti al cancello della porta ovest. Per evitare incursioni notturne di sedicenti vampire slayer, e mettere a tacere le voci, ora come sai è obbligatorio seguire la guida e non ci si può inoltrare (purtroppo) nell’immensa boscaglia dove ci sono tombe accatastate una accanto all’altra e semisepolte dalle piante. Però noi abbiamo avuto la fortuna che la guida ci ha aperto una cripta antica (si vede che lo ispiravamo…) appena sopra il famoso Lebanon Circle: all’interno i loculi non sono sigillati ma hanno una finestrella aperta che permetterebbe il contatto dei morti col mondo dei vivi e viceversa. Se il parente volesse dare una carezzina al caro estinto non deve far altro che infilare la mano, scapolare la cassa di zinco ed eccolo lì.
Quindi ancora il desiderio di contatto con l’aldilà, la ricerca della risposta, quella che spinge alle sedute spiritiche e al desiderio di conoscere la verità sul mistero del vampiro di Highgate.
Sul romanzo Un luogo incerto di fred Vargas, a me non è piaciuto per nulla, non vedevo l’ora che finisse (tendo a non abbandonare mai un romanzo non finito). L’ho trovato un’accozzaglia di lentezza, banalità, eventi slegati, scarsa connotazione dei luoghi, storia debole e frammentaria. Non sono una critica, per carità. E’ la mia sensazione di lettrice.
@ Francesca Giulia: certo che mi ricordo di te! Un abbraccio e tieniti nei paraggi!! ;)

Postato sabato, 13 marzo 2010 alle 21:21 da Simonetta Santamaria


@ Simonetta. Io ovviamente propongo un blitz clandestino e notturno, anche se immagino che – vista l’aria che tira – dovremo prendere un numero e attendere con pazienza il nostri turno. Ignoravo la faccenda delle tombe con sportello. Da noi l’usanza non attecchirebbe, perchè di certo si fregherebbero anche i morti. Per quel che riguarda la Vargas che dire ? … Ha scritto dei bellissimi romanzi e ha – parole sue – voluto cimentarsi con una bella storia di vampiri. Come spesso capita ora anche a lei viene abbuonato un po’ tutto. Il ragionamento più o meno è: Vargas è un’ottima scrittrice, se ha scritto di un vampiri, allora deve averne scritto bene, e ha dato lustro al genere.
Sono a tre quarti del libro e ancora di vampiri nemmeno l’ombra. Forse il segreto è proprio questo.

Postato domenica, 14 marzo 2010 alle 02:02 da claudio vergnani


“Lui s’accorge dall’accento che è straniera. La ragazza gli racconta che è una profuga, che ha studiato belle arti a Budapest. Lui le chiede se non ha nostalgia della sua città. Lei è come se le passasse un’ombra sugli occhi, tutta l’espressione della faccia le si incupisce, e dice che non è di una città, che lei viene dalle montagne, dalle parti della Transilvania. (Manuel Puig, Il bacio della donna ragno).

Postato domenica, 14 marzo 2010 alle 09:57 da Gianfranco Manfredi


Non so per quale motivo tecnico, è saltato un pezzo dal post precedente. Riprendo da dove è interrotto:

“Dal paese di Dracula”
“Sì, in quelle montagne ci sono boschi scuri, dove vivono belve che d’inverno impazziscono per la fame e devono scendere nei villaggi, a uccidere. E la gente muore di paura, e gli mettono pecore e altri animali morti davanti alle porte e fanno voti, per salvarsi”

(Sempre Puig ovviamente).

Postato domenica, 14 marzo 2010 alle 10:38 da Gianfranco Manfredi


Avete letto il grande classico vampirico italiano: L’ultima notte, di Furio Jesi?
Jesi era uno studioso di miti e di letteratura. Morì nel 1980. Questo suo romanzo breve (nemmeno cento pagine, datato 1962-1970) uscì in prima edizione post-mortem nel 1987, da Marietti. Temo sia ormai introvabile. In alcune recenti antologie del Fantastico italiano si è andati a caccia delle minime spigolature nascoste nelle pieghe della letteratura italiana , anche incursioni del tutto occasionali, ma Furio Jesi non è stato ricordato. Siamo al caso della lettera rubata di Poe. Più qualcosa è in evidenza e meno la si vede. Qualcuno ripubblichi L’ultima notte, per favore.

Postato domenica, 14 marzo 2010 alle 10:59 da Gianfranco Manfredi


Citazione : «Il vampiro [l'uomo braccato, l'ebreo, il flâneur e, più in generale, il soggetto che abita negli interstizi e cospira nelle parentesi ] è legato alle rovine, alla fine. Ma egli appare l’ultima speranza per la vita della Terra. È lui il superstite vittorioso in un mondo portato alla rovina dalla malvagità degli uomini. L’atmosfera melanconica, apocalittica, onirica, evocata da Furio Jesi, con un linguaggio ispirato e profetico, conferisce alla figura del vampiro altra solidità ed eccezionale positività» ( Vito Teti, La melanconia del vampiro, Roma, Manifestolibri,collana Esplorazioni, 2007, p. 187 – PCNC – per Copia Non Conforme ). :-)

Postato domenica, 14 marzo 2010 alle 12:27 da Gianni De Martino


Non avevo dubbi caro Gianni, che tu avessi letto Jesi. “L’ultima notte” è un ca-po-la-vo-ro.

Postato domenica, 14 marzo 2010 alle 12:30 da Gianfranco Manfredi


Segnalo, e poi mi taccio, perché oggi qui è una splendida giornata di sole, dopo una dotte di vento gelato e dunque esco, che è appena uscita su Carmilla on line, una mia intervista che tocca molti temi qui trattati. Se a qualcuno interessa…

Postato domenica, 14 marzo 2010 alle 12:32 da Gianfranco Manfredi


Dotte al postto di notte è un refuso da raffreddore.

Postato domenica, 14 marzo 2010 alle 12:33 da Gianfranco Manfredi


post-to al posto di posto è invece un refuso degno di Enrico Ghezzi.

Postato domenica, 14 marzo 2010 alle 12:34 da Gianfranco Manfredi


Dopo esco erano anche saltata chissà perché (eppure le avevo digitate) le parole “Segnalo che”. Sono evidentemente alle prese con il Ghost in the Machine.

Postato domenica, 14 marzo 2010 alle 12:36 da Gianfranco Manfredi


Rileggo e mi accorgo che il “Segnalo” era in testa. Fuso… davvero fuso. Questo forum mi ha stremato.

Postato domenica, 14 marzo 2010 alle 12:38 da Gianfranco Manfredi


A proposito dell’ “Ultima notte” e delle voci che corrono ( tentando, invano, di stremarci) :

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“…Quando apparvero avevano scarsi contorni, affioravano zanne lupine e, sui corpi, zone pelose che parevano di coniglio. Ma, poiché amavano il buio si rifugiavano negli angoli delle cantine, nell’ombra degli abbaini, sotto le tettoie di polvere e ragnatele, poteva essere solo illusione, e forse avevano corpo e volto di uomo.(…) Si raccontava di loro che erano uomini morti sopravvissuti alla morte, i quali si nutrivano di sangue umano per alimentare la loro durata pallida e notturna di fantasmi corporei”.(Furio Jesi, L’ultima notte, Marietti, Genova, 1987, pag. 5).
*
A PROPOSITO DELLA NUOVA CALUNNIA DEL SANGUE CHE SFOLGORA, NON VISTA NE’ SENTITA, IN ORIENTE E IN OCCIDENTE:

” …Secondo voi, come ci si sente a essere un vampiro? Voglio dire, al di à dei miti: un cannibale, un commerciante di carne umana, non nel senso dello schiavismo, ma proprio della compravendita di pezzi di corpi umani, e naturalmente un assassino di bambini, un ipocrita che fa finta di aiutare i disgraziati solo per farli fisicamente a pezzi, che come il ‘mercante di Venezia’ l’ebreo Shylock, approfitta della sfortuna economica altrui per cercare di farsi dare una ‘libbra di carne umana vicina al cuore’? Non sapete perché non vi è mai successo? Ah certo, vorrei ben vedere. Neanch’io mi sono mai dedicato a queste truculente attività, vi assicuro. Volevo dire: come ci si sente quando te le attribuiscono, quando ti dicono che tu e i tuoi cari uccidete bambini, ne dilaniate i corpi, fate di loro sanguinacci e merce varia?…” ( Ugo Volli, ” L’accusa del sangue spopola in Eurabia”, ‘Informazione Corretta’,13 febbraio 2010).
*
Non per menar Lacan per l’aia ( o forse sì, perché no? ) , ma proprio come nel caso della lettera rubata di Poe, evocata da Gianfranco, FORSE LA NOTTE E’ ANCORA TRA NOI IN EUROPA …ecc.

Postato domenica, 14 marzo 2010 alle 13:35 da Gianni De Martino


@ Claudio. Comunque, compatibilmente con gli impegni che ci vampirizzano, una bella gita ad Highgate collettiva di vampirologi & affini sarebbe non solo divertentissima, ma un evento memorabile…

Postato domenica, 14 marzo 2010 alle 15:49 da Franco Pezzini


@ Gianfranco (ma in realtà tutti). Sì, L’ultima notte è uno dei testi vampirici più straordinari mai scritti. Parlando di vampiri in Italia l’anno passato ad Autunnonero nell’incontro di Dolceacqua avevamo idealmente dedicato il confronto a Jesi.
Tra l’altro esistono due versioni: quella edita da Marietti (e scelta dall’Editore perché più organica) e un’altra – sembra un po’ diversa – rimasta nei cassetti di Jesi. Sarebbe strepitosa la pubblicazione del dittico… Anche se, è interessante, il finale amarissimo è stato talora frainteso dalla critiche apparse.

Postato domenica, 14 marzo 2010 alle 15:50 da Franco Pezzini


@ Franco: un’altro strano romanzo di vampiri (definito splatter-punk ma in realtà non privo di talento) fu sfornato dal duo Skipp-Spektor con il titolo (italiano) di In fondo al tunnel. Una vera coppia di folli, ma l’opera è gradevole. In quanto ad Highgate … be’, Franco, con te andrei in capo al mondo … :)

Postato domenica, 14 marzo 2010 alle 22:33 da claudio vergnani


Devo fare un’errata corrige su un post di giorni e giorni fa. Avevo raccontato che Claudia Salvatori mi aveva infilato in un suo romanzo senza manco conoscermi (il che da parte mia voleva essere un ringraziamento, non un’accusa) mentre invece ci eravamo conosciuti un anno prima e, come Claudia mi ha ricordato, lei mi aveva chiesto il permesso di infilarmi come personaggio nel suo Giallo. Il titolo giusto del romanzo era Superman non muore mai. (Avevo sbagliato anche il titolo di quello di Nicoletta Vallorani… cacchio, non bisogna mai fidarsi della memoria). Inoltre, riguardo al personaggio di Abel, non ho precisato che le sue bizzarre caratteristiche nascono dal fatto che egli è un incrocio con umani, cioè un parallelo di quello che per i vampiri è un Dampyr ( come lo stesso Dampyr di Boselli e come alcuni personaggi del ciclo di Anita Blake della Hamilton). Questo però non sposta di molto il problema: le figure “metis” (cioè meticce) spesso prendono il meglio delle due razze invece che il peggio di tutte e due. Il che fa molto “politically correct” , però a mio modesto avviso, fa molto poco horror. Io, per intenderci, preferivo il Michael Jackson di Thriller che quello progressivamente sbiancato degli anni successivi. La diversità ha in narrativa (e non solo) un valore sovversivo e antagonista. Se il diverso diventa un bravo ragazzo, sarà un mio limite, ma comincia a starmi sulle palle.

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 10:55 da Gianfranco Manfredi


Per carità, adesso non fraintendetemi. Con questo non voglio dire che il personaggio di Dampyr di Boselli (figlio di un vampiro e cacciatore di vampiri) mi stia sulle palle! Il suo è un ottimo fumetto! E crudo al punto giusto, al contrario dei romanzi con Anita Blake che mi fanno davvero vomitare. Già solo l’idea che la protagonista cacciatrice di vampiri sia una sosia della tettona bionda di Bay Watch, è da voltastomaco. Il punto su cui volevo richiamare l’attenzione, era quello dei diritti civili dei mostri (presente anche in True Blood) e cioè l’attitudine di molti autori oggi a proporre istanze di “integrazione” dei Mostri. In proposito c’è un bellissimo film americano, American Zombie, che è girato come un documentario sull’integrazione degli zombi. Hanno imparato a truccarsi da persone normali e a profumarsi per dissolvere la puzza della putrefazione, lavorano, sono gentili, intelligenti, fanno il possibile per non apparire pericolosi, si lasciano amabilmente intervistare. Il reporter che gira il documentario però comincia a chiedersi: ma li mangiano ancora gli umani o no?

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 11:05 da Gianfranco Manfredi


@ Gianfranco Manfredi
A proposito di vampiri nei fumetti, cosa pensa di “Zagor contro il vampiro” (che sicuramente conoscerà)?
lascio un paio di link come traccia
http://www.fumettando.it/viaggiodizagor/zagorafumetti/schede/zagor_contro_vampiro.html
http://www.fumettando.it/viaggiodizagor/mostri/rakosi.html
Grazie

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 11:31 da Tony Melato


E’ QUI LA FESTA?

“Quando parlo con Don Verzé della durata della vita dico sempre, va bene la vita media per tutti di 120 anni ma per noi facciamo 30 in più.” (Silvio Berlusconi)

Nel romanzo di Vergnani Il 13° vampiro, i suoi cacciatori di vampiri penetrano in una festa esclusiva sugli Appennini, festa vampirica, naturalmente. Nel romanzo di Francesco Dimitri La ragazza dei miei sogni (anche questo Gargoyle) analoga cosa avviene in quel di Roma. Nel notevole romanzo di Ammaniti E la festa cominci, uno scaciatissimo gruppo satanista si infiltra nella mega festa di un palazzinaro romano a Villa Ada. Il tema della Festa dei ricchi “depravati” mentre intorno infuria la peste, richiama La Maschera ( o Mascherata, secondo la traduzione di Manganelli) della Morte Rossa di E.A.Poe. La festa del Principe Prospero, ha la sua radice letteraria nel Decameron di Boccaccio. E’ un tema squisitamente italiano. I ricchi borghesi parigini, nei romanzi e non solo, frequentano i cabaret e i bordelli del popolo, se vogliono provare il brivido della trasgressione. Stessa usanza in Inghilterra, già in epoca previttoriana: i potenti partecipano ai Carnevali (sì, i carnevali oltraggiosi citati da Danilo Arona) anche se, anzi proprio perché vi vengono sbeffeggiati, e frequentano le stamberghe dei quartieri popolari di Londra. D’altro canto, di recente è emersa qualche eccezione “italianizzante”. Ne cito una particolarmente corposa e interessante, quella contenuta nel bel romanzo recente di Gordon Dahlquist, La setta dei libri blu (Bompiani) che nessuno ha recensito in Italia per il semplice motivo che un povero giornalista collaboratore esterno e precario, pagato se va bene 50 euro a pezzo, non può permettersi di leggere un volume di 790 pagine. In epoca romana, l’Italia non si faceva mancare né le feste di Trimalcione, né i bordelli del popolo. La Lesbia di Catullo addirittura si diverte travestendosi da puttana di strada e facendo pippe ai passanti. Personalmente ne ho frequentate pochissime di Feste dell’alta (o sedicente alta) borghesia e ogni volta mi sono annoiato mortalmente. Lo squallore comincia già da quando uno consegna il soprabito ai domestici. Il primo impulso è quello di riprenderselo e scappare. Altrettanto disagio mi ha sempre preso (snobismo? E allora?) a certi Festival dell’Unità del passato, dove Mino Reitano distribuiva alla platea copie omaggio del suo sponsor Grand Hotel. D’altro canto, mi sono invece sempre trovato perfettamente a mio agio nelle bocciofile. Ultimamente, non so se ci avete fatto caso, pur restando “di sinistra” si sono convertite al cibo bio e vegetariano, ai Brunch, e alla musica soffusa in particolare quella di Ivano Fossati e della Mannoia, per me noiosissima anche a volume normale, figuriamoci in sottofondo. Dunque mi astengo anche lì. Il tema Feste, non mi appartiene. Penso però che si possa venire contagiati dalla Peste anche se si sta chiusi in casa, perché uno scrittore viene contagiato in spirito, prima ancora che nel corpo, essendo creatura “sensibile alla foglie” ( e adesso, se ho citato il nome della casa editrice di Renato Curcio, vi prego di non pensare che io sia simpatizzante delle BR. Suppongo che anche le loro feste fossero tristissime, se mai ne facevano. Una volta un giornale pubblicò l’elenco dei nastri musicali trovati nei covi. Desolanti, davvero). Stante però che Vergnani per primo si è occupato dell’argomento, vorrei suggerirlo alla comune riflessione. Sarà che anche stamattina, mi sono svegliato con un forum sul collo.

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 12:45 da Gianfranco Manfredi


Riguardo alla domanda postami da Tony, non ho presente quell’episodio di Zagor.

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 12:47 da Gianfranco Manfredi


Il mio post sulle feste è apparso con la dicitura In attesa di approvazione. Che significa? Forse perché ho citato il Cavaliere? Gradirei chiarimenti. Scusate, ma dato l’attuale clima ogni sospetto è lecito. Trattavasi comunque di commento letterario, sono d’accordo anch’io che certi personaggi è meglio lasciarli fuori perché inquinano. D’altro canto, non ci aveva rimproverato Lucy di occuparci troppo poco della realtà che ci circonda? Non rientra in tema vampirico l’ossessiva ricerca dell’immortalità oltre che del corpo fisico, del Potere? Claudia Salvatori mi ha anche fatto notare che il suo Abel, in parte zombi, è stato da lei eletto Re, perchè mentre scriveva il romanzo, ne stava progettando un altro sull’Impero Romano, Messalina in particolare, titolo e spero di non sbagliarmi ancora, il Mago e l’Imperatrice, (Omnibus) appena entrato nella classifica dei top 20, il che mi fa molto piacere.

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 13:05 da Gianfranco Manfredi


La dicitura è scomparsa. Capisco l’esistenza di filtri per dissuadere sfoghi personalistici e offensivi , tuttavia la rete è la rete. E le minacce giungono sempre dai governi, non dalle persone.

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 13:36 da Gianfranco Manfredi


Anche il romanzo dei Wu Ming sul caso Montesi e dintorni rientra nel capitolo feste. E il primo volume di Varney si intitola Festa di Sangue (fedelmente all’originale) . Si tratta di altro genere di Festa. In Summer of Love ho trattato anch’io di Feste. Quelle hippie della seconda metà dei sessanta. Anche quelle erano tutt’altro genere di feste.

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 13:40 da Gianfranco Manfredi


A proposito di inesattezze, il titolo giusto del romanzo di Ammaniti è: Che la festa cominci. Anche qui, come in quello della Vallorani, un personaggio è soprannominato Zombie.

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 13:50 da Gianfranco Manfredi


… Forum sul collo? Speriamo che la festa non degeneri in un’accusa reciproca di vampirismo.
D’altra parte, è anche vero che non c’è festa senza sangue. :-)

Quanto al povero Cavaliere, corrono voci secondo le quali, a proposito di certi buchi, avrebbe addirittura detto:
“Voglio il sangue di Veltroni!” * :-)

*
Veltroni: Silvio voleva il mio sangue.
Bonaiuti: Falso, unico vampiro è lui ! ecc.
su>
http://www.repubblica.it/2008/06/sezioni/cronaca/alemanno-500-milioni/sangue-veltroni/sangue-veltroni.html

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 14:07 da Gianni De Martino


Cari amici, buon pomeriggio a tutti e grazie per i nuovi commenti pervenuti.
Sono lieto che questo post continui a offrire nuovi spunti di conversazione. Come dicevo questo è un post non-morto. ;)

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 15:34 da Massimo Maugeri


Poco fa ho avuto modo di conversare per telefono con l’amico Gianfranco Manfredi.
Qui sopra Gianfranco aveva scritto: “Il mio post sulle feste è apparso con la dicitura In attesa di approvazione. Che significa?”. E poi: “La dicitura è scomparsa. Capisco l’esistenza di filtri per dissuadere sfoghi personalistici e offensivi , tuttavia la rete è la rete”.
-
Come ho detto a Gianfranco, ogni tanto capita che qualche commento finisca in moderazione o – peggio – nell’antispam (senza alcun motico in particolare). Sono piccole falle del sistema di filtraggio (considerate che ricevo centinaia e centinaia di spam al giorno).
In ogni caso, qualora accadesse sarà mia premura recuperare i suddetti commenti.
Vi chiedo, dunque, un po’ di pazienza in tal senso.

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 15:38 da Massimo Maugeri


@ Gianni. Veltroni il sangue non ce l’ha. Hai letto il suo romanzo di due anni fa dove telefona a se stesso bambino? Una cosa così penosa non la leggevo da anni! Scrive come un liceale che fa il suo bravo compitino in classe. Mi ero ripromesso di non polemizzare più, proprio ad evitare una degenerazione del dibattito. Però hai ragione tu. Se non si morde, addio vampiri!

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 15:40 da Gianfranco Manfredi


Poi, sempre chiacchierando con Gianfranco, gli spiegavo che essendo il web un medium incompleto (ma tutti i medium a mio avviso, in quanto tali sono incompleti) si presta a equivoci. Capita, per esempio, che una determinata frase con cui Tizio intende dire una certa cosa, venga interpretata da Caio in maniera diversa (talora opposta).
Per questo credo sia sempre importante “chiarirsi”. ;)

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 15:44 da Massimo Maugeri


Gianfranco, eccoti qua.
Credo che il giudizio sui romanzi sia sempre soggettivo. Del resto chi scrive deve sempre accettare il giudizio degli altri con serenità. Così come chi esprime un giudizio (è ovvio), se ne assume la responsabilità. Peraltro un romanzo che può essere penoso per qualcuno, può essere valido per un altro. Anche questo è ovvio.
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Più in generale, credo utile il confronto… e vanno bene anche le polemiche, purché “costruttive” e non fini a se stesse.
Ne approfitto ancora una volta, a beneficio dei nuovi frequentatori del blog (mi scuseranno gli altri, giacchè ho affrontato la questione decine e decine di volte), che credo moltissimo nella “avvertenza” che trovate nella colonna di sinistra del sito… che recita così:
“La libertà individuale, anche di espressione, trova argini nel rispetto altrui. Commenti fuori argomento, o considerati offensivi o irrispettosi nei confronti di persone e opinioni potrebbero essere tagliati, modificati o rimossi. Nell’eventualità siete pregati di non prendervela”.
Ci tengo a ribadirlo perché è una cosa a cui tengo molto.
Qui, invece, trovate la “nota legale / netiquette” del sito:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/category/aaa-nota-legale/
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Sempre a Gianfranco, per telefono, spiegavo che – proprio per la incompletezza del medium – talvolta alcune incomprensioni possono degenerare in “litigi”, o persino in “risse”.
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Peraltro tempo fa (come attività di “servizio” rivolta a tutti i fruitori del web) affrontai un dibattito sulla “responsabilità legale della scrittura in rete” chiedendo il supporto all’amica scrittrice e magistrato Simona Lo Iacono. Ecco il link: http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/11/18/responsabilita-legale-della-scrittura-in-rete/
Vi invito a dare un’occhiata, perché male non fa…
Scrivere in rete comporta anche “responsabilità legali” di cui è bene tener conto. Attenzione… non c’entra nulla con questo dibattito che – per fortuna – si sta sviluppando in maniera civilissima. Ma, come spiegavo a Gianfranco, ogni tanto colgo l’occasione per mettere quel post in evidenza (proprio come “servizio” rivolto ai frequentatori del web). In effetti un mio amico avvocato mi riferisce che le aule dei tribunali sono stracolme di ricorsi (querele) avviati per litigi nati su Internet (e un suo cliente, tempo fa, ha dovuto accendere un mutuo per risarcire i danni alla controparte).
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Vi chiedo, però, la cortesia di non replicare a questo mio commento “fuori argomento” (altrimenti ci perdiamo) e di ritornare al tema (bellissimo e intrigante) di questo post: “la letteratura dei vampiri”.
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p.s. a proposito: ho appena sbloccato questo mio commento che era finito in moderazione (forse per la presenza del doppio link)…

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 16:09 da Massimo Maugeri


Tornando alla nostra discussione, ho trovato particolarmente interessante i riferimenti e le citazioni “vampiriche” presenti sui romanzi “non di genere” (cioè romanzi che non rientrano nel cosiddetto genere horror… peraltro abbiamo già discusso sul fatto che i riferimenti ai “generi” creano spesso una gabbia un po’ scomoda, o stretta).

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 16:16 da Massimo Maugeri


Attendo con particolare curiosità l’intervento di Sergio Alan Altieri.
Quando me lo invierà rilancerò il post (e il dibattito).
Promesso! ;)

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 16:18 da Massimo Maugeri


Mi sento allora in dovere di rialzare il tono e vi posto un altro estratto “vampirico” in contesto letterario non vampirico, tratto dal romanzo di Isaac B.Singer, Gimpel l’idiota (Longanesi):

” Di solito i morti non interrompono il loro sonno, ma poiché mio marito anela a me senza posa, giorno e notte, io non posso avere pace. Sebbene siano trascorsi i trenta giorni di lutto, egli non smette i suoi lamenti e non può dimenticarmi. Se potessi liberarmi della morte, ben volentieri risorgerei dalla tomba e tornerei a lui. Ma il mio corpo è sepolto sotto più di due metri di terra e i miei occhi sono stati già divorati dai vermi.”

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 17:50 da Gianfranco Manfredi


Accade in seguito che la donna entra nel corpo di un’altra donna (Simmele) chiedendole, anzi ordinandole, di essere la nuova moglie del suo ex-marito. Come va a finire, non lo svelo. E’ un romanzo straordinario.

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 17:55 da Gianfranco Manfredi


La nota critica di Paolo Milano recita: “La materia su cui Singer lavora è il folklore della sua gente, in primo luogo le credenze diaboliche. L’animo con cui l’affronta è l’ironia malinconica (…) Quel che gli preme è fissare nel prisma delle sue favole l’accorata bizzarria della condizione umana.”

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 17:59 da Gianfranco Manfredi


Singer, per chi non lo ricordasse, prese il Premio Nobel nel 1978.

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 18:02 da Gianfranco Manfredi


Concludo con un brano che sembra non c’entri, e invece è uno dei punti cruciali della questione. E’ tratto da Salman Rushdie “Harun e il Mar delle Storie” (Mondadori):

” Il veleno denso e scuro era ormai ovunque e aveva cancellato i colori dei Flussi delle Storie, tanto che Harun non era più in grado di distinguere l’uno dall’altro. Qualcosa di diaccio e di viscido si levava dalle acque, ormai vicine al punto di solidificazione, “fredde come la morte” si scoprì a pensare Harun. L’afflizione di Iff cominciò a traboccare. “E’ colpa nostra,” pianse. “Noi siamo i Sorveglianti dell’Oceano e non l’abbiamo sorvegliato. Guardate l’Oceano, guardatelo! Le più antiche storie che siano mai state raccontate, e guardatele adesso. Le abbiamo lasciate marcire, le abbiamo abbandonate, molto tempo prima dell’avvelenamento. Abbiamo perso il contatto con le nostre origini, con le nostre radici, la nostra Sorgente, la nostra Fonte. Noiose, dicevamo, non richieste, in sovrappiù rispetto alle nostre esigenze. E adesso guardate, guardate vi dico! Niente più colori, niente più vita, niente più niente. Rovinate.”

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 18:17 da Gianfranco Manfredi


Caro Gianfranco,
molto “amaro e vero” questo brano estrapolato dal citato testo di Rushdie. Grazie per averlo postato.
“Le più antiche storie che siano mai state raccontate, e guardatele adesso. Le abbiamo lasciate marcire, le abbiamo abbandonate, molto tempo prima dell’avvelenamento. Abbiamo perso il contatto con le nostre origini, con le nostre radici, la nostra Sorgente, la nostra Fonte”.
Ci sono storie bellissime che si sono perse nel nulla. Altre, grandiose, che si sono dimenticate”
.
Storie che meriterebbero di essere riportate in vita… ma non come non-morti (ovvero predisposte per essere ri-seppellite alle prime luci dell’alba); storie da riportare in luce, dunque… per restarci.
Tempo fa, su questo blog, avevo aperto uno spazio intitolato “ritorno ai classici”. Uno spazio in cui credevo molto.
Uno spazio a cui mi piacerebbe ri-dare spazio.

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 18:47 da Massimo Maugeri


E bellissime anche le citazioni di Singer, di recente riapparso in libreria con la riedizione del romanzo “Il mago di Lublino” (Longanesi).
Garzanti, invece, ha appena pubblicato la raccolta: “L’ ultimo demone e altri racconti”
http://www.ibs.it/code/9788811601043/singer-isaac-b/ultimo-demone-altri.html

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 18:51 da Massimo Maugeri


Sarebbe bello tracciare una sorta di mappa con tutte le citazioni “vampiriche” (o riferite ai non-morti) apparse nelle storie (nei romanzi) della letteratura mondiale di tutti i tempi.
Be’, è un po’ quello che stiamo tentando di fare qui… ;)

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 18:53 da Massimo Maugeri


Il mar delle storie … impudridisce anche quello ?
… Speriamo che soffi il vento!
*
D’altra parte ( citazione) : “Toute l’eau de la mer ne suffirait pas à laver une tache de sang intellectuelle. [Tutta l’acqua del mare non sarebbe sufficiente a lavare una macchia di sangue intellettuale ] ( « Poésies I », dans Œuvres complètes, Lautréamont, éd. Guy Lévis Mano, 1938, p. 314). ;-)

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 19:41 da Gianni De Martino


… imputridisce :-)

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 19:43 da Gianni De Martino


A proposito di putrido. Non sono più tanto sicuro, come affermavo più sopra con qualche leggerezza, che il vampiro non puzzi… Ad ogni modo, esistono odori che fanno storcere il naso e possono addirittura gettare nel panico. Del resto, oltre a farci apprezzare il sapore del cibo e a nutrire la nostra immaginazione, è questa la funzione dell’olfatto: metterci in guardia, come una sentinella avanzata, su quello che potrebbe essere nocivo, e spingerci a non mangiare cibi avariati e a chiudere il gas.
-

Ad essere percepiti come nocivi sono specialmente gli odori riconosciuti immediatamente come “putridi”, l’avversione per questo tipo di odore sembra universale. Tuttavia la valutazione etica ed estetica di un odore è legata alla cultura e alla società a cui apparteniamo. Perché, sennò, di fronte a un formaggio tipo Roquefort un americano esclama “ mio Dio!”, un giapponese “ora mi debbo suicidare”, mentre un francese prepara subito il pane ?
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Di un odore che gli altri reputano “cattivo”, un profumiere ne percepisce le varie sfaccettature olfattive e cerca di memorizzarle. Il processo creativo nei profumieri-compositori m’interessa molto. Nel saggio “ Odori” ( Apogeo 2006) ho dedicato ampio spazio al capitolo “gusto/disgusto”, notando come molto dipende dalle diverse culture , dalle abitudini acquisite e, in parte, anche dalla quantità di costituenti di una miscela: per esempio lo zibetto, il profumo di Cleopatra che si estrae dal culo della viverra, un gatto dell’Etiopia, è certamente un odore “putrido” e direi abbastanza “merdoso”, che in grandi dosi può appestare e far sanguinare il naso, ma se inserito in maniera armonica e a dosi omeopatiche in un profumo lo rende sublime e molto gradevole.
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Per un profumiere l’odore di una carogna di cane percepito a grande distanza ricorda quello del biancospino, e se non storce il naso è perché, come dice Luigi Cristiano, il co-autore di “Viaggi e profumi” ( Apogeo 2007) “ annusare è il suo mestiere”. Esita un po’, e aggiunge: “… può ad esempio un chirurgo avere idiosincrasia per il sangue ?”.

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 19:57 da Gianni De Martino


@ Gianni
Molto interessante il tuo commento sugli “odori” e sulle “puzze”.:-))
Divertentissimo l’esempio “formaggesco”: di fronte a un formaggio tipo Roquefort un americano esclama “ mio Dio!”, un giapponese “ora mi debbo suicidare”, mentre un francese prepara subito il pane.
Della serie, tutto è relativo: ovvero, de gustibus…
-
Mi rimane, però, un atroce dubbio: rispetto ai nostri canoni, i vampiri puzzano oppure no? E se puzzano, tutti i vampiri puzzano allo stesso modo? :)

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 20:33 da Massimo Maugeri


Arieccomi! Perdonate l’assenza reiterata ma ho un figlio alle prese con un ricovero in ospedale per un banale intervento ai turbinati nasali che doveva risolversi in 48 ore e invece stiamo ancora a combattere mentre la Furia dentro di me ruggisce e comincia a esige sangue… Domani, al personale piacendo, dovrebbe operarsi.
Avete scritto un mare di post, intanto!!
Oltre il moooolto allettante invito a un’incursione cimiteriale notturna di Claudio Vergnani, oltre il simpaticissimo sclero di Gianfranco Manfredi sui refusi e la sua Ghost Machine, bello quello sugli odori di Gianni De Martino! E’ vero, gli odori vengono percepiti in maniera soggettiva in base alle diverse culture, abitudini alimentari e, ahimé, fisiche… Ci pensavo proprio l’altro ieri durante uno dei miei rari spostamenti in metropolitana (preferisco girare in sella alla mia moto, francamente): immersa in una commistione di razze avvertivo i vari odori e mi sono accorta che potevo quasi selezionarli e catalogarli in base alla provenienza etnica del portatore. E mi sono detta che magari anche il mio Dior poteva far cagare qualcuno…
Oltre all’improvviso imbarazzo e allo sgomento per aver realizzato di aver speso tanti soldi per un profumo che altri potrebbero equiparare all’acqua di fogna, ho concluso che forse ci si attrae più con l’olfatto che con la vista. Potremmo quindi accorgerci senza dubbio se quello che ci sta a fianco è un vampiro (se chi mangia aglio o spezie ne sparge gli effluvi anche attraverso la traspirazione, l’odore ferrigno del sangue dovrebbe essere inconfondibile): se poi dovessimo trovarne attraente l’odore be’, allora siamo proprio destinati a un’eternità da non-morti.

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 21:13 da Simonetta Santamaria


P.S. Posso concedermi un minuto di eternità qui tra voi? Non c’azzecca niente con i vampiri ma con l’horror forse sì e sono felice di condividerlo in questo bellissimo thread. E’ ufficiale la top ten dei finalisti al I Fantasy Horror Award e io sono tra questi!
Dubito che finirà come il premio Lovecraft ma l’importante è far vedere che esisti, capperi!!
http://www.fantasyhorroraward.com/?p=1419
:) :)

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 21:17 da Simonetta Santamaria


@ Giancarlo: le Feste in cui i nostri eroi penetrano … Sì, nel caso del mio romanzo era una sorta di “attraversamento di frontiera” – attraversamento peraltro dubbio, perchè non è chiaro fino alla fine dove siano finiti. Di certo non è una trovata particolarmente originale – Fleming la utilizza in tre quarti dei suoi romanzi su James Bond – ma che io volevo vivacizzare mantenendo appunto una sorta di ironico distacco sulle pratiche – molte delle quali vuote o addirittura becere – che vi si tenevano. In realtà la volgarità del contesto è voluta dalla cricca vampirica per far sì che gli ospiti umani si trovino in un ambiente a loro conosciuto e congeniale. Il che naturalmente non depone a favore di questi ultimi. In molti romanzi la festa è l’occasione per mostrare in modo concreto il divario tra l’inconsapevolezza degli invitati-vittime e la consapevolezza dei protagonisti. In ogni caso credo che la Festa, il più delle volte, sia una specie di “anticamera” prima di vedere cosa si annida nel cuore dell’organizzazione vampirica/ostile. Questa, almeno e in soldoni, la mia percezione.

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 22:08 da claudio vergnani


Ovviamente nel post precedente intendevo Gianfranco … Mi scuso.

Postato lunedì, 15 marzo 2010 alle 22:09 da claudio vergnani


@ Gianni. Il romanzo di Rushdie ha un lieto fine. Harun si risveglia. Trova in fondo al letto degli abiti nuovi e sul comodino un orologio nuovo che segna l’ora giusta.

“Regali?” si domandò. “Come mai?”
Poi ricordò: era il suo compleanno. Udì suo padre e sua madre che si aggiravano nell’appartamento, aspettando che lui venisse fuori. Si alzò, si mise i vestiti nuovi e guardò con più attenzione il suo nuovo orologio.
“Sì,” annuì a se stesso, “da queste parti il tempo si è rimesso in movimento.”
Fuori, nel soggiorno, sua madre aveva cominciato a cantare.

Postato martedì, 16 marzo 2010 alle 01:59 da Gianfranco Manfredi


In un post precedente avevo inserito informazioni sulla tradizione dei vampiri in Cina. In verità essa è estesa un po’ ovunque nel folklore orientale.
Per esempio, in Malesia, sono note le cosiddette”langsuir”, donne morte di parto, che divenute vampiri acquistano la sembianza di bellissime e letali fanciulle, in grado di volare, con unghie lunghissime e capelli ancora più lunghi. Esse succhiano il sangue dei bambini grazie ad una fessura che hanno alla base del collo. Per sconfiggerle bisogna tagliar loro le unghie e coprire la fessura succhia-sangue con i loro stessi capelli. Infine, per impedire a una donna morta di parto di diventare “langsuir”, le si riempie la bocca con pezzetti di vetro e le si trafiggono con gli aghi le palme delle mani. Lo stesso trattamento avviene al figlio nato morto, onde evitare che esso stesso si tramuti in vampiro, il “pontianak”, o “mati-anak”.

Letali sono anche i “pennangalan”, delle teste volanti con al collo una collana fatta da intestini animali dai quali gronda sangue mortale: per difendersi dai loro attacchi, gli abitanti dei villaggi pongono sulle loro case i rami di una pianta spinosa per far sì che i letali intestini vi restino impigliati.

Di natura sciamanica (molto simile alle bambole voodoo) sono i “polong”, che vanno creati da uno stregone in coppia con i “pelesit”. Entrambi sono piccole creature, non più grandi della punta del mignolo, il cui compito è quelli di uccidere il nemico designato dallo stregone stesso. Prima interviene il “pelesit”, che pratica nel corpo della vittima, con la sua coda a succhiello, il buco nel quale andrà a sistemarsi il “polong”. A questo punto il “polong” inizia il suo lavoro consistente nel succhiare il sangue del corpo ospite. Esso è creato con un complesso rito sciamanico: viene versato il sangue di una persona assassinata all’interno di un’ampolla dal collo stretto e lungo, quindi si recitano alcune invocazioni. Dopo alcuni giorni, quando dall’ampolla si ode uno strano cinguettare, allora vuol dire che il “polong” è pronto e bisogna subito dargli del sangue affinché possa crescere sano e forte per la sua missione: generalmente la prima razione gli viene data dallo stregone stesso attraverso un dito della sua mano.
Pelesit e polong sono un esempio di simbiosi vampirica.

In ultimo vi è il “bajang”, in genere di sesso maschile, che si presenta sotto forma di gatto. Il bajang è solito assalire i bambini, dato che secondo il mito questo demone proverebbe dal corpo di un bambino nato morto.

Postato martedì, 16 marzo 2010 alle 12:36 da piero


… un lieto fine, caro Giancarlo, come Pinocchio che al risveglio si accorge di essersi trasformato in un ragazzo in carne e ossa – in una capanna diventata una bella casetta, con vecchi vestiti trasformati in nuovi e in tasca un portamonete in avorio con quaranta zecchini d’oro…
*
Anche noi, il più delle volte, attendiamo a una parola che ci conduca verso…verso un bambino nato morto, un marcio e brillante avvenire di scheletro, oppure verso la vita.

*
La sentenza è un enigma temuto, un terrore dell’infanzia. Come quando la Lumaca informa Pinocchio che la sua padrona giace in un letto d’ospedale, povera e malata.

*
Se il corpo è un orologio che non si può aggiustare, quale Pinocchio ce ne regalerà uno nuovo?
*
Che ore sono? In attesa dell’arrivo dei fantasmi, si tratta di produrre un atto che è percorso, lasciandosi sorprendere da un tratto inatteso…( da una Lumaca ben informata, per esempio, oppure da un naufragio che potrebbe essere – come per l’amato Leopardi – perlomeno “dolce”, magari scrivendo tra un padre che detta e una madre che canta…).
*
Non so se sia l’ora giusta per l’arrivo delle Fate belle e sorridenti, ma non è mai troppo tardi, o troppo presto, per dire che la scrittura non è una lapide…
*
Mah! Questo ritrovarsi, ogni volta, tra gli interstizi ( gli interstizi della Letteratura) , come un vampiro senza orologio, dovrà pure significare qualcosa!

Postato martedì, 16 marzo 2010 alle 13:06 da Gianni De Martino


Già, Pinocchio. La fata turchina. La madre di Harun che canta. Le storie, le antiche storie del folklore (non i classici) che Rushdie si (ci) rimprovera di non aver tutelato, tramandato e sviluppato, vengono dalle nutrici. E’ dalla nutrici che nasce la narrazione e nasce orale. E’ il patrimonio culturale inestimabile degli analfabeti che Pasolini ricordava… invano , per quanto si vede. I nostri nuovi orologi scandiscono un Nuovo che coincide con il Nuovo della Pubblicità. Il nuovo che di per sé dovrebbe essere Migliore e Superiore. C’è sempre un nuovo modo, come ha detto Albanese, di sostituire una cosa che funzionava benissimo (si riferiva alla sòla del Digitale Terrestre). E noi qui a interrogarci sul Nuovo anzi sul New , a escogitare nuovi generi e filoni più o meno commisti, che possano funzionare da marchio riconoscibile sul mercato. Il Weird, che vale sempre molto di più del Nuovo, non ha bisogno di mentire: il Weird non proclama a priori d’essere migliore, dichiara d’essere strano, il che non vuol dire necessariamente bello, né migliore. Non è tanto il caso di fare un bagno purificatore nei Classici, anche se fa bene, quanto di accogliere l’idea dell’Anticlassico in senso proprio, il senso dell’estetica Cartaginese, poi rinata in quella Barbarica, ricalcata dal Gotico. Il mostruoso non si proclama bello a priori, spesso anzi gode della propria bruttezza. Il mostruoso sfugge grazie a questo suo privilegio alle prigioni Museali. Quando si entra in una Galleria d’Arte, la parola Arte è scolpita fuori. Ci si aggira per le sale come in Chiesa. E’ l’Arte pre-definita, terreno di incursione di qualsiasi “cacata d’artista”. Vieni e guarda (o leggi) invece. Non ti dò alcuna garanzia che questa sia arte. Sarai tu a giudicare. Arte o non arte, parteciperai alla costruzione della sua significazione, facendola, se credi, tua. E invece… “scrivi di qualcosa che conosci, parla di te, della tua vita, dei tuoi amici” questo si prescrive nelle Scuole di Scrittura. Perché invece non riunirsi, come gli alcolisti anonimi, mettersi in cerchio, raccontarsi e condividere storie narrate oralmente. Ritrovarsi nutrici per potersi nutrire. La scrittura non è una lapide. Ma ad Highgate e altrove, quanta scrittura dalle lapidi! Quanta ricchezza nel dimenticato, quanto vivo nel morto. Sulla superficie del Mar delle storie galleggia petrolio. Lui si sbatte, il nuovo autore, per restare a galla, e sbraccia. Dalla riva lo guardano. Lui si sente riconosciuto. Il pubblico lo riconosce, sì, ma pensa: “perché quel povero scemo nuota invischiato nel petrolio?”. Per pescare le perle bisogna immergersi sotto la superficie, smarrire il fiato, è faticoso, è ricerca spesso frustrata. Nessuno ti vede, magari, nessuno ti riconosce. Ma è laggiù il segreto. Com’è profondo il maaaaare!

Postato martedì, 16 marzo 2010 alle 14:13 da Gianfranco Manfredi


Il vampiro non è Nuovo, non può essere Nuovo, non vuole essere Nuovo. Il vampiro tra le tante figure dell’immaginario che ci assediano, è quella più vistosamente legata al folklore, nasce dalla bocca delle Nutrici Divoratrici, non può vivere se non succhia, non può succhiare se non abbandona la tomba.

Postato martedì, 16 marzo 2010 alle 14:19 da Gianfranco Manfredi


Non esiste se non contagia.

Postato martedì, 16 marzo 2010 alle 14:20 da Gianfranco Manfredi


Ogni singolo risveglio del Vampiro, infine, è il giorno del suo Compleanno.

Postato martedì, 16 marzo 2010 alle 14:22 da Gianfranco Manfredi


@ Simonetta. Ieri, poco prima di un ingrippamento del computer, avevo inviato le congratulazioni per la top ten del I Fantasy Horror Award. Ovviamente non sono mai arrivate ma rimando ora.

E come sta tuo figlio?

Postato martedì, 16 marzo 2010 alle 17:54 da Franco Pezzini


Sicuramente questo dialogo ha anche il potere di far montare una curiosità ansiosa, direi vampiresca per i romanzi che gli amici partecipanti stanno scrivendo…

Postato martedì, 16 marzo 2010 alle 17:55 da Franco Pezzini


@ Claudio. Hai cannato col Giancarlo, ma io avevo cannato col 13° vampiro al posto del 18° per cui siamo pari. Adesso mi è venuta la paranoia dei fraintendimenti per cui chiarisco: guarda che non volevo mica dire che io non considero interessante il tema della festa, anzi è probabilmente cruciale dato che salta fuori in tanti romanzi italiani attuali. Volevo solo dire che mi ci sento portato personalmente. Un paio di feste le ho messe comunque nel mio prossimo romanzo, in epoca napoleonica a Parigi, una proprio alla corte di Napoleone. Le feste sono sempre una specie di termometro sociale. Tanto per dirne una, una volta ho partecipato a una specie di festa ricevimento di un noto editore milanese e tra la buona società ivi riunita riecheggiava di bocca in bocca una sola domanda: conosci qualcuno che ha una casa da affittarmi? Ho avuto lo sfratto. Da cui si deduce che i presunti ricchi non c’hanno un euro bucato!
Se il Diavolo dovesse offrire a qualcuno di voi di scambiare il conto in banca con qualcuno che presumete ben più fornito, occhio! Si rischia di accollarsi dei rossi profondi. Il vero privilegio dei ricchi vampiri è quello di di vivere in debito perenne, tanto grazie alle conoscenze, un direttore di Banca che ti fa credito si trova sempre e più stai indebitato meglio è. Questa almeno era la legge che vigeva negli 80 e nei 90. Adesso non so perché come ho detto, non frequento. Vedo comunque dai giornali che le spese per le orge vengono pagate coi quattrini dei contribuenti, per cui, è solo un sostituto monetario, un grande ritorno al baratto.

Postato martedì, 16 marzo 2010 alle 18:27 da Gianfranco Manfredi


Che NON mi ci sento portato. la Ghost Machine è renitente alle negative.

Postato martedì, 16 marzo 2010 alle 18:29 da Gianfranco Manfredi


Citazione delle sera sui vampiri che odio, cioè quelli del Potere. (Sì, faccio parte del Partito dell’Odio).

“Durante il fine settimana gli avvoltoi s’introdussero attraverso i balconi della casa presidenziale, fiaccarono a beccate le maglie di filo di ferro delle finestre e smossero con le ali il tempo stagnato dell’interno, e all’alba del lunedì la città si svegliò dal suo letargo di secoli con una tiepida e tenera brezza di morto grande e di putrefatta grandezza.”

Da “L’autunno del Patriarca” (Feltrinelli) di Gabriel Garcia Marquez, romanzo che narra degli ultimi giorni di Potere di un dittatore non-morto. Da rileggere perché attualissimo. Mi sono limitato all’incipit. Non rivelo il finale, altrimenti il povero Massimo passa dei guai serissimi.

Postato martedì, 16 marzo 2010 alle 18:37 da Gianfranco Manfredi


… Scrivere comporta la sorpresa e il rischio di toccare quello che è immerso nel mare e i flussi e i riflussi delle maree irregolari, compreso l’invischiante petrolio…
Il maaaaare, simbolo della madre, è popolato da ninfe che cantano e fanno salire la scrittura : una specie di manifesto Weird e racconto poesia fantasticheria grido – mentre l’umido spunta al bordo degli occhi di tanti vampiri che sorvegliano le parole, non solo le emozioni, le cognizioni e i sentimenti…
Il tempo della siccità interminabile forse potrebbe finire. E anche l’interminabile potrebbe cedere…ad ogni risveglio vampirico: fresco nuovo antico sorgente come nel Paradiso terrestre il primo giorno della creazione.
Fu allora che Pinocchio – come racconta il compianto amico scrittore razionalista & ribelle Luigi Compagnone, nella stupenda, dimenticata “Vita nova di Pinocchio” – incontrò Giona, Medea, Marx, Freud, il Lager, l’Arca di Noè, la scuola, la violenza e, se non la Galleria d’Arte e la sòla del Digitale terrestre , perlomeno la mafia… lungo l’itinerario febbrile che ciascuno di voi noi pescatori di perle talvolta è quasi costretto a tracciare tra menzogna e verità.
P.S. Dio, quanto sono esoterico! Forse dovrei astenermi da queste comunicazioni telepatiche tra intellettuali… In ogni caso, scrivete presto, amici. E ditemi ancora che i bimbi stanno tutti bene e che la scrittura non è una lapide ( benché qui, da dove vi scrivo, se ne vedano tante, di lapidi, in giro…). :-)

Postato martedì, 16 marzo 2010 alle 18:45 da Gianni De Martino


@ Massimo. La ricerca delle tracce vampiriche nella letteratura non vampirica conduce sempre all’Elenco dei Libri Proibiti. E i libri proibiti sono quasi sempre Libri sacri. Tanto per non farsi mancare l’ossimoro.

Postato martedì, 16 marzo 2010 alle 18:45 da Gianfranco Manfredi


@ Gianni. In effetti molti potrebbero intendere la comunicazione telepatica, come comunicazione tra coloro che non reggono più la televisione.

Postato martedì, 16 marzo 2010 alle 18:48 da Gianfranco Manfredi


Il baratto cui accennavo sopra, non consiste, come dicono i giornali, nello scambio di favori, ma nello scambio di condanne: quella di pagare sempre e comunque (da poveri) per il tristissimo spasso obbligato dei ben più poveracci. Poi dicono l’invidia! Ma l’invidia di che? Le pene avviliscono il pene, si sa.

Postato martedì, 16 marzo 2010 alle 18:57 da Gianfranco Manfredi


Imparare da Lucy (la vampira): l’orgasmo non è frutto di un’aspra conquista, ma di una placida resa.

Postato martedì, 16 marzo 2010 alle 18:59 da Gianfranco Manfredi


Non avevamo mai parlato di sesso, ci voleva, no? Altrimenti passiamo tutti per fanatici della Meyer!

Postato martedì, 16 marzo 2010 alle 19:02 da Gianfranco Manfredi


@ Gianfranco … in effetti la televisione la reggo per poco, faccio continuamente zapping… poi mi stufo e torno nel loculo a leggere o rileggere un libro.
In questo momento sul comodino ne ho tre: ” Thalassa” di Ferenczi, “L’istinto del linguaggio” di Steven Pinker, e – anche se me ne vergogno un po’ – “A volte ritornano” di Stephen King, che ho rubato a uno dei miei figli …
Quanto ai vampiri che odi, quelli del Potere ( con la P maiuscola) , mmm, non ti sembra per fortuna o sventura un po’ infantile?
D’altra parte è anche vero, che in giro c’è un Partito dell’Amore che sembra fare solo orrore…specialmente alla classe letterata italiana ed europea, medio-europea, che per noia o per sazietà sembra molto attratta dalla sempiterna barbarie incombente, uomini-bomba, ecc. … :-)

Postato martedì, 16 marzo 2010 alle 19:23 da Gianni De Martino


… sì, sì, parliamo di sesso! E’ quando non lo si fa che se ne parla… Spesso ai funerali si finisce, nella maggior parte dei casi, a parlare di sesso… forse per contrapporre alla morte i poteri di vita rappresentati dal sesso… ( specialmente da quello maschile, eretto, detto non a caso fascinum dai Romani, poi sostituito dalla Croce anti-vampiro…).

Postato martedì, 16 marzo 2010 alle 19:37 da Gianni De Martino


@ Simonetta
Ti faccio i migliori auguri (di cuore) per il Fantasy Horror Award, ma sono molto dispiaciuto per la salute di tuo figlio.
Facci avere notizie.

Postato martedì, 16 marzo 2010 alle 20:34 da Massimo Maugeri


@ Gianfranco
Grazie per non aver rivelato il finale de “L’autunno del Patriarca” di Marquez (romanzo che narra degli ultimi giorni di Potere di un dittatore non-morto), evitandomi – in tal modo – di passare guai serissimi.
Volendo citare un noto personaggio cinematografic-televisiv-letterario, mi verrebbe da dire: “Com’è umano lei!”.
:)

Postato martedì, 16 marzo 2010 alle 20:38 da Massimo Maugeri


Questo post sta raggiungendo – per numero di commenti – il dibattito sul “romanzo storico” (che farebbe bene, a partire da questo momento, a cominciare a guardarsi il collo).

Postato martedì, 16 marzo 2010 alle 20:40 da Massimo Maugeri


@ Gianfranco: avevo notato il 13°, ma mi pareva beneaugurante :) . Per la festa nessun fraintendimento. In realtà ero io che – citando Fleming – spiegavo che in effetti – in determinati contesti – il tema della festa non è proprio originalissimo. Io, ovviamente, la vedo da un punto di vista plebeo – da infiltrato appunto. Sarà che l’unica festa degna di questo nome cui partecipai (venti anni fa) era il compleanno di un principe romano (mio cugino vive a Roma e ha strane frequentazioni) in cui suddetto principe non trovò di meglio che mettersi a fare la corte alla mia ragazza. Mi sentii vittima di una specie di jus primae noctis umiliante, e forse in effetti ne sono rimasto condizionato. E’ anche vero che nessuno mi ha più invitato. Non vidi vampiri in giro, ma molti str***i sì …

Postato martedì, 16 marzo 2010 alle 21:31 da claudio vergnani


@ Gianni. Eh, caro mio, a sessantun anni suonati qualcosa di infantile, ti imploro, lasciamela. Non che il mio odio sia esclusivo, per carità, è casomai diffuso, il che me lo addolcisce. Come scriveva Malaparte, la lotta contro il tiranno è inseparabile da quella contro la tirannia sociale. (E la seconda, che è tirannia del conformismo, è senz’altro quella che fa più paura). Questo non mi consegna certo, rassicurati, nelle braccia di Bin Laden che, ci hai fatto caso?, appare ogni tanto in TV a commentare e lanciare minacce, ancorché nessuno sappia (forse nemmeno lui) se è morto o ancora vivo. Quando uscì L’autunno del Patriarca di Marquez tutti compattamente scrissero che si riferiva poeticamente all’incredibile vicenda del caudillo Francisco Franco che continuò a governare a lungo seppure in coma. Pare anche, si dice, si vocifera, che Obama con la B, non abbia mantenuto e non possa mantenere la promessa di andarsene dall’Iraq perché ove lo facesse tornerebbe al potere Saddam, per quanto morto. Si sa come sono le metafore… vanno sempre molto al di là delle persone.

Postato martedì, 16 marzo 2010 alle 23:11 da Gianfranco Manfredi


Ed eccoci immancabilmente a parlare di sesso…
Ricordate quello che affermava Lord Chesterfield: “il piacere è effimero, la posizione ridicola, la fatica soverchia…”
Non a caso i vampiri riportano l’atto sessuale al primo istinto dell’essere umano, quello di succhiare il seno materno: comodo, appagante, ripetibile all’infinito senza problemi di stanchezza o défaillance… E come risulta intenso il piacere della vittima del bacio del vampiro!
Anche per questo detesto i vampiri alla Moccia della Meyer, i tour-de-force sessuali di Anita Blake fra non-morti e licantropi, le maratone scoperecce di True Blood: viene sovvertito uno dei caratteri più affascinanti della figura vampirica, la capacità di prendere e dare piacere senza aprirsi la patta dei pantaloni o far scivolare via il perizomino… “Tu non hai mai amato!” rinfaccia una delle tre vampire al Conte Dracula, allorché questo la strappa via dal collo di Jonathan Harker, ma è un’accusa che scaturisce da rabbia, non certo da inappagamento, visto che il ménage-a-quatre va avanti da tempo immemorabile senza che si registrino lamentele…
L’unica penetrazione che coinvolge il vampiro è quella del paletto del suo carnefice, spesso rappresentata letterariamente o cinematograficamente come vero e proprio stupro (pensate ai fratacchioni allupati di “Dracula, principe delle tenebre di Fisher”, o alle tante messe in scena dell’uccisione di Lucy da parte del battaglione dei suoi spasimanti, guidati dal voyeur Van Helsing).
Sesso a volontà, dunque, quando parliamo di vampiri “seri”, ma senza chiamare in causa il piselletto anemico di Edward Cullen o di Jean-Claude o evocare le performance erotiche delle nostrane Jacula e Sukia!

Postato martedì, 16 marzo 2010 alle 23:54 da Paolo De Crescenzo


E, per chiosare il precedente intervento con una citazione del grande Totò che forse piacerà all’amica Simonetta:
…Sti pagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive,
nuje simmo serie… appartenimmo a’ morte…”

Postato mercoledì, 17 marzo 2010 alle 00:09 da Paolo De Crescenzo


Ah, era inevitabile arrivarci. Usciamo dunque dalle tombe per la festa e irretiamoci in rete. La letteratura vampirica è un trattato di Psicopatia Sessuale da ben prima che simile disciplina esistesse. Si trova di tutto nelle storie di vampiri: necrofilia, incesto, pedofilia (esempi relativamente recenti: la bimba di Jerusalem’s Lot di King, l’altrettanto inquietante Ilona bambina del Toby Dammit di Fellini) , ma anche gerontofilia ( tema protagonista di uno dei più inquietanti resoconti di vampirismo sessuale della storia della letteratura: La Donna Vampiro di Hoffmann). Non mancano le cose più ovvie e naturali, come la masturbazione (evidente in Théophile Gautier: se a un dormiente si materializza di fronte una splendida donna uscita da un arazzo di fronte al suo letto, a cosa bisogna pensare?) , il sesso orale (cosa c’è di più orale del morso del vampiro?) , il polimorfismo sessuale, eccetera eccetera. Ora. Tutti questi argomenti nella letteratura normale erano tabù. Quella vampirica li ha graziosamente ospitati, molto, molto prima della psicanalisi, esplorati, narrati in ogni sfumatura. Che l’argomento sia il centro della narrativa vampirica classica è fuor di dubbio. Con incredibile modernità, Varney ci porta subito, fin dal primo capitolo, in medias res. Notte fonda. Vergine dormiente. Il vampiro gratta i vetri, da fuori, con le unghie. Vuole entrare.
Il vampiro seduce perché sedotto. Entra se invitato. “Lasciami entrare” ripeterà nei secoli la tradizione. Perversioni o no, il vampiro chiede il permesso. E’ tutto e il contrario di tutto, il vampiro, ma non un volgare stupratore. E ci sono stati lunghi momenti felici nella vita sessuale del vampiro folklorico. Secolo XVII, diocesi di Pavia. A Padre Ludovico Maria Sinistrari, demonologo illustre, viene affidato un caso imbarazzante. Una giovane sposa di marito anziano, riceve visite notturne di un giovane bellissimo, biondo e spettrale. Egli, succube della di lei bellezza, la implora di potersi unire a lei carnalmente. La giovane sposa è lusingata, ma atterrita e pudica, anche perché dorme nella stessa stanza del marito, piuttosto irritato e infastidito dall’apparizione (deve alzarsi presto, non può subire questa rottura di palle tutte le notti). Il Succube dal canto suo, regolarmente respinto dalla pia e timorata giovane, piange, si dispera. Quando dissolve, gli oggetti nella stanza cominciano a vorticare, si spezzano contro le pareti, la rabbia per il rifiuto è tanta. Il saggio Padre Sinistrari, consiglia vivamente alla giovane sposa di concedersi: unirsi a una creatura di materia sottile, spirituale, non può che far bene agli esseri umani. Il marito rifiuta di dormire altrove, la casa è piccola, c’è una sola stanza da letto, e il mattino lui vuole essere pronto per uscire a lavorare nei campi. Si ovvia al problema con un tramezzo. L’accoppiamento si verifica. Tutti felici e contenti. Dal che si deduce che il seicento non era affatto l’epoca fosca, pudica e moralista dipinta dal Manzoni. Il Seicento, in Italia e in Europa, fu un’epoca straordinariamente sensuale, di raffinato umorismo, di poemi giocosi , di intesa sperimentazione scientifica, di altissima filosofia, spalancata all’immaginario, serenamente libertina. L’epoca stessa in cui i vampiri presero a dilagare in tutta Europa.

Postato mercoledì, 17 marzo 2010 alle 11:10 da Gianfranco Manfredi


Certo, dilagava anche la Peste e infuriavano i roghi delle streghe. I contrasti feroci sono propri di ogni epoca. Eppure ricordate… i racconti picareschi, gli smarrimenti di Don Chisciotte, la sottile sensualità de La Gerusalemme Liberata… non c’è liberazione senza la libertà suprema dell’immaginazione scatenata.

Postato mercoledì, 17 marzo 2010 alle 12:09 da Gianfranco Manfredi


A scusante del Manzoni va detto che narra dei lumbard di quel ramo del lago di Como la cui filosofia di vita è ben espressa dalla nota filastrocca popolare:

Crapapelada la fa i tortej
ghe ne da minga ai soi fradej
I soi fradej fan la fritada
ghe ne dan minga a Crapapelada

Postato mercoledì, 17 marzo 2010 alle 13:30 da Gianfranco Manfredi


Bonjour! Innanzitutto grazie a Franco, a Massimo e a tutti gli altri per l’interessamento sulla salute di mio figlio che, per fortuna, ha subito solo un fastidioso intervento al naso per un’ipertrofia dei turbinati che progressivamente gli avevano otturato le cavità nasali impedendogli di respirare. Ora è a casa, sofferente, livido e gonfio ma a casa, assafa’… ;)
Non ho il tempo di leggere tutti gli ultimi interventi ché, tra le altre cose, stamattina ci sono i tecnici delle tapparelle che si sono scassate e l’idraulico… Più che una casa è un casino.
Tra una chiamata e l’altra vedrò di riprendermi.
E grazie a Franco, a Massimo per i complimenti: questo premio ha una grossa valenza, dopo il (si spera momentaneo) congelamento del Lovecraft. Chiunque vinca, spero che ne varrà la pena. Spero che non sia uno di quegli scrittori “di passaggio” ma che vada a uno che ci crede veramente.
E comunque ha ragione Gianfranco: il vampiro non è tale se non morde, se non infetta.
E bello il post di Paolo De Crescenzo, che ringrazio per la citazione della splendida ‘A livella di Totò.
:)

Postato mercoledì, 17 marzo 2010 alle 14:28 da Simonetta Santamaria


Non tutta la zona è così, ovviamente. Nel mio Cromantica ho narrato di Piuro, città iper tollerante e intereligiosa le cui strade, vuole la leggenda, erano lastricate d’oro e che finì sepolta sotto una devastante frana. Ho narrato anche del libertino Conte Diavolo e dei piaceri dei Bagni di Bormio. Dal lungo lago fino a Sondrio, raffinati scrittori come Piero Chiara, Mario Soldati e di recente Andrea Vitali hanno offerto spaccati di vita ironica , aperta all’immaginazione, e persino cosmopolita. E’ uscito anche un romanzo di Massimo Carlotto un paio d’anni fa che racconta di straforo le mitiche gesta di un contrabbandiere di queste lande. Ma c’è uno zoccolo duro (l’espressione è il contrario di un ossimoro, se è uno zoccolo, c’è bisogno di sottolineare che è duro?) che ritualmente nella Storia rialza la testa (di zoccolo appunto) e proietta la sua ombra giù per la Brianza, dilagando poi qua e là per il Nord. Basta per oggi. Ho aperto un’autostrada per De Filippi e Pazzini, intrattenendovi nell’attesa ormai spasmodica di Sergione (ovviamente) ma anche di altri che per ora non nomino per non rovinarvi la sorpresa, ma hanno seguito apprezzando molto e riservandosi di intervenire presto, perché attualmente impegnati in convegni.

Postato mercoledì, 17 marzo 2010 alle 14:29 da Gianfranco Manfredi


Segnalo infine che nella Biblioteca di Sondrio c’è un fondo del tutto unico in Italia sul Seicento e in particolare sulle fonti folkloriche e popolari dei poemi cavallereschi. E’ a disposizione degli studiosi, in un’apposita sala. Purtroppo gli studiosi lo ignorano, perché la Biblioteca non ha i fondi per poter mettere questo ricchissimo materiale in rete e farsi conoscere come merita.

Postato mercoledì, 17 marzo 2010 alle 14:33 da Gianfranco Manfredi


Ah, e per non far mancare l’attualità. Giusto ieri Piero ci raccontava dei vampiri thailandesi, mentre io in parallelo discettavo di tirannia. Sarà nell’aria, ma avete letto oggi sui giornali della manifestazione a Bangok, dove i manifestanti hanno sparso alla lettera il proprio sangue, prelevato e raccolto in vasi, sul palazzo governativo e sulla strada d’accesso, in modo che chi vi entra calpesti letteralmente il sangue del proprio popolo? Per la serie: siamo così evasivi e superficiali!

Postato mercoledì, 17 marzo 2010 alle 15:02 da Gianfranco Manfredi


ringrazio gianfranco manfredi per avermi citato. più tardi o domani inserirò qualche altra cosa sulla tradizione vampirica.

Postato mercoledì, 17 marzo 2010 alle 17:12 da piero


E io sull’autostrada offerta da Gianfranco mi appropinquo, con l’ovvia lentezza di un carro da morto… Si è citato Manzoni: opportuno dunque ricordare il bizzarro racconto The Last Lords of Gardonal di William Gilbert – amico dell’autore di Dracula come il figlio, William Schwenk Gilbert, il cui nome resterà legato alla storia dell’operetta. Il testo, apparso a puntate sulla rivista Argosy tra luglio e settembre 1867, e ambientato in Engadina, è a tutti gli effetti una versione vampiresca dei Promessi sposi – c’è anche “L’Innominato”, che però nel caso è un astrologo – e ne è stato probabilmente ispirato.

Postato mercoledì, 17 marzo 2010 alle 18:38 da Franco Pezzini


Ma a questo punto vi racconto una favola. Nera, ovviamente: una bizzarra vicenda proprio al limite tra mito e storia in cui, come ricercatore, mi sono casualmente imbattuto grazie a un oscuro libretto francese recuperato nella Biblioteca civica di Torino.

Sigismondo di Lussemburgo è, ricorderete, il quattrocentesco imperatore del Sacro Romano Impero che combattè contro i Turchi e fece bruciare come eretico Jan Huss. Meno noto – almeno in Italia – è che seconda moglie di Sigismondo fosse una contessina stiriana di grande fascino, Barbara di Cilli (o Cillei, o Cilly – l’attuale Celje in Slovenia): una straordinaria figura femminile – bellissima, volitiva e colta, già virtualmente rinascimentale – proveniente da un potentissimo casato. Chi voglia fare un salto a Celje troverà nel museo locale i loro teschi (oltre a una cintura fatta con la pelle di un contadino che non aveva pagato le tasse – dall’alluce al pollice, ancora ben visibili – ma questa è un’altra storia). Anche se i due sposi venivano considerati la coppia più bella del tempo, Barbara fu donna di vita sentimentale burrascosa (al punto da venire soprannominata Messalina tedesca) e coltivò non superficialmente l’alchimia; dopo la morte del marito, entrò in conflitto con la propria figlia e infine, morta di peste, fu tumulata nella cattedrale di Praga. Ma la sua storia continua nel tempo, illusionisticamente – e per il tramite di alcune allusioni (su una figura femminile che potrebbe essere lei) contenute nell’enigmatico testo “La Magia Sacra di Abramelin Mago”, Barbara è divenuta oggetto di una strana leggenda.

“La Magia Sacra di Abramelin Mago” rappresenta uno dei più noti grimori dell’Occidente moderno: e se con ogni probabilità non fu scritto nel XV secolo (come pretenderebbe) ma almeno cento/duecento anni più tardi, resta assai poco chiaro l’ambiente di composizione. Interessante è che l’occultismo moderno lo consideri, in pratica, come l’unico grimorio ancora realmente prezioso, anche per le possibilità di autoiniziazione che esso dischiuderebbe. Non è interessante, in questa sede, interrogarci sulla veridicità delle sue affermazioni: possiamo solo notare che nel testo una figura potenzialmente identificabile con Barbara viene tratta dalla morte grazie alla magia di un discepolo di Abramelin. Tratta dalla morte, ma non più realmente viva: accedendo alla concezione tripartita greca e poi esoterica (corpo-spirito-anima, in contrapposizione a quella cristiana “ortodossa” corpo-anima), di Barbara sarebbero restati sulla terra soltanto corpo e spirito – non più l’anima, ormai trasmigrata verso l’Aldilà. Una non-morta, insomma: e l’ultimo, bizzarro anello della catena si salderà nella credenza – viva oggi in gruppi dell’esoterismo nero europeo – che Barbara sia divenuta la Gran Sacerdotessa e l’ipostasi femminile della Non-Morte, una specie di vampira ai cui riti di immortalità accederebbero gli iniziati. A tale trasformazione ha senz’altro contribuito il fatto che la Barbara “storica” avesse fondato, col marito Sigismondo, quell’Ordine del Dragone donde trarrà il proprio soprannome araldico il principe Vlad Drakul, padre dell’IMpalatore: anche quest’ultimo rubricato quale vampiro tra le sette citate, che paiono considerare l’opera di Bram Stoker come testo iniziatico e non semplice romanzo orrifico. A sua volta, la vampira stiriana Barbara avrebbe ispirato – secondo loro – la vampira stiriana Carmilla dell’omonimo racconto lungo (o romanzo breve) di J. S. Le Fanu, certo la non-morta più famosa della letteratura…

Insomma, una vicenda sufficientemente curiosa, intessuta di storia, mito e letteratura, che ho cercato pazientemente di dipanare in anni di ricerche (potevo perdermela?) e di cui ora sto solo fornendo una minima sintesi. Dopo la gita ad Highgate, un bel pellegrinaggio collettivo ai castelli “virtuali” di Carmilla (ovviamente ce n’è più d’uno) sarebbe eccezionale…

Colgo l’occasione per ricordare gli amici del sito Il Catafalco http://digilander.libero.it/catafalco/indice.htm
con il loro preziosissimo osservatorio su tutto ciò che esce in materia vampiresca. Con una dedizione, una precisione e una cortesia straordinarie schedano tutto: e hanno tra l’altro offerto anni fa uno dei primissimi spazi internet alla storia che ho accennato. C’è del buono in questo mondo, direbbe Sam amico di Frodo.

Postato mercoledì, 17 marzo 2010 alle 18:40 da Franco Pezzini


Scusate certi elementi fastidiosamente didattici della nota precedente: scrivendo ho fatto un copia-incolla dei dati “tecnici” dagli appunti, ma qualche “rigidità” – “la vampira stiriana Carmilla dell’omonimo racconto lungo (o romanzo breve) di J. S. Le Fanu” eccetera – è ahimè sfuggita…

Postato mercoledì, 17 marzo 2010 alle 18:50 da Franco Pezzini


Mi ha fatto ridere la frase “Sigismondo di Lussemburgo è, ricorderete…” Sei davvero impagabile, Franco. Ormai nessuno più si ricorda nemmeno del proprio nonno! A proposito di Drakul, deriva da Drago. I mitici draghi erano proprio i grandi sauri del Giurassico, sostengono alcuni. Ho letto, non ricordo dove, che è da loro che si fa discendere la stirpe dei vampiri, dunque pre-umana. Più prosaicamente, invece Emilio de Rossignoli nel suo “Io credo nei vampiri”, cita altra misteriosissima fonte da cui risulterebbe che i vampiri originano dal seme infecondo e sprecato, caduto nel terreno, cioè sarebbero figli della masturbazione (per tornare al sesso)! Il che significherebbe che dovrebbero essere ormai decisamente in sovrannumero rispetto agli umani!

Postato mercoledì, 17 marzo 2010 alle 20:02 da Gianfranco Manfredi


A me piacciono tantissimo i gatti: me lo figuro come un animale che, come lo stokeriano Renfield, riesce a stare in equilibrio tra le due dimensioni. Quando il mio Byron a volte fissa lo sguardo su qualcosa che non c’è, io dico che vede i fantasmi.
E a questo proposito, la conoscete la leggenda giapponese del gatto vampiro?
Ve la posto.
In Giappone circola la leggenda del gatto vampiro. La storia narra di un principe e della sua favorita che, in una sventurata notte, fu strangolata nientemeno che da un gatto nero entrato di soppiatto nella sua camera da letto. Il gatto nero era in realtà un vampiro sotto mentite spoglie; egli poi seppellì il corpo della favorita nel giardino del palazzo e, grazie ai suoi poteri mutanti, ne prese le sembianze. Nessuno se ne accorse, però da quel giorno il principe si ammalò di qualcosa di incomprensibile per tutti i medici di corte: deperiva senza una causa logica, era sempre più pallido e meno vitale, finché non cadde in uno stato di prostrazione e catalessi. Nessun medicamento pareva avere effetto. Uno dei dottori azzardò l’ipotesi che il principe fosse vittima di una qualche sorta di emorragia, anche se la cosa pareva impossibile in assenza di ferite: era forse uno spirito maligno a privarlo della sua linfa vitale? Suggerì dunque di vegliarlo anche di notte, in modo da monitorare il suo stato di salute e non perderlo mai di vista, ma sfortunatamente nessun servo riuscì mai a stare sveglio fino all’alba. Andando al tempio per chiedere aiuto ai sacerdoti, il primo consigliere di corte conobbe un giovane soldato molto zelante, che propose come guardia del principe. Il giovane prese molto seriamente l’incarico, tanto che una notte, sentendo il sonno avere la meglio, si piantò il pugnale in una coscia, lo girò e lo rigirò, affinché il dolore lo tenesse sempre sveglio. E così, verso mezzanotte, vide entrare nella stanza la bella favorita e avvicinarsi al letto; la giovane, però, parve turbata dalla presenza del soldato, tanto che se ne restò a debita distanza dal principe, limitandosi a osservarlo. Questo strano rito si ripeté nelle notti successive. Intanto la salute del principe miracolosamente prese a migliorare. Il giovane soldato sospettò che fosse proprio la favorita la causa di quella strana malattia, così una notte si fece coraggio e le tagliò la testa con la spada. Ciò che stramazzò ai piedi del letto non fu il corpo della bella ragazza, bensì quello del gatto nero in un’enorme, sproporzionata pozza di sangue: tutto quello che aveva sottratto al principe durante le notti.

Postato mercoledì, 17 marzo 2010 alle 20:11 da Simonetta Santamaria


Figli di Onan, dunque ?

Postato mercoledì, 17 marzo 2010 alle 21:46 da claudio vergnani


@ Simonetta
Ancora auguri per tuo figlio, e in bocca al lupo per l’award!

Postato mercoledì, 17 marzo 2010 alle 22:31 da Massimo Maugeri


Ai miei amici vampirici.
Siete soprendenti! Riuscite a trovare nuove occasioni e spunti per mantenere non-morto il dibattito.
Bravi, davvero. :-) )

Postato mercoledì, 17 marzo 2010 alle 22:33 da Massimo Maugeri


In occasione dell’intervento di Sergio Altieri avrò modo di rilanciare la discussione (che peraltro ha sopravanzato, per numero di commenti, quella sul “romanzo storico).

Postato mercoledì, 17 marzo 2010 alle 22:35 da Massimo Maugeri


@ Claudio. Figli Onan, così pare. A pensarci bene se si scatenasse la guerra tra morti e vivi , altro che sovrannumero, saremmo sterminati moooolto facilmente. E’ consigliabile trattare. Dopotutto accettare un morso sul collo ogni tanto è solo un piccolo sacrificio.

Postato mercoledì, 17 marzo 2010 alle 22:58 da Gianfranco Manfredi


@ Simonetta. Avendo collaborato a Dylan Dog, posso assicurarti che la favole che hai raccontato è accettabile dagli adolescenti solo perché il soldato taglia la testa alla ragazza. Se avesse tagliato la testa al gatto nero, avrebbe suscitato l’ira popolare. Hai fatto caso alla frase fine titoli dei film americani attuali? “Nessun maltrattamento o danneggiamento è stato arrecato agli animali.” Il non detto: agli umani, in compenso, abbiamo fatto di tutto.

Postato mercoledì, 17 marzo 2010 alle 23:02 da Gianfranco Manfredi


Ennesimo agghiacciante esempio di Nuovismo dei Morti. Visti gli spot pubblicitari della Nuova Citroen? Parlano i morti famosi: Marilyn Monroe, John Lennon, Marcello Mastroianni ( e chissà quanti altri in futuro). Tutti, compattamente invitano al Nuovo. Cioè all’ultimo modello Citroen. Chi vampirizza chi? Chi tutela il diritto del fantasma a NON apparire? Quale Nuovo si nasconde dietro i consigli per gli acquisti dei Morti? La letteratura non deve diventare lapide. D’accordo. Ma cosa stanno diventando le lapidi?
L’estate scorsa mi sono trovato a girare un corto in un cimitero di Colma (California). Colma (altro che Highgate) è un città ai confini di san Francisco in cui la principale industria sono i cimiteri. Ce ne sono di tutti i tipi e per tutte le religioni. Pare che qui si sia fatto seppellire persino il Re dei Satanisti Anton La Vey. Il rapporto tra residenti morti e residenti vivi (a Colma) è di mille a uno! Visito il primo cimitero che incontro. Un cimitero cattolico. Le tombe primo novecento non sono tutte identiche, ma hanno comunque uno stile in qualche modo unitario. Lentamente, procedendo per quei bellissimi prati su cui volano e si posano stormi d’uccelli, si giunge alle tombe contemporanee. Alcune di una povertà desolante: una brocca spezzata con dentro dei fiori rinsecchiti e una piccola scritta sopra: MOM. Il modello prevalente è però quello di enormi lapidi di marmo lucidato, molto spesse, formato TV al plasma, quasi un cinemascope. Sulla lapide vengono non incise, ma stampate, delle decalcomanie che ricordano il morto. Grafica da manifesti cinematografici, composizioni di momenti di vita. In una, sul fondo, elicotteri militari in volo. Di lato, a figura intera, il sepolto vestito da cacciatore e con il fucile in mano. Sotto gli elicotteri, un lago di anatre. Fuori dalla lapide, sulle tomba (effetto 3D?) due anatre di legno, richiami per anatre in possesso del morto-cacciatore ed ex-marine . Sorge spontanea la domanda: quando esce il film? Lapide di un architetto: istoriata dal grande ponte da lui progettato. Lapide di un giocatore di basket: il morto svetta verso il suo migliore canestro. Tutto in technicolor. Poco distante stanno seppellendo un fresco defunto. I becchini non usano le pale. La fossa è scavata da un’apposita macchina. Un’altra macchina reca la bara e la trasferisce nella fossa in automatico. I parenti non ci sono. Verranno a deporre non il corpo, ma la spettacolare lapide advertising, quando sarà pronta. Si intuisce il Nuovo che Avanza: presto le ormai insostenibili spese cimiteriali suggeriranno Sponsor. Morti con logo.

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 10:08 da Gianfranco Manfredi


Invito mia figlia trentenne a filmare quelle incredibili lapidi. “No,” mi dice. “Bisogna rispettarli, i morti.” C’è ancora speranza.

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 10:28 da Gianfranco Manfredi


@ Gianfranco: stiamo attraversando in un’epoca di ostentato buonismo, falsissimo come l’oro che luccica sulle bancarelle. Facciamo i moralisti e i moralizzatori ma dimentichiamo quello che è stato. Di recente sono stata in Cambogia. Lì, a fine anni ‘70, paraticamente ieri, il regime di Pol Pot e dei suoi Khmer Rossi ha catturato, imprigionato, torturato e ammazzato nelle maniere più feroci e crudeli circa 3 milioni di connazionali, quelli che non volevano piegarsi al comunismo che li voleva asserviti alla Cina. Ieri. Si parla sempre e solo di olocausto ma qui ci siamo vicini. Stessi cambogliani, stesso popolo. Ancora il territorio più interno è disseminato di mine antiuomo, infatti è sconsigliabile inoltrarsi senza una guida esperta; la nostra sapeva da quanti anni, mesi e giorni Pol Pot era morto. Le vittime delle mine sono tutt’oggi tantissime, le vedi per strada che dignitosamente chiedono l’elemosina.
Nessuno ha fatto niente, nessuno è mai intervenuto. Neppure la santa Chiesa s’è scomodata, com’è storia del resto.
Però garantiamo per gli animali nei film. E poi andiamo a caccia a sparare ai passeri e permettiamo che si svolgano ancora barbarie come la corrida.
Siamo una razza contraddittoria. Ecco perché il vampiro muta. Perché è vittima del nostro falso buonismo. Gli togliamo l’istinto animale, lo laviamo dell’afrore di sangue, lo facciamo sempre più bello, dandy, sexy, ricco. Gli regaliamo (?) un’anima. Tra poco vedrete che lo manderemo dal dentista che gli risolverà quel fastidioso problema dei canini che s’allungano. Perché tanto, se beve sangue sintetico e non morde più gli umani, ’sti denti aguzzi a che gli servono? Rinuncerà alal vita eterna, e si lascerà morire al sole (sempre che la luce sia per lui ancora letale) quando la sua compagna lascerà questo mondo. E allora…
Permettetemi di dirlo: che palle!

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 11:08 da Simonetta Santamaria


Ostentato buonismo? A me pare un’epoca di ostentati veleni. Se qualche vampiro provasse a mordere il collo di molti di noi, cadrebbe stecchito all’istante.
Altro che paletti di frassino!

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 12:06 da Francesco


@ Simonetta. Le mode vanno lette. Senti un po’ cosa scriveva Chateaubriand, nella sue “Memorie d’oltretomba”:

“Nel 1822 l’uomo fashionable doveva offrire alla prima occhiata un aspetto infelice e malato; doveva avere qualcosa di trascurato nella persona, le unghie lunghe, la barba né folta né rasata, ma cresciuta in un momento, senza che se ne accorgesse, per inavvertenza, mentre era assorto nella disperazione; ciocca di capelli al vento, sguardo profondo, sublime, sconvolto e fatale; labbra strette in segno di disprezzo per la specie umana, cuore annoiato, byroniano, immerso nel disgusto e nel mistero dell’essere.”

Era questa, ai tempi, la definizione di dandy. Non meno modaiola della nostra attuale.

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 12:06 da Gianfranco Manfredi


@ Francesco, con cui concordo, sottopongo però questa di Martin Heidegger:

“L’uomo non è un oggetto di osservazione semplicemente presente, che poi rivestiamo dei piccoli sentimenti di tutti i giorni, ma dell’uomo si fa esperienza guardando agli abissi e alle sommità dell’Essere, tenendo conto dell’elemento terrificante della divinità, dell’angoscia vitale di tutto ciò che è creato, della tristezza di ogni creazione creata, della malignità del male e della volontà dell’amore.”

Sia questa citazione che la precedente, sono tratte da: Marc Fumaroli, Chateaubriand – Poesia e Terrore (Adelphi, 2009)

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 12:13 da Gianfranco Manfredi


@ Gianfranco Manfredi
Le sue citazioni sono bellissime. Grazie molte. La leggo con interesse.

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 12:19 da Francesco


Francesco, dammi del tu, per favore. Mi imbarazza terribilmente il lei.

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 12:22 da Gianfranco Manfredi


“… la masturbazione è l’esempio più classico di seme umano sprecato. La religione e la medicina adottano oggi criteri d’indulgenza nel giudicare i colpevoli di questo fallo. (…) Tuttavia, fino a pochi anni fa, i medici attribuivano alla masturbazione effetti deleteri e terribili, tali da causare la pazzia e la morte”. ( E. de Rossignoli, “Io credo nei vampiri”, Luciano Ferriani Editore, s.d., p. 14).
Qualche osservazione, un po’ alla rinfusa. Il Dracula di Bram Stocker è un essere dimezzato ed incompiuto, mosso dalla fame e la sete di completarsi in un mondo dominato dalla penuria e la necessità di salvaguardare le apparenze in un mondo in divenire, di rimescolamento delle classi, dei sessi, delle lingue. Sembra un concentrato di angosce vittoriane, legate, tra l’altro – oltre che alla rappresentazione dell’inversione sessuale maschile assimilata alla necrofilia ( oggi si direbbe alla “cultura di morte”) – alle teorie mediche sugli effetti deleteri della masturbazione ( tisi, consunzione, ecc.) con conseguenti rimorsi, angosce notturne, sogni tormentosi, complessi che si traducevano spesso in forme di impotenza e di delirio di filiazione negativa ( appartenenza alla schiatta di Onan, ecc.).
Le mani pelose di Dracula, così come le occhiaie, sarebbero un segno prodotto dalla pratica del vizio solitario… Esistono numerosi studi, anche psicoanalitici, sui rapporti fra il Dracula di Stocker e le macchine ossessive legate alla nascente pseudo-scienza sexualis tipica dell’epoca vittoriana.
In sintesi, si tratterebbe di un gruppo di maschi ( vagamente omofili, legati dall’adesività cantata da Whitman) preoccupati di controllare l’infinito del godimento femminile a cui Dracula apre con i due punti incisi sul collo delle vittime: Lucy, certo, ma anche Jonathan – controllato e femminilizzato nel castello, e infine penetrato dalle vampire.”E’ mio!”, esclama Dracula. Ma poi Stocker, memore di quanto sta accadendo ad Oscar Wilde, processato e condannato ai lavori forzati,
glissa, e fa intendere che è “suo”, però nel senso che ha bisogno di lui per mettere a punto il suo trasferimento a Londra, non per altro…
Lo scopo di Dracula a Londra è, secondo Helsing, diffondere il vampirismo tramite le sue vampire che, a loro volta, penetrano i maschi, femminilizzandoli ( aprendoli all’estasi del temibile godimento altro, quello femminile). A mettere fine a tutto questo è, tramite la collaborazione del gruppo dei maschi a caccia di Dracula, il paletto – simbolo dell’uno, ma anche rappresentante del Fallo.
A meno che non si voglia vedere nel paletto solo un paletto, è questa la strategia occidentale del controllo del femminile: il ricorso al Fallo e al Logos (W. Burroughs parla del “gruppo Logos”) . Nell’islam, al contrario, al posto della colpevolizzazione ( Super-Io) e la creazione delle streghe ( e delle escort, oggi) da bruciare, per controllare il femminile e i poteri magici di seduzione e sedizione contro l’Uno attribuiti al femminile, si ricorre al velo e alla separazione degli spazi in maschili e femminili, ecc. Grazie al velo, l’islam ha potuto evitare di bruciare le streghe.
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P.S. Pratica solitaria: che bella espressione per Dracula, maestro del contrappunto!

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 12:23 da Gianni De Martino


@ Gianfranco: come fece dire ad un suo personaggio il buon Romero: “Quando si combatte contro i morti uccidere equivale a perdere la guerra …”

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 12:28 da claudio vergnani


Da giorni spero di leggere citazioni da voi postate. Guardate che parlando di vampiri, non è difficile scovarne, nelle pieghe dei libri più insospettabili. Basta aprirne uno qualsiasi a caso. Si trova quasi sempre la citazione giusta, anche se non necessariamente quella esemplare. E’ così illuminante leggere. E ripeto, anche leggere e condividere. Avete visto quel delizioso film “Il club di Jane Austen?” Racconta di alcune donne e di un ragazzo che si riuniscono periodicamente a commentare e scambiarsi i reciproci punti di vista sui romanzi di Jane Austen (uno a turno) che leggono e rileggono tra una loro riunione e l’altra. Si trovano a casa dell’uno e dell’altro. Quanti club privati si potrebbero aprire, quanto sarebbero meno monotone le nostre serate e le nostre giornate (e le nostre chat e i nostri forum ) , se sapessimo ritrovare un po’ di senso collettivo attraverso la lettura. Non c’è bisogno di aspettare che simili iniziative vengano promosse dai Comuni, dalle scuole, dalle Biblioteche. Non c’è bisogno di accusare le colpevoli mancanze delle Istituzioni. Si può fare, questo sì, basta volerlo. Non si vive di soli corsi di step.

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 12:31 da Gianfranco Manfredi


@ Gianni. Masturbazione. Non rimarca il paradosso l’idea che il non-morto venga prodotto dal seme del mai-vivo? scrivi anche: è grazie al velo che l’islam ha potuto evitare di bruciare le streghe. Una volta, in quel di Roma, mi capitò di venire incaricato da un signore, traduttore di Moravia e Pasolini in arabo, di progettare e scrivere una serie televisiva sulle Crociate dal punto di vista arabo, che un network con sede a Damasco prevedeva di girare in un numero sterminato di puntate. Scrivevo i soggetti e quel signore li traduceva e poi li rileggeva. Io scrivevo di un cavaliere del Saladino che passava a cavallo vicino a un fiumiciattolo dove delle donne lavavano i panni e incrociava lo sguardo con una di loro, fuggevolmente. Lui traduceva che il cavaliere era in cima a una collina e che le donne stavano a valle. “Ma come fanno a incrociare lo sguardo?” replicai io. “Lascia stare, non si può,” diceva lui. Mi chiedevo continuamente come diavolo avesse tradotto Pasolini e Moravia. A un certo punto, era tarda mattinata e ci trovavamo in salotto, si schiude una porta. Una signora velata (sua moglie) fa capolino per un attimo, ci sorprende al lavoro e rientra precipitosamente nella sua camera da letto. Faccio in tempo a notare che la camera è al buio. Non ne esce più. La riunione si conclude alle due del pomeriggio. Quel signore era il direttore della Camera di Commercio. Non le avranno bruciate le streghe, però che vita di merda le loro donne!

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 12:43 da Gianfranco Manfredi


@ Gianfranco. Certo, velarle per evitare di bruciarle non è una bella soluzione. Il fatto è che nonostante le presunte o suggerite ” grandi avanzate intellettuali e filosofiche” verificatesi in passato all’interno della civilizzazione islamica, i pensatori musulmani hanno troppo spesso, ancora oggi, la tendenza a situare “la ragione” nella barba, nel pene e nella spada.
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I pensatori islamici distinguono radicalmente secondo il sesso maschile o femminile: dhakar e ountha, entità complementari ma ordinate secondo una gerarchia di valori stabilita dai teologi-giuristi.
Dhakar, che significa metaforicamente sia “la spada” sia “il membro virile” , designa il maschio. La parola dhakar deriva da dikr ( ricordo, rimemorazione), dal verbo dakara ( ricordare, rimembrare). E’ un termine in cui risuona, come nell’inglese man , l’idea di portatore di mentula e di memoria, e indica il maschio come creatura dotata di “deposito virile” (amana) comprendente pene, ragione e fede.
Ountha (così come anche mar’a, pl. nissa) indica invece la femmina, creatura dotata di meno ragione e fede, simile a un grasso pascolo, a un campo fertile e all’erba tenera. La donna, più debole e delicata dell’uomo, sarebbe dotata di un po’ meno di “ragione”, di “fede” e di “memoria”. Pertanto è all’uomo che spetta tenere alto lo stendardo di quel più di “ragione” confidatogli da Allah.

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Tanto più che il membro virile è anche naf-su e ruhu, “anima e spirito” dell’uomo. In maniera variamente consapevole, si viene così a creare una coincidenza fra pene e pensiero, mente e mentula, fallo e appello alla fede islamica.

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Fu nell’orecchio ancora vergine del giovane Adamo che ALMUSAWWIR ( Colui che dà forma a tutte le cose ), indicandogli il suo membro virile appena creato, disse:
“ Ecco un prezioso deposito, te lo concedo in tutta confidenza. Usalo saggiamente. Se saprai controllarlo ti preserverà; se ne abusi ti perderà!”
L’arcangelo Gabriele, continua il teologo andaluso El Qorrobi ( morto nel 1272, ma citato dai giuristi dell’Università al Azhar come se fosse attualissimo, per dire quanto i morti ancora governano gran parte del mondo !), si avvicinò e precisò al primo musulmano l’esortazione di Allah:
“ Questo pendaglio di carne sarà il calamo con il quale inscriverai la tua posterità nel libro dei secoli, la vanga con la quale lavorerai la terra e il ventre della madre dei tuoi figli. Fiaccola, ne trasmetterai il fuoco alle moltitudini che racchiudi in te; scimitarra, fenderai i ranghi dei nemici di Allah. Abbine cura come la pupilla dei tuoi occhi perché ti condurrà più lontano dello sguardo. Ma tieni ben ferme le redini di questo cavallo alato sennò si trasformerà in dito accusatore, in bruciante tizzone, in corda per impiccarti.” Così conclude una popolare tradizione maghrebina, ma Allah ne sa di più.
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Il maschio è forte e adora Allah, nel ricordo del ” sacro deposito” ( amana ) costituito dal pene, dalla spada e dalla penna per tramandare il proprio nome e la memoria del messaggio del Profeta ( “sublime modello” in ogni suo detto e atto, compresa una virilità talmente gagliarda da permettergi, secondo gli hadith, “di fare il ‘giro’ “ delle sue nove o undici mogli “ in una mattinata”).

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La femmina invece è debole, smemorata e in un certo senso assomiglia a Iblis, il Diavolo che è privo di pene. Anche l’uomo non sposato, il celibe (azab = “abbandonato”, “solo”), assomiglia al solitario Iblis.
A parte Satana il Lapidabile, privo di compagna, solo Allah, l’Unico, non va in coppia. Il Dio è infatti AS-SAMAD ( l’Assoluto, il Tutto Pieno, letteralmente il “non fissurato”). Egli, fuso in un sol blocco come l’ Essere di Parmenide, non è sessuato come lo sono gli uomini e le donne da lui creati al solo scopo di essere adorato.
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Egli non è solo il Creatore (al-Khâliq ), ma IL CREATORE INCESSANTE ( AL-KHALLÂQ), in quanto nel creato non esisterebbero “cause seconde”, e senza la sua incessante azione di continua sorveglianza, controllo e salvaguardia i sette cieli e i mondi andrebbero tutti a rotoli. E si vedrebbero donne andare a lavorare in automobile e senza velo fuori casa e uomini che invece di fare il Ramadan vanno con le trans facendo traballare il Trono dell’Altissimo.

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Insomma, chi osa turbare la coerenza simbolica dell’universo e dell’ordine sociale islamico ? La democrazia, la permissività sessuale, il liberalismo economico, l’avanzamento scientifico e tecnologico, vale a dire il Diavolo, naturalmente. Quell’invidioso di Satana si nasconde sotto la pelle dell’uomo e s’infila sotto i veli delle donne, passando dalla coscia al cuore, dall’orecchio all’occhio, dalla vergine alla verga mal guidata. Quindi, con logica geometrica, occorre che i servi di Allah, naturali guardiani della Virtù e repressori del Vizio, tengano separati gli spazi pubblici maschili e femminili. Per questo gli islamisti oggi spingono la donna, tutte le donne, a rivelarsi.
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L’esposizione ai genitali femminili occidentali risulta insopportabile a un musulmano borderline, e spesso la condizione borderline sfocia in paranoia galoppante. Pensa all’uomo-bomba, per esempio, che prima di farsi esplodere e schizzare in paradiso a godere direttamente, e senza resto, nella gocca delle urì, si copre con tre mutande.

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Uno dei paesi più sessuofobi è la Repubblica islamica dell’Iran. Le donne sono state costrette a ri-velarsi e gli omosssuali visibili vengono trattati come vampiri: “ Se catturate un omosessuale – ordinava nel 1988 agli studenti di Teheran l’ayatollah Musawi Ardibili, rappresentante del Governo iraniano e in buoni rapporti con il Governo italiano – tenetelo all’impiedi e tagliatelo in due con una spada. Una volta morto, bruciatelo. Potete anche gettarlo vivo dall’alto di una montagna e poi bruciare i resti del cadavere. Oppure scavate una buca, vi accendete un falò e ve lo gettate dentro ancora vivo. Non bisogna avere un minimo di clemenza o di compassione, perché le offese che l’omosessuale arreca alla comunità di Allah meritano le peggiori punizioni”. Non hanno bruciato le streghe, però continuano, ancora oggi, a impiccare gli omosessuali manifesti, a lapidare le adultere e a costringere le donne a velarsi.

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 13:31 da Gianni De Martino


@ Gianni. Grazie. Davvero. E il nostro culto della nudità classica? Del nudo accettabile se “artistico”? E magari chirurgicamente rifatto o ritoccato in Photoshop? Non è a sua volta velo? E per di più velo gabellato per trasparenza?

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 14:15 da Gianfranco Manfredi


Nell’ostilità culturale reciproca, non è forse l’o-scenità a unirci? Hugo , a proposito di vampiri, poetava sui Jinn, invisibili e mordaci. Ma il Jinn, non è radice del Genio? E il Jiin che esce liberato ed è esecutore e insieme regolatore dei desideri, non prevede adeguato sfregamento della lampada?
Spaziali, più che esoteriche, oggi simili letture simboliche. La civiltà delle immagini ci ha paradossalmente resi ciechi ai simboli. Ricci (Antonio) mette in scena un cazzo (il Gabibbo) che più chiaro di così non potrebbe essere: è addirittura una Testa di cazzo, metafora sarcastica e nobilmente plebea del Bravo Conduttore televisivo. Le masse dei teleutenti questo simbolo non lo leggono affatto. E’ un’altra lettera rubata: più è evidente, meno risulta a disposizione. Essendo Ricci un situazionista credo abbia molto meditato su questo effetto perverso. Noi lavoriamo sui simboli. Che lavoro è, che comunicazione è, se i simboli stessi risultano occulti o meglio negati e impercepibili nel momento stesso della loro rappresentazione? Stiamo andando sul troppo difficile, temo. Ma il vampiro è ancora così popolare perché tutti lo riconoscono e sanno chi è e cosa rappresenta o perché nessuno, celebrandolo, lo capisce? E la diatriba sui simboli cristiani? I cristiani primitivi rappresentavano Cristo con un pesce. I cristiani trionfatori lo raffigurano nel crocefisso. E’ l’unica religione al mondo che rappresenti, nel momento del suo trionfo, la sua divinità come un condannato a morte. Non il Risorto, non il Liberatore, non il Messaggero d’Amore, ma il torturato e l’ucciso. E chi se ne proclama servo, uccide e tortura. Torno al mirabile capitolo de La pelle di Malaparte sul bosco degli ebrei crocefissi. E di nuovo: l’Olocausto , cui hanno attivamente partecipato ( al di là delle diatribe sul ruolo delle Chiese ufficiali, Cattoliche e protestanti) un’infinità di Cristiani occidentali, non è stata forse la morte definitiva del cristianesimo? Che cristianesimo è quello che uccide Cristo? E che uccidendolo non sa riconoscerlo? Che diavolo rappresenta allora quel crocefisso? Una memoria, una testimonianza o un fine?

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 14:42 da Gianfranco Manfredi


Perché appendere per legge nelle scuole pubbliche un simbolo che non sappiamo più leggere?

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 14:46 da Gianfranco Manfredi


Non è l’ultimo, fatale ossimoro che la Scuola sia elevata a rappresentazione simbolica dell’Ignoranza?

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 14:51 da Gianfranco Manfredi


** Vampiri in India **
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Un’antica tradizione vampirica esiste anche in India.
Molte teorie vorrebbero l’Egitto come culla della civiltà. Molte altre invece propendono per una nascita asiatica della cultura odierna. In questo caso una delle culle possibili è l’India, che ha certamente una mitologia molto antica e, nel caso dei vampiri, probabilmente la più antica. Molti studiosi, infatti, ritengono che i miti indiani siano quelli originali non solo per quel che riguarda le superstizioni e i credi religiosi, ma anche per il caso specifico del vampiro.

Queste prime figure sono molto simili a demoni, spesso così temuti da dedicare loro la costruzione di templi votivi nei quali offrire loro in sacrificio degli animali per placare la loro fame ed evitare che si accaniscano sui villaggi. È il caso del bhuta, il più noto demone-vampiro indiano, un essere notturno che di giorno ha la possibilità di riposarsi sulle culle appese al soffitto che trova nei templi e nelle cappelle a lui dedicate.

Il più temibile ed antico vampiro indiano è però il rakshasa, le cui prime tracce si possono trovare negli antichi Rig Veda, secondo i quali l’uomo stesso è nato dal sangue di un essere o divinità primigenia denominato Parusa, simile al gigante Ymir della mitologia nordeuropea, che ha invece dato origine al mare. Il rakshasa è, dunque, un mutaforma, in grado di diventare lupo o anche bellissima donna, ma la cui forma originaria è quella di una pallida creatura luminosa con un alone azzurro intorno alla gola ed una cintura di campanelle alla vita, con il corpo perennemente macchiato di sangue. Volano e di notte si rifugiano sugli alberi: in vita erano uomini che sono diventati demoni poiché si sono nutriti del cervello dei loro simili.

Ad essi si aggiungono i baital, o vetala, che riposano appesi agli alberi a testa in giù, sono in grado di animare i cadaveri e camminano tra gli uomini in cerca di prede sotto le spoglie di pellegrini o donne anziane. Considerano se stessi come i re dei vampiri indiani e per questo spesso si presentano con vesti sgargianti ed impugnano una spada scintillante.

Insieme a queste figure, i testi vedici citano anche il divoratore di carne cruda, il kravyad, noto anche come yaksha. Temuto per la rapidità delle sue sortite, questo vampiro, oggi noto come pisacha, ha assunto anche alcune connotazioni benevole: simile ad una divinità capricciosa, esso può concedere favori a chi gli fa offerte di suo gradimento. Quando, infatti, una persona soffre di un male incurabile, ogni notte si reca ad un crocicchio con offerte di cibo nella speranza che compaia il pisacha e gli conceda una facile guarigione. Se, però, le offerte non sono di suo gradimento, egli si ciberà direttamente dal corpo del questuante. (Questa figura leggendaria ricorda la leggenda voodoo di Papa Legba, signore dei crocicchi, anch’esso capriccioso demone che concede i suoi favori o la morte a chi ne richiede i servigi).

Infine, resta da citare la jigarkhwar, vampiro-strega della regione del Sind, che con le sue arti magiche può arrecare danno agli esseri umani. Per neutralizzarla, bisogna marchiarle a fuoco le tempie, riempirle la bocca di sale e tenerla a testa in giù per quaranta giorni.

Buona parte di queste leggende sono giunte a noi anche grazie all’opera dello scrittore ed esploratore Richard Francis Burton, riunite nella raccolta Vrikam the Vampire.

Va menzionato, infine, che l’India è la terra dei thugs e della dea Kali, la sanguinaria divinità quadrumane che porta in sé tracce di vampirismo e cannibalismo.

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 14:57 da piero


Si giudica “seria” la Scuola che boccia? Bocciare non è dichiarare sconfitto l’insegnamento? L’insegnante che boccia non boccia se stesso? Ma forse, più sottilmente, il mezzo è divenuto il fine. Il fine della Scuola è diventato l’essere una fabbrica di Ignoranti. La si riforma per renderla sempre più adeguata allo scopo.

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 14:59 da Gianfranco Manfredi


Ed ecco le escursioni di Piero. Figure simboliche affascinanti perché inconoscibili e inafferrabili. Universo mitico del non-significante.

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 15:04 da Gianfranco Manfredi


Una piccola traccia nel nostro vagolare sperduto tra i miti. Di nuovo da Rushdie:

“C’erano una volta Radha e Krishna e Rama e Sita e Laila e Majnu; e anche (perché non possiamo dire di non essere stati toccati dall’Occidente) Romeo e Giulietta e Spencer Tracy e Katharine Hepburn. Il mondo è pieno di storie d’amore e tutti gli amanti sono in un certo senso gli avatar dei loro predecessori.”

da: I Figli della mezzanotte ( Garzanti) 1980. Notare la data. A molti la parola Avatar parve quella dell’ennesima, misteriosissima divinità indiana citata nell’opera.

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 16:30 da Gianfranco Manfredi


Ci sono voluti trent’anni perché la parola Avatar diventasse famigliare nell’immaginario collettivo occidentale.

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 16:33 da Gianfranco Manfredi


E’ misteriosa l’India o siamo misteriosi a noi stessi?

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 16:34 da Gianfranco Manfredi


Del resto, non sono oggi per tutti gli Avatar una razza esotica dalla pelle blu come le divinità indiane?

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 16:44 da Gianfranco Manfredi


Sempre a proposito di leggende indiane, la leggenda del re indiano Kalmashapada è riportata nel Mahabharata, il più grande poema epico indù. La storia narra che, mentre il re era a caccia nella foresta, incontrò Saktri, il maggiore dei figli di Vasishtha, un autorevole saggio vedico. Il ragazzo si rifiutò di spostarsi al suo passaggio e allora il re lo colpì con la frusta. Il figlio del saggio, infuriato, lo maledisse condannandolo a potersi nutrire solo di carne umana e a dissetarsi solo con il sangue. Da quel momento il re si trasformò nel vampiro rakshasa e, per tutta risposta, si vendicò nutrendosi del sangue e della carne di tutti e cento i figli di Vasishtha, compreso il giovane Saktri. Rimase in quello stato per dodici anni, finché il vecchio saggio non ritirò la terribile maledizione.
Buona parte di queste leggende indiane ha girato il mondo anche grazie all’opera dello scrittore ed esploratore di fine Ottocento Richard Francis Burton, che le ha riunite nella raccolta Vikram and the Vampire.

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 17:18 da Simonetta Santamaria


Ma allora i saggi fanno figli pirla?

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 17:21 da Gianfranco Manfredi


Questo week end molti di noi immagino lasceranno il forum perché ospiti del fantasy Horror Fest di Orvieto. Avendo postato fin troppo auspico che questa nostra salutare vacanza invogli altri ad impadronirsi del forum. Non solo Testeduovo ma i lettori e gli amici che hanno seguito questa maratona. Personalmente, ribadisco il mio ringraziamento a Massimo Maugeri. Ero abituato ai forum di fumetti nei quali in genere la parola degli autori è tabù perché giustamente i lettori preferiscono chiacchierare tra loro, senonché lo fanno in genere non per discutere delle storie, ma per inseguire dietrologie editoriali, anticipazioni, e fare la gara a chi è più paraculo a trovare il pettegolezzo del momento. Mi auguro che lo stile Maugeri dilaghi. Ho ritrovato (ultimo contributo) un saggio Einaudi nella mia biblioteca, piuttosto interessante ai fini del tema. Ve lo segnalo: Werner Fuchs, Le immagini della morte nella Società Moderna- Sopravvivenze arcaiche e influenze attuali. Riporto un breve passo da un interessante capitolo sui cimiteri: ” Circa cento o centocinquant’anni fa non vi erano né cimiteri pubblici accessibili a tutti, né leggi, né regolamenti statali per l’ambito dei cimiteri e dell’inumazione; la sepoltura era fondamentalmente affare della chiesa e delle famiglie riunite nella comunità. Solo verso la fine del XVIII e durante il XIX secolo ebbe inizio in questo settore l’intervento statale, con la promulgazione di minuziosi regolamenti legali.” Fuchs ricorda questo in contrapposizione alla tesi di Christian von Ferber, il quale afferma che la volontà odierna di ignorare la morte può essere intesa come privatizzazione della morte. Fuchs non smentisce questa tesi, ma ricorda come privatizzazione e intervento Statale corrano in parallelo. I cimiteri di Colma che ho ricordato oggi sembrano una perfetta illustrazione di questa tesi. La tendenza però ( Fuchs scriveva nel 1969 e ne è passata di acqua sotto i ponti) è verso la de-statalizzazione e la privatizzazione del cimitero oltre che dell’idea stessa della morte. Ciò che von Ferber sosteneva e cioè che la prima nemica della morte è la pubblicità, la quale esclude l’abbinamento della morte ai prodotti, all’inseguimento della mitica figura del consumatore felice, pare oggi smentito dalla pubblicità stessa che in modo sempre più evidente negli ultimi tempi abbina Morte e Merce. Oltre al caso sopra citato dei Monroe, Lennon e Mastroianni che pubblicizzano da morti la Citroen, abbiamo visto di recente Gandhi pubblicizzare la Telecom (se non ricordo male). Sarà l’età della crisi o del collasso finale, ma sempre più l’oggetto Merce si rivela Cosa scambiata tra Cose, Feticcio puro, Morte propagandata da morti per consumatori morti.

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 17:52 da Gianfranco Manfredi


@ Gianfranco, in realtà @ tutti: ” Che lavoro è, che comunicazione è, se i simboli stessi risultano occulti o meglio negati e impercepibili nel momento stesso della loro rappresentazione? Stiamo andando sul troppo difficile, temo. ” E se il difficile fosse il cammino ?

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Meglio allora procedere rasoterra, attenendosi alla lettera. Così, prima di passare dal jiin al crocifisso, attraverso la nudità classica, annoto, prima che me ne dimentichi, alcune frasi intercambiabili ( una specie di trasfusione…):

– “ Se catturate un omosessuale tenetelo all’impiedi e tagliatelo in due con una spada. Una volta morto, bruciatelo. Potete anche gettarlo vivo dall’alto di una montagna e poi bruciare i resti del cadavere. Oppure scavate una buca, vi accendete un falò e ve lo gettate dentro ancora vivo. Non bisogna avere un minimo di clemenza o di compassione, perché le offese che l’omosessuale arreca alla comunità di Allah meritano le peggiori punizioni”. ( L’ayatollah Musawi Ardibili nel 1988 agli studenti di Teheran).
- ” Ma Arthur non si è sgomentato. Lo si sarebbe detto un’immagine di Thor mentre il suo braccio senza tremiti si alzava e ripiombava giù, spingendo sempre a più a fondo, sempre più a fondo il pietoso paletto, mentre dal cuore trafitto il sangue ribolliva e schizzava tutt’attorno. Il suo volto era fermo e deciso, e l’alto dovere che compiva sembrava illuminarlo dall’interno; e quella vista ci ha infuso coraggio, tanto che le nostre voci sembravano rimbombare sotto l’angusta volta (…) Ivi, nella bara, più non giaceva l’orrida Cosa che avevamo tanto temuto e che eravamo pronti a odiare, al punto che l’opera della sua distruzione era stata concessa come un privilegio a quello di noi che ne aveva maggiori titoli, bensì Lucy, come l’avevamo vista in vita, il volto soffuso di dolcezza e di purezza senza pari.” ( Bram Stocker, “Dracula”).

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Si tratta, in entrambi i casi, di ristabilire la “purezza” allucinata dell’Origine, sulla base di una credenza mitica, sostenuta da un presunto “illuminato” ( un cieco illuminato) e dall’orda dei fratelli che lo seguono ciecamente.

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Nel cristianesimo, al contrario, il mito inventato per giustificare gli omicidi e i sacrifici della vittima di turno alla base dell’edificazione della civiltà cosiddetta umana, non è più operante. Diventa cioè manifesto ( e chiaro, benché ancora su sfondo oscuro…perché sempre vediamo attraverso un velo, anche linguistico ) che fare la festa significa fare la festa a qualcuno; e che questo qualcuno – il capro espiatorio – non è necessariamente IL colpevole, potrebbe anche essere innocente. O addirittura un dio – come nel brahmanesimo, con il sacrificio del purusha, nel cristianesimo con la discesa cristica dell’altro mondo in questo, oppure tra gli Indiani delle pianure, con l’autosacrificio del Bisonte, ecc.).
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Girardianamente, è questo il significato – diciamo antropologico – dello scandalo della Croce. L’abiezione, la kenosi, la discesa dell’innocente sulla croce, dell’agnus dei, è detta, non a caso, “innalzamento”. Qualcosa di divino “scende” dall’alto, viene da fuori, non per portare la solita morte ma per aprire a uno spazio, anche culturale, di non-morte. Una specie di supplemento di vita. Innalzamento, nel senso che da allora ci si rende conto che quello che il mito ( e le leggi) velavano, affinché fosse possibile la civiltà, era il sacrificio.
Con il cristianesimo la consapevolezza prima velata dal mito, s’innalza, e il reale diventa più largo – gettando le premesse del superamento dell’angustia della sola legge, e avviando complessi processi di secolarizzazione. D’altra parte, distogliendo il sacro dalla natura e assorbendolo tutto nell’Uno, si dà luogo a un monoteismo dai tratti astratti e violenti ( mitigato, nel cattolicesimo, dalla dottrina della Trinità – per la quale Dio non è l’Essere dei filosofi, né sostanza, bensì “relazione” universale fra Uomo-Terra-Cielo , ecc.). Ogni società umana ha bisogno, per sopravvivere, di una qualche relazione con il “cielo”.

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In Marocco ( poi del Dahomey e ad Haiti) ho partecipato a numerosi riti di possessione. Ne ho parlato in “Saggio sulla transe” di Georges Lapassade (Feltrinelli, poi Apogeo), nella rivista “Altrove” ( da dove Elemire Zolla mi chiese di estrarlo per pubblicarlo nella sua antologia per Einaudi “Il dio dell’ebbrezza”, poi in un testo intitolato “Il turbine dei vampiri”, un inedito, un ibrido che contiene frammenti diaristici e saggistici, che credo non pubblicherò mai, anche perché contiene riferimenti al periodo hippie che oggi è imbarazzante ricordare, non so perché…

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Ad ogni modo, quello che volevo dire è che nella derdeba ghnaoui si fa appello ai jiin, un termine che i neri deportati in Marocco lungo le piste sahariane, prendono dal Corano. Jiin, si forma a partire dal verbo jiinnama, che significa “nascosto”, “avviluppato”, “ombroso” ( anche il termine “feto”, oltre che “genio”, ha a che fare con l’etimologia di Jiin).
Gli iniziati alla possessione rituale però non usano il termine jiin, ma dicono di essere “presi”, posseduti dai “m’louks” – da m’lk, che significa possedere – da cui deriva il termine arabo malik ( che letteralmente significa “proprietario” e spesso viene tradotto con “re”). Dal radicale trisillabico MLK deriva anche il termine italiano mammalucco ( dall’arabo mamluck, che significa schiavo, in quanto proprietà del malek, il padrone, o del malik, il re).
I jiin, chiamati in dialetto marocchino anche “affrits” ( insetti fastidiosi, annidati nella testa), oppure, con un eufemismo, “quelli-di-laggiù”, è gente dell’ombra, gente che si nasconde. Se possiedono qualcuno, i lettori del Corano praticano l’esorcismo.
I m’louks invece sono dei visitatori con i quali si può stabilire una specie di alleanza, se li si riconosce e adorcizza tramite specifici rituali di possessione e liberazione. Secondo il mio amico Pierre Guicheney – autore della “Storia di Bilal”, illibro che ha dato vita alla casa editrice Sensibili alle foglie – si tratta di “riti di accoglienza”.
I m’louks, come i ragni del tarantismo, sono suddivisi per colore, abitano chi nel mare ( gli azzurri) chi nei mattatoi ( i rossi), chi nella foresta ( i neri), e ogni famiglia ha un capo e corrisponde a una precisa divisa musicale – risponde cioè solo a un tipo di vibrazioni, non ad altre ( a guidarli è il ritmo del guembrì, uno strumento a tre corde, con sul manico dei sistri tintinnanti – degno di nota, credo, è che a differenza dello sciamanesimo siberiano o anche del Nepal, non si usa il tamburo – non nel rituale, benché il tamburo esista presso gli ghnaua, ma viene usato solo per le questue oppurre negli spettacoli di piazza per i turisti).

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Mi viene in mente un’altra frase intercambiabile:

” Tu non sai amare” ( le tre-vampire a Dracula, nel romanzo di Stocker).

” Ma rifletti pecché tu nun ciai manco n’amico” ( Federico Mastrostefano a Busi, che sull’Isola dei famosi poco prima aveva detto: ” Ho passato la gioventù a battere nei cessi. Ma se uno mi dice: ‘vai in un paradiso’ e poi mi ritrovo in un cesso, allora m’incazzo’”).

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 18:07 da Gianni De Martino


Pensavo d’aver finito, ma sono stato al telefono a chiedere lumi sui morti a un amico pubblicitario. Scusa Gianni, è come sempre ricco il tuo intervento e me lo sono goduto, ma ci rifletterò con calma. Dunque la storia è questa. Quattro anni circa, la pubblicità, e anche la Moda, si infatua per la morte. Non ricompare soltanto Steve McQueen , ma dilagano anche immagini di disgrazie, cadaveri et similia. Qualcosa di ben diverso dal dark. E’ proprio estetica obitoriale. Contagia la fotografia, che ingrigisce e incupisce. Tornano come esempi di stile contrapposti alla volgarità dell’epoca, Audrey Hepburn e altre icone del passato. E’ secondo il mio amico il momento in cui le mani degli zombi escono dalla fosse, catturano le zampe del viandante e lo trascinano giù, con loro, tra i morti. L’attuale campagna Citroen, invece, secondo lui, segnala un cambiamento positivo . Icone revivalistiche invitano a non precipitare nel passato, ma a darsi una mossa e tornare a guardare al futuro. Personalmente lo trovo egualmente inquietante. Certo è che anche nella pubblicità passano i segni dei tempi , simbologie occulte e trasparenti profezie. Dai morti, in ogni caso, non si può più prescindere. Il Grande Silenzio sulla Morte è finito.

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 18:23 da Gianfranco Manfredi


Di niente, Gianfranco. Anche i tuoi interventi sono godibili. E ce ne sono di altri, deliziosi, quasi tutti sostanziosi. Grazie a Maugeri abbiamo fatto un bel pranzetto :-)

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 18:44 da Gianni De Martino


Quando presentai il mio racconto NECROMUNDUS, quello sugli zombi ambientato all’epoca della morte di Cristo, ci adentrammo in una discussione a proposito della resurrezione dei morti. Così come la Chiesa non accetta la non-vita del vampiro perché attribuisce la resurrezione solo a essere divino, non riconosce l’ipotesi del risveglio dalla morte che non sia quello dell’anima. E siccome io non so mai tenere la lingua abbastanza a freno, lanciai la mia provocazione: e se anche Gesù fosse uno zombi? Silenzio (tombale) in sala. Solo una signora in prima fila si fece il segno della croce.
Morte e resurrezione restano tabù misteriosi di cui si preferisce accettare solo l’icona sacra. Tutto il resto è demonizzato. Anche eventuali ragionamenti che dalla questione possono scaturire. Forse anche per questo noi scrittori horror siamo visti un po’ come esseri più demoniaci che angelici.

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 19:10 da Simonetta Santamaria


… Adesso si tratta di digerire. Chissà se i Vampiri fanno la cacca.

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CHIEDERE LUMI SUI MORTI AI VIVI E LUMI SUI VIVI AI MORTI ?
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Per fortuna o sventura non finiremo mai di chiedere lumi ai morti e ai libri, questo dono che i morti fanno ai vivi. Chiedere a Proust, per esempio, che nei Guermantes scriveva: “Nella malattia ci rendiamo conto che non viviamo soli, ma incatenati a un essere di un diverso regno, dal quale abissi ci separano, che non ci conosce e dal quale è impossibile farsi comprendere: il nostro corpo”.

*
Ogni tanto, però – come suggeriva quell’acuto filosofo tronista a un famoso letterato italiano – fatte’ na’ partita a tennis cu n’amico…
Non lo dico per addentare qualcuno, o perché sono intrepido ( tutt’altro!).
Sembrerà temerario, ma se scrivo è solo per rilanciare la palla, nientedimeno che … a una Silenziosa Signora :

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 19:11 da Gianni De Martino


P.S. Gli interventi di Gianni e Gianfranco sono assolutamente splendidi, al loro cospetto mi sento una mezza deficiente.
E faccio pure errori ortografici come “adentrammo” che voleva essere “addentrammo”.
Mi autoinfliggo una palettata di frassino su per il cervello. ;)

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 19:12 da Simonetta Santamaria


@ Simonetta (qualche post orsono). Il vampiro dal dentista è già arrivato. La serie TV francese “La squadra dei sortilegi”, anni ’70. Era il conte Alessio Sangueblu, poi in love con una dentista che nell’ultima scena provvedeva a s-caninarlo. Un atto, in apparenza, di castrazione…

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 19:23 da Franco Pezzini


@ Gianfranco, sul senso collettivo della lettura. Verissimo. Finito il liceo, per anni ci siamo trovati una sera la settimana tra amici, a leggerci brani – alternativamente a tema o liberi – per il puro gusto di farlo, senza ubbie intellettualistiche e divertendoci come pazzi. Qualcosa di privato, d’accordo. Considerati però i limiti SIAE alla lettura in pubblico, il far rinascere questo tipo di cellule finirebbe davvero con l’aver valenza politica… Buona Orvieto!

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 19:24 da Franco Pezzini


Auguro buon fantasy Horror Fest di Orvieto a chi andrà. Mi raccomando: prendete appunti e raccontateci!

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 21:02 da Massimo Maugeri


@ Flavio Santi e Danilo Arona
Ma che fine avete fatto?
:)

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 21:08 da Massimo Maugeri


Popolo dell’horror, Orvieto ci attende!
Mi raccomando, per quelli che resteranno, seguiteci sul canale 132 di Sky (anche se non so ancora se andranno in diretta…)
In attesa del nostro ritorno, meditate, meditate…
A presto!!!!!!!!!!
:) :)

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 21:42 da Simonetta Santamaria


Perché a volte… ritornano! ;)

Postato giovedì, 18 marzo 2010 alle 21:43 da Simonetta Santamaria


Ciao XD volevo dirvi che mi sono fatta degli schemi per rispondere alle domande e molte risposte penso anche di averle trovate, ma oggi provo solo a rispondere alla prima domanda:

-Perché la figura del vampiro è così prepotentemente entrata a far parte nell’immaginario collettivo mondiale?

allora non vi dirò tutto il ragionamento ma passerò direttamente al risultato XD: i vampiri sono i nostri miti di oggi!!
all’inizio erono brutti e cattivi poi in seguito gli sono stati attribuiti sentimenti, bellezza, potere e tante altre cose.
Adesso litigano e si amano cm essere umani o come meglio dire Come DEI!!
I vampiri hanno il potere di togliere la vita e donare immortalita cm loro.
Pensando voi direte che non hanno tutti i poteri che hanno gli dei, ma se notate ne hanno alcuni simili. ..poi se volete saperne di più sapete dove vontattarmiXD

Postato domenica, 21 marzo 2010 alle 20:59 da Chiara


Cara Claudia, grazie per essere intervenuta e benvenuta a Letteratitudine!
Ti invito, se hai tempo, a dare un’occhiata agli altri commenti pervenuti in riferimento alla prima domanda.

Postato domenica, 21 marzo 2010 alle 23:16 da Massimo Maugeri


Nel vampiro – riallacciandomi a quanto dice sopra Chiara – colpisce anche il senso di irrimediabile solitudine. Tanto più seducente quanto più ognuno di noi, molto spesso confuso in un gruppo, vorrebbe invece conoscere un uomo o una donna “superiori” che ci portino via dal magma spersonalizzante dei gruppi.

Postato martedì, 23 marzo 2010 alle 10:26 da claudio vergnani


Salve a tutti, entro con un certo imbarazzo, a discussione già inoltrata, su cortese suggerimento di Gianfranco Manfredi (che ringrazio).
Mi permetto di utilizzare le origini della narrativa vampirica italiana come ‘grimaldello’ per una questione che a me sta molto a cuore, e che forse preme ad altri partecipanti. In questa prospettiva spero di non finire ‘off topic’, nel quale caso mi scuso anticipatamente.
Mi riallaccio, ma a titolo puramente esemplificativo, a un’affermazione di Flavio Santi (di cui ho apprezzato molto “L’eterna notte dei Bosconero”) dello scorso 2 marzo, ossia (copio e incollo): “il primo racconto vampiresco italiano è di un insospettabile Luigi Capuana”. Mi piacerebbe rettificare o, meglio, retrodatare, certo non in forma polemica (non amo chi ‘fa le pulci’ per mettersi in mostra), bensì per un profondissimo amore per il fantastico popolare di casa nostra. Far rimontare le origini (moderne) della narrativa vampiresca nostrana al buon Capuana è un assunto che raramente si mette in discussione, e che ci tramandiamo, a detrazione della stessa storia della letteratura (che viene tradita, in primis, dai manuali scolastici).
E’ un assunto che va a braccetto con un altro, ossia che il fantastico italiano sia qualcosa di ‘alieno’ rispetto al fantastico anglosassone, francese, tedesco ecc. Uno sguardo ai tre quarti della saggistica e delle antologie dedicate alle origini del nostro fantastico (e vi includo, ovviamente, le sue declinazioni più macabre e orrorifiche), mostrerà come raramente questi si discostino dal concetto (e volutamente semplifico) ‘siamo per tradizione un paese più razionale e/o solare, e il fantastico da noi non poteva che generare una produzione sparuta, minore (anche per quantità) o comunque diversa, ironica e non spaventosa’.
Sulla quantità si sono ormai modificate le cifre, per cui l’idea del fantastico italiano come letteratura praticata solo in forma d’eccezione va sparendo; sulla tipologia, invece, mi pare che si siano fatti pochi passi in avanti (con le debite eccezioni, naturalmente), continuando ad esaminare, soprattutto per il Novecento, un fantastico all’insegna del “virtuosismo intellettuale”, citando dall’antologia “Notturno italiano” (1984), in due volumi, allestita da Enrico Ghidetti (curatore di entrambi i volumi) e da Leonardo Lattarulo (co-curatore del secondo volume). “Notturno italiano” è stato un lavoro davvero pionieristico, ma da quel 1984, nella sostanza, mi pare che buona parte della critica abbia progredito assai poco, nel restituire un ritratto del panorama fantastico italiano… Al di là degli autori riconosciuti, o ‘canonizzati’, o studiati e accolti perché percepiti come ‘intellettuali’, se guardiamo alle tirature, alle collane di larga circolazione, alle riviste di grande diffusione, se guardiamo insomma a ciò che le masse leggevano tra Otto e Novecento, nonostante l’analfabetismo dominante, vedremo che la nostra Italia pullulava di autori che partorivano storie ben poco solari e assai poco intellettuali, puntando piuttosto sull’emozione che poteva essere generata da un fatto di sangue o da un sinistro evento soprannaturale (testi italiani, non sto parlando delle traduzioni). Escludendo la trattatistica (scientifica, religiosa, divulgativa…) e il teatro, i vampiri sono protagonisti nella narrativa italiana molto prima di “Un vampiro” di Capuana (dapprima su “La Lettura. Rivista mensile del Corriere della Sera”, n. 7, luglio 1904, poi raccolto nel volumetto illustrato omonimo, insieme a “Fatale influsso”, Roma, Enrico Voghera, 1907). Specifico “protagonisti”, perché a cercare, come termine di paragone (allegorico, simbolico ecc.), o sotto forma di allusione letteraria, o più o meno storica (cioè ai presunti casi di vampirismo dell’Europa orientale), incontriamo vampiri non dico a ogni angolo, ma più di quanto ci si aspetterebbe: per fare un esempio, ne “La battaglia di Benevento. Storia del secolo XIII” (1827-1828) di Francesco Domenico Guerrazzi, un vero e proprio best seller dell’epoca, ci si imbatte in un personaggio decisamente lugubre, il conte di Caserta, di cui si legge (e cito): “Lì presso il tabernacolo stava immobile un uomo di persona più alta della comune; una cappa di panno oscuro cinta strettamente alla vita lo vestiva. Il suo sembiante… oh! il suo sembiante… era tale, che chi lo mirava per nessuna altra cosa sapeva più supplicare l’Eterno, se non per ottenere dalla sua pietà la dimenticanza di quel volto. La sensazione che agitava la gente alla sua vista non può ridirsi, che per via di paragone, assomigliandola a quella che suscita nel cuore dell’uomo sospeso sull’abisso delle acque l’urlo selvatico del mostro marino. I colori della malattia, e della paura gli stavano su la fronte: le guance aveva emaciate, il labbro tumido, e acceso. Nessuna scintilla, che accennasse la vita, balenava nei suoi occhi incavati, coperti di un velo, intenti, ghiacciati. Angeli del Paradiso! Parevano quelli di un vampiro. La sua immobilità, e le membre abbandonate a se stesse facevano riputarlo un morto, così fissato in piedi lungo la parete per indurre a penitenza con tanto spaventoso spettacolo chiunque si fosse volto a pregare là dentro; ma facendosegli assai da vicino, vivo lo manifestavano il grave respiro, e il tremolare del labbro superiore in brivido affannoso”.
Guerrazzi inserisce persino un’apposita nota per la parola “vampiro”, e cioè: “Superstizione che anche oggidì esiste in Ungheria, in Moldavia, ec. ec. e specialmente in Grecia: credono che il corpo di uno scomunicato esca dalla fossa a succhiare il sangue dei vivi. Il Dot. Polidori, descrivendo gli occhi di un vampiro, dice: ‘Che cadeano su la pelle come un raggio di piombo che gravitasse senza penetrare’”. Chi fosse curioso di leggere il passo più estesamente, può trovare sul web più di una edizione scannerizzata del romanzo, oppure può reperirlo in un estratto che, assieme a Claudio Gallo, ho inserito nell’antologia “Ottocento nero italiano. Narrativa fantastica e crudele” (Savigliano, Aragno, 2009). Guerrazzi, attento da una parte alla narrativa gotica e fantastica, e dall’altra attento al suo pubblico, cerca di fornire alcune brevi coordinate per il lettore che di ‘certe cose’ è a digiuno.
A quanto mi risulta, sul piano della narrativa italiana, il primo vero romanzo dedicato espressamente ai vampiri è “Il vampiro. Storia vera” (1869) di Franco Mistrali, che, sempre in compagnia di Claudio Gallo, avrò occasione di ripubblicare per l’editore milanese Greco & Greco. Soprassedendo sullo stile e sulla struttura, che in più punti sono fumosi e farraginosi, bisogna dire che si tratta comunque di un testo non privo di attrattive e sorprese. Non riassumo la trama per chi avesse curiosità di leggerlo, ma vi anticipo che nel corso del romanzo si assiste a un completo ribaltamento di prospettiva: si parte con l’intenzione di scoperchiare i sepolcri per stanare e combattere i vampiri, e poi, invece, …e qui mi fermo. Il merito di aver riesumato – è proprio il caso di dirlo! – per primo questa storia va al grandissimo ‘vampirologo’ Fabio Giovannini, che ne ha trascritto un significativo brano per il catalogo, da lui curato, della mostra e manifestazione romana “Vampirismus. Gotico e fantastico nel mito del vampiro” (Roma, Alfamedia, 1986). Riccardo Reim, brillante divulgatore ma (a mio personalissimo avviso) tutt’altro che eccelso ricercatore, ha ripreso pari pari il medesimo passo aggiungendolo come appendice a due differenti edizioni che ha curato de “L’ospite di Dracula” (“Dracula’s Guest”, 1897) di Stoker, proemio mancato del celebre romanzo (la prima: Roma, Lucarini, 1990; la seconda: Roma, Armando, 2000 – Reim ha curato altre edizioni di Stoker, ma sorvolo per ovvie ragioni di spazio).
Giovannini spende alcune righe su Mistrali anche nel suggestivo “Il libro dei vampiri” (Bari, Dedalo, 1985 e 1997). Del romanzo si è però occupato soprattutto Giuseppe Tardiola nel suo incompleto ma interessante saggio “Il vampiro nella letteratura italiana” (Anzio, De Rubeis, 1991). Ne parla anche Vito Teti ne “La melanconia del vampiro” (Roma, Manifesto libri, 1994), Guido Andrea Pautasso nel superficiale “Appunti per una ricerca sul tema del ‘vampiro’ nella letteratura italiana” (sulla rivista “Lingua e Letteratura”, XI, 21, Autunno 1993), articolo scorciato e riciclato nel 1998 per il catalogo d’una mostra milanese curata da Riccardo Mazzoni (“Vampiri. Miti, leggende, letteratura, cinema, fumetti, multimedialità”, Milano, Editrice Nord, 1998), e ne parla anche Massimo Introvigne nel centone “La stirpe di Dracula” (Milano, Mondadori, 1997), monografia talvolta ben tessuta, talvolta un po’ raffazzonata.
Questo elenco bibliografico che ho riportato (forse pedante, perdonatemi!), potrebbe apparentemente smentire quanto dicevo sopra a proposito degli studi e delle ricerche sul fantastico italiano. Tengo perciò a precisare che i vari testi segnalati si concentrano volutamente sulla tematica vampirica, e non sullo stato o sulla fisionomia del nostro fantastico (e non intendo certo sminuirli per questo: si tratta di testi che per l’appunto non perseguono tale scopo, mirando ad altre finalità).
Altri racconti di vampiri italiani pre-Capuana (e non genericamente vampireschi: intendo di vampiri che, anche se non proprio ‘ortodossi’, sono pur sempre appellati “vampiri”), senz’altro intriganti, sono – per riportare ancora un paio di esempi – “Vampiro innocente” di Francesco Ernesto Morando (sul “Fanfulla della Domenica”, n. 33, 16 agosto 1885; chi volesse, lo trova nel citato “Ottocento nero italiano”) e “Il vampiro” di Giuseppe Tonsi (su “La Domenica del Corriere”, n. 44, 2 novembre 1902, poi raccolto nell’omonimo volume, con sottotitolo “Racconti incredibili”, Catania, Giannotta, 1904). Chi fosse interessato a quest’ultimo racconto, lo trova riproposto in un paio di antologie: “Il vero e la sua ombra” a cura di Leonardo Lattarulo (Roma, Quiritta, 2000) e “Fantastico italiano”, curato da Costanza Melani (Milano, BUR, 2009).
Ora – e qui temo di andare fuori tema (perdonate il bisticcio) – vale la pena di notare come sia Lattarulo che la Melani abbiano ignorato la prima comparsa del testo di Tonsi sulla “Domenica del Corriere”, segnalando soltanto il volume in cui viene inserito due anni dopo. Osserverete voi (sempre che abbiate avuto la santa pazienza di arrivare fin qui, data la lunghezza morbosa del mio post): ‘Ma che differenza fa, in fondo, un paio di anni? 1902 o 1904, del solito testo si tratta…’.
Vero, ma fino a un certo punto. Se si pensa che entrambi gli studiosi, palesemente, sposano l’idea che in Italia il fantastico dell’Otto e del primo Novecento non abbia avuto uno sviluppo popolare, ma pressoché solo intellettuale, allora l’omissione diventa sintomatica del disinteresse e del pregiudizio: viene il sospetto che, se il racconto l’avessero scovato direttamente sulla “Domenica del Corriere”, anziché in un volume di un editore che, tra i vari, pubblicava Capuana e Verga (il catanese Giannotta), non lo avrebbero ritenuto all’altezza di figurare in un’antologia sul fantastico italiano.
Mi sembra che ci sia ancora molto da lavorare, per trarre un bilancio approfondito (e imparziale) delle origini moderne e soprattutto popolari (o “pulp”, o come volete chiamarla voi…) del nostro fantastico… Interrogandoci sull’operato della critica, si potrà ben capire perché, ancora oggi, scrittori di indubbio talento e mestiere vengano con leggerezza definiti “spazzatura” (per chi non ci credesse, consiglio di leggersi il pezzo di Gabriele Pedullà, “Che fantastico, il Novecento!”, su “Il Sole 24 Ore” dello scorso 14 febbraio, in cui si stronca senz’appello la narrativa popolare, da quella proposta in “Ottocento nero italiano” fino a quella di firme del calibro di Evangelisti e Altieri).
Spero di non avervi oppresso, con questa mia tirata, come fa l’incubo sui poveri dormienti.

Postato mercoledì, 24 marzo 2010 alle 15:29 da Fabrizio Foni


Ringrazio Fabrizio Foni per questo corposo e interessante intervento (in effetti, più che un commento è una corposa monografia).
-
E ringrazio Fabrizio per averlo re-inserito. L’aveva postato ieri sera, ma poi – per motivi che non ho compreso – si è dissolto nel nulla (perdonami Fabrizio, non riesco a capire cosa sia successo).
Per fortuna questo è un post sui non-morti… e anche i commenti deceduti ritornano in vita.
;)

Postato mercoledì, 24 marzo 2010 alle 20:27 da Massimo Maugeri


Secondo voci di corridoio Simonetta Santamaria avrebbe vinto una certa orrorifica competizione letteraria…
Simonetta, ci sei? :)

Postato mercoledì, 24 marzo 2010 alle 20:33 da Massimo Maugeri


Ringrazio io Massimo Maugeri per la sua squisita tolleranza :)
Per quanto riguarda la misteriosa scomparsa del primo post: non c’è da scusarsi, ci mancherebbe… anzi, mi pare il minimo quando si parla di vampiri (e perciò, in qualche modo, li si ‘evoca’).
Il mio post è davvero fluviale, mi sono fatto prendere (alquanto) la mano.
L’argomento, però, mi stava davvero a cuore!

Postato mercoledì, 24 marzo 2010 alle 21:10 da Fabrizio Foni


Io direi che il tuo post è un piccolo saggio, caro Fabio. Bravo!

Postato mercoledì, 24 marzo 2010 alle 21:36 da Massimo Maugeri


Dopo il brillante intervento di Foni, mi sento di rifare capolino per rivolgere un appello . Quando ero ragazzo uscivano in edicola dei romanzetti horror pulp , per esempio quelli della serie KKK, che oggi si trovano solo sulle bancarelle dell’usato e dei quali non mi è mai capitato di leggere uno studio che li abbia catalogati. Erano tutti pubblicati con nomi americani o inglesi, ma si trattava spesso di pseudonimi di autori italiani anche illustri che grazie a questi sotterfugi letterari recuperavano un extra con cui ingrossare il proprio bilancio. In altre parole, gli americani eravamo noi! In Spagna era avvenuto lo stesso: autori spagnoli sotto pseudonimo americano scrivevano un’infinità di horror da edicola e non solo di horror , anche spy stories, gialli , erotici, fantascienza e western. Qualcuno di questi autori è stato ripescato e riportato alla luce dagli appassionati. In Italia ciò non è ancora avvenuto. Di qui l’appello: c’è qualche collezionista di KKK, qualcuno che conosce come andò la vicenda editoriale di quella serie, qualcuno che possa ricostruire quali autori si nascondevano dietro quegli pseudonimi? I nomi dei registi italiani che all’epoca del western spaghetti si davano nomi stranieri sono stati in seguito resi pubblici e manifesti. Possibile che i nomi degli autori letterari debbano restare ancora occulti?

Postato giovedì, 25 marzo 2010 alle 12:06 da Gianfranco Manfredi


Aggiungo questo. Lo stile dei romanzetti KKK, non era affatto corrivo come si potrebbe pensare. Veniva spesso da dire: “Com’è tradotto bene!”, in quanto l’italiano era migliore di quello di molte traduzioni del Giallo Mondadori. Ciò avveniva appunto perché non venivano affatto tradotti, ma erano stati scritti in italiano! L’horror era quasi sempre accompagnato da venature spiccatamente erotiche, sbandierate in copertina dalle tipiche immagini di fanciulle più conturbanti che perturbanti. Questo mix era posto in risalto anche nello stile letterario. Ricordo ad esempio una frase, letta da ragazzino in un romanzetto vampirico da edicola, che mi restò scolpita in mente: “aveva i capezzoli duri come corniole”. Dovetti ricorrere al vocabolario per decifrare “corniole” (ciliegie di un tipo insolitamente duro). Nessun traduttore avrebbe mai usato quel termine, linguisticamente piuttosto ricercato. Soltanto un autore italiano e di un certo livello stilistico avrebbe potuto impiegarlo. E dunque: facciamoli saltar fuori dal buio questi progenitori che tanto hanno fatto per mantenere vivo (e persino ruspante) il non-morto!

Postato giovedì, 25 marzo 2010 alle 12:19 da Gianfranco Manfredi


Segnalo a questo proposito la pagina http://www.fantascienza.com/magazine/rubriche/6638/terrore/
che elenca queste serie degli anni 60:
I Capolavori della serie KKK ; I Classici dell’Orrore; I Racconti di Dracula; e la rivista mensile Terrore (racconti di Vampirismo, Magia Nera, Satanismo, Stregoneria, Occultismo, Spiritismo).
La pagina recita: “Molti gli autori italiani sotto pseudonimo (Walt Lothar, Stere O. Crevit, Anonimo del XXXI Secolo)” . Questi alcuni degli pseudonimi, ma a chi corrispondevano?

Postato giovedì, 25 marzo 2010 alle 12:32 da Gianfranco Manfredi


Con i suoi post Gianfranco Manfredi mi sprona a intervenire di nuovo. Non si può davvero ignorare, come dice Manfredi, quella vitalissima produzione di narrativa italiana ‘pulp’ degli anni Sessanta-Settanta, di cui confesso di essere piuttosto ignorante. Al di là di qualche volume acquistato sulle bancarelle, non ho mai effettuato una ricognizione né una ricerca in merito.
Però andrebbe fatto, con la dovuta serietà, e l’ideale sarebbe una mostra (con relativo catalogo) che non tralasciasse la grafica (le copertine, inscindibili dalla storia, almeno per comprendere l’appeal esercitato sul lettore dell’epoca) ed esaminasse i forti legami con il cinema horror-gotico e i cosiddetti fumetti ‘neri’ di casa nostra. Sono molto suggestivi, a questo proposito, almeno un paio dei volumi pubblicati dalla fiorentina Glittering Images: mi riferisco a “Horror all’Italiana 1957-1979″, del 1996, a cura di Stefano Piselli e Riccardo Morrocchi, con testi di Antonio Bruschini, prefazione di Barbara Steele e postfazione di Antonio Margheriti, e a “La dolce paura (Sweet Fear)”, del 2005, di Piselli e Morrocchi. Narrativa, fumetto, cinema e fotoromanzo risultano (com’è naturale che sia) saldamente intrecciati, a tessere la tela del medesimo immaginario: chi volesse studiare il film “La vergine di Norimberga” (1963) di Antonio Margheriti non dovrebbe trascurare l’omonimo romanzo del 1960, della serie “KKK”, a firma di tale Frank Bogart. Anche i registi italiani di pellicole di ‘genere’, dal western all’horror, si celavano dietro pseudonimi anglofoni. Date un’occhiata ai titoli di testa di qualche film, ad esempio de “L’orribile segreto del Dr. Hichcock” (1962) di Riccardo Freda (che si propone come Robert Hampton), dove lo scenografo Franco Fumagalli diventa Frank Smokecocks (!!), e così via. Il motivo non era ovviamente un’intransigente esterofilia, ma la consapevolezza che il pubblico non si sarebbe ‘fidato’ di una produzione visibilmente italica: divertentissimo quanto raccontò lo stesso Freda, che si era appostato fuori d’un cinema dove si proiettava il suo “I vampiri”, del 1956, e vedeva i passanti che erano intrigati dal titolo e dai posters, ma poi, leggendo che era una realizzazione italiana, storcevano il naso e andavano via, temendo la fregatura.
Per chi fosse interessato ad andare in cerca (o meglio, “in caccia”) delle serie horror da edicola menzionate da Manfredi, consiglio di dare un’occhiata all’indice per collana (http://www.fantascienza.com/catalogo/INDCOL2.htm) del Catalogo Sf, Fantasy e Horror a cura di Ernesto Vegetti (purtroppo recentemente scomparso), Pino Cottogni ed Ermes Bertoni. Troverete un elenco generalmente accurato di collane italianissime quali “I racconti di Dracula” o “KKK. I classici dell’orrore”.
Per quanto ne so (cioè poco o niente), in vari casi il presunto traduttore era il vero autore.
La figura del vampiro, pur non essendo ‘esclusiva’, era comunque spesso al centro delle trame (il nome “I racconti di Dracula” parla chiaro, siamo d’altronde ‘a tiro’ del “Dracula”, 1958, di Terence Fisher).
Su “I racconti di Dracula” segnalo “Gli scrittori dell’orrore” di Sergio Bissoli (Collegno, Ferrara Edizioni, 2007): in circa centocinquanta pagine dense di informazioni e illustrazioni (più di ottanta), questa monografia, che l’autore afferma essergli costata oltre quarant’anni di ricerche, traccia la storia della collana, riscoprendone in dettaglio gli autori, i motivi, l’iconografia (certo non secondaria quando, come in questo caso, si tratta palesemente di letteratura di consumo – e lo dico in senso ‘tecnico’, non dispregiativo). I pregi e i difetti del volume sono da un lato un’indagine approfondita, completa, inedita, dall’altro una chiara predilezione che inficia non di rado l’ ‘obiettività’ del giudizio critico (ad esempio il paragone – qualitativo, oltre che tematico – con Poe e Lovecraft), nonché uno stile a tratti tutt’altro che encomiabile. Precedentemente, sempre Bissoli, aveva pubblicato un breve profilo della collana in un articolo apparso in due puntate dal titolo “Dracula e i suoi figli italiani”, su “Horror” (nn. 1 e 2, maggio/giugno e luglio/agosto 2003). Ovviamente, non si tratta della mitica rivista “Horror” dell’editore Gino Sansoni, ma della sfortunata riproposta ad opera di Profondo Rosso Edizioni.
Quella di Bissoli è la rievocazione appassionata e nostalgica d’un collezionista, più che un saggio critico.
Preceduta di pochi mesi da “KKK” (il cui primo volume risale al 17 giugno 1959) delle romane Edizioni KKK, la serie de “I Racconti di Dracula” prese avvio il 15 dicembre del medesimo anno, per i tipi della ERP (Editrice Romana Periodici), con il romanzo “Uccidono i morti?” a firma Max Dave. In realtà, si trattava di uno dei vari pseudonimi con cui si fregiava Pino Belli, ufficiale di complemento nella Marina, e prolifico autore di narrativa fantastica, poliziesca e persino di guerra e spionaggio. Secondo Bissoli (e cito dalla prima puntata dell’articolo), “Le opere migliori nei ‘Racconti di Dracula’, con le relative ottime copertine, sono state pubblicate durante la prima metà della prima serie e cioè da dicembre 1959 fino al gennaio 1966. Dopo questa data incomincia […] la decadenza inarrestabile della collana”. All’insaputa dei numerosi lettori, i narratori erano italiani, perlopiù ‘dopolavoristi’, “e scrivevano usando 2, 3 o più pseudonimi. Il vero nome dell’Autore era quello del traduttore. Il titolo originale inglese era falso. Il traduttore non esisteva. Il nome del traduttore era di solito il vero nome dell’autore” (quando cito, in questo post, è sempre da Bissoli). Si apprende così come dietro Frank Graegorius si celava lo psichiatra Libero Samale, dietro Morton Sidney una delle più note firme del giornalismo scientifico, Franco Prattico, dietro Red Schneider il magistrato Giuseppe Paci, e Bissoli riporta numerose altre informazioni, svelando la reale identità di altri scrittori, e persino testimonianze circa le tirature e i compensi: “Gianfranco Farolfi addetto alla contabilità mi disse che la tiratura reale dei [Racconti di] Dracula era di 20.000 copie”, e inoltre: “L’editore pagava negli anni 60 Lire 55.000 per un Racconto di Dracula”.
Dati che andrebbero vagliati attraverso un’indagine più attenta e meno faziosa, ma che nondimeno saranno imprescindibili al momento in cui qualcun altro decidesse di compiere uno studio analitico su quello che, negli anni Sessanta, rappresentò un rilevante fenomeno culturale in seno alla società di massa. Una storia, se si vuole, carica anche di piccoli ‘gialli’, quale è appunto la recisa smentita, da parte di Bissoli, che sotto il nome di Max Dave operasse tale Gaetano (qui, per la precisione, “Giuseppe”) Sorrentino, come si trova invece accreditato nel saggio “I vampiri” di Domenico Cammarota (Roma, Fanucci, 1984), e poi ripreso da Fabio Giovannini (“Il libro dei vampiri”, Bari, Dedalo, 1985 e 1997), Giuseppe Tardiola (“Il vampiro nella letteratura italiana”, Anzio, De Rubeis, 1991) e Massimo Introvigne (“La stirpe di Dracula”, Milano, Mondadori, 1997).
Particolarmente interessante, infine, è una lettera di Giuseppe Paci, riprodotta nella seconda puntata (con il titolo “Quando ero Red Schneider”), dalla quale emerge chiaramente come si trattasse di letteratura ‘su commissione’.

Postato giovedì, 25 marzo 2010 alle 16:45 da Fabrizio Foni


Da rapida ricerca dopo l’intervento di Foni, rilevo che la pattuglia più cospicua degli autori horror italiani sotto pseudonimo americano, è formata da donne. Ne ha parlato Danilo Arona su:
http://www.brividocafe.it/blog/?p=73

Tra le altre va ricordata Laura Toscano che vanta forse il più alto numero di pseudonimi. Laura Toscano è deceduta l’anno scorso. E’ stata una delle più valenti sceneggiatrici cinematografiche italiane . Sua la sceneggiatura del riscoperto da Tarantino “Quel maledetto treno blindato” e suo il personaggio (e gli script) della serie di telefilm “Il Maresciallo Rocca”. Ha pubblicato anche diversi romanzi con Mondadori.

Signori, l’horror in Italia lo hanno scritto soprattutto le donne, doppiamente di nascosto, in quanto italiane e in quanto donne.

Postato giovedì, 25 marzo 2010 alle 18:31 da Gianfranco Manfredi


Un’ulteriore conferma, mi pare, di come ci siano alcune categorie del nostro fantastico-horror che meritano di essere riscoperte, filoni e categorie ‘ghettizzati’ perché ora considerati troppo popolari, ora perché destinati ai ragazzi, ora perché materiale da e soprattutto di ‘donnicciole’ (e parlando di “categorie”, in qualche modo, le sto ghettizzando anch’io… ma lo faccio ovviamente per schematizzare). Bisognerebbe forse, allora, rovesciare la domanda che troppo spesso ci siamo posti, e cioè: anziché “In quali periodi l’Italia ha avuto un horror di massa?” dovremo chiederci “In quali periodi l’Italia NON ha avuto un horror di massa, checché ne dicano i critici?”.

Postato giovedì, 25 marzo 2010 alle 18:49 da Fabrizio Foni


Ciao Massimo! Si sono sempre qui, in sordina perché se caccio la testa fuori dal sacco mi bombardano. E’ in atto una polemica di fuoco sul Fantastique che non sto qui a dire perché mi rivolta.
Mannaggia a me che non ci volevo neanche partecipare. Due concorsi, due premi e una palata di critiche, in ogni caso pare che non sia mai quello il mio posto.
Quindi me ne ritorno nel mio antro buio in attesa che dimentichino il mio nome.
P.S. A Orvieto ho fatto splendide amicizie. Tra i presenti Gianfranco Manfredi che approfitto per salutare con affetto, compagno di fumate fuori ai portoni. E’ stato questo l’aspetto più bello del festival.
Ma si sa, noi di Napoli ci portiamo il sole dentro, e tutto ci piace, specie se ci ricambiano con un sorriso.
:)

Postato giovedì, 25 marzo 2010 alle 21:47 da Simonetta Santamaria


@ Gianfranco e Fabrizio
Grazie per i vostri nuovi interventi.
Speriamo che Sergio Altieri riesca a inviare il suo contributo alla discussione.

Postato giovedì, 25 marzo 2010 alle 23:28 da Massimo Maugeri


@ Simonetta
Sorrisi a iosa per te.
:)

Postato giovedì, 25 marzo 2010 alle 23:28 da Massimo Maugeri


Grazie Massimo! I sorrisi mi ricaricano, e poi oggi qui c’è il sole!! Stamattina di buon’ora aono andata a farmi un giro in moto, col mio hard rock sparato a palla nel casco e ora tutto a posto. Il mio cervello ha fatto un sano reset. Punto e a capo.
Volevo però aggiungere che a Orvieto ho conosciuto anche il mitico Paolo De Crescenzo, persona dalla rara gentilezza. E il tanto atteso in questo thread Sergio “Alan D” Altieri, tanto grande quanto simpatico, e Gianfranco Nerozzi, il grande Nero, e Andrea G, Colombo di Horror.it… Che meraviglia che sono tutti!!
Sono loro, e quelli come loro, i cardini del nostro horror italiano.
Mi dispiace invece di apprendere dal post di Fabrizio della scomparsa di Ernesto Veggetti di Fantascienza.com che aggiornava i cataloghi con cura e precisione quasi maniacale; era una persona deliziosa, conservo ancora le mail che mi mandò quando volle inserirmi nella sua banca dati.
Perdonate questa divagazione, ma a volte far sentire che non siamo macchine da guerra tutte idee e tasti da battere mi fa piacere. Come mi fa piacere ricordare pubblicamente degli amici. Morti o vivi che siano non fa differenza.

Postato venerdì, 26 marzo 2010 alle 09:36 da Simonetta Santamaria


Saluto Simonetta Santamaria e, andando ‘off topic’ (non vogliatemente), copio e incollo un link dal blog di “Urania” sulla scomparsa di Ernesto Vegetti (http://blog.librimondadori.it/blogs/urania/2010/01/20/a-ernesto/), che non ho mai avuto modo di incontrare personalmente, ma che per e-mail era, come conferma Simonetta, davvero gentile. Di idee politiche ben precise, piuttosto distanti dalle mie e da quelle di tanti altri, era un conoscitore e un appassionato speciale di fantascienza, fantasy e horror, e si era guadagnato il profondissimo rispetto di coloro che non la pensavano come lui. Non parlai mai di politica con lui. Ricordo quanti apprezzamenti mi fece quando gli inviai la monografia “Alla fiera dei mostri” (per la quale mi aveva gentilmente recuperato alcune immagini che mi servivano). Il catalogo da lui realizzato era e resta il più accurato in Italia. Questo post può sembrare un retorico ‘coccodrillo’, ma non lo è.

Postato venerdì, 26 marzo 2010 alle 12:39 da Fabrizio Foni


Un saluto a Simonetta e un grazie a Fabrizio per il link sulla scomparsa di Ernesto Vegetti.

Postato venerdì, 26 marzo 2010 alle 21:16 da Massimo Maugeri


Qualche tempo fa in questo blog ci domandavamo l’origine del nome Varney ed ecco che l’introduzione (magnifica) di Pagetti al primo volume del romanzo-fiume per Gargoyle offre la spiegazione: si tratta dello spietato vilain di ‘Kenilworth’, cupo romanzo di Walter Scott (1821) ambientato in età elisabettiana. Questo Varney, figura storica, apparteneva probabilmente a una delle famiglie di cui parlavamo: e considerando quel che si racconta [“And Sir Richard Varney, the other, dying about the same time in London, cried miserably and blasphemed God, and said to a person of note (who has related the same to others since) not long before his death, that all the devils in hell did tear him in pieces”: cfr. http://elfinspell.com/Castles-Abbeys-Bldgs/Timbs/CumnorPlace.html pare un personaggino piuttosto interessante per costruire un eroe nero morto inquieto, destinato a tornare. Viene peraltro da domandarsi se la presenza nel ‘Varney’ di cognomi curiosamente consonanti come Bannerworth e Chillingworth non rappresenti una sorta di gioco proprio per ammiccare a ‘Kenilworth’…
Molto saggiamente in questo blog si è proposto di dissodare la letteratura non-horror alla ricerca di riferimenti vampireschi. E vorrei citare lo splendido ‘Il vampiro innominato’ di Renato Giovannoli edito un paio d’anni fa da Medusa, che spinge a pedinare l’icona vampiresca attraverso i percorsi della grande letteratura. Diviso in sei dossier di caccia (al vampiro, ovviamente) parte dai rapporti tra Manzoni, Stoker e Poe: e uno degli spunti più brillanti sta nell’individuazione di un virtuale romanzo gotico parallelo ai Promessi sposi attraverso le illustrazioni febbrili – demoni, spettri, gatti mammoni – che Manzoni stesso commissionò con puntuali didascalie a Gonin. Per proseguire sul vampirismo in Joyce, Kafka (Il Castello come parodia del Dracula) e nel Peter Pan di Barrie: e il titolo Il vampiro innominato certo si riferisce al vilain manzoniano (ripreso liberamente nel già citato The Last Lords of Gardonal di Gilbert); ma più in generale richiama quell’icona-costellazione, più o meno inafferrabile, che sembra emergere persino tra le opere più insospettate. Sui singoli spunti di Giovannoli può sussistere, ovviamente, spazio di discussione: ma la miniera di provocazioni è davvero illuminante.
D’altra parte, alla luce di quanto appena visto sul nome di Varney, occorrerebbe condurre anche l’operazione parallela: mappare cioè le fonti d’ispirazione, non necessariamente “vampiresche” in senso proprio – nomi, luoghi, topoi e strutture narrative, eccetera – alla base della letteratura di vampiri, cominciando da quella “classica”. Fonti che spesso sfuggono, a partire da certa letteratura romantica di grande successo nell’Ottocento ma in seguito un po’ accantonata: e il caso di Scott sembra emblematico. Un lavoro lungo, ma che sicuramente riserva sorprese – e progressivamente ci si arriverà.

Postato lunedì, 29 marzo 2010 alle 21:03 da Franco Pezzini


@ Franco Pezzini
Caro Franco, grazie per questi tuoi riferimenti a Varney e a ‘Il vampiro innominato’ di Renato Giovannoli.
E grazie anche per la tua successiva disamina.

Postato lunedì, 29 marzo 2010 alle 21:51 da Massimo Maugeri


@ Pezzini. Ho appena letto anch’io l’introduzione a Varney di Pagetti. Il riferimento a Walter Scott è illuminante. Nel racconto di Poe “Vampiri a Manhattan” il suo scrittore fallito ha l’ambizione di diventare un nuovo Walter Scott. L’importanza di Scott come transito tra il gotico classico e la narrativa pre-romantica, è fondamentale. Purtroppo Scott in Italia lo conosciamo poco e male, per Ivanhoe e Rob Roy soprattutto, ma opere come Il talismano (sui templari e le crociate) o sul periodo elisabettiano (nel quale Scott nonostante i suoi assunti da romanzo storico anticipa addirittura di qualche decennio Shakespeare facendogli pronunciare frasi de La tempesta, molto prima d’averla scritta), le conosciamo poco o per nulla. Kenilworth è tra queste (il testo si può trovare on line gratuitamente) e all’epoca era considerato più un romanzo gotico che un romanzo storico in senso proprio. Mi pare indubbio che il Varney vampiro derivi dal Varney di Scott. Quando al Gardonal, dato che vivo in un paese un tempo sotto il dominio grigione, che si chiama Gordona, ho svolto qualche indagine. Nell’attuale Svizzera non esiste alcun villaggio che possa somigliare neppure vagamente a quel nome. Gordona è il nome più simile a Gardonal. Secondo alcuni il nome deriva dal celtico Gur-Dun (acuto monte) . Risale al 1195. Divenne una roccaforte di grande importanza strategica perché lungo la via d’accesso al cuore dei Grigioni. Tuttavia nel seicento (secolo d’ambientazione del Gardonal di Gilbert) doveva essere un paese spettrale, perché prima fu coinvolto e raso al suolo durante le guerre di religione e poi solo parzialmente ricostruito e abitato perché considerato troppo esposto e pericoloso . Quel riferimento nel titolo ai Last Lords, pare indicare una dinastia ormai agli sgoccioli e potrebbe dunque essere coerente.

Postato mercoledì, 31 marzo 2010 alle 18:20 da Gianfranco Manfredi


Interessante anche la figura dello scrittore vittoriano Gilbert, autore oltre che di Last Lords, anche di Wizard of the Mountain (1867) dove compare un personaggio di Mago e astrologo, ucciso e di poi fantasma infestatore, chiamato Innominato. Compare anche nel racconto The Innominato Confession. Evidentemente era rimasto quanto mai attratto dagli aspetti “neri” del romanzo del Manzoni. Risulta anche un suo racconto vampirico : Vampires and Ghouls (1871).

Postato mercoledì, 31 marzo 2010 alle 19:28 da Gianfranco Manfredi


In apertura di Last Lords Gilbert precisa che Gardonal sorge vicino al villaggio di Madaline… altrettanto inesistente. Perché precisare una geografia del tutto inventata? Gardonal potrebbe essere un termine spagnoleggiante ( Gardonal-Cardonal-Cardinale) , ma Madaline ? Per il resto la storia si orienta dall’iniziale ambientazione in Engadina , a Bormio, dove vive la protagonista femminile Teresa Biffi, primo nome credibile che compare, in quanto Biffi è nome diffuso in Lombardia. Bizzarro incrocio tra invenzione e precisione linguistica… questo Gilbert va studiato.

Postato mercoledì, 31 marzo 2010 alle 19:34 da Gianfranco Manfredi


Errata: Vampires and Ghouls non è un racconto, ma un articolo, comparso in un’antologia di Gilbert, ma probabilmente scritto nientedimeno che da Charles Dickens che fa un riassunto della leggenda, a partire dalla “peste vampirica” e conclude quanto segue: “All the stories of vampyres, ghouls, and were-wolves, we may safely assert, can find their solution in a combination of three causes–a sort of epidemic superstition among ignorant persons; some of the phenomena of trance or epileptic sleep; and special monomaniac diseases which it is the province of the physician to study. ” Cioè secondo Dickens il mito moderno del vampiro origina da una combinazione di tre elementi: 1. superstizione popolare; 2. malattie catatoniche; 3. Ignoti disturbi maniacali che richiederebbero più attento studio medico.

Postato mercoledì, 31 marzo 2010 alle 19:55 da Gianfranco Manfredi


Da notare che rispetto ai tempi di Voltaire, il quale riduceva tutto a superstizione e giudicava del tutto inutili e fuorvianti esami medici, Dickens per quanto altrettanto scettico riguardo alla fondatezza del mito, mostrava un aperto e più moderno interesse per l’aspetto clinico della questione.

Postato mercoledì, 31 marzo 2010 alle 19:58 da Gianfranco Manfredi


Più che a malattie catatoniche in realtà Dickens pare riferirsi al sonnambulismo, fenomeno assai indagato fin dal secolo precedente. Il fascino esercitato sugli psicanalisti (e sul surrealismo) dal mito del morto vivente si spiega storicamente con le indagini sul non-sonno/ non-veglia, che pare richiamare l’ossimoro del morto vivo.

Postato mercoledì, 31 marzo 2010 alle 20:03 da Gianfranco Manfredi


Dunque gli approfondimenti medici che suscitano l’interesse di Dickens, più che strettamente fisiologici, inclinano alla Psicologia.

Postato mercoledì, 31 marzo 2010 alle 20:06 da Gianfranco Manfredi


Faccio un’aggiunta a partire dalle riflessioni di Gianfranco Manfredi su Walter Scott. In verità, una discreta parte dei romanzi storici dell’Ottocento, per il solo fatto di essere ’storici’, e perciò finalizzati alla ricostruzione (più o meno) affidabile delle epoche precedenti, presentano episodi o situazioni perfettamente in linea con il fantastico: possono essere leggende narrate da qualcuno, incastonate nella trama principale, che viene a fungere da cornice (racconto nel racconto), oppure delle vicende particolarmente efferate o cruente. L’idea di un’oligarchia o di un tiranno senza legge si presenta come un buon pretesto per la rappresentazione del fatto cruento, mentre il concetto di passato come espressione della barbarie e della superstizione ben si presta al fantastico e a forme affini. L’Italia non fa eccezione. Mi appoggio non solo sulle letture di prima mano, ma anche su qualche saggio, e penso, tra i vari, a Maria Antonietta Frangipani, “Motivi del romanzo nero nella narrativa lombarda”, Roma, ELIA, 1981; a “Dal romanzo storico al romanzo della Scapigliatura” di Giuseppe Farinelli, sulla rivista “Otto/Novecento” (n. 1, gennaio-febbraio 1981); a un articolo di Emanuella Scarano, sulla novella “Il sotterraneo di Porta Nuova” (1832) di Giambattista Bazzoni, intitolato “Narrazione storica e narrazione fantastica in un racconto italiano dell’Ottocento”, sulla rivista “Italianistica”, n. 3, settembre-dicembre 1988).
Il volume della Frangipani inaugura la propria ricognizione precisando che “La presenza di una corrente narrativa gotica o nera nel romanticismo italiano, né solo in quello d’indole democratica, ma anche presso i cattolico-liberali (secondo la definizione desanctisiana delle due scuole), è riconosciuta da quasi tutti gli studiosi del periodo. L’accusa dei classicisti ai romantici di aver accolto la cupa mitologia delle stirpi germaniche, sostituendola alle serene divinità dell’olimpo classico, si accompagnò all’altra, ancora più fondata, dell’imitazione da [sic] tedeschi e inglesi del gusto per i toni lugubri, per il macabro e l’orrido, di ascendenza ossianica e sepolcrale, ma anche di volgare inclinazione orrifica”. E subito emerge, nell’atteggiamento dell’autrice, una sorta di contegnoso e contraddittorio pudore nei confronti della materia trattata (evidentemente sentita come potenzialmente ‘scabrosa’ agli occhi dei lettori), che riaffiora poi in altri punti del testo, ad esempio quando, a proposito di Tommaso Grossi, si avverte la necessità di puntualizzare che “Le atroci fantasticherie dell’”Ildegonda” [1820] continuano a disturbare qualche critico, come già sembrarono insopportabili al De Sanctis; in realtà non si possono giustificare sul piano estetico: vanno invece collocate nella prospettiva storica di un periodo culturale di transizione, fra i lodevoli tentativi di autori che vollero svecchiare la nostra poesia con sperimentazioni non sempre riuscite, ma apprezzabili in quanto tali. Il Grossi riuscì a dare dei ‘contenuti nuovi’ e un nuovo genere di poesia semplice e popolare”. Si constata come le influenze ‘nere’ siano penetrate “attraverso opere di autori stranieri, popolari in Italia, dove se ne erano imitati elementi e caratteri, soprattutto del Byron e di Walter Scott [e naturalmente Ann Radcliffe e Matthew Gregory Lewis], e più tardi, di Lamartine, Victor Hugo, Balzac, Merimée, George Sand”.
Sebbene questa “incidenza sul gruppo dei romantici lombardi f[osse] in definitiva scarsa oltreché contrastata, […] per il tenace razionalismo illuminista dell’ambiente culturale milanese”, la Frangipani evidenzia come tale “prudente moderazione verso le suggestioni del ‘gotico’ e dell’esuberanza ‘nera’ si manifestò dopo una iniziale adesione anche a questi aspetti più nuovi e meno congeniali all’indole degli Italiani”, ed è appunto questo lato ‘minore’, ma comunque presente, che viene preso in esame, scorrendo le pagine di Berchet, Di Breme, Grossi (nell’”Ildegonda” in particolare, in cui si declinano il motivo della “fanciulla ostacolata nel suo amore e perseguitata” – presente anche nell’opera capostipite del gotico, “The Castle of Otranto” di Walpole – e quello altrettanto rilevante, per il gotico, della “polemica contro i conventi e le monacazioni forzate [che si riflette pure nel personaggio manzoniano di Geltrude], di origine illuminista, accentuata dalla polemica antireligiosa della Rivoluzione francese e dalla letteratura protestante”, di cui l’eco, va forse aggiunto, si prolunga fino a “Clelia. Il governo del monaco (Roma nel Secolo XIX)”, fortunato “romanzo storico politico” di Giuseppe Garibaldi, edito nel 1870), Pellico, Cantù (ritratto come un “Autore […] che si interessa di infinite cose, ed oscilla fra storia e letteratura, fra saggistica e critica senza emergere in nessuna di esse, e aduna tale messe di informazioni e suggestioni che attribuirgliene una specifica avrebbe scarso significato, [che] ‘usò’ anche la letteratura nera […] senza imprimervi un effettivo sigillo”, di Balbo che, più noto per la qualifica di “storico illustre”, è analizzato nei panni di “narratore fantastico e truculento”. A chiudere la galleria di narratori lombardi tentati dal gotico e dall’orrore è D’Azeglio il quale, “già affermato pittore”, quando si cimenta con la scrittura non sembra disdegnare “effetti lugubri e colpi di scena”, ricorrendo all’ispirazione dei “modelli della narrativa nera”. Per quanto riguarda Manzoni, l’impressione è che la Frangipani abbia più d’un debito verso uno studio non molto precedente, di Pompeo Giannantonio, dal titolo praticamente identico (“Manzoni e il romanzo ‘nero’, “Otto/Novecento”, n. 2, marzo-aprile 1979), che nell’insieme appare più lucido e attento al contesto storico-letterario, e con molte meno remore sulla natura dell’argomento affrontato: la Frangipani infatti, quasi a volersi schermire, non esita a chiarire “che non si vuole insistere sull’attribuzione al nostro grande romanziere [Manzoni] di un gusto spiccato per la narrativa ‘gotica’, bensì accennare solo alle affinità del “Fermo e Lucia” con un certo tipo di letteratura europea”. Andando espressamente in cerca di parentele ‘nere’, e ovviamente concentrandosi sul fosco episodio della Monaca di Monza, l’autrice non si sottrae ancora dal ribadire che Manzoni è “uno scrittore che non si ferma alle inscenazioni macabre alquanto esteriori dei vecchi castelli alla Walpole, o ai terrori falsamente grandiosi, byroneggianti, di un Guerrazzi dell’”Assedio di Firenze”, della “Battaglia di Benevento” e della “Beatrice Cenci”, e tuttavia prosegue osservando che, proprio con la vicenda di Geltrude, “Siamo nell’atmosfera agghiacciante del ‘gotico’; come in quei romanzi, si tratti della Radcliffe, del Lewis, del Sade, del Maturin, dell’Hoffmann, della Shelley, o – infine – di Poe, la descrizione di casi orripilanti deve suscitare un ambiente” e, circa “The Castle of Otranto”, ritiene “certo che il Manzoni l’abbia conosciuto, non solo per un accostamento più o meno approssimativo che poteva aver avuto da attento osservatore della situazione letteraria recente e meno recente (si rammenti fra l’altro che il romanzo walpoliano ebbe una nutrita serie di traduzioni in francese), ma anche per qualche reminiscenza che ci sembra di segnalare nel romanzo manzoniano, almeno in un punto, nell’incontro-scontro che avviene fra il protagonista, l’usurpatore Manfredo [sic], e un pio e virtuoso frate, che vorrebbe ristabilire la giustizia”. Un’analogia, questa (nel dialogo tra Padre Cristoforo e Don Rodrigo), che non a caso rileva pure Giannantonio, senza l’irrompere di quei continui ‘distinguo’ di cui la Frangipani proprio non sa fare a meno (ad esempio: “Naturalmente segnaliamo delle affinità puramente letterali, che non riguardano la sostanza del discorso dei due scrittori [Walpole e Manzoni]. […] È che il Manzoni penetra nelle coscienze, e a differenza di tutti costoro, nel caso di un delitto la sua preoccupazione maggiore, già nel ‘Fermo e Lucia’, non è di sfrenare le descrizioni terrificanti e angosciose”. Per la Frangipani, addirittura, la fine di Don Rodrigo è nientemeno che una ‘caduta di stile’, e va biasimata “la soluzione ‘romanzesca’, non molto accettabile sul piano estetico, o almeno non da tutti, della morte nell’incoscienza del delirio, con una cavalcata grottesca e macabra”, e tutto ciò nonostante Manzoni si fosse servito d’una fonte storica. La quasi ossessiva pruderie dell’autrice pare forzarne il giudizio, e sfociare piuttosto nel pregiudizio e in un ingiustificato accanimento, per cui “il passo relativo ha il sapore di un’illustrazione mal combinata, da romanzo d’appendice dove il cattivo fa la fine che si è meritata”. Sulla base d’una recensione all’edizione americana de “I Promessi Sposi” apparsa sul “Southern Literary Messenger” (maggio 1835), e firmata da Edgar Allan Poe (da alcuni però ritenuta spuria), la Frangipani, senza troppe cautele, dà per scontato che “lo spettacolo collettivo della pestilenza” sia stato “imitato” dallo scrittore di Boston, “ammiratore del Manzoni”, nel racconto “King Pest” (chi è interessato vada a vedersi Carla Apollonio, “Edgar Allan Poe e ‘I Promessi Sposi’”, “Otto/Novecento”, n. 2, marzo-aprile 1985). In sostanza, le conclusioni della Frangipani non oltrepassano quasi mai un’analisi di superficie, e si arrestano alla constatazione sterile (perché scontata…) di come nell’opera manzoniana l’elemento “‘nero’ [venga] ridotto all’essenziale, e cosparso di una cosa che nessun romanziere del genere aveva saputo intendere […]: un senso di pietà che si accompagna allo spettacolo del male”. Ben altra cosa (come invece fa Giannantonio), è ripercorrere acutamente gli sviluppi umani e psicologici di Manzoni, osservando come in un primo momento il romanzo gotico sia stato da questi accolto e frequentato con interesse, e di come in seguito, attraverso un mutamento interiore, l’influsso di tale narrativa fosse stato severamente represso perché subordinato a precise finalità morali, che si sono tradotte in convinte e peculiari scelte poetiche (ma si pensi ai residui gotici sottolianti dal saggio di Giovannoli, ricordato sopra da Franco Pezzini). Su Manzoni e la narrativa ‘nera’ ci sarebbe troppo da dire, per cui mi arresto.
Leggendo il saggio di Farinelli, si può scoprire che nel “Falco della Rupe” di Giambattista Bazzoni (1829) si ha il personaggio di Imazza, “una specie di popolare fattucchiera”; a proposito di Guerrazzi si legge: “manomette la storia, preso da un violento lirismo risorgimentale; cala nei romanzi passioni roventi e iperboliche che si esprimono nella foga dei colloqui ricalcanti una specie di byronismo superficiale e truculento”, segnalando “La battaglia di Benevento” e “L’assedio di Firenze”. Annota poi Farinelli: “Se Guerrazzi non ebbe allievi, anche troppi, come succede e come è risaputo, ne ebbe il Manzoni. […] Quella che era di per sé un’eredità indivisibile, fu allegramente divisa […]. Dell’eredità divisa non restò, in aggiunta, quello che ne era l’elemento essenziale e vitale: la Provvidenza e la Fede. Ciò avvenne per due cause profondamente diverse almeno sul piano critico: la Provvidenza e la Fede si trasmettono per dono di Dio nell’umiltà di un cuore disposto a riceverle, di un cuore che ha accettato con rassegnazione la sofferenza e che ha dato al destino una trascendente ed eterna risposta; gli scrittori, figli di un tempo che già annunciava all’orizzonte quella che sarebbe stata la crisi dei valori spirituali, cominciarono, senza voler generalizzare, a sommergersi nell’indifferenza religiosa, a intravedere nella religione qualcosa di accessorio, di sentimentale, di pio e di pietoso, ad azzardare, con non costosa audacia intellettuale, principi e motivi che sarebbero in seguito confluiti nell’occultismo e nella teosofia”. È questo cambiamento, graduale – a sbalzi – ma inarrestabile, che costituisce il terreno fertile per lo sviluppo d’un vero e proprio fantastico nostrano, a cavallo tra scientismo positivista, esoterismo e irrazionalismo (le cui tracce portano indubbiamente al Novecento, basti citare Pirandello). Circa “Sibilla Odaleta” di Carlo Varese, Farinelli sottolinea come vi “incombe l’ombra malvagia del diavolo, genio del male; e c’è qualcosa che, superato a ritroso lo Scott, si ricollega al romanzo nero inglese: visioni macabre e cimiteriali, allusioni a pratiche magiche e a un quasi fortuito occultismo”, mentre de “Il libro nero” di Anton Giulio Barrili (1868) viene così riassunta la trama: “È la notte del 29 novembre 1284: Ugo di Roccamala, dopo aver banchettato allegro con i suoi amici allegri, scopre che il cavaliere dalle tristi e filosofiche canzoni, Aporema, è il diavolo. Questi gli dimostra come egli sia ingannevolmente soddisfatto: basta uscire dal corpo con la propria anima per rendersene conto; è una proposta che Ugo accetta. Abbandonato, dunque, il suo corpo, che viene pietosamente composto nel letto e sepolto, si appropria la figura di Morello di Monferrato e, nel castello di Corrado di Torrespina, marito della bellissima e celebrata Giovanna, constata di persona il disgustoso voltafaccia di quelli che credeva suoi amici, ora avallanti un’immagine di lui falsa e acremente caricata di tinte negative. Aporema, che lo segue sotto le spoglie di un altro cavaliere, invita Ugo, dopo l’efficace lezione, a tornare ad essere quello di prima; ma Ugo, spiritualmente deluso e scosso, rifiuta”. È per noi interessante, quindi, il commento che segue: “‘Il libro nero’, secondo le intenzioni di Barrili, è il documento-prova dell’infelicità della vita: infelicità che interamente si manifesta al diradarsi delle nebbie dell’incoscienza e dell’ignoranza. Già un antico recensore, Gerolamo Boccardo, avanzava di proposito, nella verifica di eventuali fonti, i nomi di Hoffmann e di Poe”.
La Scarano invece riscopre e analizza dettagliatamente la novella “Il sotterraneo di Porta Nuova” di Giovan Battista (o Giambattista) Bazzoni. Pur riscontrando l’assenza di “particolari pregi estetici o ideologici”, l’autrice mostra come la novella sia degna d’attenzione in quanto costituisce “un esempio [...] di cooperazione tra le forme della narrazione storica e quelle della narrazione fantastica, ossia tra due tipi di racconto reciprocamente incompatibili”. Ne siamo così sicuri? La Scarano aggiunge che, al di là di tale “eccezionalità”, per questa presenza “forse è anche possibile formulare l’ipotesi che in Italia il racconto fantastico sia presente ben prima di quanto comunemente e concordemente si affermi, cioè prima del fatidico 1860, e, quindi, contemporaneamente al racconto storico, com’è noto che avviene in tutta Europa e come, tutto considerato, sembrerebbe più verisimile”. Un’ipotesi che per la stessa Scarano “andrebbe confortata da una documentazione ben più ampia”, e che tuttavia sembra tutt’altro che bizzarra, o infondata: basterà ricordare le ‘piste’ fantastiche e ‘nere’ che emergono dal saggio di Farinelli, dove compare appunto il nome di Bazzoni, e quello della Frangipani.
In quest’ottica, l’ibridazione tra romanzo storico e nero, o narrazioni fantastiche (o a queste prossime per atmosfera), non ci parranno dei casi poi così rari o addirittura incompatibili. La Scarano ripercorre la trama della novella di Bazzoni, riportandone numerosi stralci, e sottolinea acutamente come, “Sul piano enunciativo, tutta la sequenza [in cui dal modello storico si slitta verso quello nero] presenta un carattere tipico del racconto fantastico, perché l’episodio è narrato nella prospettiva soggettiva, e perciò limitata, del protagonista. Tale strategia è inoltre fortemente evidenziata dall’uso larghissimo e continuato di verba sentiendi”. Dentro la forma storica, Bazzoni riesce a dar vita a un’ambigua e sottilmente perversa rete di significati, che rendono impossibile, fuori come all’interno del testo, “una interpretazione chiara ed univoca degli strani eventi che sono stati raccontati”, e ciò anche grazie a un espediente tipico della narrazione storica, ossia l’utilizzo delle note con rinvio a documenti e testimonianze, giacché Bazzoni propone tali rimandi (dalla Scarano attentamente scandagliati) sotto una luce che è pur essa incerta e disorientante – contribuendo, mi permetto d’aggiungere e quasi parafrasare, alla realizzazione di quel senso d’esitazione che per Tzvetan Todorov è inscindibile dal concetto di fantastico (penso naturalmente alla “Introduction à la littérature fantastique”, Paris, Éditions du Seuil, 1970). C’è insomma, secondo la Scarano, anche laddove dovrebbe soltanto trattarsi di segnalare fonti, un’allusività recondita, ma predisposta ad arte, cosa che è invece assente dalle consuetudini del romanzo storico allorché è alle prese coi fatti della superstizione, “Ed è quasi inevitabile, a questo proposito, far riferimento a quanto nei ‘Promessi Sposi’ si legge sulla falsa credenza negli untori e, in particolare, sugli innocenti che si autoaccusano nel delirio della malattia. Riferimento legittimo, e per il genere narrativo e per il prestigio del testo manzoniano, ovviamente noto al Bazzoni”. La differenza sostanziale sta nel fatto che, “mentre il narratore dei ‘Promessi Sposi’ ha preliminarmente sgombrato il campo da ogni possibile equivoco, il narratore del Sotterraneo di Porta Nuova non prende mai una posizione chiara” sull’esistenza o meno del soprannaturale (circa il romanzo di Manzoni, diverge l’interpretazione proposta da Giovannoli, per cui nei “Promessi Sposi” permangono, seppur in maniera latente, tutti i principali aspetti della narrativa dell’orrore; è interessante come Giovannoli e Scarano esaminino, con esiti pressoché opposti, uno specifico passo sulle presunte connotazioni diaboliche della peste). Quando la Scarano sostiene che, “anche se il racconto storico accoglie (cosa tutt’altro che rara) una serie di motivi tipicamente ‘gotici’ o, se si preferisce, ‘neri’” quali “le rovine, il sotterraneo, il luogo maledetto teatro di antiche nefandezze, l’agguato, il terrore del protagonista”, nel caso della novella di Bazzoni siamo di fronte a qualcosa di diverso e di più ‘propriamente’ fantastico, occorre dunque ammettere che tutto sommato ha ragione.

Postato mercoledì, 31 marzo 2010 alle 21:34 da Fabrizio Foni


Ringrazio Gianfranco Manfredi che con i suoi interventi continua a mantenere questo post… non-morto.

Postato mercoledì, 31 marzo 2010 alle 21:44 da Massimo Maugeri


E grazie di cuore anche a Fabrizio Foni per questo nuovo mini-saggio. L’ho letto in fretta, ma lo rileggerò con la dovuta calma domani.
Grazie mille, Fabrizio.

Postato mercoledì, 31 marzo 2010 alle 21:45 da Massimo Maugeri


Mentre mi accingevo a inserire un nuovo messaggio, mi sono accorto del nuovo splendido intervento di Fabrizio Foni.
@ Gianfranco. Hai ragione, perbacco – su tutta la linea. Quello dell’identificazione dei luoghi vampireschi letterari è del resto un tema di grandissimo fascino. Continuo il gioco sottoponendo il problema della collocazione della misteriosa “S…” dove vive Clarimonda, ne ‘La morta innamorata’ di Théophile Gautier. Anche se ai fini della vicenda fantastica in parte ambientatavi (XVII secolo?) resta volutamente immaginaria e indistinta, si tratta probabilmente di una città italiana. Il narratore parla delle sue bellezze architettoniche e dei tetti azzurri e rossi sui quali spicca, in distanza, l’alta sagoma di un palazzo Concini; la diocesi del vescovo locale si estende almeno per tre giorni di cammino attraverso la campagna; è abbastanza distante da Venezia da poterla considerare, radicalmente, “mondo altro”. In termini di completa libertà creativa, può rievocare Siena?
Tornando invece a Scott e Gilbert, varrebbe la pena provvedere a un censimento minuzioso dei vilain della letteratura dell’Ottocento, spesso idealmente apparentati. La figura del traditore – il cattivo per antonomasia del genere in costume, ma con radici remote nell’immaginario d’Occidente fin da Efialte (nome per inciso da demone incubo) e Gano di Maganza – è del resto una figura vampiresca, che “succhia” energie alla parte dei “buoni”. Un vampiro politico (o almeno uno dei vari tipi di vampiro politico – e non vado oltre per non far deportare il nostro povero landlord Maugeri…) Un arcitraditore dai connotati vampireschi è per esempio quel Lodrisio Visconti portato in scena nella splendida trasposizione del ‘Marco Visconti’ del Grossi (quando la RAI faceva sceneggiati coi baffi) dal rimpianto Warner Bentivegna. E in fondo nel suo caso, come nel Sir Richard Varney di Scott, abbiamo un rapporto di doppio tra il personaggio storico reale e quello fittizio – ma in fondo “reale” a un altro livello – del romanzo.

Postato mercoledì, 31 marzo 2010 alle 22:12 da Franco Pezzini


E un saluto e un ringraziamento anche a Franco Pezzini.
(Siamo a quota 800 commenti, miei vampirici amici).

Postato mercoledì, 31 marzo 2010 alle 22:43 da Massimo Maugeri


Ringrazio molto Massimo Maugeri, per l’ospitalità generosa ma non solo.
Per Franco Pezzini: grazie per l’apprezzamento, che fa ovviamente piacere.
Non avevo mai pensato alla città di “S.” de “La morte amoureuse” come a una possibile Siena. È senz’altro una suggestione affascinante.
Vi butto là di un altro possibile vampiro ‘nascosto’, in “Fosca” (1869) di Tarchetti. Che le varie relazioni dipinte nel romanzo siano di natura indiscutibilmente vampirica, è cosa nota. Nel romanzo, similmente a come Giorgio si era fatto amare da Clara (si legge: “La mia anima, vuota da tanto tempo, si era gettata con furore su quella preda” e poi “non so come avvenisse, ma è ben certo che ella mi aveva data la sua forza e la sua salute assieme col suo affetto”), così farà Fosca con Giorgio (ma con più violenza, assai più eccessivamente): servendosi della propria sofferenza, della propria malattia, imponendo la compassione per lei. E, come Giorgio portava Clara in un luogo lugubre, così Fosca sarà accompagnata da Giorgio in posti ancor più lugubri: ad esempio, una volta nei pressi d’un fatiscente castello, luogo “pieno di maestosa orribilità”, dove si trovano “pure le rovine d’un tempio pagano […]; grosse lucertole uscivano e entravano dalle fessure delle pareti smattonate”. Ma il micro-romanzo vampirico all’interno del romanzo, è nel passato di Fosca, che è stata in un certo modo vampirizzata, da un sedicente conte Lodovico il quale, “ingannatore” e trasformista come il vampiro, sorta di vilain da romanzo gotico, “fascinoso e nefasto wanderer le cui origini e il cui nome si ammantano di mistero” (questa citazione è da Angelo M. Mangini, “La voluttà crudele. Fantastico e malinconia nell’opera di Igino Ugo Tarchetti”, Roma, Carocci, 2000), quasi un epigono di quell’aristocratico vampiro creato da Polidori, e a cui si è accennato. Fosca commenterà, narrando di questo suo seduttore: “Io subiva d’altronde, come tutte le altre donne, quella malia prepotente e incomprensibile che esercitano su di noi gli uomini di carattere violento, e spesso anche perverso [anche l’aristocratico vampiro di Polidori, Lord Ruthven, è dipinto come un mostro di perversione]. Lo avrai osservato, è cosa comune. Le donne, ancorché non cessino di essere cortesi coi buoni e coi miti, cedono sempre di preferenza agli uomini audaci, prepotenti, pronti all’offesa, disprezzatori degli altri, vanagloriosi di sé; in una parola, ai peggiori degli uomini. Le più grandi passioni sentite da donne furono quasi sempre per uomini abbiettissimi”.
E che questo tal conte Lodovico sia a suo modo un vampiro, lo si può ben capire osservando “tutte le astuzie” – dice Fosca – “con cui giunse poco a poco a spogliarmi interamente della mia fortuna”.
Insomma, in questo romanzo tutti vampirizzano tutti, e tutti a loro volta sono vittime di altri vampiri: “Il gioco delle rifrazioni e delle moltiplicazioni si fa sempre più intricato nel caleidoscopio dell’immaginario tarchettiano che non cessa di rielaborare e riconfigurare ossessivamente gli stessi motivi” (cito ancora da Mangini). Ma, a ben guardare, una vampirizzata che si fa vampira (e qui di certo non è nascosta, almeno per il lettore) è alla base anche di “Carmilla” (1871-’72) di Le Fanu: la vampira del romanzo è Carmilla, ma pure Mircalla, e ancora Millarca: con le giovani fanciulle di cui diviene la carnefice ripete modalità d’adescamento, comportamenti e, a sua volta, anche lei è stata vittima di una vampirizzazione, che l’ha resa vampiro. Clara e Fosca allora non sono così distanti: e se ne accorge anche Giorgio, che infatti si lascerà sfuggire a proposito delle due donne: “Che raffronti! che analogia in queste antitesi!” (un’antitesi, come è risaputo, anche onomastica, Clara = Chiara vs. Fosca = Oscura). E, significativamente, pure Le Fanu, all’inizio di “Carmilla”, attraverso la finzione del documento ritrovato (come in Tarchetti!) tra le carte del dottor Hesselius, uomo di scienzia e insieme studioso del soprannaturale, sottolinea che l’argomento della narrazione (e nella finzione si citerebbero le parole di Hesselius) “coinvolge, probabilmente, alcuni dei più profondi arcani della nostra duplice esistenza”: duplice esistenza, come Clara e Fosca. Anche in Le Fanu le ‘rifrazioni’ hanno inizio da subito: il narratore cita e ha come fonte Hesselius, il quale ha raccolto le memorie di Laura, all’interno delle quali ci sono le storie di Carmilla, Millarca, Mircalla… ecc.
Di Clara, tra le strette amorose di Giorgio, si trova che “spesso diceva sentire il bisogno di gridare, di gridar forte, di urlare – non posso fare a meno, mi sento una cosa nel petto, qui -; e gridava”. In “Carmilla”, in che modo Le Fanu fa descrivere alla sua protagonista, Laura, la vampirizzazione subita (naturalmente, accompagnata da debilitazione, pallore ecc.)? Così: “[…] all’improvviso sentii un dolore pungente, come se due grandi aghi […] mi affondassero nel petto. Mi svegliai con un urlo”. E ancora: “Mi sentii sollevata, a questo punto, e in grado di respirare e muovermi”.
Il medico afferma che Fosca è “una specie di fenomeno, una collezione ambulante di tutti i mali possibili. La nostra scienza vien meno nel definirli. […] È una malattia che è fuori della scienza”. Di nuovo, per fare un paragone con “Carmilla”: il vampirismo è qui definito “un tormento molto strano”, e la “più strana malattia che mai abbia afflitto un mortale”.
La rapacità contraddistingue Fosca: “è della voracità di una mosca”, “divora i libri, è un tarlo da libri, legge come noi fumiamo”. Ancora, dalle parole della stessa Fosca: “uno dei sintomi più gravi e più profondi della mia infermità era il bisogno che sentiva di affezionarmi a tutto ciò che mi circondava, ma in modo violento, subito, estremo”. Quando Giorgio ormai sarà irretito, suo malgrado, da Fosca, si trova: “mi avvinghiava tra le sue braccia con forza […]. Io rimaneva tra le sue braccia, inerte, muto, inorridito”; “in quei momenti v’era nella sua persona qualche cosa di vivo, di giovane, di voluttuoso”. Quale è la paura via via crescente di Giorgio? “Il pensiero fisso, continuo, orrendo, che quella donna volesse trascinarmi con sé nella tomba”.
Altro vorrei dire del romanzo di Tarchetti, soprattutto di come, giocando al cacciatore di vampiri come fa Giovannoli, si potrebbe scoprire una sorta di ‘prova’ che Fosca è un vampiro. Ma mi arresto, per un (raro) senso di decenza, che arresta la mia logorrea.

Postato mercoledì, 31 marzo 2010 alle 23:09 da Fabrizio Foni


@ Fabrizio. La rimozione del “nero” diffuso nella narrativa italiana dell’ottocento ha reso del tutto incomprensibile un’autrice popolare come Carolina Invernizio, per solito oggetto di facile satira. Non si tratta soltanto di reminiscenze letterarie, di atmosfere echeggianti al gotico eccetera, ma , nel suo caso, di strutture narrative che contrastano per “modernità” con uno stile letterario per molti versi desueto. Basta accennare a uno di questi rimandi strutturali. Il largo uso che fa la Invernizio, ne “La sepolta viva” del flash back, procedimento rarissimo nella narrativa italiana, inaugurato da Stevenson in Jekill, dove l’incipit è in realtà il finale e tutta la storia viene narrata in certo modo in “flash back”. La presunta teatralità della Invernizio viene platealmente smentita da questa scelta di struttura, da un lato finemente letteraria, dall’altro anticipatrice del cinema. Peraltro, aggiungo, è un errore anche il considerare certe strutture letterarie come “anticipatrici del cinema”, quando bisognerebbe invece rimarcare quanto il cinema (il tipo di scansione narrativa cinematografica) sia debitore della letteratura popolare. L’inclinazione del romanzo gotico e d’appendice a rendere più avvincente il racconto piombandolo da subito in scene-madri di forte impatto, fu una vera fonte d’ispirazione per il cinema muto e per tutto il cinema seguente (ormai “emancipato” e senza più consapevolezza letteraria, sicuro fin alla sfrontatezza d’aver elaborato un proprio autonomo codice narrativo). Il ciclo dei Rougon di Emile Zola inizia dalla descrizione di un paese (San Mittre) che sorge su un cimitero (“Il terreno, che si colmava di cadaveri da più d’un secolo, li rimandava fuori…”) . E’ il soggetto di Poltergeist di Hooper. Certo non si può supporre che Hooper sia un attento lettore di Zola, ma certo queste suggestioni sono giunte al cinema dalla letteratura. La prima scena dà il clima alla narrazione. La sua potenza rappresentativa orienta la lettura (e la visione) del resto. Il primo capitolo di Varney, da questo punto di vista è esemplare, sembra la traccia di una sceneggiatura che ormai è per noi diventata più che abituale, abusata, ma che all’epoca veniva fondata, certo sulle orme del romanzo gotico, ma nel pulp riassunta in un compendio di elementi forti. La prima scena non è altro che una carrellata che inizia da un esterno notte con temporale e lampi, penetra nella camera da letto, la percorre, indugia sul baldacchino, ne schiude i veli e scopre la vergine addormentata e preda di un sonno inquieto. Questa oggi ci appare come pura meccanica cinematografica , come movimento della macchina da presa, quasi non teniamo conto, nella lettura, che il cinema era ben di là da venire. La narrativa popolare definisce insomma un codice di rappresentazione da cui poi il cinema si alimenta. La critica letteraria, come giustamente ha osservato Foni, in Italia in particolare, pare distratta dagli ingredienti cui presta molta più attenzione di quanta non ne riservi agli aspetti strutturali e ai codici narrativi. Tutto ciò che di “sperimentale” si annida nella narrativa popolare, resta dunque alla critica così orientata, del tutto invisibile. Si sottolinea l’eccesso di ingredienti per confortare un giudizio negativo su una narrativa “di maniera” quando di facile e basso consumo e si resta del tutto ciechi rispetto ai meccanismi stessi di racconto che vanno invece ad esplorare tecniche narrative estremamente sapienti e innovative.

Postato giovedì, 1 aprile 2010 alle 12:14 da Gianfranco Manfredi


Per chiarire meglio. Certe tecniche narrative oggi ci sembrano ancor più “di maniera” degli ingredienti, perché il cinema ne ha fatto un uso diffuso e tendenzialmente ripetitivo, ma se ne riscopriamo l’origine letteraria, allora questa percezione cambia radicalmente. La normale esposizione cronologica degli eventi, da un prima a un dopo, dall’inizio al finale, da un prologo a un epilogo, viene ampiamente trasgredita in romanzo tra l’ottocento e novecento. Di questo il Manzoni può fornire un esempio interessante. Confrontate l’incipit dei Promessi Sposi “Quel ramo del lago di Como ecc.”, pure introduzione geografica, con quello precedente del “Fermo e Lucia” , visionario all’estremo, che segue in panoramica il ago che diventa fiume, trasformazione (sottolinea Manzoni) “sensibile all’occhio”. Manzoni ripulisce questo incipit progressivamente, prima della versione definitiva del suo romanzo. E’ come se avesse scelto di rimarcare un modello da “romanzo storico” che precisa il “dove” per collocare subito il racconto in un ambiente definito, rispetto allo stile gotico in cui il luogo non è mera ambientazione, ma “visione” , paesaggio emotivo e psicologico. Le tecnica letteraria viene usata per ripulire e disporre in buon ordine gli elementi del racconto. Ma con ciò viene ridimensionato il lavoro tecnico iniziale, teso invece a sprigionare forza espressiva. A posteriori potremmo dire che ogni “anticipazione” del cinema viene negata e ciò non può apparire oggi che come una rinuncia. L’inizio di Fermo e Lucia rasenta l’inizio di Shining di Kubrick , un’esplorazione del paesaggio da elicottero che si inoltra fino al luogo prescelto. L’inizio dei Promessi Sposi è una cartina geografica ferma. Possiamo ancora asserire che questa sostituzione è di per sé una scelta di narrativa “alta” rispetto al “popolare”? Credo che invece per il Manzoni si trattasse dell’opposto e cioè di rendere più didascalico, dunque più facile e popolare, ciò che in origine era decisamente più estetico. Appare cioé, dal punto di vista letterario, come una rinuncia e una perdita, a vantaggio della semplicità espositiva. Ma la nostra letteratura non è forse figlia di “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura”? Non è già qui presente l’impianto base del gotico, che subito piomba il lettore nel clima, senza prologhi, premesse, didascalismi?

Postato giovedì, 1 aprile 2010 alle 12:49 da Gianfranco Manfredi


Piccola aggiunta. Non sono soltanto gli elementi visivi a costruire il “visionario” caratteristico del gotico. Quelli sonori vi hanno eguale parte. In Poe sono assolutamente fondamentali. Immagine e suono, sono i fondamenti della descrizione “emotiva”, e dunque anche in questo annunciano la gerarchia dei sensi poi imposta dal cinema. Nell’incipit di Fermo e Lucia, Manzoni scrive: ” presso quegli argini uno può quasi sentire il doppio e diverso romore dell’acqua, la quale qui viene a rompersi in piccioli cavalloni sull’arena, e a pochi passi tagliata dalle pile di macigno scorre sotto gli archi con uno strepito per così dire fluviale.” Questa descrizione sonora viene completamente rimossa dall’incipit dei Promessi Sposi. Manzoni opera una semplificazione stilistica. Il suo “popolare” si orienta, ripeto, sul didascalico, distaccandosi dalla sollecitazione dell’immaginazione del lettore tramite i sensi. Questo potrebbe essere un motivo per cui, come è stato sottolineato da Pezzini, Manzoni poi insiste tanto perché le illustrazioni e di Promessi Sposi recuperino in qualche modo il gotico espulso dal testo. Esse diventato un indispensabile appoggio per l’immaginazione sottratta al testo, ma insieme sono raffigurazioni mute, cioè sottratte al suono, elemento perturbante per eccellenza nella narrativa gotica.

Postato giovedì, 1 aprile 2010 alle 13:48 da Gianfranco Manfredi


Refusi del precedente post: le illustrazioni DEI Promessi sposi (…) Esse DIVENTANO.

Postato giovedì, 1 aprile 2010 alle 13:52 da Gianfranco Manfredi


@ Gianfranco Manfredi: una volta tanto sarò sintetico, limitandomi a sposare completamente le tue riflessioni :)

Postato giovedì, 1 aprile 2010 alle 15:09 da Fabrizio Foni


Toc-toc! Nelle storie di fantasmi, vampiri e mostri, i suoni e gli ultrasuoni svolgono un ruolo non indifferente. Nella maggior parte dei casi si avvertono degli scricchiolii, dei fruscii… E, se si è viandanti in cammino nella notte, ci si lascia sorprendere da strani mormorii , sospiri e risi furtivi, latrati di cani o ululati, dopo che cani e lupi sono scomparsi…
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« Lupo ululà, castello ululì. » (Igor al dottor Frederick Frankenstein, dopo avere udito l’ululato di un lupo) :-)
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…Si può anche irridere una tale sospensione in atmosfere indecifrabili, ma non ci si può impedire di trasalire.
I vampiri esistono, vengono sia dall’esterno che dal profondo di noi stessi.
Proprio come la Morte, che nonostante le tante storie di vampiri che ci raccontiamo è difficile da pensare con la scrittura, se non impossibile, perché introduce nel vivente un’alterità irriducibile.
La prossimità della morte ci viene allora data, in maniera indiretta, dalla musica. Oppure dal suono delle parole di una poesia. Per esempio come nell’ “Assiuolo” del Pascoli – attento non solo alle parole ma al suono, se non al simbolismo, attorno alle parole :
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“… sentivo nel cuore un sussulto,
com’eco d’un grido che fu.
Sonava lontano il singulto:
chiù…
-
Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento:
squassavano le cavallette
finissimi sistri d’argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più?…);
e c’era quel pianto di morte…
chiù… ”
-

Accade in una notte che non è come le altri notti, ma LA Notte – quella della Letteratura. Di una letteratura decisiva, che è sempre stata nera fin dall’Antichità ?

-
Comunque una presenza c’è, o perlomeno così pare. E andando oltre, sempre oltre, si va incontro all’imprevisto.
Andando oltre nella vita, così come nella scrittura e la poesia; oppure aprendo la porta a un no so che, magari a degli sconosciuti…

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Capita quando la morte sembra passare per il linguaggio come un’eco…Eco del punto, intenso e feroce, in cui la vita va al di là…
“La musica testimonia il fatto che l’essenziale in tutte le cose è un NON SO CHE d’inafferrabile e d’ineffabile; essa rafforza in noi la convinzione che, ecco, la cosa più importante del mondo è proprio quella che non si può dire” ( V. Jankélévitch e Berlowitz, Quelque part dans l’inachevé, Gallimard, Paris 1978. p. 247) .

Più un mistero a cui arrendersi, mi pare, che non enigma da risolvere dopo la fantascienza, le tante storie per ogni minima deviazione o punturina, la magia, le tante inevitabili riflessioni e tutto il resto per fortuna o sventura ancora in ombra.

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Chiunque ha a che fare con il Vampiro per motivi creativi, non fa che continuare una lunga tradizione di confronto con l’aggressività e l’odio con le sue appuntite foreste e pioli di difesa, i tentativi di amore e di accoglienza, le ombre di cacciatori e prede che sono dentro e fuori di noi – viandanti tra le vette e i baratri della letteratura sui vampiri, e non solo…

Era la traccia – dopo il lampo – di un suono che scompare. Insomma, la traccia di “invisibili porte che forse non s’aprono più”, quasi un’intensità muta della quale chi scrive, o ascolta, non è il creatore o l’autore. “Invisibili porte” ?

Postato giovedì, 1 aprile 2010 alle 21:00 da Gianni De Martino


@ Fabrizio, Gianfranco e Gianni
Grazie, miei infaticabili amici.
Mentre questo post continua a offrire, grazia a voi, spunti interessantissimi… credo che scriverò a Sergio Altieri per chiedere notizie sul suo atteso contributo.

Postato giovedì, 1 aprile 2010 alle 23:15 da Massimo Maugeri


@ Massimo. Visto che scrivi a Sergio, potresti chiedergli lumi a proposito di alcuni dati che gli ho sentito accennare a proposito del business aperto dalla Meyer? Lo dico perché ogni tanto riflettere su qualche dato è importante e lui li conosce bene.

Postato venerdì, 2 aprile 2010 alle 11:31 da Gianfranco Manfredi


@ Gianni. Sul ruolo della musica, è un riferimento fondamentale la Casa Usher di Poe. Roderick è un musicista, discendente da una famiglia di musicisti. La sua estrema sensibilità uditiva è giunta al punto da cogliere la radice prima della musica: il Rumore. (Tema questo caro a Jacques Attali). Il Rumore che prende a ossessionare Roderick non è tuttavia caotico e disordinato, ma progressivamente concentrato su rumori che indicano la non-morte di Madeline. L’ossessione del rumore infinitesimo è anche al centro del Cuore Rivelatore. Il rumore infinitesimo in qualche modo si contrappone al rumore improvviso e violento del gotico e dell’horror di maniera (lo sbattere della porta o di un’imposta, i clangori delle catene, l’urlo agghiacciante ecc.) . Il rumore infinitesimo è sotto la soglia del rumore diffuso e indistinto. E’ il momento nel quale il Silenzio si fa Suono. D’altro canto questo suono non lo si avverte come sorgivo, ma proprio come The Sound of Silence.

Postato venerdì, 2 aprile 2010 alle 11:42 da Gianfranco Manfredi


Il primo capitolo di Varney, dal punto di vista del suono, è molto significativo. Si alternano la furia del vento e della tempesta a improvvise quieti assolute. E’ dalle quieti che prendono vita i piccoli rumori assai più inquietanti dei tuoni e dei fulmini. Ad esempio il “lappare” del vampiro.

Postato venerdì, 2 aprile 2010 alle 11:46 da Gianfranco Manfredi


Sul tema del suono e dell’orrore, segnalo l’interessante saggio di Carlo Serra, Rappresentazioni sonore dell’oscuro (in: Il secolo dei lumi e l’oscuro, Mimesis, 2008). Il saggio muove dall’Inchiesta sul Bello e sul Sublime del 1759 di Edmund Burke. Le riflessioni in proposito sono assai interessanti se riferite al gotico classico, ma per deduzioni di tipo più generale è inevitabile scostarsi da Burke e dalla sua indagine del Sublime. In Poe già il problema viene spostato, dall’orribilità evocativa del frastuono “che lascia presagire la tragedia incombente” al suono infinitesimale (come ho detto), ma anche l’idea di Sublime cambia ( e qui bisognerebbe tirare in ballo Ralph V. Emerson) . Al suono minimo, viene affiancato (più che contrapposto) il Suono delle Sfere (è davvero armonico? Poe pare dubitarne) cioè il Suono delle Spazio, che è anche Ultrasuono, non ricevibile se non con un super-udito (come quello che ci permetterebbe di udire il suono infinitesimo) . Il suono Galattico è decisamente più presente in Lovecraft che in Poe. In Lovecraft è parallelo all’idea dell’indicibile, un Suono Muto o meglio Astratto. Molta maggiore concretezza dei suoni hanno per lui, gli odori (putrescenti, muffiti, odori della non-morte). Rispetto all’estetica settecentesca, comunque, nel secolo successivo lo spettro sonoro si amplia notevolmente e con esso si amplia la scala delle sfumature emotive nel racconto.

Postato venerdì, 2 aprile 2010 alle 14:00 da Gianfranco Manfredi


Su Lovecraft e la musica, non si può non citare il suo racconto “La musica di Erich Zann”. Il protagonista è “uno strano suonatore di viola, tedesco, un uomo MUTO che lavora nell’orchestra di un locale di quart’ordine”. La sua musica, quella che esegue in privato nella sua soffitta, strana quanto lui, tiene sveglio il suo vicino narratore che così commenta: “Per quanto poco competente, ero certo che nessuna di quelle melodie avesse qualche rapporto con la musica da me udita fino allora.” Quando però il suonatore si esibisce per lui, per quanto esegua arie suggestive, delude il narratore che non riviene più i motivi bizzarri che aveva udito dalla sua stanza. I motivi sono rimasti impressi nella sua memoria, al punto che può fischiettarli. Ma il musicista rifiuta di eseguirli e di sentirli così mal imitati e irritato gli chiude la bocca. In seguito egli svela per iscritto il motivo della sua irritazione: gli è impossibile eseguire per un altro le sue fantastiche melodie, non sopporta di sentirle eseguire da un altro, come non tollera che altri tocchino qualcosa di suo. Gradatamente la musica diventa sempre più “pazzesca”. Finché un suono scaturisce da fuori, da chissà dove. “Non era spaventoso, una nota musicale, bassa, ben modulata, e infinitamente distante” Su Zann l’effetto è terribile: “afferrò la viola e cominciò a lacerare la notte con i suoni più pazzeschi che io avessi mai udito uscire dal suo strumento.” “Zann stava tentando di far rumore per tener lontano qualcosa, o per soffocarla. Che cosa, non so immaginarla, ma certo, lo sentivo, una cosa orrenda.” Insomma… la casa da cui sorgono i suoni impazziti, si ritrova infine immersa “nel buio di uno spazio senza limiti, uno spazio insospettato vibrante di moti e di suoni, che non aveva alcuna rassomiglianza con qualcosa di esistente sulla terra.” La viola, impazzita, continua a suonare, ma sembra emettere grida e latrati. Il narratore si rende conto che Zann è morto. Ciononostante gli strepiti della viola continuano. Quando il narratore fugge dalla casa, la notte è placida, la città è famigliare, riconoscibile.
Ecco dunque tracciati i due limiti: la musica ricondotta a rumore , strepito urlante, teso a cancellare il Suono delle Sfere, cioé le seducenti armonie dello spazio che nulla hanno di terrestre e annullano ogni concretezza. Zann suona contro queste “sirene” e suona oltre la morte, perché nemmeno da morto vi si vuole abbandonare.
Gli appassionati del Metal e del Metallo Urlante hanno di che riflettere.

Postato venerdì, 2 aprile 2010 alle 15:45 da Gianfranco Manfredi


Come postilla, visto che si parla di vampiri, vorrei fare osservare come nell’horror classico, ancora molto vicino al gotico, si ospitano disagi non condensabili nella “comoda” figura del Mostro. Il riduzionismo contemporaneo per cui l’horror viene definito sulla base del protagonismo del Mostro (Vampiro, Lupo Mannaro, Mummia, Maniaco o Alieno che sia) testimonia la nostra difficoltà nei confronti dell’horror metafisico. La nostra ricerca del “definito” allontana l’indefinibile. Il nostro splatteriano bisogni di urlo, è una difesa contro il seducente silenzio del Nulla Cosmico, vero “nemico” con il quale ci atterrisce confrontarci.

Postato venerdì, 2 aprile 2010 alle 15:52 da Gianfranco Manfredi


Sopportiamo persino il dodecafonico, ma è il Silenzio di Cage che troviamo davvero insostenibile.

Postato venerdì, 2 aprile 2010 alle 15:55 da Gianfranco Manfredi


Il Silenzio di Cage, va notato, non è assenza di suono, è Silenzio d’Orchestra, non dimentichiamolo. Una volta Natale Massara che orchestrava e dirigeva le colonne di Donaggio per i film di de Palma, mi raccontò che per la scena del Museo di “Vestito per uccidere” , l’anello da musicare durava sette minuti, inclusi i Silenzi d’Orchestra. In altre parole, non si aggiungeva musica soltanto là dov’era previsto, ma si eseguivano anche i Silenzi, ed era questa la cosa più difficile. Ma era anche la cosa che, per espressa volontà del regista, costituiva la tensione della scena.

Postato venerdì, 2 aprile 2010 alle 15:59 da Gianfranco Manfredi


@ Gianni. Penso dunque come te che la Morte (nel suo aspetto inquietante) vada intesa come accesso al Totalmente Altro , che non si situa DOPO, ma che E’ GIA’, intorno a noi. L’indicibile che proviamo a dire, il Silenzio che cerchiamo di udire e di suonare, le Porte Invisibili che varchiamo senza consapevolmente varcarle. Non cessazione dell’esperienza e dunque di per sè insignificante (come sosteneva Epicuro), ma esperienza del Totalmente Altro, tanto significante quanto inesprimibile.
Ora, per inciso, una letteratura che si pone per oggetto l’espressione dell’inesprimibile, non è forse il limite massimo dello sperimentalismo?

Postato venerdì, 2 aprile 2010 alle 16:16 da Gianfranco Manfredi


Ringrazio ancora Massimo Maugeri, e mi scuso con i vari partecipanti per questo post così stringato, che non è da me (come avrete notato…), ma mi trovo fuori casa, essendo rientrato per qualche giorno in Italia per le feste, con un accesso quanto mai precario (‘vampirizzo’ una wireless, giusto per restare in tema, che però funziona mooolto saltuariamente!).
Faccio i migliori auguri di buona Pasqua a tutti.

Postato venerdì, 2 aprile 2010 alle 19:47 da Fabrizio Foni


@ Gianfranco … Scrivendo non si sa, si va. E nell’andare oltre, sempre oltre, sia pure in terra ormai sconsacrata, non da oggi la letteratura va incontro all’inaudito. Occorre allenarsi agli ultrasuoni ?
Se davvero l’altro mondo scende in questo per nascere, morire e risorgere con un corpo, un’anima e uno spirito in un “corpo di gloria”, forse era per dirci che nonostante tutto – compresa la famosa carne prudente, impaurita e che invecchia – non si sta poi così male in una pelle umana.
E che in fondo, neanche tanto in fondo, questo universo o multiverso non è un posto così brutto da dire come Jonathan Harker: “ Vorrei essere al sicuro fuori di qui o vorrei non esserci mai venuto.”
Confesso che anch’io, come scrittore tentato di andare sui bordi e i limiti, ho udito talvolta strani fruscii e l’oscuro lappare di mostri e vampiri ( “là fuori” e dentro di me, come cospirando in una parentesi ) ; ma non credo di avere il diritto di dire che tutto questo rumore sia senza speranza.
In ogni caso, occorre essere intrepidi. Anche perché non si sa se nel riaprire quella tomba ne usciremo tutti occhi e muffa oppure se , sollevato il macigno dei rimossi e dei rimorsi, un non so che ci soffierà petali di vere e fresche rose sulla faccia…
Vampirizzerei, a tale proposito, le parole di zio Alan Watts, un nostro autore da comodino, anzi da sacco a pelo, quando nel suo libro sullo zen suggerisce ai filosofi di riconoscere il punto in cui il pensiero – come la bollitura di un uovo – deve arrestarsi.
Così, nell’attesa silenziosa e non inerte accanto a una tomba vuota, fra tante erbacce – chiamate tali forse perché non se ne conoscono ancora le virtù e la tenacia – quello che è scuro potrebbe diventar chiaro, e quel che è chiaro forse potrebbe impregnare il nostro essere. Se dico “forse” è perché non si sa se è troppo tardi, troppo presto, per una buona Risurrezione generale. :-)
Così non resta, mi pare, che sperare nell’invisibile, nonostante tutto e con l’augurio di una sana e santa Pasqua a tutti.

Postato sabato, 3 aprile 2010 alle 13:51 da Gianni De Martino


Caro Gianni, pare che ormai soltanto agli atei e ai miscredenti sia stato lasciato il tema della Resurrezione. La Chiesa Cattolica pare essere passata con una capriola teologica inspiegata dal Memento mori al Vietato Morire. Se si vieta il morire è evidente che della Resurrezione quantomeno si dubita. Nulla di più proibito oggi dei mistici, forse perché evocano i paradisi artificiali, la ricerca delle porte della percezione ecc. Si corre ai miracoli, che hanno indubbi risvolti commerciali e sui quattrini non ci sputa sopra nessuno, ma di mistici a titolo gratuito non se ne vede più uno, né in seno alla Chiesa Cattolica romana, né nel Protestantesimo. Di profeti poi non ne parliamo proprio. E dunque sì, buona Pasqua per chi sa intenderla.

Postato sabato, 3 aprile 2010 alle 16:16 da Gianfranco Manfredi


E prroprio per esorcizzare il pensiero della Morte e Niente Più, ieri mi sono tatuata sul braccio sinistro (là dove alberga il male) un bell’Ouroboros, protagonista del mio romanzo e simbolo di rigenerazione ed eternità: la vita dalla morte. Speriamo bene.
Intanto, buona Pasqua a tutti, amici dei vampiri e non!! E ricordate un buon bicchiere di vino che fa sempre buon sangue!!
:)

Postato sabato, 3 aprile 2010 alle 20:55 da Simonetta Santamaria


Beh, non c’è che dire, una discussione veramente affascinante e di alto livello, una di quelle rarissime occasioni in cui la Rete assomiglia alla sua propaganda…

L’unico dubbio che mi viene è che uno degli assunti su cui tutti paiono concordare sia l’attualità del mito del vampiro e allo stesso tempo la sua antichità. A quel punto mi verrebbe da chiedere perchè per tanti secoli nessuno o pochissimi abbia sentito il bisogno di scrivere storie di vampiri. Forse perchè ci credevano sul serio e se n’è cominciato a fare oggetto di narrazione quando ormai non faceva davvero più parte del patrimonio emotivo dell’umanità, almeno in quei posti tipo l’Inghilterra in cui nacquero le prime e più popolari narrazioni del genere? Un po’ come il giallo che diventa un genere letterario quando le morti violente cominciano sensibilmente a diminuire e non si fanno più esecuzioni pubbliche?
Più in generale, c’è davvero motivo di credere che il riciclaggio di miti ‘approvati e certificati’ per descrivere il mondo moderno funzioni come si vorrebbe, come chiave di lettura e disvelamento, o non piuttosto come banalizzatore e sicura? La forza mitica di Lovecraft, per esempio, non dipende piuttosto dall’essere riuscito a inventare una mitologia interamente nuova? E il piacere della paura non è forse la dimostrazione migliore di quanto questa conti in definitiva poco, che non ci divertirebbe leggere storie divertenti sulle nostre paure vere?

Infine, en passant, mi pare che nessuno abbia citato il vero modello del Dracula di Bram Stoker, cioè il grande attore vittoriano Henry Irving, di cui Stoker era segretario e di cui era con ogni probabilità perdutamente innamorato. Un caso classico di un mediocre vampiro che si guadagna una mezza immortalità a spese di un grand’uomo quasi del tutto dimenticato…

Postato domenica, 4 aprile 2010 alle 19:32 da Sascha


Interessante la questione posta da Sacha (perché non si è scritto prima dei vampiri?). La risposta è che il passaggio del foklore a letteratura si è operato nel XVIII secolo , per quanto già presente fin dall’origine della stampa, cioè da Gutenberg. Nel saggio di Juan Delumeau sulla Paura in occidente, si citano le classifiche dei libri del 500. All’origine della stampa, i testi più stampati e diffusi erano raccolte di storie provenienti dalla tradizione orale-folklorica e trascritte. La stragrande maggioranza di queste storie riguardavano casi di possessione demoniaca e di demonialità (cioè la possibilità del diavolo di usare i corpi, anche dei defunti, come involucri, oltre alla possibilità, assai discussa, della congiunzione carnale tra il diavolo in corpo di morto e i vivi).
Non si tratta, nel passaggio al letterario, di banalizzazione. Basterebbe citare il Faust di Goethe per dimostrarlo.
Quanto al fatto che Lovecraft abbia inventato una mitologia nuova, è assai discutibile, perché la sua mitologia è comunque costruita su mitologie precedenti, tra le quali occorre citare la tradizione sacra degli Shawnee ( gli Old Ones e tutta la tradizione delle Porte, deriva da loro) e non si può escludere nemmeno, a titolo di confronto, la mitologia inventata dai Mormoni che unisce la storia parallela di una misteriosa tribù israelita trapiantata in America e progenitrice degli indiani, con gli extraterrestri: il Libro di Mormon è infatti dettato da un extraterrestre).
Quando si parla di “nuovo” in letteratura si parla sempre e comunque di un nuovo punto di vista da cui interpretare uno spazio simbolico costitutivo della narrazione in quanto tale.
Su Henry Irving infine, ne ho scritto in un saggio di qualche anno fa, citato poi da F. Giovannini nel suo libro sui Vampiri. Mette in gioco il rapporto tra Vampiro e Attore che è davvero fondante della figura del vampiro moderno. L’attore che vive di notte ed è semicadavere di giorno, che sprigiona in scena una seduzione del tutto assente nella vita reale, che appare nel buio della sala come fantasma corporeo di luce e la cui magia viene dissolta dalla luce del sole, era una metafora perfetta del vampiro.
Tutto ciò non deve però condurci alla “paura divertente”. La paura divertente è il boooh , è il baraccone del luna park. Il perturbante è il contrario del divertente, perché non distrae affatto, anzi inquieta. L’horror moderno, inclusa la sua declinazione ironica, appartiene al tragico, non alla commedia. Una letteratura come quella vampirica che pone al centro la Morte e la non-Morte e il nostro rapporto antropologico con i morti, tutto può essere tranne che evasiva, soprattutto in un mondo come quello borghese moderno che tende ad escludere l’idea stessa della Morte.

Postato domenica, 4 aprile 2010 alle 21:18 da Gianfranco Manfredi


Non c’entra coi vampiri, ma questa parola “divertente” che pronunciamo così facilmente, cosa significa? C’è chi contrappone il “divertimento” all’ “impegno” ad esempio. Ma la parola “entertainment” (divertimento) indica l’intrattenere e intrattenere è sinonimo di tenere impegnato. Dunque il divertente sarebbe impegnare in qualcosa di diverso rispetto a ciò di cui dovremmo impegnarci? Si può ricondurre il tutto alla nota regola politica del panem et circensens? Cioè se vuoi che il popolo non dia noia al potere, fallo mangiare (quanto basta alla sopravvivenza) e fallo divertire. D’accordo. Ma cos’erano i circensens. Umberto Eco ha notato il un suo articolo che ciò che ci separa dagli antichi romani è che non troviamo più concepibile divertirci andando a vedere gente che viene ammazzata sul serio, a schiere. Eppure i giochi del Circo Massimo questo erano. Ora, tutto quel sangue sparso, goduto come spettacolo (ma non solo perché gli spettatori sofferenti di anemia o di altre affezioni , quel sangue lo BEVEVANO) , davvero ci distrae o ci porta non solo simbolicamente al nocciolo della questione e cioè che quel Potere che ci ha condotto ai giochi è costruito sul sangue delle vittime? Insomma, quello che voglio dire, è che nello stesso divertimento (che nessuno disprezza, tantomeno gli autori horror che sono in genere persone simpatiche e molto spiritose) si cela qualcosa che se ci tiene impegnati è perchè è impegnativo. I giochi non una cosa molto seria, tutti i pedagoghi sono d’accordo su questo: un bambino mentre gioca impara, conosce, esplora, crea e distrugge regole. L’idea comune di “divertente” è del tutto ingannevole.

Postato domenica, 4 aprile 2010 alle 23:55 da Gianfranco Manfredi


Ops… refuso di quelli memorabili… i giochi SONO una cosa molto seria!

Postato domenica, 4 aprile 2010 alle 23:58 da Gianfranco Manfredi


Poi uno dice: ma questo nel giorno di Pasqua a mezzanotte non ha altro da fare che scrivere quel che gli passa sul blog? Il fatto è che non c’è niente di meno divertente dei giorni di festa. In televisione passano dei film di merda. Piove (qui almeno piove da due giorni). Di lavorare si evita altrimenti ti dicono: Ma come? Lavori anche a Pasqua? Già. Adesso stoppo a tempo indeterminato e vado a farmi fare il solletico. Buone feste!

Postato lunedì, 5 aprile 2010 alle 00:03 da Gianfranco Manfredi


Ho 56 anni, sono un lettore onnivoro e l’horror e il fantastico sono tra le mie passioni. Ma il sottogenere “vampiri” non mi ha quasi mai attratto. Ricordo rarissime eccezioni: Dracula letto da ragazzino, Danza macabra di Dan Simmons, Ultimi vampiri di Manfredi, Lasciami entrare di Lindqvist, Sete nera di Catherine Moore.
Forse dimentico ancora un paio di titoli. Ma quando vedo in libreria qualcosa sui vampiri, lascio là senza alcuna esitazione: è un tema che mi annoia in modo tremendo, come gli zombie.

Postato lunedì, 5 aprile 2010 alle 15:21 da luciano / idefix


Lungi da me il voler contrapporre divertimento a impegno. Sono del tutto a favore dei libri e film divertenti e scacciapensieri – purchè non pretendano di essere qualcos’altro.
Oggi come oggi, in un mondo in cui il fantastico ed il miracoloso sono la regola e dominano la vita quotidiana, ricorrere al fantastico in senso critico assomiglia parecchio al versare acqua in mare e non credo proprio che il ricorso ai più antichi tropi del genere possa in qualsiasi modo essere ‘perturbante’.
Ricordo tempo fa di aver visto un film horror di successo in un multisala di sabato pomeriggio: dovevo essere la persona più vecchia in sala. La sorpresa fu che i ragazzini, lungi dall’essere spaventati, risero tutto il tempo, benchè il film fosse serio, non ironico.
Per quel che ne so io, i primi decenni della stampa a caratteri mobili furono dominati dalla letteratura religiosa piuttosto che da quella fantastica. Soprattutto è ovvio che un racconto di possessione demoniaca nel Seicento era tutt’altra cosa che l’Esorcista o Rosemary’s Baby ai nostri giorni. Interessava alla gente, ma non allo stesso modo.
Prima che il giallo nascesse come genere letterario nell’Inghilterra del secondo Ottocento era fiorente da qualche secolo una letteratura popolare sui crimini grandi e piccoli del momento. Il salto di qualità si ha quando la gente comincia ad appassionarsi a delitti immaginari perchè quelli veri non sono più sufficienti a soddisfare la domanda di mercato.
Oggi, poi, l’uso della paura come intrattenimento si accorda un po’ troppo alla propaganda della paura dei media ufficiali…

Quanto a Irving e Stoker immaginavo di non essere l’unico a saperne, mi limitavo a notare che nessuno ne aveva parlato in questo thread per altro, ripeto, veramente magnifico.

Postato lunedì, 5 aprile 2010 alle 16:19 da Sascha


Jean Paul Sartre scrisse (Il rinvio, 1958) :”Tutti gli uomini hanno paura. Tutti. Chi non ha paura non è normale e questo non a nulla a che vedere con il coraggio.”
E G.Delpierre (La paura l’essere, 1974) ha così specificato il concetto: l’uomo , in quanto a differenza degli animali, sa , e molto presto, che è destinato a morire è “l’unico essere al mondo a conoscere la paura a un livello così spaventoso e durevole.”
D’altro canto, osserva R.Caillois (Le maschere della paura negli insetti,1961): mentre la paura delle specie animali è unica e immutabile (quella di essere divorate) la paura umana “figlia della nostra capacità immaginativa, non è unica, ma molteplice, non fissa, ma perpetuamente mutevole.”
In sostanza, quando parliamo di paura, muoviamo da un substrato fondante (la paura come “anticipazione” della morte) che è una sorta di codice antropologico dato, per svilupparne una serie di spostamenti metaforici e simbolici e persino di adattamenti politici che attraversano la storia delle culture e sono cangianti nel corso dei secoli. Alcune paure dei secoli passati come: la paura della peste, dell’apocalisse, di Satana e di figure sociali demonizzate (L’Ebreo, l’Eretico, l’idolatra, il Mussulmano,il Sovversivo, la Donna, l’Uomo nero), ci appaiono ritualmente anacronistiche, passate, inafferrabili , persino incomprensibili, e restiamo sorpresi quando in nuove forme le vediamo riaffiorare con tratti alla superficie mutati, e tuttavia radicati in un “profondo” celato in una tradizione che si è comunque, al di là della consapevolezza, insediata in noi geneticamente.
Di questo doppio aspetto della paura: l’orrore antropologico e metafisico da un lato, e dall’altro l’orrore ideologizzato, propagandistico, utile al Potere , dobbiamo sempre tener conto quando discutiamo di paura. Quando consideriamo il lato propagandistico, dobbiamo anche considerare che la Propaganda è tale se funziona, altrimenti cessa di essere, e dunque è sul perché funzioni che dobbiamo interrogarci.
La categoria del “Nuovo” (di cui si nutre non dimentichiamolo il messaggio pubblicitario) non aiuta a discriminare, perché nell’un caso e nell’altro, ci troviamo di fronte a qualcosa che ha percorso e percorre sia l’essere umano in quanto tale, sia la sua Storia.
Ci sono ovviamente delle svolte storiche che inaugurano nuove stagioni della paura. Ad esempio il diverso e nuovo rilievo della Scienza nel passaggio tra XVIII e XIX secolo è terreno di coltura del’horror moderno, dal quale nascono e prolificano i Mad Doctors, Frankenstein, Jekill, Moreau ecc.
La nascita e lo sviluppo della moderna archeologia offre un altro scenario immaginativo alla letteratura di paura: gli Antichi di Lovecraft, la Mummia, le Civiltà sepolte, le Innominabili e Sconosciute Divinità Morte.
Ci sono insomma salti culturali nei quali si insediano paure apparentemente nuove che ereditano e trasformano paure antiche o che ne prospettano di future e/o immaginarie (gli Alieni).
Quando la letteratura esplora questo tema, costantemente evolutivo eppure permanente (per questo trovo calzante la metafora del fiume, che è sempre quello, ma mai con la stessa acqua) , da un lato asseconda o accompagna il clima dell’epoca , dall’altro (negli autori più consapevoli) quasi sempre lo sottopone a critica, a partire proprio dal suo aspetto ideologico.
Questa critica può capovolgere il Mostro in Vittima (la creatura di Frankenstein) , brandire la paura come arma contro il vero persecutore (l’Inquisitore, non la strega) o può operare altre scelte ( sottolineando ad esempio l’orribile fascino del Mostro, assai più seducente, più potente, più forte, e dunque irriducibile rispetto al Normale che al Potere del suo tempo si accoda conformisticamente) . La metafora può anche risultare estremamente ambigua. Degli Ultracorpi di Don Siegel, cioè di molta fantascienza degli anni 50, si è detto (secondo me a sproposito) che era una fantasia maccartista e anticomunista, ma se si rivede il film , quei cittadini invasati dall’omologazione ci paiono oggi molto di più affetti da un controllo pervasivo, figlio di una spersonalizzante società della tecnica e di un capitalismo invasivo del privato, piuttosto che del Comunismo. Un simbolo è sempre un’arma a doppio taglio, diversamente leggibile a seconda dei punti di vista.
E dunque per riferirsi a uno dei temi sollevati da Sascha, “l’uso della paura come intrattenimento si accorda con la propaganda della paura dei media ufficiali”? Non ne sarei tanto sicuro. La desacralizzazione della paura resa ridicola può anche venire percepita dal fruitore come svelamento dell’inconsistenza della paura ideologica, persino come spiegazione didascalica , a uso delle masse, dei suoi meccanismi.
La comunicazione non è mai un corpo chiuso di contenuti che vengono trasmessi e infusi da A a B, ma è un cammino binario nel quale B percepisce, rielabora e ristruttura il messaggio spedito da A.
Questo dovrebbe mettere in guardia dai giudizi facili e dai pregiudizi. Letteratura paurosa e critica delle paure sono due momenti simultanei, l’uno non può prescindere dall’altro. Chi scrive è comunque bene che abbia sempre presente questo duplice aspetto , questa distinzione originale tra paure antropologiche e paure sociali e sappia all’occorrenza disinnescare il corto circuito, cioè proprio l’uso strumentale della Paura.

Postato lunedì, 5 aprile 2010 alle 18:10 da Gianfranco Manfredi


Mettiamola in un altro modo.
Da giovane, all’università, mi tocco’ leggere gli scritti letterari di Stendhal sulla polemica fra classici e romantici, testi che, misteriosamente, mi sono rimasti nel ricordo.
Stendhal sosteneva la posizione romantica che intendeva, diversamente da altri, come il diritto di trattare la vita e le passioni del tempo presente direttamente, senza ricorrere all’armamentario di tropi e figure mitologiche e classiche che secondo i classicisti era necessario per approcciare convenientemente la realtà.
E la realtà come la intendeva Stendhal divenne Il Rosso e il Nero e la Certosa di Parma…
Ora, volendo essere pedanti, potremmo sostenerre che Stendhal credeva di sfuggire al peso del mito e a quelle poche trame che compendiano l’intera esperienza umana basata sugli archetipi dell’inconscio collettivo (o qualcosa di simile). Potremmo sostenere che dietro Fabrizio del Dongo e Mathilde de la Mole si celano l’Eroe e l’Eterno Femminino – insomma, saremmo riusciti a ridurre un esperienza unica a un archetipo classificato ed etichettato che non ci dice nulla sull’irripetibile specificità del suo tempo.
Inoltre: di recente mi è capitato di leggere uno dietro l’altro due romanzi molto diversi, Romanzo Criminale di De Cataldo e Suicidi Dovuti di Aldo Busi. RC si è rivelato divertentissimo e appassionante con tutte quelle ascese e cadute ma, come statement politico del tutto nullo. Vero, in Italia sono successe quelle cose, ma è inutile far finta di credere che l’Italia d’oggi derivi da quelle. La scelta epica si rivela cinema consolatorio, dato che noi personalmente non ne siamo toccati in alcun modo.
Il libro di Busi invece è una grottesca e visionaria tranche de vie della provincia lombarda più clericale e reazionaria che si rivela il miglior romanzo io abbia mai letto sull’Italia berlusconiano-leghista-clericale, grazie al fatto che Busi rifiuta la facile stampella del noir che fatalmente indebolisce qualsiasi assunto ’serio’ e ci porta al ‘divertimento’ mentre Busi, inconfortevolmente, ci mette davanti uno specchio, proprio quello che per Stendhal era il romanzo.
(dopo aver letto la sua risposta così lunga e informata mi vergogno un po’ della mia ormai incancrenita brevità che un giorno mi farà finire su Twitter…)

Postato lunedì, 5 aprile 2010 alle 19:04 da Sascha


Come sempre, apprezzo Manfredi (da quando faceva il cantautore).
Non mi metto a fare interventi così articolati come i suoi e mi limito a portare la mia testimonianza di lettore (i libri che scrivo sono quasi sempre per ragazzi. Anche se proprio oggi ho scritto il finale di un racconto horror, con protagonista il grandissimo produttore di musica Phil Spector).
Quale horror piace a me lettore e a me spettatore?
Fatta salva qualche isolata eccezione satirica o umoristica, la risposta è semplice: quello che mi spaventa, che mi inquieta, che mi turba e mi affascina (possibilmente tutto insieme, con uno spiazzante effetto di complessa ambiguità: terrorizzato come persona e lusingato come fruitore).
Così, il mio “piacere” può andare da un film come “Picnic a Hanging Rock” di Peter Weir (poche pellicole mi spaventano così tanto) a un romanzo come “Pet sematary” di Stephen King (il suo horror puro che preferisco), da “Brood” di David Cronenberg a certi episodi del fumetto “Magico Vento” di Manfredi, dai racconti di Clive Barker a un romanzo come “Sopra eroi e tombe” dell”argentino Ernesto Sabato (un mainstream con guizzi fantastici), dai racconti di Julio Cortazar al macabro di Richard Matheson, da “Fosca” di Tarchetti a “La ragazza della porta accanto” di…accidenti non ricordo il nome del romanziere americano, dal “Canto di Kali” di David Simmons a certi racconti fantascientifici di Phlip Dick e via citando.
Insomma, le frontiere dell’orrore sono mobili.
Il punto fermo è che NON deve solo farmi trascorrere due o tre orette di innocuo passatempo. Deve lasciare dentro di me una duratura eco di inquietudine che potrà ripresentarsi anche dopo giorni oppure anni.
L’horror non è e non deve essere un genere conciliante.
Anche in questo è radicalmente diverso dal giallo tradizionale: dove accade qualcosa di criminoso che infrange l’ordine ma il cui trauma, dopo un’indagine, viene riassorbito dalla comunità.
Ecco allora perchè mi terrorizza “Picnic a Hanging Rock”: perchè non saprò mai cosa sia accaduto per davvero, nè chi (o cosa) sia il colpevole e nemmeno se vi sia stato per davvero qualcosa di terribile. L’effetto di quel film persiste in me da più di trent’anni e si rinnova a ogni visione.
Mentre film di torture-porn come Hostel, Saw o simili (con lo schema fisso e varianti: “Una o più persone vengono catturate da una o più persone che le sottopongono a mega-sevizie”) possono farmi chiudere gli occhi dal raccapriccio mentre li guardo (ne ho visti due) ma poi li dimentico perchè sono tutti uguali e innocui, fatto only for the money per platee popcornizzate.

Postato lunedì, 5 aprile 2010 alle 19:13 da luciano / idefix


Più ci si avvicina alla realtà più questa appare bella e terribile. Prendiamo per esempio una banalissima porta, la porta di casa al cuore del più familiare e tranquillo condominio : allora ci si accorge di che cosa è fatta realmente una porta, quando attraverso ci passa una bara.
In realtà ( che terribile espressione!) attraverso le porte passano tante cose, anche le culle, non sempre le bare. In ogni caso, il mondo è immenso, spumeggiante, rumoroso, vibrante, poroso, imprevedibile, desolato e magico. Talvolta fa veramente paura, altre volte solo meraviglia.
L’estasi della nuda vita potrebbe risultare insopportabile. Per questo è necessario distoglierci dalla realtà per divertirci con dei simulacri della vita, anche tramite la finzione letteraria che dà la possibilità, se non l’illusione, di poter controllare il fantasma e far fluire e defluire le paure, le inquietudini e l’angoscia verso uno spazio condiviso di ri-creazione.
… Forse sarà la solita attrattiva torbida dell’insufficienza… ma in questo momento non ricordo esattamente un verso di Withman che mi ha sempre colpito per la verità che esprime, dice più o meno così: “Quanto il sole diurno ci annienterebbe/ Se non creassi un altro sole/ che sorge da me…”.
Questo raddoppio immaginario e simbolico di ciò che per tranquillità chiamiamo il reale, è in gioco nei miti e nella creazione artistica.
La letteratura dei vampiri è un genere fantastico, mi pare, in cui più apertamente che in altri generi letterari, orrore e divertimento vanno insieme.
Naturalmente, come accade per le mezze stagioni, non ci sono più i tremendi vampiri di una volta. E se oggi certi succhiasangue fanno paura è perché si stanno estinguendo – come del resto accade alle tigri e ai leoni, per non dire delle grosse zecche e dei grassi pidocchi cantati da Lautrèamont e altri « orribili lavoratori » anch’essi estinti.
A meno che – cosa ancora più tremenda – i vampiri non si stiano incivilendo. Niente dovrebbe oggi far più paura dell’incivilimento dei mostri. Tutti al servizio del mercato e di platee popcornizzate ? Che orrore ! Forse è per non far soffrire il mercato. Perlomeno così pare.
…Scrivendo ( così come leggendo) si « passa » il tempo a controllare le parole, non solo le emozioni e i sentimenti, e intanto non ci si accorge di morire. Magari in un momento di distrazione, come accade talvolta, quasi sempre, a causa di una parola che comincia con il toglierti il sole, la luna, le stelle, e poi ti succhia tutti i mari, i fiumi, i laghi, e persino il sangue. Convocato da un’autorizzazione a scrivere che non si sa da dove provenga, qualcuno si spinge da solo in un angolo a spiare l’arrivo di fantasmi che succhiano tempo e spazio. Che lagna !
Forse sono fantasmi di riparazione, d’integrazione, di ricerca di un significato nello scorrere del caos e del rumore del mondo, come se scrivere ( per allentare il nodo scorsoio dell’angoscia) fosse sempre, e ancora una volta, un viaggio non privo di rischio dal buio alla luce. Oppure, con Leiris, una tauromachia, in cui, olè, si potrebbe finire incornati. Non tanto dai giochetti intraverbali, quanto da un vero toro nero di scrittura ?
La commedia che vi si gioca nero su bianco è sempre la stessa, fra paura e speranza. Quello che varia straordinariamente è il modo che ognuno, ognuna, ha di raccontarlo. Raccontarlo tra culla e bara, vale a dire fra due pulsioni.
A scrivere nel tempo che passa è naturalmente un corpo avviato, in realtà, verso un brillante avvenire di scheletro. E’ proprio quello che ci si dice tra lampi d’immagine e scoppi di figure per divertirsi un po’.
E incontrare, nel cammino della scrittura, altri fratelli scheletri che ridono.
Rida chi può. :-)
To’, Gilbert K. Chesterton, per esempio, quando dice : «Quantunque mi annuvoli in viso per cupa vanità, volgare vendetta o ignobile disprezzo, le ossa del mio teschio, al di sotto, rideranno in eterno».
Ridere al di sotto , ridere da morire per non piangere l’ estinzione , ormai generalizzata, del nobile e tragico vampiro d’antan è davvero comico. Ma ridere alla radice comunque tragica del comico non è forse un assaggio di beatitudine, se non di eternità ?
Volendo restare, com’è giusto, terra terra, forse occorre frugare tra la polvere dell’antico Egitto e poi degli Alchimisti e degli gnostici ( magari quelli dell’Adelphi) , e chiederlo all’Ouroboros.
Ve ne sono di molto belli e significativi sulle lapidi delle tombe della Certosa di Bologna, chiostro III. Gli ouroboros, usati dalla pittura rinascimentale fino alla scultura funeraria del XIX secolo, vi figurano incisi insieme ad altri simboli cimiteriali, tipo l’angioletto alato e la clessidra. Visitare i cimiteri, così come scrivere storie di vampiri tra orrore e divertimento, è un po’ come allenarsi a scomparire.
E magari lasciare qualche macchia. Tenace, come quelle erbe che si vedono crescere ai bordi delle tombe, o anche dei campi di sterminio, e che chissà perché vengono chiamate « erbacce ».
Forse perché, come diceva anche la nonna, non se ne conoscono a fondo le virtù. Come pare accada oggi anche per la speranza, quest’erbaccia tenace che, a i bordi e al limite, sembra suggerire la possibiltà di una dolce terra, una terra celeste che mai sarà invasa. Forse, se non un corpo di risurrezione, perlomeno un qualche spazio di non-morte.
«O morte, dov’è la tua vittoria?» (1Cor 15,55). E’ quello che scrivendo agli amici di Corinto chiedeva Paolo, piegandosi in un punto di domanda : ?
Immagino Paolo, un uomo sempre in movimento, piegato da lontano, se non dal Tempo, ai gomiti e ai ginocchi, interrogarsi sul mistero di quella tomba vuota. Tomba vuota di cui il Vampiro – così come anche il famoso buco nero – è oggi in qualche modo l’ombra ( anche in senso junghiano) – l’ombra letteraria e, perché no ?, popcornizzata che di quella speranza di non morte resta in terra per fortuna o sventura sconsacrata .
A chi ha veramente freddo o sta per affogare, la Letteratura non può che offrire – volendo proprio essere generosi – che qualche pezzetto di carta assorbente. Mica siamo così scemi da aspettarci la salvezza o qualche blitz escatologico dalla Letteratura.
Oltre che nera, quella puttana di Letteratura è sempre stata vampira fin dall’Antichità. E un mondo senza paura ( né puttane e puttani, ma oggi si dice escort) sarebbe un mondo senza Letteratura. Senza quel formidabile apparato di menzogne necessarie e di difesa sociale che, nella maggior parte dei casi, è la Letteratura.
Perlomeno così pare. Per non dire, naturalmente – sempre restando tra orrore e divertimento – della consumazione di forme spettacolari pittate di realtà, in un giro senza fine di lustrini, immagini evanescenti e travestimenti multipli.
E’ quello che, senza per questo essere una situazionista con molti occhiali, suggeriva anche la nonna. Non c’è niente di più delizioso che farsi fare il solletico dalla vecchia nonna morta che ritorna, anche in sogno ( ma non è un sogno), per venire a dirti, dopo tanti anni, che la vita è meravigliosa.
Ci sono dei morti che ti fanno ridere mentre piangi. E’ quando dicono che più resti terra terra, più il cielo ti aiuta. Non si dice forse che gente allegra il ciel l’aiuta ? Occorrerebbe inoltrarsi nell’invisibile, verso quel « luogo del coro » di cui peraltro parlava l’amico Elvio Fachinelli, citando Hegel e il luogo di quelle « potenze interne », ineliminabili da ogni vita umana, che talvolta ritornano e insistono quasi come per una loro riconciliazione o reincarnazione futura.
Ma questo ci porterebbe alla questione dell’atto dello scrivere, come causa e caso di un certo sdoppiamento di sé. L’atto dello scrivere è un ambito raramente investigato, anche se fa parte di quel complesso di operazioni, anche tecnico-materiali, che chiamiamo Letteratura. Forse l’occasione per parlarne ( magari a platee non popcornizzate) non mancherà.
Una ricognizione sull’atto dello scrivere, che secondo me ha una sua specifica consistenza, forse potrebbe rivelarci qualche sorpresa, se non proprio qualcosa da sgranocchiare. : -)

Postato lunedì, 5 aprile 2010 alle 23:53 da Gianni De Martino


Grazie, amici. I vostri interventi illuminano zone di passaggio e di dubbio, in cui perde senso ogni dialettica di contrapposizione. Sorgono invece strane associazioni che forse non hanno a che fare con l’argomento in senso stretto o forse sì… nel confronto/raffronto tra il codice narrativo di genere che epicizza debolmente, svilentemente (è vero), il nodo orribile e inscioglibile del cosiddetto Reale, o nel sottile confine tra comico e orrido, o nel ruolo del passato non come memoria, nè come sfondo di comodo, nè come costume (historie en travesti) ma come irruzione nel presente di una spiazzante, irriducibile alterità . Ho ritrovato due brani di Montaigne sul tempo di peste e ve li propongo: “Un tale, sano, scavava già la propria fossa; altri vi si adagiavano ancora vivi. Ed uno dei miei braccianti a forza di mani e di piedi si tirò addosso la terra morendo”. A Montaigne questi riti rammentano quelli (letti) dei soldati romani che si autoseppellivano e che “furono trovati, dopo la battaglia di Canne, con la testa conficcata in alcune buche che avevano fatto e riempito con le loro mani, soffocandovisi.” Ora, il seppellire la testa sottoterra pare metafora, modo di dire, iperbole. Ma se, quando, ci si manifesta per Reale, ci scuote. E’ al confine dell’irrappresentabile, letterariamente. In cinema poi, sarebbe rischio assoluto: incomprensibile fusione di orrido e di ridicolo, che nell’attimo e nell’immagine non potrebbe che sfogarsi in ridicolo. Eppure ci troviamo di fronte a un’anticipazione della morte che passa da fenomeno psichico e immaginativo, a pratica concreta. Questa assurda possibilità si crea in una condizione quale quella descritta da Scudéry (o da sua sorella di cui il drammaturgo e “romanziere” e autore di poemi secentesco, rapinava le creazioni): “I morti e i moribondi alla rinfusa distesi/ Vi sono in ogni luogo orrendamente mescolati./ Qui uno, tutto livido, fa paura a vedersi,/ Là un altro, tutto pallido, è un morto che si muove;/ E quando si vedono accasciarsi tutti questi spettri ambulanti,/ Non si distinguono più i morti dai viventi. /Terrificanti sono i loro sguardi, la bocca semiaperta./ Sulle ossa altro non hanno che una pelle verdastra; / E in questi poveri corpi a metà scoperti,/ Tra la putrefazione, si vedono i vermi brulicare.” La scrittura in questo caso immagina o descrive? L’immaginazione non è un procedimento che ci conduce inevitabilmente Fuori dalla Realtà ( come la misera idea di Fiction comodamente suggerisce) ma che esprime, traduce, tramanda l’esperienza reale. Nella letteratura horror, nei suoi momenti alti, questa rappresentazione sorge autonoma rispetto al plot. Ci pare quasi lirismo dell’orrido. Ma in questa simulazione pulsa l’esperienza reale che ne è all’origine. Forse la difficoltà di molti scrittori di esprimere l’orrido contemporaneo sta proprio nella nostra difficoltà di vederlo, non in quella di esprimerlo sotto iperbole e sotto metafora. In tempi di calamità (vista con i propri occhi, non già filtrata dall’occhio virtuale e dall’immagine costruita) non è necessario uno sforzo dell’immaginazione per vederlo, esso ci sorge violento agli occhi, la difficoltà è esprimerlo, tanto ci appare vasto e incommensurabile. E’ la difficoltà che supera Malaparte in Kaputt o ne La pelle. Qualcosa di più e di diverso dalla letterarizzazione (scusate l’orrendo termine) del vissuto. Quando invece l’orrore vive diffuso, si annida nelle pieghe di una Realtà-fiction normalizzante, scovarlo ed esprimerlo può apparire manieristico, eccessivo, voluto. La parola allora invece di suonare come testimonianza e come profezia pare avvitarsi nel dimostrativo, nel voluto, nel parziale, nell’eccessivo o nell’esemplare a tutti i costi. Il tema a mio avviso non è più quello dalla Superiorità degli Antichi o dei Moderni, ma è, nell’atto dello scrivere, nel percorso che dal visionario conduce o riconduce al Reale, inteso come Esperienza del Reale. Il libro di Ketchum, La ragazza della porta accanto, ricordato da Luciano, è un tentativo di esplorazione di questa natura. Stephen King, nella sua postfazione, pare non a caso, voler oscurare questo percorso. Sottolinea, da maestro dell’intrattenimento, che la narrativa di Ketchum non potrebbe mai essere un film Disney, ma con ciò ne limita la forza espressiva: pare ridurlo a modello di Contro-fiction piuttosto che a svelamento visionario di un evento reale e della sua confusa percezione nella mente e nelle emozioni di un ragazzo che vi assiste. Sarebbe come se noi provassimo a raccontare non giornalisticamente, né con compiacenza letteraria, ciò che è avvenuto nella bottega del Mostro della Magliana. Il volgerlo in Fiction , in racconto horror di genere, può indubbiamente tradirne la natura stessa.
Un’immaginazione che non riesce a farsi esperienza che non riconduca all’esperienza che l’ha prodotta, è indubbiamente un’immaginazione di servizio, che piega a una trama, a una ricostruzione di codice, a una versione corriva, ad epica più o meno giustificativa, che non solo sublima, ma contraddice lo scopo della ricostruzione. L’assunto apparentemente realistico viene in realtà rimosso dalla narrazione. Il vissuto relegato a cronaca, diventa insignificante. Le psicologie oscure ridotte a maschere abituali e riconoscibili, vengono annullate. La Storia e il Presente in narrazione dovrebbero invece condurci sempre a quell’inspiegabile che costantemente sorge a turbarci nell’esperienza concreta delle Cose. King, in Duma Key ripete all’ossessione l’esperienza vissuta del suo incidente, eppure costantemente, ad ogni nuova descrizione, la rimuove, riconducendola a codice di genere. Si può dunque avere esperienza di una condizione e usare la scrittura per rimuoverne il senso, quel senso così difficilmente accessibile, che ci fa davvero orrore. Questo procedimento lo riconferma come autore di genere, ma risulta insieme un totale fallimento della scrittura. Lo scrivere consolatorio è fondamentalmente rimozione dell’esperienza, sia quella vissuta che quella sollecitata o immaginata.

Postato martedì, 6 aprile 2010 alle 14:36 da Gianfranco Manfredi


Tutto questo ci conduce anche a un’inevitabile riflessione sulla nostra Società dello Spettacolo e sul ruolo della Letteratura in essa. Durante la presentazione di un libro di Serge Quadruppani (un giallo thriller politico) l’ho sentito dichiarare che secondo lui la letteratura di genere ha un codice etico che consiste in un onesto patto con il lettore: so cosa vuoi e te lo do. Ora, una simile scrittura “di servizio”, per quanto onesta, a mio parere contraddice la scrittura in quanto tale, il cui scopo è opposto: tu lettore ti aspettavi una certa cosa, io te ne dò un’altra. Non voglio con ciò turbarti, ma arricchirti, donarti quel “di più” che non avevi comprato e che potrebbe forse cambiare il tuo rapporto con la lettura. E’ evidente che oggi gran parte, forse la parte maggioritaria dei lettori rimasti, chiede consolazione alla lettura. Egualmente gran parte dei teleutenti chiede consolazione alla televisione e protesta se un programma viene cancellato perchè si sente orbata di una consolazione. E’ consolatorio udire parole di opposizione e di apparente provocazione, perché in quanto simulazione della democrazia , ci suggerisce che la democrazia comunque sopravvive. Persino nei grillini risuona una domanda d’accesso mediatico, di riconquista dello spazio mediatico perduto. Di contro, dilaga un Silenzio (non solo quello della massa crescente degli astenuti o dei non aventi diritto al voto, o dei non coperti dai media, o di chi vi ha rinunciato libri inclusi) che ritualmente inquieta per venire rimosso immediatamente dopo. La comunicazione se si limita ad essere richiesta d’accesso, non è in grado di infettare davvero la Società dello Spettacolo. Soltanto l’esperienza , attiva, prima che simulata, l’esperienza del non rappresentato e del difficile da rappresentare, quell’esperienza che risiede nel Livello Zero della Visibilità può agire da contravveleno del Consolatorio. Questa esperienza è più larga e condivisa di quanto non sembri. Il Silenzio non è soltanto assenza di suoni, ma somma di tutti i suoni possibili. La Parola è all’origine figlia del Silenzio. Una parola che rimuova questa sua origine genetica, rimuove anche la sua destinazione. E’ grido tra le grida, magari sapiente nel produrre armonia dal rumore, o nello svettare dal rumore di fondo, ma sconfitta e incapace di produrre risonanza tra chi scrive e chi legge. Ora, ciò che chiamiamo horror, suppone di avere come intento statutario quello, quanto meno, di sorprendere, dunque non può di per sé adattarsi al modello: questo vuoi, questo ti dò. Il lettore horror chiede di più di quanto è abituato ad avere. La sua attesa è attesa di Altro. Questo costringe il genere a trasgredire di continuo le sue stesse regole. Resta però il fatto che anche nella più consapevole e costruita corrispondenza tra domanda e offerta, sorge come minaccia latente all’ordine svolgersi delle cose, la cosiddetta eterogenesi dei fini, cioè il fenomeno per cui si crede (un questo caso nella comunicazione) di pervenire attraverso un uso ben controllato e sapiente del medium, a un risultato indubitabile. Senonché sovente accade di ottenerne un altro, persino opposto. Voglio dire che persino nella riproposizione dei codici, fanno spesso irruzione elementi inconsci che (non si sa perché) destano risposte (percezioni) inattese e impreviste. Irrompono, tra le note, gli intervalli, le pause, le sonorità del Silenzio. Il Silenzio non può essere messo a tacere.

Postato martedì, 6 aprile 2010 alle 15:22 da Gianfranco Manfredi


Mi immagino qualcuno che (incuriosito dal tema horror, magari giudicandolo sciocco e banale) capiti qui, sul sempre ottimo blog di Massimo, e trovi queste riflessioni.
Resterebbe stupefatto.
Certo: gli farebbe impressione trovare, seminate nelle volatili pagine del Web, annotazioni così dense e stimolanti. E (magari abituato al chiacchiericcio dei salotti tivù) non crederebbe ai propri occhi: sul tanto vituperato Internetto, non solo si discute ma approfonditamente e seriamente e pure su un temazzo stupido come l’horror!?
Se poi scoprisse che Manfredi non è un Intellettuale ‘Ccademico co’la majuscola ma ‘no scribacchino de’ li ggiornalini co’ li fumetti ‘llustrati, ch’ha puro fatto er cantante de’ li zzombi che sse potevano unì…
Beh, le cose sono strane.
Ancora un’osservazione sull’osservazione di Quadruppani: bisogna dare al lettore/spettatore/ascoltatore ciò che egli vuole?
Il mio amatissimo rocker Neil Young disse una volta: “Io faccio quello che voglio e ogni tanto incontro i gusti del pubblico”
Insomma, io credo che un artista (ma anche un artigiano) della scrittura e dello spettacolo debba PRIMA DI TUTTO fare delle cose che piacciono a se stesso.
O che lo spaventano, lo turbano, lo inorridiscono, lo indignano, lo fanno ridere, lo fanno incazzare, lo fanno palpitare, lo entusiasmano, lo fanno ballare, lo fanno saltare: insomma lo toccano per davvero.
Quando scrivo i miei libri per ragazzi, l’unica regola è:
1) non vendere a un dodicenne qualcosa che non avrei voluto leggere io a dodici anni.

Postato martedì, 6 aprile 2010 alle 21:09 da luciano / idefix


Caro Luciano, benvenuto in questa discussione vampirica che (come hai fatto notare) è ricca di ottimi spunti e di riflessioni.

Postato martedì, 6 aprile 2010 alle 22:51 da Massimo Maugeri


Prima di salutarvi vi comunico che mi ha scritto Sergio Alan Altieri per chiedere un po’ di pazienza… ma il suo contributo (mi dice) arriverà…

Postato martedì, 6 aprile 2010 alle 22:53 da Massimo Maugeri


Caro Luciano, il problema è: perché lottare per l’accesso in TV, quando le caratteristiche mediatiche della Rete sono insieme più universali , più individualizzate, più condivise e più libere perché ciascuno può fare quello che vuole? Discussioni come queste sono rare, è vero. Ma sono possibili. Sono anch’esse messaggi che giungono dal Silenzio. Non ci conosciamo personalmente tra noi. Si ritrova più che l’arte, la sapienza perduta della conversazione: gli indiani d’America quando si riunivano a discutere, lasciavano passare qualche minuto tra un intervento e l’altro, sia come forma di educazione (essere sicuri che l’altro abbia finito, prima di intervenire), ma anche come forma di meditazione (riflettere prima di parlare e insieme lasciarsi pervadere dal silenzio) . Qui tra un intervento e l’altro passano ore e non sempre sono ore dedicate a fare altro, spesso è tempo di riflessione, che consente a quanto scritto da un altro di venire elaborato da noi e di essere davvero di stimolo. Niente “tempi televisivi”, nessuna fretta, né sovrapposizione di voci, nessuna sterile contrapposizione, ma esplorazione comune. E ogni nuova voce che si aggiunge, pronunciata magari da chi ha seguito in Silenzio e solo a un certo punto decide di intervenire, è un fatto nuovo, è significativa perché non è soltanto la voce dell’io, ma riorienta la discussione di tutti. Lentamente, poi, gli interventi diventano riflessioni aperte, per gli altri e per noi stessi. Questo poi è un blog di scrittura, dunque anche gli assunti “filosofici” acquistano un altro aspetto: sono segnali di un lavorio in atto, che in un narratore non sfociano in un saggio, ma in un racconto. Costituiscono dunque una specie di lavoro preparatorio che si libera dal solipsismo attraverso la condivisione collettiva e con ciò accoglie stimoli giunti o sollecitati da altri. Si va anche al di là della dinamica intervenire/rispondere , perché chiunque può intervenire producendo uno scarto, che sia un nuovo inizio o un punto di vista diverso da cui affrontare una problematica. Se si fosse più consapevoli di questa possibilità i difetti delle chat “convulse” , delle comunicazioni autoreferenziali di Twitter ( mi sto cucinando due uova… e chi se ne frega?) verrebbero tranquillamente bypassate. “Cerco un forum di levità permanente che mi faccia mescolare idee sulle cose e sulla gente”

Postato mercoledì, 7 aprile 2010 alle 09:49 da Gianfranco Manfredi


Mi sa che lo prendo e ricopio, questo commento, per riutilizzarlo in seguito. Ovviamente citandoti.
Beh, andare a straparlare in televisione solletica certe vanità: ti vedono in tanti e magari per strada qualcuno ti riconosce, puoi perfino registrarti e poi riguardarti pure tu. Però la qualità della discussione ne risente in maniera micidiale.
Per rendersene conto basta dare un’occhiata a un blog come questo di Massimo: il confronto è impietoso. E su certi blog anche persone non titolate fanno figuroni al cospetto di pseudo-esperti che (in tv) finiscono coinvolti (al ribasso) in orrendissime diatribe o in banali chiacchiericci.
Ma appunto è come dici tu, Gianfranco: qui si ri/scopre (forse per la prima volta) un ritmo di discussione e di confronto che non ci apparteneva più, che risale al massimo all’epoca degli scambi epistolari, quando tra una lettera e la seguente passavano giorni se non settimane e le persone avevano il tempo per sedimentare le idee e le riflessioni e ciò che dovevano dire.
E torno all’horror: ecco allora che (anche grazie a un certo tipo di Web “parlato”) sto apprezzando sempre più (nei film e nella narrativa orrorifica) i ritmi lenti. Che non significa “soporiferi” ma “diversi dalle frenesie di certi montaggi videoclippari che puntano tutto sulla corsa sempre più veloce”. Sto riscoprendo il piacere di farmi invischiare lentamente dalla paura e dal disagio, senza fretta, gustandomi i preliminari come quando si fa l’amore, senza l’obbligo di saltarli per correre ossessivamente al clou. Nell’horror sto ritrovando il gusto delle atmosfere che dicono e non dicono, delle ambiguità e delle ombre dove si annida la minaccia e la mostruosità: sono stufo degli schizzi di sangue di urla di frattaglie che (come parole sparate da gente che non sa cosa dire ma deve parlare e parlare e parlare e parlare) esplodono a velocità supersonica per riempire lo schermo o la pagina.

Postato mercoledì, 7 aprile 2010 alle 11:03 da luciano / idefix


@ Luciano. Hai ragione. Il ritmo adrenalinico ha fatto il suo tempo, a meno che uno non sia sotto effetto di cocaina. Mi è capitato ad esempio di addormentarmi durante la visione dell’ultimo James Bond. Poi l’ho rivisto cercando di concentrarmi, ma niente da fare… nessuna nuance, nessuna cura alle scene di passaggio o di pausa, magari ironica… l’affastellarsi delle azioni spettacolari distrugge ogni dinamica narrativa, tutto diventa pretestuoso e ripetitivo. La grande macchina produttiva, il gran lavoro anche fisico oltre che effettistico, produce il nulla. Poi confronto queste cose con dei minifilm di filmaker come quello di Richard Gale, The Horribly Slow Murderer with the Extremely Inefficient Weapon (è su YouTube) , pieni di vere idee, di ironia e di cura estetica, così lontani ormai dallo stile primitivo del clip amatoriale, e mi chiedo se la dissoluzione del format obbligato, facilitata e promossa da Internet, non sia una liberazione per tutto il cinema e un monito a ritrovare percorsi di senso più che macchine commerciali da consenso di massa che appena “godute” si fa per dire, non lasciano nulla.

Postato mercoledì, 7 aprile 2010 alle 12:58 da Gianfranco Manfredi


Tra l’altro il mini film di Gale è già stato visto da più di 3 milioni di persone, pur essendo un cult di tendenza… non è meglio di film pompatissimi il cui budget promozionale supera di gran lunga la cifra investita per fare il film, e che consumano il loro pubblico in pochi giorni di programmazione, solo per il bisogno indotto di “vederlo subito” (e subito digerirlo)? E che dire dei film indipendenti di valore? Non c’è neppure il tempo del passaparola che subito li smontano. Ricordo quando nel 1968 vidi La Notte dei Morti Viventi. Passavo di fronte all’allora Cinema Carcano a Milano, in Porta Romana. Sembrava quasi che quel giorno non proiettassero nessun film. Osservo meglio e vedo appesa a un cartello una locandina minuscola che pareva ciclostilata da quant’era povera. La notte dei morti viventi… mah, non avevo niente da fare e sono entrato. Chi si sarebbe mai aspettato un capolavoro del genere? Senza squilli di trombe, senza fanfare, in un Cinema dove al tempo Enzo Jannacci cantava di Veronica che ci faceva l’amore in pè. La scoperta del bello dietro l’apparentemente dimesso , è qualcosa che aggiunge alla visione un sapore d’esperienza indimenticabile che si fa davvero contagiosa. Tutt’altra cosa dal: “Ma come? Non sei ancora andato a vedere Avatar? ”
La rete riapre uno spazio di libera scoperta e di curiosità che il mercato della comunicazione con le sue offerte obbligatorie ha chiuso e negato, col risultato di sembrare ormai un vecchio circo, magari riempito a forza di spettatori, ma vuoto di stimoli. Come cantava De André : dal letame nascono i fiori, dai diamanti (farlocchi peraltro, aggiungerei) non nasce niente. Va ricordato quando si sente ripetere che la Rete è un letamaio.

Postato mercoledì, 7 aprile 2010 alle 13:13 da Gianfranco Manfredi


Gianfranco: “ Voglio dire che persino nella riproposizione dei codici, fanno spesso irruzione elementi inconsci che (non si sa perché) destano risposte (percezioni) inattese e impreviste. Irrompono, tra le note, gli intervalli, le pause, le sonorità del Silenzio. Il Silenzio non può essere messo a tacere.”
*
Il richiamo al silenzio sembra costituire , nella maggior parte dei casi, l’indice della prossimità del « sacro » riconosciuto nelle sue divergenti estrinsecazioni : dal numinoso al repellente, dal maiestatico e dall’energico fino al terrificante. Come nota lo psicoanalista Iakov Levi, lo dice anche la Scrittura, a proposito del divino Jahvè – che nella religione costituita assume qualche ben noto tratto di pericolo, di gelosia e di persecuzione: « Taccia ogni mortale davanti al Signore, poichè egli si è destato dalla sua santa dimora » (Zac., 2,17).
E’ come se l’inaudito ( la Cosa ) cercasse di farsi strada come può, ed ogni tanto , echeggiando e brillando attorno alle parole o qualche forum, ce la fa; ma la nostra eredità filogenetica di bestioni distratti, se non di smemorati che si credono come fusi in un sol blocco in un Io personale ben individualizzato, ci impone sempre di nuovo la rimozione. ( Come osserva Gianfranco Manfredi: “ La nostra ricerca del ‘definito’ allontana l’indefinibile. Il nostro splatteriano bisogno di urlo, è una difesa contro il seducente silenzio del Nulla Cosmico, vero ‘nemico’ con il quale ci atterrisce confrontarci”).
Silenzio significa dunque anche rimozione e morte, condensati con senso di mistero e di colpa per pensieri malvagi o inconfessabili ( di solito legati alla natura asociale e idiota del piacere, dei terrori e delle estasi da tacersi per motivi di pudore o dignità. )
D’altra parte, coloro che non parlano sono i morti. Ci si sente in colpa per la morte, e quindi si fa « un minuto di silenzio »; oppure ci si identifica con il morto che parla ( ma come fa un morto a parlare dal Nulla Cosmico?) , e si diventa, poeticamente, sibillini.
Potrei portare numerosi esempi di scrittori che nell’atto dello scrivere vanno in trance e, diventati per così dire porosi ( “ Io sono la Porta”, dice un personaggio di Stephen King), s’identificano con il morto che parla.
… Quello che adesso mi viene in mente è il Pascoli, quando nella lirica intitolata “La tessitrice” evoca un antico amore defunto e assume la voce di morticina e di Parca che parla:
“« Mio dolce amore,/non t’hanno detto? non lo sai tu?/ Io non son viva che nel tuo cuore./ Morta! Sì, morta! Se tesso, tesso/ per te soltanto; come non so:/ in questa tela, sotto il cipresso,/ accanto alfine ti dormirò. » ( dai Canti di Castelvecchio ) .
La voce della tessitrice tra amore e morte forse non è senza relazione con quello che Freud descrive come thanatos, pulsione di morte come « forza muta all’interno dell’organismo » – una pulsione che dall’interno della vita e dello stesso corpo che scrive tenderebbe al ritorno alla materia inanimata.
Gli scrittori credono, chissà quanto ingenuamente, di scavalcare la morte e vincere l’oblìo con i libri, questi fragili vampiri inviati al loro posto nel mondo ( a caccia di lettori, per rinsanguarsi!).
Più in generale, la tendenza dei parlanti è quella di passare dal silenzio al canto, e infine alla parola – che, echeggiando Nietzsche, è un formidabile strumento contro la conoscenza. Eccetto in alcuni scrittori decisivi, che senza per questo essere necessariamente “sperimentali” o facitori di giochetti intraverbali, riescono a toccare ( e quindi a far risuonare, sia pure sotto un cumulo di parole mute e cieche) una qualche zona assolutamente reale dell’esperienza.
Sembrerà inaudito, ma l’essenza dell’esperienza umana ( e forse anche animale, chissà) è la gioia – anche, e forse soprattutto e nonostante tutto, davanti alla morte ad ogni istante nuova, sorgente, lampeggiante insieme alla vita e alla ricchezza corrosiva e così fragile della vita. ( “Piccole percezioni”, osservava Cézanne – forse quello che uno scrittore non può dire, la pittura talvolta può mostrarlo).
Di solito accade fugacemente, furtivamente, quasi incidentalmente. D’altra parte è anche vero che uno scrittore che non sente il terrore del “Nulla Cosmico” e nasconde il proprio folle non fa che scendere nell’arena dello Spettacolo per fare qualche piroetta senza il toro, rischiando di morire alla fine senza voce.
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P.S. “Il Silenzio non può essere messo a tacere”. Ben detto, Gianfranco. Seduta a filare sulla panchetta, la tessitrice morta non-morta, maestra del contrappunto, potrebbe essere l’emblema dell’atto dello scrivere. Operazione, questa, che si svolge nell’alternanza del femminile ( consistente nel porgere orecchio agli ultrasuoni, se non al “lappare” dei vampiri ) e del maschile ( consistente nell’organizzare i fiati del verbo e nel vergare nel bianco, tra l’ordito e la trama – proprio dov’è caduto il filo, la voce e il sudore appena un attimo prima di ritornare, lievemente, nell’urna di un silenzio misterioso.)

Postato mercoledì, 7 aprile 2010 alle 13:26 da Gianni De Martino


Ignoravo il film di Gale: stasera me lo guardo. Mentre mia moglie (giornalista, donna pacifica e divertente, allegra, di solido buon senso, lettrice e spettatrice SOLO di gialli: la rilassano) si vedrà l’ennesima replica di Montalbano.
Sul “troppo satura e stufa”, condivido ampiamente.
La meraviglia, lo stupore, l’orrore, l’effettone speciale perdono il loro effetto (soprattutto visivo) quando me li spaparanzi sotto gli occhi di continuo, ogni cinque minuti, ogni due minuti, in ogni sequenza, in ogni inquadratura, in ogni angolo di ogni fotogramma: così diventa “normale quotidianità”. E a quel punto il gioco non vale più la candela.
Perchè a quel punto il vero EFFETTO SPECIALE SPECIALISSIMO ridiventerà una storia convincente scritta bene da un bravo sceneggiatore, diretta da un bravo regista e recitata da bravi attori. Alla faccia di tutte le esibizionistiche cavolate tri/quadri/quinqui/dimensionali, girate con mille cineprese, proiettate a velocità supersonica e sparate con un volume che disintegra i timpani.
Da qualche mese, io e mia moglie Tatjana stiamo guardandoci la filmografia di Fritz Lang: roba da leccarsi i baffi, arte cinematografica superba (alla lunga mi pare superiore a Hitchcock), con brividi di spavento e di orrore che perdurano dopo decenni.
E poi, Gianfranco, ti consiglio un romanzo strano: l’ho letto cinque o sei anni fa e lo consiglio a tutti. E’ stato un memorabile fiasco di vendite:
“La congiura delle ombre” di Theodore Roszack. In un qualche modo, c’entra anche Fritz Lang. Ma il tema di fondo è il fascino perverso ed erotico del cinema (soprattutto muto). Altro non ti dico per non rovinarti il piacere della lettura. (Tra i comprimari, Orson Welles…e scoprirai perchè non finì di realizzare il suo primo film…”Cuore di tenebra” da Conrad). E’ un romanzo horror? In parte, molto in parte. Se per “horror” si intende “sangue” e “splatter”, non lo è per nulla. Ma se per “horror” si intende qualcosa che ti costringe a voltarti a sbirciare se c’è qualcosa dietro di te, allora sì, lo è.

Postato mercoledì, 7 aprile 2010 alle 14:11 da luciano / idefix


@ Luciano. Seguirò senz’altro il tuo consiglio. Il Gale dura sei-sette minuti dunque può guardarselo tranquillamente anche tua moglie, senza dover perdersi Montalbano.
@ Gianni. Inutile ripetere che siamo in sintonia. Mi ha divertito la citazione vampira da Pascoli, ma perché trovo buffo il poetare di Pascoli. Quel: “Se tesso, tesso/ in questa tela sotto il cipresso” soprattutto se così ridotto, a rima baciata, è irresistibile … quasi una premonizione di Jovanotti e Fabri Fibra che a differenza dell’hip hop nero che nasce dalla strada, rivelano una inconfondibile matrice liceale… o mi sbaglio?

Postato mercoledì, 7 aprile 2010 alle 19:22 da Gianfranco Manfredi


@ Gianfranco. No, non ti sbagli: Pascoli ( come del resto Jovanotti, Veltroni & C.) non ha frequentato la strada, non molto. Sulla matrice liceale non vi sono dubbi. Eppure c’è qualcosa di strano in quel “buffo” modo di poetare, il suono.
Quel: “Se tesso, tesso/ in questa tela sotto il cipresso” , colpisce per la rima baciata, è vero, ma direi anche per l’accumulo delle sibilanti. Certamente lo avrai notato: ” Se teSSo, teSSo/ in queSta tela Sotto il cipreSSo”.
A me ( volendo restare sul liceale, scherzo) ricorda questi versi di Victor Hugo : ” Pour qui Sont ceS SepentS qui Soufflent Sur Vos TeteS ? – Per chi sono questi serpenti che soffiano sulle vostre teste?”.
Da dove viene l’accumulo di tante sibilanti? Certamente non dal soffio del serpente Damballah, al centro di certi rituali della possessione Voodoo. Perlomeno così pare.
In ogni caso Pascoli conosceva – oltre alla letteratura francese – lo spiritismo, allora in voga, la nascente sessuologia tedesca ( in Italia, Mantegazza), gli studi di Lombroso, ecc. E il suo strano fonosimbolismo, diciamo così, risulta alquanto strano e può sembrare divertente.
Forse l’inaudito ( la Cosa che cerca di farsi strada, l’invisibile, il rimosso, ecc.) predilige, come i bambini, la rima baciata.
Non a caso il subdio signor Runciter del romanzo di san Philip Dick, lascia in giro indovinelli dal tono profetico e rima baciata, sempre più significativi e illuminanti come quel messaggio in stile graffito rinvenuto da Joe Chip in un bagno pubblico: JUMP IN THE URINAL AND STAND ON YOUR HEAD / I’M THE ONE THAT’S ALIVE. YOU’RE ALL DEAD. (P.K. Dick, UBIK, Cap. 9).

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Quanto all’ ‘horror’, davvero tale se – come giustamente osserva luciano/idefix, leccandosi i baffi – qualcosa ti costringe a voltarti a sbirciare se c’è qualcosa dietro di te, beh, è proprio vero, specialmente se stai nel buio di un cinema, non dico in una dark room. Vengono in mente le parole in versi di un sorprendente filosofo tedesco, il Feuerbach di Reimverse ubert tod : “ Fosti una volta fanciullo, / perciò ancora dietro sei cieco / e dietro di te resta il segno / dell’essere senza coscienza / che fosti un giorno”.
A “vedere” il qualcosa che sta dietro, non è certamente l’occhio corporeo e civilizzato – notoriamente cieco nei confronti di quello che sta dietro – ma presumibilmente il famoso e più arcaico occhio pineale. A tale proposito, occorrerebbe citare Bataille (“L’ano solare”), ecc.
Mi limiterò ad osservare che l’orrore umano è costantemente all’opera sotto la pellicola della civilizzazione e della cultura. Uno dei fondamentali dell’orrore è scopare l’altro fottendolo da dietro – colpendolo alle spalle e mettendolo in una posizione in cui è difficile vedere l’aggressore e difendersi.
Farsi fottere è l’aspetto paradossalmente a un tempo cattivo e buono dell’ospitalità. Specialmente nei maschi, il solo pensare di farsi fottere da un nosferatu acquattato nell’ombra fa rizzare d’orrore il pelo sul collo. Occorre guardarsi le spalle mettendo in azione l’occhio pineale, o perlomeno quello che oggi ne resta, nell’apprensione di chissà quale seducente devastazione.
L’ambivalenza fra repulsione, orrore e brividi per quello che potrebbe stare dietro, ha probabilmente dato luogo alla formulazione di una interdizione particolarmente forte su questa pratica.
Una pratica oggi meno drammatizzata che nel passato ( ai tempi di Bram Stocker, per esempio, l’inversione era paragonata alla necrofilia), ma che non è senza inconvenienti per gli uomini e le donne di Dio, insomma di una Chiesa sulla quale – come dimostra l’attualità – da un po’ di tempo aleggia un mostro detto “pedofilo”, ovvero il nuovo Vampiro a cui oggi danno la caccia le brave persone convinte di essere e di rappresentare il Bene. Ma questo è un altro discorso. Un discorso che, al limite, non riguarda gli scrittori e gli artisti. Per scrivere, infatti, non bisogna fottere. Nella maggior parte dei casi, un artista non entra nell’altro, si limita a non uscire mai da se stesso.

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NOTA: La rappresentazione dell’ano da risvegliare proposta da Feuerbach rientra nella concezione di un uomo totale che rivendica i propri legami con il corpo e pensa in armonia con esso; l’universalità e la libertà che caratterizzano l’essere umano quindi non dipendono unicamente dalla ragione, ma dall’ ”essere totale”, in grado di ridare valore ai sensi più bassi mettendoli sullo stesso piano di quelli più elevati. I ” Reimverse über Tod” di Ludwig Feuerbach si trovano nel testo curato da H.M. Sass ( 1962) delle “jugendschriften” di Ludwig Feuerbach ( Vol. XI, aggiunto alla ristampa dei “Sämmtliche Werke” di Feuerbach, a cura di Bolin-Jodl, del 1959-60), che riporta la riproduzione fotostatica della prima edizione ( 1830) dei “Gedanken über Tod und Unsterblichkeit” ( “ Pensieri sulla morte e l’immortalità”) e che comprendono l’originale stesura dei “Reimverse”.
Ludwig Feuerbach, in seguito, rimaneggiò abbastanza radicalmente i ” Reimverse über Tod” del 1830 e ne fece i “ Reimverse auf den Tod”, che stampò nel III volume dei “ Sämmtliche Werke”, presso l’editore Otto Wigand ( Leipzig 1847), mutando ben più di duecento versi !
I versi riportati qui sono citati dal mio in “Odori” e tratti dall’originario poema feurbachiano, che Luciano Parinetto ha prima tradotto in “Corpo e rivoluzione in Marx” ( Moizzi 1977, pag. 297 e sgg.) e poi in ‘Rime sulla morte’ ( Mimesis, 1985, seconda ed. 1993).
Ho verificato tutto ciò grazie alla pazienza e all’aiuto della curatrice dell’opera di Luciano Parinetti, la dott.ssa Nicoletta Poidimani ( che peraltro si è laureata qualche anno fa alla Statale con una tesi su Georges Lapassade, l’autore di ” Saggio sulla transe” pubblicato da Feltrinelli, poi da Apogeo – Urra ).

Postato mercoledì, 7 aprile 2010 alle 22:00 da Gianni De Martino


Gianni: ecco un esempio di horror che mi spaventa (senza sangue e splatter). E cioè quella frase “io sono vivo e voi siete morti” che arriva a un certo punto nel romanzo di Philip Dick.
O (sempre in Dick) il finale di “Labirinto di morte” oppure tanti altri suoi testi.

Postato mercoledì, 7 aprile 2010 alle 23:12 da luciano / idefix


A proposito di Dick, Luciano… ho in mente l’organizzazione di un grande dibattito sulla Fantascienza.

Postato mercoledì, 7 aprile 2010 alle 23:49 da Massimo Maugeri


Me gusta mucho.

Postato giovedì, 8 aprile 2010 alle 09:18 da luciano / idefix


ERRATA CORRIGE

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Il verso “Pour qui sont ces serpents qui sifflent sur vos têtes ?” non è di Victor Hugo , come erroneamente credevo di ricordare, ma di Jean Racine – nella tragedia Andromaca (1667) atto V, scena 5.

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Oreste, sul punto di suicidarsi:
“… Hé bien ! filles d’enfer, vos mains sont-elles prêtes ?/
Pour qui sont ces serpents qui sifflent sur vos têtes ?”

Postato giovedì, 8 aprile 2010 alle 12:23 da Gianni De Martino


L’ossessione della presenza minacciosa alle spalle… mi fa venire in mente il contrario e cioé il punto di vista di chi sta alle spalle. La persona che si ritrova davanti ha davvero un’apparenza indifesa? Parecchi anni fa in un mio libretto/saggio scritto per Lato Side su Celentano, commentavo la copertina di un suo disco in cui il molleggiato si esibiva di spalle. Nell’iconografia cinematografica e rock degli anni 60, il “dare le spalle al pubblico” era gesto più che anticonformista, l’antecedente della linguaccia degli Stones e poi dei punk. Ma in questo apparire di spalle c’era anche un altro segno, che i film di Hitchcock illuminano perfettamente. Il protagonista che si presenta di spalle, visualizza la guida, il capo branco, colui che precede gli altri. Il fatto che volga le spalle agli altri non lo rende affatto indifeso, lo rende anzi intoccabile. Nel codice dei duelli del vecchio west, il pistolero che volgeva le spalle all’avversario non poteva essere colpito. Non veniva considerato vigliacco, anzi coraggioso e superiore, in quanto affrontava impavido una sfida vincendola senza neppure combattere. Dare le spalle è segno più che di sfida, di disdegno supremo. In quanti film abbiamo visto che quando il duellante che si ritrova in apparente posizione di vantaggio, viola l’etica del duello e vigliaccamente estrae, il protagonista lo sorprende con un rapido e liquidatorio movimento di rotazione e lo fulmina. Clint Eastwood in un episodio della Trilogia del dollaro, addirittura uccide l’avversario senza neppure faticare a girarsi, semplicemente volgendo all’indietro la canna della pistola. Quando da ragazzo, seguendo mode del tempo, facevo karaté, il nostro istruttore ci fece uno stage sulla difesa con avversario alle spalle. Essendo l’attacco di spalle imprevisto e imprevedibile, è una tattica formidabile. Ma il vertice del paradosso lo raggiunse parlandoci della difesa contro un avversario che ci scaglia una freccia alle spalle. Come si fa a difendersi? La regola prescrive: “Muoversi un attimo prima che la freccia venga scoccata”. E’ come avere gli occhi nella nuca. O per meglio dire: una facoltà psichica di anticipazione, che è capacità di visualizzare l’invisibile e di anticipare il non ancora avvenuto. Confesso che lì per lì, mi venne da ridere, anche se di simili arti guerriere avevo letto in Mishima. In quel periodo però mi trovai anche a tradurre un saggio di Tran Duc Thao, un filosofo di origine vietnamita influenzato oltre che da Marx da Lacan, per Bompiani. In seguito (non so nemmeno se il libro venne pubblicato, rilevai infatti che alcune citazioni da Freud non si trovavano affatto nelle opere e nelle pagine indicate dall’autore il che credo contribuì a destare qualche dubbio nell’allora scrupolosissima casa editrice e in Ugo Volli che dirigeva il settore filosofia) pubblicai un articolo su un numero speciale dell’Erba Voglio di Elvio Facchinelli, esponendo una situazione-struttura ricordata da Tran Duc Thao nel suo saggio. Il tema era il gesto dell’indicare e la sua significazione. Il gesto dell’indicare è all’origine del linguaggio in quanto designazione di oggetti. La situazione è questa: un gruppo di ominidi va a caccia, l’avanguardia (i più veloci) braccano la preda da vicino, segue il grosso del gruppo, e ancora più indietro i ritardatari. La preda gira intorno a un masso. L’avanguardia continua a vederla e la indica. Il grosso vede sia l’avanguardia che la preda e riesce a decifrare la significazione del gesto. Ma la retroguardia, non vede più la preda, sparita dietro il masso, vede soltanto il gesto dell’indicare. E’ un indicare che designa un oggetto invisibile, assente dalla scena, astratto. La retroguardia è costretta a un salto di coscienza, cioè ad acquisire la capacità di attribuire un segno a un oggetto assente. La formazione di pensiero, al contempo visionario e astratto , una volta insediata nella retroguardia, si trasmette come salto genetico a tutto il gruppo. Ora: in un’epoca in cui si strologava di avanguardie, questo scenario risultava quanto mai stimolante. E’ soltanto nella retroguardia che si desta il salto di coscienza, è soltanto da lì che si trasmette al gruppo. Chi vede gli altri di spalle non è un essere minaccioso, è invece un essere che si interroga su un enigma e impara a decifrarlo. Ciò consiglierebbe un grande rispetto (da cui la cultura borghese è tendenzialmente aliena) per i ritardatari . E’ facile per le avanguardie avvistare l’obiettivo, perché è prossimo e visibile. Ma le avanguardie non sviluppano coscienza collettiva. E’ invece dal margine, dal ritardo, dalla minorità di condizione fattuale, che si può sviluppare la visione dell’invisibile. Chi arriva dopo, vede di più. Chi sta dietro, la retroguardia, non perviene magari alla conquista della preda, ma consente all’intero gruppo una conquista ben superiore: la capacità di vederla in astratto , di farne esperienza senza averne. Senza questo salto di coscienza, non può darsi linguaggio. E’ qui, forse, che si insedia il primo atto letterario.

Postato giovedì, 8 aprile 2010 alle 13:26 da Gianfranco Manfredi


Piccola aggiunta. E’ noto a tutti il motto “guardare il dito invece della luna” considerato epitome del cretino supremo. Dev’essere stata qualche avanguardia molto sicura di sé a idearlo. In realtà, il salto di coscienza avviene proprio guardando il dito e decifrando quel misterioso segnale dell’indicare. La fisica non deduce forse l’esistenza dei corpi celesti invisibili, dai loro indicatori di presenza? So bene che nel senso comune si considera più importante e decisivo vedere l’oggetto, però il senso sviluppato è quello che ci consente di visualizzare invisibile. Viene in mente il “toccare per credere” che da satira della dabbenaggine di Tommaso, venne capovolto in slogan pubblicitario di sicura efficacia. Quale maggiore garanzia del toccare con mano? Ma il toccare con mano non ci educa affatto al credere sulla base delle evidenze, limita la nostra capacità di immaginare l’oggetto assente, il suo divenire in movimento, le sue leggi dinamiche. Versione moderna del “toccare con mano”. Poco prima di Natale in libreria: due signore discutono di fronte al banco libri, una ha preso in mano un malloppone di Larsson e legge da fascia di copertina “più di settecentomila copie vendute”. Si volge alla sua amica e dice, “beh, questo potrebbe andar bene per Gino.” Toccare con mano. Malloppo (che si presta a pacchetto corposo) , Genere di gradimento di Gino (il Giallo) , attestato di commercialità (che rassicura sul suo funzionamento). Però lo sappiamo che fine fanno i libri non letti e regalati. Gino lo leggerà davvero o lo riciclerà? Lo rifiuterà a priori perché non scelto da lui? L’aveva già acquistato? Gli piacerà? Non abbiamo risposta a questi interrogativi. Che si fa? Ti telefona a Gino per appurare? No, è sconveniente. Bisogna immaginarsi uno scenario futuro. Il toccare per credere non ci salva dal rischio di credere a qualcosa che non esiste.

Postato giovedì, 8 aprile 2010 alle 13:46 da Gianfranco Manfredi


Nell’epoca del trionfo del valore di scambio, il valore d’uso tramonta. L’acquisto si separa dal consumo. In campo librario, ciò si misura con il semplice confronto tra l’elenco dei bestsellers e quello dei libri più letti in Biblioteca. Lo scarto è impressionante e prova che l’acquisto non corrisponde all’uso. L’acquisto è acquisto di un valore scambiabile e immaginario. Scatta l’impulso a possedere l’oggetto, indipendentemente dalla nostra capacità di usarlo e dalle sue stesse possibilità di uso (chi mai usa tutte le funzioni a disposizione in un PC?). L’elenco dei bestsellers, non è necessariamente l’elenco dei libri più letti. La classifica non è un indicatore, è un rilevatore a posteriori del venduto (più spesso del distribuito) che di per sé si fa garanzia di nuovo venduto. Nulla però ci dice di quanto resta davvero invisibile… cioè l’uso reale e la reale efficacia dell’oggetto per lo sviluppo della coscienza collettiva.

Postato giovedì, 8 aprile 2010 alle 13:59 da Gianfranco Manfredi


Tutto il discorso di cui sopra non c’entra col fottere, ma col finire fottuti forse sì. Quante volte dopo l’acquisto di un libro ci siamo detti: “Che inculata che ho preso?” L’interrogativo resta comunque indipendente dalla gratificazione che è fatto soggettivo.

Postato giovedì, 8 aprile 2010 alle 14:08 da Gianfranco Manfredi


Lo sguardo del vampiro ( del vampiro classico tipo Dracula di Bram Stocker) è focalizzato sempre sullo stesso punctum, le vene del collo, secondo una modalità percettiva di un occhio che sembra non considerare né il sesso della vittima né il resto del corpo, come se lo avesse già essiccato. Generalmente il Vampiro morde indifferentemente donne, uomini, bambini – persino vecchi, vecchiette o persone brutte, se non trova di meglio. Il Vampiro sarebbe un tipico caso di “perverso polimorfo”.
Un’altra sua caratteristica, perlomeno così mi pare, è che uno se lo trova davanti o di lato, sono rari i casi di vampiri che ti arrivano alle spalle, agguantandoti da dietro. In ogni caso, da qualsiasi lato ti morda, una volta morsi si diventa fottuti vampiri comunque. Come nota D.A. Calmet: ” Quelli che sono stati vampiri passivi durante la loro vita, diventano attivi dopo la morte, cioè, quelli che sono stati succhiati, succhiano a loro volta.”

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A proposito di uno dei fondamentali dell’orrore umano ( considerare l’altro non come un limite, ma come qualcuno in cui penetrare per succhiargli il sangue come un vampiro o per fotterlo, vincendo ogni riluttanza della povera vittima ) ritrovo alcune singolari annotazioni di Umberto Eco in una divertente e inquietante “Bustina di Minerva” di qualche tempo fa, il 27 luglio 1986, che riporto qui, forse può essere utile per riflettere sull’insistenza dell’ “inculata” nel linguaggio ( indipendentemente, ci mancherebbe, dalla gratificazione che è un fatto “molto soggettivo” – come direbbe anche Woody Allen):
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Umberto : “ In una delle scorse bustine, per indicare delle persone che vogliono farci agire contro il nostro interesse, dicevo che ce la vogliono mettere nel sedere. Certo ho fatto male a usare un’espressione così poco diplomatica, ma lo sapete, lo spazio è tiranno e spesso occorre condensare in modo chiaro ed esplicito.

Non è però per bigotteria che mi scrive Gianni De Martino, il quale suggerisce che l’impiego di quell’espressione riveli un pregiudizio anti-omosessuale. Egli osserva che non si attendeva da un ‘ semiologo attento’ un uso così aggressivo del linguaggio – aggressivo nei confronti di un’ars amandi che non tutti disprezzano. E ricorda che la mia espressione appare tanto più aggressiva nei giorni in cui la Corte Suprema degli Usa sta attentando al diritto di amare in tal modo persino in privato ( …).

Il punto è che una lingua, sulla base di antiche tradizioni, crea degli stereotipi, che vengono usati senza che per questo ci si impegni su tutto ciò che implicano.

Chi definisce la testa di un imbecille riferendosi a un noto simbolo di fecondità, non disprezza per questo il simboleggiante e l’espressione viene liberamente usata da maschi ( di ambo le tendenze) e da molte femmine, tutti inclini a fare di quel bompresso un oggetto di orgoglio o di desiderio. Un francese userà la parola ‘bougre’ senza per questo nutrire pregiudizi razziali contro i bulgari o pregiudizi religiosi contro i Bogomili, come invece vorrebbe l’etimologia.

Ma c’è di più. Credo che chi usa l’espressione che mi viene imputata non intenda censurare un piacere che si proibisce, bensì suggerire una connotazione di violenza.

Se si considerano le possibilità che si offrono a entrambi i sessi, si vede che si può essere penetrati, per desiderio e consenso, in molti modi. Ma tra tutti uno è diventato immagine di riluttante consenso per ragioni fisiche molto evidenti, di cui ogni lettore e lettrice potrà sincerarsi facendo l’esperimento, in perfetta solitudine, sul proprio letto, divano o pagliaio.

Tra due riluttanti, chi rilutta supino può sempre cercare di reagire muovendo le braccia, le gambe, mordendo e sputando. Chi invece rilutta in posizione prona può al massimo compiere vaghi movimenti natatori. Per questo maschi e femmine identificano nella posizione prona quella che favorisce il violentatore (…).

Si rifletta che c’è anche una ‘gaia scienza’ dell’oralità, ma che nei regesti del turpiloquio non trovo espressioni che la colleghino a frode o violenza; perché è pericoloso in tali casi obbligare chi non vi consenta. Pertanto ritengo che chi invece usa in senso negativo l’immagine che ho usato io, più che al sesso pensi al possibile sopruso.

Vorrei notare di passaggio che nel corso dei secoli moltissime donne sono state violate supine, e la maggiore laboriosità dell’impresa ha moltiplicato gli atti di violenza. Però non esistono espressioni gergali che si riferiscano a questo oltraggio. Il linguaggio è stato manipolato dal ’sesso forte’, che ha imposto come modello le proprie ossessioni. Caro De Martino, siamo entrambi dei maschiacci “. ( Umberto Eco, L’espresso 27 luglio 1986, p. 178 ).
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Non si è filosofi se non ci si guarda alle spalle ? :-)

Postato giovedì, 8 aprile 2010 alle 14:33 da Gianni De Martino


@ Gianni. Non c’è scrittore che non si interroghi sulle metafore. Quando si comincia ad amare le metafore, spesso si resta impaniati nella metafora, che da semplice “indicatore” viene mutata in “sostanza”, e dunque ci si inoltra nella metafora , prendendola alla lettera, cercandone sempre nuove attribuzioni di senso e specificazioni, per scoprire sovente, alla fine, che a furia di precisarla e approfondirla, la stessa metafora ha acquistato un senso opposto, dato che in ogni unità/identità si nasconde una compresenza di opposti e contrari. Lo stesso bizzarro effetto avviene con gli aforismi che nascono in genere dal capovolgimento del senso comune, ma che per risultare brillanti debbono far esclamare “è vero, non ci avevo pensato!” e con ciò codificano un altro senso comune, altrettanto privo di senso del suo antecedente oppositivo. La differenza è che la metafora, se se ne fa un uso accorto, può mantenere la sua specificità di indicatore, mentre l’aforisma, essendo assertivo, no. Ecco perché personalmente continuo a usare metafore (con tutti i rischi che comportano se prese alla lettera) mentre diffido profondamente degli aforismi che mi paiono davvero vuoti di senso e altrettanto superficiali delle verità presunte che si prefiggono di smentire. Woody Allen, maestro dell’aforisma, è indubitabile che faccia ridere, ma chi lo considera perciò “filosofo” prende fischi per fiaschi.

Postato giovedì, 8 aprile 2010 alle 15:34 da Gianfranco Manfredi


Bravo, Gianfranco!
Chi dava anche di spalle?
Il sacerdote cattolico nel vecchio rito pre-conciliare. A rappresentare anche fisicamente il fatto che i fedeli potevano avere un contatto con Dio solo ATTRAVERSO la guida e l’intermediazione della gerarchia ecclesiastica. Tutto il contrario della predicazione protestante (per inciso, io sono valdese), dove chiunque è titolato a portare la Parola di Dio.
SUGLI AFORISMI: dipende. Certo: ci sono quelli sterili, i witz che magari fanno ridere ma lasciano il tempo che trovano.
Ma altri…sono capaci di segnarti. Come questo di Karl Kraus che è diventato una delle (tante) bussole della mia vita: “Non contano solo le cose dette ma anche chi le dice”
Analogamente, non contano solo le singole scene ma anche il film o il libro in cui sono inserite. Un lungo silenzio tra due persone può essere noioso o terrificante, farci piangere o ridere, tenerci col fiato sospeso oppure farci finalmente respirare sollevati.

Postato giovedì, 8 aprile 2010 alle 15:46 da luciano / idefix


Quanto ad Eco, la sua lettura semiologica è certo attraente, ma essendo notoriamente avversario istintivo della psicanalisi, tende a diffidare a priori dell’esperienza sessuale come fondante della lingua comune. Per cui, nel vostro scambio epistolare, pur apprezzando la precisazione di Eco, tendo a considerare più corretta la tua, anche perché più insidiosa e indubbiamente molto meno auto-assolutoria. Sarebbe quanto meno obbligato, per un semiologo, aggiungere qualcosina circa l’origine storico-culturale della diffusione di certe metafore sessuali. L’espressione “prenderlo nel culo” nel senso in cui oggi la usiamo, esisteva o aveva dei paralleli in epoca pagana?
Lo chiedo perché non lo so. Sull’anale confesso i miei limiti (e sia detto senza alcuna supponenza). Certo, come giustamente rileva Gianni, mi pare arduo trovare associazioni anali al mito del vampiro, almeno non nella cospicua misura del mito del Demonio. Potrebbe essere questo proprio jato a misurare in letteratura la distanza tra Vampiro e Demonio?
Il morso è una forma più raffinata di penetrazione? Se ve ne ricordate, in un suo breve intervento sulla sessualità vampirica, Paolo de Crescenzo , considerandola come sessualità “evoluta” , pareva nel gioco scherzoso, indicare proprio questo. Si parlava ancora, allora, della Meyer e dei suoi vampiri apparentemente desessualizzati. Da questo punto di vista, la questione muta e parecchio. Sono davvero vampiri pre-sessuali , a-sessuali, sessualmente immaturi, o sono piuttosto vampiri talmente evoluti che ormai persino il morso gli suscita turbamento? La loro sessualità è “romantica” in quanto ormai pienamente virtualizzata ? La nuova forma dell’amore puro e spirituale sta in un’immaterialità da Face Book? Sentita ieri in un film americano questa battuta, sempre riferita all’uso di Face Book per la corrispondenza sentimentale: “Perché perdere tempo dal parrucchiere, quando basta cambiare il profilo?”

Postato giovedì, 8 aprile 2010 alle 15:53 da Gianfranco Manfredi


@ Luciano. Pensa un po’ sono valdese anch’io. La mia giovinezza l’ho passata ad Agape. Tu guarda le combinazioni: ci si butta nel vasto mare della rete e poi ci si ritrova tra simili…
Sugli aforismi però la penso come prima. E’ vero che quello di Kraus è “vero”, ma è altrettanto vero il contrario. Non conta solo chi dice una cosa, ma anche cosa viene detto. Quante parole preziose suonano tuttavia impersonali? Quanto senso ci giunge da un’iscrizione, o da una frase tracciata sul muro non sappiamo da chi? La suggestione della frase enigmatica (che ci interroga) non è tanto maggiore in quanto non sappiamo chi l’ha scritta o pronunciata?
E a quante asserzioni diamo credito non per quello che sono, ma in omaggio a chi le ha pronunciate? Peccato che anche ai geni sfuggano delle solenni cazzate.
Continuo a ritenere Martin Lutero un faro, ma che dire di questa sua sarcastica proposizione: ” Quando Dio e gli angeli sentono il peto di un ebreo, che risate e che capriole!” L’ha detto Lutero, ma se l’avesse detto un ubriaco qualsiasi farebbe differenza? Lutero ha anche scritto di peggio: “Osservate tutto ciò che gli Ebrei hanno sofferto da circa millecinquecento anni. Capiterà loro assai peggio nell’inferno!”
Sopravvive qualche dubbio di paradosso iperbolico? Allora becchiamoci questa tirata: ” Bisognerebbe , per far scomparire questa dottrina blasfema, mettere a fuoco tutte le loro sinagoghe e, se restasse di queste qualcosa dopo l’incendio, coprire ciò che resta di sabbia e di fango affinché non si possa più vedere la minima tegola e la minima pietra dei loro templi. Che si proibisca agli Ebrei da noi e sul nostro territorio, sotto pena di morte, di lodare Dio, di pregare, di insegnare, di cantare.” Questo, detto da uno dei padri della modernità, da un Riformatore e da un Rivoluzionario, da un apostolo della responsabilità individuale e della libertà di coscienza… cosa avremmo dovuto attenderci dagli altri? La parola che offende, la falsa predicazione, risuona tramite e attraverso le persone, anche le più nobili, non è ideata e pronunciata dalla persona, se non di rimbalzo. Le parole, di per sé, hanno una Storia, ma poi attraversano la Storia e riecheggiano anche quando se ne è persa l’origine. “La Storia si ripete in Farsa”, altro noto aforisma assertivo marxiano. La ripetizione dell’antisemitismo da Lutero a Hitler la si può ancora considerare farsesca?

Postato giovedì, 8 aprile 2010 alle 16:18 da Gianfranco Manfredi


L’aforisma marxiano corretto era: “Nella Storia la Tragedia si ripete in Farsa”. Vale tanto quanto: “Nella Storia la Farsa si ripete in Tragedia.” Vale anche la terza possibile versione: “Nella Storia Farsa e Tragedia si ripetono” e quella contraria: “Nella Storia non si ripete mai la Stessa Farsa o Tragedia.” Tutte queste proposizione ci sembrano sostenibili e avere senso. Nessuna ne ha perché trattasi di sofismi, cioè di ragionamenti che conducono ad asserzioni errate, in quanto il loro fine non é la verità, bensì la persuasione.

Postato giovedì, 8 aprile 2010 alle 16:31 da Gianfranco Manfredi


Un passaggio al volo giusto per segnalarvi che, nella colonna di sinistra del sito (sotto il riquadro dedicato al dibattito sul romanzo storico, dove compare un antico romano che si guarda intorno con circospezione), trovate un simpatico vampiro (un draculino, direi) che si tramuta in pipistrello.
Cliccandoci sopra, avrete modo di accedere direttamente a questo spazio dedicato al dibattito sulla “letteratura dei vampiri”.
;)

Postato giovedì, 8 aprile 2010 alle 20:18 da Massimo Maugeri


Questa poi…scoprire che Gianfranco Manfredi è valdese o mezzo valdese…
Mi costringe-diverte-incuriosisce-stuzzica a ripensare alle tue storie con questa chiave di lettura.
Torno per un momento alla frase di Kraus (“Non contano solo le cose dette ma anche chi le dice”). E faccio un esempio molto semplice (e non è piaggeria): se un film lo consiglia con entusiasmo Silvio Berlusconi, è un conto. Se lo stesso film lo consiglia con le stesse identiche parole Gianfranco Manfredi, è tutt’altro conto.

Postato giovedì, 8 aprile 2010 alle 20:45 da luciano / idefix


Ho appena visto il film di Gale.
Uno scintillio di intelligenza ironico-macabra e una raffinata cura stilistica che si mangia in allegria gran parte delle zozzerie che passano sotto il nome di “horror cinematografici”.
Grazie del consiglio.

Postato giovedì, 8 aprile 2010 alle 21:44 da luciano / idefix


Ti ringrazio per la stima, Luciano, ma la differenza è che se un film (Baaria di Tornatore, tanto per essere chiari) lo consiglia Berlusconi , ciò (è dimostrato) spinge milioni di persone a NON andarlo a vedere. (Altrettanto è avvenuto per Barbarossa, non solo consigliato e co-prodotto, ma persino interpretato da Bossi). Se lo consiglio o lo sconsiglio io, non frega assolutamente a nessuno, e se frega a qualcuno ciò non ha la minima importanza sul mercato, né in negativo, né in positivo. Ecco perché un marginale può esprimere più liberamente la sua opinione, sa che non condizionerà le scelte di nessun altro. Si è tanto più liberi, quanto meno potere si ha. Ecco perché l’invidia sempre tirata in ballo dal Gran Capo, non ha proprio alcun motivo di sussistere.

Postato venerdì, 9 aprile 2010 alle 12:24 da Gianfranco Manfredi


Vorrei buttare là un tema già accennato, ma che non ho approfondito affatto e dunque chiedo lumi a chi ne sa di più. il tema vampirico, su questo mi pare siamo ormai tutti d’accordo, si riconnette a quello della Paura e soprattutto a certe paure sociali ed epidemiche (pesti, infezioni ideologiche,apocalissi prossime venture, seduttività “maliarda” del femminile e fascino-orrore del maschio predatore, ansia rispetto alla diversità, al non-conforme, all’eresia ecc.). Ora tra le figure fondanti della narrativa gotica, c’è indubbiamente l’Ebreo. Si può tracciare qualche parallelo tra il mito dell’Ebreo errante e il Vampiro? Questo è pane per Pazzini. L’argomento andrebbe affrontato, perché su questo permane un certo imbarazzo . la critica letteraria ha rinvenuto tracce di antisemitismo anche in Hugo, in Dickens, in una quantità di autori “al di sopra di ogni sospetto”. Questo elemento però è stato sempre , per amore d’autore, considerato minore , svalutato al punto da non venire nemmeno indagato. E’ ancora oggi tema imbarazzante per eccellenza nella cultura occidentale. Una volta in un dibattito letterario, ho sentito avanzare da Danilo Arona un interrogativo circa la discendenza della stirpe vampirica da Lilith. Mi piacerebbe capirne di più da chi ne capisce.

Postato venerdì, 9 aprile 2010 alle 12:38 da Gianfranco Manfredi


Oddio, adesso Pezzini mi è diventato Pazzini! Perdonami, Franco, dall’alto della tua saggezza.

Postato venerdì, 9 aprile 2010 alle 12:40 da Gianfranco Manfredi


Anch’io ho appena finito di vederlo; non ne conoscevo l’esistenza e l’idea mi è sembrata grande.
Grazie! :)

Postato venerdì, 9 aprile 2010 alle 13:16 da Simonetta Santamaria


Per quel po’ che posso dire sulle origini del mito di Lilith, secondo la Qabbaláh, Lilith è il nome della prima compagna di Adamo, in seguito ripudiata in favore di Eva. Nell’immaginario popolare ebraico è ritenuta la madre di tutti i vampiri, un demone notturno (il suo nome sembra infatti derivare dall’ebraico laila che significa appunto “notte”) avido di seme maschile – un tipo diverso di vampirismo – che entra nel letto degli uomini per prosciugarli della loro forza vitale; da lei discendono le lilin, malefiche creature alate che rapiscono e succhiano il sangue dei bambini.

Postato venerdì, 9 aprile 2010 alle 13:20 da Simonetta Santamaria


Ho ripescato un brano di Jung da “Simboli della Trasformazione” che riguarda il mito di Lilith. Lungo e complesso, ma vedo di riassumere. la cosa interessante è che Jung mescola e confronta nella sua analisi il mito ebraico con miti tedeschi ad esso direttamente collegati.
1. La colpa di Adamo è di aver mangiato il frutto dell’albero del Paradiso. Secondo una leggenda ebraica, dopo la cacciata di Adamo e Eva dal Paradiso, quest’albero si seccò, ma tra i rami spuntò un fanciullino, cioè il figlio di Adamo e… Eva? O della sua prima moglie Lilith, in perenne litigio con Adamo per dispute di potere?
2. Nei miti tedeschi gli alberi sacri erano tabù. Non era lecito strapparne le fronde, né raccogliere alcunché dal terreno alla loro ombra. Quando l’albero sacro raggiunge la piena maturità, dal suo legno viene ricavata una culla. E’ a culla destinata all’Eroe. Secondo alcune leggende cristiane medievali, la croce di Cristo venne fabbricata dal legno dell’albero sorto sulla tomba di Adamo.
3. Lilith è mito parallelo a quello greco della lamia, fantasma notturno che spaventa i bambini. Lamia seduce Zeus. La moglie di Zeus, Era, per gelosia, infligge a Lamia una condanna: potrà dare alla luce solo bambini morti. Lamia diventa così persecutrice dei bambini e li uccide ogni volta che sia possibile. E’ a volte anche antropofaga. Ciò riecheggia nella favola di Hansel e Gretel. Lamia in greco è anche il nome di un pesce vorace, una sorta di drago-balena che può ingoiare oltre che persone, animali, piante e persino un intero paese. L’eroe riporta in vita quanto il mostro ha ingoiato.
4. Un particolare di questa Madre Terrificante, personificazione della Morte, è che “cavalca le sue vittime”. Scrive Jung: “A prima vista pare esista un nesso etimologico tra il tedesco Mar (incubo) Mahre (cavallo scheletrico) ; in inglese Nightmare (incubo) e mare (cavalla) . Il radicale indoeuropeo delle parole che significano “cavalla, giumenta” è mark; antico irlandese, mare; antico alto tedesco meriha (femminile di marah= stallone); anglosassone myre (femminile di Mearh=stallone); antico nordico merr (mara=orca, incubo). Il francese cauchemar (incubo) viene dal latino calcare=pestare, premere, detto anche del gallo che “preme, calca” la gallina. (…) il radicale ario mer, mor, significa “morire”. Da qui derivano il latino mors (morte) il greco moros= destino (e forse moira= dea del fato, spesso anche della sventura e della morte). In slavo mara significa “strega” e in polacco mora è “incubo”.”

Mi fermo qui perché gira la testa. Suoni e simboli riecheggiano trasversalmente alle culture, non c’è nulla di meno localistico delle tradizioni locali. La simbologia sessuale è universalmente presente. La Morte viene personificata in una “donna che cavalca”. Il conflitto di potere tra Adamo e Lilith, non sembri riduttivo dirlo, si esprime in un conflitto sessuale tra chi sta sopra e chi sta sotto. Questo offre un’altra lettura all’obiezione di Eco a Gianni De Martino. La “sottomissione” della posizione prona è anche , non da oggi, sottomissione sessuale oltre che ossessione maschile per l’intollerabile (nel maschio) passività.
Il vampiro è il figlio morto di Lilith? E’ l’eroe anti-Eroe che non salva, ma uccide? Che dona sì la vita eterna, ma attraverso la morte continuamente celebrata, e dunque una non-vita eterna?
E non si nasconde un paradosso storico-culturale nel fatto che il vampiro che sottomette, desti nella donna sua vittima l’angoscia della passività? La donna vampirizzata si emancipa vampirizzando e dunque cavalcando, dominando, penetrando attivamente.
Nel Mito del vampiro si cela (neppure troppo) un conflitto tra Maschile e Femminile di cui la Sessualità è teatro.

Postato venerdì, 9 aprile 2010 alle 17:27 da Gianfranco Manfredi


Jung parla di Lilith anche in “Psicologia e Religione”. Cito:

“Una leggenda sostiene che che il serpente sia stato in paradiso Lilith, la prima moglie di Adamo, con la quale questi dovrebbe aver concepito l’armata dei demoni. Questa leggenda presuppone l’esistenza di un inganno che certo non corrisponde alle intenzioni del creatore del Mondo. Infatti le Sacre Scritture riconoscono solo Eva come moglie legittima. E’ comunque sorprendente che l’uomo originale, creato a immagine di Dio, possegga nella tradizione due mogli, come il suo prototipo celeste”
Sul fatto che Dio abbia due mogli non mi dilungo, rimando alla lettura del testo. Eva comunque rappresenta nella genesi, il popolo di Israele. Jung nota al proposito:
“Non si è sentito parlare che molto tardi della scabrosa relazione di Adamo con Lilith. Ignoriamo se Eva sia stata per Adamo una sposa altrettanto scomoda quanto lo è stato per Javé il suo popolo che, per così dire, flirtava quasi ininterrottamente con il pensiero dell’infedeltà. E’ certo comunque che la vita famigliare dei nostri primi progenitori è stata tutt’altro che felice: i loro due primi figli rappresentano il tipo dei fratelli nemici… Come la caduta, anche l’intermezzo Caino-Abele può venire difficilmente incluso nell’elenco dei risultati più brillanti della creazione.” Che ne è dell’Onniscienza di Dio se non è riuscito a prevedere tali risultati? “Mentre con le creature prive di coscienza tutto sembra procedere soddisfacentemente, con l’essere umano qualcosa va sempre di traverso.”

Postato venerdì, 9 aprile 2010 alle 17:48 da Gianfranco Manfredi


La tradizione ebraica mette in scena elementi oppositivi, costantemente ribaltati, con un’ironia al contempo ilare e drammatica. Questo elemento di perenne contrasto simbolico che riproduce ossimori e subito li dilania, contrasta alla base con le ideologie d’Ordine che definiscono separando. L’aspetto intimamente sovversivo di queste concezioni doveva per forza di cose insediarsi all’interno del Mito Vampirico. Eppure questa segreta influenza continuiamo a rimuoverla. Rispetto alle tradizioni ebraiche come alla figura dell’Ebreo in quanto tale, subentra (nei casi migliori) una sorta di prudente quanto timorosa “sospensione del giudizio”. Vi si trattano le stesse simbologie che si ritrovano in diverse culture, eppure lì ci colgono con uno spaesamento ben rappresentato dalla nostra (non ebraica) concezione di Cabala. Questo a volte riguarda anche le figurazioni dell’Ebreo. Ricordo d’aver letto Melmoth, l’Ebreo errante, romanzo gotico dello zio di Oscar Wilde Charles Robert Maturin. Ricordo che lo trovai straordinariamente affascinante. Eppure, confesso, se dovessi raccontarne la storia, be’… non la ricordo più. Troppo inafferrabile per potersi sedimentare? Rimozione inconsapevole di un perturbante che non riusciamo a classificare o sul cui giudizio non riusciamo ad essere sereni e dunque ci consegna all’impronunciabile? Giro a Simonetta, a Franco, a Gianni, a chiunque la domanda cui non so trovare risposta…

Postato venerdì, 9 aprile 2010 alle 18:03 da Gianfranco Manfredi


… ma che non credo possa restare inevasa in un dibattito come questo sui vampiri, fin dal principio dilagante sull’intero spettro dello scibile umano, ma muto su questa specifica e tutt’altro che secondaria questione.

Postato venerdì, 9 aprile 2010 alle 18:05 da Gianfranco Manfredi


Un gran bel tema, ma enorme e – diciamo – a più teste. Lilith, l’Ebreo Errante, il rapporto vampiri/antisemitismo… Forse in questa sede si può provare tutti insieme a individuare un po’ di voci per un possibile (diciamo così) indice analitico – ma, è chiaro, non molto di più. Sicuramente, per esempio, la classica “accusa del sangue” e i presunti infanticidi rituali imputati a membri di comunità ebraiche conducono sul terreno che si sta discutendo; ma anche in senso molto più metaforico l’ebreo è stato visto come una figura (in senso lato) vampiresca, per esempio in rapporto al tema dell’usura. Da cui un vampirismo stavolta reale, statale, per esempio di spaventosi gravami fiscali sui membri delle comunità israelitiche, che (rammentiamolo) in certi luoghi non potevano neppure morire – pena il dissanguamento finanziario delle famiglie soggette a un’apposita tassa. Questo discorso di sovrapposizioni di dati materiali e simbolici in uno statuto “vampiresco” dell’ebreo, macchiato secondo le accuse del sangue di Cristo, è però talmente fitto che un po’ tutta questa storia di persecuzioni può leggersi all’insegna del vampiro. Rimandando all’apposito capitolo della Storia della paura in Occidente di Delumeau per quel che riguarda il medioevo, va però detto che l’associazione col vampiro torna ancora abbondantemente tra Ottocento e Novecento. In “Dracula”, dove il denaro è oggetto di tutta una riflessione che vede contrapposti gli amici di Mina – che spendono con disinvoltura per il “bene” – e il conte che invece ha coi soldi un rapporto predatorio e tesaurizzante, la sua cassa a Galati è ricevuta da Immanuel Hildesheim, “un ebreo dall’aspetto levantino, con un gran naso da pecora e un fez in testa”, nelle cui “frasi, al posto dei punti c’era una richiesta di moneta sonante”.
E l’Ebreo Errante, con la sua vita innaturalmente protratta, ha qualcosa in comune con la mitologia del vampiro. Non solo in generale, ovviamente, nell’ambito dell’unica allegra famiglia che apparenta i personaggi tenebrosi e maledetti per la gioia degli autori romantici (compreso quell’Olandese Volante che dell’Ebreo Errante è la versione marinara, legata ancora una volta a uno stereotipo geografico e – guarda caso – a un sottotesto economico, visto il ruolo mercantile degli olandesi: l’Olandese Volante ha tra l’altro un preciso ruolo nella genesi di “Dracula”). Certo, non c’è un legame diretto: l’Errante nasce come vilain in quelle fantasiose riprese di racconti evangelici – con spirito, peraltro, ben poco evangelico – che in epoca tarda si nutrono ormai del meraviglioso più spudorato. Va detto che il suo errare rammenta quello di Caino e il suo restare sulla terra fino al Giudizio si collega con favole già diffuse nel medioriente di età apostolica (come accenna il Vangelo giovanneo); ma le attestazioni prime del personaggio in quanto tale sono del Tredicesimo secolo, in qualche connessione con l’Armenia, e con le categorie un po’ dubbie di altre figure tra la vita e la morte che popolano le Navigazioni dei santi irlandesi e infiniti altri racconti del Medioevo. Ma, come spesso queste figure, si tratta di un vilain che non lo è completamente – e in questo senso una figura meno antipaticamente antisemita di quel che potremmo aspettarci. Tra gli infiniti lasciti della cultura ebraica, le due categorie dell’Esodo e della Diaspora hanno in fondo pari dignità con le altre due alla base dell’Occidente, cioè Assedio e Ritorno: e l’Errante è figura sia (ovviamente) della Diaspora, sia di un Esodo rivolto alla fine del suo peregrinare. Questo suo essere allo sbando dell’esistenza, in una deriva della vita e dal consorzio umano, ha sicuramente qualcosa in comune con una certa figura prestokeriana del vampiro come esiliato di statuto equivoco, capace anche di azioni positive (si pensi a Varney). E il rapporto con la risacca di credenze, spesso impregnate di magia, di comunità allo sbando tra Europa e Asia, magari a contatto con dottrine eretiche dei tre monoteismi, può essere un ulteriore motivo di vicinanza. L’Ebreo Errante, figura della vertigine del Tempo e dello Spazio, non è un vampiro: ma nei due personaggi si rapportano temi e suggestioni in parte comuni.
Mi pare del resto sia Sue che avvicina all’Errante una versione al femminile, Erodiade: recuperando una tenebrosa femme fatale che dalla letteratura devota e dalla parentela (Herodiana) con la Diana Signora del Gioco, dea decaduta e patrona dei cortei notturni femminili, passerà all’arte simbolista con altre seduttrici vampiresche. Ora devo interrompere: ma su Lilith prossimamente, perché è un argomento troppo bello…

Postato venerdì, 9 aprile 2010 alle 19:20 da Franco Pezzini


Se Lilith ( generalmente mitica e muta) potesse parlare, forse direbbe: ” E’ il succhiare che mi fa bella..! – Spero non abbiate intenzione di calunniarmi… : -)

Postato venerdì, 9 aprile 2010 alle 20:29 da Gianni De Martino


1) Franco: perdo colpi, ma dove il Vangelo di Giovanni accennerebbe all’Ebreo errante o a Caino?
2) Come dicevo vari commenti fa, del vampirismo poco so perchè è un tema che (nel mare magnum dell’horror) poco mi affascina e/o mi spaventa. Forse perchè le sue variazioni mi paiono (sbaglio?) assai limitate e (alla fin fine) gli stessi risvolti erotici (che in genere mi intrigano molto) nel vampirismo mi sembrano troppo espliciti e privi di ambiguità.
Piuttosto, volevo segnalare un romanzo per certi versi “vampiresco”, pur non essendoci nemmeno una goccia di sangue. D’altra parte, lo scrisse un grande autore che spesso si occupò di narrativa “strana” (in genere fantasmi, con racconti eccezionali e del tutto insoliti, dal “Giro di vite” alla “Belva nella giungla”): Henry James.
Il romanzo a suo modo “vampiresco” è “La fonte sacra”: scritto nel 1901, è uno dei libri più enigmatici e insondabili che conosco. L’io narrante re-incontra dopo alcuni anni alcune persone che non vedeva da tempo: gli pare che la donna sia diventata più giovane e l’uomo più brillante. Così, comincia a costruire una bizzarra teoria: che la “fonte sacra” di queste splendide trasformazioni siano i rispettivi partner. La teoria sembra funzionare per la donna: il giovane marito è molto invecchiato. Ma nel caso dell’uomo? Sua moglie non è cambiata. Chi è allora la sua “fonte sacra” che gli ha dato brillante intelligenza? Quale donna è stata vampirizzata? Tutto il romanzo è costruito sulle sabbie mobili delle teorie che l’io narrante costruisce e su questo terreno infido il lettore annaspa, affonda, inghiottito dalla scrittura ipnotica e labirintica di James. Io non sono mai venuto a capo del mistero. Che forse nemmeno esiste: forse è tutto una costruzione maniacale del protagonista. Forse la vera vittima del vampirismo è il lettore del romanzo.

Postato venerdì, 9 aprile 2010 alle 20:52 da luciano / idefix


@ Luciano. Chiedo scusa, rileggendola, mi accorgo che la frase si prestava all’equivoco: “Va detto che il suo (dell’Ebreo Errante) errare rammenta quello di Caino e il suo (sempre dell’Ebreo Errante) restare sulla terra fino al Giudizio si collega con favole già diffuse nel medioriente di età apostolica (come accenna il Vangelo giovanneo)”. Faccio riferimento all’idea, circolante nelle prime comunità a seguito di un’interpretazione un po’ azzardata di una certa espressione di Gesù, che qualcuno (nello specifico Giovanni) fosse destinato a non morire fino al giorno della venuta del Signore. Un’idea che però l’evangelista smentisce: Gv 21, 22-23.
Molto bello il richiamo a James.

Postato venerdì, 9 aprile 2010 alle 21:19 da Franco Pezzini


La riluttanza di Adamo verso una posizione sottostante nell’atto sessuale ha probabilmente varie spiegazioni combinate: per esempio il ripudio dei culti delle Ishtar cananee, trionfanti dee-regine dell’amore. Ma, al di là di una dialettica sessista legata all’affermazione dell’Unico Dio (e, in senso derivato, del suo ordine patriarcale legato alla cultura di pastori nomadi), ci poteva essere un motivo che interessa più direttamente il nostro discorso. Prima di essere “razionalizzata” come prima moglie di Adamo, la diavolessa di origine sumera Lilitu/Lilith nemica dei neonati doveva essere al contempo il demone-incubo che aggrediva i pastori solitari nel sonno (un po’ come l’Empusa greca), e invisibile responsabile dei sogni bagnati. Il fatto di “stare sotto” Lilith doveva in sostanza richiamare a livello simbolico la posizione di chi si trova a disperdere il seme – per il pensiero arcaico un fenomeno misterioso e dai risvolti allarmanti anche quando non voluto. Secondo tradizioni poi elaborate più dettagliatamente nel pensiero cabalistico, questi figli non-nati sarebbero infatti “gusci”, larve vampiresche. Lilith la sterile, patrona delle morti in culla, sarebbe insomma madre di simili non-nati la cui innumerevole schiera (più di cento Lilim al giorno sarebbero stati i figli-demoni da lei concepiti quando gli angeli Snwy, Snsnwy e Snglf la ritrovarono) infetta da allora l’umanità.

Postato venerdì, 9 aprile 2010 alle 21:20 da Franco Pezzini


Povera ninfetta, trasformata in Diavolessa solo perché voleva stare sopra! E che problema c’era ? :-)
*
D’altra parte potrebbe sembrare un po’ assurdo anche irridere l’angoscia che per la maggior parte degli uomini e delle donne investe quel sempiterno conflitto tra Maschile e Femminile di cui quello per tranquillità chiamiamo “sessualità” è ancora il teatro.

Postato venerdì, 9 aprile 2010 alle 22:44 da Gianni De Martino


Adesso ho capito, Franco: grazie per la precisazione.
Sul binomio sesso-horror, la mia opinione è che le cose più geniali ed “estreme” le abbia scritte Clive Barker: penso a racconti come “Jacqueline Ess: le sue ultime volontà” o a certe sequenze di un romanzo come “Imagica”.

Postato venerdì, 9 aprile 2010 alle 22:59 da luciano / idefix


Grazie di cuore per questi illuminanti commenti. Sulla “donna che sta sopra”, tanto per offrire un riferimento contemporaneo che possa a sua volta interessare (spero) chi come Sascha sembra più motivato verso il contemporaneo che verso il Mito (se ho capito bene), mi viene in mente un film porno relativamente recente intitolato Women On Top. E’ noto che il porno contemporaneo ormai pare essersi specializzato per un’utenza che non richiede più sesso e copulazione in generale, ma rappresentazioni specifiche di singoli atti sessuali di proprio momentaneo o ben definito gradimento. Le Women On Top sono donne che cavalcano, durante l’accoppiamento, e il film è tutto dedicato a queste cavalcate. Ma Women On Top sono anche donne in carriera, dirigenti borghesi che a partire dalla scelta del partner (un inferiore) non seducono, bensì ordinano (con varie modalità). Il simbolismo della “posizione di potere” è evidente.
Nei filmatini non-narrativi ( o meglio pre-narrativi) del porno-usa-e-getta, si assiste a qualcosa di più complesso ed ambiguo. Apparentemente il maschio si asoggetta, pressocché inerte, comunque passivo, al gioco femminile con il serpente, pare dunque non nutrire più alcuna ossessione per la passività, “lascia fare tutto a lei” . In realtà c’è un gioco mascherato di dominio che passa attraverso l’uso della camera. Il maschio impugna la camera, è il regista. La donna è sì protagonista ma in posizione chiaramente subordinata, com’è subordinato un attore al regista. Il dominio maschile viene mediato attraverso una macchina. La passività maschile viene apparentemente rappresentata, ma la rappresentazione rimuove il dato di realtà: chi comanda è colui che regge la macchina da presa, non colei che presta la sua opera di fronte alla macchina da presa. Il presunto vampirizzato è in realtà vampiro. La sua stessa seduttività è consegnata alla macchina. Le ragazze “reclutate” si prestano in devozione alla macchina, non all’esemplare maschile in sè. Assistiamo alla celebrazione di un rito mediatico. La tecnologia diventa nuova forma e sostanza della Sessualità.

Postato sabato, 10 aprile 2010 alle 11:04 da Gianfranco Manfredi


Va aggiunto che si contrappone allo scenario di cui sopra, la figura della Mater (nel senso di Masoch) , più precisamente della donna manager della propria sessualità, che si dota di proprio sito, che mette in scena in autonomia la propria professionalità, sistema lei la MDP, non presenta neppure, né chiede mini-bio al maschio prescelto come mero oggetto senza alibi, ne fa in qualche modo oltre che oggetto, attrezzo e arredo scenico. Resta il fatto che questa prestazione autonoma all’apparenza è dedicata a clienti esterni ed assenti, paganti ma virtuali. “Al servizio del cliente” è una sorta di “porno etico” che somiglia assai a quanto asseriva Quadruppani rispetto all’etica del Giallo. Ti dò quello che vuoi. Chi ancora associasse la sessualità alla sorpresa e all’imprevisto ( piacevoli o sgradevoli) è bene si rivolga altrove.

Postato sabato, 10 aprile 2010 alle 11:21 da Gianfranco Manfredi


Mi viene in mente l’imprevedibile storiella del sadico e del masochista (o della sadica e del masochista o della sadica e della masochista o mescolate i ruoli e i sessi come vi pare):
“Frustami” chiese il masochista.
“No” disse il sadico.
Analogamente, Oscar Wilde: “Questa tensione è insopportabile. Speriamo che duri”
Cosa voglio dire? Che la sorpresa è un’arma a doppio taglio. In che senso? Possono essere colpi di scena, sorprese stilistiche, di trama, strutturali e così avanti, ma non devono mancare del tutto, se no la storia che si racconta (in un libro o in un film) è piatta. Ma d’altro canto un eccesso di sorprese rischia di generare un effetto saturazione altrettanto micidiale: SE IO SO che ogni due minuti arrivano colpi di scena e imprevisti, quelli non sono più tali. Ecco perchè tanto cinema pseudo-horror per pubblici pop-cornizzati è nullo: perchè (come diceva Jean Baudrillard riferendosi alla società attuale) “non ha nulla da dire e per nasconderlo “accelera costantemente. Nel vuoto”.

Postato sabato, 10 aprile 2010 alle 12:36 da luciano / idefix


Una piccola nota sull’evoluzione di questa discussione.
Ricopiando post e commenti su un file word (A4, times new roman 12) viene fuori un “tomone” enorme.

Postato sabato, 10 aprile 2010 alle 12:48 da Massimo Maugeri


… Nel vuoto? I buchi, ecco, suscitano generalmente un vago, delizioso timore… E’ come se chiedessero di essere tappati. Tappare i buchi pare essere il compito della sessualità maschile – che, da tempi immemorabili, pare dover fare come fa la Morte – che, appunto, riempie i buchi.
Naturalmente non si sa se è questo che vuole la donna. E se il suo godimento altro abbia come comune misura la “piccola morte” che è nell’orgasmo maschile. Inutile chiederlo a Freud, dal momento che il padre della psicoanalisi, rivolgendosi a un’analista donna, Maria Bonaparte ( peraltro studiosa di vampirismo), in modo sorprendentemente umoristico afferma: ” “la sola domanda senza risposta, a cui io stesso non sono riuscito a rispondere, è: “che cosa vuole la donna?”
Non si sa. Per i maschi, i maschietti e i maschiacci, la donna resta, con le parole di Freud, un “continente nero”. E’ come se, in materia di “sessualità”, di bordi pulsionali, vi fosse una zona cieca e non-detta – all’origine di numerosi meccanismi, variamente consapevoli, d’interdizione, di evitamento e di rimozione.
Oltre allo spettacolo della cosiddetta “sessualità” ( termine sibilante, invenzione pseudo-scientifica e quasi rottura permanente della spina dorsale), c’è un altrove costituito dalla propria carne che fa problema, da una mente che pondera la differenza sessuale e un cuore vivente che batte.
La carne non patinata o lampadata, quella che non fa spettacolo sulla scena Sado/Maso, forse costituisce un problema perché appartiene a creature “tagliate”, per così dire, dal “prima” e dal “dopo” – e che quindi fa le rughe, invecchia, s’impaurisce e, con l’andar del tempo, diventa prudente, cadente, e finalmente cadavere.
Nella mitologia indù, la donna danzante sul cadavere di Shiva è la dea Kali, la sua shakti, la sua energia. A differenza del racconto biblico, in cui la donna è tratta da una costola dell’Adamo addormentato, il vuoto energetico femminile precede il creatore e il maschile. Nelle raffigurazioni dello shiva-linga, il fallo di Shiva si erge a partire dalla yoni della dea. Nella nostra cultura, invece, la donna resta il sogno dell’uomo.
In ogni caso, questo altrove è difficilmente riducibile a gestione ottimale dei bisogni ( “al servizio del cliente”, così come “al servizio dell’utente”, insomma della cosiddetta “gente”).
Nella pulsione sessuale, infatti, c’è un resto di desiderio, di sorpresa e d’imprevisto – costituito da un eccesso, un godimento d’organo ( godimento differente nell’uomo e nella donna), una lacerazione ( anche interiore) che si cercherebbe di rendere indolore tramite espedienti tecnologici ( e talvolta, oggi sempre più spesso, il ricorso alla parola “Amore” – una logomachia dell’”amore” che fa solo orrore, sebbene l’amore resti, come osservava anche zio William Burroughs, “l’anestetico più potente che finora si conosca”).
Nella letteratura dei vampiri la Morte è sempre un morto o una morta. Che, in entrambi casi, condensando amore-sessualità-e-morte, fa due buchi così: affinché la storia continui.
E’ sempre la stessa storia: quello che varia straordinariamente è il modo di raccontarlo. Mordendo in uno strano vuoto: un vuoto come fresca traccia del passaggio di cacciatori ( talvolta civettuole e tremende cacciatrici come Lilith) e prede.

Postato sabato, 10 aprile 2010 alle 14:22 da Gianni De Martino


La sorpresa di cui parlavo si potrebbe meglio chiamare serendipity, Si va in cerca di una cosa e se ne trova un’altra, casualmente, non programmaticamente, che muta completamente il nostro punto di vista. Nello scambio di merce, viene concepito come etico , come equo scambio, la corrispondenza tra desiderio e soddisfacimento. Marx parla invece profeticamente di questo tipo di scambio come prostituzione universale. Marx è dichiaratamente ateo, ma come ha osservato e documentato Romano Madera in alcuni suoi saggi, in lui, nel suo pensiero agiscono indubbi temi sacri provenienti dalla tradizione ebraica. Il Socialismo stesso, come Regno Liberato dal Lavoro, non sarebbe concepibile senza l’idea di Sabbath. E’ lì che si radica. Altrettanto si può dire della sua critica del Denaro come Equivalente Universale. La vulgata corrente , riguardo a Marx, lo interpreta come teorico del meccanicismo (più che del materialismo) storico: la riassunzione del sapere e delle sue modalità operative nelle macchine ci libererà dal lavoro. Ma non c’è nulla di più lontano dal pensiero di Marx che fiorisce invece da uno studio sul clinamen epicureo. Cioè sulla capacità degli atomi di deviare dal proprio corso. E’ in questa capacità di deviazione dal percorso determinato che si installa , non come atto della volontà, ma come possibilità interna alle leggi naturali, della libertà . Questo scostamento dal prevedibile, che ci giunge come inatteso, è dono gratuito. E’ la manna dal cielo. La sorpresa programmata di cui parla Luciano, è solo una simulazione meccanica dell’imprevisto. L’imprevisto di cui qui si parla, come aveva sottolineato Baudelaire persino nella sua traduzione di A Tale-Tale Hart di Poe (il Cuore Rivelatore) , è Rivelazione. Anche Baudelaire era ateo. Mi sorge il sospetto che l’Ateismo sia nella cultura occidentale moderna, l’autentico erede del pensiero religioso. Al confronto la dottrina della Chiesa, delle Chiese, ormai dominata dal Morale e dal Politico, sia compiutamente secolarizzata e in quanto tale la più lontana possibile dall’idea e dallo stesso riconoscimento del ruolo del Sacro nella Storia. Lo stesso Baudrillard cui ci richiama Luciano, è pensatore aperto al sacro, più di quanto lo sia alcun teologo moderno. Le Chiese non hanno alcuna strategia da offrire in merito alla Società dello Spettacolo, cioè al contemporaneo culto dell’idolatrico e del Simulacro come sostanza dell’esistere. Il pensiero laico, invece, fin dall’epoca di Kant, ha sempre richiamato all’enigma della “cosa in sè” che è ben diversa dalla cosa rappresentata, è confine con l’irrappresentabile. Il volto nascosto di Dio.

Postato sabato, 10 aprile 2010 alle 14:33 da Gianfranco Manfredi


Ehm… in quale altro forum si passerebbe così disinvoltamente e naturalmente dal porno a Dio? Eppure non è un caso perché è in questo crocicchio che si installa (anche) la figura del Vampiro. Mordendo il vuoto qualcosa di nutriente resta.

Postato sabato, 10 aprile 2010 alle 14:42 da Gianfranco Manfredi


Dicevo che non mi piacciono gli aforismi, ma gli aforismi vampirici sono quanto mai seducenti. Ne ricordo due celebri: “C’è qualcosa di più spaventoso della Morte” (dice il Dracula di Stoker) . “Anche la Morte può Morire,” recita un altro di cui ora non ricordo l’origine, ma l’avevo piazzato nel mio Magia Rossa, dove avevo sistemato anche queste altre citazioni :
“Scoperchierai le bare come ultima carta. E se son vivi loro, allora tu sei morto” (T.S.Eliot) ; “Tutte le creature che erano state respinte, nelle remote pieghe dell’anima si affacceranno.” (D.H.Lawrence) ; “Quando la folla oggi muta, come l’Oceano muggirà, e sarà pronta a morire, la Comune risorgerà. Noi torneremo folla senza numero, verremo da tutte le strade, spettri vendicatori che escono dall’ombra, verremo tenendoci per mano. La morte porterà la bandiera; il nero drappo velato di sangue; e fiorirà di porpora la terra, libera sotto il cielo fiammeggiante.” (Louise Michel). Quanto sacro nel pensiero ateo!

Postato sabato, 10 aprile 2010 alle 14:57 da Gianfranco Manfredi


A proposito di serendipity, del conflitto tra Maschile e Femminile di cui la Sessualità è teatro, degli evitamenti, interdizioni e rimozioni in merito alla sessualità, quasi in risposta, sia pure indiretta, alla domanda ““che cosa vuole la donna?”, mi giungono nella posta di oggi alcune osservazioni di Ugo Volli, che – tratte dal sito Informazione Corretta – riporto qui di seguito:

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“Cari amici,
un lettore ci ha giustamente rimproverato di non aver dato sufficiente rilievo alla storia di Ilham Mahdi Shui al-Asi. E’ vero, ma IC rispecchia la stampa italiana ed è essa, anzi tutta la stampa occidentale, a non averne parlato abbastanza. E’ un fatto significativo, che va messo in rilievo; ma la forma del nostro sito aiuta a parlare di quel che c’è, delle tendenziosità e inesattezze sul Medio Oriente manifestate dalla stampa negli articoli che pubblica piuttosto che di quelle implicite nei suoi silenzi. Le cartoline però sono più libere da questo vincolo e oggi cercherò di rimediare.
Ilham Mahdi Shui al-Asi è una bambina yemenita di tredici anni; anzi lo era, perché è morta qualche giorno fa «per lesioni gravissime all’apparato genitale, che hanno portato ad emorragie fatali» come recita il comunicato medico (http://www.corriere.it/esteri/10_aprile_08/bimba_sposa_morta_matrimonio_f1f7ab7c-4315-11df-ad88-00144f02aabe.shtml). In sostanza è stata violentata a morte. Da banditi di passaggio, che non mancano da quelle parti? Rapitori, terroristi, drogati, comunque criminali? No, dal suo legittimo sposo, tre giorni dopo le nozze. “Per i medici, Ilham Mahdi Shui al-Asi, è questo il nome della piccola, non era ancora pronta per il matrimonio e la violenza sessuale subita dal marito l’ha portata alla morte.”
Fatalità? No, barbarie. L’ennesima vittima della schiavitù delle donne imposta dall’Islam. Quando qualche mese fa circolò largamente la foto delle spose bambine di Gaza, l’abbiamo pubblicata raccontando anche su IC che è permesso agli islamici sposare delle bambine di 8 anni come fece il profeta, e meritorio però attendere gli 11 per consumare. Qualcuno replicò che no, l’età a cui si sposano le bambine è “ben” tredici anni. Infatti.” ( Ugo Volli, da I.C. 10 Aprile 20010).

*
Quanto al pensiero ateo a cui accenna Gianfranco, è vero, c’è molto di sacro. Si tratterebbe, con un ossimoro, di ateismo religioso. L’ateismo religioso ideologizzato, politico, sembra assumere una caratteristica forma di nichilismo attivo ( ben descritto da Dostojevskij, specialmente nei “Demoni”, poi da Camus ).
Grosso modo, si rinuncia a credere in quella presunta illusione che si chiama Dio e si cade vittime di entità astratte come la Felicità del Popolo ( Robespierre), il Proletariato ( Lenin, Stalin, Che Guevara, Pol Pot), insomma vittime di “un misto di illusioni” ( l’espressione è di Freud, in “Avvenire di un’illusione) che fanno scorrere molto sangue fra masse immense e senza numero.
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Anche la nostra generazione, credendosi la generazione più civilizzata del pianeta, avrebbe voluto , tra molta arroganza e sacchi a pelo, mettere fine alla guerra, all’ingiustizia e alla miseria, per poi ritrovarsi a rifluire ( come si disse con metafora mestruale) nel famoso imbuto del privato. Magari in un angolo a scrivere e a confrontarsi con un inconscio che dicevamo rizomatico e desiderante, e che invece si rivelava meschino e polipesco – sempre più italiano, medio-italiano.
Fino a dover fare oggi i conti con fatti ingiusti e orribili come quello riportato più sopra ed altri dello stesso genere che si susseguono.
E’ come se, per usare un’espressione shakespeariana ( però non siamo a teatro) il tempo fosse uscito fuori dai cardini ( Time out of joint).
Ecco, volevamo rinunciare ai demoni del Novecento ( Stocker, Pascoli, Henry James, Dostojevskji, ecc.), e abbiamo corso il rischio di affligere il mondo con una pletora di angeli new age e nugoli di vampiri adolescenti alla Twilight – ultracorpi glicerati imbranati e con un piccolo pisello ( “lavati dall’afrore del sangue”, osserva Simonetta Santalucia).
Insomma, quale letteratura potrà compensare l’orrore del risveglio dei fondamentalismi religiosi musulmani, evangelici, induisti, oltre ground zero nel corso di questa strana guerra mondiale asimmetrica, nell’epoca del crollo di tanti muri e del conseguente regime dello “squilibrio del terrore” in Oriente e in Occidente ?
Domande che dovrebbero inquietare la classe letterata europea, medio-europea, che forse per noia o per sazietà, sembra così affascinata prima dalle “bandiere di Troskij al vento” ( come aveva creduto di vedere Pasolini) e oggi dalla barbarie incombente. Finendo , chissà perché, con l’innamorarsi – mordendo il vuoto – sempre del vampiro sbagliato. :-)

Postato sabato, 10 aprile 2010 alle 20:04 da Gianni De Martino


@ Gianni. Sante parole. D’altro canto tra i saccapeli girava anche Manson, dunque nulla di nuovo sotto il sole. Bisognerebbe sempre tener presente, come diceva Carmelo Bene, che un attore (storico in questo caso) è anche agito. Se invece continuiamo a ripeterci la solita solfa “La Storia siamo noi” (sorprendente tantopiù in gente che si considera almeno in parte o per eredità, marxista) ci illudiamo punto e basta. Noi siamo la Storia tanto quanto siamo la Geografia.

Postato sabato, 10 aprile 2010 alle 20:26 da Gianfranco Manfredi


@ Gianfranco. Grazie per le sante parole. E’ come se avessimo piantato tanti fiori per poi veder crescere tanti splendidi carciofoni. :-)

Oppure come se avessimo oltrepassato ogni limite e non potessimo più tornare indietro.
Come diceva quel poeta? “Il mio spazio è l’oltrespazio, il mio suono l’ultrasuono”. Sembra giocoforza, in una tale situazione, attraversare il nichilismo e mordere il vuoto per creare, con l’aiuto di Dio ( non di un Dio Onnipotente, ma di un Dio anch’esso ferito, come miriadi di creature ferite) qualcosa di nuovo.
*
@ Massimo. Antenne ruotanti in molteplici direzioni dibattono sulla letteratura dei vampiri. Il testo collettivo si produce per andamento a spirale, fino a diventare un “tomone” enorme – una specie di megagalassia con non poche assonanze e significativi punti di fuga.
Il “tomone” – questa specie di tumore o di fiore carnivoro – forse si potrebbe giovare di un editing che lo snellisca un po’, suddividendo il testo per aree tematiche – molti temi infatti ritornano , ripassando per gli stessi punti per esplicitare e sviluppare un’intuizione iniziale. ( Oltre ai testi teorici vi si trova qualche testo narrativo, che forse potrebbe andare in appendice). Ne viene fuori un’idea imprevedibilmente complessa e alta della letteratura vampirica.

Postato sabato, 10 aprile 2010 alle 21:35 da Gianni De Martino


A proposito di Charles Manson, ho appena finito di scrivere un racconto horror (che farà parte di un romanzo collettivo a dodici o quattordici mani). Il mio testo è la “cornice” e i “miei” protagonisti sono appunto Charles Manson e soprattutto il geniale (e squilibrato) produttore pop Phil Spector. Due diverse follie a confronto, con il catalizzatore del carcere in cui sono rinchiusi entrambi, della musica, dell’agopuntura, del Natale, del Libro di Giobbe, dell’emicrania. L’io narrante è Phil Spector.
ALTRA QUESTIONE: da credente, la Bibbia è un testo a cui mi abbevero sempre. E ci scopro continuamente cose nuove e nutrienti. Che cerco di diffondere. Perchè l’antropologia ebraico-cristiana è profondamente realistica, ci racconta la vita così com’è e ci aiuta a evitare errori individuali e collettivi.
Esempi: il plebiscito in favore di Barabba contro Gesù ci avvisa che le maggioranze NON hanno automaticamente ragione, il Vangelo di Giovanni racconta che Giuda (già prima di tradire Gesù per trenta denari) teneva la “cassa” del gruppetto degli apostoli e ci faceva la cresta perchè era un ladro, l’apostolo più importante (Pietro) nella notte dell’arresto di Gesù si spaventa e rinnega tre volte il suo nome, sulla croce Gesù invoca “papà” (“abbà”) perchè vorrebbe che tutto quel dolore atroce finisse, il primo sangue sulla Terra scorre perchè un fratello ammazza un altro fratello, nell’Ecclesiaste ci sono le domande che tutti ci facciamo (o che sfuggiamo), nell’episodio di Sodoma Abramo contratta con Dio come al mercato orientale per salvare la città, il Cantico dei cantici è cristallino eros…
Questa bibliotecona (Biblia) ci dice: ATTENTI!, datevi da fare in QUESTA vita, QUI e ORA, solidali con vostro prossimo e qualcosa di buono otterrete. Ma se pretendete di creare il Paradiso in Terra, farete disastri spaventosi.
Forse l’horror è come le zanzare: serve a ricordarci che la notte ha le sue insidie. E la zanzara tigre ci rammenta che le ha anche il giorno.

Postato sabato, 10 aprile 2010 alle 21:55 da luciano / idefix


Caro Luciano, considero anch’io la Bibbia come un testo fondante, oltre che come un repertorio di storie che anche un non credente dovrebbe conoscere. In America non ci sarebbe bisogno di dirla questa cosa, da noi sì, perché non dico la gente comune, ma neppure illustrissimi intellettuali hanno letto la Bibbia. Detto questo, quando si parla di cultura ebraico-cristiana (termine in uso da parte di tutti i ricercatori) si ha però l’impressione di pronunciare un assimoro. Le rivendicazioni cattoliche rispetto all’Europa di riconoscere le “radici cristiane” sono piuttosto significative. Non si chiede affatto di riconoscere le radici ebraico-cristiane. I due termini storicamente, per secoli, sono stati considerati oppositivi nella cultura europea. Dunque il parlare di ebraico-cristiano è spesso mera copertura , perché l’accento cade su “cristiano”. La nostra lettura della Bibbia, di questo risente. Per un cristiano è un unico testo, diviso in Parte I e Parte II (Antico testamento/Nuovo testamento). Per i cattolici in particolare, la Sacra Scrittura è soprattutto Vangelo ( dunque nemmeno tutto il Nuovo Testamento). In realtà si tratta di due libri distinti, perchè la cultura ebraica non si considera il Nuovo testamento, né come parte, né come sviluppo della Thorà. Noi lettori cristiani o influenzati dal cristianesimo, e in questo i protestanti non sono diversi, leggiamo l’Antico Testamento come annuncio del Nuovo (vedi la lettura che si fa dei profeti) . Abbiamo costruito un libro globale che dal principio (La Genesi) conduce a un gran finale (Il Libro della Rivelazione o Apocalisse). Cioè abbiamo presunto di considerare l’ebraismo come una premessa risolta nel cristianesimo, il che oltre che storicamente sbagliato è non poco invasivo. Cosa succederebbe se qualcuno si mettesse a scrivere un Canone Buddista o un Corano Parte II? Sarebbe lecito considerare il testo sacro originale come mera premessa o preparazione?
Dunque nell’espressione ebraico-cristiano assegniamo istintivamente prima che consapevolmente un ruolo minore al termine ebraico. Non è certo così per i biblisti che considerano i Libri in sé e l’indagine dei termini e dei simboli in riferimento al loro significato ebraico, ma nei fedeli , questo scrupolo e questa consapevolezza sono assenti. Prendiamo la più corrente traduzione della Bibbia tra i protestanti italiani, il Diodati. Cosa rappresentano quelle note e richiami incrociati che da un passo dell’Antico rinviano a uno del Nuovo ( e viceversa) , se non un suggerimento di lettura e di interpretazione che si sovrappone al testo come metatesto? Come si può sostenere da un punto di vista storico-critico che un certo passo dell’Antico rimandi necessariamente a uno del Nuovo? Ecco perché bisognerebbe leggere la Bibbia anzitutto come libro, piuttosto che come Libro sacro. E aver presente che quel trattino tra ebraico e cristiano, è rappresentazione di una cesura, non di una continuità.

Postato domenica, 11 aprile 2010 alle 09:36 da Gianfranco Manfredi


Un’interessante quanto approfondita lettura della Genesi, con minuta spiegazione del senso dei termini nella cultura ebraica, è il saggio di Carlo Enzo, Adamo dove sei? (Il Saggiatore). Nel retro di copertina si scrive: “In un corpo a corpo con il Libro e nel segno dell’assoluta letterarità, Carlo Enzo ci accompagna lungo un percorso che prova ad avvicinare il loro senso originario, oscurato e trascurato da quanti vi hanno trovato il fondamento della fede.” Quando nel testo si spiega (cosa risaputa dai biblisti) che con Adamo (che in realtà dovrebbe indicare gli Adami) si intende l’uomo chiamato ad essere altro da sè , cioè l’eletto, l’uomo chiamato a una scelta di fedeltà (a Dio o al Serpente) in ragione della quale “diventa” il giusto che “vive anche se morto e muore anche se vivo” , si dà una definizione che molto ha a che vedere simbolicamente con il nostro tema “vampirico”. La Genesi non parla affatto dell’origine dell’uomo biologico, ma dell’uomo “immagine di Dio”. Siamo consapevoli di questo? No. Per noi Adamo è il primo uomo. Eva rappresenta il popolo d’Israele. Siamo consapevoli di questo? No. Ci sembra anzi spiazzante. In altre parole quel libro e quella storia che presumiamo di conoscere a menadito, la travisiamo totalmente. Non è più, la nostra, una lettura interpretazione di un testo, ma una lettura del tutto oscurata (anziché illuminata) dalla fede. Questo ci dice qualcosa (riguardo ad esempio ai fondamentalismi cui si è riferito Gianni): la fede inganna, non rivela.

Postato domenica, 11 aprile 2010 alle 09:56 da Gianfranco Manfredi


A proposito di idolatria e di mancanza assoluta di strategia delle Chiese nei confronti della Società dello Spettacolo, si legge oggi sui giornali, dell’ostensione della Sacra Sindone al popolo e ai vip. Domande al volo ai fedeli raccolti, sul dilemma: è vera o è falsa? Risponde un maestro in pensione: “Ci credo al 101% “. La fede cieca misurata in percentuale. Due fidanzati di Roma: “Siamo curiosi, vogliamo trovarci lì davanti e decidere.” Toccare per credere. Disperante, davvero.

Postato domenica, 11 aprile 2010 alle 11:58 da Gianfranco Manfredi


Scusate, non c’entra un beneamato, ma dato che è domenica, prendetele per delle meditazioni. Leggo pubblicità del romanzo di Paolo Sorrentino, cineasta che considero il più grande in circolazione in Italia. Lo slogan recita: “Vuoi essere l’unico a non conoscere Tony Pagoda?” . Bravi, complimenti davvero! Mi auguro che Sorrentino si ribelli a questa ignominia. E’ dunque obbligatorio, pena l’emarginazione assoluta, conoscere Tony Pagoda? Può darsi ci sia qualche senso riposto a me non trasparente. Il titolo del romanzo (Hanno tutti ragione) pare corrosivo. Lo slogan è ironico? Tanto ci sarebbe da dire su certa presunta ironia pubblicitaria. Eppure un messaggio pubblicitario, in quando propagandistico, dovrebbe essere inequivocabile. Ma se lo si prende per buono, per quel che dice, cosa c’entra questo messaggio con la poetica di Sorrentino? Ecco un esempio laico di letture propagandistiche il cui effetto non è promuovere un messaggio bensì alterarlo fino a sfigurarlo. Sorrentino elevato a rappresentante dell’omologazione. Disperante, davvero.

Postato domenica, 11 aprile 2010 alle 12:26 da Gianfranco Manfredi


A proposito di omologazione, consiglio di leggere l’articolo di Eli Gottlieb pubblicato oggi nel supplemento culturale del Sole 24 ore (il miglior supplemento culturale in circolazione, a mio modesto avviso). Titolo: “Tutti a scuola di omologazione”. Tratta dei corsi di scrittura creativa. Creativa, cioè omologata. Esempio perfetto di conversione di un termine nel suo contrario. Ironia non ironica della merce, che Marx paragonava a un tavolino da seduta spiritica con le gambe all’aria.

Postato domenica, 11 aprile 2010 alle 12:52 da Gianfranco Manfredi


Quanti argomenti!
E’ come quei menu in cui c’è tanta di quella super-scelta che resto paralizzato e poi finisce che opto per una semplice insalatona.
Butto sul tavolo della discussione alcune piccole cose alla rinfusa.
1) Il mio pastore valdese anziano qui a Trieste (il toscanaccio Enos Mannelli) dice spesso: “Il signore ci dia la fede ma ci scampi e liberi dalle religioni”.
2) A me il romanzo di Sorrentino è piaciuto assai (sul mio blog ho fatto una specie di diario, durato alcuni giorni, della sua lettura). Trovo però orribile questa pubblicità così omologante, così terroristica, così da “cervelli e gusti all’ammasso”. Se non l’avessi già comprato (il primo giorno della sua uscita) e già letto, adesso che sta diventando di moda, me ne guarderei bene dall’acquistarlo.
Le mode non si seguono: si anticipano, si ignorano, si combattono o si resuscitano tanto tanto tempo dopo.
3) I corsi di scrittura creativa (qualche volta li ho tenuti anch’io) possono servire solo a:
A) dar qualche soldo ai docenti,
B) raccontare con esempi pratici come uno o più autori affrontano e provano a risolvere i LORO problemi di scrittura,
C) vedere in concreto come una pagina può essere arricchita,
D) insegnare alcuni trucchi del mestiere,
E) comunicare l’entusiasmo del docente per la lettura e la scrittura,
F) dire qualcosa sulla realtà vera dell’editoria,
G) indicare alcuni grandi maestri dell’arte e dell’artigianato della narrazione.
Direi che se un corso di scrittura creativa riesce a far questo con onestà non ha venduto fumo (produrre scritture tutte uguali e creare illusioni) ) ma ha fatto il suo.

Postato domenica, 11 aprile 2010 alle 17:21 da luciano / idefix


Hai ragione sui corsi. C’è magari un elemento in più, anzi due. Il primo è quello di affrontare i problemi della scrittura insieme ad altri e nel confronto con altri nelle nostre stesse condizioni di partenza. Il secondo è affrontare il come, cioè un apprendistato tecnico. A patto di intendersi su cosa significa tecnica. La tecnica e lo sviluppo di tecnica, richiede altrettanta creatività della scrittura in sé. Invece, anche nel dibattito sui corsi, spesso si tende a contrapporre la vecchia “ispirazione” (mito romantico) alla tecnica intesa come ambito fisso e praticamente eterno di regole compositive. Non è così. La tecnica la si affina perché possa corrispondere all’intento espressivo. Dunque la tecnica non è fine a se stessa, è strumento per raggiungere certi risultati. E questo strumento va tarato e affinato rispetto al fine. Accade invece spesso, nelle scuole di scrittura, in specie quelle americane, come lamenta Gottlieb, che la tecnica diventi format cui adeguare l’ispirazione creativa. E nell’elaborazione di questa tecnica entrano parametri di tipo economico estranei alla scrittura in sè. Per esempio se un editor ti spiega che alla terza parola difficile, o alla terza frase strutturalmente complessa, indipendentemente dal risultato estetico che ti prefiggi, ottieni quello economico di perderti un tot per cento di lettori, allora quell’editor ti distrugge come scrittore. I parametri di “come si scrive” di molte scuole di scrittura, se applicati alla grande letteratura, dimostrano paradossalmente che un capolavoro non rientra affatto in questi parametri, e dunque non va pubblicato, neppure scritto. Questo genere di insegnamento si è già rivelato nefasto per il cinema (in cui comunque l’aspetto di bottega economica e quello tecnico relativo al format sono più rilevanti che in romanzo) , ed è addirittura micidiale in letteratura. Escono ormai in America romanzi certificati e garantiti dalle Scuole di Lettura nate in ambito universitario, che predispongono contatti con agenti e con il mondo editoriale . Chi esce da lì con un Diploma è favorito sul mercato. Lo scrittore solitario, lontano dai flussi (che è stato sempre il prototipo dello scrittore americano… Poe, Twain ecc.) , parte dunque svantaggiato nelle sue possibilità di pubblicazione. Al contrario vengono pubblicati una quantità di compiti scolastici, corretti quanto di modesto risultato espressivo, predestinati al macero della memoria, che è qualcosa di molto più grave del macero industriale. Di queste pubblicazioni giudicate “corrette” non resta nulla, tranne poche isolate eccezioni, già a pochi mesi dalla pubblicazione, e gli autori sembrano tutti uguali, prodotti con lo stampino. Chiudo la parentesi perché questo indubbiamente non c’entra con il tema vampirico, per quanto dobbiamo purtroppo attenderci nei prossimi anni, un’ondata di prodotti imitativi della Meyer e studiati per quel tipo di target. Nel campo della narrativa horror (per quanto una narrativa fondata sulle emozioni primarie richieda sicuramente un apprendimento tecnico) la storia degli ultimi trent’anni dimostra che nessuno scrittore horror di rilievo è uscito dalle Scuole di Scrittura. La visione delirante richiede uno sviluppo di tecnica che deve sempre confrontarsi con il suo obiettivo e che non può essere ripetuto come standard, pena la fine del genere. Mi ha detto la Yarbro in un colloquio che abbiamo avuto in proposito: quando una testa esplode, il lettore sobbalza, ma quell’ oooh alla seconda testa che salta, non si ripete più e alla terza diventa insopportabile. Questo fatto di base continua, nonostante tutto, a preservare l’horror (genere deviante per eccellenza) dall’omologazione. Il che non significa che non esista l’horror omologato. Lo si nota nei film dove il Mostro assassino uccide uno alla volta tutti i membri di una comitiva, soggetto più diffuso e ripetuto da trent’anni a questa parte. C’è un momento in cui tanti scrittori che scrivono la stessa cosa, sulla base della stessa impostazione, hanno egualmente un ruolo creativo: mostrano quante varianti si possono mettere in campo, quanti sviluppi possibili si possono dare della stessa cosa, però poi se arriva uno che ti fissa una graduatoria del successo commerciale la quale prescrive che tra tutte queste varianti, soltanto una o due sono vincenti, ecco che il momento omologante porta alla fine dello stesso modulo tecnico consigliato. Troppi prodotti tutti uguali fanno crollare quel tipo di prodotto in sé, per sovrapproduzione e per saturazione. Non se ne può più. Segue una fase Ground Zero in cui ci si trova a dover ripartire da capo, ma queste ripartenze sono sempre frutto di un lavoro originale, creativo nel vero senso della parola, che va a ridefinire non solo i contenuti, ma la tecnica stessa più adatta ad esprimerli, e spesso per farlo rimedita il classico. Tutta la nuova narrativa horror degli anni 80 è ricchissima di riletture dell’horror classico e persino di quello pre-genere. Per un vampiro, mi ha detto la Yarbro, la morte è una condizione , il punto è risorgere. Nel mito del Vampiro che rinasce c’è una straordinaria capacità plastica, che è quella di sapersi adattare , ad ogni nuova rinascita, ai nuovi tempi, aderendo come un guanto al nuovo, pur portandosi dietro un’esistenza secolare.

Postato domenica, 11 aprile 2010 alle 18:20 da Gianfranco Manfredi


Piccola appendice e poi chiudo. Altrettanto devastante delle scuole di programmazione della scrittura, è però il perdurante mito del Genio e in particolare quello del Genio frettoloso che suppone che la prima scrittura di getto sia già esaustiva in quanto più vicina all’Atto Creativo. Questa svalutazione della tecnica e della ricerca stilistica che conduce semplicemente alla scrittura sciatta. Uno scrittore che non lotti con le parole finché non riesce ad esprimere nel modo più efficace cioè che sente, non è uno scrittore.

Postato domenica, 11 aprile 2010 alle 18:29 da Gianfranco Manfredi


Tra i refusi dei post precedenti, c’è Scuola di Lettura, al posto di Scuole di scrittura. E’ significativo, perché come ho già detto è la cosa che mi auguro e che sta già cominciando ad avvenire. E anche qui, si parte dal Cinema. Stanno nascendo anche in Italia Scuole in cui si insegna a guardare un film, a smontarlo, a indagarne struttura e percorsi, ricorrenze e devianze. Una Scuola di Lettura è pre-condizione delle Scuole di Scrittura. Se non si impara a leggere, non si impara a scrivere. Si può imparare una lingua straniera senza ascoltarla, senza full immersion? No. Non bene, almeno. Dunque lo stesso criterio andrebbe applicato alle Scuole di Scrittura. Una volta, Renato Pozzetto dichiarò: “io non guardo i film, li faccio.” C’è davvero da vantarsi? A giudicare dalla filmografia direi di no. Quello che vale per gli attori (chi frequenta una Scuola di Teatro, DEVE andarci a Teatro) dovrebbe valere per tutti. Con la presunzione del “mi viene naturale”, “non ho bisogno di imparare dagli altri” , o con il meno presuntuoso “faccio quello che posso onestamente”, “degli altri non mi curo” , “prendetemi così come sono o rifiutatemi in blocco” , non si va proprio da nessuna parte.

Postato domenica, 11 aprile 2010 alle 18:42 da Gianfranco Manfredi


Condivido.
Quando vado nelle scuole a fare incontri sulla lettura e la scrittura, spesso gli insegnanti (non i ragazzi ma gli insegnanti) si aspettano sempre risposte univoche a domande tipo “come si fa a…?”.
Io cerco di raccontargli che 2+2 in aritmetica fa 4, ma in narrativa può certamente fare 4, ma anche 22 oppure 5 o 7 o addirittura 62 e perfino “polenta stracotta”.
E che obbligare la creatività a incanalarsi in corsie prefissate come il traffico automobilistico è delittuoso, perchè significa assassinare le idee già nella culla.
Piace il Vampiro? E’ un business commerciale? E’ un affare? Beh, cerchiamo almeno di reinventarlo un pochettino, di divertirci (o spaventarci) a trovare qualcosa di insolito, un briciolino di guizzo inventivo. Un vampiro che invece del sangue succhia…che ne so…il midollo osseo. O un vampiro assetato di lacrime.
O il Vampiro bizzarrisimo (purtroppo già descritto da Philip Josè Farmer nel dittico porno-horror pubblicato dalla Olimpia Press tanti anni fa, NELLE ROVINE DELLA MENTE e…accidenti come si chiama l’altro?…ah sì: L’IMMAGINE DELLA BESTIA).
Ma forse sui vampiri ha ragione Neil Gaiman: ci vorrebbe una moratoria di vent’anni, proibirli per un paio di generazioni. Solo così potrebbero ritornare con la loro carica sinistra. Se no, verranno mitridatizzati dal sentimentalismo dolciastro di roba alla Twilight e stinti dal troppo uso.
A furia di vedere film sui vampiri e di leggere romanzi su Dracula & C, si diventarà come quelli che vivono vicini all’autostrada: dopo un po’ non sentono più il frastuono del traffico.

Postato domenica, 11 aprile 2010 alle 18:45 da luciano / idefix


Qualche annotazione intitolata:
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NOTE SUL VAMPIRO LETTERALISTA

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@ Gianfranco. Mi pare che ogni lettura sia in qualche modo un “travisamento”, generalmente involontario e talvolta creativo (“creativo”, vale a dire anche con qualche elemento patologico o distorto), del senso delle parole.
Il travisamento delle parole nel corso della lettura accade generalmente in forza di qualche caro nome, cioè del gioco degli affetti, delle passioni e delle abitudini del lettore, oltre che in forza del gioco delle metafore, delle metonimie, ecc.
Dal lato dello scrivere, per quanto ci si curi di essere veraci e di descrivere il più accuratamente possibile la realtà, sfuggirà sempre qualche particolare e la verità non si darà mai per intero. Questo resto d’ombra che accomuna scrittore e lettore ( in fondo sono la stessa persona), questo sfondo di oscurità sul quale brillano le idee e le parole più chiare ossessiona molto i temperamenti di tipo gnostico – cioè quelle persone che immaginano l’esistenza di poteri occulti i quali di proposito nasconderebbero la verità. Per cui, come per esempio nel romanzone di Dan Brown “Angeli e demoni” ed altri dello stesso genere esoterico-paranoico-complottista, una volta trovato il dettaglio occultato la verità apparirà in tutta evidenza e il Potere, aggiungerebbe Umberto Eco, la smetterebbe di mettercela nel sedere.
E’ questo che credono peraltro anche i protagonisti di “Matrix”, un intero popolo di povere vittime del vittimismo organizzato da superpoteri alieni, i complotti dei ricconi, di intelligenze nere e mefistofeliche, assetate di sangue, di potere, di ricchezza, di petrolio, ecc.
E’ vero che la verità ( ovvero la descrizione la più accurata possibile della realtà) non si dà mai di un sol colpo, ma per così dire, “a rate”, in quanto affiora attraverso prove, riscontri ed errori da rettificare, però morire per dei dettagli come fa lo gnostico mi sembra un’esagerazione.
Dico questo anche perché, pur avendo molta simpatia per il buddhismo mahayana di tradizione vajrayana, sono, come tanti, se mi è permesso un riferimento personale, di formazione cattolica – educato cioè a pensare, immaginare, sentire e credere “secondo l’intero”.
Se vedo cioè una cosa ci credo perché la vedo, come se il “medium” fosse il “messaggio”.
In tal senso, nel senso non confessionale dell’aggettivo “cattolico” ( katà hòlou, secondo l’intero), credo che ogni uomo o donna sia, nella sua integrità, una persona a immagine e gloria di Dio, e che se vado a mangiare in un ristorante di fiducia il cuoco non mi avvelenerà.
Nel ristorante di fiducia potrebbe naturalmente anche accadere di peggio, le cose più terribili e impreviste, tuttavia non riesco a essere abbastanza pazzo da credere di essermi creato da me – come l’hidalgo don Chisciotte – e di avere il controllo di tutto e di tutti ( solo quando scrivo mi permetto la follia di vivere nell’intervallo del tempo degli altri, come isolato in un faro, nella presunzione, necessaria, di poterne orientare le vite e metterli in qualche modo al riparo – quando invece, in realtà, non sono capace nemmeno di orientare e di salvare me stesso…Lo dico acquattato dietro una scrivania… se adesso qualcuno entrasse nella stanza mi sorprenderebbe con una faccia ambigua, l’aria di uno che sta premeditando un crimine… – ridursi a essere uno scrittore, un “talvone”, un animale da tavolo, beh, mi fa vergognare, perlomeno un po’ – e non so perchè…).
Tuttavia, provo a orientarmi, nonostante il buio, anzi proprio perchè non mi piace il buio.
Questa strana forma di fiducia forse deriva dalla relazione che si è avuta con i genitori fin dalla prima infanzia. Mia madre cantava, mio padre dettava e se mi lanciavo nelle sue braccia ero sicuro che mi avrebbe sorretto, non mi avrebbe fatto cadere o fatto addirittura lo sgambetto. Ognuno ha la sua infanzia, la sua fatalità.
Questa fiducia per così dire primordiale che debbo quindi ai (miei) morti.
La fiducia è in gioco nella credenza e si trova anche nella fede – che non è un sapere, anzi è un non-sapere che sperando contro ogni speranza prende come base per la propria sicurezza l’intera realtà visibile e invisibile. Cioè quello che per convenzione linguistica chiamiamo Dio – un incommensurabile, un infinito presente realmente in ogni limite.
” Il Dio visibile”, come scriveva un nostro autore da sacco a pelo, zio Alan Watts, nel suo saggio su cristianesimo e misticismo, rivendicando con i tipici accenti controculturali degli anni Sessanta l’estrema attualità del cristianesimo e di un Dio che non è l’Essere dei filosofi, ma il Dio del “rovento ardente” udito e visto dai nostri Padri nel deserto.
Questi Padri erano ebrei e, con il cristianesimo, il Dio del monoteismo del deserto, un monoteismo dai tratti violenti, gelosi del suo popolo e astratti si è trasformato, fino a darsi come “non-sostanza”.
Il cielo scende, per così dire, sulla terra, e s’incarna. L’abisso delle qualità che separavano il divino dall’umano è scavalcato dalla divina follia dell’Amore.
La novità dello spirito portato dal cristianesimo consiste nella trasformazione del Sacro arcaico, non senza un resto di terribilità, in un Dio che, a certe condizioni, può essere chiamato non più “Padrone” ma “Amico”. Dio si rivela così nella “relazione” di Padre, Figlio e Spirito ( o anche Cielo, Mondo, Uomo) nel seno dell’affettuosa santissima Trinità.
Oltre il Dio della Legge, quasi a completare la Legge, specialmente con Paolo si è diffusa la novità dello spirito, e il reale di quel mondo è diventato più largo. Non perfetto, ma più largo e abitabile, come se fosse stata data una tregua al terrore naturale.
Il cristianesimo non è una religione del Libro, forse non è neanche una “religione” nel senso latino del termine “religio”: è un “incontro” – come dicono oggi anche alcune ex-attrici con il culo ancora fresco di calendario – “un incontro con Gesù” – cioè con lo Spirito, la Grazia, una dimensione ipornormale, sovrannaturale. E questo nel senso in cui anche Heidegger osservava: ” Solo un Dio ci può salvare”.
Tempo ( Storia) e Spazio ( Geografia) non sono una risposta. La speranza vive in un “cuore” – come direbbero i poeti. E si fa strada nel silenzio e nell’invisibile. Qui ognuno, ognuna, è solo davanti a quella porta davanti alla quale, con le parole di Goethe, “ciascuno passa furtivamente”.
Anche perché non si chi e che COSA potrebbe bussare a quella porta. Occorre essere intrepidi, diventare più accoglienti e meno paurosi, senza per questo diventare temerari ( nell’invisibile permane un resto di tenebra, anche Satana è molto spirituale).
Naturalmente Gesù era ebreo e il cristianesimo nasce, in parte, dal giudaismo ( un po’ come la novità del buddhadharma o buddismo nasce dall’induismo), ma quello che rende cristiani è il Cristo. Gesù è certamente il Cristo, ma il Cristo non è solo Gesù: il Figlio di Dio è ovunque vi sia un raro gesto di compassione ( cum-patere, patire e passare insieme), un gesto raro e vivificante come qualsiasi altro raro gesto d’intelligenza, di poesia o di pietà.
Insomma, non occorre confessarsi cristiani o cristianisti per convincerci che siamo nel mondo ma non “del” mondo o “della” nostra realtà ufficiale, e che dobbiamo amarci l’un l’altro e morire.
Amarci “come se” fossimo fratelli e sorelle. L’alternativa a questo “come se” sarebbe la barbarie, la sempiterna e sanguinosa guerra incestuosa di tutti contro tutti, in un clima di vera e propria “disperazione di massa”.
La fede è grazia, dono che non rivela nulla ( nihil videbit, osserva Maestro Eckart forse forzando un po’ il testo di san Paolo), tuttavia è una specie di senso come il tatto, la vista, l’udito, il gusto, l’olfatto. Non tutto passa per il linguaggio. E nessuna religione, benché per me quella cattolica sia la più evoluta ( da un punto di vista antropologico e, aggiungerei, vampirologico) ha il monopolio della verità.
Cos’è la verità ? Silenzio. Anzi, un suono più intenso del silenzio. Con questo voglio dire che la scrittura, l’atto dello scrivere non concerne che un certo strato di eventi che si producono nel campo spirituale e fisico. “Quello che ci occupa al più profondo di noi stessi sfugge alla comunicazione, e direi quasi alla percezione” ( Junger). Purtroppo abbiamo perso, insieme al senso dell’olfatto, il senso della fede.
Dico “purtroppo” perché nel tentativo di rendere tutto misurabile e di abolire l’inconscio, rischiamo che la parola si perda tra di noi.
La parola priva di veracità diventa incerta tra bio e Dio. Confondendo “cristo” e “clistère” tra divertimento e “creatività”, salutismo e spiritualità, ci si può ridurre a una specie di feto allucinato nel mare del linguaggio – come se alla fine della catena del significante vi fosse il nulla, un buco nero. Il Vampiro è questo buco nero, l’ombra distorta della possibilità di uno spazio di non-morte.
Allorché i raggi mistici sembreranno nient’altro che “modeste anticipazioni dei raggi tecnologici” ( come temeva Adorno), perderemo la memoria e saremo sedotti dal sex appeal spettrale dell’inorganico, dall’egoismo del piacere e mondi immaginari abitati da creature fredde e snasate, angeli senza culo e vampiri con canini da latte, quasi androidi dallo sguardo vitreo e dal cuore di silicio. Perché mai il mondo non dovrebbe trasformarsi in un mondo di auto(no)mi e di Titani ?
D’altra parte, se l’ateismo ci soffoca, il teismo ci rende stupidi.
Così, abolendo l’immaginario e il simbolico, i fondamentalismi credono che la verità “rivelata” da Dio si trovi letteralmente nel suono delle parole recitate come mantra e nella scrittura.
Specialmente il fondamentalismo islamico si dimostra refrattario all’interpretazione delle parole coraniche. La credenza islamica sacralizza il Libro, persino il Codice, sostenendo che quei suoni in lingua araba “scesi” sul profeta in trance nel corso di una rivelazione durata una ventina d’anni, sono la parola stessa del dio Allah, da prendere alla lettera.
Si tratta del vecchio dio del deserto, un dio che è essenzialmente Legge piovuta dall’alto e che, più che incarnarsi, s’incarta, per così dire, nel Sacro Testo. Un testo che rifiuta di passare al vaglio della modernità, perché si dà come il Libro della Verità, perché così è scritto (mektoub) nello stesso Corano. Il Libro che autentifica se stesso è una tautologia, come l’Ouroboros che si mangia la coda.
La credenza nel Dio-Suono-Incantatorio risale alla preistoria. Come scrisse Ceronetti – citato da Danilo Arona nel suo Sito – al sabato notte “si celebra un rito i cui il Dio si manifesta in forma di Suono, la forma più primitiva e più tremenda di tutte, il più oscuro flagello epidemico, il meno afferrato come tale…”.
Dal suono e il canto si è passati, filogeneticamente, alla parola e poi alla scrittura. I primi scrittori erano gli Scribi, al servizio dell’amministrazione dei primi Stati – quelli che, come p.e. l’antico Egitto, Wittfogel definisce dispotici, dominati dal terrore, e Marx descrive come “modo di produzione asiatico”. La scrittura degli Scribi è la meno gratuita che esista, la più pericolosa, ammantata com’è di sacralità dispotica.
Benché siano passati migliaia di anni, esistono ancora vestigia di questo modo arcaico di considerare la scrittura, e quindi la Letteratura ( privilegio di classe, un tempo, prima che il potere dello scrittore di influenzare il mondo fosse sostituito dal terrorista che parla alle masse in televisione, la Letteratura non si dava alla macchia, come accade oggi, ma creava l’immagine, ora luminosa ora oscura, del mondo, condividendo con il potere statale o ecclesiastico una utilità e un certo prestigio).
Ma quello che volevo dire, in conclusione ( provvisoria) è che bisogna diffidare di quelli che ti mettono i sacri versetti della Bibbia, del Corano o dei Veda sotto il naso, dicendoti che bisogna fare così e cosà perché Dio così ha dettato e scritto.
La gente è stufa di sentirsi dettar legge dai barbuti ( oops, ho anch’io la barba ?).
Memore, per quanto è possibile, dei rizomi ebraici, delle “radici” cristiane e, ahimè, credo gravemente cattoliche, memore anche degli antenati Greci (gli inventori, nel bene e nel male, della democrazia), a quei vampiri letteralisti e terroristi religiosi che dovessero venirmi in casa con qualche Sacro Libro per farmi orribili suggestioni, risponderei – in maniera omeopatica – mettendogli sotto gli occhi un altro libro:
” … Non si tratta di parole scritte su tavolette né incise su rotoli di papiro: tu senti qui il chiaro linguaggio di una lingua libera. Su, presto, esci dalla mia vista!” ( Eschilo, Le supplici).

Postato domenica, 11 aprile 2010 alle 19:45 da Gianni De Martino


ERRATA CORRIGE

una dimensione ipernormale, sovrannaturale.

IN LUOGO DI :
una dimensione ipornormale, sovrannaturale.

Postato domenica, 11 aprile 2010 alle 19:56 da Gianni De Martino


Correggo la citazione da Meister Eckhart :
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Nihil videbat
IN LUOGO DI:
Nihil videbit

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” ‘Surrexit autem Saulus de terra apertisque oculis nihil videbat’.
Eckart legge: ‘ Paolo si alzò da terra e, con gli occhi aperti, vide il nulla…
e questo nulla era Dio’ “. ( M.Eckhart, Sermoni tedeschi, a cura di Marco Vannini, Adelphi, Milano, p.199 e passim. Citato da Elvio Fachinelli, in La mente estatica, Adelphi, Milano, 1989, p. 45).

Postato domenica, 11 aprile 2010 alle 20:38 da Gianni De Martino


Gianni, ti faccio alcune osservazioni.
La prima: certo, ogni libro CI legge almeno (se non più di) quanto noi leggiamo lui. Per dimostrarlo, basta ripensare a tutte le volte che, rileggendo un romanzo o un racconto o un saggio o una poesia o un fumetto (ma anche riguardando un film o riascoltando una musica) ci siamo detti: “ma non era così! Io me lo ricordavo diverso…”
In realtà, siamo cambiati noi e quel testo (come uno specchio vivente) ci rimanda il nostro mutamento e ce lo fa percepire a fondo perchè guarda dentro di noi.
La seconda osservazione però prova a fare un passo più in là: riguarda la chiarezza.
Ma distinguo la questione in due parti:
1) Io penso che noi abbiamo l’obbligo morale di essere chiari (il più possibile chiari) quando vogliamo comunicare con gli altri idee, informazioni, concetti, notizie: dobbiamo fare il massimo sforzo affinchè ciò che vogliamo dire sia compreso dal nostro interlocutore. Ecco perchè io detesto con ogni mia forza il linguaggio oscuro e criptico dei burocrati, degli specialisti quando si rivolgono ai “profani” dall’ALTO del proprio Sapere (Tutto Maiuscolo), l’italianorum degli Azzeccagarbugli e di chi usa linguaggi fumosi e autoritari. C’è del fascismo in tutto ciò, il disprezzo per la condivisione del sapere e la libera circolazione delle idee.
2) Ovviamente le cose cambiano radicalmente se lo scopo principale del nostro linguaggio NON è comunicare idee, informazioni, concetti, notizie. Se cioè il nostro linguaggio è “artistico” (in senso ampio). Allora l’eccessiva chiarezza può diventare un difetto e l’oscurità può tramutarsi in pregio.
(Comunque anch’io ho la barba. E sulla home page del mio blog, se ti incuriosisce guardarmi in faccia, c’è pure la mia foto)

Postato domenica, 11 aprile 2010 alle 21:27 da luciano / idefix


@ Gianni. Il discorso sulla Religione è ovviamente troppo complesso per essere liquidato in poche note. Mi limito a qualche modesto stimolo. Le pretese di Universalità del Cristianesimo e in particolare del Cattolicesimo , se vanno a negare l’universalità (junghiana) dei simboli e dunque la trasparenza reciproca delle culture , si risolvono in una sorta di colonialismo dello Spirito. Non solo di fatto si nega una paternità ebraica al cristiano, ma neppure si distingue la paternità egizia (quanto meno) di molto simbolismo ebraico-cristiano. Il movimento monoteista ha coinvolto in parallelo almeno tre grandi tradizioni religiose antiche, e ha rappresentato alle origini una sorta di tentativo di ricomposizione del separato o quanto meno di reciproca comunicazione. Attualmente non si può più nascondere che quando si parla di Dio, non si sa di cosa si sta parlando. Non c’è domanda più vuota di senso del “tu credi in Dio”? E’ domanda alla radice mal posta. Dio (colui che è) è concetto che include l’esistenza e credere nell’esistenza dell’esistente definito a priori non è altro che una vuota tautologia, che ci riporta al noto: “L’Essere è il Non Essere non è” , che è un inganno gnoseologico. La teologia protestante, che conosco meglio, è pervenuta con Karl Barth all’idea di Dio come Totalmente Altro, idea seducente che d’altro canto certifica con questa totale irresolubile alterità , come ci sia diventata lontana ed estranea l’idea dell’Adamo come “immagine e somiglianza di Dio”. Quando all’epoca della nostra fanciullezza si discuteva della Morte di Dio, non ci si riferiva soltanto alla cosiddetta “secolarizzazione”, ma alla profonda caduta di significato e di senso del termine stesso Dio. Sotto quella domanda impositiva (credi in Dio?) nella Storia posta troppo spesso agli eretici da convertire magari sotto tortura, se ne celava un’altra: sei disposto a obbedire all’autorità della Chiesa? Il cittadino borghese intanto (da creatura astratta e formale qual è) inclinava a un sì formale deprivato di sostanzialità alcuna, perché poi di questo sì non si avvertiva traccia alcuna nelle scelte di vita. Adamo è colui che sceglie di essere Uomo Nuovo, cioè di staccarsi dal cammino biologico, e di adeguarsi a una norma Altra, che all’origine non è neppure Norma, ma Liberazione. C’è un solo luogo della Bibbia (che i fondamentalisti protestanti giudicano a torto Parola di Dio) in cui Dio si esprime in prima persona: quando detta i Dieci Comandamenti a Mosè. I Dieci Comandamenti iniziano con “Io sono quello che ti ha liberato dalla schiavitù d’Egitto”. Le norme sono norme di un Dio Liberatore, un codice della libertà, anzi dell’uomo liberato che si dà una legge “non di natura” e un sistema “minimo” di regolazione dei rapporti sociali. Mosé non fa neppure in tempo a ri-leggerle, le tavole, perché trova il suo popolo nell’adorazione del vitello d’oro e le spezza. L’uomo corre con inaudita “naturalità ” alla schiavitù e un simile uomo non è un Adamo, è un uomo “adorante”, non consapevole. La liberazione dello schiavo, passa dallo schiavo stesso, non dalla “semplice” rimozione del Tiranno. Morto un tiranno se ne fa un altro. Soltanto se muore la nostra disposizione “naturale” allo schiavismo ci si rende liberi (a proprio rischio e pericolo). Di contro allo schiavismo, sorge l’indicazione nuova del libero e consapevole “servire gli altri”, cioè del mettersi a disposizione del prossimo. Chiese che rinnovano invece costantemente l’appello alla devozione servile alle Chiese stesse, a cominciare dalla devozione a norme coercitive quanto insensate e a dogmi che nessun fedele sa neppure spiegare, perché in realtà l’unica sottomissione richiesta è quella alle Autorità Religiose, le Chiese stesse, dicevo, si condannano alla sterilità del Messaggio di cui si proclamano portatrici. Si sostituisce la Parola (creativa, in quanto costantemente Sorgiva) alla Lettera (parola interpretata dalla gerarchia ecclesiastica, parola testardamente ferma, immobile e Morta).
Riguardo al complottismo. L’ho sempre trovato attraente. Ricordo quando studiavo Rousseau, che soffriva a detta dei contemporanei di “manie di persecuzione”. Considerata la sua vita, non aveva tutti i torti. Però, il complottismo (incluso quello giocoso di Dan Brown) è esso stesso alienazione, perché trasferisce in altri (negli operatori occulti del Male) , in un Altrove Oscuro, ciò che risiede nel percorso dell’essere umano. Quei piani che non riusciamo a realizzare nella nostra vita, si suppone che altri , furbissimi, organizzatissimi, feroci nel perseguire i propri scopi, li coltivino e li realizzino con sicura perizia ed efficacia se non sorgesse ogni tanto l’Eroe Super Uomo (magari non più Cristo, ma James Bond) a sventarli all’ultimo secondo. E’ la versione caricaturale di Adamo, questo SuperUomo. Come prima trasferivamo il nostro potere di scelta al Tiranno, poi lo conferiamo al Super Uomo (o magari al Super Uomo che si fa Partito) che in genere si rivela il Tiranno venturo (quando nel vecchio West il pistolero sgombra la città dai fuorilegge, poi la prima cosa da fare è liberarsi del pistolero). Il nostro vero Incubo non è il complotto, bensì l’assumerci le nostre responsabilità personali e sociali, pur consapevoli che, come asserivano gli egizi, la legge del Cosmo è l’imperfezione e che l’uomo è immagine e simiglianza di Dio in quanto la Divinità stessa è imperfetta. Era credo a questo che alludeva Jung nel lungo capitolo che ho così frettolosamente riassunto. Eppure questa chiara evidenza (l’Onniscienza di Dio pare non funzionare rispetto all’essere umano, con gli umani c’è sempre qualcosa che va storto) è qualcosa che costantemente cerchiamo di allontanare da noi perché ci angoscia. Di questo è un’ottima illustrazione La Storia Universale dell’Infamia di Borges. Se, per la legge dell’eterogenesi dei fini, gli esiti di ciò che facciamo sono, al di là delle buone intenzioni, di per sè impredicabili, se gli esiti realizzati si rivelano opposti da quanto ci si proponeva, se ogni complotto (anche a fin di bene) è di per sè, destinato all’insuccesso, allora sentiamo oscuramente che la nostra vita perde senso. Il senso è qualcosa che si dà, non qualcosa di inerente alle Cose, casomai al loro movimento di cui siamo parte. Il senso è disposizione al clinamen, avrebbe detto Marx. Ma se è il clinamen stesso (il cambiamento casuale e imprevisto) che ci spaventa, allora non possiamo fare altro che consegnarci a una Vita che assume caratteristiche cadaveriche. Se al perpetuo inseguimento della Vittoria (e del Successo) ci atterrisce l’idea stessa del Fallimento, ogni nostro Successo resta profondamente angosciante, diviene anzi il Simbolo di questa angoscia, Promessa e Realizzazione del Fallimento. La nostra generazione non ha forse vissuto questa angoscia alla luce del sole, con i tanti precoci “suicidi” delle rock-star, così sconcertantemente cristologici, tra i trenta e i trentatré, dopo essere stati baciati dal consenso e dall’adorazione di massa, per poi vedere sorgere imprevista di fronte a noi la sofferenza, il dolore, l’estraneità, l’inefficacia, il non-senso di tutto, la Croce e dunque la Morte? Reich ha scritto molte belle pagine in proposito nel suo “L’Assassino di Cristo”.

Postato lunedì, 12 aprile 2010 alle 11:19 da Gianfranco Manfredi


“L’ Assassinio di Cristo”.

Postato lunedì, 12 aprile 2010 alle 11:20 da Gianfranco Manfredi


Per tornare al Vampiro, con tutte le sue varianti giocose, questa figura ha in sè qualcosa di molto serio e profondo, qualcosa di assolutamente tragico. L’horror nasce pre-narrativo. Lo spavento e lo spettacolo dell’orripilante, come lo spettacolo del comico e quello del porno, sono per Aristotele, generi pre-narrativi. Quando la narrazione si forma e si codifica in qualche modo in Tragedia, Commedia e Epico (prima commistione letteraria perché frutto dell’incrocio di Tragedia e Commedia) i pre-generi debbono ridefinirsi in riferimento a questo codice. L’horror che mette comunque in scena la Morte, tende al Tragico. Quando inclina alla commedia è in forma di parodia del Tragico, ma in ogni parodia del Tragico, il Tragico resta presente. E dunque in questa letteratura normalmente considerata evasiva, si vanno invece ad insediare timori profondi al confine dell’esprimibile, che persino quando simulano o danno realmente vita a “mode”, ci interrogano su qualcosa di permanente, di universale , di antropologico, che è tuttavia fonte di turbamento. Anche nelle versioni ironiche e umoristiche, del resto, di cosa ridiamo quando vediamo la Famiglia Addams? Giro la domanda.

Postato lunedì, 12 aprile 2010 alle 11:37 da Gianfranco Manfredi


Bella domanda.
A me non disturba per nulla quando nei generi (horror, giallo, fantascienza, fantasy, thrilling, noir, bellico, spy-story, western eccetera) irrompe il comico e una fragorosa risata iconoclastica ne percorre i fondali e il palcoscenico, buttando per aria gli attrezzi di scena e le maschere, confondendo gli stilemi e i canovacci.
Ecco perchè gli Addams o Frankenstein Junior mi divertono, ecco perchè Rat-man mi piace, ecco perchè The Horribly Slow Murderer with the Extremely Inefficient Weapon (che Manfredi m’ha fatto scoprire) m’ha conquistato.
Così come trovo splendida la presenza dell’ironia nei generi (l’uso che ne fanno o hanno fatto Fritz Leiber nel fantasy o Philip Josè Farmer nella fantascienza, Clive Barker nell’horror, Stuart Kaminsky nel giallo).
E’ invece orrendissimo oltre ogni definizione quando il pubblico (soprattutto cinematografico) sghignazza dove NON dovrebbe ridere ma spaventarsi o raccapricciarsi. E non lo fa per reazione alla paura o per nascondere il disagio ma per un effetto di noia, di saturazione, di abbuffata causata da eccesso di cibo filmico super-adrenalinico. Temo che al cinema l’horror (inteso in senso lato) faccia ridere i gggggiovani perchè ha perso il suo lato davvero oscuro, il suo aspetto tragico, i suoi sotterraneri (LAPSUS!!! Ma talmente freudiano che lo lascio) tenebrosi, i suoi passaggi segreti.
Sostituiti dal tossico surrogato del sangue a ettolitri e del torture-porn, delle budella a tonnellate e delle urla a mega-watt.

Postato lunedì, 12 aprile 2010 alle 13:13 da luciano / idefix


Sì, io parlando degli Addams, mi riferivo alla Famiglia dei Mostri, e alla Mostruosità della Famiglia, tema che oggi ritroviamo meglio nella famiglia radioattiva dei Simpson (padre goffo come la creatura di Frankenstein e madre con capigliatura che è citazione della Moglie di Frankenstein) però mi rendo conto, e chiedo scusa, di affastellare troppi argomenti. Torno per un momento al tema dell’Imperfezione dell’essere e dell’ eterogenesi dei fini, cercando di toglierlo un po’ dal metafisico e avvicinandolo di più all’horror. Il testo di riferimento non può che essere il Jekill/Hyde di Stevenson. Nel romanzo Jekill teorizza molto sul tema della Perfezione, tipico di una scelta Adamitica. Suppone con la sua ricerca scientifica di isolare il Male che è in noi ed espellerlo, alla ricerca di quella sanità morale che traccia il cammino dell’uomo verso la perfezione. La scienza medica si assume sperimentalmente un compito fino ad allora inerente alla religione, è la vera svolta del mondo moderno. Ora, è noto, l’esperimento di Jekill, al di là delle sue buone intenzioni, ottiene l’esatto contrario. Jekill fa emergere Hyde (cioè il Nascosto) e fin qui ci siamo. Senonché questa non si vela affatto come una contrapposizione tra il Buono (Jekill) e la sua Ombra Maligna (Hyde). Hyde era anzi incluso in Jekill fin dal principio, nei suoi stessi propositi perfezionisti. Je-kill è nome esemplare: Io Uccido. Nel perfezionismo ossessivo, si cela l’intento, la disposizione criminale. Meglio, ci dice Stevenson, che i due elementi restino indivisi , meglio l’ossimoro che la sua rottura in contrapposizione, perché é nella separazione che i due elementi fanno danni. Se non si ammette l’Imperfezione come stato necessario delle cose, si precipita nel Male che è tanto più forte , quanto più il Bene si presume Perfetto. Più chiaro così? Questo all’epoca metteva in gioco non soltanto ideologie religiose, ma anche l’idea nascente di Progresso come miglioramento non solo delle condizioni di vita, ma anche dell’Essere umano in quanto tale. Si inscena il Tragico fallimento del Progetto Adamitico, così come in Frankenstein si mette in scena il fallimento del Moderno Prometeo.

Postato lunedì, 12 aprile 2010 alle 13:36 da Gianfranco Manfredi


Questi aspetti che fanno della letteratura gotica ed horror la legittima erede del “romanzo filosofico” , sono tanto trasparenti, quanto rimossi. Retrocedendo la letteratura fantastica a Serie B, con la miracolosa eccezione di certi capolavori assoluti di cui si dice ipocritamente “non riconducibili al genere”, in realtà si compie un’operazione da campo di concentramento culturale. Quanti autori che si proclamano non-di genere, poi di fronte al senso delle loro opere si riparano dietro: “Io non ho voluto dire niente, ho solo raccontato una storia.” Così come si è cantato: “E non c’è niente da capire”. Scusa, ma se non c’è niente da capire, perché mi sommergi di metafore enigmatiche? E’ un girotondo attorno al vuoto, in stile buddhista? Ma non c’è pura giocosità in quel girotondo. C’è piuttosto l’assunzione della centralità del Vuoto. Vogliamo considerarlo questo “disturbo” o no? Perché se facciamo finta di non vederlo, di non sentirlo, ogni nostra comunicazione, davvero, diventa evasiva e al cospetto, il Silenzio ben più espressivo e dotato di senso.

Postato lunedì, 12 aprile 2010 alle 13:48 da Gianfranco Manfredi


@ Luciano. Grazie delle osservazioni, condivisibili, e complimenti per la barba.
Bella anche l’immagine del testo – questo specchio d’inchiostro o di bit – come “specchio vivente”.

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Gianfranco, se proprio occorre rispondere direi che ridiamo del Sesso e della Morte. In entrambi i casi si tratta di scongiurare tramite lo scoppio deflagatorio di una risata quello sconvolgimento assoluto che è nell’orgasmo e nel lampo-istante della morte. Si ride, talvolta per non piangere, nell’apprensione del punto e il rombo – intenso e feroce – in cui la vita va aldilà.

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«… le ossa del mio teschio, al di sotto, rideranno in eterno».( Gilbert K. Chesterton).
Ridere alla radice tragica del comico forse è un assaggio di beatitudine, se non di eternità.
In ogni caso – come si può vedere nelle raffigurazioni del buddha – il sorriso disperato della mente affiora, appare come la sola libertà possibile.
Altra cosa è naturalmente lo sghignazzo, ovvero il ridere di tutti e di tutti, riduttivamente e senza capacità di vera irrisione – caratteristica, questa, che il povero Pasolini attribuiva alla piccolo-borghesia italiana, attendendosi da essa, profeticamente, quel peggio che poi effettivamente gli capitò in quell’orrendo campetto di calcio alla periferia di Roma.
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Quanto alla credenza in Dio, mi pare che questa – sollecitata proprio dalla sua assenza – sia vissuta, nell’oscurità della fede nell’Invisibile, come un impegno relazionale: “credo che Tu (ri)tornerai”. Lo dice anche la Scrittura: ” Io sono quello che sarà”.
Non penso che “Tu” sia un Essere, un non-Essere, un dèmone, un fantasma o un ultracorpo.
Forse un vuoto, un’assenza centrale, un Silenzio e un Vuoto come fresca traccia di un Mistero a cui talvolta si giunge attraverso il nichilismo. Uh, quante maiuscole! :-)

Postato lunedì, 12 aprile 2010 alle 14:26 da Gianni De Martino


Chissà se il vampiro ride, o magari irride – non ricordo se lo fa nel Dracula di Stocker – in qualcuna delle rare scene in cui appare.

Postato lunedì, 12 aprile 2010 alle 14:33 da Gianni De Martino


ridere di tutto e di tutti

IN LUOGO DI:

ridere di tutti e di tutti

Postato lunedì, 12 aprile 2010 alle 14:35 da Gianni De Martino


Sul DOTTOR JEKYLL:
da tempo mi trastullo con un’idea (non so se qualcuno l’abbia già usata).
Il romanzo di Stevenson (sempre sia amata la memoria della sua persona e rinnovata la lettura delle sue opere) è del 1886.
Due anni dopo, a Londra, arrivarono i delitti di Jack the Ripper.
E allora mi chiedo: il titolo del libro di Robert non si potrebbe leggermente parafrasare e poi scomporre in:
“Doctor Jack kill and mister hide”?
Cioè “il dottor Jack uccide e il signore nasconde”?
E dunque l’abbozzo di trama con cui mi baloccavo era questo: Stevenson se ne va dall’Inghilterra e dall’Europa (che lascia definitivamente del 1887) perchè capisce il suo romanzo ha risvegliato un orrore vero. E lui non vuole esserne coinvolto personalmente.

Postato lunedì, 12 aprile 2010 alle 15:09 da luciano / idefix


Sul DOTTOR JEKYLL:
da tempo mi trastullo con un’idea (non so se qualcuno l’abbia già usata).
Il romanzo di Stevenson (sempre sia amata la memoria della sua persona e rinnovata la lettura delle sue opere) è del 1886.
Due anni dopo, a Londra, arrivarono i delitti di Jack the Ripper.
E allora mi chiedo: il titolo del libro di Robert non si potrebbe leggermente parafrasare e poi scomporre in:
“Doctor Jack kill and mister hide”?
Cioè “il dottor Jack uccide e il signore nasconde”?
E dunque l’abbozzo di trama con cui mi baloccavo era questo: Stevenson se ne va dall’Inghilterra e dall’Europa (che lascia definitivamente del 1887) perchè capisce il suo romanzo ha risvegliato un orrore vero. E lui non vuole esserne coinvolto personalmente.

Postato lunedì, 12 aprile 2010 alle 15:09 da luciano / idefix


E’ stato detto e scritto molto sul rapporto tra Jekill e Jack lo Squartatore, qualche imbecille è persino arrivato a supporre che Jack fosse Stevenson. Se consideriamo però le cronache londinesi di epoca vittoriana (da cui molto ho appreso per il mio nuovo romanzo) il personaggio del Mad Doctor risale a molto prima. Il termine veniva usato per indicare i Medici dei Pazzi. Nell’opinione popolare, dato che si considerava la Follia incurabile, si pensava che solo un pazzo può dedicare la sua vita a curare i pazzi. Dunque il termine acquisì il significato di Medico Pazzo, con la successiva variante di Scienziato Pazzo. All’epoca di Jack era stato vietato dalla regina Vittoria il traffico dei cadaveri che era invece praticato e in qualche modo legale nell’Inghilterra pre-vittoriana. Dunque i medici non avevano alcun bisogno di deambulare per Soho a dissezionare prostitute, perché i cadaveri da dissezionare (di suicidi, di condannati a morte, di defunti non identificati o non rivendicati) venivano loro serviti, più esattamente venduti al prezzo base di due corone l’uno. Le operazione criminali delle Jene di Edimburgo che ammazzavano la gente allo scopo di venderne i corpi ai medici) sono successive, di epoca vittoriana. Ora: Jack era indubbiamente uno psicopatico, ma ciò che si cercò a lungo di coprire fu la sua perizia chirurgica. Questo riportava alla luce l’ambigua figura del Mad Doctor e i molti scandali “legali” avvenuti molto prima che Stevenson pensasse il suo romanzo. Citerei tra i tanti quelli della dinastia psichiatrica dei Monro , responsabili per tre generazioni, del manicomio di Bedlam, e di agghiaccianti esperimenti sui reclusi. La violenza medica sui corpi, per quanto giustificata da istanze di conoscenza, ricerca e progresso, in epoca vittoriana richiedeva d’essere negata. Il che era comprensibile. Il Murder Act fino ad allora in vigore, prescriveva che i corpi dei condannati a morti venissero consegnati ai chirurghi per la dissezione, non per motivi di ricerca scientifica, ma come pena suppletiva. Nel caso dei ribelli irlandesi o filo irlandesi, ad esempio, il tribunale comminava addirittura una tripla condanna a morte: 1. Impiccagione; 2. Annegamento; 3. Squartamento. Era evidente che con questa “logica” si andava a confermare nella coscienza popolare un’associazione tra medico e carnefice. Il medico Jekill che diventa carnefice Hyde, per quanto possa apparire anticipatorio di Jack, svela un meccanismo presente nella società inglese da almeno cinquant’anni prima. Anche in questo caso, l’inquietante, veniva da un ossimoro. Non più quello vampirico del “cadavere che cammina”, ma quello scientista del “medico che uccide”.

Postato lunedì, 12 aprile 2010 alle 15:38 da Gianfranco Manfredi


Le cronache cui mi riferivo prima erano di epoca pre-vittoriana, come si evince dall’insieme.

Postato lunedì, 12 aprile 2010 alle 15:39 da Gianfranco Manfredi


Qualche refuso ha reso oscura la prima parte del mio intervento. Volevo far capire che il proibizionismo vittoriano, invece di legalizzare e prescrivere regole all’uso dei corpi per la ricerca scientifica, la proibisce in assoluto, magari con l’intento moralizzatore di riscattare la categoria medica dall’associazione con la carneficina sociale dei poveri e dei reietti, ma con il risultato doppio di: rafforzare la superstizione e la paura popolare e frenare la ricerca scientifica. Il medico “schizzato” è il prodotto malato di questo atteggiamento e i sospetti, non a caso, vanno a lambire la famiglia Reale, perché quando si diffonde la Peste (anche ideologica) poi non ci si può lamentare se la Peste infesta il Palazzo. Stevenson era troppo consapevole di questi meccanismi per potersi considerare “responsabile” di Jack. Ovviamente, Luciano, uno in un romanzo può scrivere quello che vuole, però di questo senso di colpa, che io sappia, nella biografia di Stevenson non c’è traccia. Sarebbe anche un tantino paradossale (ma questo è anche un ottimo spunto, credo, per il tuo eventuale romanzo) che Stevenson si rifugiasse in America, perché le detection più recenti inclinano verso la tesi che Jack fosse americano, e su questo spunto ha già lavorato Robert Bloch, con il suo Gotico Americano, romanzo che rispolvera un fatto di cronaca e cioè uno Squartatore assai simile a Jack che colpì nel contesto dell’Esposizione Universale di Chicago, a fine secolo, subito dopo la scomparsa di Jack dall’Inghilterra. Ma su tutta questa questione, sono certo che Pezzini ne sa molto più di me. Dietro l’associazione medico-carnefice, ce n’è un’altra più antica, che è quella (ben più stretta) tra Giudice e Carnefice. Il Giudice come figura sociale della Morte Inflitta, riecheggia, come ha mirabilmente spiegato Pezzini in un suo saggio, anche in Dieci Piccoli Indiani di Agatha Christie. La figura viene da molto lontano, di Giudici Ingiusti ( altro ossimoro) c’erano stati esempi a josa nei secoli precedenti.

Postato lunedì, 12 aprile 2010 alle 15:59 da Gianfranco Manfredi


Dimenticavo, oltre ai corpi dei condannati a morte e degli annegati, venivano venduti ai medici anche i corpi trafugati dalle tombe. Anche qui: il termine Body Snatcher, in epoca pre-vittoriana, indicava in realtà i poliziotti (rapitori di corpi perché li portavano in prigione) . I trafugatori di corpi venivano invece chiamati resurrection men, o resurrezionisti. Il che è piuttosto significativo e su questo però non mi dilungo perché non voglio anticipare temi che sono al centro del mio nuovo romanzo in uscita (a settembre). La cosa davvero incredibile è che il furto di cadaveri non era legalmente punibile, in quanto il corpo del morto non era rivendicabile come proprietà da alcuno. Veniva però punito il furto di oggetti dalle tombe, inclusi i vestiti del morto. Dunque i resurrezionisti, dopo aver dissepolto il cadavere, provvedevano a spogliarlo, perché se la polizia li avesse sorpresi a trasportare un cadavere vestito, li avrebbe arrestati non in quanto ladri di corpi, ma in quanto ladri di vestiti!

Postato lunedì, 12 aprile 2010 alle 16:13 da Gianfranco Manfredi


Mi rendo conto di una questione stuzzicante. E’ Stevenson a sostituire il termine Body Snatcher a quello Resurrezionista. Non è curioso e significativo che agli assassini mercanti di corpi venga affibbiato un nome che nello slang veniva invece attribuito ai poliziotti? In qualche modo Hare e il suo compagno (le Jene di Edimburgo) che sceglievano chi uccidere sulla base di criteri molto razionali (e ne è testimonianza il diario di un resurrezionista che operava come loro e che è vergato come un asettico bilancio commerciale) evocavano una cernita di tipo poliziesco.

Postato lunedì, 12 aprile 2010 alle 16:21 da Gianfranco Manfredi


Non ti chiedo nulla sul tuo prossimo romanzo (cui hai fatto un fugace accenno).
Oggi ho comprato il nuovo Magico Vento, lo leggerò stasera ma dopo…quanti anni sono?…la fine del ciclio si avvicina sempre più e mi viene una botta di malinconia, come quando l’amatissimo Ken Parker mi stramazzava in edicola ogni paio d’anni.
Beh…lasciamo stare ogni altra considerazione ma ipotizzare che Stevenson fosse Jack lo Squartatore è un’assurdità dal punto di vista cronologico: se Robert era in America, come faceva a commettere gli omicidi di Whitechapel? A meno che chi aveva in mente quest’idea non abbia nella cabeza anche una clamorosissima soluzione.
Su rapporto investigatore-giudice-colpevole, l’archetipo resta EDIPO RE. Malgrado vi sia una sorpresa: rileggendo il testo di Sofocle (m’è capitato due anni fa) cercando di ripercorrerlo con occhio vergine da lettore di gialli, risulta evidente che per migliaia di anni abbiamo stracapito ed Edipo NON ha ucciso suo padre. Se a qualcuno interessa, ne ho parlato sul mio blog:
http://lucianoidefix.typepad.com/nuovo_ringhio_di_idefix_l/2008/09/edipo-innocente.html

Postato lunedì, 12 aprile 2010 alle 17:06 da luciano / idefix


Noto sul tuo blog che un tuo corrispondente ha così commentato il tuo invito a vedere il clip di Gale: “non mi ha così entusiasmato, comunque i gusti sono gusti”. Al di là dello specifico (non è obbligato entusiasmarsi per qualcosa, l’entusiasmo è altra cosa dall’apprezzamento ) dilaga in rete come frase soggettiva questa proverbiale e omologata affermazione del “tutti i gusti sono gusti”. Se ne deduce che è inutile parlare di alcun che e di fronte a sollecitazioni di tipo critico, menti assopite reagiscono simulando un soggettivo che è maschera dell’impersonale. Ma soprattutto risuona l’assioma che il gusto di questo soggetto-oggetto è insindacabile, soggetto non oggettivabile, quantificabile, influenzabile, sottratto per una sorta di diritto divino all’altrui giudizio. Se si discute, nei blog, è per scagliarsi addosso rispettivi amori, odi, insofferenze o entusiasmi. Non sorge il sospetto che una conversazione possa essere condivisione e che possa anche trasformare il proprio giudizio o valutazione, portare qualcuno ad ammettere di trovare convincente l’opinione altrui, a dubitare di se stesso non in assoluto, ma riguardo alle proprie convinzioni , affermazioni, e dunque perché no (?) gusti. Frase analoga: “quel tipo di cosa non è nelle mie corde”. Certo se a Hendrix si fosse chiesto di suonare Segovia avrebbe anche potuto dire “non è nelle mie corde”, io però ho il sospetto che ci avrebbe provato lo stesso a suonarlo (Hendrix rielaborava di tutto) traendone stimoli. Il confronto con la diversità non interessa, anzi spaventa. Tutti i gusti sono gusti. Tutti hanno ragione. E’ la notte in cui tutte le vacche sono nere. Si rivendica come privilegio il non interloquire se non per affermare un inaccessibile e non comunicato né motivato “gusto personale”, quando non c’è nulla di meno personale del Gusto.

Postato lunedì, 12 aprile 2010 alle 18:45 da Gianfranco Manfredi


Un amico mi ha invitato la settimana scorsa a vedere il film coreano Thirst, di argomento vampirico, di cui era rimasto entusiasta. L’ho visto ieri sera (tra l’altro in originale sottotitolato in inglese, per cui con una certa fatica). Confesso di essermi addormentato al principio (l’inizio è lento, lungo e con una tematica “che non è nella mie corde” diciamo così). Poi mi sono svegliato quando la narrazione cominciava a prendere contorni e ritmo e mi sono reso conto, con improvvisa soddisfazione mista a stupore, che il film è un remake vampirico di Teresa Raquin di Zola. Il passo che avevo citato in questo forum sui due amanti assassini che convivono, anche nel loro letto, con il cadavere del marito di lei da loro ucciso annegandolo, viene per la prima volta messo in scena, anzi addirittura esasperato con un gusto del grottesco del tutto tipico del cinema orientale. Il cadavere non soltanto “separa” i due, ma è “tra loro” anche quando copulano nella posizione classica (lui sopra lei sotto). Il cadavere sta in mezzo per cui mentre crede di prendere lei, lui si fa (da dietro) il morto. Eccolo il vampiro anale che in questa discussione trovavo difficile evocare dai miei ricordi letterari e cinematografici. Ed ecco anche quell’inatteso che sorprende anche ripescando. Pensate alle influenze segrete della letteratura… a un romanzo di Zola che rispunta nel 2010 in Corea, e ancor più sorprendente che ciò non risulti neppure dalla sinossi del film. Anche recensioni che sono uscite del film, sottolineano il tema (tutto sommato periferico, puro prologo al racconto) del prete-vampiro che non volendo uccidere ricorre alle sacche di sangue degli ospedali per nutrirsi. Come mai di Zola non avevo letto cenno? Se ne è persa memoria? Ora, quando si vede un film come questo, o qualsiasi altro film, siamo ancora capaci di interrogarci o si risponde all’amico che ci ha consigliato quella visione :”tutti i gusti sono gusti”?

Postato lunedì, 12 aprile 2010 alle 19:00 da Gianfranco Manfredi


Mi viene in mente un altro amico, anzi un collega sceneggiatore e narratore, che in un nostro casuale incontro mi dice: “ho visto un film straordinario” e mi fa il titolo. Io rispondo: “Perché l’hai trovato straordinario. A me non è piaciuto…” Sto per motivare e lui alza le braccia: “Per carità, non dirmi niente, se no va a finire che mi metti dei dubbi.” Veramente, avrebbe potuto anche metterli lui a me, se mi avesse spiegato perché quel film gli era piaciuto tanto. Se abbiamo paura di scambiare opinioni, perché la cosa stessa ci pare intaccare e ledere la nostra identità (quella che ci siamo costruita) cosa combiniamo quando ci troviamo a letto con un’altra persona e lo scambio è o dovrebbe essere totale? Stiamo scopando con un morto in mezzo?

Postato lunedì, 12 aprile 2010 alle 19:19 da Gianfranco Manfredi


Sai, credo che a volte dipenda anche da un fatto: certi film o libri o musiche ci piacciono talmente tanto che è COME SE le avessimo fatte noi. A me quest’esperienza capita spesso. E mi escono perfino delle buffe gaffe, tipo “ieri ho scritto un libro bellissimo” oppure “l’altro giorno ho girato un film che m’ha conquistato”.
E allora, se ci imbattiamo in qualcuno che critica con asprezza quell’opera, ci sentiamo quasi feriti, come se quegli attacchi fossero rivolti a noi. Con l’aggravante che (non essenndo i veri autori) non possiamo nemmeno sostenere la paternità dell’opera.
Ma altre volte è solo questione di pigrizia mentale, di non volersi imbarcare in discussioni in cui si devono confrontare opinioni e punti di vista diversi.
Certamente nei nostri gusti (e disgusti) dobbiamo essere sovrani assoluti, senza mai farceli imporre dalla maggioranza o dalla moda (come nella orrida pubblicità del libro di Sorrentino).
Se qualcosa mi piace, mi piacerà anche se a tutto il resto del mondo fa schifo. E viceversa se non mi piace continuerà a non piacermi anche se tutto il resto del mondo la trova bellissima.
Ma un conto è questa nostra autonomia di fondo. Un altro conto è imparare a plasmarli, i nostri gusti (e disgusti), evolvendoli nel confronto e nello scontro con le altre persone, con i critici, con il grosso pubblico, con la tradizione, con le avanguardie, con le opinioni diverse dalle nostre, magari per detestarle. Ma dopo averle prese in considerazione.
Perchè solo così possiamo arricchirci per davvero.
Un esempio: decine di commenti fa, hai accennato alla tua educazione valdese. Beh, come ti ho detto, ciò mi farà rileggere molte cose tue alla luce di questa chiave. Sono suonato? Forse sì. Ma sempre più penso che ciò che si ama (libri, fumetti, musiche, film e ovviamente persone) merita di venir sempre e sempre approfondito, perchè ogni volta si scoprono cose nuove.
E allora Magico Vento (riletto, progetto che comunque avevo in mente, con la “chiave di fede”) sarà ancora una volta nuovo.
Sono solo le stronzate che non merita una rilettura.

Postato lunedì, 12 aprile 2010 alle 21:53 da luciano / idefix


@ Gianni De Martino
Caro Gianni, hai scritto: “@ Massimo. Antenne ruotanti in molteplici direzioni dibattono sulla letteratura dei vampiri. Il testo collettivo si produce per andamento a spirale, fino a diventare un “tomone” enorme – una specie di megagalassia con non poche assonanze e significativi punti di fuga.
Il “tomone” – questa specie di tumore o di fiore carnivoro – forse si potrebbe giovare di un editing che lo snellisca un po’, suddividendo il testo per aree tematiche – molti temi infatti ritornano , ripassando per gli stessi punti per esplicitare e sviluppare un’intuizione iniziale. ( Oltre ai testi teorici vi si trova qualche testo narrativo, che forse potrebbe andare in appendice). Ne viene fuori un’idea imprevedibilmente complessa e alta della letteratura vampirica”.

-
Caro Gianni, credo davvero che questo post si sia conquistato – sul campo – il titolo di “enciclopedia narrativa sui vampiri”. Credo che ogni tipo di argomento sul tema sia stato affrontato… e, sì… il materiale prodotto (di altissima qualità) è tanto e andrebbe sistematizzato, depurato dalle inevitabili deviazioni e adeguatamente editato.
È una cosa che va assolutamente fatta.
E… la faremo.
;)
Intanto grazie a voi.

Postato martedì, 13 aprile 2010 alle 00:09 da Massimo Maugeri


@ Gianfranco Manfredi
Un breve “off topic” sulle scuole di scrittura…
Secondo me quelle vere sono utili. Mi trovo d’accordo con l’articolo di Stefano Salis (sulla stessa pagina del Domenicale del Sole24Ore da te citato) e con l’opinione di Luciano Comida.
Una vera scuola di scrittura non deve creare (creare?) scrittori, ma offrire strumenti che possono aiutare chi ha talento e volontà a trovare un proprio percorso letterario.
Una vera scuola di scrittura va in direzione opposta all’omologazione. Una vera scuola di scrittura, di conseguenza, non deve seguire il mercato (che si nutre di omologazione).
Una vera scuola di scrittura è innanzitutto una scuola di lettura.
Ma ne parleremo (credo e spero) in un post appositamente dedicato a questo argomento.

Postato martedì, 13 aprile 2010 alle 00:16 da Massimo Maugeri


Su “Tuttolibri” di sabato scorso è stato pubblicato questo articolo di Paolo Bertinetti su «Varney, il vampiro»…
-
Un gentiluomo «al sangue».
Torna «Varney, il vampiro»: le sue tetre gesta apparvero a metà Ottocento

-
articolo di Paolo Bertinetti
-
Il primo vampiro della letteratura
inglese fu concepito
da John Polidori nel 1816, come
suo contributo a una gara
letteraria di storie del terrore
proposta da Byron ai suoi amici,
ospiti di Shelley sul lago di Ginevra
(il contributo di Mary
Shelley fu Frankenstein). Ilvampiro
più famoso giunse il libreria
verso fine ‘800 grazie a
Bram Stoker, che trasformò la
figura storica di Vlad l’Impalatore
in quella di un immaginario
Conte Dracula con castello
nella remota Transilvania.
In mezzo si colloca la nascita
letteraria di Francis Varney, inglesissimo
vampiro le cui sanguinose
gesta apparvero a metà
Ottocento. A lungo si ritenne
che l’autore di Varney il vampiro
fosse Thomas Prest, specialista
in storie del terrore. L’autore
è invece, probabilmente, quel
James Malcom Rymer a cui è
dovuto, tra l’altro, il romanzo
da cui fu tratto il testo teatrale
(e poi musical, e poi film) incentrato
sulla figura del diabolico
Sweeney Todd, il barbiere londinese
che tagliava la gola ai suoi
clienti (per poi farne gustosi pasticci
di carne umana).
La prima avventura di Varney
il vampiro. Il banchetto di
sangue torna ora per Gargoyle
(trad. di Chiara Vatteroni, pp.
540, e 16). Varney è un superbo
gentiluomo inglese, alto, imponente,
dalla voce profonda e dal
linguaggio suadente, che da oltre
un secolo sopravvive succhiando
il sangue delle sue vittime.
Questa sua necessità vitale
si accompagna alla libidine sessuale,
come subito rivela il primo,
formidabile, capitolo del romanzo.
Nel pieno della notte,
Varney entra nella stanza di
una bella fanciulla, Flora, si ferma
accanto al suo letto e quando
lei, in preda al terrore, con i capelli
sciolti sul guanciale, cerca di
scenderne, il vampiro glieli afferra,
li avvolge «sulle mani ossute,
la inchioda al letto». Poi, sempre
stringendo i lunghi capelli, «la obbliga
a rovesciarsi all’indietro», si
protende sopra di lei. La penetrazione
è quella dei suoi denti che affondano
nel collo della fanciulla.
E’ significativo che Varney
scelga sempre donne giovani e belle.
Lo dice a Flora, che continua a
perseguitare,ma di cui, a suo modo,
si è innamorato: «ho avuto pietà
di voi e vi ho amata», dichiara
Varney. E confessa il tormento
per essere quello che è. Non siamo
di fronte a un vampiro buono, come
quello di Daybreakers appena
arrivato sui nostri schermi.
Ma certo, a differenza dell’orrido
Dracula, Varney è un essere capace
di provare compassione e di
sentire il bisogno del perdono divino:
un essere addolorato per l’infelicità
che diffonde e che per questo
alla fine si darà la morte in circostanze
pirotecniche che è giusto lasciare
alla scoperta del lettore.
Un vero gentiluomo, insomma,
a differenza degli abitanti del
villaggio che «per il bene comune»
cercano di eliminarlo. Come sottolinea
Carlo Pagetti nella sua illuminante
introduzione, il popolino
è presentato come vile plebaglia,
al punto che Varney viene salvato
(lo ospitano in casa loro) dagli aristocratici
parenti di Flora, che in
ogni caso si sentono più vicini a
lui che non alla folla, capace, scrive
l’autore, «di macchiarsi degli illeciti
più vergognosi».
E’ curioso che venga considerato
comel’illecito più vergognoso
l’uccisione del vampiro e non il
«banchetto di sangue» del vampiro
stesso (ma, mutatis mutandis,
simili acrobazie di giudizio ce le ritroviamo
anche nell’Italia di oggi).
D’altronde, se gli abitanti del
villaggio lo uccidevano, il romanzo
finiva lì. Mentre invece prosegue
trionfalmente, tra digressioni,
nuove vittime, nuovi scenari
(quasi sempre notturni, naturalmente),
per la delizia e il brivido
dell’affascinato lettore.
-
Fonte: http://www.lastampa.it/_settimanali/ttL/PDF/4.pdf

Postato martedì, 13 aprile 2010 alle 00:21 da Massimo Maugeri


Ho avuto modo di farmi una piacevole chiacchierata telefonica con Sergio Altieri. Il suo contributo vampirico è quasi pronto.

Postato martedì, 13 aprile 2010 alle 00:24 da Massimo Maugeri


Straconcordo con le osservazioni di Massimo sulle scuole di “scrittura creativa”.
Negli incontri che faccio nelle scuole (in genere le medie inferiori), spesso ci sono domande su questi argomenti:
come vengono le idee,
una storia si scrive dall’inizio o dalla fine,
quando si scrive si sa già il finale,
i personaggi sono liberi o no,
l’autore si affeziona ai propri personaggi,
prima o terza persona,
perchè si scrive,
come si fa a pubblicare,
quanto si guadagna,
come si trova un editore,
cosa si fa se una storia si incastra e non va più avanti,
quanto è importante leggere,
chi sono gli scrittori che mi piacciono,
quanto li ho copiati,
da piccolo scrivevo già,
è più bello leggere o scrivere,
cosa si prova quando si finisce di scrivere un libro,
i personaggi sono inventati o presi dalla realtà,
mi documento e vado sui posti che descrivo,
qualcuno mi aiuta,
quando scrivo mi sento solo,
se non ho voglia di scrivere cosa faccio,
scrivo per me o per gli altri,
qual’è la cosa più brutta in un libro,
cosa consiglio a un ragazzo/ragazza che da grande vuol far lo scrittore,
qual’è il mio libro preferito,
che differenza c’è tra un libro e un film,
perchè un libro è noioso e un altro no,
perchè mi piace leggere,
mi piacerebbe essere famoso come la Rowling o come Moccia,
preferisco scrivere per ragazzi o per adulti,
ho mai scritto storie porno,
mia moglie e mia figlia e i miei amici mi aiutano a scrivere e come,
quando leggo un libro, guardo subito il finale,
come far venir voglia di leggere a chi non ce l’ha,
che libro consigliare a un ragazzo/a,
ci sono libri non adatti ai ragazzi,
è giusto proibire qualche libro,
a cosa serve scrivere,
scrivo il diario,
eccetera eccetera.
Quando rispondo, faccio vedere cos’ho nelle tasche dei pantaloni: venti o trenta euro, un fazzoletto, il telefonino (spento…durante gli incontri si spegne), qualche vecchio scontrino, uno o due post-it. Ma NON ho la Verità in tasca.
E dunque (gli dico) posso solo rispondere raccontando le MIE esperienze, come IO scrivo e come IO leggo. Consapevole che altri darebbero risposte completamente diverse ma altrettanto legittime.
Le “scuole di scrittura creativa” non dovrebbero spacciare presunte inesistenti oggettività. Ma solo mettere in scena (umilmente ma onestamente e orgogliosamente) le multiformi diversità.

Postato martedì, 13 aprile 2010 alle 09:57 da luciano / idefix


Ho insegnato in diversi corsi di scrittura (incluso quello di Pontiggia) ma sempre limitandomi alla sceneggiatura cinematografica , dove , come ho detto, gli elementi tecnici, di struttura, persino di costo, sono di assoluto rilievo, e che è “scrittura invisibile” in quanto serve a “fare” il film, non viene letta in quanto tale dal pubblico. Queste esperienze di corso le ho trasferite in un corso di sceneggiatura che ho messo gratuitamente on line sul mio sito  www.gianfrancomanfredi.com) dove è ancora consultabile e anche scaricabile. Ogni lezione prevedeva anche indicazioni di film da vedere e da “smontare” alla luce dell’argomento trattato. Ora: tra le persone che hanno partecipato in questi anni, ho notato la prevalenza di un atteggiamento. Si passa direttamente dalle indicazioni della lezione, alla scrittura. La parte di visione e smontaggio dei film che mostrano, spiegano e integrano le indicazioni tecniche, la si salta. Infastidisce guardare cosa hanno fatto gli altri ( sia le cose inarrivabili dei Maestri che i vistosi errori di Cineasti scadenti, sui quali ultimi Jerry Lewis teneva i propri corsi di cinema, sicuro, e questo è certo, che si impara più dagli errori che dall’osservazione estatica del perfetto). No, non si guarda, si ha paura di confrontarsi, perché confrontandosi ci si pone di fronte alla propria limitatezza che va a scontrarsi con il proprio Sogno. Si ha paura anche di scontrarsi con la fatica, perché in quell’aggettivo “creativo”, si vede qualcosa che nega o bypassa il lavoro. E dunque si ha fretta di passare subito da un testo frettolosamente inteso come Manualistica, all’esecuzione “personale”. Poi queste esecuzioni personali, creative, originali, si rivelano quasi tutte simili: compiono gli stessi vistosi errori, eseguono piattamente ciò che è più semplice, ma soprattutto non sanno “vedere prima” la scena da raccontare nella propria testa. Ora: se questo accade (e accade) nei corsi di sceneggiatura, figuriamoci cosa accade nei corsi di scrittura narrativa. Una volta ho tenuto una lezione sui generi in uno di questi corsi, considerando la distinzione di Aristotele tra Tragedia e Commedia (che è primaria. La lezione su Aristotele è un must, in America, anche nei corsi di scrittura di telefilm). Un ragazzo , peraltro promettente nelle cose che scriveva, interviene e dice: “No, per me non è così”. Stile da Costanzo Show: se nella stessa puntata sono ospiti Aristotele e il giornalaio all’angolo, le loro opinioni sono uguali e paritarie. Tutti i discorsi iniziano con un “secondo me”, che non sta lì a precisare un limite, ma come asserzione del Sé come unica autorità. Smontare la scena di un film e comprendere com’è stata tecnicamente costruita, è relativamente semplice e richiede poco tempo. Smontare un romanzo è cosa assai più complessa e richiede un tempo molto maggiore. Se si rifiuta la prima, la seconda è inaccessibile. Se poi allo studio dell’Estetica e della Poetica, si preferisce il Manuale Pratico, pare evidente che dalle scuole escono scrittori non consapevoli e nel migliore dei casi, esecutori di un Programma Macchina che di personale e di individualizzato non ha proprio nulla. Aggiungiamo pure a questo che al di là di qualche professionista che arriva in queste scuole per la sua lectio magistralis, la media dei docenti è lì perché non lavora. Ci sono docenti di sceneggiatura cinematografica che hanno in curriculum un film o due, cioè conoscono assai poco ciò che insegnano. Se si considera che insegnare è una cosa che a sua volta richiede esperienza (si può essere dei grandi autori di cinema e dei pessimi maestri) , che razza di insegnamento è un insegnamento senza esperienza né di sè, né della materia? E’ sovente, un insegnamento ereditato. Chi ha seguito bene il corso, a giudizio dell’insegnante, può ambire a tenere a sua volta dei corsi, cioè trova lavoro non come sceneggiatore, ma come allevatore di sceneggiatori. E il disastro “piramidale” è compiuto. In America si tengono corsi veloci anche di una settimana, illustrativi del racconto “corretto”. Da questi corsi escono degli editor, cioè degli “esperti” nel valutare le sceneggiature e la loro correttezza, anche se non hanno mai scritto, nè scriveranno mai una sceneggiatura. Molti funzionari televisivi italiani hanno partecipato a questi corsi di una settimana. Dopodiché tornano convinti di saper tutto e si mettono a distruggere più che a discutere, il lavoro di chi ha scritto sceneggiature per decine di anni. L’editor poi, non è al servizio dello sceneggiatore (per migliorare certi passaggi), ma del funzionario. E’ cioè un guardiano della correttezza presunta. Ciò avviene anche per la regia. Registi che hanno fatto la storia del cinema, con decine di film in filmografia, si vedono affibbiare la presenza di un editor alla regia, che è in realtà una spia della produzione e incaricato di controllare che ogni singola scena scritta venga realizzata esattamente nel modo previsto e nei tempi previsti, cioè sono incaricati di bloccare creatività e ispirazione del momento non appena minaccia di spuntare. Quando questo genere di “educazione” di cui qui ho dato solo alcuni esempi, diventa fenomeno di massa, ciò è devastante. Il danno non può venire riassorbito in pochi anni. Assai più proficua di una Scuola così malintesa, è allora l’esperienza diretta da film maker che attraverso il confronto con i problemi concreti del “girare” e il confronto con altri, nei Festival e in Rete, viene condotto non solo a imparare, ma a crescere. Certo che la fatica è notevole perché è come se si dovesse ricominciare da zero. Certe indicazioni tecniche sono come la formula per l’estrazione della radice quadrata. Se c’è già, basta studiarla. perché inventarla di nuovo? Tra l’altro non ne nascono ogni giorno di Pitagora. Tuttavia, dall’esperienza di film maker, per quanto “da zero” essa sia, nascono se non sempre dei geni, molti innovatori e molti autori originali, in misura assai maggiore di quanti non ne escano dalle Scuole di Scrittura e di Sceneggiatura.

Postato martedì, 13 aprile 2010 alle 11:04 da Gianfranco Manfredi


C’è tuttavia un elemento per cui un corso di sceneggiatura presenta un vantaggio sull’esperienza da film maker. Questo elemento è il confronto e la discussione con altri. Raramente uno sceneggiatore cinematografico lavora da solo, si è quasi sempre in due o tre, e si discute insieme, talvolta anche aspramente, fino ad arrivare a una soluzione condivisa. Del resto un film tradizionale lo si fa almeno i centocinquanta persone. Se non si sviluppa consapevolezza di lavoro collettivo, un film, ancorché scritto bene, risulta una porcata. la nuova tecnologia consente invece a un filmaker di essere al contempo sceneggiatore, regista, operatore, montatore del proprio film, di riassumere cioè i reparti in una sola figura. Ciò da un lato consente la maturazione di una notevole esperienza di tutti gli elementi compositivi di un film, ma dall’altro ne individualizza troppo la cifra al punto che il senso collettivo del creare cinema rischia di sfuggire. Oltretutto ciò che si può fare su un arco narrativo di pochi minuti, è impossibile da ricreare su un arco narrativo di due ore. A volta un film maker promettente può essere chiamato da una produzione a realizzare un lungo metraggio, però di fronte alla semplice presenza della troupe si smarrisce: sa dirigere soltanto se stesso, non gli altri. Insomma, le scuole aiutano a confrontarsi , discutere, considerare diversi punti di vista, acquisire il senso collettivo del lavoro e anche una possibilità di socializzazione, di uscita dal solipsismo, di conoscenze e di amicizie proficue non tanto in quanto “ben inserite nell’ambiente”, ma in quanto collaborative. Ciò è più difficile, meno indispensabile e meno richiesto, nella scrittura narrativa.

Postato martedì, 13 aprile 2010 alle 11:30 da Gianfranco Manfredi


Non vorrei assediarvi buttando lì sempre nuovi temi, ma vorrei per un momento tornare a quello cosiddetto degli Addams, cioè della Famiglia dei Mostri o della Mostruosità della famiglia. Cosa vogliamo dire oggi quando parliamo di Famiglia? C’è il nucleo tradizionale, sempre meno Famiglia, perchè limitato alla coppia e a un figlio. C’è la famiglia scomposta e in continua ricomposizione secondo modalità non decise dal singolo. C’è la famiglia elettiva, annunciata nel celebre detto di Gesù alla folla: “Chi sono mia madre, mio padre i miei fratelli? Voi siete mio padre, mia madre e i miei fratelli.” Qualcosa del genere risuona nel detto degli indiani lakota: Mitakuye Oyasin siamo tutti imparentati. E’ la famiglia più allargata possibile, più esattamente un cerchio in costante espansione.
Le famiglie elettive possono anche diventare famiglie di consimili. We’are family , come canta un celebre inno gay. Ma c’è anche la Famiglia del Padrino. E c’è, c’è stata, la Famiglia Manson. La Famiglia assume connotazione di metafora della relazione sociale in quanto tale e di tutte le possibili relazioni di gruppo, incluso il gruppo dei Mostri (la comunità dei freak, gli Addams ecc.) . Si dice “noi siamo una famiglia”, non più noi siamo una classe, noi siamo uno stato. Ora: nella figura del vampiro si è sempre espressa un’individualità irriducibile al gruppo (sia al gruppo degli umani, che al gruppo dei vampiri) e alle classi. Con i vampiri di Anne Rice, la Famiglia vampira, non si chiama ancora Famiglia, è più vicina a un gruppo underground, a un movimento “controculturale”, non va a definirsi tanto come “etnia vampira” perchè accoglie vampiri e vampirizzati di diversa natura, formazione, provenienza ed età. Questo dato controculturale gli consente però una certa disposizione globale (si muovo nello sviluppo della serie dei romanzi, su tutto il globo) e universalistica (si allarga la famiglia attraverso il contagio, non la conversione; l’etnia non è dato di partenza, bensì di arrivo, e mantiene comunque la traccia del “multiforme”). Ora abbiamo visto trionfare la Famiglia Cullen, che replica da un lato la composizione di una famiglia tradizionale perduta, dall’altro crea relazioni anche oppositive o competitive con famiglie di simili (i licantropi, ad esempio, tema che esisteva anche in Underworld) . Il vampiro adolescente che vive in famiglia è qualcosa di indubbiamente inedito, e pare indirizzato a un nuovo senso comune secondo il quale la Famiglia è fondamentalmente un organismo che garantisce protezione ai suoi membri. Sappiamo quanto possa essere sviante questa concezione, però è la concezione che esprime un desiderio, un’aspirazione, un Sogno, e poco importa da questo punto di vista che sia o meno realistica. Ora: nella polemica suscitata dai romanzi della Meyer, ci si è concentrati sul tema dell’adolescenziale e della presenza/assenza di sessualità, mentre questa evidenza assoluta del tema Famiglia (insolito in ambito vampirico) non la si è considerata affatto. Non a caso però la Famiglia Cullen, non evoca un modello di famiglia riconoscibile, ma un modello di famiglia assente, ma desiderato. Molto meno chiaro e leggibile, perlomeno ai miei occhi, di quanto non fosse il vampirismo da comunità rock (Lestat è un divo del rock) della Rice.

Postato martedì, 13 aprile 2010 alle 11:57 da Gianfranco Manfredi


Insomma, che vampiro è quello che presenta ai genitori la sua umana preferita?

Postato martedì, 13 aprile 2010 alle 12:02 da Gianfranco Manfredi


A volte mi capita di fare incontri con i ragazzi la mattina e, nel pomeriggio, dei “seminari” (che parola orribile) con gli insegnanti. In genere l’argomento è: “come invogliare i gggggiovani alla lettura dei libbbbri”.
Il cuore di ciò che dico è semplice: il gusto del leggere si trasmette solo per contagio. Di conseguenza, i trucchi che propongo sono altrettanto semplici:
- leggete in classe qualche racconto particolarmente avvincente e (quando l’attenzione è catturata al lazo) chiudete il volume. Alle proteste, dite che possono andar avanti da soli,
- accennate a qualche libro che i ragazzi NON devono leggere perchè NON è adatto alla loro età (per esempio IL SIGNORE DELLE MOSCHE…quando uso lo stesso trucchetto negli incontri in classe il fruscio delle penne che prendono appunti sui quaderni è un frastuono),
- condividete l’entusiasmo per i libri che vi piacciono,
- portate ogni giorno in classe come fossero oggetti normali i libri che state leggendo e metteteli sulla cattedra: pian piano qualcuno si avvicinerà come al monolite di 2001.
Io racconto queste cose tutto appassionato e…
…al che, un pomeriggio, in una scuola, un insegnante alza la mano e mi domanda: “scusi ma…lei sta dicendo che anche noi dovremmo leggere?”

Postato martedì, 13 aprile 2010 alle 12:04 da luciano / idefix


La famiglia Cullen è la Famiglia Morta e resuscitata? Ma se questa è anche Famiglia Vampira, si riproduce o viene sublimata, l’associazione tra Famiglia di Mostri e Mostruosità della Famiglia?

Postato martedì, 13 aprile 2010 alle 12:17 da Gianfranco Manfredi


Senza volerlo, Gianfranco, cogli una mia contraddizione. O forse non è tale. Ed è solo la differenza tra il Me “della vita reale” e il ME “della vita fantastica”. Anche se so bene che i confini sono mutevoli.
Il ME reale aspira a una vita serena: affetti stabili e duraturi, un amore monogamo e ricambiato, giornate laboriose ma complessivamente tranquille, salute accettabile, umore allegro, ampie pause di otium e fiducia nel mondo e nel prossimo. Non vado avanti perchè si è capito.
Invece il ME fantastico avrebbe in uggia questo spappolamento di coglioni, lo troverebbe noiosissimo e privo di accadimenti. Invocherebbe catastrofi sinistre e cupissimi misteri, notti inquiete e amori tormentati, avventure pericolose e minacciosi avversari.
Se io fossi un Vampiro, probabilmente il Me reale cercherebbe di presentare a papà e mamma (tutti e due ultraottantenni e un po’ sdentati) la fidanzata umana, tentando di rasserenare tutto e tutti.
Ma il Me fantastico coinvolgerebbe la fidanzata umana in tenebrosissime vicende da tregenda dai risvolti torbidi.
Insomma: se ognuno di noi ha dentro di se una grande e profondissima Ombra, tanto vale conviverci. Magari vivere al piano di sopra ma almeno ogni tanto andare a dare un’occhiata a cosa sta negli abissi.
Tenendo però saldamente le mani sul parapetto che ci separa dal pozzo.

Postato martedì, 13 aprile 2010 alle 12:25 da luciano / idefix


Scusa Luciano se ho accavallato un nuovo argomento a quello precedente… ma mi era venuto l’istinto di ricondurre al tema vampiro, per quanto non ci sia scrittura che non sia alla radice vampira nei confronti delle letture fatte. Nello stesso numero del Sole 24 ore che citavo, c’è un ampio articolo sulla fonte del Manzoni per la parte sulla peste dei Promessi sposi. La fonte è un testimone d’epoca: Giuseppe Ripamonti. Ecco a confronto due passi. Scrive il Ripamonti: “fu pure visto un vecchio che portava con sé martello, fune e chiodi e andava ripetendo di voler appendere il vicario alla porta, una volta che la gente l’avesse fatto a pezzi e ucciso.” Scrive il Manzoni: ” Spiccava tra questi, ed era lui stesso uno spettacolo, un vecchio malvissuto, che, spalancando due occhi affossati e infuocati, contraendo le grinze a un sorriso di compiacenza diabolica, con le mani alzate sopra una canizie vituperosa, agitava in aria un martello, una corda, quattro gran chiodi, con che diceva di volere attaccare il vicario a un battente della sua porta, ammazzato che fosse.” Oddio, Manzoni ha copiato? Esclamerebbe magari un insegnante ingenuo. Come mai allora questo brano del “vecchio malvissuto” è stato considerato da tutta la critica come esemplare della poetica del Manzoni? Beh, se ci limitiamo al contenuto, Manzoni riprende una cronaca e la vampirizza. Nella scelta stilistica non mette in campo una semplice tecnica, ma una tecnica atta ad esprimere un contenuto “altro”. I richiami gotici e demoniaci vengono costantemente alternati a giudizi morali, come se i secondi aiutassero ad allontanare , a prendere distanza morale da ciò che il perturbante avvicina. La descrizione cronachistica e oggettiva del Ripamonti, viene enfiata perché vi si legga altro dal fatto, perché il fatto sia espressivo di un pensiero (nel caso, morale). Ma alla base: Manzoni fonda il suo scrivere su una lettura. Se in una Scuola si abituano gli allievi a non ritenere fondante la lettura, fondante persino della propria originalità, si allevano dei pessimi scrittori. Ho discusso della cosa con molti colleghi. Si possono distinguere due categorie: quelli che individuato un tema da narrare, cercano di non leggere nulla di quanto è stato scritto su quel tema, per paura di esserne “condizionati” o che si rinvengano nei loro scritti, tracce di “copiato”. All’opposto ci sono scrittori che quando scelgono un tema cercano di leggere il più possibile di quanto si è scritto su quel tema ( un esempio in questo senso è il recente libro di Umberto Eco dedicato alla Nebbia) . Il confronto con il già scritto è fondamentale, non soltanto per accogliere indicazioni tecniche e stilistiche (ciò che volgarmente si indica per “copiare”) , ma anche per prenderne distanza sviluppandone una propria e più consapevole modalità. Per chi scrive seguendo quest’ultimo orientamento, la lettura non è qualcosa che esiste esclusivamente Prima della Scrittura, è qualcosa che accompagna costantemente la Scrittura. Gli scrittori della prima categoria, cioè quelli che rifiutano di leggere e si affidano unicamente al loro senso delle cose, in genere (anche se non inevitabilmente) producono una prosa cronachistica, come quella del Raimondi, che presunta personale si esprime impersonalmente. Gli altri producono una prosa creativa, perché lottano con la parole e con il “fatto” al centro della rappresentazione in modo che esso rappresenti anche qualcosa di altro da sé, non solo la cosa, ma un punto di vista da cui si racconta la cosa.

Postato martedì, 13 aprile 2010 alle 12:49 da Gianfranco Manfredi


Caro Massimo, hai scritto : « Caro Gianni, credo davvero che questo post si sia conquistato – sul campo – il titolo di “enciclopedia narrativa sui vampiri”. Credo che ogni tipo di argomento sul tema sia stato affrontato… e, sì… il materiale prodotto (di altissima qualità) è tanto e andrebbe sistematizzato, depurato dalle inevitabili deviazioni e adeguatamente editato.
È una cosa che va assolutamente fatta.
E… la faremo ».
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Caro Massimo, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, cioè il passaggio dal materiale prodotto dal lavoro mentale di eccellenti vampiri all’industriosità dell’editore.
La scrittura, proprio come il Vampiro, è un angolo che mai si chiude ( se non per mordere ! – O, se non mordace, ridursi come un botolo innocuo a scodinzolare e dare qualche leccata all’ “utente”)
Il libro invece – in quanto « ritaglio » di quell’attività complessiva che chiamiamo Letteratura, e che non si riduce al libro pubblicato, va « chiuso ». Tanto che qualcuno ( Enrico Filippini) diceva che « non basta saper scrivere ( o fabbricare, aggiungerei, qualche pillola di acido prussico per il lettore) , occorre anche imparare a fare i libri ».
Come autore – cioè l’ultima ruota del carro, peraltro anche piuttosto sofisticato per potersi destreggiare al Mercato senza farlo soffrire, perlomeno un po’ – non vorrei avere l’aria di suggerire come dovrebbe essere fatto un libro-vampiro.
Tuttavia, correndo il rischio di apparire come uno che non ha resistito a una tale orribile tentazione , direi che il testo andrebbe snellito. Cosa mettere ? Cosa togliere ? Un lavoro immenso è in gioco non solo nell’atto dello scrivere ma anche nell’arte di fare i libri.
Nel depurare il materiale ( come per distillazione ?) presterei una particolare attenzione proprio alle « deviazioni ». Il rischio è che in forza della pur necessaria astrattezza del sistema adottato, o anche per un rifiuto preventivo della complessità, si finisca con il tagliare nel vivo della questione vampirica. Che consiste, perlomeno così pare, proprio nella « deviazione » .
Spostamenti del diavolo! Continuo a pensare a un libro-vampiro suddiviso per temi come una specie di patchwork, un tessuto marezzato e cangiante costituito da un accumulo « armonico » di deviazioni – con gli interventi, qua e là, nei momenti topici, dei vari solisti e il commento – non necessariamente a Senso unico – del coro multiforme dei vampiri.
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P.S. Scrittori ed editori fanno talvolta lo stesso sogno. Un incubo sottotraccia consisterebbe in questo : un onesto editore toglie da un testo vampirico elementi che gli sembrano « impuri » o « deviati » ( dei grossi canini infetti, per esempio, qualche incis(iv)o, o qualche imprevisto o esubero da licenziare in tronco, perché eccessivo ) .
Poi una notte, gli scarti cartacei riposti in un cassetto incominciano ad agitarsi come tentacoli di polipo appena recisi. Uscendo dal cassetto, il popolo degli scarti potrebbe anche avviarsi verso la camera da letto dell’editore, al fondo del corridoio…
In una variante dell’incubo, appare anche – uscendo con un fruscìo da un muro tutta bruciata da quella maledetta sigaretta – anche l’esubera Ingborg Bachman, che con un gorgoglìo sussurra di vivere in una prigione alla quale è necessario adattarsi.
In un risucchio d’aria lo spettro scuote la testa, che non pesa più, e ammette di « non aver potuto fare a meno di usare anche lui quel gergo canagliesco che è l’unico linguaggio disponibile per chi non voglia restare completamente isolato ».
In un’altra variante dell’incubo, appare il famoso Gallo Cantachiaro, che – dopo aver frequentato un Corso di Scrittura Creativa – con mossa accorta si taglia la zampa sinistra con la destra – proprio per voler esser chiaro ( un po’ come fece Van Gogh quando, angustiato dalla cecità e sordità del Mercato dell’Arte, notoriamente senza naso, si tagliò l’orecchio… ).
L’incubo potrebbe concludersi, provvisoriamente, con Umberto Eco che dice, cor aria paterna e quasi sardonica : « Cari ragazzi, occorre una sana decisione di castrazione… ». E, nel destreggiarsi a livelli arrivistici come, invidiatissimo, solo lui sa fare, si guarda intorno e ti lancia dietro un gatto morto – che poi si rivela essere un tomo dell’impossibile Enciclopedia di Bouvard & Pecuchet, incluso il famoso « Sciocchezzaio »…
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Insomma, il passaggio dal lavoro mentale alle « sabbie immobili » ( Peppo Pontiggia) dell’industria culturale italiana sembra un tema di portata non indifferente.
Nella maggior parte dei casi, occorre resistere alla tentazione non solo di parlarne bene, ma anche di morderli. Poveri editori !
Un’allucinazione ? Scrittori ed editori fanno talvolta lo stesso sogno, ma – come succede agli amanti o alle coppie in genere – hanno incubi diversi. Perlomeno così pare. :-)

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In ogni caso, grazie a te
e buon lavoro a tutti gli altri splendidi animali da tavolino, con o senza canini.

Postato martedì, 13 aprile 2010 alle 12:58 da Gianni De Martino


@ Gianfranco. Senza accavallamento ( sul collo dell’altro) non ci sarebbe Vampiro in azione. :-)
Probabilmente – a parte l’abbagliante tableau vivant quasi da scena sadiana che così si viene a formare – l’utopia vampirica consisterebbe nella restaurazione di un mitico stato edenico, in cui si stava in un unico corpo ( uomini, donne, animali, piante e pietre: tutto e tutti nel corpo di Adamo prima che venisse “tagliato” e come spezzato da lontano ai gomiti e ai ginocchi ) – in un beato Giardino piantato al cuore di tutti i vampiri, da prima che cominciasse la Storia. E che l’accavallarsi gli uni sugli altri apparisse “sconveniente”, contrario alle buone maniere.
Aggiungerei ( accavallando ancora la frase, quasi un pornogramma) che quando si lavora di concerto, può capitare di accavallarsi un po’, in un movimento che può anche apparire un convulso.
Accade quando ci si prova, in un forum, a infilarsi gli uni sotto gli altri, in una specie di delizioso sottosopra.
Perché scusarsi? E’ caratteristica del Vampiro quella di “accavallarsi” un po’, un attimo prima di addentare e cominciare a succhiare .

Postato martedì, 13 aprile 2010 alle 14:02 da Gianni De Martino


Il corpo vampirico, di cui fa parte il linguaggio, è un corpo lussurioso che – una volta in moto – si accavalla, molesta, occupa e morde. E’ un po’ quello che capita anche allo scrittore alle prese con la frase: tra morsi e rimorsi la si potrebbe far continuare all’infinito, senza mai chiuderla… Proust scrive frasi lunghissime e suscita deliziose vertigini perché non sai dove andrà a parare. E’ rapsodico. E’ nella scrittura giornalistica, che spesso rovina gli scrittori che sono anche giornalisti, che si usano solo frasi corte. Temo che questo porti al nanismo della Letteratura, perlomeno della Letteratura in commercio. Ma perché dico queste cose, quasi dandomi la zappa sui piedi ? :-)

Postato martedì, 13 aprile 2010 alle 14:30 da Gianni De Martino


Mi sono scusato perché a volte, in un forum, si può facilmente incorrere nel rischio di sovrapporre istanze personali ( e a volte privatissime perché coltivato all’interno di un ambito di riflessione solo al soggetto trasparente) al libero e felicemente disordinato fluire della discussione collettiva. In questo si manifestano delle disparità d’orgine, anche molto concrete, ad esempio il tempo. Personalmente non avrei potuto partecipare con questa intensità se mi fossi trovato nel periodo in cui scrivevo il mio nuovo romanzo, perché questo inghiottiva il mio tempo di scrittura e di lettura, oltre possibile misura: un romanzo, anche quando non tratta di vampiri, vampirizza un autore, si insedia in lui come un Tempo Altro, che non è nemmeno risolvibile in tempo economico. Ad esempio se impiego una settimana di letture per approfondire il tema inerente a un capitolo e poi in sede di editing finale, decido di cancellare quel capitolo, economicamente “ho sprecato” una settimana di lavoro. Ma questo lavoro non è comunque lavoro sprecato dal punto di vista della conoscenza e dal punto di vista estetico. Da questo punto di vista il cinema mi ha educato a capire che ci sono fasi diverse di lavoro e tutte necessarie, ma soprattutto che un film è il film editato, non il materiale che si gira giorno per giorno, tuttavia senza quel materiale non si dà film.
Chiudo la parentesi. Attualmente sto invece lavorando a una sceneggiatura. La nota coppia di sceneggiatori Benvenuti/Bernardi, consigliava di non scrivere più di tre pagine di sceneggiatura al giorno. Io ne ho sempre scritte di più, ma resta vero che quando in un giorno si sono scritte da cinque a sette pagine di sceneggiatura, se si continua, il testo comincia a distorcersi, a prendere derive troppo letterarie, col risultato che poi le pagine aggiunte vanno quasi sempre riconsiderate e riscritte, se non gettate. Questo per dire, che quando si scrive una sceneggiatura, il ciclo lavorativo della giornata si riassume in meno ore. Mi resta dunque il tempo di coltivare questa “pericolosa” deviazione del forum. Per altri che partecipano a questa discussione o che hanno partecipato e se ne sono poi allontanati, o che si sono avvicinati nel suo farsi, ci sono condizioni di partenza diverse. Così spesso mi scuso, perché mi sembra di non considerarle nel dovuto modo. Non per istinto di presenzialismo, davvero, ma per il contrario cioè per la preoccupazione di non tappare la bocca agli altri e di non farli ritrovare spaesati quando collegandosi al forum dopo due giorni d’assenza, trovano la discussione avviata su tutt’altri temi. D’altro canto, hai ragione Gianni, che questi infortuni non casuali del caso stanno nelle caratteristiche del mezzo, che queste sono. In riferimento all’eventuale libro, io lo intendo non come qualcosa di sostitutivo a questo forum, perchè QUESTO resta il testo, cioè quanto abbiamo vergato e scambiato on line con tutta l’erranza più o meno ebraica del nostro esprimerci. Il libro è strumento diverso, nel quale questa preziosa caoticità, verrebbe di per sé alterata, non meramente riprodotta. Del libro eventuale sarà indubbiamente referente primo e responsabile Massimo che lo curerà e una qualche organicità o quanto meno piano di lettura dovrà disporla. Non sarà facilissimo, ma anche il criterio enciclopedico diventa arduo da applicare, perché l’enciclopedia a più voci, in costante interloquire, non è attualmente (ma posso sbagliare) rintracciabile che in rete. Dunque nessuno alla fine, nessuno di noi, potrà lamentarsi di scelte ad escludendum , perchè staranno nel criterio di Massimo, cui è saggio rimettersi. Chi volesse poi rendersi conto dello spartito originale, potrà sempre (credo) verificare nel forum stesso. Io ad esempio sarei per l’esclusione (in libro) non solo dei frammenti narrativi, ma ti tutti quelli, anche saggistici, scritti all’origine per un altro contesto. Però questa è opinione mia, non voglio interferire con scelte altrui. Proprio ieri mi è giunta una mail da un grosso editore che sta preparando una colossale antologia di testi della Canzone Italiana dal dopoguerra ad oggi (se non ho capito male). Mi si chiedeva nella mail, l’autorizzazione alla pubblicazione dei testi di due mie canzoni, non repertoriate in quanto mai da me depositate alla SIAE , direttamente o tramite editore. Avendole concepite al principio come di pubblico dominio (erano canzoni in qualche modo “militanti”) non ho avito dubbi nella concessione del diritto di pubblicazione. Mi ha però sconcertato (non conoscendo il curatore) il fatto che proprio quelle due canzoni io ‘ho sempre ritenute cascami , brutte sia musicalmente che poeticamente, non rappresentative della mia produzione, né significative per gli altri (al punto che nemmeno lo ho mai eseguite in concerto, se non in qualche minima occasione amicale e comprensiva). Quando uno se le vede scelte come esemplari, quando ai suoi occhi non lo sono affatto, si interroga inevitabilmente sui criteri del compilatore dell’antologia (che personalmente non conosco, né lui, né i criteri). Non resta che augurarmi che abbia la gentilezza di farmi capire perché per lui quelle due cosucce siano sembrate significative e di cosa… però questo non costituisce limite alla sua libertà di mettere nell’antologia quello che gli pare. Tutto qui. Non vorrei comunque che adesso nascesse un dibattito su come si potrà (tantomeno si dovrà) costruire un eventuale libro. Attendo anzi che l’ormai prossimo intervento di Altieri introduca una sana “altierità” a questo forum, trascinando con sé nuove voci dal Silenzio.

Postato martedì, 13 aprile 2010 alle 14:56 da Gianfranco Manfredi


… Entrare in un movimento creativo è una follia che si presenta come non-follia. Un tale movimento deve restare imprevedibile per non risvegliare la sognatrice o il sognatore. Dormire, sognare una bella addormentata, vagabondare come un flâneur , sembrano le vie della vera vita di un onesto e sano vampiro.
Ma il libro non è la vita e neanche un blog. Occorre quindi fare appello alla professionalità: naturalmente sono d’accordo.
Se ho evocato l’ « accavallamento » nel forum era perché mi sembrava una tipica figura vampirica. Molto cordialmente.
-
P.S. Scusate la deviazione, non facevo che passare…
Ma quando arriva il Direttore ? Non per dare un cordiale piolo sui piedi all’ Atteso, ma se fossi un flâneur – oppure uno di quei villani disoccupati che in certi film hollywoodiani si vedono accavallarsi nelle bettole di Bristol o di San Francisco a bere birra e attendere di essere imbarcati su qualche galera in partenza per l’Eldorado – direi : quando vuole lui.
Se, oltre che attendere ammantato di Silenzio nel Castello o in qualche suo Cielo, non facesse anche attendere, che Direttore sarebbe ? L’aspettiamo, Direttore ! :-)

Postato martedì, 13 aprile 2010 alle 17:52 da Gianni De Martino


Ci si potrebbe dividere in commissioni che (a loro volta strutturate in sottocommissioni ed esse in ulteriori cenacoli) predispongano il testo per l’eventuale pubblicazione cartacea.
Dopo un defatigante lavoro di alcuni anni, che porterebbe alla rottura di amicizie apparentemente consolidate e alla nascita di nuove irreversibili inimicizie, del testo non se ne farebbe nulla.
ANCORA SUL VAMPIRO:
sempre negli incontri a scuole, quando i ragazzi mi chiedono dove trovo le idee, dico che gli scrittori sono come i vampiri. Mentre Dracula & C arrivano di notte a succhiare il sangue, gli scrittori possono arrivare a ogni ora del giorno e della notte, a succhiare parole, odori, pezzetti di storie, frasi, fruscii, sorrisi, espressioni del volto, facce, tutto ciò che capita, per poi mescolarli.
E faccio qualche esempio di come ho “vampirizzato” piccoli o piccolissimi frammenti di vita per metabolizzarla e poi riciclarla nei libri.
Come un vampiro.

Postato martedì, 13 aprile 2010 alle 17:58 da luciano / idefix


Diceva Totò: a inventare sono capaci tutti, è copiare che è difficile! C’è ovviamente un copiare rozzo e sbagliato, a ricalco. C’è invece un copiare che non è copiare, ma è confluire nell’universo letterario che in quanto tale non appartiene a nessuno, nemmeno alla comunità degli scrittori. Questo “leggere per scrivere” (che ricorda la definizione di Feuerbach “L’uomo è ciò che mangia”), alimentarsi per alimentare, è tanto più importante (se ci fate caso) quando in un romanzo non accade nulla, in quelle zone di pausa fuori dal tempo delle azioni, che non sono e non devono essere vuoto descrittivismo, ma ad esempio rendere un clima psicologico attraverso qualcosa d’altro dalla psicologia del personaggio rappresentato, dai suoi pensieri, dal suo discorso interiore, attraverso un esterno che “dà, implica e forma”. Il problema non è fare una bella pagina “lirica” che so, su una nevicata. Anzi queste pagine molte volte ci paiono intermezzi fine a se stessi e tutto sommato rimuovibili, il cosiddetto “esercizio di stile” in cui l’autore vuol far vedere a tutti i costi “quant’è bravo”. Per un attore di parlerebbe di gigioneria. Però una scena sotto la neve è qualcosa di espressivamente molto diverso dalla stessa scena in una giornata grigia o assolata o di pioggia. Andarsi a vedere come altri scrittori hanno affrontato questo tema, quante letture e scritture possibili ci sono in merito a una giornata di neve o di nebbia, da un lato ci consente di arricchirci rapinando magari aggettivi fuori dal nostro lessico abituale o pieghe della frase che inseriscono una modulazione nel testo o sensi riposti che fatichiamo a rievocare nella nostra esperienza vissuta, dall’altro ci aiuta a trovare coerenza con il momento che stiamo descrivendo nel nostro romanzo e che si differenzia contestualmente dal percorso di un romanzo scritto da altri autori. Un pittore quando osserva il quadro di un collega non è un normale spettatore, non percepisce soltanto l’insieme e l’effetto che ha su di sé, ma va a vedersi le pennellate, studia gli impasti, cerca di capire come possa essere stato ottenuto quell’effetto. Poi cerca di impadronirsene, di copiare non quel quadro, ma quella tecnica. Quando questa tecnica è diventata risorsa poi la si può impiegare per un quadro che non ha nulla a che vedere il quadro che ci ha ispirato. Ecco perché trovo ridicoli i discorsi sulla sindrome della pagina bianca. Non sai come procedere, ti mancano all’improvviso parole? Invece di scrivere, leggi. Lasciati invadere dalle parole degli altri e troverai le tue. Difficile spiegare queste cose a scrittori dilettanti che usano la scrittura come sfogo personale. Un vero scrittore sa che la scrittura non appartiene esclusivamente a lui, anzi che il suo vero sforzo dev’essere quello di appartenere alla scrittura.

Postato martedì, 13 aprile 2010 alle 18:30 da Gianfranco Manfredi


Ennesima deviazione al tema: avevo iniziato a rispondere ieri sera ma l’ora mi aveva impedito di continuare e riprendo adesso. Nel ringraziare Gianfranco per le parole gentili e in attesa ansiosa dell’uscita del suo “Tecniche di resurrezione”, tornerei al discorso interessantissimo sul rapporto tra medici, assassini e società vittoriana. Per trovare la contrapposizione tra medici e vampiri dobbiamo attendere la fine dell’Ottocento: in una prima fase il medico resta piuttosto un personaggio equivoco complice o supporter del vampiro – come in “Varney” e più tardi nel “Vampyr” di Dreyer e nelle macedonie all monster. Sul tema, in stretto raccordo alle epopee dei procacciatori di corpi, ha probabilmente giocato anche l’abbinamento di successo nel teatro di lingua inglese, lungo il corso dell’Ottocento, tra le maschere di Frankenstein e del vampiro (il Lord Ruthven di Polidori, che però all’epoca dilagava in letteratura con una fluidità che già preannuzia i mille volti di Dracula). A metà degli anni Venti i ruoli principali erano interpretati in palcoscenico a Londra da un unico attore – Mr. Cooke – ed era inevitabile che le trame di queste due trasposizioni un po’ ingenuotte e lunghissime (testimoniano spettatori) finissero col compenetrarsi.
A determinare il cambiamento di status dal medico “sospetto”, detentore di conoscenze misteriose e plausibile complice di vampiri più o meno sovrannaturali, a quello che invece i vampiri li caccia, sono insieme dati storico-sociali, l’impatto del positivismo e la sua capacità di dialogare e ibidarsi con (ciò che consideriamo) l’irrazionale. L’Apollonio di “Lamia” di Keats è un personaggio piuttosto odioso, molto lontano dal benevolo filosofo-mago della tradizione; ma da quelle origini un po’ bizzarre ed equivoche sorgeranno prima i dottori di Le Fanu – senescenti, inefficaci… a partire dall’indagatore-bluff Hesselius di Le Fanu – e in seguito il Van Helsing di Stoker, progenitore di una variegata stirpe di detective dell’impossibile. E a questo punto il Ballo Excelsior di eroici professionisti (medici, avvocati, eccetera – rilettura giovane e aitante degli anziani, perplessi e vampireschi medici, funzionari, eccetera di “Carmilla”) può compattamente schierarsi contro Dracula.
Nel caso dello Squartatore, che la galleria teratologica della fiction di oggi ha ormai compiutamente assunto a fianco dei mostri classici (con quanto di mitologico ciò comporta), troviamo uno dei primi – e forse il primo – eroe nero urbano dell’età moderna. “Urbano” nel senso di un legame fortissimo e non meramente accidentale con lo spazio d’azione: al punto che il suo caso segnerà una massiccia ridefinizione edilizia, con interi isolati abbattuti o ridisegnati. Certo, da sempre nelle città c’erano zone out, malfamate o pericolose, e anche Hyde, il Nascosto – in tutti i sensi – si muove lì. Ma, appunto, era la dimensione del Nascosto; mentre con Jack, sull’onda di una generale presa d’atto dell’abisso di orrori sociali di Whitechapel (non scevra di risvolti paternalistici), i lettori scoprono che il Castello Maledetto ce l’hanno in città. L’estrema Otranto, gli Appennini e la Grecia dei vampiri paleogotici, le Germanie dell’anima, tutta quersta geografia gotica all’improvviso precipita in modo perturbante in una definita geografia della città “civile” – anzi, in quella Londra che si presenta come Capitale della Civiltà. In qualche modo è questo a preparare l’arrivo di Dracula dalla Transilvania a Carfax: un transito che non è solo un viaggio geografico, ma un passaggio dell’immaginario.
Ma torniamo al Mad Doctor: il doppio/ombra del castello di Dracula è infatti anzitutto (come evidente nell’uso degli spazi del romanzo, probabilmente in vista di una vagheggiata versione teatrale) proprio il manicomio del dottor Seward. E a parte il matto “professionale” Renfield e lo status specifico di alterazione mentale recato dal vampirismo, un po’ tutto il fronte dei “buoni” giace sotto il dubbio della sragione: la sonnambula Lucy e l’ipnotizzata Mina appartengono all’unico genus delle “sonnambule meravigliose” mostrate all’epoca come spettacoli da baraccone nei salotti borghesi; il medico dei pazzi Seward è dedito all’uso di stupefacenti; Harker appare tanto provato dall’avventura al castello che sua moglie si preoccupa del suo stato mentale; la moglie di Van Helsing è demente; e lo stesso Van Helsing precipita in una clamorosa crisi isterica che in genere nelle trasposizioni su schermo viene dimenticata o volta, come in Coppola, nel segno di un’eccitazione fanatica. Mentre ha probabilmente un altro significato: Van Helsing rivela quell’isteria/“male delle donne” (stiamo parlando, non dimentichiamolo, degli stereotipi vittoriani) che non lo classifica come asceta – come invece sarà spesso nel cinema, in particolare nell’interpretazione Hammer del caro e rimpiantissimo Peter Cushing – quanto come fool/sciamano/iniziatore che travalica la caratteristiche del suo sesso in relazione al ruolo che svolge. (Fenomeni di travestitismo o inversione sessuale legati a una condizione sciamanica o a un contesto iniziatico sono abbondantemente documentati.) Caratteristiche che del resto il sessualmente equivoco Dracula, sciamano cattivo e portatore di una ben diversa iniziazione, vira “in nero”, e in relazione a un turbinoso Indicibile legato alla sessualità. D’altra parte il conte stesso si propone come iniziatore di una nuova età – un Adam Dracula, insomma… e torniamo al tema degli Adami.

Postato martedì, 13 aprile 2010 alle 18:43 da Franco Pezzini


Abbiamo parlato parecchio ultimamente nelle pieghe di discorsi indirizzati ad altro della paura (maschile, ma non solo) della passività. Il nostro tempo tende a rafforzarla perché tutti vogliamo essere attivi, anche se questo frenetico attivismo non ci porta da nessuna parte, anche se questo protagonismo ossessivo si risolve poi in depressione, da combattere a tutti i costi e in tutti modi, cocaina, ansiolitici, scariche d’adrenalina eccetera. Allontaniamo così da noi quell’idea classica della creatività artistica come possessione, come originata cioè dal lasciarsi possedere. Ogni musicista sa per esperienza che ci sono periodi e sono sempre i più intensi espressivamente in cui si è letteralmente posseduti dalla musica. Poi ci sono lunghe fasi in cui nonostante la fatica, l’impegno, le tecniche maturate, la maggior consapevolezza compositiva, non si esprime musica contagiosa per il semplice motivo che nessuna musica ci ha a nostra volta contagiato. Un conto è preparare un virus in laboratorio per poi diffonderlo. Tutt’altro conto è diffonderlo per contatto diretto, perché noi stessi ci siamo lasciati infettare. Con la parola scritta che è più mediata del suono, questa necessità di abbandonarsi e di lasciarsi possedere ci pare meno indispensabile. Ho sentito uno scrittore di successo dire: quando si ha una buona idea di partenza e un buon finale, il resto è pura fatica manuale di battitura. Be’, sarà anche un campione del best-seller, ma nessun vero scrittore sottoscriverebbe una cazzata del genere. La storia, i personaggi, le situazioni, il modo e le pieghe della scrittura non possono venire ridotte a scaletta, devono trascinarsi. Il contagio avviene (o non avviene) al momento della lettura, non della vendita del prodotto ben confezionato per il gusto medio dell’utenza. E si contagia quanto più ci si lascia contagiare dalla scrittura stessa. Nella possessione la “fatica manuale di battitura” non esiste. Ci si accorge di aver faticato solo dopo, scrivendo ci si abbandona al piacere.

Postato martedì, 13 aprile 2010 alle 18:52 da Gianfranco Manfredi


L’intervento accavallato e più che benvenuto (lo aspettavo da ieri) di Franco, ancorchè deviare illustra un punto: non solo chi scrive, ma anche i personaggi (quelli di Dracula in particolar modo) sono posseduti. Tutti. Il fascino dei posseduti sta anche in un elemento reale quanto respinto dalla nostra vigile consapevolezza: la città ci possiede (cominciamo a comprenderlo soltanto quando ci opprime, altrimenti rimuoviamo); la società, le norme, le abitudini, ci possiedono. Un personaggio letterario “creato” , quando è riuscito pare sorgere autonomo dalla pagina, pare quasi essersi scritto da solo. Ma è sia all’origine che alla fine un posseduto, all’origine dallo scrittore, alla fine dal lettore che lo fa proprio, anzi dai lettori che lo fanno proprio moltiplicandolo in infinite fattezze. Una letteratura senza possessione , fosse anche letteratura d’azione (dunque attiva per presupposto), non riuscirà mai ad avere sufficiente forza da potersi trasmettere al di là dell’oggetto libro. Comprando un libro noi ci impossessiamo di un oggetto. Ma se questo oggetto non ci possiede a sua volta, abbiamo solo aggiunto un oggetto ai tanti altri che ci circondano e che prima o poi dovremo buttare per fare spazio ai nuovi.

Postato martedì, 13 aprile 2010 alle 19:08 da Gianfranco Manfredi


Gianfranco dice una cosa sacrosanta (almeno per me…magari altri sarebbero in totale disaccordo): il piacere della scrittura.
Esempio: il racconto horror che sto terminando su Phil Spector e Charles Manson. Ne ho scritto prima l’inizio, poi il finale. A quel punto mi sono detto: “che palle, so già tutto e mi restano solo le parti di raccordo”
Ovviamente (ma un pezzo di me già lo sapeva) sbagliavo di brutto: perchè adesso me la sto godendo a lasciarmi trasportare dall’io narrante di Spector. E CONOSCERE benissimo la conclusione aumenta (non diminuisce) il mio piacere di scrittura.
Capita di passare ore a scrivere, immersi nella storia e nei personaggi, senza sentire fatica nè sete nè fame nè pipì nè nulla.
E poi ci si alza e sì, certo, si è a pezzettini.
Ma dopo. Non durante.
Come quando si fa l’amore: a una certa età, i muscoli fanno male e le giunture scricchiolano.
Ma dopo. Non durante.

Postato martedì, 13 aprile 2010 alle 20:38 da luciano / idefix


Qualche annotazione sulla SCRITTURA E LA TRANCE

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… scrivendo ci si abbandona al piacere ( Gianfranco Manfredi). Era quello che osservava anche Moravia, quando diceva di provare un “senso di eternità” più nell’atto dello scrivere che per i libri pubblicati. Numerosi scrittori potrebbero essere d’accordo ( ne conosco però alcuni che affermano di non essere tra quelli che provano piacere nello scrivere e dicono anche che se si gode troppo, poi, sulla carta, il risultato non è tanto buono). Se si gode troppo poi il testo galleggia?
In letteratura, esistono poche descrizioni di sé in quanto scriventi, generalmente auto-ironiche… C’è una fatalità nell’attacco della prima parola. E’ come una specie di HELP ! – come si vede nei fumetti. O come quando Rimbaud esclama: ” A me, una delle mie follie!” – un’esclamazione che ricorda l’entrata in scena di Amleto ossessionato dallo spettro del padre: ” Presto, presto, dove sono le mie tavolette per scrivere!”
C’è una come una fatalità e poi, dopo la prima parola una forza sconosciuta, una visitazione di energia, un vero e proprio impulso scrittorio quasi impongono il testo e – come voci di un coro, di un mormorio lontano – guidano la penna; tanto che il volto, mettiamo, di un vampiro che prima ti guardava muto dal di dentro ti esce dalle mani capovolto e ti guarda dal di fuori: dallo specchio d’inchiostro o di bit, ma sembra e non sembra uscito proprio da te.
L’atto dello scrivere si configura come caso e causa di un certo sdoppiamento del sé. Nella sospensione momentanea della vita cosciente del soggetto-che-scrive, può talvolta manifestarsi parallelamente una nuova personalità, differente dalla sua personalità abituale.
Si può dire che l’autore è spossessato della sua persona, nello stesso tempo in cui viene invasa dal personaggio, che è un essere di linguaggio…
Questo “essere di linguaggio” sembra non volere altro che un modesto pasto di parole fredde, e però ti succhia parecchio sangue, il tempo, lo spazio… Ecco perché zio Bourroughs chiedeva, ironicamente: “Avete bisogno di parole?”
Nello scrivere oltre, sempre oltre, sei in uno stato simile alla trance.( Benché abbia già paura a scrivere da tempo, oggi credo di non aver paura a dirlo.)
Indietreggio davanti alla confessione di considerarmi un posseduto… Certo non perdo coscienza e mi tocca sorvegliare le parole, non solo le emozioni e i sentimenti. O perlomeno posso riprenderla a volontà, la coscienza; ma non sono forse in relazione con qualcosa che mi è “esterno” ?
La possessione si presenta sotto due grandi forme: essa può essere “sonnambolica” ( come quella evocata da Pezzini) oppure “lucida”. Nella prima si ha la perdita della coscienza dell’Io. Nella “lucida”, al contrario, il soggetto resta cosciente di ciò che gli succede. Sente l’”estraneo” all’interno del proprio spirito e lotta attivamente contro l’intruso senza tuttavia mai pervenire a impedire le sue manifestazioni. “Fatto” dalla lingua e tarantolato dalla scrittura, lo scrittore talvolta appare ai propri familiari ( chiedetelo alle mogli, ai mariti o ai figli degli scrittori) simile all’indemoniata di Kemer che ha descritto il suo stato come segue:
” Fui obbligata (…) a gridare, a piangere, a cantare, a danzare, a rotolarmi per terra e a torcermi spaventosamente; dovevo proiettare in ogni direzione la mia testa e i miei piedi, dovevo strillare come un orso..”
E spiega:

” Non sono mai assente, so sempre ciò che faccio e ciò che dico ma non posso in nessun modo esprimere ciò che voglio; vi è qualcosa in me che lo impedisce… E’ dunque di mio grado che m’abbandono al potere del Maligno e lo lascio sfuriare, perché solo così posso trovare un po’ di riposo…”.
Quando, al contrario, si resiste a lasciarsi possedere dal proprio demone scrittorio, per via di qualche piccola ferita, anche narcistica, volendo, può capitare che qualcosa incominci a gemere e a balbettare, mezza soffocata dai singhiozzi come la povera Mina, ormai diventata signora Harker: ” Contaminata, contaminata!”.

Oppure ci si blocca. (” Se scrivo questo, cosa pensaranno di me?”). Allora si cancella, oppure si butta tutto nel cestino. Per poi ricominciare, alla successiva occasione ( possessione?) scrittoria.
Allo stesso modo un altro “posseduto”, Sigmund Freud nella lettera a Fliess del 7 luglio 1897, alle soglie della scoperta dell’analisi e della messa a punto della tecnica del transfert:
” Non so ancora che cosa mi stia accadendo. Qualcosa dai più profondi abissi della mia nevrosi è venuto a impedirmi un’ulteriore comprensione delle nevrosi e in qualche modo tu c’entri, non so perché. La mia paralisi nello scrivere sembra fatta apposta per ostacolare i nostri scambi. Non ho prove per questo, ma solo sensazioni di natura oscura.”
E aggiunge, come l’analizzato dilombato su un divano ( un divano che a quella data non era stato ancora predisposto) ebbene aggiunge: ” Senza dubbio hanno contribuito il caldo e l’intenso lavoro.” Freud era posseduto dal dèmone dell’interpretazione. Attribuisce la sua paralisi nello scrivere al “caldo” e all’ “intenso lavoro”. “Senza dubbio” ?
Dove Jung parlerebbe di possessione da parte di qualche archetipo, Freud parla di “angoscia” ( la cui vera sede è l’Io) e di “nevrosi”. E scoprie un Inconscio diverso dall’Inconscio abissale dei romantici. L’Inconscio scoperto da Freud si dà infatti in uno spazio umano, uno spazio relazionale in cui si mettono a confronto due persone, insieme ai fantasmi di cui sono portatori: ” Qualcosa dai più profondi abissi della mia nevrosi è venuto ecc. e in qualche modo tu c’entri, non so perché”.
E’ il modo che ha Freud di generare da sé i propri limiti, il proprio significato umano – forse necessariamente unilaterale. E tramite un intenso lavoro e l’opera conoscere il proprio peso specifico, mettendolo alla prova sulla scena di uno spazio umano e della storia diurna.

Cosa mettere? Cosa togliere? Un lavoro immenso che mette in gioco la veracità e la scelta morale di uno scrittore, secondo istanze che sembrano risalire alla venuta alla luce e al formarsi dello psichismo umano e dell’immaginario.
Fu quando la luce si trasformò in “giorno” ( non senza un resto di tenebra) e il buio si traformò in “notte”, dando luogo ai primi balbettìi, ai primi canti, alle parole e – con l’invenzione dei geroglifici e poi dei bastoncini – alle prime decisioni di linguaggio e di scrittura.
Volevo solo dire che nel passaggio tra la scena dell’inconscio e quella della storia, c’è un lavoro alle fonti di energia interna, che è esattamente l’atto dello scrivere. Un atto raramente investigato, che tuttavia fa parte di quell’attività che chiamiamo Letteratura.
Naturalmente l’ atto dello scrivere è estremamente vulnerabile e si compie sotto la linea di galleggiamento dell’opera, in condizioni di spirito simili all’oscillare dell’ago di una bilancia.
Ascolti quello che ti si detta dentro ( posizione ricettiva, passiva, femminile); e quasi nello stesso tempo scrivi ( posizione attiva, maschile).
Ad ogni a capo, ad ogni morte e resurrezione nello spazio bianco, resti per un momento sospeso, non del tutto in mano a te stesso, ma – se non proprio a pezzettini – come penna davanti al tuo vampiro.

Postato martedì, 13 aprile 2010 alle 21:45 da Gianni De Martino


Per qualcuno scrivere è un piacere, come quando si fa il bagno o l’amore, e si nuota, si nuota senza sentirsi ostacolati da alcunché.
Non si arriva in nessun posto, l’immensa distanza ci attraversa, eppure si produce un testo.
Non proprio come fa l’uovo ( magari d’oro) la gallina, ma quasi.
Fatti e non fatti dalla lingua ( “fatti”, come si dice nel gergo dei drogati),
dopo essersi gettati da sé in un angolo a scrivere, ci si sente a pezzettini – specialmente a una certa età – ma felici.
La condivisione di una tale fragile felicità – oltre che la condivisione della fame e della sete – non è forse la migliore compagnia?

Postato martedì, 13 aprile 2010 alle 22:22 da Gianni De Martino


Per quanto riguarda il progetto libro che potrebbe nascere da questa discussione, non c’è dubbio che richiederebbe parecchio lavoro. Ragazzi, forse non lo sapete ma… avete scritto circa 370 pagine (formato A4, times new roman 12). Giusto per rendere l’idea.
;)
Certo non è detto che possa interessare a qualche editore, ma il mio ottimismo non de-morde nemmeno di fronte ai vampiri.

Postato martedì, 13 aprile 2010 alle 22:35 da Massimo Maugeri


Seducente l’indagine della scrittura di Gianni. Vorrei aggiungere che in questo “lasciarsi possedere” dello scrittore , in questa , come dice bene Gianni, “vulnerabilità sotto la linea di galleggiamento dell’opera”, si attua una fuoriuscita dall’Io che è scoperta della molteplicità dell’Io. Ne “Il mio nome è rosso” di Pamuk, vi sono molti “io narranti”. L’io-scrittore diventa non solo io-personaggio, ma io-animale, io-cosa, io-colore. Un capitolo è scritto dal punto di vista di un cane, un altro da quello di una moneta, un altro ancora da quello di un colore. Lo stesso procedimento tipico dell’attore (trovarsi rappresentando un altro da sé) viene moltiplicato al di là del corpo fisico. Si ritrova l’infinita molteplicità dell’Io. Un’identità metamorfica, vagante, ma non per questo sperduta, perché sorge piuttosto, nella nostra esperienza, come ritrovata. Questo modo di vivere, prima ancora che di pensare, la scrittura, si oppone radicalmente al sentimento contemporaneo dell’Io come Identità auto-definita. Una scatola chiusa, una prigionia nell’Immagine autocostruita di sé. Nella letteratura minimalista degli anni 80 questa seconda idea è parsa trionfare. Lo scrittore mette in genere in scena se stesso. La descrizione esteriorizzata, allo specchio, di questo Io, va a definirlo e circostanziarlo tramite l’attribuzione di una serie di gadget, di cui vengono minutamente nominate le marche. Il sé si esprime e si espande nell’oggetto di consumo che caratterizza l’individuo, rendendolo compiutamente riconoscibile, a sé e agli altri. Nel mentre crede di “tenersi stretto a sé”, questo Io non espanso, che è al di qua da ogni relazione con gli altri, con il paesaggio, con le cose non risolte in “marche” ma “oggetti d’uso” , è alienazione posseduta dalla merce. L’Io stesso, lo Scrittore stesso, si realizza come Merce. Non più l’opera, ma lo Scrittore diventa il centro dello scambio. Lo Scrittore promuove se stesso, vende se stesso, attraverso l’opera. L’opera non si realizza come altro da sè, come cosa “fuori di sè” (per dirla con Hegel) , ma come attributo dell’Io. Il faccione dello Scrittore viene continuamente riproposto nelle pubblicità. Non sappiamo più se ciò che ci sollecita è Gomorra o Saviano, il teatro di Paolini o Paolini. L’Io-immagine ( non si prescrive forse di “curare la propria immagine”?) si muta in feticcio della merce. Adorabile o detestabile non importa (“Molti nemici, molto onore”, “Non è importante che si parli bene o male di te, l’importante è che se ne parli”). Ogni narrazione biografica diventa una malintesa autobiografia. L’autobiografia alla Rousseau (La confessione) diventa calendario di esperienze simulate o presunte vere perché minime e schiave del quotidiano, riconoscibili in quando di tutti e di nessuno. Per scrivere un’autobiografia, un tempo, era consigliabile aver vissuto un paio di guerre mondiali, la fame, la povertà, l’emarginazione, il dislocamento, le esperienze estreme. L’Io in bozzolo , autoriferito, è tanto più autobiografico quanto meno ha sperimentato e vissuto, quanto più si identifica nella propria mediocrità scambiabile. La nascita dello Scrittore Non Leggente si insedia in questa Idea Minima dell’Io che è incapacità di accogliere l’Altro da sé, che nega all’origine il senso stesso della scrittura (perché nello scrivere quell’Io che si proietta sulla pagina è comunque personaggio e cioè Altro). Il vissuto sessuale ha una sua importanza da questo punto di vista. In un libro dell’analista Marina Valcarenghi si documenta di molti “amanti” (maschi) che riescono a venire soltanto se si masturbano. Uno di questi pazienti spiega: “così so a cosa vado incontro e posso regolarlo, altrimenti (se lascio che il mio piacere sia “prodotto” da un altro) NON SO COSA MI SUCCEDE.” Una metafora sessuale risuona anche in una frase tipica dell’indicare il perché un libro ci è piaciuto o non ci è piaciuto: “Mi ha preso, non mi ha preso.” Frase femminile. Non è un caso che il lettore maschio tenda a scomparire,oggi quando parliamo di lettori, parliamo soprattutto di lettrici. Eppure anche il maschio più etero dei maschi, sperimenta il brivido del “libro che non si riesce a mollare”, perché quella narrazione ti ha posseduto. Perché dunque negarsi questo piacere? Non c’è Schiavitù nella concezione dell’Io come dominatore del Sè? Quest’Io che presume di essere Padrone di Sè è Auto-Schiavista. E’ un Io vuoto di senso. Il pronome stesso è vuoto, come ha osservato finemente Deleuze. Le parole INDICANO qualcosa. IO non indica nulla. IO non è nessuno in particolare. Qui si realizza la scelta: tra un’indeterminatezza dell’Io che consente di essere qualunque cosa, qualunque altro soggetto, fino a fondersi nel racconto con “il Tutto tramite i Diversi”, e un Io che del proprio non-significante, del proprio Vuoto di senso, fa unico e indispensabile presidio dell’Identità. Un’Identità che è Equivalente generale. Tutte le cose, tutte le persone sono identiche in quanto si esprimono nel proprio valore di scambio. Nulla di più lontano dall’idea (sì, anche evangelica) del dono di sé, perché questo stesso sé ci è all’origine stato donato. Ma senza senso del dono reciproco, del donarsi in quanto doni, il Mondo Esterno diventa il Nemico.
Il Resto, Tutto il Resto, è ansia, angoscia. L’orrore è Là Fuori. “La cosa che striscia oltre la soglia” (come scrisse Lovecraft).

Postato mercoledì, 14 aprile 2010 alle 10:07 da Gianfranco Manfredi


In una vecchia canzone (Mass Media) avevo scritto questi versi: “e la cosa che striscia sulla porta di casa, ha uno strano sorriso, uno sguardo d’intesa, e ci dice che inizia una nuova stagione, dove il mondo di cose ridiventa persone.”

Postato mercoledì, 14 aprile 2010 alle 10:22 da Gianfranco Manfredi


Scrivere narrativa è una delle tre esperienze più vicine a Dio che io conosca.
(Le altre sono fare leggere e far l’amore con la persona che amo)
C’è però una grande differenza (tre aspetti del divino complementari).
- L’amore ci fa sperimentare la gioia, dandoci un assaggio della Beatitudine e della piena condivisione del piacere.
- La lettura ci fa provare una duplice esperienza: viviamo le vite di altre persone pur restando noi stessi, entriamo nella mente e nelle azioni di altri pur rimanendo noi. E tutto ciò ci cambia: non si esce dalla lettura di un libro (o fumetto) degno di questo nome senza venirne modificati.
- La scrittura ci fa assaporare (in modo surrettizio e dal buco della serratura) la Creazione e la Trinità. Nel momento in cui scriviamo, siamo contemporaneamente lo Scrittore che scrive una storia, il lettore che legge quella storia, il Personaggio che vive quella storia.

Postato mercoledì, 14 aprile 2010 alle 11:43 da luciano / idefix


Leggendo Gianfranco Manfredi ( nell’attesa del Direttore) vien voglia di scrivere.
Ho in mente il progetto di un testo sull’atto dello scrivere dal titolo Lo scriba e il tiranno 2 ( si tratta della ripresa di un precedente testo dallo stesso titolo apparso nella rivista di analisi materialistica Il piccolo Hans n. 77, primavera 1993, pp. 171-203).
Lo scrivo a parte, non qui, perché in un blog poi non posso correggere. Nello scrivere – una volta fissati i limiti della fedeltà alla grammatica e alla sintassi, e del disinteresse – vado incontro all’imprevisto e mi piace non essere ostacolato da alcunchè, come per l’amore.
Nell’organizzare il lavoro, invece, pratico un’antica tecnica classica:
1) dopo la doccia e un caffè gettarsi da se stessi in un angolo ( isolarsi);
2) disporsi ( prima che mia moglie mi lasciasse, diceva ai bambini:”Ssst, papà scrive”, e alle amiche: ” Che palle quello là! scrive anche di notte!”);
3) immaginare ( lasciarsi possedere da quelle visitazioni di energia che i Greci chiamavano Muse, offrendo loro mani, bocca, orecchio e il tutto di sé in obbedienza a una strana vocazione che potrebbe anche apparire come una maledizione);
4) scegliere;
5) scrivere ( a me piace il verbo “vergare”, suggerisce l’immagina di una penna-fallo sottratta per un momento alla castrazione);
6) lasciar riposare;
7) correggere.
Adesso sono tra due porte, in partenza per Bologna, per il Cosmoprof ( sono molto interessato al mondo degli odori e dei loro fratelli più nobili, i profumi – qualche anno fa sono andato in Messico, fra gli indiani Totonachi, per visitare le coltivazioni di vaniglia). Scriverò Lo scriba e il tiranno 2 al ritorno da Bologna, insciallah.
Per il momento vorrei solo aggiungere qualcosa sul sacrificio.
Nella vita, così come nell’ atto dello scrivere, occorre sacrificare la follia di onnipotenza e accettare umilmente e con umorismo questo luogo eteronimo ( che è un Tutt’Altro, un’Assenza, un Invisibile all’origine di una legge umanizzante).
E’ come se per smetterla di essere pazzi, bisognasse accettare la presenza, in noi, di quella Cosa, di quel significante in riferimento al Creatore che nessuno di noi è.
Restando fedeli alla parola, il quotidiano si apre all’inaudito. E la maledizione dello scrivere – questa specie di obbligazione talvolta tiranna e vampira che si sprigiona dal Silenzio e ti trascina verso questo vizio impunito, se non penoso, di una scrittura e una lettura dalle quali ti sarà quasi impossibile liberarti – potrebbe trasformarsi in benedizione, in un ben dire, un dire bene.
Basta questo, mi pare, per salvare la giornata e la stagione che, ancora una volta, si vive e che non comprenderemo mai nel suo gratuito accadere e donarsi, nel suo splendore ( anche se, banalmente, piove) e nella sua fragile felicità – a meno di scrivere.
Vorrei infine segnalare un libro del compianto amico e maestro Georges Lapassade, con il quale ho condiviso studi sugli Stati Modificati di Coscienza ( SMC) e ricerche, anche sul campo ( Tunisia, Marocco, Puglia) , sui cosiddetti riti di possessione. S’intitola “La scoperta della dissociazione. Un viaggio nella pluralità di stati della mente”, Modugno ( BA), Controluce-Salento Book, 2009.

Postato mercoledì, 14 aprile 2010 alle 13:02 da Gianni De Martino


Anche leggere Luciano, Pezzini e tutti gli altri “posseduti” , fa venir voglia di scrivere… :-)

Postato mercoledì, 14 aprile 2010 alle 13:14 da Gianni De Martino


Io suggerirei anche di rileggere sempre a voce alta ciò che si è scritto.
Soprattutto per i dialoghi, una “ripassata a voce alta” è impietosa nel far emergere ciò che non funziona, ciò che stride, le cadute di ritmo, le falsità di tono, la non aderenza al parlato, i rami secchi, la roba da tagliare eccetera.

Postato mercoledì, 14 aprile 2010 alle 19:20 da luciano / idefix


Una cosa orrendissima che chi ama i libri capirà:
stasera avevo voglia di rileggere Magico Vento cominciando dal primo episodio.
Così ho preso la scaletta e mi sono arrampicato fino allo scaffale dove c’è la collezione completa di MV, vicino (disposizione casuale ma ormai definitiva) ai romanzi di Sanantonio e di Jack Vance. Allungo la mano per prendere il fascicolo iniziale e…orrore! Mi accorgo che mancano tutti quelli dall’1 al 10.
Che fine hanno fatto?
Prestati? E a chi?
Oppure rubati dai tremendi Folletti delle Librerie?
Comunque sia, non ci sono più.

Postato mercoledì, 14 aprile 2010 alle 20:41 da luciano / idefix


Molto bello il tema dello scrittore posseduto. Il respiro/spirito dell’ ‘ispirazione’, la forza di certe irruzioni dal profondo, la categoria stessa dell’ossessione che cifra taluni ritorni tematici possono in fondo richiamarsi a quest’unica grande, variegata costellazione. Il veggente è in genere un posseduto dalla visione, più “passivo” che “attivo”: e senza scomodare poeti-vati o altre figure dell’Italia letteraria più paludata, una dimensione di veggenza/visionarietà connota un po’ tutte le esperienze di narrazione – che per quanto realistica, veristica, naturalistica è sempre trasposizione al Fantastico. E il narratore un Gerione, soggetto necessariamente moltiplicato e scisso (in maschere, identità, sogni…) sul limitare di quell’Occidente interiore in cui ci confrontiamo coi (non-)morti e la finitezza.
Nel concordare sostanzialmente con le riflessioni su scrittura e scuole di scrittura, mi viene in mente un discorso emerso negli anni Ottanta, quando l’editoria italiana si stava aprendo all’Europa dell’Est, in un’intervista con un autore di quell’area (mi pare fosse Brandys). A suo dire, le parole in Occidente avevano subito una sorta di logorio e svuotamento – e in effetti da noi trionfava il minimalismo alla Io, Me & il Mio Ombelico – mentre nell’Est la drammaticità stessa della Storia aveva permesso di mantenere loro un sofferto significato, per così dire un diverso peso specifico. Forse non aveva utilizzato quest’ultima espressione, ma mi pare ch’essa fornisca implicazioni interessanti. In ebraico, il termine per indicare la “gloria” (concetto in italiano un po’ sfuggente) è kabôd, da una radice che significa appunto “essere pesante” – quale “segno esteriore che manifesta lo splendore, la ricchezza, la potenza degli uomini e delle cose” (Giorgio Girardet, Gloria, glorificare, in: Dizionario Biblico, a cura di Giovanni Miegge, Claudiana, Torino 1984, pag. 303): e il richiamo sembra molto bello e rivelativo di un significato e un’importanza concreta. Il recupero di senso e peso specifico delle parole e la capacità di smontare certe artificiose costruzioni con le medesime, di valorizzarne il potenziale nel senso di un dialogo “sano”, di individuare percorsi impliciti ma non così evidenti, pare – tanto più oggi – un eccellente programma per qualunque scuola, e non solo di scrittura.
Ma, a parte questo fronte generale, ne esiste un altro più particolare per noi che dibattiamo di vampiri. Di creature cioè che parlano il linguaggio del mito, scandito da ossimori solo a tratti avvertiti, popolato da immagini solo a tratti definite… Un linguaggio che rimonta a un passato profondamente meticcio – lo siamo molto più di quanto possiamo sospettare, a partire dalle paure – e ci costringe a guardare come dal parapetto su un abisso. Intendiamoci, possono esserci miti “moderni” nel senso di una recente strutturazione, ma le strutture e gli “ingredienti” affondano tra le radici prime di ciò che siamo. E il dar voce a queste istanze, per quanto in termini necessariamente e “attivamente” controllati (trama, stile, eccetera), esprime qualcosa che va oltre la nostra singola persona – e con connotati, immagini, richiami arcaici che filtrano in modo un po’ misterioso anche attraverso le maglie di un approccio lucido e razionale. L’ennesima “possessione”, insomma: e se le cause possono essere varie, Jung avrebbe parecchio da dire…

Postato mercoledì, 14 aprile 2010 alle 23:03 da Franco Pezzini


@ Gianni
Qui non ci sono Direttori.
C’è solo un uomo con la camicia celeste (per giunta sbottonata a mostrare il collo scoperto).
;)

Postato mercoledì, 14 aprile 2010 alle 23:11 da Massimo Maugeri


Ancora un’osservazione sullo “scrittore posseduto”.
Bisogna stare attenti a non scivolare nell’immagine romanticheggiante dell’Autore (tutto maiuscolo) in preda alla bufera dell’Ispirazione (anch’essa maiuscola), un Autore che senza quell’Ispirazione non esisterebbe e non saprebbe scrivere una frase nè mettere insieme due note nè stendere una pennellata sulla tela.
Non è proprio così.
Se è importante e bellissimo abbandonarsi alla “possessione” quando si “crea” (uso questa parola così inadeguata), è altrettanto importante e bellissimo diventare freddi e lucidi dopo. Quando ci si trova davanti il materiale scritto “durante la seduta”. E su quelle pagine deve intervenire non più la Musa (altra parola inadeguata ma la uso perchè è la prima che mi viene in mente, perchè sto scrivendo in “possessione”) bensì la “riflessione”.

Postato giovedì, 15 aprile 2010 alle 08:49 da luciano / idefix


@ Luciano. LEGGERE AD ALTA VOCE QUANTO SI E’ SCRITTO. Questo consiglio lo dava anche Grazia Cherchi che è stata la più grande editor italiana. Leggendo ad alta voce si rende evidente se c’è nel testo qualche passaggio contorto, qualcosa di poco espressivo, bisticci sonori, parole “impronunciabili”, ridondanze ecc. Anche con questo esercizio operiamo inconsapevolmente un Ritorno, cioè a quel che di “Omerico” che si nasconde in ogni narrazione, quella destinazione ORALE del testo che abbiamo gradatamente smarrito anche se le sue propaggini sono giunte fino al secolo scorso quando in alcune famiglie ancora si leggevano i romanzi ad alta voce, in chiesa si leggeva la Bibbia ad alta voce, a Scuola si leggevano brani letterari ad alta voce e si imparavano Poesie a memoria, per poi dirle più che recitarle. Ad alcuni oggi questo può apparire quasi stupefacente: le letture teatrali di testi sembrano una forma Nuova, tanto che si definiscono “Teatro di Parola” . Una mia amica, dopo una Lectura Dantis di Benigni commentò ammirata: “Sa tutto il canto a memoria!” Mi venne da ridere perché gli attori DEVONO imparare un testo a memoria, da sempre. E se un Canto si chiama Canto, non è per caso. Solo che nella recitazione di una commedia per misteriosi motivi l’imparato a memoria, lo si avverte meno, mentre nella recitazione o semplice dizione di un brano letterario spicca a chi ascolta, quasi come un esercizio da giocolieri. Il motivo di questo stupore è che NOI non impariamo più i testi a memoria. Dunque le PERSONE-LIBRO che appunto imparano testi a memoria per poi ripeterli, ci sembrano anch’esse Figure Nuove. Si tratta invece di un Nuovo che riconduce nemmeno all’antico, ma al passato prossimo. La Maestria dell’Attore aveva come risvolto una NECESSITA’ popolare. Gli appena alfabetizzati che faticavano nella decifrazione di un testo scritto, lo leggevano ad alta voce per aiutarsi nell’impresa e ad ogni rilettura il testo si faceva più evidente, fino a scorrere fluido quando assorbito dalla memoria veniva poi pronunciato agli altri. Il pronunciare rimanda a un contesto sociale, non c’è da stupirsi se nel nostro contemporaneo de-socializzato, in questo mondo occidentale composto di solitudini, queste letture collettive e partecipate vengano confinate nello Spettacolo. Ci siamo abituati alla lettura come una sorta di fatto eminentemente privato, intimo, addirittura psichico: come è psichico il rito della lettura “prima di dormire” cioè l’immersione in un mondo sognante che ci dispone al sonno (anche in corso pagina).
D’altro canto la tradizione della parola scritta ha comunque un suo peso. Un testo pronunciato risponde ad esigenze di comunicazione differenti da quelle di un testo scritto. Di fronte a un copione (qualsiasi copione) e alle battute scritte, spesso gli attori sentono l’esigenza di “mettersi in bocca quel testo”, come si dice in gergo. Gli attori di cinema italiani in particolare sono regolarmente imbarazzati, quasi incapaci di recitare una battuta così com’è scritta, sentono l’urgenza di renderla propria adattandosela. Questo avviene (credo) per la nostra propensione alla Commedia e la nostra profonda riluttanza alla Tragedia. La Commedia usa un linguaggio tendenzialmente “Basso” che si adegua al quotidiano, al parlato, all’inflessione del Personaggio stesso. La Tragedia usa un linguaggio Alto, Elaborato, Solenne che è voce del personaggio Autorevole, Nobile, d’Alto Lignaggio e dunque si fa più letterario, più astratto, più metaforico, contrapposto al Quotidiano-Popolare-Volgare.
Il controllo del testo tramite lettura ad alta voce, ci pare particolarmente utile per i dialoghi. Si nota, nei romanzi moderni non solo italiani, anzi negli americani lo si nota in misura assai maggiore, un evidente slittamento dei dialoghi verso una sorta di naturalismo quotidiano. Lunghe pagine, tutte di dialoghi, dove non si precisa nell’alternanza dei soggetti, neppure CHI parla, dove sovrabbondano le interlocuzioni di passaggio. “Dici sul serio?” , “Vai avanti…” ecc. Questo stile che prolunga i dialoghi per pagine e ci pare così diretto e naturale, spesso rende terribilmente tediosa la lettura. Un dialogo può anzi DEVE ogni tanto venire espresso in discorso indiretto, se non altro per non isterilirsi in un modulo, ma anche per ragioni di sintesi e/o di efficacia espressiva. Il dialogo “parlato” è esso stesso inganno letterario. Lo si nota quando leggiamo ad esempio il testo delle intercettazioni telefoniche o quando cogliamo con l’orecchio due vicini di tavolo che parlano al ristorante. La loro conversazione è tutt’altro che chiara, inequivocabile e ruolizzata (uno parla, l’altro risponde o chiede chiarimenti o sollecita) : le frasi tendono al sospensivo, le allusioni non afferrabili da terzi abbondano, gli accavallamenti distonici (pressocchè irriproducibili nel parlato simulato della scrittura) si susseguono. Insomma il dialogo diretto dei romanzi, è comunque un artificio letterario, a volte un modulo di una banalità assoluta, come scopriamo in certi dialoghi da film quando vengono doppiati e creano una lingua che ha ben poco di quotidiano e di realistico, nel passaggio tra una lingua e l’altra. Scoppiettano i “fottiti” (traduzione scorretta, ma indispensabile per il labiale di fuck you) che nella conversazione corrente noi italiani non usiamo mai, ma nei film e nei romanzi è diventata abitudine indotta.
Il parlato letterario, il leggere un testo ad alta voce, insomma deve applicarsi al testo nel suo insieme, non limitarsi ai dialoghi, perché testo e dialoghi sono comunque entrambi partecipi di una letterarietà in sé, non naturale e realistica (il “parlare come un libro stampato”) .
I dialoghi di molto romanzo ottocentesco, non hanno per riferimento la lingua quotidiana, ma la lingua recitata del teatro. I discorsi dei personaggi assumono un tono oratorio, non sono intercalari di brevi battute , ma spesso veri e propri monologhi che possono prolungarsi per più di una pagina, dilatarsi addirittura a un capitolo o più, quando assumono la caratteristica di confessione, oppure di narrazione nella narrazione. Questa teatralità, non essendo più per noi, il linguaggio insieme letterario e parlato di riferimento, oggi si pare eccessivamente ridondante, falsa, retorica, improponibile. Che ci piaccia o meno, il nostro riferimento è il dialogo cinematografico. Il che presenta, come detto, molti rischi in un romanzo, perché quel dialogo è dialogo tra soggetti-immagine. Quel dialogo ha ritmi, pause, scansioni da “interpretazione” non “da lettura”.
Insomma, un testo scritto ha caratteristiche sue proprie che non possono essere puramente mimesi del parlato corrente. Ci sono poi in letteratura testi eminentemente scritti irriprodubili ad alta voce. Prendete un romanzo di Saramago in cui la scelta stilistica abolisce la punteggiatura, per creare un flusso che pare adeguarsi (come nell’Ulisse di Joyce) al discorso interiore. Se lo recitiamo, le interpunzioni che lì non ci sono, dobbiamo metterle, altrimenti quel testo senza fiati risulta impronunciabile. Dunque non tutta la letteratura può essere detta. Nelle correzioni conta anche lo scritto in quanto tale, nella sua evidenza grafica.

Postato giovedì, 15 aprile 2010 alle 10:00 da Gianfranco Manfredi


Altro punto, sollecitato da Luciano. La FREDDEZZA. Al momento dell’editing di un testo, è vero, dobbiamo essere lucidi, giudici di noi stessi, chirurghi di un testo: tagliare senza auto-concessioni, perché quei tagli aiutano un testo a risultare più espressivo e insieme più letterario in quanto depurato da quanto resta in lui del discorso interiore come di quello oratorio, enfatico, esuberante. Però non è soltanto la Ragione a dettarci COSA DOBBIAMO TAGLIARE O CAMBIARE. Anche qui bisogna restare ricettivi all’inconscio. Oscuramente avvertiamo che quel periodo “non va”, che quel passaggio è sbagliato o “potrebbe essere detto meglio”. Rileggiamo ancora e ci pare comunque corretto. La naturale tentazione ad evitare la fatica, a volte può spingere all’autoindulgenza “economica” e “razionale”. Ma sì, si capisce lo steso, lasciamolo così. Perché modificare una parola, poche righe, un paragrafo? Il lettore non se ne accorgerà nemmeno se uso un aggettivo piuttosto che un altro, se prolungo o ripeto un ragionamento, se dò un’informazione non strettamente necessaria. Lasciamo perdere. Però il tarlo ci rode lo stesso e non risultiamo soddisfatti finché non troviamo la correzione giusta da fare. Non sappiamo quale sia razionalmente. E’ un sospetto interiore, un’insoddisfazione (appunto) poco decifrabile a mandarci il “segnale d’allarme”. Come se di nuovo, fosse l’inconscio a segnalarci un inciampo.
iò funziona anche quando un passaggio ci are invece troppo sbrigativo,dettato dalla fretta di concludere un capitolo, o di sbrigare un passaggio in modo veloce perché diamo maggior valore a quanto viene dopo. Però nella rilettura “a mente fredda”, parte il segnale d’allarme: troppo sbrigativo! E allora aggiungiamo, integriamo.
In conclusione: non credo si possano separare con assoluta nettezza l’Entusiasmo (che poi a volte è Sofferenza, invece) della Possessione e la Freddezza Razionale e Tecnica con cui interveniamo a correggere. Il nostro entusiasmo può implicare anche un entusiasmo del tutto razionale (ci appassiona un tema, un argomento) e la nostra Razionalità come il nostro sapere Tecnico rendersi a disposizione dell’inconscio che ci segnala la necessità di un intervento correttivo. C’è è vero, come rimarca Franco, una “matematica” dello scrivere, ma questa matematica è pur sempre Pitagorica, cioè mette in gioco “simboli”. La Cabala , appunto, è insieme Matematica e Rivelazione. Il Calcolo è anche Mistico.
Cos’è dunque lo scrivere? Io credo si esprima in esso un’istanza di Ricomposizione del Separato. Questo elemento appare con grande forza nella letteratura contemporanea. Il mercato e la critica possono continuare quanto vogliono a distinguere per Target e per Generi. Ma il lavoro degli scrittori contemporanei tende ad altro. Non più alla semplice commistione dei generi o accoglimento paradossale degli opposti, dei diversi, del frammentario e dell’ironico (come nel post-modern). E nemmeno alla “fusion”. La ricerca dello scrittore, degli scrittori contemporanei, quelli più eminenti naturalmente, è verso la ricomposizione degli elementi sparsi, delle suggestioni contrapposte, in ciò che Paco Taibo II chiama (non in riferimento ai suoi romanzi, ma alla scrittura in generale oggi) l’ambizione al Romanzo Totale. E cos’è questa ricerca della Totalità dell’esperienza, se non Mistica ? Mistica proprio nel senso dantesco, in cui cioè costruttivismo, struttura, rapporti matematici, relazioni, equivalenze, sono una sola cosa con la visione, l’inconscio, l’abbandono vigile, non inerte, l’emergenza del simbolico. Compito più che ambizioso, quasi proibitivo, che sorge però davanti allo scrittore contemporaneo come insopprimibile Urgenza.

Postato giovedì, 15 aprile 2010 alle 10:32 da Gianfranco Manfredi


Che vergognina scribacchiare qualche commento tra gli interventi di Manfredi.
Io butto là un’osservazione e lui (lo dico senza ironia nè piaggeria ma con l’ammirazione di un suo antico lettore) ne fa un piccolo saggio.
E penso davvero che per qualche aspirante scrittore potrebbe essere più nutriente darsi una letta a questo mega-post così ricco (e gratuito) piuttosto che pagare un corso di “scrittura creativa” fatto da chissà chi.
Racconto una breve storiella (purtroppo vera): un paio d’anni fa incontro in libreria una signora sui sessanta che cercava un libro sulla “scrittura creativa”. Come faccio spesso, mi avvicino e attacco bottone. Ciacola che ti ciacola, cosa scopro? Che la signora doveva tenere (pagata!) un corso di “scrittura creativa” organizzato da un ente pubblico e non conosceva molto bene la materia.
ANCORA SUL RAPPORTO PARLATO/SCRITTO:
la differenza enorme che esiste tra i due livelli schizza evidente quando si fa un’intervista a qualcuno e poi la si deve scrivere.
Fatti salvi certi rarissimi casi, è impossibile (se si vuole fare un lavoro decente) riprodurre esattamente ciò che è stato detto dall’intervistato. Per far sì che il lettore legga un “parlato credibile e scorrevole” bisogna tradire e stravolgere il “parlato realmente avvenuto”.
SUL FLUSSO NARRATIVO:
forse il mio prediletto è Julio Cortazar. Che in certi racconti fantastico-realistici è davvero straordinario: pur avendo una immensa maestria stilistica e una bizzarra costruzione, non perde la suspense narrativa. Penso a quella novella in cui la vicenda amorosa è raccontata contemporaneamente in prima e seconda persona singolare oltre che in prima persona plurale. Un tour de force eccezionale.
LETTURA AD ALTA VOCE:
se non sbaglio, il primo a leggere in silenzio su Agostino d’Ippona. in precedenza, era ovvio leggere solo ad alta voce.
La domanda che mi sono sempre posto è: come facevano i muti?

Postato giovedì, 15 aprile 2010 alle 12:26 da luciano / idefix


Anche se quando parlavo di “peso specifico” pensavo più a una semplice sensazione materiale e a una dignità qualitativa che a un dato astratto/matematico, il richiamo alla matematica pitagorica mi pare perfetto. O alla cabala: “Ventidue lettere fondamentali. Egli le estrasse, le sbozzò, le soppesò, le alternò e diede forma per mezzo loro all’intera creazione, e a tutto quanto dovesse in seguito generarsi”, dice il Sepher Yetzirah. Del resto il sistema cabalistico è usato nel pensiero magico occidentale moderno anche senza riferimento stretto ai suoi presupposti religiosi.

Postato giovedì, 15 aprile 2010 alle 13:39 da Franco Pezzini


Sia chiaro che essere consapevoli di questi problemi e presupposti e lo stesso lasciarsi condurre dalla narrazione , non ci esime dal rischio di scrivere cose brutte, malriuscite e poco significanti. Questo rischio è talmente nella cosa da risultare piuttosto prassi normale. Insomma non nascono dei Dante per consapevolezza, per disposizione, o per corretto approccio metodologico. Non nascono Capolavori dall’applicazione di un metodo e nemmeno da un “sentire vocazionale”. C’e comunque nella Parola e nel Senso un quid di imperscrutabile, di ingovernabile sia dal Soggetto-Scrittore sia dal Soggetto-Pubblico. Ci sono riconosciuti Maestri della Letteratura, a tutti i livelli (Flaubert e Salgari) , che non sempre e non immancabilmente hanno creato Personaggi Memorabili. Bovary e Sandokan svettano tra centinaia di personaggi di “peso specifico” modesto, indipendentemente dal livello stilistico delle opere. Lo Scrittore soffre quando assiste alla nascita di questi personaggi che acquistano Autonomia da lui, in misura molto più accentuata dall’autonomia dei propri figli biologici. Nasce allora il bisogno di annullarli (Bovary c’est moi!), di ucciderli ( vedo Conan Doyle con Holmes), di ridimensionarli (vedi Dumas con d’Artagnan che l’autore, ripete: “non è nulla senza i Tre moschettieri” , mentre a dispetto di ogni volontà resta per i lettori il protagonista, di cui gli altri tre sono riflesso). Nel personaggio che diventa simbolico, divinità assurta a furor di popolo nell’olimpo dell’immaginario collettivo, si afferma l’Imprevisto. Gli scrittori che restano invece grati al Personaggio e magari pensano che siccome gliene è riuscito uno, allora hanno un talento specifico del creare Personaggi, poi spesso devono rendersi non poco tragicamente conto che per quanto si applichino alla creazione di un Nuovo personaggio, dal fiume del loro narrare per migliaia di pagine, di veri Personaggi ne sono emersi uno, due, tre quando va di lusso. Simenon ha scritto una quantità di romanzi bellissimi , ma di Maigret gliene è uscito solo uno. Ho aggiunto questo post, perché ritengo che in quell’aspirazione al Romanzo Totale degli autori contemporanei, spesso per troppa inclinazione nei confronti degli elementi compositivi, si perde però di vista quella figura di sintesi, figura concretissima tanto quanto simbolica, che valica i confini del Letterario, ed esprime la significazione in quanto creata dall’incontro tra il messaggio inviato e la sua rielaborazione da parte del lettore. Questa figura di sintesi è il Personaggio. E di grandi Personaggi, la letteratura contemporanea è avarissima, anche perché troppi scrittori tendono a fare di se stessi il Personaggio. Da questo punto di vista, l’horror è esemplare. Ogni scrittore di horror sa che più ancora della figura del protagonista, ciò che determinerà la riuscita della sua opera, è la creazione del Mostro. Si accolgono e si trasformano molti mostri ereditati dalla tradizione, e fin qui ci siamo. Ma ogni Mostro ci conduce nei pressi del non-detto e dell’indicibile. Sappiamo che il vero problema non è la creazione dell’ennesimo mostro. Ma di una vera e propria Nuova Creatura. Quella Mostruosità che proprio etimologicamente ci sollecita al Mostrare per stupire, cioè a evocare più che un Nuovo, o un Altro inteso come successivo, l’Altro corrispondente alla nostra epoca e che pure riassume in sé miti apparentemente scomparsi o rimossi, come ha giustamente osservato Franco, e dunque non si riduce, non può essere ridotto, a semplice Alterità dallo Stato di Cose Presente e Attuale. E’ l’Altro che appare suscitandoci opposti sentimenti di Meraviglia e d’Orrore. Questa evocazione non dipende soltanto dalla correttezza e dalla giusta pronuncia della formula magica evocativa. Di fronte all’evocato, che ci pare Nato da sé, Scaturito dal sottosuolo o precipitato dal Cielo, ci sentiamo immancabilmente apprendisti stregoni. Lo scrittore non scopre la propria Grandezza, bensì la propria Limitatezza.

Postato giovedì, 15 aprile 2010 alle 14:28 da Gianfranco Manfredi


Penso a ciò che veramente fa orrore.
E mi viene in mente Philip Dick, lo shock che ebbe da bambino. Quando suo padre, per gioco, gli comparve davanti indossando una maschera antigas. Il piccolo Philip non lo riconobbe e ne fu non solo terrorizzato oltre ogni dire ma segnato per tutta la vita. Anche da quel trauma nacquero alcuni dei suoi temi principali: cos’è umano? Come distinguere la realtà dall’incubo? Dove stanno i confini delle nostre esperienze sensoriali e psichiche?
Forse uno dei filoni auriferi più preziosi e inquietanti dell’orrore è appunto questo: la realtà non solida bensì molliccia e dunque infida. “La cosa” di Carpenter, “Brood” e “La mosca” di Cronenberg, “Picnic a Hangin Rock” di Weir, alcuni guizzi di “Nightmare” di Craven, “Truman show” di Weir, i fantasmi, i non-morti, la pazzia che ci può afferrare tutti, le persone che non riconosciamo più da quelle che erano fino a poco fa.
In questa direzione, un testo di enorme e attuale fertilità (tutta da riscoprire) resta le “Metamorfosi” di Ovidio, malgrado lo scopo di Publio Ovidio non fosse quello di suscitare orrore.
Così, in questa chiave di lettura, il Mostro “micidiale” sarebbe il sovvertimento della “normale” quotidianità, rendersi conto di colpo che camminiamo su una crosta sottilissima e fragilissima chiamata “realtà”, la scolvolgente apparizione nelle nostre vite della dimensione quantistica che liquefa gli scenari consueti, gli ambienti, i corpi, i volti e le relazioni che davamo per scontate.
Poche idee mi suscitano più raccapriccio di questa: tornare a casa una sera e trovare mia moglie Tatjana con il suo aspetto solito, la sua voce di sempre ma con un comportamento totalmente diverso.

Postato giovedì, 15 aprile 2010 alle 16:39 da luciano / idefix


Be’, sì, ciascuno a le sue paure perché in qualche modo iscritte nel proprio vissuto. Di solito si è portati a ricondurre a esperienze traumatiche infantili. Però gli adulti si spaventano in genere di più dei bambini. Molte associazioni di genitori che elevano vibrate proteste contro fumetti e cartoni animati “horror” o “violenti”, ad esempio, protestano in nome dei bambini, ma manifestano in realtà una paura tutta loro. Quando noi eravamo piccoli le nonne, le balie, chi si prendeva cura di noi, ci raccontava spesso e con molte sfumature buffe per addolcire, favole spaventose, com’è tradizione nel folklore. Attraverso il sentimento della paura, ci si abituava, ci si educava all’esperienza della paura e al suo superamento. Il bambino affronta il mondo come nuovo e dunque DEVE imparare ad affrontarlo senza paura. L’adulto che considera invece il mondo come dato e la sua formazione come compiuta, di fronte all’inatteso si terrorizza davvero. Dice di temere per la fragile psiche dei figli, in realtà teme per la propria. Inoltre ci sono paure e fobie che da bambini non avvertiamo affatto (per “incoscienza” si dice, e infatti ci infiliamo nei pericoli e in possibili guai di continuo, come forma esplorativa) mentre le scopriamo da adulti pur non avendone sofferto prima. Una tipica è quella delle vertigini. Da ragazzini scaliamo scogliere, da adulti l’affacciarci su un abisso ci fa girare la testa e ci sgomenta. La perdita dell’innocenza, pare ci evochi una quantità di paure immaginarie. Quella dello straniero ad esempio, è una paura da cui i bambini sono estranei, perché ci confrontano con i loro amici d’asilo e di scuola elementare senza sovrastrutture ideologiche. E’ dunque una tipica paura da adulti, poi riversata sui bambini: dunque richiesta di classi separate, di mense selettive, e di tutto quel che ne consegue. Non a protezione dei bambini, che queste cose proprio non le capiscono, ma di una saldezza artefatta di riferimenti che ci si è costruita da adulti. Non è solo nel razzismo montante che appare vistosa, anche in atteggiamenti che sembrano più “normali” e ideologicamente corretti. Molti genitori, erano/sono contrari a far vedere ai bambini i cartoni animati giapponesi con scontri tra robot perché giudicati “troppo violenti”, mentre ritengono educativo (o indifferente) che il bambino assista (magari durante il pasto famigliare) al telegiornale che sforna di continuo immagini di violenza reale che i bambini non sono in grado di elaborare, né di riferire ad alcun contesto narrativo. Io per esempio, lasciano che le mie figlie si vedessero i cartoni, poi all’ora del TG dicevo, “adesso basta, perché devo vedere il TG”. Risultato, se ne andavano, magari sbuffando un po’, di propria iniziativa. E’ più educativo che da piccoli i bambini evitino il TG, piuttosto che i cartoni. Significa educarli a considerare che certi spettacoli sono per adulti, perché richiedono un livello adulto di comprensione e di consapevolezza. La cosa da non fare MAI è proiettare le paure NOSTRE sui figli.

Postato giovedì, 15 aprile 2010 alle 17:22 da Gianfranco Manfredi


Ai primi dell’ottocento, dilaga, con l’accesso alla “modernità”, l’ipocondria, cioè la sindrome del malato immaginario che tanto immaginario non è, perché sta male davvero e i sintomi li avverte sul serio, anche se i check up non rivelano nulla di anomalo e di malato. L’ipocondria, la paura non di contrarre, ma di avere un’infinita serie di malattie, è una paura tipicamente adulta e paradossalmente portata dalla conoscenza, non dall’ignoranza. I manuali di medicina domestica erano ormai diffusissimi. Leggendoli, molti adulti, “scoprivano” o meglio “si figuravano” d’avere tutte le malattie descritte e quei precisi sintomi così minuziosamente elencati. E’ del resto un’esperienza che tutti continuiamo a vivere. Altrimenti non si spiega perché appena un’infezione febbrile e i suoi sintomi vengono diffusi sui giornali e in televisione, scattano le ondate di panico per cui tutti si precipitano in ospedale. Ci sono, in sostanza, paure molto “civili” e “adulte” che mi hanno sempre fatto diffidare della teoria che regredisce la paura a “primitivo”, “istintuale”, o “infantile”. L’uomo contemporaneo si spaventa di più “conoscendo” che “ignorando”. Questa svolta la si è notata nella narrativa horror. Mentre un tempo un racconto finiva con l’apparizione dell’inspiegabile fantasma, oggi un racconto horror inizia da qui, e segue il radicarsi della paura attraverso la conoscenza. Quante volte si reagisce a qualcosa che ci turba, dicendo: “Non voglio sapere!” Paradossalmente è il “sapere” che ci spaventa. E non è un caso che ciò avvenga in un’epoca in cui si rafforza il senso di sè e dell’identità personale e sociale, attraverso una serie di certezze posticce, costruite sul rifiuto di apprendere. Si sceglie l’ignoranza, perché avvertiamo che il conoscere ci spaventerebbe molto di più. L’occidente tuttora guerrafondaio, ma all’estero, produce invece a casa propria, la figura del Cittadino Vigliacco.

Postato giovedì, 15 aprile 2010 alle 17:43 da Gianfranco Manfredi


Manfredi ha scritto: “Si sceglie l’ignoranza, perché avvertiamo che il conoscere ci spaventerebbe molto di più”.
E io mi candido a testimone.
Con l’esempio dei telefilm del DR HOUSE, di ER e di tutti quelli di ambiente medico-ospedaliero.
Non che io sia ipocondriaco però non godo certo a vedere gente che si ammala, viene operata e spesso crepa tra atroci sofferenze.
Sarà che in Provincia mi occupo (oltre che delle relazioni col pubblico) in particolare delle tessere agevolate dell’autobus per “invalidi” e dunque vedo ogni giorno decine e decine di persone di ogni età con handycap, invalidità, sindromi down, malformazioni, mutilati del lavoro, bambini con encefalopatie, persone con disturbo schizofrenico eccetera.
Insomma so che esistono le malattie (centinaia di malattie strane e orrende) e orribili incidenti (stradali e domestici) ma preferisco NON sapere i dettagli e NON passare le mie serate guardando telefilm con gente che si becca queste malattie o che subisce questi tremendi infortuni.
Ecco dunque che, almeno in parte, confermo la tesi di Manfredi: nella vita REALE (e quei telefilm hanno un impianto realistico) mi spavento molto molto di più conoscendo che ignorando.
In questo, dunque, sono uno spettatore vile.
E’ accaduto però che, davanti a episodi REALI, di persone in difficoltà io mi sia fatto forza e abbia cercato di superare la mia viltà di spettatore. Perchè, in me, pur tra cento e una contraddizione e resistenza, vinceva il Cittadino solidale sullo Spettatore vile.
In sintesi: se uno finisce sotto l’auto, cerco di aiutare. Almeno chiamando il 118.
Se invece c’è da guardare un episodio tv con un Tizio che si è beccato una rarissima forma di tumore e tutto lo staff medico lotta per salvargli la vita e per 45′ si assiste a robe che nella vita vorrei evitare per me e per le persone a me care…no, grazie: preferisco rileggere un episodio di Paperino o un racconto di Richard Matheson.

Postato giovedì, 15 aprile 2010 alle 18:02 da luciano / idefix


Sì, hai ragione. In situazioni di pericolo reale spesso ci si trova più coraggiosi e freddi che in situazioni di pericolo immaginario. Forse perché il corpo ha le sue reazioni, in alcuni di panico, in altri adrenaliniche. E forse agisce anche un forte movente, come negli esempi da te citati, il dover far fronte ad emergenze e cure. E’ rispetto all’evocazione di minacce ipotetiche, in cui i Media sono maestri., che si avverte paura. Non dei terremoti ad esempio, perché se avvenuti altrove, e comunque GIA’ AVVENUTI, riteniamo non possa capitare anche a noi. Vale anche per drammi sociali come la disoccupazione. Si reagisce quando ci tocca, altrimenti è toccata ad altri e vabbè. Così si crea un circuito per cui il pericolo davvero probabile lo allontaniamo da noi in quanto capitato ad altri, mentre un pericolo improbabile, indeterminato, evocato, ci sgomenta proprio per la sua virtualità sospesa su di noi come una Spada di Damocle. La distorsione tipica della Società dello Spettacolo sviluppa una sorta di mutazione antropologica. L’evasività del famigliare (nel senso di abitudinario e conosciuto) ci conforta, mentre la conoscenza che è sempre conoscenza del non conosciuto, di qualcosa d’altro da noi e dallo sperimentato, ci turba di per sè. Ma hai notato anche tu che persino persone della nostra generazione, un tempo discorsive per abitudine di tutto e soprattutto esplorative di questioni “imbarazzanti” (quale atteggiamento hai nei confronti della donna? Era la domanda che ci veniva posta dalle nostre compagne, diversa è più globale del “perchè mi tratti male?” altra domanda che del resto non veniva affatto trascurata), generazione che si interrogava costantemente sui massimo e minimi sistemi, adesso , oggi, non parla più, non discute più, come fosse noioso, imbarazzante, persino poco educato, che so, a tavola, dividersi persino su una sciocchezza come il diverso giudizio dato di un film. Lo stare insieme pare parlare del più e del meno, ed evitare ogni argomento che possa magari apparire polemico o urtare tizio e caio. Al posto di questo proficuo discutere, si scivola nel lamento generalizzato a proposito di piaghe che si è tutti d’accordo nel giudicare tali. Confrontare punti di vista apertamente diversi, non dico che ci spaventi, ma risulta poco gradito, anche perché i Dibattiti di cui siamo spettatori in TV, ci paiono giustamente delle risse indecorose in cui non vogliamo precipitare. In tutto questo però quella conoscenza che è frutto di uno scambio reciproco, viene respinta e allontanata. C’è un libro che sto leggendo e che trovo piuttosto divertente nella sua apparente grazia ed evasività. E’ “Orgoglio e Pregiudizio Zombie” di Grahame-Smith Seth, cioè la versione zombesca del romanzo di Jane Austen. Fuori ci sono gli zombie, però si continua a riunirsi in salotto e a danzare, scambiandosi quelle amenità da conversazione inglese, che ha le sue regole “a prescindere”. Si esce di casa per massacrare un po’ di poveri zombie che in intralciano il cammino e poi si torna ad occuparsi di galanterie minime, di fatuità salottiere, uniti dal comune senso del garbo.

Postato giovedì, 15 aprile 2010 alle 19:17 da Gianfranco Manfredi


Gianfranco Manfredi: “Cos’è dunque lo scrivere? Io credo si esprima in esso un’istanza di Ricomposizione del Separato”.

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Rileggendo il multitesto sulla letteratura vampirica, mi è venuta in mente la Fenice: uccello mitico a metà tra un’aquila e un airone, di colore rosso sangue, capace di rinascere ciclicamente dalle proprie ceneri.
Anche il movimento vivente della scrittura apre, in qualche modo, a una strano desiderio di immortalità. Cosa sono infatti le parole se non cenere. Perlomeno così pare, finché non incontrano un lettore attivo, diventando le rivelatrici di una presenza permanente che le abita, “come un biblico roveto ardente” ( Antonio Spadaro, in L’altro fuoco: l’esperienza della letteratura, Jaca Book, Milano, 2009).
Gianfranco nota l’”insopprimibile urgenza” ( l’urgenza scrittoria di far risuonare il Silenzio e far rinascere la “presenza permanente”, se non la COSA dalle ceneri ? Speriamo che si levi il vento).
…Esporsi al vento delle tensioni fondamentali e decidersi a far prendere il volo alle parole è un orribile lavoro, a un tempo delicato e rischioso. Occorre un punto di vista sufficientemente elevato, un’altezza che dipende da questo o quell’autore.
Giordano Bruno, per esempio, dopo una pericolosa scalata di sesto grado superiore evoca la Fenice ( cara, non a caso, al cuore di numerosi scrittori, pittori e musicisti ) definendola : “Unico augel del sol”.
Ogni testo è una ripresa sull’immenso tessuto dei testi, una ripresa di diritto e di rovescio su questo o quel buco del reale.
In tal senso, per restare in prossimità del mito, ogni scrittura è un tessuto di cui la Tessitrice ( la Parca con ago, filo e forbice, nonché voce di morticina evocata più sopra, a proposito del Pascoli) sarebbe l’emblema.
Oltre il tricotage sul buco del reale e nel simbolico, nessun nome tiene. Ad ogni ascensione/accensione dell’animale fantastico verso il sole un nome cede a un altro nome, ridotto in cenere per subito risollevarsi dalle sue ceneri.
E’ come se ogni volta le ceneri della Fenice generassero un altro uccello-fenice, se non un altro Icaro.
Che strano uccello ! Mentre “Icaro” cade, metaforicamente, sulla pagina, Giordano Bruno sale veramente al rogo, anche e non solo per aver sognato molta legna da ardere e scritto di una Fenice.
Dove anche la Fenice cade, scrivere è diventare cenere d’autore – non solo un’incenerazione del corpo dei significanti, ma anche di ” persone della nostra generazione, un tempo discorsive per abitudine di tutto e soprattutto esplorative di questioni ‘imbarazzanti’” ( Gianfranco Manfredi). Esplorative, aggiungerei, di questioni talmente “imbarazzanti” da costringersi a dover volare alto o “hig mind” per sopravvivere, come diceva anche Julian Beck ( mi riferisco naturalmente all’ala creativa di una generazione che credeva di sottrarsi al cosiddetto Sistema, di vivere, solo vivere come i fiori dei campi e le bestie del cielo, nonché di poter ardere senza bruciare).
Se non fosse per il lavoro della metafora ( il fuoco che cova sotto le ceneri della Fenice), oltre che per il lavoro della memoria, dell’immaginazione e del simbolico, le parole non potrebbero, per così dire, prendere fuoco e propagarsi, accendendosi le une dopo le altre e proiettando – nel momento in cui le si pronuncia – scintille di significanti secondari che accendono altri focolari.
Probabilmente è quanto accade specialmente per la parola poetica. In ogni caso, affinché rinasca la Fenice, occorre che un lettore attivo ( non dico grande, ma non fiacco ) soffi sulla brace delle parole e l’accensione si propaghi verso altri lettori che, a loro volta, girando la pagina o scrollando il blog tra un respiro e l’altro…vi rispondano con la propria storia, il proprio linguaggio, la propria libertà.
Ma poiché molte sono le storie possibili, o anche impossibili, e linguaggio e libertà cambiano infinitamente, la risposta a uno scrittore non può che essere infinita.
Con altre parole, volendo riprendere le parole di zia Roland Barthes: “… on ne cesse jamais de répondre à ce qui a été écrit hors de toute réponse : affirmés, puis mis en rivalité, puis remplacés, les sens passent, la question demeure. ( Roland Barthes, Sur Racine, Seuil ed, 1963, p.11. Traduco:” … non si finisce mai di rispondere a quello che è stato scritto fuori da ogni risposta: affermati, poi messi in rivalità, poi rimpiazzati, i sensi passano, la questione resta”).

Postato giovedì, 15 aprile 2010 alle 22:17 da Gianni De Martino


Non ho avuto modo di leggere i vostri ultimi commenti… ma, intanto, grazie.
Recupererò presto!
;)

Postato giovedì, 15 aprile 2010 alle 22:41 da Massimo Maugeri


IL DOTTORE E L’INVESTIGATORE

Riflettevo ieri sera sull’intervento di Luciano in merito alla sua esperienza che lo mette in costante contatto con i “malati”, e la sua conseguente poca voglia di vedere Dr.House o CSI. Sono tornato indietro a rileggere l’intervento di Pazzini sui Mad Doctors, e in qualche modo di è materializzata davanti ai miei occhi la Lettera Rubata che era giù lì in bella vista. Quanti dottori fioriscono all’improvviso in romanzo agli albori della modernità! Faust, Hesselius, Van Helsing, Jekill, Frankenstein, Moreau, i più noti, ma ci sono poi i dimenticati: il dottor Bordeu de “Il nipote di Rameau” di Diderot, il Barbiere di Fleet Street (all’epoca Barbieri e Chirurghi facevano parte dello stesso Ordine) , il dottor Piuma di Poe e i suoi dottori “mesmeriani” e ipnotisti (medici dell’anima che anticipano la figura dello psicanalista) , il dottor Caligari (che può essere ricondotto ai dottori di cui sopra), il dottor Mabuse (il persuasore occulto, anch’esso riconducibile alla medesima categoria) il dottor Phibes e il dottor K. di Vincent Price… si potrebbe continuare, l’elenco sarebbe sterminato. E’ certo senza precedenti in tutta la letteratura pre-moderna questa fioritura di Medici di Limite. Il romanzo popolare moderno configura anche un altro personaggio cardine che è quello dell’Investigatore, in origine (Dupin, Holmes) più che un poliziotto, un lettore/interprete di tracce e di segni, cioè un semiologo. Queste due figure cardine sono giunte fino a noi in finite rielaborazioni, ma restando cardini. I due filoni più sfruttati di telefilm sono quelli di ambiente medico da un lato e investigativo dall’altro. In Quincey (un anatomo-patologo, un coroner) e poi in CSI , le due figure in qualche modo confluiscono. Le indagini medico-semiologiche degli esperti di CSI conducono sempre a svelamenti della psicologia morbosa che sottende l’atto criminale. Viceversa le indagini mediche di Dr House, che per capire l’origine di una malattia contravviene ogni norma etica di privacy dei pazienti, invadendone le case a loro insaputa, alla ricerca di tracce del male, lo proiettano di per sé sul terreno propriamente investigativo. Ora: ci siamo chiesti come mai siano proprio queste due figure , del Medico e dell’Investigatore, a dominare per un lunghissimo ciclo , dal settecento fino ad oggi, l’immaginario popolare?
Anche in questo caso la questione in qualche modo turba il nostro sguardo disattento: che diavolo! Dr House e CSI, non siamo abituati a considerarle serie Innovative per eccellenza? Invece sono quanto di più coerente alla Tradizione si possa pensare. Indagine del Corpo e Indagine della Psiche si separano e si ricompongono fin dalle origini di queste figure cardine. Di contro, sorgono le figure del Vampiro e dello Zombie ( il Malato incurabile come protagonista e come immagine dell’Altro che è immagine del Noi) e del Serial Killer , altro ossimoro, in quanto portatore di Lucida Pazzia, raffinatissimo orditore di trame criminali razionali in esecuzione di un pensiero impazzito, fondato sulla coazione a ripetere come affermazione del Sè. Di fronte a tutto questo, ai protagonisti e agli Antagonisti, sorge un’altra separazione e cioè la separazione di queste figure dall’Uomo Comune, del tutto sprovvisto di expertise sia scientifica che criminale. L’utopia hippie, controculturale e femminista dell’Autocoscienza, pare sconfitta di fronte a quest’ultima separazione. La società non può essere autocosciente quando la conoscenza assume la forma di conoscenza specialistica. Le diagnosi, su malattie stranissime e complicatissime, del Dr House spiegano senza spiegarci alcunché, perché non abbiamo la minima competenza medico-scientifica per comprendere il suo linguaggio, se quella diagnosi da telefilm sia realistica o fantastica, se contenga o meno degli errori alla luce della conoscenza medica. La diamo per buona proprio in quanto non ci appartiene. La conoscenza sorge di fronte a noi Uomini Comuni come patrimonio separato dei professionisti, inarrivabile per noi, e questo ci spaventa perché presto a tardi sappiamo che cadremo nelle mani di questi professionisti , tanto consapevoli quanto ai confini con la pazzia. Sia nel caso di un trattamento medico che di un fatto criminale che potrebbe coinvolgerci, ci troveremo costretti ad affidare la nostra vita a Costoro. Ogni Libertà di Scelta sulla presunzione della quale costruiamo la nostra vita, ci sarà allora sottratta. E questa sottrazione avviene perché noi stessi ci siamo sottratti individualmente e socialmente al cammino della Conoscenza. Se si riformasse l’insegnamento scolastico in questa luce, e per porre riparo a questa separazione, tre dovrebbero essere le materie preliminari: la conoscenza del proprio corpo, quella della Psiche e (come inevitabile congiunzione) la semiologia, cioè la lettura dei segni. Ora: c’è qualche Riformatore Scolastico nel mondo che sia consapevole di quanto sarebbe importante riorientare la Scuola in questo modo? Eppure, finché non si farà questo, tra Coscienza Popolare e Conoscenza Specialistica , il fossato sarà sempre più ampio e profondo.

Postato venerdì, 16 aprile 2010 alle 11:45 da Gianfranco Manfredi


Questa separazione si applica ovviamente anche ad altri campi. Ogni volta, da secoli, sembrano opporsi il “senso comune” e il “Sapere Scientifico”. Perché il sapere scientifico possa diventare senso comune, occorrono secoli. In questo tragitto la Cultura diffusa, la Letteratura soprattutto, ha un suo fondamentale ruolo di mediazione problematica. Eppure ricomporre per l’Uomo Comune resta comunque arduo, in quanto egli si affida (noi ci affidiamo) all’esperienza sensibile. Sappiamo (perchè lo abbiamo imparato) che la Terra è rotonda, però continuiamo a comportarci come se fosse piatta. Verne ha un bel sottolineare che il Giro del Mondo in Ottanta Giorni, è un viaggio che ci riconduce alla partenza, è viaggio circolare. Noi continuiamo però a concepire il viaggio in orizzontale, cioè come un tragitto che ci porta in linea retta da qui a lì. Che l’atto dell’andare sia di per sè anche atto del tornare, è un ossimoro che ci destabilizza, in quanto destabilizza il nostro senso comune. La Conoscenza pare costantemente separarsi dalla Vita. Astratto contro Concreto. Eppure un Concreto senza Pensiero è un Concreto rimosso dalla Coscienza, eppure senza la Concretezza dell’Astratto noi smarriamo ogni chance di scelta consapevole in quanto fondata su una Conoscenza delle Cose. La ricomposizione di questa separazione, non è cosa che si possa affidare soltanto alla Letteratura, è un’impresa sociale ardua quanto necessaria. Quando si parla della necessaria centralità anche politica ed economica della Ricerca e dell’Istruzione, si parla di questo. Eppure l’elettorato traduce: oddio, bisogna dare i nostri soldi a gente che studia come arrivare su Marte o come funziona un fungo. Ma per quale cazzo di motivo? Ci sono cose più urgenti. Bisogni più fondamentali. Inutile disporre l’elenco perché lo sappiamo tutti a memoria. Il fondamentale da risolvere urgentemente è per solito quello che non si risolve mai, se non da solo, quando le situazioni incancreniscono. Mentre c’è un fondamentale sempre rinviato a dopo (la formazione consapevole) che , inevaso, continua a riprodurci come esseri deprivati del Tutto. I Bruti di cui parlava padre Dante.

Postato venerdì, 16 aprile 2010 alle 12:05 da Gianfranco Manfredi


La crisi attuale delle autorità religiose è tale perché ogni volta che si esprimono si rivelano del tutto “incompetenti”. Risulta palmare alla Coscienza Collettiva che non sanno nulla dei problemi di cui parlanoe che ciò che presumono di sapere è sbagliato, non solo alla luce della Scienza, ma anche alla luce del Senso Comune. In quanto “ignoranti” in teoria esse dovrebbero essere più vicine alla condizione dell’Uomo Comune, però in pratica costituendo una società separata, si configurano come un assurdo: sono separati non perché sanno qualcosa, ma perché si esprimono su tutto non sapendo nulla, non offrendo ai fedeli altra risposta che la Fede Cieca. E ogni loro soluzione concreta resta di fatto per l’Uomo Comune tanto insensata quanto impraticabile e all’origine fondata su paradossi evidenti: Fate figli e Praticate l’Astinenza. Però i Figli in Provetta non vanno bene. E allora? Ci state dicendo che ogni soluzione è di fatto impraticabile! Su cosa dovrebbe fondarsi la nostra Fede se ci apparite Incredibili? Qui non si parla dell’Incredibile Ma vero (che è l’incredibile della Scienza) ma dell’Incredibile destituito di fondamento.

Postato venerdì, 16 aprile 2010 alle 12:32 da Gianfranco Manfredi


Non stavo parlando dei religiosi, naturalmente, ma delle autorità religiose che è cosa diversa.

Postato venerdì, 16 aprile 2010 alle 12:43 da Gianfranco Manfredi


Da oggi sono in tour nelle scuole & C fino a martedì (Levico Terme, Mantova…) e così i miei interventi saranno più discontinui perchè approfittero di biblioteche, istituti e librerie che mi hanno invitato.
Come sempre, la griglia di questo post è sempre più ricca di carne, pesce e verdure al fuoco.
Riprendo solo un tema, lanciato da Manfredi: i successoni delle investigazioni televisive, fatte soprattutto da medici e poliziotti (quando addirittura le due figure non si incarnano in un unica persona: l’anatomopatologo simil Kay Scarpetta o Dana Scully, tra l’altro noto che in genere sono donne. Quasi che, ad accompagnarci nella nascita e nella perversa parodia della rinascita che è l’autopsia, ci debba essere una femmina).
All’interno dello schema manfrediano (il grande successo delle investigazioni televisive) mi faccio una domanda (ed è un quesito che faccio a me stesso ma lo rivolgo anche ad altri, perchè forse ha risvolti non solo personali ma “teorici”):
come mai io (che fuggo come dalla peste dai telefilm “medici” e (pur amando il “gialo”) non seguo i telefilm polizieschi, ho una passione per COLD CASE?
E’ dovuto alla struttura fondamentalmente rock degli episodi? Intro, strofa, ritornello, strofa, ritornello, strofa, ritornello, strofa, finale liberatorio.
E’ dovuto al fatto che il “fattore umano” è preponderante su quello “investigativo”?
E’ dovuto alla cura produttiva e artistica di ogni episodio?
E’ dovuto al clima etico (nel quale io sguazzo) kennedian-luther kinghiano della serie?
E’ dovuto al tocco lievissimamente fantasmatico (e io amo le storie di spettri) di ognuno dei finali?

Postato venerdì, 16 aprile 2010 alle 17:00 da luciano / idefix


Pensa che io mi sono posto altre domande. Come mai visto che nel passato della mia famiglia ci sono una quantità di medici e io stesso, prima di scegliere Filosofia, pensavo di iscrivermi a medicina, ma fui frenato dalla consapevolezza durante le lezioni di Scienze che l’interno del corpo umano mi suscitava una certa ripugnanza, come mai io che non solo non ho mai seguito con passione le serie mediche (ad eccezione di Dr House che guarda con piacere) e fatico assai a vedere l’horror ospedaliero (per quanto debba ammettere che d’aver trovato notevole un film come “Sublime” e di considerare la serie horror ospedaliera di Lars Von Trier come la sua cosa forse più riuscita) come mai stante tutto questo, nei miei ultimi romanzi Ho freddo e il nuovo Tecniche di Resurrezione ho scelto due medici come protagonisti e mi sono sciroppato per documentazione persino la lettura di trattati anatomici secenteschi in latino? La risposta che mi sono dato è che a un certo punto della propria maturazione uno scrittore si rinfresca andandosi a scegliere i temi che non ha mai voluto affrontare prima, anche perché (forse) spaventavano lui stesso. Ma potrei anche psicanaliticamente pensare che io abbia voluto sanare una rottura celebrata da ragazzo con una vocazione che, ne sono convinto, non mi corrispondeva affatto e per la quale non avrei avuto alcun talento. Ogni nostra scelta corrisponde a un rifiuto. e per quanto la scelta sia fondata, quel rifiuto ce lo portiamo dietro come un limite. Ho così risposto alle mie autodomande alla Marzullo, come hai fatto anche tu con Cold Case, perché le tue domande finali sono delle risposte. Però al di là delle scelte personali (che sono sempre più varie dei gusti ) credo che esista un effetto trascinamento della Tradizione riletta alla luce nel Contemporaneo. Oggi il principale antagonista, nel senso di Radicalmente Opposto, all’intero schieramento politico nazionale, è Gino Strada. E questo vorrà pur dire qualcosa. Quando io ero bambino, il modello di Medico era Albert Schweitzer. Anche questa immagine dunque ci appartiene per tradizione. E come ho osservato nel confronto tra Medico e Investigatore, un narratore non può che essere sospinto, nella riflessione sull’oggi, a confluire in un fiume di storie che lo precede. Che nella Tradizione le figure del Medico e dell’Investigatore siano la vera autentica svolta del Moderno, non può alla fine avere un peso nelle nostre scelte. A certe scelte narrative ci sentiamo insomma trascinati. Sono tanto libere quanto inevitabili.

Postato venerdì, 16 aprile 2010 alle 17:22 da Gianfranco Manfredi


E’ saltato un non. Non può non avere un peso ecc. Sarà anche che la doppia negazione è un mio vizio. Non sarebbe stato meglio scrivere: “ha alla fine un peso” ? Sarà che nel raddoppio della negazione si formula e si esprime una dissidenza raddoppiata?

Postato venerdì, 16 aprile 2010 alle 17:28 da Gianfranco Manfredi


Vabbè che qui si discute di vampiri & affini, però questo nuovo attacco del premier contro Saviano ci riguarda tutti in quanto scrittori e in quanto autori. Tanto più in quanto il premier detiene la proprietà della più grande casa editrice italiana. L’idea secondo cui se si scrive di Mafia si pubblicizza la Mafia, in bocca sua, suona parecchio ipocrita. Applicata poi a Gomorra e a la Piovra non ha davvero senso. Lì non c’é alcuna indulgenza, né alcuna epicizzazione del camorrista o del mafioso. Ai tempi del Padrino, si scrisse (ed era vero) che quel film era stato voluto dalla Mafia. Però nelle mani di Coppola il romanzo di Puzo divenne ben altra cosa. Il primo film era stato un successo e dunque i due seguenti non potevano essere più bloccati, né orientati. Coppola mise in scena situazioni in parte inventate, eppure molto più provocatorie di quanto non abbia fatto Sorrentino con “Il Divo” , diede la sua versione delle congiure vaticane (uccisione di Papa Luciani, di Calvi ecc.) in modo molto più violento e molto meno “da fiction” di quanto non abbia fatto poi Dan Brown con “Angeli e demoni”. Di fronte a queste aperte provocazioni di Coppola, come si reagì? Con il silenzio. Era molto, troppo pericoloso affrontare il dibattito, prenderle sul serio. Anche la sinistra e i laici, imbarazzati, tacquero e fecero finta di niente. Sull’Immagine dell’Italia più o meno violata, o più o meno espressa, nessuno si espresse, si preferì far finta di niente. Su Dan Brown invece si può polemizzare quanto si vuole, tanto non frega nulla a nessuno, neanche ai suoi milioni di lettori. Si sa che stiamo nel dominio della pura fiction. Si rimarca caso mai che questa fiction è “storicamente” e “culturalmente” scorretta. Il fastidio vero, d parte del Potere, però emerge quando un libro o un film sono storicamente e culturalmente corretti. Ma in entrambi i casi: un’opera letteraria o cinematografica, attiva una comunicazione che non può essere controllata dall’alto. E’ questo che desta allarme nel premier: l’impossibilità del controllo. Lui concepisce la comunicazione come propaganda. Dunque per lui, uno scrittore che parla di Camorra, non “svela”, non contribuisce alla conoscenza e alla coscienza collettiva, ma fa propaganda alla Camorra. Dopodiché non si capisce più per quale motivo la Camorra voglia ucciderlo. Dopodiché prendendolo come bersaglio polemico, lo si espone a nuovi pericoli. Su queste cose non si scherza e il mondo degli scrittori e dei lettori, indipendentemente dai gusti, dagli orientamenti e dalle cose che si scrivono, è chiamato a reagire compatto. Ne va della nostra libertà di scrivere e di leggere quello che ci pare. Ne va della nostra scelta di seguire un criterio di verità, cioè di rispondere anche in fiction a un’urgenza di “ricerca della verità”, senza il quale non si dà né vera scrittura, né vera lettura. Ridurre il senso della letteratura a propaganda è la più chiara testimonianza di Regime Auspicato che si possa mettere in campo. Messaggi ideologici e propagandistici come quello della Fallaci vengono pienamente autorizzati e favoriti, opere finemente letterarie come I versetti Satanici di Rushdie vengono invece difese assai tiepidamente, se non avversate, perché lo scrittore si ritrova ad essere considerato come un rompicoglioni : ma non potevi scrivere d’altro? Chi te l’ha fatto fare? Da che parte stai, davvero? Dove vuoi andare a parare? Non capisci che così la tua scrittura va “fuori controllo”? Sì che lo capiamo ed è per questo che scriviamo, perché la comunicazione resti fuori controllo. E’ l’unico modo per tenere aperta la difficile ricerca della verità, senza la quale siamo ridotti a Bruti e a schiavi.

Postato sabato, 17 aprile 2010 alle 11:13 da Gianfranco Manfredi


Il premier ha tra l’altro pronunciato parole gravissime. Ha detto. “Se incontro gli autori (della Piovra e di Gomorra) giuro che li strozzo.” Mesi fa aveva invitato Saviano a un incontro privato. Per strozzarlo? Come deve sentirsi Saviano la cui vita dipende anche dalla protezione dello Stato? Si è davvero passato ogni limite. Stavolta la risposta non può essere soltanto di opinione. Deve investire l’intera comunità degli scrittori e dei lettori senza limitarsi alle firme di solidarietà. In quali forme, è cosa che si dovrà valutare, ma certo è tempo di scelte concrete. Il “con chi pubblicare” non può più essere considerata una variabile soggettiva. Saramago la sua scelta l’ha fatta. Molti altri potrebbero permettersela. Che la facciano. E dalla parte dei lettori sarebbe bene adottare le stesse strategie messe in campo dai consumatori per difendersi dalle frodi: il boicottaggio dei marchi di fabbrica che sfruttano magari una tradizione più che rispettabile e onorata, per truffare gli acquirenti e riassumere ogni messaggio in messaggio Pubblicitario e Mistificatore. Su questo, ciascuno di noi è chiamato a scegliere.

Postato sabato, 17 aprile 2010 alle 11:32 da Gianfranco Manfredi


E a proposito di Immagine dell’Italia. Quale sarebbe se autori internazionali di grande prestigio decidessero di cambiare distribuzione italiana mentre gli autori italiani esitassero a farlo, trincerandosi dietro valutazioni di opportunità?

Postato sabato, 17 aprile 2010 alle 11:44 da Gianfranco Manfredi


Scrive oggi Saviano su Repubblica, al premier:

“Io sono un autore che ha pubblicato i suoi libri per Mondadori e Einaudi, entrambe case editrici di proprietà della sua famiglia. Ho sempre pensato che la storia partita da molto lontano della Mondadori fosse pienamente in linea per accettare un tipo di narrazione come la mia, pensavo che avesse gli strumenti per convalidare anche posizioni forti, correnti di pensiero diverse. Dopo le sue parole non so se sarà più così. E non so se lo sarà per tutti gli autori che si sono occupati di mafie esponendo loro stessi e che Mondadori e Einaudi in questi anni hanno pubblicato. La cosa che farò sarà incontrare le persone nella casa editrice che in questi anni hanno lavorato con me, donne e uomini che hanno creduto nelle mie parole e sono riuscite a far arrivare le mie storie al grande pubblico. Persone che hanno spesso dovuto difendersi dall’accusa di essere editor, uffici stampa, dirigenti, “comprati”. E che invece fino ad ora hanno svolto un grande lavoro. E’ da loro che voglio risposte.”

Postato sabato, 17 aprile 2010 alle 12:02 da Gianfranco Manfredi


Ci si augura perlomeno che queste “risposte” che chiede Saviano, siano rese pubbliche.

Postato sabato, 17 aprile 2010 alle 12:10 da Gianfranco Manfredi


E tanto per sgombrare il campo da equivoci e rozzezze ideologiche. Si ripete a molti autori letterari o televisivi o cinematografici: “Sì, siete antiberlusconiani, però prendete i soldi da Berlusconi.” Questo è il classico rivoltare la frittata. Un editore è un mediatore tra scrittore e pubblico. Uno scrittore i suoi soldi, li ricava dai lettori. La misura di questa cifra è percentuale. Se uno scrittore alla fine guadagna 10, il suo editore ha guadagnato cento o mille. Dunque il problema per uno scrittore non è affatto che si arricchisce grazie all’editore, ma che l’editore si arricchisce grazie a lui e ai lettori procurati dal suo lavoro. Quello che “sputa nel piatto in cui mangia” in questo caso è l’editore, non lo scrittore. Non sarebbe il caso di toglierglielo questo piatto?

Postato sabato, 17 aprile 2010 alle 12:26 da Gianfranco Manfredi


Caro Gianfranco,
della questione “BerlusGomorra” se ne sta parlando ne “La camera accanto” di Letteratitudine (il luogo dove si può discutere di argomenti vari, al di là di temi prefissati):
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/04/07/la-camera-accanto-16%c2%b0-appuntamento/comment-page-2/#comment-107879
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Sono ancora in attesa del contributo di Sergio Altieri.
Intanto qui si veleggia verso quota mille… alla faccia dei denti aguzzi. ;-)

Postato sabato, 17 aprile 2010 alle 15:15 da Massimo Maugeri


Caro Massimo, mi scrivi che qui non ci sono Direttori. C’è solo un uomo con la camicia celeste (per giunta sbottonata a mostrare il collo scoperto).
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Temerario! Con tutti questi denti aguzzi che spuntano in giro, mostrare il collo scoperto in un forum di vampiri e pseudovampiri!
Quanto al Direttore, mi riferivo all’attesa del contributo vampirico – più volte annunciato come imminente e “quasi pronto” – di Sergio Altieri ( notoriamente, pare dal 2006, ancora direttore editoriale di varie collane da edicola, molto amate, della Mondadorona. Insomma, a scanso di equivoci di lettura, era solo una battuta, perché no ?
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P.S. Il coro dei mille vampiri in attesa in un forum : “Ma quando arriva il Direttore?” :-)

Postato sabato, 17 aprile 2010 alle 16:54 da Gianni De Martino


Dopo gli incontri con i ragazzi delle scuole di Levico (abbiamo parlato anche di vampiri, paura, horror, l’Ombra dentro di noi…ve ne dirò qualcosa quando torno a Trieste…c’erano spunti assai interessanti), sono a Mantova per altri incontri nei prossimi giorni.
Ci tengo a dire (e a lasciarne traccia scritta e indelebile) che sto dalla parte di Gino Strada, di Emergency, di Roberto Saviano e di tutte/ coloro che si battono per la legalità, per la pace e per la giustizia.
Credo che tutti (e gli scrittori registi musicisti autori…) dovrebbero schierarsi. Perchè ci sono momenti delle vite private e collettive in cui il nostro parlar deve essere particolarmente chiaro e forte: “sì sì no no”

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Postato domenica, 18 aprile 2010 alle 09:33 da luciano / idefix


Caro Luciano, intervieni anche tu ne la camera accanto se hai tempo e voglia.

Postato domenica, 18 aprile 2010 alle 12:43 da Massimo Maugeri


@ Gianni
Hai ragione: aspettiamo tutti il SuperMega Direttore Altieri… :)

Postato domenica, 18 aprile 2010 alle 12:50 da Massimo Maugeri


@ Massimo. Tanto per chiarire: non credo che la questione ri-aperta dal caso Saviano (perché nuova non è) possa venire derubricata a “Varie ed Eventuali”, ma neppure (ti assicuro) era mia intenzione dirottare questo forum , anche perché ritengo che nel merito della questione Saviano, come giustamente rimarca Luciano, non c’è più nulla da discutere, c’è solo da fare scelte. Già oggi sui giornali abbiamo visto singoli scrittori esprimere le loro scelte, in base alle quali ogni lettore può valutarne la credibilità e l’attendibilità. Discutere invece di tattiche interniste o esterniste, non ha senso. Uno scrittore affermato ha potere di scegliere sull’editore che più gli si confà. Se questo forum è andato bene è anche perché molte degli scrittori che qui si sono espressi, hanno scelto (senza conoscersi prima) Gargoyle come editore e lì hanno trovato una perfetta corrispondenza di percorso tra le proprie scelte narrative o saggistiche e le scelte editoriali. Il mio ottimismo dell’Utopia spera sempre che l’area della produzione indipendente e frutto di libera scelta si ampli. Il mio pessimismo dell’esperienza mi porta a concludere che le lamentazioni degli scrittori tendano ad essere come quelle dei calciatori, cioè indirizzate a rivalutare il proprio cartellino. C’è una scelta di base che ogni scrittore affermato si ritrova davanti: quella di confermare il proprio potere di scelta “elettivo” (l’editore che più corrisponde alla mia scrittura e alla mia ricerca) oppure quella di far pesare questo potere contrattualmente, cioè vendersi al miglior offerente. Da questo punto di vista, la discussione sta a zero. Solo le scelte espresse hanno senso. fuori da questo, ogni sortita polemica è solo un colpo di tosse in salotto mentre è in corso la pestilenza, come ben illuminato da questo passo di “Orgoglio e Pregiudizio e Zombie” :

“Vuoi smetterla di tossire a quel modo, Kitty, per l’amor del Cielo! Pare che tu sia stata colpita dalla pestilenza!”
“Mamma! Che cosa orribile da dire, con tutti questi zombie in circolazione!” ribatté Kitty, indispettita. “Quando sarà il prossimo ballo, Lizzy?”

Dunque per quanto mi riguarda, dichiarato come la penso e avendo già fatto la mia scelte da tempo, non ho proprio più nulla da dire, e possiamo tranquillamente tornare al tema vampirico, sul quale peraltro temo d’aver esaurito le cartucce e dunque resto in attesa di alimento dagli altri.

Postato domenica, 18 aprile 2010 alle 15:21 da Gianfranco Manfredi


La pestilenza in questione, ove non fosse chiaro, è il tentativo non solo italiano e non solo del nostro premier, di ridurre informazione e narrativa a propaganda. Se si sta con editori che la pensano così, non siamo più degli scrittori, ma dei copywriters. A ciascuno la sua scelta e basta chiacchiere.

Postato domenica, 18 aprile 2010 alle 15:26 da Gianfranco Manfredi


Caro Gianfranco, non solo non ho mai pensato che tu potessi dirottare il forum vampirico (ma scherzi?)… ma – al contrario – ritengo che gran parte del merito del successo di questa discussione sia proprio tua. Tu (figura autorevole in tema di letteratura vampirica e non) ti sei entusiasmato nel corso del dibattito e hai svolto il ruolo del trascinatore (più che dell’animatore). Questo ti va riconosciuto (e hai tutta la mia gratitudine).
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Sulla questione aperta negli ultimi commenti, hai ragione… se ne è parlato fin troppo (che ognuno faccia le sue scelte, piuttosto).
Torniamo ai vampiri…

Postato lunedì, 19 aprile 2010 alle 20:51 da Massimo Maugeri


Sergio Altieri mi ha inviato il suo contributo. Penso di inserirlo sul post domani sera, intorno alla mezzanotte. Contestualmente ri-metterò il post in primo piano e rilancerò il dibattito con la newsletter.
Dopodiché chiederò a Paolo De Crescenzo della Gargoyle se è interessato a fare di questo post un libro di carta (Paolo, se mi leggi ti saluto e… tienti pronto per la risposta). ;)

In caso contrario inserirò il dibattito in “Letteratitudine, il libro – vol. II” (in uscita a dicembre per i tipi di Azimut). In tal caso, però, potrò dedicare solo poche pagine alla nostra discussione vampirica (“salvando”, dunque, solo una piccolissima parte).

Postato lunedì, 19 aprile 2010 alle 20:57 da Massimo Maugeri


Caro Massimo, sono lusingato e fortemente tentato dalla proposta, ma i piani editoriali di Gargoyle sono basati su un numero limitato di uscite annue (12 , almeno per il momento), di cui solo una dedicata alla non-fiction, e 2011 e 2012 sono già programmati da tempo.
Suggerirei di cominciare con la pubblicazione degli stralci più significativi, poi rimanere “in finestra” e vedere cosa accade, anche perché dubito fortemente che la parola “fine” sia imminente (proprio stasera, per esempio, mi sono permesso di rilanciare il tutto sul sito di Gargoyle): d’altra parte, se il vampiro è immortale, cosa ci fa pensare di poter decretare senza problemi la fine di un thread che ha letteralmente “vampirizzato” il tuo blog?

Postato lunedì, 19 aprile 2010 alle 22:41 da Paolo De Crescenzo


In attesa del tanto atteso intervento di Sergio, butto là un’altra questione che non abbiamo ancora affrontato, sollecitato dall’attualità dell’emergenza vulcanica. Resto ovviamente al campo vampirico. Nella narrativa e nella storia dell’emergenza vampirica si sono intrecciate due diverse situazioni: 1. L’infezione vampirica riguarda un gruppo ristretto di persone (una famiglia, un villaggio, una regione periferica) e il fatto che sia circoscritta ne facilita la soluzione; 2. L’infezione dilaga nelle grandi città, assume la forma di una vera pandemia, di catastrofe totale e le soluzioni da mettere in campo sono molto più intricate. Nel cinema vampirico recente queste due tendenze sono visibilissime. Un esempio della prima è Lasciami Entrare. Il rapporto dei due adolescenti in cui si sostanzia la storia non riguarda naturalmente esclusivamente loro perché assume un rilievo simbolico e in quanto tale universale, però la storia si presta a una narrazione più intimista. Un esempio della seconda sono i film 28 giorni dopo (2002) di D.Boyle e il sequel 28 settimane dopo (2007) di J.C. Fresnadillo. Si usa come spina dorsale della narrazione, è vero, la vicenda di una famiglia, ma questa vicenda non è separabile viene anzi travolta dalle dimensioni collettive della catastrofe, destinata comunque a lasciare un segno permanente, una ferita non rimarginabile nel corpo sociale, fino alla dissoluzione di ogni relazione umana, quella famigliare inclusa, e la narrazione diventa dunque corale. Il vero protagonista è un soggetto collettivo. Questo tema era anche al centro di La Notte dei Morti Viventi. Tema trasversale si può anche dire, perché il catastrofico e l’apocalittico includono la questione vampirica, ma percorrono molti altri “generi” , assumendo caratteristiche di una sorta di genere infra-generi.
In letteratura, da Io sono una leggenda di Matheson a Hanno sete di McCammon, lo scenario vampirico-apocalittico è ben insediato. Ora, in questa discussione, a mio parere abbiamo inclinato finora più verso l’esplorazione della prima tendenza (il vampirismo come fenomeno tanto ristretto ed estremo, quanto simbolico ed esemplare) mentre abbiamo dato poco rilievo alla seconda. Le soluzioni narrative alla seconda prospettiva (catastrofe collettiva) sono di due ordini fondamentalmente: 1. Il mutamento è inarrestabile e non si può più tornare indietro. La via del vaccino mantiene aperta una piccola speranza, ma la catastrofe sociale non sarà comunque rimarginabile e configura un diverso assetto sociale; 2. L’origine del Male sta in un complotto. C’è un Master, un Arcivampiro variabile impazzita e prima Origine del Morbo. Eliminato lui (di solito da parte di un commando militar-religioso) tutto tornerà a posto e i Giusti Trionferanno seppure in un paesaggio di macerie, ma in un paesaggio in cui è anche emersa una nuova spinta solidale.
In queste due opposte tendenze si confrontano anche due filosofie. L’una assume il fatto che la nostra idea di controllo sulla natura e sulle cose è una convinzione errata. Quando si scatena la Natura, in forma pestilenziale, non c’è alcuna soluzione che possiamo mettere in campo, se non quella di cercare di limitare i danni. Il controllo totale delle condizioni di vita , che è l’ideologia fondante del Moderno, al di là di ogni coloritura politica, è puro inganno. Basta una settimana di blocco di voli, per destabilizzare la nostra Economia, la nostra vita di relazione, la nostra stessa necessità di muoverci, insomma la nostra Presunta Sicurezza. Nella seconda soluzione si evoca un Potere, una forza della volontà, un Centro di controllo che ha determinato la catastrofe. Annullando questo Centro di Controllo si annulla la catastrofe. Ho visto di recente un telefilm apocalittico in tema di Onda Anomala, che potrebbe tranquillamente essere trasferito ai vulcani islandesi. Un gruppo terrorista criminale è in grado di causare onde anomale e dunque di ricattare il mondo. Se oggi qualcuno sostenesse che i vulcani islandesi sono stati attivati da Al Queida, potete giurarci che troverebbe la sua audience in rete. Ci fa così paura l’idea che sulle nostre vite NON ABBIAMO CONTROLLO, da trovare consolatorio pensare che questo controllo ci è stato sottratto da qualcuno, da un Nemico. Ritroviamo il controllo, eliminando l’etero-controllore. La scelta narrativa acquista insomma un significato ideologico. Spesso di questa che non è una ricaduta, ma in qualche modo una premessa, cioè la scelta “filosofica” alla base di un racconto, gli scrittori (in particolare quelli horror) non sono compiutamente consapevoli. Gli interessa la paura in sè ed entrambe le scelte ci consentono di raccontarla. Lo stesso scrittore può esplorare l’una e l’altra soluzione, a seconda dell’impulso del momento o della sua voglia di raccontare uno scenario o un altro. Resta però il fatto che la poca consapevolezza delle implicazioni filosofiche di base, contribuisce a indebolire la coerenza e la forza narrativa dell’insieme. Voglio dire che sarebbe sempre bene non considerare come “indifferenti” le nostre scelte narrative, perché “indifferenti”non sono affatto. Il lasciarsi possedere dalla Musa (di cui abbiamo parlato) diventa ingannevole se non si tiene presente che comunque l’atto di scrivere è di per sé una scelta. Senza una scelta definita, ci si lascia possedere non dall’Ispirazione o dall’Inconscio, bensì dalle ideologie correnti, dal Pensiero Dominante, da Istanze Consolatorie (in molti casi). Nell’idea della letteratura come territorio dell’evasivo, del divertente, del presunto “Tempo Libero”, si propone in realtà (in tutti i generi anche in quello eminentemente storico-sociale) un’idea di narrativa Senza Pensiero. La rimozione della Filosofia, diventa dunque la condizione preliminare per l’irruzione in noi dell’Ideologia Corrente.

Postato martedì, 20 aprile 2010 alle 12:01 da Gianfranco Manfredi


@ Paolo De Crescenzo
Caro Paolo, mi ha scritto Marina Berlusconi proponendomi di pubblicare il libro/dibattito sulla “letteratura dei vampiri” per la casa editrice che dirige… al fine di compensare i mancati guadagni che deriveranno dal probabile abbandono di Roberto Saviano.
Dato che però ho già fatto la mia scelta di campo le ho detto che ho già deciso di pubblicare con Gargoyle nel 2013.
:)
Scherzi a parte… le poche pagine (delle quasi 400) di questa discussione on line che potrò “salvare su carta”, andranno su “Letteratitudine, il libro – vol. II”.
Poi si vedrà.

Postato martedì, 20 aprile 2010 alle 23:59 da Massimo Maugeri


Ringrazio Gianfranco per il nuovo intervento.
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Come promesso, ho pubblicato (in aggiornamento del post) il corposo contributo di Sergio Altieri, che ringrazio di cuore.
Ripasso la parola a voi esperti.

Postato mercoledì, 21 aprile 2010 alle 00:02 da Massimo Maugeri


Grande Sergio! Anche le tortorelle subiscono il fascino dei vampiri :)
Mi piace l’idea di essere il commento mille-e-uno…
buona giornata
Liz

Postato mercoledì, 21 aprile 2010 alle 11:03 da Liz


Avrei una domanda: nel Dracula di Coppola l’ombra del vampiro provoca il decadimento di alcuni fiori con cui entra in contatto,esistono nel folclore riferimenti alla possibilità che il contatto con l’ombra o il corpo di un vampiro causi il decadimento fisico di un essere vivente oppure si tratta di un espediente della fiction?
Pongo questa domanda poichè solo nella fiction ho trovato altri riscontri (in Capitan Kronos le vittime dei vampiri invecchiano rapidamente,mentre in Necros di Brian Lumley compare una creatura vampirica che succhia la giovinezza.) e vorrei sapere quindi se tale espediente affonda le sue radici in qualche mito.

Postato mercoledì, 21 aprile 2010 alle 11:07 da Francesco Moretta


Proviamo a considerare le categorie proposte da Altieri come attributi di un’unica figura (il Vampiro) . Ne risulta un quadro da “parlano di lui”. Cosa si dice di lui? E’ un individuo solo e “asociale”; è modaiolo, testimone snob di una upper class separata dal mondo; è una non-persona, è “razza dannata” ; è la peste del secolo da sterminare. Detto così questo new vampire non è altro che l’aggiornamento dell’Ebreo rappresentato e giudicato dalla propaganda antisemita. Per quanto si tenti di rimuovere il perturbante dallo spassoso, di spassoso non c’è davvero nulla. A meno che non si considerino spassose le barzellette sugli ebrei.

Postato mercoledì, 21 aprile 2010 alle 11:15 da Gianfranco Manfredi


AriCiao, popolo dai denti aguzzi! Anche se da un po’ che non intervengo continuo a leggere estasiata i contributi che fioccano sull’argomento. Che altro si potrebbe aggiungere?
Giusto così, in risposta alla domanda di FRANCESCO MORETTA sulle ombre vampiriche, nel mio piccolo posso dirti che nel folklore indiano esiste il Masan, un vampiro notturno generato dallo spirito di un bambino che si nutre del sangue di altri bambini: basta che uno di essi cammini sulla sua ombra per diventarne l’ignara preda. Pare comunque che il masan non disdegni le donne che, allo stesso modo, rincorre e costringe a passare sulla sua ombra, anche solo con l’orlo della camicia da notte.
Al contrario, nelle Filippine esiste invece l’Aswang, un vampiro orrido dal corpo umano e testa di animale dalla lunga lingua retrattile. Il suo nutrimento fondamentale è il sangue, e di norma preferisce quello dei bambini. Si dice che, se un aswang sfiora l’ombra di qualcuno, questi morirà entro breve tempo.
Approfitto anche per dare il benvenuto al tanto atteso Sergio Altieri!! :)
Alla prossima ;)

Postato mercoledì, 21 aprile 2010 alle 11:51 da Simonetta Santamaria


Originale come al solito il suo post vampirico. Mipiace l’idea di raggruppare i vampiri per genere, noi qui credo li abbiamo toccati un po’ tutti ed è la giusta occasione per riepilogare e aggiungere cose nuove.
Mi riservo di rileggerlo con calma e poi ci si rivede.
;)

Postato mercoledì, 21 aprile 2010 alle 11:57 da Simonetta Santamaria


Fossimo a una tavolata “fisica”, a questo punto mi sa che proporrei un grandissimo brindisone a Gianfranco Manfredi.
Su gambe traballanti mi alzerei e con voce alticcia direi: “E’ raro trovare uno scrittore così disponibile e competente come Gianfranco Manfredi che su questo blog ha saputo tenere in vita con tanta continuità di interventi dotti ma nello stesso tempo gustosi e competenti tali da dimostrare competenza e disponibilità a un confronto competente e disponibile che solo la sua competenza e…”
Al che, qualcuno avrebbe pietà di me e la taglierebbe corta.
Comunque, propongo lo stesso questo super-brindisi a Gianfranco.

Postato mercoledì, 21 aprile 2010 alle 12:45 da luciano / idefix


Grazie Luciano, ma se le cose stanno come le descrive Altieri ( e non ho dubbi sul fatto che il mainstream vampirico attuale sia quale lui lo descrive), non c’ molto da festeggiare perché significa che tira una gran brutta aria. A Sergio ciò pare pura giocosità letteraria, a me segnale di pestilenza ideologica. E non trovo affatto divertente la pestilenza. Tra l’altro, chi la trova divertente, credo che si stia lasciando l’horror alle spalle e imbocchi pericolosamente la strada del bestseller effimero, precondizione di quella informazione/narrativa ridotta a propaganda che è attualmente la peggior nemica degli scrittori di vocazione.

Postato mercoledì, 21 aprile 2010 alle 15:52 da Gianfranco Manfredi


Tra l’altro dichiaro che sono rimasto ammirato dal fatto che Paolo de Crescenzo, l’editore di Gargoyle, di fronte a romanzi e ad autori il cui impatto commerciale era garantito, non abbia fatto una sola mossa per assicurarseli, neppure quando l’offerta era lì da cogliere. Il suo commento rispetto a questi Prodotti, lo ricordo bene: “cacate”. Grazie, Paolo.

Postato mercoledì, 21 aprile 2010 alle 15:58 da Gianfranco Manfredi


Segnalo inoltre che sul sito di Gargoyle è apparsa la seguente notizia:

“Non spetta certamente a noi determinare se un autore affermato possa e debba rivendicare la propria indipendenza e scegliere l’editore che preferisce, ma ci fa piacere rilevare che in America un autore del calibro di Stephen King (che di sicuro non ha problemi a scegliersi l’editore che preferisce) abbia designato per l’uscita del proprio nuovo romanzo ( Blockade Billy) una piccola casa editrice indipendente – Cemetery Dance – che, con le dovute proporzioni, è un po’ la Gargoyle USA.
Tanto di cappello al Re, che conferma di essere tale a livello di comportamento, anche se la sua vena narrativa è da alcuni anni alquanto affievolita…”

King, comunque si giudichino i suoi ultimi romanzi, è senza dubbio alcuno un Autore Vero. Mi auguro che questa sua disponibilità a pubblicare per un indipendente contribuisca anche a rafforzarne le motivazioni e la “poetica” . Scegliere un editore non generalista, ma di vocazione, ha un effetto benefico sulla vocazione stessa dello scrittore.
La realtà del mercato del resto dimostra che non è più vero che il Grande Editore per la sua stessa forza, per il suo potere sul mercato, per il numero dei collaboratori che può stipendiare e dispiegare, non è più vero che determini il successo di un’opera. La nuova ondata horror o para-horror ha in Italia avuto per alfieri editori come Fazi, La Nord (per decenni editore per appassionati che addirittura distribuiva i suoi libri per abbonamento postale) e se si aggiungesse all’horror il Thriller e il Mistery, l’elenco sarebbe lunghissimo. Lo stesso è avvenuto per i libri di cronaca e di giornalismo d’inchiesta. L’editoria generalista è rimasta del tutto spiazzata da questo fenomeno. Dunque sostenere che si sta con un editore generalista perché assicura maggior evidenza e diffusione a un’opera, è solo un comodo alibi. Uno scrittore affermato (che sia per cultori o che possa vantare milioni di lettori nel mondo) PUO’ scegliere. Di fatto GIA’ sceglie e dimostra anche sul mercato di non aver bisogno di altro Potere di quello contagioso della scrittura. Viva King! E che altri, purchè degni, seguano la sua strada trovando quel coraggio di esporsi e di rischiare che fa di uno scrittore anche un testimone.

Postato mercoledì, 21 aprile 2010 alle 16:19 da Gianfranco Manfredi


Grazie milla per la risposta, l’aswang lo conoscevo,ma il Masan no. Rassomiglia a un essere fatato che si aggira per i boschi d’Italia, ma di cui non ricordo il nome.(Non è un revenant ma uno spirito o folletto.)Questo essere ha le sembianze di un fanciullo vestito con un mantello rosso e se si calpesta la sua ombra si è condannati a divenire suoi servi.
Sottoscrivo quanto detto sulla pestilenza ideologica,molti libri si sostengono su trame ormai vecchie e abusate,semplificando spesso i pochi aspetti interessanti:sono loro i veri vampiri, libri che non portano nulla a chi li legge,ma uniformano e banalizzano l’immaginario dei più sprovveduti.

Postato mercoledì, 21 aprile 2010 alle 16:21 da Francesco Moretta


Una volta Gian Arturo ferrari della Mondadori mi disse di non riuscire proprio a capire l’atteggiamento di Michael Crichton , edito in Italia da Garzanti. La Mondadori gli aveva fatto ponti d’oro per convincerlo a passare con loro. Non capisci, dicevano, che con noi i tuoi stessi libri venderebbero tre volte tanto? A Crichton di questo non importava nulla. Si trovava bene con Garzanti e non vedeva alcun motivo per cambiare. Il che è come dire che non si vende la primogenitura per un piatto di lenticchie, o per usare un’altra metafora biblica già evocata in questo forum, che ci sono sempre momenti in cui bisogna scegliere tra le Tavole della Legge (regole minime per la libertà e la socialità) e il Vitello d’oro.

Postato mercoledì, 21 aprile 2010 alle 16:28 da Gianfranco Manfredi


Euforia vampirica ? Non importa se i Prodotti sono “cacate” o sangue di morto : l’importante è che luccichi, e che la Macchina con i suoi tic e le sue ipocrisie continui a girare per consentire la Sopravvivenza al Grande Editore. Non a caso nel ritratto che all’inizio degli anni novanta Peppo Pontiggia fece del paesaggio culturale italiano, si parla, con garbata ironia, di “sabbie immobili”. :-)

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P.S. Pubblicato presso la Mondadorona nel 1991, “Le sabbie immobili” vinse nel 1992 il premio Satira politica, sezione Letteratura, di Forte dei Marmi.

Postato mercoledì, 21 aprile 2010 alle 17:19 da Gianni De Martino


VAMPIRISMO E NECROFAGIA DELL’INDUSTRIA CULTURALE
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Il vampirismo del Grande Editore andrebbe messo in relazione con la necrofagia più generale dell’ industria culturale. Erede del culto degli antenati, questa assicura la permanenza di quei veri e propri morti-viventi che sono gli scrittori ( perlomeno quelli ormai assorbiti nel cielo degli Autori) e, in misura minore, ma sempre notevole, assicura anche la normatività dell’opera dei morti.
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In base a uno studio di Elvio Fachinelli ( ecco l’ironica impronta di un altro amico defunto !) , l’Industria culturale procede con preoccupazioni e operazioni riguardanti :
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a) La conservazione dell’opera-cadavere . Una tale operazione comporta diverse varianti: imbalsamazione; rinfrescamento; mummificazione; museo delle figure di cera.
b) Necrologia. Come commento immediato sul morto. Il carattere fondamentale della necrologia è l’apologia ( con o senza brindisi) .
c) Commemorazione. Rievocazione. Comprende diversi tipi di operazioni , con in comune l’atteggiamento di nostalgia per un evento, o una serie di eventi, che la nostalgia rende importantissimi, decisivi, se non sublimi. Qui è evidente la possibilità di una strumentalizzazione politica ( politica dei revival, per esempio; oppure dei “grandi ritorni”, eccetera), che però s’innesta su un tipo di operazione praticata normalmente dall’industria culturale.
d) Monumentalizzazione. Questa è la più appariscente delle operazioni mortuarie. Il gigantismo è sottolineato da una certa rigidità e freddezza marmorea. Ma il marmo costa tantissimo, e vere e proprie monumentalizzazioni sembrano coincidere, più di altre operazioni, con le esigenze intrinseche del capitale d’azienda.
e) Dissotterramento. E’ un’operazione che assume molteplici aspetti e talvolta corrisponde a una rievocazione, o evocazione. E’ come il secondo funerale, quasi un rito di “purificazione col morto”, come avviene nel “secondo funerale” degli arcaici descritti dagli studi etnografici.
f) Persecuzione dei viventi. E’ una tipica angoscia da persecuzione da parte del morto derivante negli arcaici dalla vicinanza temporale o spaziale del cadavere. L’esclusione di chi si pone come testimone-vivente potrebbe corrispondere a una obliterazione da parte dell’industria culturale di un vivente e dei suoi problemi.
Come un lettore potrebbe dire , mettiamo, a Saviano: “Fatti più in là che debbo leggere il tuo libro”, anche all’industria culturale occorre solo il testo, non lo scrittore-testimone, ancora vivo e non imbalsamato o imbalsamabile. Una tale obliterazione potrebbe essere fatta anche in nome di una identificazione dell’industria culturale con l’opera del morto-vivente.
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I comportamenti abituali dei vivi si vanno trasformando a poco a poco nel rapporto tra i “maggiori” e l’operare intellettuale, creativo, dei vivi. Vittime dei libri ? Naturalmente si è sempre liberi di scegliere a quale editore dare “un po’ ” del proprio sangue e da quale libro
o opera-cadavere essere vampirizzato.
Gli antenati muiono. Attraverso però la scrittura e altri sistemi di conservazione e diffusione di suoni e immagini, la necrofagia dell’industria culturale può assicurare la permanenza e, in misura minore, ma sempre notevole, anche la normatività delle opere dei morti.

Postato mercoledì, 21 aprile 2010 alle 18:39 da Gianni De Martino


ERRATA CORRIGE

Gli antenati muoiono.

IN LUOGO DI

Gli antenati muiono.

Postato mercoledì, 21 aprile 2010 alle 18:45 da Gianni De Martino


Fachinelli una volta commentò un film con Charlton Heston , se non ricordo male: 2022 i Sopravvissuti, nel quale, sempre se non ricordo male, la principale industria oltreché fonte di alimentazione dei vivi, è il traffico dei morti. Necrofagia e merce compiutamente fusi. L’autore e l’opera vivi in cui si esprime qualcosa d’altro rispetto alla merce rappresentano, che ne siano o no consapevoli, l’irruzione di qualcosa di estraneo rispetto al placido funzionamento del circuito. Di cosa diavolo state parlando? Potrebbe dire qualcuno. Voi scrivete il vostro libro, io lo vendo, promuovo anche la vostra Immagine. Prosperiamo entrambi e i lettori sono contenti e consumano. Cosa c’è di sbagliato nel tranquillo funzionamento di questa macchina? Che senso ha fare casino, cianciare di libertà, di scelte, di autonomia di giudizio e di gestione? Possibile che non riusciate a stare al vostro posto? Perché uscite costantemente dalla bara di raso e velluto che è stata confezionata per voi? Non riuscite a stare tranquilli neanche da morti?

Postato mercoledì, 21 aprile 2010 alle 18:59 da Gianfranco Manfredi


mi è molto piaciuto l’articolo di Altieri. sia il taglio e l’impostazione, sia i contenuti. una riuscita fotografia dell’esistente.
nei prossimi giorni se potrò, scriverò qualche altro post. ciao.

Postato mercoledì, 21 aprile 2010 alle 19:08 da piero


Illuminante e orrorifico davvero il commento di Faletti alla vicenda Saviano: “Un operaio che era contro Agnelli, mica se ne andava dalla Fiat”! Eccheccazzo! Dovrebbe esserci un limite di decenza. Vogliamo paragonare un operaio a uno scrittore di bestseller internazionali che ha illimitata possibilità di scelta? In realtà dietro la bestemmia, si nasconde qualcosa di più perverso. L’idea che chi scrive è un salariato, un congegno dell’ingranaggio produttivo, che produce beni di consumo. Se uno si considera così, qualunque editore abbia (anche il più reazionario del mondo) non costituisce problema. Se poi il salario è miliardario, di cosa ci si lamenta? Tanto le merci prodotte finiscono alla “Gente” mica al Proprietario!
E’ stato lo stesso Faletti che parlando del suo lavoro di scrittore ha detto la frase che mi pare d’aver già citato: ” Se uno ha un buon inizio e un buon finale il resto è solo fatica di battitura”. Lavoro intellettuale e lavoro manuale pienamente identificati. L’Autore non produce un’opera (dal principio alla fine, dalla progettazione all’editato), l’Autore vende il suo Tempo Lavoro, o come si dice altrimenti “presta la sua opera” (nel senso della Prestazione Pura di Sè).
Stiamo ancora parlando di uno Scrittore? Questo è il punto.

Postato mercoledì, 21 aprile 2010 alle 19:18 da Gianfranco Manfredi


Nonostante il raso e il velluto con i quali si confezionano tante bare, resta una delle cose più difficili: tener fermo un morto, tranquillizzare i morti.

Postato mercoledì, 21 aprile 2010 alle 19:23 da Gianni De Martino


Il problema è che anche quando i morti non stanno fermi,anche quando si alzano il cosidetto potere costituito finisce sempre per strumentalizzarli
in un modo o nell’altro. Altro che Homecoming di Joe Dante,qui in Italia i morti votano gia da molto tempo. (Alla faccia di Jorge Grau che affermava che non si deve profanare il sonno dei morti.)

Postato mercoledì, 21 aprile 2010 alle 22:07 da Francesco Moretta


A me, uno che scrive (o pronuncia una frase simile) fa pietà.
Dire: “Se uno ha un buon inizio e un buon finale il resto è solo fatica di battitura” è roba penosa. E se il pronunciatore di questa frase si chiama Faletti e spaccia milionate di copie (anche se solo col primo romanzo, poi c’è stato un calo calone di vendite) e incassa un sacco di euri, non cambia: si può esser ricchi e far pena lo stesso.
Perchè l’idea di scrivere in quel modo lì mi sembra tristissima.
E va di pari passo con l’altrettanto (se non più…tolgo il “se”) infelice frase su Saviano.
Io non ho nulla di nulla (anzi!) contro gli autori-artigiani, quelli cioè che scrivono per vendere (sceneggiatori televisivi o di fumetti, romanzieri di genere, eccetera): sono persone che ammiro e che mi hanno regalato-venduto migliaia di ore e ore di emozioni e divertimento e paura e suspense e avventure e fantasie ed erotismo e viaggi ed esotismo e misteri e horror e cow-boy e alieni e super-eroi e pirati e cannibali e città perdute…
Ma non è stabilito da nessuna parte (e men che meno da Faletti) che il loro lavoro sia così triste come lo codifica Faletti con quella sua miseranda frasetta.

Postato mercoledì, 21 aprile 2010 alle 23:08 da luciano / idefix


La pestilenza ideologica deriva dalla tendenza a scrivere quello che vuole la massa e non quello che lo scrittore ha nelle sue corde. E’ l’evidente ondata che cavalcano molti scribacchini che offrono, alla fine della fiera, solo una bella copertina, una grossa casa editrice, magari un nome e dentro.. nulla.
E, per (tentare di) stare dietro al discorso di Gianfranco, noi siamo tutti un po’ dei piccoli King, quelli che non si piegano, che ostinatamente continuano a produrre quello che secondo noi è giusto produrre, quelli che probabilmente non diventeranno mai ricchi con la scrittura.
Faletti… Con tutto il rispetto, ma se spara una frase come quella vuol dire che A) ha un’illuminazione celeste, o una macchina da scrivere come quella dei Tommyknockers, che glli ha fornito la chiave dell’eterna ricchezza, letteraria e materiale; B) Non capisce un cazzo di scrittura. IO propendo per la seconda ipotesi. Con tutto che non ho disdegnato alcuni suoi libri. Si vede che lui stesso dimentica le pubbliche dichiarazioni ai tempi di Io uccido in cui dichiarà in tv che al suo capolavoro hanno lavorato 4 editor… Che pubblicò con la Baldini Castoldi e Dalai perché era amico di Alessandro Dalai che gli contropropose un romanzo mentre lui gli voleva rifilare una serie di racconti. Uno che non ha tutta ’sta gavetta sulle spalle farebbe bene a tacere piuttosto che sputare sentenze sul come si scrive.
Questo è un tipo di vampirismo letterario. Vampirismo psichico, quello che ti fa il lavaggio del cervello e t’impone quello che devi leggere.
Su questo fronte, sono felice di essere immune da certi condizionamenti.
E’ per questo che vivo ancora nell’ombra (penombra, va’!).
Sarebbe davvero bello poter brindare a questo thread intorno a un tavolo. Quante belle cose sono uscite, quanto di noi è venuto fuori (e quanto vorrebbe ma sul web non si può fare!).
Mi associo quindi al brindisi. A noi, rotelle fuori asse di un ingranaggio ma rotelle pensanti. A noi che, nonostante il pensiero comune, sappiamo ancora dire, di fronte a un fenomeno di massa: “cacate”.
:)

Postato giovedì, 22 aprile 2010 alle 00:41 da Simonetta Santamaria


Caro Luciano, concordo con te che non solo non bisogna disprezzare, ma essere grati ai tanti scrittori cosiddetti pulp che scrivevano al puro scopo di sbarcare il lunario, che è scopo onestissimo e socialmente apprezzabile, altrimenti scriverebbero solo i ricchi e allora sì che la letteratura sarebbe degradata a passatempo, a hobby. Sono anche più grato a quelli come Emilio Salgari che pur scrivendo migliaia di pagine per sbarcare il lunario, nonostante abbia arricchito i suoi editori, è morto suicida e coi debiti. Ma tutti questi autori, erano autori di margine, in qualche modo esterni alla macchina produttiva editoriale, che tra l’altro all’epoca non era invasiva come oggi. Mi ripugna invece la teorizzazione dello scrittore come riproduttore tecnico di stilemi all’interno di un processo produttivo della scrittura standardizzato e puramente definito entro la categoria della produzione-consumo. Un libro può anche non entrare nel circuito delle merci. Salinger è un caso estremo d’accordo, ma pur avendo scritto per tutta la vita, ha scelto di non pubblicare le sue opere successive al Giovane Holden. Moltissimi scrittori hanno deciso in vecchiaia di bruciare la loro corrispondenza, i loro appunti, le loro prove di scrittura, gli inediti malriusciti, perchè tutta questa carta non venisse poi pubblicata post-mortem con il risultato di oscurare le opere volute, de-finite e pubblicate. Insomma, la scrittura è qualcosa di particolare, che esiste anche fuori dal mercato, e ha una sua nativa indipendenza dal mercato stesso. La scrittura “professionale” per come la si intende oggi è cosa ben diversa, perché non potrebbe esistere indipendentemente dal mercato. I modi stessi della scrittura sono tarati sulla base del consumo di massa. Questi non sono scrittori che scrivono e poi consegnano al pubblico le loro opere e stanno a vedere i risultati, ma sono scrittori che o confezionano un bestseller, oppure per loro non vale neanche la pena di mettersi a scrivere. Se escono con un librone all’anno non è per sbarcare il lunario, ma per un calcolo di presenza del loro nome marchio e di sfruttamento del loro none marchio finché funziona o meglio, come si dice in gergo, finché “tira”. Ciò altera profondamente la natura stessa dello scrivere. La pagina non è più un insieme di segni usciti dal silenzio, ma è un riallineamento di caratteri tipo nati dal chiasso e al chiasso destinati. Prodotti che non possono fare a meno di fanfare promozionali, altrimenti di per sé non avrebbero forza espressiva e potenza vocale per potersi distinguere nel flusso generale del Rumore. D’altro canto non vorrei che queste mie parole suonassero come rimpianto della vecchia figura dell’artista o di modi produttivi superati. Il discorso riguarda invece l’oggi e il domani. Internet ha liberato molte energie di scrittura, in modo disordinato, è vero, contribuendo anche alla diffusione della figura sociale dello scrittore non-leggente, però ha anche aperto a una forma di scrittura-comunicazione in cui ciascuno è editore di se stesso e l’intermediazione “di mercato” tende a scomparire. Ora: le grandi casi editrici generaliste, cioè che pubblicano di tutto senza alcuna scelta di linea editoriale, di fronte al nuovo modo di produzione diffuso da Internet, sono destinate a crollare. Sono elefanti in bilico su una montagna di carta. Stanno applicando le stesse strategie di controllo del mercato che sono state applicate dall’Industria Discografica. Risultato di queste strategie? La case discografiche sono crollate. Io penso che nei prossimi anni ne sentiremo parecchi di tonfi di queste mega-industrie dell’intrattenimento, perché sono ormai terribilmente vecchie e inadeguate. E dunque non c’è saggezza alcuna nell’affidarsi a queste strutture monumentali quanto impersonali, in cui scompare persino la differenza tra il pubblicare le Pagine Blu, cioè un elenco telefonico, e un’opera di narrativa. Queste strutture crolleranno sotto il loro stesso peso, in un contesto in cui lo stesso mercato si fa sempre più flessibile.

Postato giovedì, 22 aprile 2010 alle 11:14 da Gianfranco Manfredi


C’è poi qualcosa da aggiungere circa l’attuale mercato degli esordienti. Chiunque esordisca e pubblichi per la prima volta un romanzo, si augura ovviamente che questo romanzo faccia clamore, entri in classifica, batta dei record di vendita. Sono sogni di grandezza magari un po’ infantili, ma siccome a volte si realizzano, perché non coltivarli? E’ il famoso quarto d’ora di celebrità. D’altro canto, non è meglio averlo quel quarto d’ora, piuttosto che non averlo mai? Voglio raccontarvi un aneddoto. Lucca, un paio d’anni fa, alla Fiera del Fumetto. C’è un incontro su un nuovo fumetto, ancora nemmeno uscito, ma l’attesa è notevole e si manifesta con una sala piena all’inverosimile. Ovviamente la credibilità della casa editrice (Bonelli, nel caso) e degli autori, noti e apprezzati dai lettori di fumetti , contribuisce al pienone. Ma l’organizzazione giudica che il vero vento del giorno sia l’apparizione di Melissa P. il caso editoriale dell’anno. Lei arriva, insieme agli altri partecipanti alla sua tavola rotonda, e al cospetto della sala piena, be’ non so cos’abbia pensato, ma suppongo ne sia stata gratificata. Solo che accade questo: alla conclusione del precedente incontro fumettistico, il pubblico lascia compattamente la sala , non per protesta, ma per disinteresse assoluto nei confronti di Melissa P. Resta in sala una manciata di persone. Vi confesso che mi è dispiaciuto per Melissa P. , però spero sia stata anche un’iniezione di realtà. A volte un successo mediatico si regge sul nulla, proprio in quanto fa riferimento a compratori che non scelgono, ma subiscono, figure immateriali riassunte in figure di meri consumatori.
Ora: se si debutta sperando di poter vivere di scrittura per tutta la vita, a certe delusioni si è attrezzati, perchè mica tutti i romanzi escono col buco, se invece è solo il trionfo che ci appaga, allora è bene sapere prima che questo trionfo è quanto di più inconsistente ed effimero ci possa essere e che la stessa Industria che ci ha eletto a Campioni, sarà la prima a scaricarci quando il nostro Io-merce è scaduto.

Postato giovedì, 22 aprile 2010 alle 12:28 da Gianfranco Manfredi


Ho anche assistito alla strana parabola di colleghi che hanno cominciato a pubblicare con un piccolo o medio editore indipendente. Dopo anni di lavoro, loro e dell’editore, sono passati da mille a ventimila copie. In quel momento sono diventati appetibili e hanno ceduto alle lusinghe, anche economiche, del Grande Editore. Risultato: le loro opere che prima erano pubblicate in prima stampa tra tre e cinquemila copie, ora venivano pubblicate in prima stampa in decine di migliaia di copie. Librerie piene, evidenza assoluta, percezione da parte dell’autore di aver ricevuto un sostegno e un’occasione per raggiungere il largo pubblico. Solo che il loro pubblico continuava ad essere di base quello dei ventimila. Per un libraio fa una bella differenza se un romanzo che gli giunge in dieci copie va esaurito, oppure se di questo romanzo di copie gliene arrivano cento che restano in massima parte invendute. Quell’autore, agli occhi del libraio, lascia una pessima memoria. Il libraio, nel suo giudizio, non pesa solo l venduto, ma anche l’invenduto. E la proporzione dell’invenduto conta molto di più. Di quello scrittore il librario conserverà una memoria negativa. La volta successiva non si farà più fregare. Gli ordini caleranno. Cosa ci ha guadagnato lo scrittore nel passaggio alla Grande Casa Editrice? Per aver fretta di guadagnarsi maggiore audience, ha delapidato quella che aveva prima, e pregiudicato la sua stessa credibilità sul mercato. Consegnandosi al successo effimero, la scrittura diventa un optional per l’autore. Non più una vocazione che si mantiene e si rafforza per una vita, ma un autobus su cui salire al volo per poi scendere (o essere spinti fuori) altrettanto in fretta quando il biglietto è scaduto.

Postato giovedì, 22 aprile 2010 alle 12:50 da Gianfranco Manfredi


E’ d’altra parte vero che ormai questa decadente e decaduta industria occidentale, prospera sul Precariato. Nessuno è indispensabile e che tu sia o meno Bravo nel tuo lavoro non fa alcuna differenza: verrai comunque scaricato, perché tra la massa dei nuovi in attesa alla porta, uno altrettanto bravo di te lo si potrà sempre trovare. Nel caso della scrittura e di chi scrive anche per sbarcare il lunario, il precariato è una condizione pressoché permanente. Il Precario di successo crede di averla Stabilizzata, ma poi scopre con dolore e frustrazione che questa stabilizzazione non esiste sul nuovo Mercato del Lavoro. Lo hanno ingannato, usato e sacrificato. Quel “generoso” anticipo ricevuto, i diritti intascati, la celebrazione organizzata attorno a lui, diventa allora il fiocco rosso al collo del maiale destinato ad essere sgozzato. Smarrita, perché mai trovata, la lenta e difficile disciplina e sapienza di scrittura, non riesce più a scrivere perché preda di un incantesimo dissolto. La carrozza è tornata zucca e Cenerentola deve rassegnarsi a tornare a casa a piedi.

Postato giovedì, 22 aprile 2010 alle 13:08 da Gianfranco Manfredi


Puro vangelo,per l’industria del consumo siamo tutti prodotti usa-e-getta ,da consumare e basta. Tutto quello che non può essere consumato o non può consumare è inutile,il diverso non va compreso,ma assimilato ed educato a consumare. (Romero è stato veramente profetico.)

Postato giovedì, 22 aprile 2010 alle 13:40 da Francesco Moretta


Quella puttana di Letteratura ( che, come diceva negli ultimi tempi l’amico Pier Vittorio Tondelli, “non salva, mai” ) non s’identifica con il Mercato e non si riduce al libro pubblicato: è un’attività complessiva molto più segreta e misteriosa che tra l’altro include l’atto dello scrivere ( l’atto più solitario che esista, quasi un darsi alla macchia), gli scarti, i rifacimenti, i testi che restano nel cassetto e che poi, probabilmente, gli eredi getteranno nella spazzatura…( Forse è il modo che la famiglia ha di vendicarsi di un parente scrittore, cioè di uno che è vissuto gran parte del tempo nell’intervallo delle vite di parenti, conoscenti e amici: “Vous nous avez lâchés”, è il rimprovero fatto a Proust quando arriva fuori orario in un salotto – “Vous nous avez lâchés” significa ” ci avete lasciati”, ma nell’espressione risuona anche il termine “lâche”, vile ). Come diceva la strega di Puskin: “Taci, sei sciocca e giovinetta: noi non giochiamo per danaro, ma solo per l’Eternità”. Insomma, si scrive per sopravvivere. Il che implica l’esporsi a tensioni fondamentali e a una vera e propria educazione alla gioia del linguaggio, al destino e alla morte ( che non può essere l’ultima parola).
Spesso la censura è auto-censura, la blanda viltà e il servilismo dello scrittore che, poiché è un Pinocchio che “tiene famiglia”, si conforma all’aria che tira al mercato, ubbidendo così agli spiriti di Canale 5, della de-sublimazione repressiva, della sdrammatizzazione, dell’intrattenimento, per cui la cosa da evitare è sembrare troppo impegnativi per il lettore. Lo chiamano “aggancio commerciale”. E’ una specie di ossessione che coglie soprattutto gli impiegati delle case editrici, quando ligi a un dovere immaginario parlano di “resa sul pubblico” ed evitano di fare quello che dovrebbero fare.
Nello scrittore è un’angoscia senza nome, simile a quella del protagonista di Il trentesimo anno di Ingeborg Bachman. Questi, dopo aver “riflettuto a fondo su ogni cosa, scopre di vivere in una prigione alla quale è necessario adattarsi, dove “non avrebbe potuto fare a meno di usare anche lui quel gergo canagliesco che è l’unico linguaggio disponibile per chi non voglia restare completamente isolato”.
Per scrivere occorre un po’ di ottusità e una “sana” decisione di autocastrazione. Ma l’ottusità mal si concilia con l’attenzione richiesta dal lavoro sullo spessore e la densità del filtro linguistico, dato che occorre una metodologia fredda per studiare e demistificare tanto il medium quanto il messaggio. La letteratura convenzionale è un meccanismo di difesa sociale popolato di spiriti infantili che corrono nella notte. Nel timore di restare completamente isolati e finire all’ospedale o un ospizio molti scrittori finiscono con l’arruolarsi, credendo di comunicare, in quella vasta congiura costituita dalla inerme letteratura artistica di consumo, una specie di letteratura-findus o letteratura-aspirina per cui il mondo viene accettato come qualcosa che invece non è affatto, una specie di Disneyland planetario.
Raramente con la scrittura si riesce anche a campare. Se accade, pur non essendo questo il punto, tanto meglio, perché no ? L’importante, una volta diventati vampiri di se stessi, è non barare, non cadere vittime del compiacimento e dell’illusione. Forse occorre dell’altro, ma ora non mi viene in mente.

Postato giovedì, 22 aprile 2010 alle 14:26 da Gianni De Martino


Mi viene in mente un racconto di Mark Twain in cui un grande navigatore sbarca in Paradiso e scopre che lì l’autore più celebrato e importante è un poeta-barbiere che non ha mai pubblicato nulla in vita sua e i cui scritti sono andati perduti. E’ un paradosso narrativo, certo, ma evoca quell’ “altro che non ti viene in mente”, Gianni, e che è puramente e semplicemente l’alterità della scrittura, in cui lo stesso scrittore, scrivendo, diventa altro da sé. Chi presume di affermarsi scrivendo, questa alterità non la conoscerà mai. Omero (che non si sa neppure se sia realmente esistito ) comincia l’Iliade con “Cantami o diva…”. La cosa ripugna allo scrittore moderno. Ma come? Non sei tu a cantare? Chi diavolo è questa diva? Questa diva è l’altro da sè. Questa diva certo non è riconducibile al mercato. Hermes, dio della comunicazione, ha certo molto a che fare con il mercato perché è anche dio degli scambi e dei traffici. Di scambi e traffici la comunicazione non può disinvoltamente sbarazzarsi, deve anzi capire che essa avviene anche attraverso questi traffici e in virtù di questi traffici. Però essa nasce all’origine come “canto” che da questi traffici prescinde, perché è sorgivo. Così finisce il bel libro che ho più volte citato di Salman Rushdie, Harun e il mar delle storie: “Fuori, sua madre aveva cominciato a cantare.” Quando si canta? Quanto ci viene di cantare. Quando al canto ci abbandoniamo. E di quel canto ci sentiamo esecutori , interpreti, tanto quanto ne siamo soggetto. Ben altra cosa sarebbe dire: “Fuori, sua madre stava cercando un discografico.”

Postato giovedì, 22 aprile 2010 alle 15:22 da Gianfranco Manfredi


Quanti morti-viventi nel rock! Quanti, di fronte all’Improvviso Successo, si sono poi chiesti non cos’è il Successo, ma cos’è successo? Ricordo una confessione di Kurt Cobain pochi mesi prima della sua morte. Grosso modo diceva: “Facevo le mie canzoni, a casa, con gli amici, nei locali, ero felice. Adesso cos’è accaduto?” La diffusione di massa , l’infinita replica industriale del già fatto, la sua vendita-svendita al minuto, spesso a un artista sensibile appaiono come un’espropriazione. Il suicidio, a molti grandi del rock, è apparso come una soluzione conseguente, una presa d’atto che la morte era già arrivata da tempo e il proprio funerale era già stato celebrato in pompa magna. E’ a questi grandi stritolati dal meccanismo che sentiamo ancora tutti di dovere molto. Gli dobbiamo cose comunicanti, sentimenti, emozioni, sapienza sonora, che il meccanismo non aveva previsto perché nate al di fuori, indipendentemente dall’ingranaggio. La speranza coltivata da molti scrittori contemporanei che dal proprio libro nasca un film è una speranza da traditori di se stessi. Non si dà film se non è preceduto da una produzione. Una canzone, un romanzo, invece non hanno bisogno di alcun apparato per nascere. E’ in questa “non appartenenza” che sta la loro radice. E questa “non appartenenza” è sacra.

Postato giovedì, 22 aprile 2010 alle 15:40 da Gianfranco Manfredi


Qualcuno ieri aveva annunciato la sua volontà di intervenire a proposito dello stimolante intervento di Altieri. Vorrei precisare che con questi ultimi post non intendevo minimamente passare oltre, erano riflessioni del resto nate anche prima dell’intervento di Sergio. Per cui, anche se sarebbe superfluo, non fatevi alcun problema a bypassare questa questione tra l’altro abbastanza sganciata dal tema, per tornare al punto o per introdurre nuovi punti di vista e argomenti. Il punto è che, controllando gli orari dei post, noto che molti di voi intervengono la sera quando sono più liberi. Io invece scrivo nelle pause del lavoro e dunque in tutt’altri orari, e la sera la dedico ad altro. Per cui… non fatevi condizionare, per carità. Scrivo quello che mi viene in mente e sollecitato dal forum, ma non voglio risultare invadente.

Postato giovedì, 22 aprile 2010 alle 16:51 da Gianfranco Manfredi


Mi ha fatto piacere che Francesco Moretta abbia tirato in ballo Romero. Immagino intendesse riferirsi al suo splendido secondo film (Zombie) ambientato in quel colossale mega-store. Quando il film uscì l’Italia non si era ancora popolata di queste gigantesche strutture in cui tutte le merci sono uguali a se stesse. Era bellissima quella doppia metafora degli zombi che arrivano lì per il perdurare di una pulsione meccanica al consumo, di cui però non riescono più a comprendere il senso, o forse sì, in quanto ne vivono l’inconsistenza. E del gruppo degli ancora umani che asserragliato là dentro, passa dall’illusione di un Paradiso in cui ogni bene è disponibile, alla totale insignificanza di questi riti proprietari. E c’è ancora qualcuno che osa sostenere che l’horror è evasivo?

Postato giovedì, 22 aprile 2010 alle 16:59 da Gianfranco Manfredi


Che ne sarà nei prossimi anni di questi megastore che ad esempio qui in Lombardia hanno inghiottito ogni spazio tra città e città? Non dico solo spazio verde, spazio in quanto tale. Sì, Romero è stato davvero profetico. Nell’epoca in cui i megastore venivano proposti come Trionfo del Consumo, ci ha fatto capire che ne annunciavano invece la Fine. Mica roba da poco!

Postato giovedì, 22 aprile 2010 alle 17:06 da Gianfranco Manfredi


@ Gianfranco. Grazie di avermi ricordato quell’altro che non mi veniva in mente. Je est un autre e gli amici sono la nostra e la sua memoria.
-:)

Postato giovedì, 22 aprile 2010 alle 17:53 da Gianni De Martino


LA SCRITTURA, LA TRANCE E L’ALTRO DELLA CREAZIONE
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L’atto dello scrivere è, come già detto più sopra, caso e causa di un certo sdoppiamento di sé. Si tratta di un ambito raramente investigato dalla critica, che con impostazione neo-retorica, ancorché arricchita dagli strumenti freudiani, si concentra prevalentemente sul testo e talvolta sulla biografia dello scrittore. Eppure l’atto dello scrivere, nella sua specifica consistenza anche tecnico-materiale e spirituale, fa parte di quell’attività complessiva che chiamiamo letteratura.
Una trance è in atto nello scrivere, così come nel fare musica o pittura e in ogni altro equivalente della scrittura. Gli antichi Greci attribuivano la dissociazione creativa agli dèi e alle Muse, distinguendola come “giusta manìa” ( ortè mania) dalla pazzia vera e propria. I romantici attribuivano quella specie di patologia che oggi chiamiamo “creatività” all ‘ “ispirazione”, e Baudelaire alla “correspondance” – mentre i surrealisti hanno utilizzato gli stati di trance come risorsa poetica.
Il termine di “correspondance” appartiene al vocabolario dei mistici e Baudelaire ha precisato il suo pensiero nelle Notes nouvelles sur Edgar Poe (1857) : “ C’est cet admirable, cet immortel instinct du Beau qui nous fait considérer la Terre et ses spectacles comme un aperçu, comme une correspondance du ciel. La soif insatiable de tout ce qui est au-delà , et que révèle la vie, est la preuve la plus évidente de notre immortalité. C’est à la fois par la poésie et à travers la poésie, par et à travers la musique que l’âme entrevoit bes splendeurs situées derrière le tombeau. – E’ questo ammirevole, questo immortale istinto del Bello che ci fa considerare la Terra e suoi spettacoli come una corrispondenza del cielo. La sete insaziabile di tutto quello che è al di là, e che rivela la vita, è la prova più evidente della nostra immortalità. E’ nello stesso tempo per la poesia e attraverso la poesia, per e attraverso la musica che l’anima intravede gli splendori situati dietro la tomba.”
Il sonetto “Correspondance” espone anche l’idea di corrispondenze sensibili che rivoluzioneranno l’espressione poetica e la letteratura diventate “ sorcellerie évocatoire – stregoneria evocatoria”.
Nel cogliere “una parte di questo splendore” di al di là, il movimento della scrittura va così, nero su bianco, dalle tenebre alla luce. E una luce di poesia trasforma il reale della natura bruta e ci corrisponde, ci trasforma.
L’apparizione della luce apre l’animale all’immaginario e a un mondo umano in cui il poeta rinnova l’alleanza primaria con la creazione. Non importa se il creatore abbia o non abbia consistenza ontologica, perché brilla comunque splendido nell’immaginazione. E, poiché agisce, ha un senso ed è, in qualche modo, reale.
La poetica della creazione non è propriamente un “essere”, ma un transito, un oltrepassamento, un passare che scrivendo oltre, sempre oltre, si configura come poetica del divenire ( anche di un testo a venire), di un futuro possibile, o anche impossibile. Un futuro che, come effetto dell’atto creativo, “sarà quel che sarà”.
Scrivendo non si sa. Si va. Si va perché si è nel buio, e a chi scrive non piace, il buio. C’è dentro. E allora, in risposta a un appello , sfida l’afasia, mobilita il proprio interno (l’ inferno), e si fa strada fra le tenebre mentre uno stretto passaggio diventa paesaggio e la luce si trasforma in giorno.
Ma l’immaginario del mondo umano che tramite lo spiegamento della luce riannoda con la prima aurora, non trasforma senza resto la tenebra in notte. Resta infatti ciò che ancora potremmo chiamare abisso, e che nessuna parola in realtà scavalca.
In realtà ( che terribile espressione! ), la notte e il giorno noi giravamo in tondo. E scrivendo non ci accorgevamo di morire. Chiedevamo: ha la letteratura qualcosa per illuminarci? La vocazione della parola suppone l’afasia, e la scrittura un lavoro immenso ( cosa mettere? cosa togliere? ) ai bordi della tomba. Che ne facciamo del corpo?
L’ “istinto del Bello” è un’espressione nostalgica e mortifera: evoca il Paradiso, cioè la morte: “un mondo stellare dove – come scrive l’adepta del sublime Pietro Citati – non esiste colpa, non esiste sesso, non esiste storia, esiste solo una beatitudine infinita.” “L’infinito ? Va’, citrullo!”, così oggi la buonanima di Antonio Porta risponderebbe al mullah Pietro Citati…
La morte sarebbe l’intuizione ( più o meno deprimente) che l’autore, in me, non crea la vita – ma, al limite, il solito inferno e i soliti terrori del Paradiso. E’ come in quel quadro di Arnold Böcklin (1827 – 1901), in cui il pittore raffigura se stesso nell’atto di dipingere e, nello stesso tempo porge orecchio al vecchio scheletro che suona il violino.
In ogni caso la futura polvere scrive per evacuare Tempo & Spazio, che non sono una risposta. E orienta tutti gli atomi e le lettere verso quello spazio di non-morte, ma anche di non-vita, che sarebbe la scrittura. Al di là, sempre al di là dal profondo del sangue e fino alla perorazione del soffio. Chissà perché mentre il desiderio di splendori immaginari “situati dietro la tomba” muove tanta polvere alla scrittura e alla poesia, il pensiero non cessa di fabbricare vette o baratri.
Su e giù. Apparendo e scomparendo. Gridando “fort-da”, con voce di prima infanzia, come il piccolo Hans durante l’assenza della madre. Sempre, o perlomeno in tutti i momenti chiave dell’amore così come della scrittura creativa, la morte fa la sua apparizione formale attraverso il bianco, il silenzio, l’intervallo, il vuoto, il buco…
Evidentemente qui è forte il tentativo di fare come fa la morte: riempire il buco.
… Era un buco abbastanza vasto da contenere l’universo e il canto dell’universo, e persino la fulminea, abissale caduta di Lucifero. La vocazione della letteratura suppone l’esperienza intima di una “mancanza”, di un’assenza e dell’abisso. E questo abisso è all’origine del Libro. Del resto, forse per questo la letteratura è sempre stata nera, fin dall’Antichità. E il mitico inventore cinese della scrittura ha pianto, dopo aver inventato la scrittura.
Non si tratta di qualche depressione, magari come conseguenza del rigetto del desiderio, ma della caduta essenziale all’origine dell’umano, come conseguenza dell’apparizione dell’immaginario nello psichismo umano. Senza l’abisso fabbricato dal pensiero e la malinconica caduta in questo inferno non c’è scrittura. Così come senza amore non c’è nulla per scavalcare l’abisso, nessuno per arrestare la degradazione nostra, del linguaggio e della natura oltre il foglio bianco e i bit.
Chissà da quanto tempo nell’universo o i multiversi è entrato il Fuori, è entrata la morte. Non resta che scrivere nel tuono che rimbomba dopo il lampo, o la simulazione di un lampo. E vegliare in un suono più intenso del silenzio.
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Talvolta, nella solitudine assoluta, l’Appello viene inteso da una singolarità irriducibile che resiste, nel bianco, alla messa a morte del desiderio dovuto ai tanti e differenti discorsi della schiavitù umana, sempre più spesso rivestita di autonomia, di “grandezza” e di nichilismo, anche e soprattutto nichilismo attivo. Non si tratta tanto della rottura simbolica tra un buon dentro dotato di “istinto del Bello” e un fuori cattivo, perché la morte non è solo “là fuori” e il nichilismo è comunque già in noi. Si tratta – come suggeriva la buonanima dell’amico poeta Ermanno Krumm – di “conservare uno strano equilibrio nell’assedio”. E ravvivare , come già faceva il Libro che non sarà mai scritto, quello che resta irreparabile, e che scrivendo non cessiamo d’incarnare.
A ogni a capo, a ogni morte e resurrezione nello spazio bianco, il punto ci riporta verso la credenza insensata, nella madre, dell’esistenza dell’Altro come onniveggente e onnipotente ( “guarda che se viene papà si arrabbia”). Chissà da quanto tempo in chi scrive era entrato, insieme al linguaggio, quel padre immaginario con i suoi oggetti essenziali: lo sguardo e il dito ammonitore ( il Fallo che nessuno di noi è ? Tra due righe s’intravedono i soliti panni cacati di Edipo. O perlomeno la loro torsione). A volte succede di scrivere tra una madre che canta e il padre che detta. Chissà se oggi è ancora così. Erano i tempi in cui ogni libro sembrava assumere la forma di una tomba che ci ricordava, incessantemente, che occorreva sollevare la lapide dell’oblìo della prima caduta, quel crimine, quella caduta primordiale della quale non ci si poteva ricordare – se non, talvolta, mentendo sinceramente tra culla e bara, vale a dire tra due pulsioni.
Erano i giorni dell’angoscia, di cui la vera sede era l’io, e che non era senza oggetto. A essere senza oggetto era uno strano desiderio di assoluto, un messaggio incomprensibile, ma che poteva essere inteso. Per aver inteso l’incomprensibile entravate, nella maggior parte dei casi, nel gioco movimentato e commovente della differenza sessuale. E talvolta, come Giacobbe, in solitudine, in una lotta con l’invisibile. Un invisibile che infinitamente e per sempre feriva e oltrepassava. Non restava che zoppicare. E ricordare, con Freud, che zoppicare non è peccato.
La lotta con l’invisibile portava la traccia della caduta nell’abisso, forse di un crimine, ed era senza parole. Il senza parola che ci precedeva come invisibilità totale era proprio il libro che stiamo scrivendo adesso/tempo fa. Questo è il Libro che non sarà mai scritto, il quadro che non sarà mai dipinto, la musica che non verrà mai suonata, insomma il padre dei libri, dei quadri e delle musiche a venire. Così parlava il Padre cieco che sembrava non sapere niente, o non ancora. L’Altro della parola.
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Non eri un cultore delle coincidenze, ma come per trarre “ispirazione”, un giorno ricorresti all’antica arte della mantica: apristi il Libro a caso, come da ragazzo facevi con l’ I Ching, e – che strana corrispondenza ! – leggesti: ” Ecco sto alla porta e busso; se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me ” (Ap 3, 20). Anche nei racconti di vampiri vi sono tombe vuote. E, nell’attesa di essere invitato ad entrare, un fantasma a un tempo noto e inaspettato ( quasi un’ombrosa parodia del Risorto) si tiene malinconicamente alla porta, e bussa… Bussa mordendo il vuoto ? Come lo spettro del padre di Amleto, allorché chiede: “ Ti ricordi di me?”. Non sempre il fantasma è un botolo innocuo, talvolta è un vero e proprio dèmone. Potrebbe anche non essere un angelo, ma l’ala nera di un pipistrello : « l’ala dell’imbecillità che passa », come scriverà Baudelaire nel « Diario intimo », mettendo a nudo il suo cuore poco tempo prima che venisse colpito da afasia.
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Le strane vicissitudini del desiderio non possono essere ridotte, senza resto, a gestione ottimale dei bisogni. Né l’inconscio può essere evacuato dall’aspirina. In un giro senza fine di fertili depressioni ed euforie, continue morti e resurrezioni nello spazio bianco e travestimenti multipli, anche il movimento vivente della scrittura apre, in qualche modo, a metamorfosi significative e quasi deliranti .
Fra morsi, rimorsi e quello che per tranquillità chiamiamo l’Inconscio, l’ Altrove o il « ritorno del rimosso », il movimento vivente della scrittura esprime, anzi sprigiona le scintille di uno strano desiderio di non-morte.
Ma cosa sono le parole se non cenere. Le ceneri della Fenice. Perlomeno così pare, finché non incontrano un lettore attivo, diventando le rivelatrici di una presenza permanente che le abita, “come un biblico roveto ardente” ( Antonio Spadaro, in L’altro fuoco: l’esperienza della letteratura, Jaca Book, Milano, 2009).
L’Altro della parola sarebbe un « roveto ardente » ? Ma allora occorrerebbe diventare oltre che lettori attivi anche intrepidi viandanti, e – una volta toltosi le scarpe davanti al mistero del Forno – avere il coraggio di restare a piedi nudi, senza vergognarsi di mostrare qualche buco nei calzini. Insomma – se in noi resta ancora qualcosa capace di venerazione ( come peraltro si augurava il povere Nietzsche barcollando tra Dioniso e il Crocifisso ) – occorre essere teneri e davvero umili per udire avvampare Dio nel groviglio delle parole, mentre ci si china fino a terra, la faccia nell’acqua viva dell’Altro della creazione e la pozzanghera della propria notte – fra tanti eccellenti vampiri. Mica roba da poco!

Postato giovedì, 22 aprile 2010 alle 19:55 da Gianni De Martino


Vorrei segnalare un racconto di Graham Masterton intitolato “Half-sick of shadow” (disponibile gratuitamente sul suo sito.) Personalmente l’ho trovato molto godibile e soprattutto originale,penso che molti dei partecipanti a questa discussione lo apprezzeranno.
Come altri ho gradito l’intervento di Altieri e la sua classificazione dei vampiri,che in effetti fotografa piuttosto bene le categorie più ricorrenti di revenant in questo periodo. La cosa divertente dei vampiri è che pur non esistendo,possono essere studiati,analizzati o interpretati.Se ci pensate bene gli abbiamo studiati in ogni salsa o con ogni criterio possibile.Si arrivera forse ad una antropologia dei trapassati? Eppure ho la netta sensazione che qualcosa del genere esista già. Sarebbe interessante presentare altre possibili classificazioni,magari partendo da punti di vista diversi. (In effetti una antropologia dei trapassati non è poi così assurda, i vampiri sono la nostra ombra,il nostro riflesso è confrontandoci con loro possiamo apprendere di più su di noi,sui mutamenti nell’umana società e storia che li ha generati.)
P.S. Sarebbe interessante una storia dell’umanità, partendo dalle tradizioni funebri e il rapporto con i trapassati come chiave di lettura oppure sarebbe solo speculazione?

Postato giovedì, 22 aprile 2010 alle 19:58 da Francesco Moretta


@ Francesco. Qualche riferimento bibliografico sulle tradizioni funebri e il rapporto con i trapassati:

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Baudrillard, J., 1979: Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli Editore, Milano (L’Echange simbolique et la mort, Editions Gallimard, Paris, 1976).
De Martino, E., 1975: Morte e pianto rituale nel mondo antico, Boringhieri, Torino (1958).
Douglas, Davies, J., 2000: Morte, riti e credenze. La retorica dei riti funebri, Paravia-Scriptorium, Torino ( Death Ritual and Belief: the rhetoric of funerary rites, Cassel, London, 1996).
Favole, A., 2003: Resti di umanità. Vita sociale del corpo dopo la morte, Editori Laterza, Roma-Bari.
Tartari, M. (a cura di),1996: La terra e il fuoco. I riti funebri tra conservazione e distruzione, Meltemi, Roma.
AA.VV., 2006: Morte e trasformazione dei corpi:Interventi di Tanatometamorfosi, a cura di Francesco Remotti, Paravia Bruno Mondadori, Milano.

Postato giovedì, 22 aprile 2010 alle 21:14 da Gianni De Martino


@ Gianni De Martino,
Scrivi (nel tuo testo di oggi intitolato LA SCRITTURA, LA TRANCE E L’ALTRO DELLA CREAZIONE):
*
La vocazione della letteratura suppone l’esperienza intima di una “mancanza”, di un’assenza e dell’abisso. E questo abisso è all’origine del Libro. Del resto, forse per questo la letteratura è sempre stata nera, fin dall’Antichità. E il mitico inventore cinese della scrittura ha pianto, dopo aver inventato la scrittura.
*
Dice Borges:
“Scrivo perché ho la necessità di farlo. Scrivere è una grande gioia [...]. L’arte è un miracolo, e nel mio caso si dà in questo modo: sento all’improvviso che qualcosa sta per occorrermi, e aspetto, e qualcosa occorre, che può essere una favola. Di questa favola mi è dato vedere il principio e la fine, non quello che succede tra il punto di partenza e la meta: questo, devo scoprirlo io”.
*
Quel pianto “reale” del mitico inventore cinese si è spesso trasformato nello spettacolo dell’artista che soffre d’una malattia di cartapesta, l’artista che si ammala della sua stessa finzione, cronicizzata. “Tradire la terra”, è stato detto.

Postato giovedì, 22 aprile 2010 alle 22:14 da Subhaga Gaetano Failla


@ Francesco. Gianni ha consigliato dei saggi. La tua idea però è narrativa. IL MONDO VISTO DAI TRAPASSATI. Secondo me, devi lavorarci. E’ un ottimo spunto ( e sarebbe anche molto bello che da questo forum sorgessero spunti narrativi, forse ne sono sorti di più di quanto noi stessi sospettiamo).
Ma per rispondere alle tue domande, be’ mi viene in mente (l’ho già citato) Chateaubriand e le sue Memorie dell’Oltretomba. Uno sguardo di un trapassato sulla propria epoca. Cos’è lo sguardo del trapassato? C’è distacco, certo. Non è tanto la ricostruzione minuziosa dell’episodio vissuto in sé che interessa, ma gli spunti di riflessione che quegli eventi hanno suscitato. Però non c’è un totale distacco emotivo, perché quegli elementi documentari sono stati vissuti … ne resta il ricordo vivo, a volte la nostalgia, a volte l’amarezza, più spesso il mistero, cioè quel che di insondabile che ce li ha fatti, ce li fa sentire così significativi, e che ci sollecita a nuove riflessioni. Ora: se sapessimo tutti, ogni tanto, guardare alla nostra vita, alla nostra epoca, da un punto di vista “vampiro”, dall’oltretomba, se sapessimo trovare questo distacco che non smarrisce il senso emotivo della nostra esperienza, certo sapremo guardarci meglio, forse staremmo tutti meglio!

Postato giovedì, 22 aprile 2010 alle 23:40 da Gianfranco Manfredi


Scusate. Riesco a connettermi solo ora, ma ci tenevo a ringraziare ancora una volta Sergio Altieri per il suo contributo e tutti voi per i successivi interventi.
Per quanto riguarda la possibilità di inserire una parte rappresentativa di questo dibattito all’interno del prossimo volume di “Letteratitudine, il libro”, mi è venuta un’idea (ho avuto modo di parlarne privatamente con Gianfranco Manfredi).
In estrema sintesi chiederei a tutti gli esperti convocati in questa discussione (compreso quelli che si sono aggiunti dopo, come Gianni De Martino) un contributo “riepilogativo” di tot battute (da definire) capace di condensare il proprio pensiero (è difficile, lo so) anche alla luce degli stimoli e del confronto derivanti dal dibattito medesimo.
Cosa ne pensate?

Postato giovedì, 22 aprile 2010 alle 23:47 da Massimo Maugeri


Caro Massimo,
come vedi, avevo ragione: il thread è tutt’altro che esaurito… Hai aperto il vaso di Pandora, e adesso ti trovi a gestirne le conseguenze!
E la maggior parte di noi intervengono di sera, osserva Gianfranco: che vorrà dire?

Postato giovedì, 22 aprile 2010 alle 23:56 da Paolo De Crescenzo


E che vorrà dire, Paolo? :)
Che qualcuno di noi, di giorno, lavora… mentre qualcun altro – la sera – si stiracchia sbadigliando, mentre solleva il coperchio della bara. ;)
-
Tutto il materiale pervenuto in questo post (e che continuerà a pervenire) rimarrà a disposizione tua e di Gargoyle.

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 00:02 da Massimo Maugeri


E rilancio con un nuovo argomento: come mai il cinema italiano, che pure vanta tradizoni di horror di una certa consistenza, ha così poca familiarità con il tema “vampiri”? Mi vengono in mente pochissimi titoli (Freda, Ferroni, Farina, Margheriti, Mastrocinque), a parte le parodie (Tempi duri per i vampiri, Il Cav. Costante Nicosia, Fracchia contro Dracula), e nessuno che possa definirsi recente.
Questione ambientale? La presenza ingombrante del Vaticano in casa?
Danilo, Gianfranco, Franco (Pezzini), se ci siete battete un colpo…
E ben vengano tutti gli altri, ovviamente.

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 00:10 da Paolo De Crescenzo


@ Paolo. Chi lo sa perché, anche nel folklore italiano, il vampiro non ha grande rilievo? Avrà qualcosa a che vedere con la nostra riluttanza di fronte all’idea della Morte che si esprime con quel gesto credo unico, comunque tipicamente italiano, di toccarsi le palle non appena ne sentiamo pronunciare il nome? Avrà a che fare con una nostra giocosità da commedianti che ci impedisce di sentire il Tragico, se non per smontarlo subito con la parodia, oppure nel mutarlo in melodramma, cioè in messa in scena della retorica dei Sentimenti? Certo è che quando si sente dire che noi italiani siamo parte della cultura latina, c’è da dubitarne. Siamo distanti dai “latini” tanto quanto dagli anglosassoni. Il gusto spagnolo del macabro è lontanissimo da noi. Può darsi (ma Pezzini e Foti e De Martino avrebbero da dire di più e di meglio in proposito) che tutto abbia avuto inizio nei tempi remotissimi della Roma Repubblicana quando si definì l’elenco delle religioni ammesse e delle dodici divinità consentite. Fu allora che i culti del sangue vennero aboliti. Fu allora che si prese distanza ufficiale, di Stato, sia dalla cultura pagana greca, sia da quella cartaginese, che si erano in qualche modo mescolate nella Magna Grecia. I riti del sangue che si celebravano in piazza, incluse l’autoflagellazione e l’autocastrazione, vennero banditi. Non credo ci sia dubbio che questo sia stato un salto di civiltà, che altri popoli latini non conobbero così radicalmente (vedi la permanenza inaudita davvero della corrida in Spagna). Nel cinema italiano di genere, più spiccato del vampirismo è stato senza dubbio il cannibalismo, con un’evidenza che ha fatto molto colpo sugli americani, ad esempio, che ancora considerano film tipo Cannibal Holocaust come pietre miliari dell’Estremo. Se ci si pensa, la figura di Ugolino , che divora i propri figli per fame, è una figura cannibale, non vampirica. Il nostro italianissimo amore per la cucina pone al vertice il Mangiare. Il succhiare ci richiama l’odiata minestrina (o mangi questa minestra o salti dalla finestra)? Simonetta Santamaria potrebbe aver qualcosa da dire in proposito, ma se c’è un posto in cui le tracce vampiriche sono più evidenti è nel napoletano. Penso ad esempio al racconto di Salvatore di Giacomo “Le bevitrici di sangue” (si trova nell’antologia Mondadoriana Racconti italiani dell’800) che descrive , a Poggioreale, le visite di signore e signorine anemiche ai mattatoi per bere sangue fresco. Questo rito lo si ritrova anche nel film di Jean Rollin Fascination (1979) ambientato nella Bella Epoque. in Francia il cerimoniale pare alto-borghese. Di Giacomo ne svela invece l’origine piccolo borghese: “La gran parte di queste bevitrici sono modiste, sartine, fioriste che escono dall’ammazzatoio con le punte delle scarpette macchiate. A Napoli l’anemia serpeggia un po’ da per tutto: queste povere ragazze fanno vita sedentaria, in laboratorio, con lumi a gas d’inverno, sono elegantemente vestite, ma dormono in miserabili sottoscala, senza luce.” Già qui si avverte qualche brivido. Le nostre vampire nazionali sono sarte? Viene da pensarlo anche leggendo Il Vampiro di Franco Mistrali (1869), testo riscoperto da Fabrizio Foti, primo romanzo interamente vampirico italiano. Qui il vampiro non morde. Perfora la vena da succhiare con uno spillone. Insomma da noi se si morde è per mangiare, altrimenti pare inelegante. Il cannibalismo riecheggia anche nella concezione cattolica della transunstanziazione, secondo la quale il pane (o meglio l’ostia) non è soltanto ricordo e simbolo del corpo di Cristo, ma si trasforma all’atto della consacrazione in corpo materiale. Meno evidenza, senza dubbio, viene accordata al vino, forse perchè il sapore di un calice consacrato non lascia comunque dubbi: trasformazione o no, continua a sapere di vino. E il vino è un altro mito nazionale che nessuno si sognerebbe di associare al sangue, se non attraverso il noto detto “il vino fa buon sangue”. Che è come dire al vampiro: se sei anemico perché non ti fai un quartino? Tema che riecheggia nel noto poemetto: Dracula Cha-Cha-Cha.

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 10:01 da Gianfranco Manfredi


A me è sorto piuttosto un altro dubbio che sottopongo agli esperti. I VAMPIRI SOGNANO? Non ricordo, ma forse ricordo male, esempi letterari di sogni dei vampiri, e nemmeno ricordo per la verità, che qualche narratore di vampiri abbia categoricamente escluso che un vampiro possa sognare. Il vampiro, come cauchemar, è creatura del Sogno. Un Sogno/Incubo può a sua volta sognare? Ricorda un po’ il cerchio zen… l’essere sognati da un sogno. Se noi sogniamo vampiri, i vampiri sognano noi? O i loro sogni sono sogni di un aldilà, che nella loro condizione di non-morti, non riescono a raggiungere?

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 10:06 da Gianfranco Manfredi


Alla rinfusa:
1) una sintesi antologica dei propri interventi? Ottimo e grazie. Dicci solo (Massimo) quante battute,
2) a volte negli incontri a scuola o in biblioteca i ragazzi mi domandano: “ma tu scriveresti ancora se nessuno ti pubblichasse più i tuoi libri? E se nessuno li vorrà più leggere?”. E io rispondo: “certo che sì. Perchè scriverli dà piacere a me”
3) Pochi vampiri nel cinema italiano? Beh…a quello scarno elenco aggiungerei almeno I Vurdalak di Mario Bava (nei Tre volti della paura). Provo ad azzardare un abbozzo di risposta. L’horror italiano si è incamminato in altre direzioni che, per motivi storici, culturali, antropologici, vengono da molto molto molto lontano. E quali sono queste direzioni? Butto lì due piste che mi sembrano interessanti:
- l’importanza tutta italiana delle arti figurative (dal pittore di agonie della “Casa dalle finestre che ridono” al pittore naif nell’ “Uccello dalle piume di cristallo”),
- lo stretto rapporto luoghi antichi-cultura (“Il segno del comando” a Roma tra Byron e musica classica e orafi e di nuovo pittori dell’Ottocento oppure “Voci notturne” tra l’antica Roma e le nuove tecnologie attraverso i libri o ancora “L’etrusco uccide ancora” col connubio scavi archeologici e musica classica e “Opera” di Argento o “La chiesa” di Michele Soavi).

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 10:13 da luciano / idefix


Francesco aveva parlato di antropologia dei trapassati. Spontaneamente mi era sorto il capovolgimento: la nostra antropologia tracciata dai trapassati. Ma non è un vero capovolgimento. Narrativamente, non c’è modo di raccontare un trapassato, se non sforzandosi di porsi dal punto di vista del trapassato. Narrativamente, il tema non è “come noi classifichiamo i trapassati” (peraltro tema interessantissimo) ma è “come i trapassati classificano noi.” E dunque: se noi (e non c’è dubbio su questo) sogniamo i trapassati, i trapassati come sognano noi?

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 10:18 da Gianfranco Manfredi


@ Luciano. Non credo che le tue due piste qualifichino in modo peculiare la cultura italiana. L’intreccio con le arti figurative come il rapporto luoghi-antichi cultura è intrinseco sia nel gotico che nel romantico. Non ha nulla di specificamente italiano. Come osservavo prima, il nostro horror non rifugge affatto dal truculento, tanto che, nel campo del cinema horror, potremmo a ragione dirci padri dello splatter. E sul “bere in sangue” che nutriamo una specifica riluttanza, e , ripeto, forse questo ha qualcosa a che vedere con la rimozione delle Strige , cioè le divinità latine succhiasangue, che vennero espulse dal paganesimo riformato romano. Resta vero, ne scrisse Polibio, che durante i giochi del circo, le anemiche bevevano il sangue degli uccisi, ma come nel caso delle bevitrici di Poggioreale, trattavasi di pratica medica. Il bere il sangue non veniva concepito come “bere lo spirito vitale”. Per noi il sangue, anche il sangue sul corpo di Cristo della nostra pittura sacra, è segno di sofferenza fisica. Il sangue è materia. Non è il liquido nel quale nuotano quelli che Cartesio chiamava “gli spiriti animali”. Non siamo dunque abituati a concepire la spiritualità del sangue.

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 10:31 da Gianfranco Manfredi


Pensate su quanti dettagli della cerimonia del succhiamento del sangue si sofferma Anne Rice (è forse l’elemento migliore e di maggior spicco del suo approccio al vampiro). Il vampiro, secondo Anne Rice, ha diversi modi per succhiare il sangue. C’è il morso predatorio. La vittima viene svuotata e non risorge affatto come neo-vampira. Poi c’è il morso delicato e moderato. Ci si abbevera un po’ per volta proprio come i vampiri-pipistrelli dal bestiame. Perché uccidere il bestiame? Così facendo si distrugge la propria fonte di alimentazione. Succhiare un po’ per volta è più sensato e più civile. C’è infine il morso complice, quello che fa diventare vampiro il succhiato. Questo morso Anne Rice lo lirizza, lo descrive con infinita poesia. E’ un atto erotico. Prevede la sintonia dei battiti del cuore, il fluire di liquidi che unisce l’uno all’altro. E’ un cerimoniale spirituale. Il sangue diventa altro da sè: unione degli esseri. Si esprime, nel bere sangue, una comunione. Per noi italiani questa Comunione si identifica nell’ostia-carne. Per altre culture questa comunione non è solida. E’ liquida. Sta nel liquido il passaggio tra la carne e lo spirito.

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 10:53 da Gianfranco Manfredi


@ Massimo. Riassumere? Sì, sarebbe un bel fuoco d’artificio finale, ma mi sa che non ci siamo ancora al finale. Più volte, nel corso di questo forum, siamo involontariamente arrivati a dei finali apparentemente conclusivi. Però poi spontaneamente la discussione è risorta. Ci sono stati momenti in cui, grazie anche alla fecondità del mito del vampiro, abbiamo scoperto che si poteva davvero parlare di tutto, che gli argomenti più disparati (anche quelli suggeriti dalla cronaca quotidiana) potevano essere associati al tema, senza forzature. A me ad esempio è venuto in mente il vampiro, ho esitato finora a rivelarlo, perchè davvero mi pareva osé, persino mentre guardavo Inter-Barcellona , di fronte a quel momento epocale in cui Balotelli ha mandato a fanculo il pubblico tutto. Gesto simbolico quanto inequivocabile senza precedente alcuno nel mondo del Calcio, che dell’intoccabilità del Tifoso ha fatto il suo feticcio. Atteggiamento che in Spettacolo solo noti provocatori come Lanny Bruce avevano osato prima. Un ragazzo di nemmeno vent’anni , contestato perché pare chiaramente non avvertire la Storica Importanza dell’Evento, quasi quella fosse una delle tante partite, dove un colpo di classe o un errore sono cose che capitano e dunque entrambe da comprendere, un ragazzo che reagisce urlando a uno stadio intero: siete tutti una massa di stronzi e di deficienti, be’ in questo ragazzo c’è un vampiro. Solo un vampiro può avere la sfrontatezza e l’orgoglio di proclamare la propria Verità, a dispetto del Rito Sacro, alla faccia del Pubblico Pagante, nello spregio assoluto della solidarietà di gruppo. Solo un vampiro convinto del proprio super-potere può giudicare con tanto sprezzo e con tale indifferenza i poveri riti fideistici della Massa Umana. So che adesso avrò fatto incazzare gli interisti, ma la metafora va al di là del caso Balotelli. Uno sprezzo analogo, anche se espresso non con ingiuria, ma con sovrano distacco, l’avevo notato in Ivan Lendl, che un giorno ho avuto il dono di vedere in allenamento. Un vampiro, davvero! Quel menare colpi micidiali, spedendo la palla di là a una velocità tale che la palla davvero non riuscivo a vederla, spariva. La sua apparente assenza di fatica alcuna. Infallibile persino nell’errore perchè era comunque un errore non da imperizia ma da obiettivo supremo, era tentativo di “colpo impossibile”. Saranno state anche le sue origini dell’est europa, o il fatto come poi mi ha raccontato a tu per tu Nicola Pietrangeli che Lendl era “un uomo tristissimo”, ma quella è stata la prima volta in vita mia che mi è parso d’aver sul serio incontrato un vampiro.

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 11:16 da Gianfranco Manfredi


Per quel che riguarda il cinema vampirico italiano,segnalo il film di Giorgio Ferroni “La notte dei diavoli”,seconda trasposizione del racconto “La famiglia del Wurdalak”. Il film traspone la vicenda originale negli anni settanta,applicando anche suggestioni romeriane.Ne è una prova il finale, per certi aspetti simile a quello de “La notte dei morti viventi” (un’altra notte,d’altronde di notti importanti l’horror ne ha un pò.).
Vi lascio con una frase di Romero,pronunciata dalla protagonista del remake di Tom Savini de “La notte dei morti viventi”:
“Noi siamo loro,loro sono noi e noi siamo loro”.

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 11:40 da Francesco Moretta


Io mi riferivo alla parte dell’horror tipicamente italiana, quella cioè che nasce dall’humus del nostro paese ed ha con esso un saldo e intimo rapporto.
Mentre autori come Lucio Fulci (uno degli inventori mondiali dello splatter…qui concordo con Manfredi) a mio avviso NON hanno mantengono questo rapporto così saldo e intimo. Nel senso che (per certi versi) i film di Lucio Fulci potrebbero essere stati realizzati da un autore di un altro paese.
Ma per spiegarmi meglio, faccio un esempio concreto: LA CASA DALLE FINESTRE CHE RIDONO di Pupi Avati.
Un horror che (per temi, ambienti, paesaggi, personaggi, situazioni) poteva essere fatto SOLO in Italia: la piccola provincia della pianura padana attorno al Po, la tradizione di pittori strampalati come Ligabue, le leggende dei preti-donna, la sonnacchiosa vita di paese che ipocritamente (e cattolicamente) cela tenebrosi segreti…
Io sono convinto che in questo filone (i succhi orrorifici che sgorgano dal terreno più profondamente autoctono) stia uno dei due contributi più originali e importanti dell’horror italiano a quello mondiale.
L’altro penso sia l’esuberante sfrontatezza creativo-produttiva-tematica di autori come Mario Bava o Lucio Fulci.

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 11:48 da luciano / idefix


Stimolante anche il “tema Balotelli-tifosi”.
Ed è un peccato che l’horror si sia occupato così poco di sport. E che abbia trascurato la possibile pista del rapporto vampirico tra folla di tifosi e campione sportivo.
A me però non pare che Mario Balotelli, comportandosi in quel modo (passeggiare indolente per il campo mentre i compagni di squadra correvano dannandosi l’anima e poi alla fine buttar via la maglia con un lacerante gesto di rottura simbolica), abbia VOLUTO consapevolmente mettere in scena una o più trasgressioni. Credo si tratti dei gesti infantili di un post-adolescente immaturo e viziato, troppe volte volgarmente insultato da curve beceramente razziste ma pur tuttavia un bambinotto (o almeno pare) indisponente, uno di quelli che nella vita reale ti verrebbe voglia di prendere a ceffoni e poi di darne un paio anche a papi e mami che gli lasciano fare tutto senza mai aver provato a fargli capire che al mondo esistono anche gli altri e non solo il loro ipertrofico (e fragilissimo) EGO rompipalle.

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 12:00 da luciano / idefix


Già, ma questo “bambino dispettoso”, qualcosa di horror ce l’ha. Ha dato vita a un intero filone. Anche nelle favole il bambino dispettoso è castigato in quanto maligno. Comunque lasciamo perdere Balotelli , anche se , ripeto, non è cosa indifferente quando il Gesto di uno sportivo va al di là del Gesto Sportivo (qualche giornale ha associato il gesto di Balotelli alla testata di Zidane… e in entrambi i casi il ruolo del Giustiziere se lo è assunto quel bietolone di Materazzi) . Pupi Avati? Sì, d’accordo. Non che mi abbia mai appassionato, nè che lo abbia mai ritenuto particolarmente horror, di certo non è questa la sua cifra stilistica più definita, né ha avuto alcuna eco all’estero per i suoi film , pur apprezzabili, da “gotico emiliano”. Su Fulci non sarei tanto d’accordo che il suo splatter avrebbe potuto essere creato in qualsiasi altro paese. da noi erano gli anni del Mostro della Magliana, ripeto. C’è qualcosa di molto sottoproletario nella violenza che Fulci metteva in scena. Bava era tutt’altra cosa. Era un esteta. I suoi film sono vampirici anche quando i vampiri non c’entrano, perché costruiti sulla luce che “definisce” i corpi.

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 13:10 da Gianfranco Manfredi


1) Interessante questa traccia del Fulci sottoproletario, che ovviamente lo ricollega direttamente allo “spaghetti western” (che anche Lucio diresse) e in particolare alla svolta violenta e sanguinaria impressa al genere da Leone e tutti gli altri (da Django in poi).
Ed è affascinante che due delle saghe a fumetti italiane più belle di sempre siano proprio western (Ken Parker e Magico Vento), anche se diversissime (e forse complementari) tra loro. Nessuna delle due, però, sottoproletaria. Anzi: e fu questo loro essere ostentatamente non-proletarie bensì pop-intellettuali (nel senso più nobile e pieno del termine) a portare il loro successo limitato, non proporzionato alle qualità. Basti pensare che entrambi i cicli puntarono molto sulla continuity.
2) Concordo: tra i due estremi di Bava e Fulci si gioca quasi tutto l’horror cinematografico italiano.
3) Non ci avevo pensato: è curioso che sia nella capocciata di Zidane che nelle intemerate di Balotelli vi sia di mezzo in un qualche modo Marco Materazzi.

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 13:56 da luciano / idefix


@ Simonetta. Quando hai tempo, mi piacerebbe ascoltare qualcosa da te in merito a vampiri e napolitudine. Qualcuno nel forum, non ricordo chi, aveva già ricordato che l’unica vera cerimonia di “sangue mistico” sopravvissuta è l’annuale rito di San Gennaro. Hai anche tu l’impressione che se si dovesse raccontare un vampiro italiano, la soluzione più adeguata sarebbe che fosse napoletano? Certo che l’espressione “Un vampiro napoletano” fa subito venire in mente Totò (il Turco Napoletano) , ma a volta le maschere comiche (era lo stesso Totò a farlo notare) sono mascheramenti del tragico.
Nella da me più volte citata “Le pelle” di Malaparte sbucano vampiri dappertutto e il romanzo è ambientato a Napoli (e non fa ridere per niente, anzi, come ho detto, al confronto Gomorra di Saviano sembra un libro per signorine di buona famiglia).

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 13:59 da Gianfranco Manfredi


L’altra tradizione folklorica che ha mantenuto in vita le Strige è quella sarda. Ma anche qui per me è buio fitto. C’è qualche sardo all’ascolto?

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 14:07 da Gianfranco Manfredi


La perversione ( sessuologica, etica, erotica) del vampiro sembra consistere proprio nel non considerare gli altri come un limite, ma qualcosa da invadere e penetrare al ritmo di una suzione per potersene nutrire – essiccandolo dei suoi fluidi vitali e rendendolo simile a sé.
Escluso dalla vera vita ( in quanto defunto) , il nosferatu è simile a un grosso pidocchio astrale, a una zecca morta-non-morta o a un malefico fantasma di poppante allucinato.
Come scrive Sergio Benvenuto ( psicologo e filosofo, un caro amico fin dai tempi della nostra collaborazione all’ Erba voglio del compianto Elvio Fachinelli), “la perversione segna un mancato rapporto con l’altro come soggetto di desiderio e di piacere”. E spiega gli atti perversi di qualsiasi tipo come “una riedizione metaforica di un trauma sessuale, in cui il soggetto ( perlopiù da bambino) ha sofferto l’esperienza amara dell’esclusione e della gelosia.”
Su questa falsariga, la forma – per così dire – di vita vampirica è molto più diffusa di quanto non si creda.
Il vampiro letterario è invece una ripetizione metaforica continua ( vale a dire senza misericordia) del trauma più temuto che ci sia: la morte come esclusione radicale dal mondo dei viventi.
Tutto quello che, in noi, non si riconosce mortale e non rinuncia a ri-vivere il trauma si trasforma nel sogno del vampiro.
La favola del vampiro esprime l’orrore della vicinanza del cadavere i sensi colpa dei sopravvissuti, per i quali il morto ritorna e …

-
P.S. … E ( volendo fare una battuta, perché no ? ) ringrazia per il brindisone. Cos’altro potrebbe fare un onesto revenat che il bere ce l’ha nel sangue ? Del resto, è ai morti che si brinda fin dall’Antichità. Ed è a loro che venivano offerti i resti di cibo caduto sul pavimento durante i banchetti e i simposi dei letterati, dei poeti e dei filosofi.

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 14:17 da Gianni De Martino


Finora ho letto senza essere mai intervenuto prima. Rispondo alla sollecitazione di Manfredi sulla figura del vampiro nella mitologia folkloristica della Sardegna. Evvero: la sùrbile
Facciamo un salto nel passato. Nell’isola la mortalità infantile è molto elevata per via della malaria e della malnutrizione. Forse è per questo motivo, cioè per dare un senso a morti che altrimenti sembravano inspiegabili, che la fantasia popolare elaborò una figura leggendaria: un’anima maledetta che durante la notte si aggira per il villaggio in cerca di vittime cui succhiare il sangue. La sùrbile (o coga o stria, a seconda della località) è una donna il cui spirito al calare delle tenebre abbandona il corpo per tramutarsi in un insetto, generalmente una mosca, e poter così penetrare facilmente all’interno delle case, in cerca di bimbi non ancora battezzati. Si posa sibilando sulla fontanella del neonato e da là attinge il proprio nutrimento.

Poiché pareva preferire bambini cui ancora non fossero spuntati i denti, le madri erano solite porre accanto alla culla una falce dentata : si credeva, infatti, che la sùrbile amasse contare, ma non fosse in grado di andare oltre il numero sette. Si attardava pertanto a contare e ricontare i denti della falce, arrivando fino al sette e ricominciando ogni volta da capo, fino all’alba, quand’era costretta a rientrare nel proprio corpo.
Durante il giorno la donna non conservava poi alcun ricordo dell’accaduto.

In altre zone la sùrbile è uno spirito errante nell’oscurità che si impossessa del corpo di uomini e donne malvagi, facendo prendere loro le sembianze di un gatto nero. Questi scende attraverso il camino e dopo avere succhiato il sangue lo depone nella cenere calda del focolare per farlo rassodare, trasformandolo in un cibo prelibato di cui si nutrirà successivamente (un dolce a base di sangue è caratteristico, tra l’altro, della tradizione culinaria isolana). In ogni caso, prima della sua metamorfosi la sùrbile unge le giunture del proprio corpo con un olio particolare e pronuncia una formula magica:

“A pili esse / a pili in fache
in domo che comare mi che agatte”

Cioè, con i capelli in senso contrario, con i capelli in faccia, che io mi ritrovi in casa della mia comare. Il sovvertimento dell’ordine naturale come chiave della trasformazione.
Diversi i modi per scongiurare la visita dello spirito maligno. Innanzi tutto tappare con della cera vergine il buco della serratura, quindi sistemare un rametto di issopo sullo stipite della porta d’ingresso. Anche un treppiede rovesciato, posto sotto il letto, aveva il potere difendere il bimbo non ancora battezzato.
All’origine di queste leggende vi sono sicuramente antichi richiami all’animismo neolitico, intrecciati successivamente con credenze fenicio-puniche e romane. Il nome stesso stria, caratteristico della Sardegna settentrionale, infatti, appare come una volgarizzazione del latino striga, a sua volta derivato dal greco stryx.
Il termine sùrbile, invece, sembrerebbe avere una valenza onomatopeica, alludendo al ronzio prodotto dalle ali della mosca in volo.
Resta da chiedersi infine come mai, nell’isola, la figura del vampiro sia quasi esclusivamente femminile. Probabilmente la sùrbile, come creatura notturna, è legata in qualche modo ai culti della luna, dominati da divinità femminili, Diana ed Ecate, ed associati a riti misterici che spesso esigevano sacrifici cruenti.

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 15:22 da Adriano


Viva Adriano! Wikipedia fa ridere di fronte a questa enciclopedia vampirica collettiva. La cosa che mi ha colpito è quel fatto di contare i denti della falce. Il contare che blocca. C’è qualcosa di molto simile nella leggenda dei vampiri Cinesi (gli Ch’iang Shih). Per bloccarli, si sparge del riso davanti ai loro piedi. Il vampiro viene preso da un impulso incontrollabile e non può più muoversi finché non ha contato tutti i chicchi. Se non lo fa, o se il conteggio è sbagliato, appena muove un passo e posa un piede sui chicchi, il piede brucia. E di nuovo mi rivolgo a voi enciclopedici compagni: cosa vuol dire che il far di conto, da parte del vampiro, lo blocca? Mi vengono in mente delle letture fatte sui matti, i maniaci ossessivi soprattutto, e sui loro disegni, estremamente complessi, minuziosi e fitti di numeri e di incomprensibili calcoli. La matematica è uno sfogo e una prigione per menti ossessive? Prima mi chiedevo se i vampiri sognassero. E se nei loro riposi nella bara sognassero numeri? Per associazione, mi viene anche in mente la convinzione popolare secondo cui i morti “danno i numeri” (del lotto). Cacchio, questa è davvero difficile come domanda, ma qual è il rapporto tra i morti e i numeri?

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 16:00 da Gianfranco Manfredi


Mi viene anche in mente il detto “conta fino a dieci prima di parlare” (o di fare alcunché… magari lo hanno consigliato anche a Balotelli). Non semplicemente “rifletti bene” prima di agire, ma “conta”. Il calcolo astratto è simbolicamente e popolarmente quella “non azione” usata anche per deridere l’intellettuale “con la testa tra le nuvole?” Questo è probabile, però, per aderire a quanto già aveva affermato Gianni “dev’esserci qualcos’altro che adesso mi sfugge”.

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 16:10 da Gianfranco Manfredi


Anche il gesto (scaramantico?) del contare i grani del rosario mentre si recitano preghiere ridotte a formulario ripetitivo, recitate senza inflessione, né espressione, per il loro “non senso” non per il loro “senso”, deve avere qualcosa a che fare con questa conta che sospende. E’ come se la conta, invece di scandire lo scorrere del tempo, lo bloccasse.

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 16:15 da Gianfranco Manfredi


L’ossessione numerica riguarda anche il calcolo del numero dei demoni. Cito da La paura in occidente di Delumeau: ” Jean Weir nel suo De praestigiis daemonum (1564) calcola che essi siano 7.409.127 agli ordini di 79 principi, anch’essi sottomessi a Lucifero. Un’opera anonima pubblicata nel 1581, Le Cabinet du Roy de France, perviene a cifre del medesimo ordine: 7.405.920 demoni suddivisi tra 72 principi…” Perché era giudicato così importante contarli? Questo Delumeau non lo spiega. Ipotizza che ci sia un rapporto tra il calcolo della popolazione umana e quello dei demoni. Scrittori che tematizzano questo rapporto fanno un calcolo molto più alto dei demoni. Suarez nel suo trattato De Angelis, ipotizza che ciascun umano dal momento in cui inizia ad esistere, sia affiancato da un demone incaricato di perseguitarlo per tutta la vita. Se ne deduce (e sarebbe davvero imbarazzante per la teologia cattolica) che il mancato controllo delle nascite abbia l’esito di moltiplicare i demoni. Ne consegue anche che i demoni attualmente in circolazione sulla terra, sarebbero 6.981.118.709 , ma nel tempo che ho impiegato a scrivere questo post già ce n’è qualche centinaio in più. Il calcolo in tempo reale è sul sito http://www.sandrodiremigio.com/scienze/terra_popolazione.htm

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 16:35 da Gianfranco Manfredi


Altri numeri da infezione letteraria:

il Malleus ha avito almeno 34 edizioni tra il 1486 e il 1669, il che significa che ne sono state messe in circolazione da 30 a 50.000 copie. Il Teatro dei diavoli (opera anonima tedesca) nel XVI secolo nacque come collezione prima di 20 tomi, poi di 24 e infine di 33 (spero che a Paolo De Crescenzo non venga la tentazione di ripubblicarlo, dopo i tre annunciati volumi di Varney!) . “E’ stato calcolato – scrive Delumeau – che tra prime edizioni e ristampe, un minimo di 231.600 esemplari di opere che si ricollegano al mondo demoniaco furono lanciate sul mercato tedesco nella seconda metà del XVi secolo, di cui 100.000 circa nel decennio 1560 e 63.000 nel decennio 1580.” Le opere demoniche diffuse in Francia nel XVII secolo, sono state calcolate in almeno 340.000 esemplari. Sono cifre enormi per quei tempi. Si potrebbe senza tema di smentite sostenere che il Bestseller nasce con la letteratura demonica.

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 16:49 da Gianfranco Manfredi


Contare significa anche scandire il tempo, farlo passare,azione che per i vivi è normale.Ma per un ritornante?Non sono creature che vivono,pardon non vivono in un tempo sospeso,un tempo che non scorre?Forse il contare li blocca,perchè ricorda loro una condizione a cui non appartengono e per un effetto inverso rispetto ai vivi (che si muovono in un tempo che scorre) li paralizza.Ovviamente è solo un’ipotesi da vampirologo di provincia,ma se ci si riflette sopra si può notare che in fin dei conti i vampiri sono esseri al contrario in molte loro caratteristiche.(anche il sole che sorge è un simbolo di tempo che scorre,quindi in definitiva forse è proprio il tempo e quindi il cambiamento la vera nemesi dei non morti.)

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 16:52 da Francesco Moretta


esistono numeri che in gergo vengono definiti ‘vampiri’.
si dice vampiro un numero avente un numero pari 2n di cifre che possono formare due coppie di numeri di n cifre che moltiplicati tra loro danno un numero che contiene le cifre di quello originario.
per es. : 1260 è un numero vampiro.
moltiplicando 21×60=1260.
anche 1359 è vampiro perchè viene reso dal prodotto tra 15 e 93
15×93=1395

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 16:52 da piero


on line ho trovato le cifre di alcuni Demoni
_________
LUCIFERO: 999
PAPE’ SATAN: 666
ASTAROTH: 000
ASMODEUS: 333
BELIAL: 777
LILITH: 888
ISHTAR: 222
AZAZEL: 444
IAW: 44-50
ABRAXAS: 365
AMMON: 33-66
CERNUNNOS: 555
HABONDIA: 10-88
CIRCE-CERES: 6-36
LUCIFUGO ROFOCAL: 99-11
SAMAEL: 9-13-44
YAOGH-SABAOTH: 27-40
SATANACCHIA: 19
MORGANA:22
ARIMAN BAALZEBU’: 12
MURMUR: 20
PAIMONE: 3-70

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 16:53 da piero


Chissà quanto tempo passano i vampiri della Meyer a fare il conto dei diritti maturati!

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 16:57 da Gianfranco Manfredi


Sarà per questo che sono così innocui?

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 16:58 da Gianfranco Manfredi


Il povero Astaroth che fa 000 è il più sfigato di tutti?

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 17:07 da Gianfranco Manfredi


per contattare i demoni milanesi non bisogna dimenticare di comporre prima lo 02 :)

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 17:12 da piero


Sul conto come segmentazione che ferma il tempo o lo rallenta indefinitamente, ho trovato notazioni davvero acute nel saggio di Elvio Facninelli (qui più volte evocato) La Freccia Ferma (1979). Si trovano qui anche preziose osservazioni che riguardano assai da vicino il nostro tema.
Cosa succede nel gruppo primitivo che si trova di fronte alla morte di colui che del gruppo ha garantito fino ad allora la sopravvivenza? Cito: ” L’uomo che con la sua potenza assicurava la vita del gruppo, è ora di colpo ridotto all’impotenza più radicale. Il gruppo che dipendeva dalla sua potenza si trova ora esposto immediatamente al rischio di morire, di seguire nel nulla il garante morto della sua sopravvivenza. La situazione a questo punto è insostenibile.” (Pausa. Sembra quasi una cronaca del recente psicodramma della Direzione del PDL) . ” Il cadavere non si muove e il gruppo sta per morire. L’unica soluzione, obbligata, è quella di rinnegare la morte stessa, testimoniata da quell’immobilità spaventosa: il morto non è morto, continua a vivere. Ecco sorgere allora l’universale sdoppiamento del morto (uomo-cadavere e uomo-sopravvivente) cioè l’universale credenza nella sopravvivenza dei morti, la cui necessità scaturisce, precisamente, dalla posizione di immediato pericolo di vita in cui si trova il gruppo arcaico di fronte alla morte del proprio garante. Se il morto non muore, anche il gruppo può continuare a vivere.” Ne consegue che il vampiro ci è indispensabile per vivere! Senza vampiro, senza non-morto, siamo tutti morti!

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 17:32 da Gianfranco Manfredi


C’è però un risvolto. Il vampiro come Capo Non Morto, quando torna esprime la Tirannia del Morto sul Vivo. Dunque tanto ne abbiamo bisogno, quanto ne abbiamo paura. Siamo davvero incasinati noi Umani!

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 17:36 da Gianfranco Manfredi


Non essendo (ancora) uscito dai numeri e dagli esseri
Come potrei sapere se -
Da morti non si ride dell’attaccamento alla vita?
:-)

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 17:37 da Gianni De Martino


Se poi mentre era morto il vampiro faceva i conti e torna “per la resa dei conti”, allora sono guai seri per tutti!

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 17:39 da Gianfranco Manfredi


Un paletto, prestooo!

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 17:41 da Gianfranco Manfredi


AH! AH! AH!

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 17:44 da Gianni De Martino


@ Gianni. Che diavolo! Adesso i morti ridono pure! Qualcosa ” non torna”. O si fa di conto o si ride!

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 17:46 da Gianfranco Manfredi


Tu pensa le associazioni… oggi avevo cominciato a leggere dal post di Luciano che citava LA CASA DALLE FINESTRE CHE RIDONO.

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 18:00 da Gianfranco Manfredi


Non so voi, ma mi sto divertendo di più che col film di Avati.

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 18:02 da Gianfranco Manfredi


Vampiri in Italia – anzi, vampire, per esempio in Sardegna. Posto che, come qualcuno ha ricordato moltissimi post addietro, l’Italia È terra di vampiri in quanto terra gotica (del paleogotico, dal “Castello d’Otranto” in avanti), e illustrissime storie di vampiri di autori stranieri vi sono ambientate, come mai il vampiro sembra nei fatti così poco coinvolto nel cinema nostrano? (nell’elenco dei registi che hanno portato felici eccezioni aggiungerei Max Ferro.) Causa del Vaticano? Mah, il discorso è enorme, e ci porta a un problema definitorio.
Nella trattatistica in genere si forniscono del Nostro due accezioni diverse, una ristretta e una più ampia. Quella ristretta fa riferimento al vampyr che dilaga nel Settecento: uno degli infiniti revenant modellati da timori e speranze dell’uomo, ma con particolari caratteristiche: torna col corpo, assetato di vitalità (non necessariamente sangue) e soggetto a un canone di regole metafisiche; la sua figura si sviluppa storicamente in un ben determinato ambito folklorico, quello dell’Europa orientale, con origini forse indiane; ingloba specie affini (es. la trasformazione del vricolaco, che da revenant dispettoso si muta in succhiatore di sangue). E questo vampiro avrà un robusto successo nella narrativa anglosassone (oltre che, in misura minore, in altre letterature europee, es. quella russa da cui la storia dei Vurdalak) passando poi al cinema. Non ha però una connessione diretta con il folklore nostrano: e anche il cinema italiano che vi attinge lo fa in genere ispirandosi a modelli stranieri.
C’è però l’accezione allargata, che ha ampiamente interessato la nostra chiacchierata. Vampiri che non si chiamano vampiri ma lilim, empuse, lamie, strigi, e chi più ne ha più ne metta; vampiri che sfuggono al canone (pseudo)stokeriano ma spalancano miriadi di altre suggestioni. E qui il cinema italiano c’entra eccome. In Italia già gli atti processuali del Medioevo (es. in Toscana) riferiscono di streghe succhiasangue, e in effetti figure vampiroidi soprattutto femminili di streghe, revenant o ossesse di vario genere, infestano tutta la grande stagione dell’horror italico anni Sessanta. Pensiamo a Barbara Steele… Persino in La cripta e l’incubo di un Miller dietro cui si cela il Camillo Mastrocinque grandissimo professionista del genere commedie, la storia di Le Fanu è riletta in salsa streghesca. Un vampirismo diverso, a-canonico e che permette una maggiore libertà creativa a regista e sceneggiatore anzitutto perché segue altre tradizioni. Del resto, la stessa cinematografia francese (per esempio quel Et mourir de plaisir / Il sangue e la rosa, di Roger Vadim, 1960, che si ambienta in Italia – e che, per l’Amico che poneva la domanda, ispira con ogni probabilità Coppola nella suggestione dei fiori che appassiscono) è estremamente libera da ciò che ci siamo abituati a considerare la struttura del “classico” film di vampiri.
Ma perché tanto gentil sesso implicato nel vampirismo – a partire da quello folklorico? Al di là di un certo compiacimento sessista, e senza pretendere di riassumere in un post qualche millennio di (prei)storia occidentale, dobbiamo tornare al momento in cui il culto della Grande Dea neolitica entra in crisi nel confronto con le culture di allevatori nomadi dalla teologia patriarcale. I volti luminosi della Dea diventano altrettante brave mogli, sorelle, madri, figlie subordinate agli Dei maschi; i volti tenebrosi (legati soprattutto alla morte) sopravvivono demonizzati. L’arcaicissima Dea Civetta neolitica diventa così Atena (sia quella sanguinaria delle origini, sia la simpatica Dea luminosa dei classici) ma anche Lilith, volatrice notturna che attacca i bambini. E attraverso questi babau-femmine transitano frammenti di immaginario estremamente arcaici: prova ne è che ancora le tate ebree o greche, parlando di Lilith, Gellò o Lamia, usano nomi solo lievemente diversi da quelli mesopotamici; e quei riferimenti approdano nel nostro folklore regionale, mediterraneo. Una lettura che per me è stata illuminante, che consiglio a tutti e che funziona da straordinaria macchina per pensare anche al di là della fondatezza di singoli dati su cui la ricerca continua, è “Atena nera” di Bernal – una straordinaria disamina sui legami della cultura classica con le precedenti, in un calderone mediterraneo ancora oggi molto da studiare. A confermare, insomma, che siamo molto più meticci di quanto certi beceri borborigmi amano sostenere…

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 18:03 da Franco Pezzini


Chiudo per avvenuta fusione. Spero che domattina troverò un’ampia relazione di Simonetta sulla napolitudine del vampiro. Buona serata!

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 18:04 da Gianfranco Manfredi


Ops, non sono riuscito a staccare causa apparizione Pezzini. L’evocazione delle succhiasangue toscane, aggiunge altra regionalità al fuoco. Siamo al federalismo vampirico! Che ciascuno, a questo punto, rivendichi orgogliosamente il succhiasangue suo! Se poi sotto il localismo andassimo tutti a scoprire il meticciato universale, sarebbe davvero una gran bella succhiata!

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 18:10 da Gianfranco Manfredi


Non mi par nemmeno male l’idea (l’ha buttata qualcuno/a di voi o me la son sognata io tra le vostre righe?) dei vampiri che invece di succhiare il sangue alle loro vittime lo iniettano per inoculare un qualche virus.
Comunque, stasera saluto tutti/e: il mensile ambientalista Konrad (triestino ma non solo…15.000 copie cartacee ma anche on line al http://www.konradnews.it) è in chiusura e devo scrivere varie cose:
- la solita segnalazione rock su Youtube,
- un pezzo sull’otto per mille e i suoi mille trucchetti in favore della chiesa cattolica (invitando a firmare per i valdesi),
- la mia rubrica satirica L’EMETICO (non so ancora con chi o cosa prendermela),
- rivedere qualche testo altrui.

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 19:14 da luciano / idefix


Ultime battute (prima di salutare anch’io) sull’altro bel tema, il rapporto coi numeri. La storia che il vampiro sia dominato da un’invincibile coazione a contare oggetti minuscoli (semi di papavero, ecc.) seminati sul suo cammino si trova in varie tradizioni. Stoker, che vuole una storia epica, ovviamente non la cita e il canone cinematografico in genere la eviterà per i connotati un po’ ridicoli (compare solo in Dracula II: Ascension, 2003, dove un personaggio getta sul conte una rete, perché i vampiri non lascerebbero perdere un nodo se prima non l’hanno sciolto, e rovescia appunto per terra una quantità di minuscoli semi – e ovviamente il supervampiro lo frega, perché li conta velocissimo). Il motivo resta dubbio, ma occorre riportare la faccenda a quell’ampio bacino di atti precauzionali per evitare il ritorno dei morti – e del resto si tratta del modello folklorico di un vampiro per nulla glamour e un po’ gnocco, una creatura compulsiva dominata da atti magici dal sapore arcaico e piuttosto incomprensibile. Non si può nemmeno escludere che il ridicolo sia voluto, per sdrammatizzare creature temute e dunque “indebolirle” con la derisione. D’altra parte non è affatto chiaro quale ricaduta “pratica” possano aver avuto simili credenze durante le Grandi Epidemie settecentesche.
Un discorso diverso vale però per la numerazione dei diavoli. Che rimonta a una lettura banalizzata del valore simbolico dei numeri nella cultura ebraica – e in particolare di quel 666 (molte speculazioni di numerologia demonologica attingono lì con calcoli più o meno astrusi) che nell’Apocalisse cifra probabilmente un nome imperiale. Scollegandosi da quell’orizzonte simbolico, la numerazione delle schiere diaboliche assume connotati di stramba fantasia erudita – a stigmatizzare da un lato la “potenza di fuoco” dell’inferno, ma dall’altro la finitezza di schiere non innumerevoli come quelle celesti bensì soggette a un pallottoliere.
Bellissima comunque l’idea che i vampiri sognino numeri…

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 19:20 da Franco Pezzini


No, non si può congedarci senza citare il vampiro “educativo” di Sesame Street di Jim Henson, il delizioso Count von Count comparso nella stagione 1972-73. Che ovviamente adora far di conto, e attraverso giochi e canzoni proposti in più di vent’anni sul piccolo schermo, ha insegnato la matematica a qualche generazione di bambini.

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 19:42 da Franco Pezzini


IL VAMPIRO MATEMATICO ? Assumendo l’aspetto di qualche anima del Purgatorio, il vampiro potrebbe anche dare i numeri, però non sa contare. O meglio, nel contare s’ingarbuglia. Se gli si presentano dei mucchi di semi o di riso, il vampiro incomincia irresistibilmente a contarli e cessa ogni altra attività. E’ quel che accade anche con le streghe quando trovano dietro la porta di casa una scopa di saggina: si bloccano e incominciano a contarne i fili.

Una prova del genere ricorre anche nella favola “Amore e Psiche” di Apuleio. Psiche, contravvenendo all’ordine di Eros di accettarlo senza vederlo in viso, accende un lume e lo perde. Per potersi ricongiungere con l’amante-dèmone ed essere accettata tra gli immortali, Venere – la mamma di Eros – le infligge quattro prove, di cui la prima consiste nell’ ordinare una quantità di “semi” differenti che si trovano mescolati insieme ( le altre sono: strappare un ciuffo di lana d’oro da un montone feroce, raccogliere un bicchiere d’acqua dal fiume infernale Stige, portare a Venere dall’Oltretomba un vasetto targato “Ade” contenente un unguento di bellezza).

L’Inconscio è un disordinato non-senso, vi si trova di tutto. E fra luce e ombra si muovono, come grossi pesci, alcune COSE di cui bisognerebbe diffidare. Per poter discriminare e mettere, per così dire, ordine nell’invisibile, occorre uno scarto: l’aiuto di forze soccorritrici.
Nel caso di Psiche, saranno le formiche – animaletti ctonici, “simbolo – secondo M.L.Von Franz, allieva di Jung – dell’ordine ultimo dell’ “inconscio collettivo”: una sorta di ordine implicito che è il solo in grado di far fronte al caos con cui si presenta l’inconscio stesso.
Non a caso “Ordo ab chao” è il motto della Massoneria, il cui percorso iniziatico consiste in un “lavoro” di perfezionamento interiore, collettivamente controllato, che a partire dalla naturale confusione raggiunga l’ordine ( non è raro il caso di ciechi illuminati che, nell’abbaglio, credendo di aver raggiunto una qualche Luce Sacra, si credono ormai spiriti liberi e fanno un fracasso del diavolo. Ah, la lucidità, questa virtù infernale!).

In ogni caso, quello che volevo dire è che poiché il vampiro non è mosso dall’amore ( come Psiche innalzata, attraverso dure prove, alla dignità dell’amante divino) , nessuna benevola forza inconscia lo soccorre: il vampiro è solo.
Ossessionato dai numeri, lo si può immaginare immobile, muto, a calcolare e a fare e rifare i conti davanti a una lavagna nera.

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 21:30 da Gianni De Martino


NOTA. “Psiche non ci provò nemmeno a metter mano in quel confuso, inestricabile cumulo ma costernata dall’enormità di quell’ordine se ne rimase in silenzio come imbambolata. Allora quel piccolo animaluccio dei campi, la formicuccia, che ben sapeva quanto difficile fosse un lavoro del genere, provò compassione per la compagna del grande Cupido e condannò la crudeltà della suocera. Cosi cominciò a darsi da fare, su e giù, chiamando a raccolta, dai dintorni, tutto il popolo delle formiche: ‘Correte, agili figlie della terra feconda correte e date una mano, presto, a una leggiadra fanciulla in pericolo, la sposa di Amore!’ E quelle accorsero tutte, a ondate, minuscolo popolo a sei piedi, e lavorando con uno zelo mai visto, chicco dopo chicco, disfecero tutto il cumulo, separarono i semi, li distribuirono in mucchi secondo la qualità e poi, in un batter d’occhio, disparvero”.(Apuleio, “Amore e Psiche”, cap. X, da Le Metamorfosi).

Postato venerdì, 23 aprile 2010 alle 22:42 da Gianni De Martino


La spiegazione di Gianni è molto convincente e coerente alla figura del vampiro in quanto riproduce un ossimoro, quello del “calcolo incalcolabile”. Se non ho inteso male, il vampiro conta l’innumerevole e dunque pur “ordinando” non viene mai a capo di quest’ordine, destinato a restare incalcolabile perché infinito. “E’ la somma che fa il totale”, diceva Totò, ma a questa somma non si perviene mai, soprattutto quando si conta “uno per uno”. La segmentazione della somma nelle sue infinitesime quantità riproduce il paradosso di Zenone della Freccia Ferma. Il calcolo coincide dunque con la stasi. Il tempo occupato con la perdita di tempo. Le trappole del conto-tempo sono ben descritte nelle loro varianti nei film di gangster. La situazione tipo è quella della consegna delle valigette del riscatto o del pagamento della Roba. Varianti. Il “furbo” spiazza tutti prendendo la valigetta e dichiarando con smorfia ironica: “Mi fido”. Non può essere, logicamente, che si fidi. Ma è furbo perché non perde tempo che è in questo caso un assoluto tempo denaro, perché più passa il tempo e più il bottino rischia di sfuggire alle mani del possessore. Infatti, altra situazione: qualche sgherro o ragioniere del boss comincia a contare le banconote. La macchina da presa stacca e ci mostra “nel frattempo” nugoli di poliziotti che prendono posto, circondando il luogo dello scambio. Si torna dentro a conto finito, ma a quel punto chi contava è incastrato. Anche se la computa è soddisfacente (la quantità è quella prevista) il risultato è sbagliato (quel denaro non lo si può più portare via). Altra variante, vista in un film: l’espertone (il boss) si limita a guardare e soppesare una mazzetta ed emette sentenza: “Mancano cento dollari”. Stupore generale. Il finto fesso controlla: è vero, ne mancano cento. Il suo stesso stupore è finto, perché il cento mancante se lo era intascato lui. Altre strategie di “sottrazione” vengono dettagliatamente messe in opera dal protagonista del film di Sorrentino “Le conseguenze dell’amore”, che inganna persino la conta bancaria e meccanizzata per acquisire un surplus che gli consenta di regalare un’auto sportiva alla sua amata. Scoprirà, dopo l’apparente successo, che un pagamento tramite banca viene contato e ri-contato, in una pressoché “eterna” riconta , per cui è riuscito soltanto a dilazionare la sua inevitabile punizione. Di nuovo: ha fatto solo perdere tempo ai “contatori”, ma in questo caso la “resa dei conti” è immancabile.

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 10:57 da Gianfranco Manfredi


CHE ORA E’?

Una delle più note e diffuse domande del mondo (Che ora è?) viene posta a motto del racconto di Poe “Il diavolo sul campanile”. Vi si parla di un’ordinatissima comunità di villaggio, nella quale tutti si svegliano alla stessa ora, hanno le stesse identiche e minute abitudini, la stessa urbanistica (case disposte come sul quadrante di un orologio) riproduce un ordine perfetto e chiuso. La vita della comunità è tanto perfetta quanto immobile: è una comunità di morti viventi, anche se a loro, a ciascuno di loro, pare di vivere. L’elemento ordinatore del tempo generale è il campanile al centro del villaggio. Quando però il campanile viene occupato da un diavolo violinista, il tempo acquista scansioni imprevedibili, da calcolo permanentemente alterato, “scorretto”. Per il diavolo questo tempo irresolubile in somma è naturale, corrisponde cioè alla sua natura di seminatore del caos. Per i membri della comunità, questo tempo alterato è rivoluzione, dissoluzione totale degli equilibri. Se non si sa più “che ora è”, nulla più ha senso. Per la verità, nulla aveva senso nemmeno prima, anzi “prima del diavolo” era proprio questo non senso della computa a dominare, facendo coincidere la scansione con il non-tempo, con l’immobilità assoluta della comunità, partecipe soltanto di un “falso movimento”. L’imprevedibile che “fa saltare i calcoli”, è la radice del movimento. Il movimento “creativo” è possibile solo quando il tempo ordinato del calcolo si disfunziona. E quando la matematica diventa musica, eseguita da un violinista “folle”. Le disfunzioni del tempo, ricorda Clark Blaise, nel suo saggio “Il Signore del tempo” (Bompiani) furono un’autentica ossessione in epica vittoriana, quando con la definizione dei meridiani, non si sapeva più come far tornare i conti tra tempo cosmico, tempo terrestre e tempo locale. Verne ne il Giro del Mondo in Ottanta Giorni ci dà il colpo di scena finale proprio con la scoperta di uno scarto nei conti del tempo: Phileas Fogg, al termine del suo giro del mondo, è convinto di essere arrivato in ritardo, invece è arrivato in anticipo. La verità contrasta con il senso comune: dove diavolo è finito quel tempo vissuto che è però “scomparso”? Blaise cita un saggio del 1890 di Sandford Fleming, di cui riporto un breve passo: ” Ora locale è un espressione comune, ma è totalmente sbagliata. In realtà non esiste.” Poi ci spiega perché, spiegazione che salto per non perdere tempo. Resta il fatto che “L’ora locale non esiste” affiora in epoca vittoriana come una scandalosa rottura dell’ordine del quotidiano. Alla domanda “che ora è?” si potrebbe rispondere con “qui, nessuna.”

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 11:22 da Gianfranco Manfredi


Ho scritto in “epica” vittoriana invece che in “epoca” , ma non intendevo citare i Wu Ming.

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 11:25 da Gianfranco Manfredi


Sono consapevole di mettere spesso troppa carne al fuoco. Questa riflessione sui numeri, sul conto e sul tempo, merita il giusto tempo di approfondimento. Prima o poi però, mi piacerebbe riprendere quanto, sollecitato da De Martino, aveva ai miei occhi un po’ oscuramente postato
Sbhaga Gaetano Failla. Mi riferisco a quel suo riferimento allo “spettacolo dell’artista che soffre d’una malattia di cartapesta, l’artista che si ammala della sua stessa finzione, cronicizzata. “Tradire la terra”, è stato detto. ”
Il richiamo alla “terra tradita” vorrei venisse approfondito, detto così è un po’ criptico. Per riferirlo ai vampiri: si potrebbe dire che il vampiro si ammala della sua stessa finzione cronicizzata? Cos’è una finzione “cronica”? E’ finzione infinitamente prolungata di un tempo assente nel mentre lo si vive? ma se è così: può davvero essere definita come finzione? E qual è il rapporto con la terra? Uscendo dalla sepoltura, il vampiro “tradisce la terra”? E’ per questo che , come Dracula, stipa la bara stessa di terra, per poter dormire? Ed è per questo la quella terra è non la terra in cui è stato sepolto, ma la terra natia? Questo elemento della terra natia da cui il vampiro globalizzato e viaggiatore non può però liberarsi è stato il più caduco nella letteratura vampirica. Quella terra è un inutile ingombro narrativo, di quella terra i narratori di vampiri pre e post Stoker si sono disinvoltamente sbarazzati. Quella terra corrisponde al “locale”? Cessa di avere valore al momento stesso in cui il vampiro si internazionalizza, diventa figura trasmigrante e cosmopolita per eccellenza? E’ in questo senso che il vampiro “tradisce la terra”?

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 12:07 da Gianfranco Manfredi


Ma questa “terra locale” che sparisce come un non-valore, ci richiama a un altro tema che abbia intrecciato, e cioè a come gli studiosi del folklore, ogni volta che si ritrovano ad approfondire il “locale”, trovano il meticcio e l’universale, quella “miracolosa” corrispondenza di miti tra popoli geograficamente e temporalmente separati. E’ però questo definibile come un Tradimento? Phileas Fogg opera un “tradimento” rispetto al dettato sensibile dell’ Ora Locale? Direi proprio di no. Anche se al lettore la soluzione appare come “astuzia del caso”, non c’è nulla di casuale nella necessità e nella determinazione, nel calcolo, del tempo. E’ come se il tempo, diventasse reale, solo nella misura in cui è astratto. Di nuovo, e scusatemi se la conclusione risulta frettolosa, è la capacità di astrazione che ci fa Adami. Questo lo si può vedere molto bene nella Narrativa di Viaggio. I viaggi di Gulliver, le peripezie errabonde di Aline e Valcour di de Sade, il viaggio di Achab alla caccia della Balena Bianca, quello di Gordon Pym fino all’accecante bianco del nulla, stessa zona astratta in cui si perde la Creatura di Frankenstein, questi Viaggi sono tanto “fisici” quanto “astratti”. La narrativa di viaggio nasce nella forma di “romanzo filosofico”. Il tradimento è nel non riconoscerlo. Il tradimento sta nel rifiuto a intendere il viaggio come esplorazione nel territorio impalpabile del pensiero, unico territorio che dà senso al nostro viaggiare.

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 12:23 da Gianfranco Manfredi


Ecco perchè io ritengo che il tentativo contemporaneo di produrre narrativa Senza Pensiero, tradisca la Narrativa stessa. Non si dà narrare senza Pensiero. La pura esternalizzazione degli eventi, come il loro senso raggrumato in un Io narrante costrittivo perchè limitato all’autobiografico, la cosiddetta letteratura sociale malintesa come “locale” , specifica e inquadrata nel suo contesto, non sono che un tentativo di espellere il Pensiero, di disporre la narrazione su un terreno spacciato per concreto, mentre la sua concretezza risiede soltanto nel suo Valore di Scambio che quella stessa concretezza tradisce, finge, capovolge e mistifica. Il concreto acquista senso soltanto quando riesce ad esprimere l’Astratto, e non quell’astratto fuori e attraverso di noi che è lo scambio universale delle Merci, ma quell’astratto fondante dell’Umanità che è il concreto del pensiero. Quando il romanzo smarrisce la sua radice di romanzo filosofico, allora sì che smarrisce e tradisce la sua terra.

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 12:33 da Gianfranco Manfredi


IL MORTO NON HA TEMPO
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I fantasmi esistono. Vengono, come il vampiro, sia dall’immensità del di fuori sia dal profondo di noi stessi. Arrivano, nella maggior parte dei casi, in uno scarto di tempo, fuori tempo, in una improvvisa sospensione del tempo.
Talvolta bussano alla porta. Altre volte si manifestano con un quasi impercettibile fruscio di ali sottili, quasi un ronzio, oppure un risucchio d’aria fredda.
Un tempo questi soggetti morti e stramorti, che oggi per tranquillità chiamiamo fantasmi, portavano ai vivi qualche messaggio decisivo ( talvolta davano anche i numeri per vincere alla lotteria). Oggi – come in Herzog di Saul Bellow – non sembrano altro che ombre “senza più alcun messaggio per nessuno, alcun messaggio d’altrove”.
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“Ma non vieni ? Che fai? “ disse Madelaine.
Forse non era ancora completamente sveglio. Herzog per un momento s’era fermato vicino al negozio di pesce, attirato dall’odore.
[…] Fermandosi un attimo sulla soglia metallica del montacarichi, Moses avvertì attraverso le suole sottili il disegno a rilievo dell’acciaio; come il Braille. Ma non scoprì nessun messaggio. Sembrava che i pesci, nel ghiaccio bianco, macinato, spumoso, si fossero fermati all’improvviso, nell’atteggiamento di quand’erano vivi.
[…] “Non posso mica aspettare te, Moses” disse Madelaine, perentoria, parlandogli da sopra la spalla.
Entrarono nel caffè e si sedettero al tavolo di formica gialla.
“ Che stavi facendo, a perdere il tempo a questo modo?”
“Be’, sai, mia madre veniva dai Baltici. Il pesce le piaceva moltissimo.”
Ma Madelaine non aveva nessuna voglia d’interessarsi di mamma Herzog, morta da vent’anni, per quanto madrediretta potesse essere l’anima nostalgica di quel signore. Moses, riflettendo, si rimproverò. Lui, per Madelaine, era già un tipo paterno- non poteva pretendere che lei prendesse in considerazione anche sua madre. Era una persona morta e stramorta, una di quelle che non possono fare più nessun effetto sulla nuova generazione. ( Saul Bellow, Herzog, trad. di Letizia Ciotti Miller, RCS Quotidiani S.p.A., Milano, 2007, pp. 166-167).
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“ Evidentemente” – commenta il compianto Elvio Fachinelli ( nella Mente estatica, Adelphi, 1989, p.71, citando le pp. 150-151 della prima edizione feltrinelliana di Herzog del 1971) – “ è la madre viva nel protagonista del romanzo, Moses Herzog, che si ferma sulla soglia del montacarichi ed è colpita dal negozio del pesce – insieme al bambino Herzog. Per ‘un attimo’: è un buco di tempo che rispetto a quello quotidiano appare come dormiveglia, contrattempo, pura perdita. […] Il messaggio è nell’intensità di sensazioni che precipitano un ricordo. Di chi ? Della madre e del bambino Herzog ? Un soggetto – misto, confuso ? ”
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Nel fuori tempo dell’estasi o trance scrittoria, in un intervallo dove non c’è dove e “le acque si confondono”, le percezioni, le emozioni e i sentimenti diventano densi, agglutinanti – com’è forse la memoria di tutti gli esseri incompiuti. Tuttavia, per quanto l’emozione di una tale piccola esperienza estatica possa apparire ad altri colpevole, una nostalgia colpevole, o perlomeno ridicola ( “l’ala dell’imbecillità che passa”, notava Baudelaire) il fuori tempo dell’estasi “nascostamente vive e non si lascia eliminare”.
Nonostante la piccola idea che ci facciamo della relazione con noi stessi, con gli altri e con l’universo o i multiversi, i racconti e le osservazioni dei morti ci dicono che il mondo è immenso, desolato e magico. La situazione comune a molti ciechi illuminati, oggi come ieri, è l’impossibilità di essere soli al mondo: c’è sempre qualche morto-non-morto del tutto che nel lasciare la terra ha per noi un messaggio inaudito.
Nel precipitare del ricordo di un assente, proprio nella perdita infinita, talvolta un caro morto ritorna e – al limite, proprio nel punto intenso e feroce in cui la vita va al di là – ti prende per la “manina”.
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Al tocco, lieve, del fantasma, ti si potrebbe anche aprire un foro nel petto. Oh, solo un buchino quasi insignificante. E’ solo l’accumulo di tante piccole ferite, anche narcisistiche, volendo, che ti convincono di una gravità. Lo chiamano, banalmente, “rimorso”. Ed è quando dal piccolo foro nel petto comincia a soffiare un vento terribile, sentimentale, capace di spezzare aghi e canini d’acciaio.
Vi sono anche dei casi, altrettanto tragici, in cui tra le maglie della rete vuota ( o apparentemente tale) della catena dei significanti, soffia un venticello gentile…
E’ difficile, quasi impossibile scongiurare l’arrivo dei fantasmi. Chi potrebbe farlo ? Il professor Van Helsing? Ricordo che negli ultimi giorni diceva: “Il corpo è un orologio che non si può aggiustare… Speriamo che non mi faccia troppo male…speriamo che la morte sia veloce…” Non lo fu. E, poiché era d’estate, qualcuno, un parente o forse un amico, premendosi un fazzoletto sul viso aprì le finestre. Vi sono casi in cui è giocoforza cancellare le macchie, dare la ricarica all’orologio e augurarsi che soffi il vento.

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 13:23 da Gianni De Martino


Al morto è stata tolta la terra da sotto i piedi. Forse per questo ha nostalgia della terra.

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Chissà se Gaetano Failla può sviluppare quel suo riferimento allo “spettacolo dell’artista che soffre d’una malattia di cartapesta, l’artista che si ammala della sua stessa finzione, cronicizzata. ‘Tradire la terra”, è stato detto’. ”
Perché l’artista tradirebbe la terra? Forse perché lavora per uno spazio di non-morte? Perché fabbrica opere-vampiro ? ( “Tradire la terra” è stato detto da Nietzsche, in riferimento a una critica della metafisica, mi pare: Gott ist tot!- Dio è morto! Non resta che la terra).

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 14:08 da Gianni De Martino


Grato al bellissimo post di Gianni (come si può notare dal frammento citazione di Bellow, cioè che in letteratura appare come stilistico, libero, non funzionale alle dinamiche del racconto in sè, cioè come appare anche come un gratuito fiorire del poetico e dell’inconscio, nasce in realtà dal pensiero, è pensiero in atto, senza pensiero non si darebbe quella apparente “digressione” che ci conduce invece al nocciolo), vorrei però sollecitare Pezzini con alcune tracce che ci riconducono a Dracula, come romanzo cruciale dell’epoca vittoriana. Nell’epoca vittoriana, come ho sottolineato citando Clark Blaise, si manifesta uno choc del tempo. Dire, nel pieno fiorire dell’imperialismo britannico, che “l’ora locale non esiste”, significa anche dire: se il Regno Britannico è ovunque, esso non è più qui.
Dracula si accorge della trappola in cui si è ficcato. Parte della periferia di un Impero ormai decaduto e morto da secoli, e cerca di darsi nuova vita trasferendosi nel Centro del Nuovo Impero: Londra. Però scopre a malpartito che quel centro è ormai vuoto. Dunque non sceglie di “resistere” come potrebbe in virtù dei suoi Poteri, fugge lui stesso, infastidito più che respinto. Non ha trovato un centro solido in cui rimaterializzarsi, ma un centro vuoto. C’è nell’Imperalismo una caricatura (militare e amministrativa) dell’idea cristiana di diaspora. Cristo invita i suoi discepoli a un “andare e moltiplicarsi” che è spargimento persino scriteriato del seme (vedi la parabola del seminatore che butta i semi persino sul sentiero, cosa che nessun seminatore saggio farebbe). Il cristiano non ha più alcuna patria che non sia il Mondo. Il tentativo tardo di definire quella patria in una Chiesa e in un Luogo (Roma) compare di fatto come un ripiegamento resistenziale, per nulla universalistico di quella scelta anzi di quella condizione di “non avere terra” che nasce proprio dalla cultura di un popolo sfrattato ed errante come il popolo d’Israele. Il complicatissimo, persino patetico, traffico di bare piene della “sua” terra in cui Dracula si infila, non è un condurre se stesso e le sue radici in un Centro da cui potrebbero fruttificare e spargersi con nuova energia, ma è consegna di terra locale a un locale/centrale che non localizza e non centralizza più nulla, per il semplice fatto che espandendosi si è de-localizzato. Da questo punto di vista, Dracula è anche leggibile come romanzo della globalizzazione. Dracula diventa un mito globale perché soffre e manifesta il dramma dell’uomo globalizzato. Questo emigrante che convinto di giungere al centro, lo trova desolantemente vuoto e di per sé infruttifero. Nel momento in cui torna alla sua terra, Dracula viene sconfitto e ucciso “in loco”. Ma è dopo morto che il suo mito si irradia, non più transilvanico, non più vittoriano, ma globale. Dracula è una sorte di figura monoteista che riassume in Uno il politeismo delle precedenti tradizioni vampiriche del foklore. Ma rappresenta anche la Conclusione del Cilo: la fine di questo Uno. Perchè questo Uno, nella letteratura vampirica, diventa germe d’origine di una serie infinita di deviazioni, di mutazioni, attraverso le quali questo Uno ritorna a quel molteplice (e universale) che gli ha dato origine.

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 14:48 da Gianfranco Manfredi


Le prime righe del mio post sono rovinate da un paio di refusi che le rendono incomprensibili. riscrivo: “come si può notare dal frammento citazione di Bellow, ciò che in letteratura appare come stilistico, libero, non funzionale alle dinamiche del racconto in sé, cioè che appare anche come un gratuito fiorire del poetico e dell’inconscio, nasce in realtà dal pensiero…”

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 14:52 da Gianfranco Manfredi


Ringrazio tutti per i nuovi succosi (sanguinolenti) e stimolanti interventi.

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 14:54 da Massimo Maugeri


Altro refuso: Conclusione del Ciclo, non del Cilo (tantomeno del chilum).

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 14:57 da Gianfranco Manfredi


Agli amici vampirici protagonisti del post.
In merito a quanto accennato prima – per Letteratitudine, il libro” – vi inviterei a buttare giù un intervento “riepilogativo” intorno alle 12.000/13.000 battute.
Che ne dite?
L’invito è rivolto agli esperti citati sul post e agli altri esperti intervenuti nel corso della discussione.
Mandate tutto a letteratitudine(chiocciola)gmail. com
Grazie in anticipo.

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 14:58 da Massimo Maugeri


Noto che Gaetano Failla non ha accluso suo link e dunque non lo si può avvisare. Spero che abbia continuato a leggere, altrimenti non potrà chiarirci quel suo “Tradire la Terra”.

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 15:00 da Gianfranco Manfredi


Manderò una mail a Gaetano, caro Gianfranco.
Un saluto e un buon fine settimana a te e a tutti i partecipanti e i lettori del forum.

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 15:03 da Massimo Maugeri


@ Massimo. A proposito del riepilogativo. Forum richiama “piazza” e difatti i forum di solito danno voce a questa coralità occasionale in cui spesso ci si esprime a favore o contro, in qualche modo “votando” in base ai propri indiscutibili “gusti”. Cioè la piazza come sondaggio permanente di se stessa. Questo forum invece, come alcuni hanno notato perché hanno usato il termine, è stato ed è un Simposio. un Simposio aperto perché molti sono entrati e usciti, altri sono arrivati in corso e si sono accomodati a tavola. Si può notare rileggendo che come in un Simposio spesso ciascuno di noi , chiarendo il proprio pensiero, ha anche gradatamente mutato opinione, nella condivisione del “pasto vampirico” con altri. e dunque mi piacerebbe che i nostri riepiloghi non fossero sintesi espressive del “nocciolo” del nostro pensiero, ma taccuini di viaggio di questo errare discorsivo che andava ad arricchirsi tappa per tappa.

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 15:08 da Gianfranco Manfredi


Certo: Gesù è “scriteriato”, getta i semi ovunque, anche sul sentiero, cosa che un “seminatore saggio” non farebbe. Ma appunto Gesù non era un burocrate bensì un creativo: sapeva che i cambiamenti, i capovolgimenti di ruolo, le conversioni possono avvenire nei luoghi e nei momenti più impensati e imprevedibili.
Come accade a chi scrive: sa bene che le idee spuntano e poi arrivano dove meno uno se le aspetta.
Come i “mostri” e i pericoli dei film horror più riusciti: il pericolo o la minaccia si nascondeva proprio là dove nessuno aveva pensato di controllare, là dove il nostro sguardo di spettatori era stato distolto dal regista.
In questo senso (convertito in chiave “benefica”), va l’apparente spreco di semi della parabola cristica: in se e per se, nessun seme nasce inutile. Ma dipende da cosa gli accadrà, da quali incontri farà.
Analogamente, nessuna idea è banale o inutile ma dipende da quale altra idea incrocierà, se scoccherà la scintilla che farà nascere da loro un’IDEA davvero creativa e fertile.
Facendo ancora un passo: nessun essere umano è inutile o “cattivo” in se e per se. Dipende da ciò che fa, dai suoi incontri, dal terreno (come per il seme della parabola) nel quale agisce.

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 15:09 da luciano / idefix


Il tema dello spargersi del seme, così caratteristico nella metafora vampirica, in cui lo spargersi corrisponde a un contagio, richiama per contrasto un genere cinematografico oggi molto in voga e cioè il Survival: un piccolo gruppo di resistenti combatte contro la minaccia della peste più o meno zombesca più o meno vampirica. E’ il caso del Remake del romeriano “La città verrà distrutta all’alba” che, come ha fatto oggi notare Roberto Nepoti in una sua critica apparsa su Repubblica, dissolve le metafore sociali romeriane in un apparente puro scontro da playstation, nel quale i “minacciati” resistono. Eppure così facendo, la metafora diventa ancor più esplicita, anche se il pubblico magari non se ne rende conto, e sostituisce il “disturbo” con l’Ideologico. Dobbiamo difenderci, il problema è il come, non il senso della difesa in sé. Il difendersi curando, cioè trovano un controvirus o un vaccino, come proposto da molti film survivalistici, corrisponde all’idea cristiana della salvezza attraverso la cura e fino al sacrificio di sè. L’idea invece della difesa militare a tutti i costi, nella quale la morte si riduce a Sconfitta, appaga il sentimento da cittadella assediata del comune cittadino , ma non lo aiuta affatto alla consapevolezza che “non c’è proprio più nulla da difendere”.

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 15:34 da Gianfranco Manfredi


E non è neanche indispensabile essere cristiani per non essere survivalisti ad oltranza e in armi. Ghandi disse all’Impero inglese: “volete invaderci? Venite, noi abbiamo sempre accolto tutti.” Non c’era resa in quelle parole, ma consapevolezza: invadere vuol dire dissolversi. Resistere assimilando e curando è più efficace che il pur necessario a volte, “difendersi in armi.” Lo stesso Che Guevara disse che la rivoluzione è un atto d’amore, per gli oppressi, per la giustizia e per la verità. Ed è per questo che la rivoluzione (con o preferibilmente senza armi) non è nazionale, non ha confini. Non si fa per difendere un Ordine contro un altro Ordine. Ma per sovvertire l’ordine di cose esistente. Quell’ordine da playstation secondo cui si vince sterminando. Ma così facendo, la vittoria finale coincide con la fine del gioco.

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 17:13 da Gianfranco Manfredi


Nel cinema survivalista la fine è l’ottenuta sopravvivenza di uno o due (i nuovi Adamo ed Eva), ma questo cinema finisce dove comincia Io sono leggenda. Che me ne faccio della mia solitudine tra le macerie? Questa solitaria difesa contro i morti, contro la Morte, non è Resurrezione, è un terribile prolungamento della provvisorietà della sopravvivenza. E a quel punto, non c’è più alcuna differenza tra il “sano” e il “vampiro”, perché ora entrambi conoscono il significato dell’affermazione di Dracula: “C’è qualcosa di più terribile della Morte.”

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 17:21 da Gianfranco Manfredi


Nei film di catastrofe vampirica i termini della questione vengono capovolti. Dal vampiro solitario (Varney) che combatte contro il mob (la massa volgare e omologata che vuole ucciderne la diversità) si passa all’Ultimo Umano Sopravvissuto che combatte contro il mob vampirico. Quasi sempre incontra una Lilith, una sua ex-amante, che lo invita a passare con la massa dicendogli: “Non è poi male quanto sembra”. Ma nella cornice (assai metafisica) del film di Corman scritto da Beaumont ( La maschera della Morte Rossa) le Pesti vittoriose ormai in tutto il mondo si incontrano in un mestissimo convegno. Se non c’è più nulla da infettare, perché tutto l’infettabile ormai è stato infettato, allora finisce anche la Peste. Quel momento vittorioso non può essere celebrato, se non come celebrazione del proprio funerale.

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 17:34 da Gianfranco Manfredi


Uh! uh! Sant’Ernesto Guevara de la Serna, guerrigliero, rivoluzionario, cubano, presidente del Banco Nacional, ambasciatore, ma soprattutto uomo ! Nelle sezioni di Partito e nella pampa si sussurrava che avesse un bel sigaro. Mah ! Chissà perché -quasi fossimo sinistre campesine, invece che onesti vampiri – c’innamoriamo sempre dell’uomo sbagliato. :-)

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Quanto al Gesù “scriteriato”, che “getta i semi ovunque”, mi pare che la parabola metta in evidenza non tanto il criterio della semina, quanto l’accidentalità e la varietà del terreno in cui cade durante la semina. Un contadino, con quello che costano le sementi, difficilmente può concedersi il lusso di essere “creativo” e di spargere il seme do’ coglio coglio…. Ciò non toglie che il pensiero di Gesù fosse molto creativo. Non ha forse piantato in tante anime il “seme” del Regno ?

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 18:58 da Gianni De Martino


mi pare che la parabola metta in evidenza non tanto il criterio della semina, quanto l’accidentalità e la varietà del terreno su cui cadono i chicchi durante la semina.

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 20:00 da Gianni De Martino


Su questo non sarei d’accordo. Sulla semina, voglio dire (non sull’Ernesto cui non posso impedirmi comunque di restare affezionato). Nella parola si dice che alcuni semi caddero sulla strada e finirono in pasto agli uccelli, nel che peraltro non c’è nulla di male, perché anche gli uccelli devono mangiare. Ma è centrale nel messaggio di Gesù l’idea che la predicazione (e la semina) non vanno limitate al campo. L’accesso della natura sta anche nel suo spreco. C’è bisogno di milioni di spermatozoi se uno solo centra il bersaglio? Eppure c’è un certo benefico piacere in questo spreco, che dubito ci sarebbe se eiaculassimo uno spermatozoo solitario… plic… e chi se ne accorge? La parabola ha del resto un parallelo in quella dei talenti. Meglio usarli e tornare a casa senza guadagno alcuno anzi in bolletta, piuttosto che seppellire il capitale sotto terra per salvaguardarlo. E’ dunque proprio il criterio che sta al centro delle parabole. E’ un criterio che rischia lo spreco . E’ il diffondere come fine dell’agire e non come mezzo per l’appropriazione.

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 20:07 da Gianfranco Manfredi


Non era l’accesso della natura, ma l’eccesso. La creazione è eccessiva. E’ una spontanea e divertente reazione che ho sentito manifestare anche da un comico, non ricordo chi, di fronte ai documentari in cui ci si mostrano delle specie animali ridicolissime , iper-minoritarie… “ma questo cosa cazzo è stato creato a fare?” Le natura non applica criteri “economici”. Prolifera. Anche la letteratura esprime questo eccesso. Quante opere imperfette, limitate, ridicole, persino insensate, vengono ogni giorno create? Poi è vero che si fa la solita domanda del cazzo: Ma sull’isola deserta quale libro ti porteresti? Oppure: quali sono i dieci libri fondamentali che tutti dovrebbero leggere? Ma perché sceglierne solo uno o dieci visto che ce ne sono migliaia? Perché rinunciare a priori alle possibilità del tutto e dell’infinito, per confinarsi nel “campo”/”genere” o nel “capolavoro assoluto e definitivo”? L’importante, come cantava Jannacci, è esagerare. Poi magari lo diceva ironicamente, ma non c’è rock senza esagerazione. Lasciamo ai minimalisti il loro singolo spermatozoo e i nostri sprechiamoli o impieghiamoli a man bassa, che diavolo!

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 20:18 da Gianfranco Manfredi


Più che “a man bassa”, nel caso, “senza mani”.

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 20:19 da Gianfranco Manfredi


Guarda mamma, senza mani! Gridava il ragazzino in bici della barzelletta, prima di schiantarsi contro un muro. Rischio da correre comunque.

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 20:28 da Gianfranco Manfredi


In realtà la barzelletta finiva “guarda mamma! Sensa denti!” E questo è rischio letale per un vampiro.

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 20:30 da Gianfranco Manfredi


Non c’è rock senza esagerazione, dice Manfredi.
E di primo acchito gli darei ragionissima. Ridendo di me, perchè (ancora sotto l’effetto del concerto del piccolo-grande sessantaduenne Willie Nile) ho fatto tutti i miei dieci incontri “letterari” (ma non solo…si parla di tutto) nelle scuole da venerdì 16 a stamattina (da Levico Terme a Trieste, passando per Mantova e provincia, per il Friuli eccetera) a ritmo di rock, teatralizzando le risposte saltando su e giù dal palco e buttandomi per terra e interpretando vari personaggi e dunque ridendo o piangendo o correndo o cadendo svenuto e così avanti, sempre senza microfono), col risultato che sono a piezzi. E mia figlia mi sfotte: “papà, sei vecchietto”.
Però l’effetto del rock è questo: esagerare.
Poi mi dico: non tutti. Ad esempio uno come Ray Davies dei Kinks ha scritto con penna deliziosa, suonato con arrangiamenti geniali e cantato con voce indolente, anche pezzi molto garbati e per nulla esagerati (come Waterloo sunset).
D’altro canto, quando Davies ha voluto fare lo sfrontato e lo sguaiato (You really got me, da cui forse nasce il rock sbracato), non s’è tirato indietro.
E in dicembre, quando sono andato a vederlo all’Apollo di londra (la sua Londra!!) ha fatto un concerto eccezionale: un set acustico, uno elettrico e uno semi-sinfonico con un coro di sessanta elementi. Grandissimo.

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 21:06 da luciano / idefix


Pensavo alle riflessioni di Gianfranco su Dracula, imperialismo e ora locale. Sì, penso anch’io che “Dracula” sia il romanzo cruciale dell’epoca vittoriana, la sintesi di un mondo e dei suoi dubbi più radicali (tanto da non essere consciamente avvertiti dall’Autore, se non in minima parte), dei foschi bagliori del futuro. L’imperialismo inglese si specchia ma non riesce a riconoscersi nell’imperialismo del vampiro, suo incubo; i personaggi che discettano con precisione di orari ferroviari (Stoker usa avvertibilmente quelli veri) si confrontano con la dimensione di un abisso del tempo. Continuo a trovare terribilmente suggestivo quel “FINE” che verso metà del libro, morta Lucy, Seward annota nel diario. Come se tutto quel che segue fosse solo il delirio di chi ha perso la persona amata, e Dracula un’ombra che ci portiamo dentro ma si allarga a inghiottire le categorie della realtà. E se Lucy di cognome fa Westenra – e dunque è la Luce dell’Occidente, dissanguata dall’ombra di un Oriente predatorio (come in certe paure odierne su Islam e Cindia?) – quella FINE dell’Occidente che condurrà al nuovo secolo fa almeno pensare. Nicola II, qualche mese prima della morte, prende a leggere “Dracula” ad alta voce, plausibilmente ai familiari; durante la Seconda Guerra Mondiale, un’edizione in paperback viene destinata alle truppe americane… Alla faccia della letteratura “di evasione”.
La domanda successiva può essere: quale testo (se ce n’è uno, del Fantastico o no) ha dalla prospettiva odierna un’analoga carica critica e “profetica”?

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 22:28 da Franco Pezzini


Forse “Tristi tropici” di Levi Strauss. Assolutamente ateo, portatore della Cattiva Novella. «Il mondo», si legge alla fine di Tristi tropici – «è cominciato senza l´uomo e finirà senza di lui». In seguito, Levi Strauss ha scritto pagine profetiche e altrettanto “critiche” sul destino dell’Europa.

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 22:51 da Gianni De Martino


da amante di jane austen quale sono e fan della saga twilight vi consiglio il libro di seth grahame-smith orgoglio e pregiudizio e zombie. volutamente ispirato dal più celebre e mai passato orgoglio e pregiudizio. è scorrevole, direi attuale visto il genere e soprattutto, per chi è inguaribile romantica come me, immaginare mr darcy alle prese con morti viventi luridi e sudici assetati di sangue per salvare elisabeth bennet è favoloso.
p.s. uscirà anche un film non so quando! buona lettura

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 23:28 da luisa980


Sì, Luisa. Del libro avevo già parlato. Riguardo alla citazione di Tristi tropici, Frederich Engles ne “la dialettica della natura” conclude esattamente allo stesso modo. Sono entrambi, forse senza saperlo, Leopardiani.

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 23:47 da Gianfranco Manfredi


Engels non Engles, ovviamente. Parlo dell’amico, compagno e finanziatore di Karl Marx, grande figura purtroppo anche nella tradizione marxista-leninista piuttosto oscurata.

Postato sabato, 24 aprile 2010 alle 23:50 da Gianfranco Manfredi


@ Pezzini. La cosa straordinaria di Dracula, cpme romanzo, è che è mal scritto. La prosa è faticosa. La struttura da romanzo epistolare era già al tempo di Stoker cosa morta o decotta. Oggi lo rende quasi illeggibile alle giovani generazioni. Però ho letto una statistica, non so com’è fatta, secondo cui Dracula è la terza opera più famosa, rieditata, tradotta e letta al mondo (dopo la Bibbia e la Divina Commedia, pensate un po’). Questo significa che Dracula è davvero un romanzo Mostro. Non si sa come prenderlo. E’ una tale massa di suggestioni che pare sollecitare un diverso punto di vista ad ogni lettura. E ogni diverso punto di vista, illumina un nuovo senso. Dopotutto, Dracula ci rivela che non è necessario essere Belli e nemmeno Potenti, per essere Significanti.

Postato domenica, 25 aprile 2010 alle 00:00 da Gianfranco Manfredi


Quando il 25 Aprile cade di domenica, è una Festa doppia o una Festa in Meno? E come mai oggi si giocano le partite? Il Calcio è Liberazione? Buon 25 aprile a tutti.

Postato domenica, 25 aprile 2010 alle 12:04 da Gianfranco Manfredi


Caro Gianfranco, grazie per avermi tirato in ballo.
Come certamente saprete, Napoli detiene il primato sicuramente europeo, e probabilmente mondiale, di presenze “fantasmiche”. Mentre quello dei castelli infestati lo possiede la Scozia, Napoli vanta il maggior numero di leggende in fatto di apparizioni soprannaturali. E di queste ne parliamo proprio nell’antologia QUESTI FANTASMI-17 storie di fantasmi napoletani (Boopen Led), raccontate da altrettanti scrittori. Ora al Comicon presenteremo anche la prima tranche in versione graphic novel.
Ma non sono vampiri. Sono anime disperate, spesso vittime di sorpusi, che vagano per le strade antiche della città in cerca di giustizia o di grazia. Un po’ come la stessa città che cerca costantemente riscatto.
Maria D’Avalos, Eleonora Pimentel Fonseca, Giuditta Guastamacchia (molte sono donne, forse perché storicamente la donna è sempre stata più vittima che carnefice). E sono fantasmi buoni, non hanno il senso della vendetta, piuttosto quello della spasmodica ricerca della pace eterna.
Quindi Napoli come teatro di fenomeni paranormali, e custode del segreto della liquefazione del sangue di San Gennaro. E non dimentichiamo la singolare figura del principe di Sansevero, alchimista e scienziato, che si esperimenti sul corpo umano pare ne abbia fatti tanti, dal marmo alchemico alle cosiddette Macchine Anatomiche (gli scheletri dei suoi due servi sono conservati all’interno della cappella con il sistema circolatorio intatto e cristallizzato, pare, dopo un’endovena di sostanze appositamente studiate), e anche su come tornare in vita dopo la morte. Si racconta che quando il principe sentì che la morte si avvicinava, istruì un servo che avrebbe dovuto tagliare a pezzi il cadavere e chiuderlo in un baule. Nessuno doveva aprirlo prima di un dato lasso di tempo, per dare modo a una certa pozione di riportarlo in vita. Quando il principe morì, il servo seguì gli ordini e si pose a guardia al baule, ma i parenti che stavano setacciando il palazzo in cerca di ricchezze nascoste lo costrinsero a farsi da parte. Il baule fu aperto e il corpo ancora in via di ristrutturazione si sollevò di scatto. Il principe fissò i presenti con occhi pieni di orrore ed emise un urlo agghiacciante. Poi il cadavere si disfece sul fondo del baule.
Mica male come storia, eh? Leggenda o no, intanto pare che il suo sarcofago sia vuoto, e che del corpo non se ne abbia notizia.
Certo che Napoli potrebbe essere la giusta cornice anche per una storia di vampiri, ma lo dice una che qui ambienta le sue storie horror, che sente nelle sue corde quest’affinità ambientale, e quindi di parte.
Qualunque sia il luogo prescelto, l’importante è che giri bene negli ingranaggi mentali dello scrittore.
Chi viene a Napoli sgombro da pregiudizi s’innammora di questa città per come ti accoglie, per quelllo che offre, per gli scenari unici del suo centro storico o del suo litorale. Se uno avesse in mente di scrivere di vampiri e si facesse un giro da queste parti, sono certa che troverebbe un mare di spunti e di ispirazioni, anche tra le bancarelle di San Gregorio Armeno che a Natale vendono i pastori per il presepe.

Postato domenica, 25 aprile 2010 alle 18:48 da Simonetta Santamaria


Sul cinema in Italia, vorrei riportare una riflessione fatta da Ruggero Deodato in occasione dell’anteprima a Roma di Paranormal Activity: mi disse “Se qulcuno avesse proposto a qualcuno qui questo film che non è costato niente, con l agaranzia che avrebbe incassato 100 volte tanto, stai pur certa che nessuno gliel’avrebbe prodotto, comunque”. Non c’è voglia di investire, i grandi produttori e distributori preferiscono importare film di successo già acclarato dagli altri paesi. Vivono della gloria guadagnata altrove. Non a caso film come Cannibal Holocaust vendono ancora all’estero e qui nessuno se li fila più. Lo stesso Dario Argento, col suo ultimo film (prodotto negli USA, se non sbaglio) pare abbia seri problemi perché non trova un cane di distributore.
Abbiamo oggi il premiato (al fantasy Horror Award di Orvieto) Federico Zampaglione col suo Shadow, e poi più nulla. Che si sa, Zampa ha i suoi fans, il suo nutrito seguito guadagnato come musicista e leader dei Tiromancino, quindi è un personaggio che si per sé tira e attira pubblico, specie giovane.
Chissà se vedremo mai in Italia il nuovo film con Robert Englund, Sinner, girato dal regista italiano Alessandro Perrella.
Chissà se vedremo mai un nostro soggetto sul grande schermo. Forse se qualcuno andasse all’Isola dei Famosi o mostrasse tettte e stupidità al Grande Fratello o in qualche altro becero reality, forse…
;)

Postato domenica, 25 aprile 2010 alle 19:09 da Simonetta Santamaria


Per quel che riguarda l’associazione Napoli-vampiri ricordo che Boselli aveva scritto una doppia storia di Dampyr d’ambientazione napoletana,in cui omaggiva sia Varney il vampiro,il Vampiro di Polidori, Frankenstein e la riunione di Villa Diodati,per citare nel finale il monaciello
la più famosa figura fantasmatica di quella zona.

Postato domenica, 25 aprile 2010 alle 20:06 da Francesco Moretta


Che poi è l’unico a non essere realmente un fantasma…

Postato domenica, 25 aprile 2010 alle 20:25 da Simonetta Santamaria


@ Gianni De Martino e Gianfranco Manfredi
Ho seguito con molto interesse i vostri numerosi interventi (non tutti, sono proprio tanti), i quali aprono spazi vastissimi di discussione (e questo post mi ha permesso anche – dopo tanti anni, dalla seconda metà degli anni Settanta cioè – sia di rileggere le parole di Gianni De Martino, il quale mi appassionava allora nelle pagine del primo Re Nudo, sia di rivedere citato il nome di Elvio Fachinelli e della preziosa rivista e casa editrice “L’erba voglio”: conservo da qualche parte il bellissimo saggio di Fachinelli intitolato “La freccia ferma”… Be’, un po’ di amarcord…).
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Sono intervenuto dunque “di passaggio”, non potendo addentrarmi nel merito d’una tale ampiezza di temi trattati. Provo a chiarire il mio commento del 22 aprile 2010 alle 10:14 pm dove, dopo aver citato un brano di Gianni De Martino e uno di Borges, scrivevo alla fine (in riferimento al mitico inventore della scrittura, citato da Gianni):
“Quel pianto “reale” del mitico inventore cinese si è spesso trasformato nello spettacolo dell’artista che soffre d’una malattia di cartapesta, l’artista che si ammala della sua stessa finzione, cronicizzata. “Tradire la terra”, è stato detto.”
Sì, Gianni, in conclusione alludevo a Nietzsche. E lo spettacolo di cui parlavo si riferiva agli atteggiamenti che “spesso” certi artisti rappresentano nella forma d’una finzione di sofferenza. Alcuni tipi di artisti, cioè, inscenano la parte di coloro che soffrono le pene inenarrabile d’un atto creativo, dovute invece a ciò che si rivela poi come una sorta di gravidanza isterica, siccome tali artisti mimano soltanto una sofferenza dettata dalla morale. Apparentemente opposto (e complementare) a questo atteggiamento vi è la morale “new age”, “il pensiero positivo” e altre simili sventure moderne (ho letto recentemente un libro che considero molto importante, relativamente, anche, a questo aspetto: Manu Bazzano, “Buddha è morto. Nietzsche e l’aurora dello Zen europeo”, IPOC, 2009).
Per tornare al primo aspetto, quello dell’artista “che soffre” (e per rimanere in qualche modo anche in tema), riporto il seguente brano:
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“Morale come ‘vampirismo’… (…) Il concetto di ‘anima’, di ‘spirito’, e infine anche di ‘anima immortale’, inventati per disprezzare il corpo, per renderlo malato – ‘santo’ – per opporre un’orribile leggerezza a tutte le cose che nella vita meritano serietà, ai problemi del nutrimento, dell’abitazione, della dieta spirituale, della cura delle malattie, della pulizia, del tempo atmosferico! Invece della salute, la ‘salvezza dell’anima’, – cioè a dire una ‘folie circulaire’ tra gli spasimi della penitenza e l’isteria della redenzione!” (F. Nietzsche, “Ecce homo”).
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Grazie e abbracci,
Gaetano
P. S. (fuori tema)
Avete notizie su eventuali iniziative relative al centenario della nascita di Jean Genet?

Postato domenica, 25 aprile 2010 alle 20:59 da Subhaga Gaetano Failla


Correggo:
inenarrabile=inenarrabili

Postato domenica, 25 aprile 2010 alle 21:11 da Subhaga Gaetano Failla


Beh, Napoli ha un’importanza capitale nell’immaginario gotico e più in generale del fantastico nero. Frankenstein nasce a Napoli; Il diavolo in amore di Cazotte, L’italiano di Ann Radcliffe, Zanoni di Bulwer Lytton e ovviamente Varney vi ambientano sezioni più o meno ampie. E Dumas non lesina sul nero, rinarrando in forma di romanzo le pagine di quell’epopea straordinaria che è stata la Repubblica napoletana – e che meriterebbe una memoria nazionale molto più forte rispetto a quella tributatale.
Viviamo comunque in un paese profondamente gotico. E pensiamo a tutto il filone di turpi vilain italiani: Schedoni, Montoni… (qualcun altro?)

Postato domenica, 25 aprile 2010 alle 21:50 da Franco Pezzini


Leggasi: (Victor) Frankenstein nasce a Napoli.

Postato domenica, 25 aprile 2010 alle 21:52 da Franco Pezzini


Grazie a tutti per i nuovi commenti.

Postato domenica, 25 aprile 2010 alle 23:46 da Massimo Maugeri


Gianfranco ha scritto: “come in un Simposio spesso ciascuno di noi , chiarendo il proprio pensiero, ha anche gradatamente mutato opinione, nella condivisione del “pasto vampirico” con altri. e dunque mi piacerebbe che i nostri riepiloghi non fossero sintesi espressive del “nocciolo” del nostro pensiero, ma taccuini di viaggio di questo errare discorsivo che andava ad arricchirsi tappa per tappa”.
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Ancora meglio…
Aspetto i vostri contributi per email, dunque.:-)

Postato domenica, 25 aprile 2010 alle 23:47 da Massimo Maugeri


@ Gaetano. Ci starei molto attento con il discorso della “sofferenza artistica” come sofferenza simulata (per corrispondere allo stereotipo “artista”, suppongo). Torno a consigliare su questo tema che è in realtà il tema dell’Espropriazione ( e se vogliamo anche dell’alienazione marxiana) e della Peste Emozionale (cioè del conferire/trasferire libido a una Figura Leaderistica in quanto tale Impersonale) la lettura de “L’Assassinio di Cristo” di W.Reich, opera che indaga queste dinamiche in modo puntuale e con straordinaria corrispondenza con il vissuto da rock star. Il richiamo all’Isteria, mi suona poi davvero sinistro. Dovrebbe esser noto che la definizione di Isteria rimonta a Galeno, si è mantenuta per secoli, ed è stata espressione della segregazione medica della donna, e di un’idea sessista di donna “dominata dall’utero”. Le isteriche venivano “curate” con massaggi pelvici (casi fausti) o con docce gelate (casi infausti). I maschi sofferenti di ipocondria (che è la stessa cosa) non venivano affatto curati con la masturbazione o con la doccia gelata, in quanto non si riteneva che la sessualità avesse invece la minima influenza sulla sindrome della “sofferenza simulata” (che del resto, simulata o meno, è sindrome vissuta e sofferta davvero). L’ignoranza medica sull’utero ci ha afflitto per secoli. Si riteneva persino fino al XVII secolo, che l’utero avesse facoltà di movimento all’interno del corpo e potesse migrare fino alla gola ( visione antenata di Gola Profonda?).
Sull’atteggiamento ideologico di spregio per i pretesi “simulatori” ci andrei molto cauto. In questo campo, la vera svolta è stata rappresentata dal bellissimo poema di Burton (ricordato da Pezzini e da me) The Anatomy of Melancholy.

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 12:12 da Gianfranco Manfredi


Starei anche molto attento al cianciare sulla salute del corpo, in quest’epoca orridamente salutista che non a caso considera alla stregua di nuove streghe le adolescenti anoressiche, che di questa stessa epoca sono prodotto. Il giudicare il “disagio” come “leggerezza” si fanno guasti, soprattutto quando non si contempla L’Insostenibile Leggerezza dell’essere.

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 12:18 da Gianfranco Manfredi


Nel giudicare ecc.

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 12:18 da Gianfranco Manfredi


Consiglierei anche di rivedere “Il Disprezzo” di Godard. Quanto echeggia il Disprezzo, la Filosofia regredisce a Ideologia. E questa Ideologia è terribilmente sessista. L’artista schiacciato dal peso della Fama, diventa allora “femminuccia”. Complimenti davvero… se questa è buona salute…

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 12:22 da Gianfranco Manfredi


Quando echeggia ecc. … ma anche “quanto” andava bene, perché le infezioni ideologiche sono sempre “a dismisura”.

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 12:23 da Gianfranco Manfredi


@ Massimo. AVVICINANDOSI ALLA SINTESI. Ieri ho riletto i miei interventi per capire cosa avevo scritto qui in questo periodo (quasi due mesi vi rendete conto?) e se fosse sintetizzabile in un qualche “nocciolo” di pensiero oppure se ci fosse tra gli altri un momento particolarmente “acuto” da dover essere rimarcato. Ebbene, ho scoperto che i miei migliori interventi (a mio giudizio, ovviamente) sono inseparabili dagli altri (in particolare da quelli di De Martino e Pezzini, con i quali ho triangolato spesso e volentieri) e incomprensibili fuori da questa dinamica, cosa che è del resto caratteristica della struttura Simposio. Dunque che fare? Mi sa che ripiegherò circoscrivendo un tema che circoscritto è rimasto, cioè quello della Famiglia. Ho cominciato dal resoconto in breve di autentici casi vampirici , legati al contesto famigliare, nel New England. In seguito ho accennato al tema Famiglia di mostri/Mostruosità della Famiglia. Questi interventi sono rimasti abbastanza isolati dal contesto, perché (forse li ho mal posti?) sono stati poco raccolti. Sono rimasti nelle mie stesse riflessioni , aperti, come una sorta di segnale. E quindi ripeterò nella mia sintesi, questo segnale. Non so come si comporteranno gli altri, ma caro Massimo, ti chiedo: non sarebbe il caso se queste nostre sintesi fossero pubblicate qui, anche per funzionare da riferimento (non obbligato, certo) agli altri, piuttosto che esserti inviati in separata sede? Forse in queste sintesi potrebbe manifestarsi quel fuoco d’artificio finale che potrebbe essere festosa conclusione di questa bella esperienza di condivisione.

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 12:36 da Gianfranco Manfredi


E tornando al tema della leggerezza della sofferenza, consiglierei anche il “Far finta di essere sani” di Giorgio Gaber.

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 12:38 da Gianfranco Manfredi


“Nel dubbio mi compro una moto”. Rispetto all’epoca di Nietzsche qui stiamo in epoca di corpo-merce, o di Feticcio (per usare la definizione di Marx). Se non si intende il circuito delle merci come strumento di Spogliazione, non si viene a capo del problema. L’esplosione del Reality Show, cioè dell’identità presunta tra “rappresentato” e “autentico”, dovrebbe davvero condurci a riflessioni meno “leggere”. Tanto per ricollegarsi a una radice filosofica, ricordo il Discorso sulle Scienze e sulle Arti di Jean Jacques Rousseau che chiarisce il senso della sua critica dell’Apparenza. Rousseau, badate bene, non parla del gusto aristocratico dell’Apparire che i nuovi borghesi rivoluzionari o il Nascente Cittadino dovrebbero abbattere per tornare alla (pretesa) naturalità dei corpi. Parla di un meccanismo ben più sottile innescato non dal decadere dell’aristocrazia, ma proprio dell’emergere della “civilizzazione”. Per Rousseau, la civilizzazione Produce Apparenza. E’ la civilizzazione stessa a dissolvere il corpo in Fantasma (Imago). Anche la rivoluzione contro QUESTA civilizzazione si configura un secolo dopo come “Spettro che si aggira per l’Europa”. Fantasmi contro fantasmi. Morte del Corpo come simultanea Morte di Dio. Ma anche la Nostalgia del Corpo, in questo contesto, slitta in nostalgia di un Corpo Fantasma, che quando si incarna (si direbbe dall’horror contemporaneo) si configura come Corpo Putrescente, corpo dello Zombie.

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 12:55 da Gianfranco Manfredi


Nietzsche ripeterebbe il suo giudizio sarcastico sulla “salvezza dell’anima” (nel quale si riecheggia senza molta originalità il giudizio di Voltaire sulla religione come puro inganno dei preti) dopo un secolo e mezzo di psicanalisi?

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 13:00 da Gianfranco Manfredi


Rousseau contrappone all’apparenza la Trasparenza. La Trasparenza è reciproca . E’ accesso a quella “coscienza di specie” che l’essere Umano nel suo distacco dalla Condizione Animale ha smarrito. Ma richiamare l’urgenza della Coscienza di Specie, non è proposta di una nuova e necessaria Sintesi Sociale tra Corpo e Anima? Il mito del Buon Selvaggio non lo si può capire se non lo considera interno a questa prospettiva: Corpo non trasferito negli Strumenti (cioè nel corpo della tecnologia) ma in se e non soltanto come Individualità ma come Genere; Spirito non puramente “simulato” ma come comune ricerca di Senso. Ciò che viene proposto come “alternativo” è insomma un cammino di una Civilizzazione che non separi, ma ricomponga.

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 13:23 da Gianfranco Manfredi


Tutta la psicanalisi moderna e post-junghiana lavora per la Ricomposizione.

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 13:26 da Gianfranco Manfredi


Gaetano: “Avete notizie su eventuali iniziative relative al centenario della nascita di Jean Genet?”.
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La Médiathèque di Larache, con la cooperazione di altre associazioni marocchine e organismi internazionali ( fra i quali Mouvement International Poetas Del Mundo), ha organizzato dal 4 al 10 gennaio scorso 2010, il centenario della nascita dello scrittore. Ne hanno parlato la televisione e la radio nazionale, Radio Tangeri, Radio Tétouan, Cap Radio, la Map in francese e in arabo, oltre ai tanti giornalisti nazionali e internazionali.
Jean Genet morì di cancro al Jack’s Hotel (Parigi) nella notte del 15 aprile 1986 e fu sepolto secondo il suo volere, in Marocco, nel cimitero franco-spagnolo di Larache, un villaggio di pescatori a una ottantina di km da Tangeri. Il piccolo cimitero si trova vicino alla casa in cui lo scrittore “maledetto” abitava con il suo ultimo compagno ed erede Mohamed El Ketrani ( deceduto nel 1987, pochi mesi dopo la morte di Genet, a causa di un incidente stradale: era inconsolabile, aveva ripreso a bere – dicono nel negozio del barbiere che si trova vicino casa – e andò a schiantarsi con l’auto contro un muro – lasciando a suo figlio Ezzedine, che allora aveva 11 anni, i diritti letterari delle opere di Genet).
Dalla loro casa che affaccia a picco sull’Oceano Atlantico – un mare alto, grigio, già africano, che i berberi chiamano Taghart – potevano vedere levarsi il giorno su palme sbilenche in lontananza e le bianche tombe del cimitero franco-spagnolo, con le croci una dietro l’altra.
I marocchini chiamano Jean Genet “monsieur Genou”, o anche “Sidi Gini”, con un titolo che qui si dà ai santi marabutti. I musulmani, non solo i Palestinesi, amano molto Jean Genet, il cantore delle famose tre virtù ( “il furto, il tradimento, la sodomia”).
Durante il colloquio svoltosi a Larache , ho sentito alcuni intellettuali marocchini affermare che c’è stato un “complotto occidentale” ( da parte dell’Ambasciata di Francia?) per non far seppellire “monsieur Genou” nel cimitero islamico di Lalla Menana, ma nel cimitero cristiano, dove riposa, davanti alla sua casa, sotto un cumulo di terra circodato da un muretto in mattoni bianco di calce.
Non ha la croce, ma dal cumulo di terra che al tramonto diventa rossastra si leva una pietra appuntita con sopra inciso il suo nome. A differenza delle altre tombe del vecchio cimitero coloniale – dove fra marmi spaccati e croci mutilate riposano feldmarescialli, governatori, commercianti con signora ed altri “infedeli” – la tomba di “Monsieur Genou”, pardon “Sidi Gini”, è rivolta verso la Mecca.
Un bell’esempio non tanto di trasgressore quanto di contestatore, ahimè, “globale” e di rinnegato per “amore” dei cosiddetti “dannati della terra”, fino all’ultimo. Parlandone con l’amico fotografo e pittore Vittorio Pescatori ( durante una visita alla casa di Larache), abbiamo voluto ricordare Jean Genet con i seguenti versi: ” “la sete di Te mi dona sorsate di lampi sempre più brucianti… Tu mi hai guidato verso un amore dove non c’è dove, e mi hai deposto sulla riva delle ore”.

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 14:08 da Gianni De Martino


in questa Ricomposizione non c’è soltanto il superamento della schizofrenia del Jekill/Hyde. Elemento essenziale è il Femminile, da sempre e non a caso, collegato alla Terra, come tutto il nostro dialogo collettivo credo abbia mostrato. La demonizzazione della Donna è primaria in tutta quella Demonizzazione della Diversità che è al centro della stessa narrativa horror. Nel caso delle anoressiche questa Diversità demonizzata appare tanto più inquietante se ci considera che nel Medioevo al malattia veniva chiamata “Santa Anoressia”. Lo scarto tra santità e demonismo, nel mondo moderno, si è prima assottigliato, poi addirittura capovolto, al punto che si potrebbe legittimamente sostenere che il Sacro risulta oggi altrettanto scandaloso del Profano. Il tutto a vantaggio della celebrazione della pretesa “neutra” Tecnologia. non voglio ulteriormente insistere su elementi che oltretutto sono già stati ampiamente sviluppati in questa sede, ma per favore non pronunciamo più la parola “isteria” , parola che connota “diabolicamente” l’utero.

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 14:15 da Gianfranco Manfredi


@ Gianfranco
Quando il discorso diviene così vasto, e senza un accordo sul significato da attribuire ai termini usati, la confusione e gli equivoci sono inevitabili, e la dispersione in un groviglio di interpretazioni del pensiero dell’altro è in agguato. E il mio commento (mi sembrava ovvio, ma lo sottolineo a scanso di ulteriori equivoci) non era rivolto a nessuno in particolare.
Giungere a Galeno, al discorso sull’isteria, ecc. ecc., per una mia immagine metaforica relativa ad una finzione interiorizzata (sulla sofferenza da creazione artistica), nel senso che l’artista prova a mettere al mondo una sua creatura… mah… Decontestualizzare una parola, una frase – come anche nel tuo riferimento alla “salute” (dici: “… cianciare sulla salute…”), di cui nel brano di Nietzsche da me riportato – non ci conduce al dialogo (e poi quel discorso sul disprezzo, sul sessismo, sull’ideologia… perfino i sarcastici complimenti finali… mah-bis…).
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Ho letto l’illuminante “L’assassinio di Cristo” di Reich, di cui parli, e conosco il suo discorso sulla peste psichica, ho letto anche altri suoi libri vicini a tali temi, attualissimi e di grande importanza: “Ascolta piccolo uomo”, “Psicologia di massa del fascismo”, per esempio, ho seguito inoltre alcuni sviluppi del pensiero reichiano sfociati anche nella bioenergetica di Lowen. Purtroppo, come ben sai, Reich è stato “vampirizzato” (per tornare in tema…) dai “piccoli uomini” statunitensi…
Ma adesso, per mancanza di tempo e per non aver seguito assiduamente questa ricchissima discussione, non entro nel merito del tuo discorso.

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 14:42 da Subhaga Gaetano Failla


@ Gianni
Ho appena letto il tuo bellissimo brano su Genet. Grazie.

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 14:51 da Subhaga Gaetano Failla


Certo, Gaetano, hai perfettamente ragione. Polemizzavo non con te, ma con un certo uso della terminologia (anche da parte di grandi filosofi) che al tempo pare coerente, alla distanza infettato. D’altro canto sono pienamente d’accordo con te sul fatto che la New Age rappresenti una sorta di sventura, e le istanze olistiche lì avanzate una falsificante versione ideologica della Ricomposizione. Del resto una comune radice tua, mia e di Gianni, certe tracce da re Nudo e da l’Erba Voglio, credo sia più che sufficiente a dissipare gli equivoci. Basterebbe l’origine del lavoro di Fachinelli e di altri nella rivista “Il Corpo” a chiarire che il termine stesso Corpo appare in un’accezione assai più ampia del suo uso comune. quanto a Reich temo sia rimasto vampirizzato anche da se stesso, perché pervenire alla “macchina orgasmica” cioè alla Tecnologia come risolutiva della Peste emozionale, pare soluzione degna di un Profetico Inquietante quanto Pestifero, che difficilmente nel mondo globalizzato possiamo ricondurre a untori americani, essendo assunto filosofico che in Europa venne suggerito piuttosto esplicitamente dalla teoria di La Mettrie su L’Homme Machine. Qui il simposio “sfora” , hai ragione. Se però si rileggono i contributi a questa discussione letteraria di Pezzini, credo risulti evidente come questi temi siano tangenziali alla cosiddetta Letteratura Horror e dunque assai poco “fuori tema”. Ieri notte tra l’altro (per riferirmi alle giuste insofferenze qui manifestate da Simonetta) mi sono visto lo Special dedicato da Fantasy all’Award di Orvieto. Beh, questa preistorica riduzione dell’horror a innocuo carnevale inconsapevole di sé, è quanto di peggio si possa fare. Se l’horror è questo, allora è bene tenersene lontani. Per fortuna l’horror internazionale, anche quello cinematografico, oggi è ben lontano da poter essere ridotto a tanto squallore. E, cara Simonetta, quando si vedono film horror provenienti anche da cinematografie inesistenti sul piano del mercato, come, tanto per fare un esempio, il film Tears for Sale (Lacrime in svendita) del regista serbo Uros Stojanovic, possiamo solo riflettere amaramente sul fatto che in italia di Horror se ne produce poco, è vero, ma se quel poco che si produce è avvilente come “Giallo” o come altri prodottini sudditi del modello Bava-Argento degradato a pura insensatezza di racconto, allora ci scaviamo la tomba con le nostre stesse mani. O ci si pongono obiettivi alti, oppure meglio non aggiungere cacate a cacate , che la fogna è già strapiena.

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 15:59 da Gianfranco Manfredi


Bava, celebrato ieri sera su Sky anche da uno special, nel quale grandi registi e autori internazionali, tra i quali, Tim Burton, ne testimoniavano l’importanza e l’influenza, riteneva e diceva senza veli, che dal punto di vista narrativo, i suoi film erano cacate. Quella sostanza escrementizia però gli serviva, per una ricerca puramente estetica (fotografia, scenografia, movimenti di macchina, truke artigianali) che nel tempo si è fatta “codice”, una volta depurata da certe abitudini del tempo (lo zoom, ad esempio). Con ciò questa estetica si è capovolta da inconsueta a prevedibile. Perché l’horror italiano ritrovi la sua strada è a mio avviso urgente che si battano nuove strade e che la nostra tradizione cinematografica in particolare ritrovi quel gusto del narrare che ha purtroppo smarrito. Se si continua a considerare la sceneggiatura come meramente occasionale, e il “girare” come mero esercizio stilistico (quanto ormai, scolastico) , si gira, davvero, a vuoto.

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 16:14 da Gianfranco Manfredi


John Landis in quello Special sosteneva che Bava aveva la straordinaria capacità di mutare un’insalata di merda, in una gustosa e raffinata insalata di pollo. Oggi però c’è MacDonald che questa operazione di trasformazione la pratica sullo scenario mondiale. Lasciamo pure perdere la frastornante parola “artista”, consideriamoci pure dei “cuochi”. Ma salvaguardiamo almeno la differenza tra un cuoco degno del nome e il non-cuoco da Fast Food.

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 16:22 da Gianfranco Manfredi


Nella maggior parte dei casi, il Vampiro oggi è un bene di consumo.
Se la gente vuole il Vampiro – purchè non troppo mordace e politicamente corretto – perché non darglielo ?
L’ Editore ( seduto su poltroncina girevole, il pelo sulla pancia e un sorriso brillante come un getto di napalm) direbbe: purché paghino!
Non dovrei dirlo ( dandomi il piolo sui piedi) ma temo che qualsiasi cosa si compri, si finisce sempre con il pagarlo col sangue.
Il pianeta – come tutti apprendono in famiglia, specialmente a ora di cena, mentre dai muri di casa e dal televisore acceso in salotto gronda uno strano liquido – non è forse cosparso di sangue ? E dire che a Re nudo al Corpo e all’Erba voglio, credevamo che – scrivendo e gettando i nostri corpi nella lotta – avremmo messo fine alla guerra, all’ingiustizia e alla miseria; e l’Universo si sarebbe ricomposto, il mondo sarebbe diventato un posto di tranquillità mentale e fisica, insomma, se non proprio il Paradiso, un buon posto per vivere e far vivere.
Chissà chi ci aveva messo in testa ( e in testo) quelle strane idee… Forse Carlo Marx ( che, mi pare nei Grundisse, scrive che il mondo oltre la necessità è “simile a un racconto di fate”).
Mah! Forse Mondo beat, Fernanda Pivano, forse Topolino… Ma come farà Topolino ad asciugare tante lacrime dagli occhi che hanno pianto? Come mai, alla fine, nelle mani dello scrittore – mani che, a guardarle, sembrano i confini del mondo – come mai non sembra restare altro che un pugno di mosche – mosche che sembrano vampiri ? :-)
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P.S. Niente. Forse solo un piccolo “sfogo” da amarcord… una specie di, spero transitoria, curvatura di psiche. Forse dovrei cambiare vena…

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 17:08 da Gianni De Martino


Nella maggior parte dei casi, il Vampiro oggi è un bene di “largo” consumo.

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 17:10 da Gianni De Martino


E chi lo sa? Non è dopotutto un male in sé consumare e consumarsi, se in questo spendere e spendersi qualcosa fruttifica. Ma forse è il dolente espresso da tanta parte della nostra generazione (rock star auto-crocefisse incluse) a rendermi ogni tanto intemperante e a insistere su quanto c’è di Ideologico nel nostro narrare, nelle nostre stesse parole. I Wu Ming restarono piuttosto offesi quando reagii con inconsueta asprezza (lo ammetto) al fatto che nel loro cinquecentesco romanzo Q, facevano commentare a due anabattisti un “comizio” di Giovanni di Leida, a un dipresso così: “sarà matto, sarà trombone, però funziona.” La parola “funziona” in bocca a due uomini del cinquecento mi offese. Ti inalberi per così poco? Mi fecero osservare amici autori. Sì, lo ammetto, sarà poco. Ma per uno scrittore l’anacronismo delle parole non dovrebbe essere più delittuoso dell’ingenuo e casuale palo della luce sullo sfondo di una marcia di Legionari nei vecchi film peplum? Non c’è in questo attribuire al passato parole dell’oggi date per indiscusse (Funziona) una pericolosa dimostrazione del fatto che si considera il presente come dato, eterno e indiscutibile? Ma cosa diciamo, oggi, non nel 500, quando pronunciamo con mutuo compiacimento la parola “Funziona”? Se chi scrive non considera affatto la natura ideologica del vocabolario che usa, non rivela con ciò una cecità rispetto alle distorsioni del nostro tempo che peraltro si crede, ingenuamente, di contestare?

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 17:33 da Gianfranco Manfredi


Qualche commento fa, manfredi ha accennato a un tema che mi sta molto a cuore. e perdonerete se ne approfitterò per farmi un briciolino di pubblicità (ma solo in fondo al commento).
Il tema è quello della schizofrenia.
Da tanto, troppo tempo, si accosta la schizofrenia a uno dei suoi aspetti che NON è nemmeno lontanamente il più significativo, cioè lo sdoppiamento (o tirplicamento) della personalità. Si ha insomma l’idea dello schizofrenico come di qualcuno con personalità multipla o dissociata, un po’ alla dottor Jekyll e mister Hyde.
In realtà non è affatto così.
La schizofrenia è qualcosa di molto diverso, anche se cinema letteratura e mass media in genere continuano a presentarla in questo modo “spettacolare” e tutto sommato stimgatizzante.
La prossima settimana esce da Feltrinelli la riedizione (le prime con Editori Riuniti) di un libro scritto col mio amico psichiatra Peppe dell’Acqua (direttore del Dipartimento di salute di Trieste, a suo tempo amico e collaboratore di Franco Basaglia). Il saggio è giustamente a firma sua (e io figuro come “in collaborazione con”) perchè lui senza di me l’avrebbe comunque fatto e pubblicato, io senza di lui no.
Il titolo è “FUORI COME VA ?
Famiglie e persone con schizofrenia. Manuale per un uso ottimistico delle cure e dei servizi”
Nove mesi di lavoro per scriverlo e riscriverlo e cercare di renderlo il più possibile chiaro e leggibile a tutti.
E può essere utile anche a chi si occupa di narrativa, per entrare nella follia. Senza dimenticare che la pazzia (ah…una pagina del libro cerca di spiegare la differenza tra “matto, pazzo, folle e malato di mente”) può diventare una specie di vampiro dentro di noi.

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 17:40 da luciano / idefix


C’è in molti autori post-anni 80 , o almeno risuona in loro, qualcosa di estraneo alla nostra ricerca (parlo della generazione che si espresse nei 70), qualcosa di molto interessante e “nuovo”, quanto di perturbante. Una serena accettazione della merce con tutti i suoi correlati (abuso della propria immagine, riduzione dello scrittore a personaggio, strategie di marketing e/o di anti-marketing, bisogno ossessivo di autodefinizioni, evocazione di collettivi virtuali eccetera eccetera). Questa disinvoltura rispetto al mondo della comunicazione-merce, noi non ce l’avevamo, pur essendo stati una generazione di indubbi protagonisti della comunicazione (a partire dalla Musica). Prendiamo ad esempio la recente rivendicazione dei Pink Floyd che hanno intentato causa (vittoriosa) perchè i brani dei loro album non siano venduti e diffusi separatamente, in quanto l’album era in sè opera compiuta. Rivendicazione assai misteriosa agli occhi della generazione successiva. Rivendicazione che viene però dal dolore. E’ stato credo un dolore anche per Cobain, il fatto di vedere le sue canzoni confluire nelle PlayList, cioè in questa “notte in cui tutte le vacche sono nere”, perchè il significante non sono più il brano, i brani, né la trasparenza tra canzone e canzone (che era caratteristica così smagliante della musica dei sessanta e dei settanta), bensì l’essere, tutti i brani trasmessi, delle hit. Questa confusione , che era premessa del totale soggettivismo da Ipod (e New Age) per cui la sintesi, la compilation, è fatto soggettivo e in quanto tale “ingiudicabile”, suona a chi ha fatto musica in tutt’altro contesto, come rinnovamento di una ferita profonda inferta al Corpo e ai Sogni (ai Cristalli Sognanti) della propria generazione. Di conforto può esserci che le generazione che si affacciano oggi alla creazione musicale o letteraria, pare agire in tutt’altro modo da quello dei loro fratelli maggiori. Anzitutto per loro l’autonomia produttiva è fondamento da cui partire , non adeguamento, inoltre la comunicazione è a rete e in quanto tale sfuggente al dominio. Certo una Rete (com’è stato qui osservato) può anche imprigionare un vampiro, come una mosca, e consegnarlo indifeso al Ragno. Ma una rete costantemente in espansione è anche rete che tende per movimento centripeto a sfuggire al centro. Troppa strada dovrebbe fare il ragno per potersi alimentare dei margini, e troppo vasti sono ormai questi margini, per potersi riassumere in riferimento a un centro. Di questa nuova opportunità dovremmo fare un valore. Dopotutto non erano stati i nostri nonni anarchici a profetizzare che la Società Liberata sarebbe stata una società di Liberi Produttori Indipendenti e Cooperanti?

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 17:54 da Gianfranco Manfredi


“Grande confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente.”

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 17:59 da Gianfranco Manfredi


Ma voi ve lo figurate un comico ribelle degli anni 70, che si fosse messo a fare la pubblicità di una banca o di una compagnia telefonica? Questa allegra svendita della propria immagine merce affiancata ad altra merce, in mutuo scambio, che diavolo è? Ingannevole definirla “incoerenza”. E’ invece quanto di più coerente ci sia per chi accetta serenamente il proprio essere Merce. Ma in questo la Comunicazione si azzera. In questo il messaggio del medium è il medium stesso. Non è un medium attraverso cui parlano i fantasmi, e non è neppure un medium farlocco che finge l’eloquio del fantasma, ma è un ridicolo medium che andando in trance evoca se stesso, quel se stesso capovolto che è l’Io Merce. Dopodiché resta soltanto che i Messaggi dall’Aldilà siano inframezzati da spot.

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 18:08 da Gianfranco Manfredi


@ Luciano. A scanso equivoci. Non considero spot promozionale la tua informazione libraria di cui approfitterò senz’altro.

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 18:11 da Gianfranco Manfredi


La PlayList…
Un soggetto degno di un horror.
Perchè mi immagino il remake dell’ “Oscar insanguinato” (con Vincent Price…chi potrebbe sostituirlo?), in cui a vendicarsi è un musicista rock delle vecchie generazioni che aveva lavorato con cura maniacale a concept-album a 33 giri da ascoltare in religiosa sequenza dal primo pezzo della prima facciata fino all’ultimo della seconda facciata, e che a stento era sopravvissuto al passaggio al cd. Ma che ora vede le proprie canzoni vampirizzate, deconstestualizzate e gettate nelle famigerate Playlist in pasto a pubblici decerebrati.
Non gli resta che vendicarsi orrendamente (e grottescamente) di critici/discografici/produttori/eccetera inventando per le sue vittime dei conrappassi danteschi.

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 18:13 da luciano / idefix


D’altro canto, il fatto stesso che abbia sentito il bisogno di “scusarti” testimonia di questo nostro pudore generazionale che pare non aver scalfito nelle sue convinzioni a-critiche la generazione immediatamente successiva.

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 18:13 da Gianfranco Manfredi


@ A Luciano, di nuovo. Dopo le Playlist e dalle Playlist e Compilation varie, è sorta poi la figura del Dee-Jay autore in quanto compilatore. Perché è sorta questa figura? Perché la trasparenza tra i brani, richiede un interprete esterno. I singoli non sono soddisfatti dalle proprie singole compilation. Solo un compilatore esterno può liberarli dal solipsismo dell’ascolto Privato quanto De-Privato di senso. Questo significa che ogni pretesa rivendicazione del Sé, evoca per forza di cose l’Altro. Questo significa anche che il vero Noi, lo scopriamo Fuori di Noi. O come dicevano ( mi ripeto) gli Indiani Lakota: “Per trovare te stesso devi camminare coi mocassini di un altro.”

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 18:20 da Gianfranco Manfredi


Fuori come va? E’ un bellissimo titolo.

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 18:25 da Gianfranco Manfredi


Sarà superfluo, ma voglio lo stesso aggiungere che non ce l’ho con i Wu Ming in quanto tali, anzi conoscerli personalmente è stata una bella esperienza (anche se continuo a confonderli uno con l’altro, ma la cosa non credo gli dispiaccia). Di recente ho anche letto in rete una bellissima recensione di Wu Ming 1 al romanzo “Le Benevole” di Littell. Spesso parlando di altri troviamo quella lucidità critica che ci è naturalmente e innaturalmente difficile trovare quando ci “auto-definiamo”.

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 18:44 da Gianfranco Manfredi


E riguardo al New Italian Epic, trovo più significativo, nel bene e nel male, il New Italian Cepu, e cioè l’enorme massa di scrittori prodotti dalle Scuole di Scrittura, fenomeno assai più definito di una Categoria Estetica, eppure piuttosto indefinibile nei suoi contorni.

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 18:52 da Gianfranco Manfredi


Fuori come va? Come sempre. Non si sa ma si va in un gran disordine chiaro e l’attesa – non sempre inerte – dell’ultimo mattino.
“Ora so quando sarà l’ultimo mattino – quando la luce non mette più in fuga la notte e l’amore/ quando eterno sarà il sonno e un solo sogno inesauribile”.( Così, un po’ istericamente, scrive Novalis – in “Inni alla notte” IV, Milano, Garzanti, trad. di Giovanna Bemporad, p.21 ).

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In effetti, nello scrittore o il poeta a cantare è la Donna, il Femminile. Chissà perché, la Donna nel cantare sembra sempre un po’ fuori di testa, o di melone.
“Tu non sai quello che dici” è la nota e antica ingiunzione che la censura fa al desiderio ma la Terra, là fuori e anche nei vampiri, canta notte e giorno. Canta forse per risorgere in un “cuore” – come dicono le poetesse che notoriamente per essere tali hanno bisogno di un cuore d’acciaio – e ri-congiungersi al suo cielo?
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P.S. Mefistofele: “Tu non sai quello che dici. Mentre l”Io – come osservava il tuo amico Fachinelli – lavora inconsciamente al servizio della propria morte’, vorresti scrivere che c’è una Terra che non sa di domande e di risposte, di bevanda e di cibo, di sterco e di morte.
Una dolce Terra che mai sarà invasa da mosche, da nuovi Titani e da vampiri, assomiglia un po’ al sogno di Leopardi: il sogno di un naufragio, anche collettivo, se non generazionale, che sia perlomeno ‘dolce’.
Lo dici in una specie di dormiveglia pomeridiano, nell’attesa della mamma: la sovrana maternità della Morte o forse solo l’infermiera che, a intervalli, viene a cambiarti vena e flebo.
Ha un nome bellissimo, l’infermiera: si chiama Marianeve ed è, come te, del Sud. Per fortuna, dopo il secondo infarto, c’è stata una necessaria Ricomposizione di alcune vene prelevate dalla gamba. Sei stato salvato per un pelo, preso per i pochi capelli che ti restano sul cocuzzolo. Puoi dirti davvero fortunato.
Nel ricomporti, ora sembri – più che un caso clinico- un ‘interessante’ quadro di Picasso preso nella Rete.
Gianni ( ti chiami così, non è vero ? – non dirmi che il tuo nome non è che uno spillo all’angolo dell’occhio), tu non sai quello che dici nell’estasi del bianco e via di qua, sempre via di qua”.
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P.P.S.
Help! Ma quando mai ho aperto quella porta per fare entrare questo stronzo di Mefisto, reduce dal Cepu e travestito da scrittore sperimentale & d’avanguardia. C’è qualche esorcista in Rete? :-)

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 19:44 da Gianni De Martino


@ Gianfranco: l’ho visto anch’io lo special sul FHA di Orvieto e non m’è piaciuto granché ma si sa che bisogna far scena in tv, ed ecco che tutto si riduce a una carnevalata. Ed ecco pure che la gente non prende l’horror pe rquello che è, o potrebbe essere, ma a sua volta lo considera un genere di serie B. S’è parlato solo di cinema, come era ovvio visto le celebrità hollywoodiane presenti; di letteratura zero… Nessuna ripresa alla vostra tavola rotonda, nessun flash sullal tua premiazione, nessun accenno al fatto che esiste una letteratura.
Lo so, hai ragione, la fogna è già piena. Ma spiegami perché le fetenzie trovano sempre un modo per andare avanti e le buone idee no. Che forse le fetenzie sono direttamente proporzionali alle conoscenze che contano?

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 20:08 da Simonetta Santamaria


Detesto le playlist: anch’io concordo sul fatto che che i brani concepiti per un album abbiano un senso comune che dev’essere apprezzato con l’ascolto totale. Ascoltare un aplaylist è come leggere alla rinfusa i capitoli di una decina di libri.
L’unica che mi concedo è quella che scolto quando giro in moto, rigorosamente vecchio hard rock e qualcosa di meta, nessuna contaminazione commercialel… Una sferzata di energia che dà tutto un altro senso alla giornata ;)

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 20:17 da Simonetta Santamaria


Rassicurati Simonetta. Conoscendo bene i meccanismi televisivi avevo previsto la mia ( e non solo mia) esclusione, come avevo previsto che agli inclusi (incluso Balaguerò) sarebbe stato lasciato spazio solo per dire ovvietà. Non è questione di “conoscenze”, ma del fatto che il meccanismo non prevede “conoscenza” alcuna. Dunque ho guardato lo Special temendo il contrario e cioè di finirvi incluso, questa sì che sarebbe stata la spiacevolissima sorpresa. Non la voglio l’inclusione. L’intera mia generazione (parlo di quella espressiva) ha sperato di poter attraversare la merce, senza restarne infettata. L’Utopia era probabilmente tanto candida quanto puerile e ha lasciato molti morti sul campo. Per questo leggere di “artisti che soffrono d’una malattia di cartapesta” lo sento come insultante. La malattia di cartapesta è quella dell’artista che si considera realizzato perché è stato pienamente adottato dal meccanismo, perché lui stesso fin da bambino aspirava a questa adozione, a divenire “parte del meccanismo”. Quando Gaber (che era molto vicino agli ambienti milanesi di Re Nudo e dell’Erba Voglio) cantava “anch’io son dentro/ nell’ingranaggio” cantava dolore, non soddisfazione.

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 20:51 da Gianfranco Manfredi


Concordo con quanto detto sulle playlist,gli album di molti gruppi musicali sono spesso come dei romanzi,in cui ogni brano è un capitolo o un aspetto diverso della storia.Da un punto di vista narrativo le playlist assomigliano a quelle antologie scalcinate,in cui editori scellerati mettono insieme racconti che a livello tematico e stilistico non c’entrano niente.

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 20:58 da Francesco Moretta


In California, alla fine dell’illusione di poter transitare indenni nell’ingranaggio magari (e perchè no) trovandosi anche dei vantaggi (La grande truffa del rock’n'roll) , alcuni ex-hippies si sono consapevolmente proposti di inventare un altro ingranaggio. Questo nuovo ingranaggio, ancora tutto da inventare e da sviluppare, è Internet. Sarà questa l’ulteriore speranza sconfitta? I hope not. Ma dipende anche da noi. Yes we can. Il problema è che il passaggio dal regno delle possibilità a quello del realizzato non è di per sè automatico. Questo passaggio non può far parte dell’ingranaggio.

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 20:59 da Gianfranco Manfredi


@ Gianni. Molto toccante il tuo dialogo con Mefistofele. Be’ se è il momento delle confessioni personali, in tema di Ricomposizione avevo cantato un tempo: “la ricomposizione si sogna, ma non c’è/ Ciascuno nel suo sacco o
nudo tra il letame/ solo come un pulcino, bagnato come un cane” (Un Tranquillo Festival Pop di Paura).

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 21:23 da Gianfranco Manfredi


@ Gianfranco. La riflessione sulla Famiglia nell’horror da te avviata – e che solo incidentalmente non ha trovato seguito, perché incalzata subito da altri temi – è importantissima. In qualche modo un po’ tutto l’horror è una lunga provocazione su quel tessuto che ci costituisce nella fase “originale” della nostra vita – a partire dai capisaldi del genere. Saranno davvero benvenute tue ulteriori riflessioni in materia.
Le frequenti lamentazioni sulla crisi della famiglia spesso tradiscono il non aver capito quanto invece emerge da queste spiazzanti narrazioni esemplari. Storie che per esempio rivelano come dinamiche vampiresche in famiglia non siano poi così rare (“Carmilla”, o – splendido – “Lo zio Silas”, il cui protagonista è uno dei vampiri più spaventosi della letteratura) forgiando vere e proprie catene generazionali d’infelicità.

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 22:52 da Franco Pezzini


@ Gianfranco. Davvero ESpressivi i versi di un Tranquillo Festival Pop di Paura. Si vede che, come diceva qualcuno, «l’inconscio di una persona può reagire all’inconscio di un’altra persona». E che l’inconscio – grazie alla Rete – ormai affiora ovunque e fin nell’infosfera. Un tipico caso di ES-o-Es, come avrebbe detto il buon Giuliano Gramigna ( magari facendo la mossa del cavallo).
Anche san Giobbe viene raffigurato su un mucchio di letame – con accanto tanti vermicelli e lo sguardo – un po’ strabico – rivolto verso l’alto. Be’ occorre molta pazienza con il Boss, ma non credo sia il caso, qui o altrove, di cadere in ginocchio di botto e confessare chissà che, come quegli appestati che si vedono negli antichi quadri.
Quando mai quella peste rappresentata dagli antichi quadri e le vecchie lettere, ha salvato qualcuno dalla lebbra post-moderna, post-mortem e post-tutto ?
Quanto al cane ( scodinzolante animale ctonico), mi pare di ricordare che nel finale di Sotto il Vulcano di Malcolm Lowry, qualcuno gli scaglia dietro un cane morto, nel burrone.( Mi pare fosse dalle parti del Popocatepètl, dovrei verificare tirando fuori dallo scaffale e la polvere dello scaffale quella vecchia edizione Feltrinelli, collezione Vintage…).
Non so se è per via dei sonniferi, ma quello che volevo dire è che anche il più pimpante e intelligente tra i vampiri è come un povero scemo di fronte alla morte.
Si vede che i vampiri sono creature un po’ fragili: specchi che riflettono altri specchi.
Niente confessioni personali, per carità: solo una tipica, piccola cornice di spavento. Piccola e quasi insignificante come un pulcino. Solo un canto, un sogno, forse… Se non fosse per quella sinistra sensazione di bagnato.
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P.S. Se fossimo in un romanzo, forse m’inventerei qualcosa per far sentire al lettore l’ululato dei cani – naturalmente dopo che i cani bagnati e coperti di nebbia sono scomparsi. Scomparsi insieme a un mondo, con quel loro tipico gemito animale e quasi canino.
“Chissà perché – mi diceva tempo fa un amico che fa il becchino part-time, e ha tra l’altro, con gli amici, un gruppo Rock – chissà perché vi sono dei morti che somigliano a bestie e altri solo alla morte”. Cosa rispondergli? Ho fatto mmm, poi – facendo una battuta stupida e piuttosto risaputa: ” Dài, adesso mangia, altrimenti si coagula”. :-)

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 23:10 da Gianni De Martino


Vampiri e famiglia, altro tema su cui potremmo discutere e scavare (termine più adatto non mi viene in mente!) per intere settimane… Il vampirismo è basato sullo scambio di sangue e la consanguineità aggiunge un pizzico di proibito alla pratica vampirica, fino a sfiorare il tema dell’incesto. Prendiamo come esempio illuminante proprio La famille du Vurdalak di Alexej Tolstoj, da cui sono stati tratti l’episodio con Karloff de I Tre Volti della Paura di Bava, La Notte dei Diavoli di Giorgio Ferroni e perfino un dimenticabile Immortal Ecstasy, di cui il sottoscritto è colpevole della versione italiana per il mercato home-video: il primo richiamo di sangue del vampiro è costituito da coloro che in vita gli sono stati più vicini, coniugi, figli, genitori, fratelli. Il legame, in questo modo, si rinsalda come nell’ambito delle comunità chiuse, dove i matrimoni misti sono visti con diffidenza o addirittura proibiti; e in qualche caso sorge il problema di mantenere viva (non-morta) la stirpe, come nel bello e dimenticato La Saga de los Dracula di Leon Klimovski (se qualcuno ha una copia in qualunque formato con colonna audio italiana, sono pronto a pagare un prezzo ragguardevole…)
E come dimenticare il rapporto tra il Barone Meinster e la Baronessa madre ne Le spose di Dracula di Fisher, vero e proprio apologo che riporta la nostra attenzione sul fatto che anche la famiglia cosiddetta “normale” spesso vampirizza i propri componenti, soffocandone ogni velleità libertario-trasgressiva in nome di unità, tradizione e perbenismo?

Postato lunedì, 26 aprile 2010 alle 23:55 da Paolo De Crescenzo


1) Gianfranco: il titolo “Fuori come va?” piaceva moltissimo sia a Peppe Dell’Acqua che a me. Fuori di testa…fuori dal manicomio…fuori schema…eccetera.
Abbastanza ovviamente l’avevamo copiato (let-te-ral-men-te copiato) dal titolo del disco di Ligabue. E così gli abbiamo scritto per domandargli se potevamo.
Sì.
E dunque abbiamo potuto mettere in copertina un titolo così canzante al contenuto, come un mocassino fatto su misura.
2) Sono d’accordissimo quando dicevate che “il vero noi lo scopriamo solo fuori di noi”. Ecco allora il fascino immenso delle storie, dei personaggi, della musica, dell’amore: diventiamo anche altri pur restando noi ed esaltiamo noi proprio diventando anche altri. (Tralascio tutta la parte di fede. Anche se, essendo un credente valdese, potrei farvi dei sermoni niente male)
Così come la nostra VERA identità è scoprire che noi non siamo monoliti totalitari bensì siamo fatti da tantissime sub-identità che tra di loro vivono in sostanziale armonia (a volte conflittuale), un po’ come in una democrazia parlamentare.
Ecco allora (per venire alle PlayList o alle antologie fatte bene) che può essere utile interessante e creativo percorrere i sentieri tracciati da altre e imbattersi in passaggi segreti che nemmeno sospettavamo e trovare stanze ignote e scoprire luoghi ignoti e vedre finalmente nel loro giusto contesto “oggettti” che avevamo visto nella collocazione sbagliata. E tutto ciò grazie all’occhio di altri.
In questo “uscire da noi”, c’è però un rischio, grande e grosso. Quello di delegare completamente ad altri la scoperta di noi, illudendoci che la continua e inesauribile esplorazione-costruzione del NOI possa venirci data chiavi in mano da altri (disc-jockey o guru, policastro o spacciatore o chicchessia).
in sintesi: uscire da noi ma senza farsi vampirizzare nè vampirizzando.
Insomma: nel mondo non voglio essere la vittima dei vari Dracula ma nemmeno fare il Vampiro di nessuno.

Postato martedì, 27 aprile 2010 alle 11:52 da luciano / idefix


Nella trilogia “I diari della famiglia Dracula” della Kalogridis c’è tutta la famiglia di Vlad (quello vampiro, non il vero Vlad III di Valacchia) che si narra in prima persona. Si avverte in personaggi come Zsuzsanna Tsepesh, nipote del famigerato, tutta la fierezza e nel contempo la sofferenza per l’appartenenza a quella stirpe. Un po’ come acade nelle famiglie “normali”. Siamo fieridel nome che portiamo ma c’è spesso qualcosa che vorremmo cambiare, qualcosa da cancellare, da dimenticare. E noi genitori lavoriamo sui nostri figli per aggiustare il tiro, e i nostri figli faranno lo stesso con il nostro operato. Nel bene e nel male.

Postato martedì, 27 aprile 2010 alle 17:17 da Simonetta Santamaria


Oggi ho saltato il turno perché ero in viaggio, ma vi ho pensato lo stesso. E’ sempre un piacere tornare a casa e ricollegarsi trovando nuovi contributi. Luciano mi ha un po’ inquietato a dire il vero, perché mai avevo associato il mio io multiplo interiore a un’assemblea parlamentare e la metafora mi turba, stanti le condizioni attuali del parlamento. Le due camere poi , possono corrispondere agli emisferi cerebrali? Non mi pare… nel cervello i compiti sono insieme più distinti e più condivisi. Già mi sgomentava la nota tiritera che paragona il corpo sociale al corpo umano gerarchizzato , per cui ne risulta che in fondo un mignolo (del piede) è sacrificabile… l’idea della psiche parlamentarizzata è un incubo… anche se dire “vivono in sostanziale armonia un po’ come in una democrazia parlamentare” è una graziosa utopia che sarebbe bello vedere realizzata, a meno che non si tratti di super-inciucio tra malandrini. Insomma l’interiorizzazione del parlamento mi atterrisce. In questo caso il Parlamento più se ne sta fuori, ma fuori-fuori-fuori, meglio è. eh eh eh.

Postato martedì, 27 aprile 2010 alle 19:22 da Gianfranco Manfredi


Io mi riferivo sempre, e so che può sembrare oscuro o bizzarro, alla mentalità dei lakota che alla domanda filosofica eterna: esiste il mondo esterno? rispondevano : sì e noi siamo là fuori. E’ una concezione tipica delle popolazioni nomadi, dove tanto l’idea dell’individuo quanto quella della società sono legate al viaggio. Ci viaggia (e chi narra) è sempre dislocato, è sempre fuori. Non è un “fuori” frutto di scelta, ma di condizione. Di fatto noi siamo fuori, anche quando ci imprigioniamo in una piccola idea di noi stessi. Sarebbe ovviamente l’ennesima idea da sinistra suicida proporre come progetto politico “viviamo tutti come gli zingari” (per quanto sia proposta spesso avanzata dalla società degli artisti, tanto migranti per natura, quanto tappati in casa per lavoro), dunque lungi da me proporre il modello di vita indiano anche perchè a noi la tenda ricorda il campeggio che avrà anche i suoi amatori, ma personalmente giudico esperienza allucinante. D’altro canto se persino i narratori chiudono ogni finestra al mondo e esprimono un interiore sovente di desolante povertà, dove non si ha nemmeno l’impressione di veder visualizzato un parlamento, ma si visualizza solo un topo in trappola, malato di melanconia, eppure tutto fiero di vivere in un ambiente spazioso (perchè vuoto di pensieri) allora c’è da chiedersi se valga davvero la pena scrivere, perchè di pena si tratta e nient’altro. Da soli non possiamo neanche invitare una tipa a ballare! Per dire… lo so che ormai solo i vampiri usano la cortesia di chiedere prima di approfittare…

Postato martedì, 27 aprile 2010 alle 19:36 da Gianfranco Manfredi


Mi è spuntato un ricordo d’infanzia… quando la Tv era un mobile assurdo sul magico vetro del quale vedevano spuntare ombre che camminavano, fantasmi in grigio dai contorni sfumati… il ricordo di Henry Salvador che canta di una donna seducente e misteriosa, oggetto e soggetto di infinite fantasie… del suo sogno (di Salvador) di entrare nella sua mente e di esplorarla… sogno che si realizzava e così il protagonista della canzone si ritrovava in un acquario vuoto. C’era ovviamente più di una punta di anti-femminismo (e vabbè) però la canzone potrebbe applicarsi benissimo al nostro esplorare fantastico… al nostro interrogarci sui marziano, tanto per dirne una, votando nel nostro forum interiore quanto esteriorizzato se siano buoni o cattivi, superiori e generosi di insegnamenti preziosi oppure superiori in quanto dominatori e sterminatori (come noi, del resto) … il tutto forse anche per respingere l’idea che potremmo essere soli nell’universo e questa sarebbe certo la scoperta più spiacevole, com’è stato spiacevole scoprire che Babbo Natale non esiste.

Postato martedì, 27 aprile 2010 alle 19:46 da Gianfranco Manfredi


Non vi dico le risate quando ascoltai “extraterrestre portami via…” di Finardi! Forse per la prima volta in vita mia , mi sono sentito manzoniano: “Fuori sì, ma con juicio”!

Postato martedì, 27 aprile 2010 alle 19:49 da Gianfranco Manfredi


“Extraterrestre vattene via/ scusami tanto, ma ho già i cazzi mia…”

Postato martedì, 27 aprile 2010 alle 19:56 da Gianfranco Manfredi


“Spiegami solo, volpe d’un marziano/ perché mi lasci ’sti cerchi nel grano?”

Postato martedì, 27 aprile 2010 alle 20:06 da Gianfranco Manfredi


Scusate l’assenza.
Sono stato off line per qualche piccolo problemino di salute (nulla di grave).
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@ Gianfranco:
A me va benissimo se in contributi per “letteratitudine, il libro” li inserite qui (nell’ambito della discussione).
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@ Gianfranco e Gaetano
Tutto a posto, boys? Domani viscrivo privatamente…
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Buona prosecuzione, miei vampirici.

Postato martedì, 27 aprile 2010 alle 21:55 da Massimo Maugeri


Ritorno come un vero non morto dopo settimane (ma forse devo prendere atto di essere solo un non-vivo come tanti) per dare un saluto.
Mi ha fatto ridere l’ultimo post di Manfredi.
Ne approfitto per citare (se già non è stato fatto, ma proprio non me la sono sentita di leggere le decine e decine di post precedenti) Carlos Castaneda e il suo Don Juan. Non ricordo in quale libro in particolare, però rammento che anche lui, il vecchio brujo (stregone) tra un morso di pejote, un sogno lucido e un tentativo di “fermare il mondo”, parlava al suo disgraziato allievo di malvage creature della notte ingorde di sangue. E si era – se ricordo bene – dalle parti del deserto di Sonora, non sui Carpazi. Verrebbe dire che pure i vampiri gens una sunt …

Postato martedì, 27 aprile 2010 alle 22:26 da claudio vergnani


@ Claudio
A proposito di non-morti: chi non-muore, si ri-vede ;-)

Postato martedì, 27 aprile 2010 alle 22:31 da Massimo Maugeri


Felice di rileggerti, Massimo. Stavano parlando di DENTRO e di FUORI. E , mah… m’è uscita questa, non so neanche se è brutta o se è bella, comunque…

Quando entro in un ufficio e mi accoglie un saluto di circostanza
quando torno a casa e non trovo nessuno
quando telefono a un amico e “scusa ma adesso non posso”
quando mi fanno un’improvvisata ed è sempre al momento sbagliato
quando passano delle donne bellissime e neanche le vedo
allora io sono dentro

Ma quando arrivo in un posto e sono tutti felici di vedermi
quando torno a casa e i miei mi sorridono
quando telefono a un amico e lui risponde: CIAAAO!
quando bussa alla porta l’imprevisto e dico: non sai quanto ti ho aspettato!
quando non so più dove guardare da quanta bellezza vedo
allora io sono fuori

Postato martedì, 27 aprile 2010 alle 22:57 da Gianfranco Manfredi


È bella, Gianfranco.
Auguro a te, a me e a tutti gli amici di Letteratitudine di essere sempre… fuori. ;)

Postato martedì, 27 aprile 2010 alle 23:17 da Massimo Maugeri


Gianfranco, ancora rido io, pensando a un tuo “Adelante pure, Finardi ma con juicio”
Anche perchè chissà mai com’era, ’sto extraterrestre che voleva portarci via.
Mah…
Tornando invece all’identità e al fatto di averti turbato con la mia metafora del “parlamento”, dico due cose:
la prima è che tutto sommato sono fiero di aver scosso uno scrittore esperto di horror e di brividi, uno che in tanti anni ne ha trasmessi non pochi a me. Da “Magia rossa”, direi.
La seconda è che dipende dal linguaggio: io ne ho usato uno “legalistico”, mentre tu (pur dicendo alla fin fine una cosa molto simile) impieghi delle metafore più ricche e poetiche, vicine al mondo degli indiani e non a quello dei deputati (di quelli attuali poi…).
Il concetto fondamentale però è (a mio avviso) è, in quest’epoca di pseudo-identità monolitiche e rigide, respingere l’idea malsana e pericolosa dell’IDENTITA’ come di qualcosa di fisso e definito una volta per tutte, magari acquisito con la nascita e con il “sangue” materno e paterno, con il sacro suolo della patria, con le immutabili radici della Nazione e con tutte queste matrici criminogene.
Nell’accezione mia (parlamentare) o tua (multiplo interiore), l’identità di chiunque di noi è un qualcosa di fluido, di molteplice, un composto di tantissime sotto-identità. Che a volte entrano in contrasto le une con le altre perchè sono portatrici di interesi e visioni del mondo diverse.
Io ad esempio sono (ma è solo un breve elenco di TUTTE le mie sub-identità):
dipendente della Provincia di Trieste,
iscritto alla CGIL,
valdese,
iscritto alla Consulta laica,
scrittore per ragazzi,
appassionato di horror,
padre di mia figlia,
figlio dei miei genitori,
marito di mia moglie Tatjana,
ex-marito della mia prima moglie,
amico di molte persone tra loro diverse (e tra loro non tutte si apprezzano),
rockettaro,
vegetariano,
tifoso del Torino club,
con problemi di emicrania,
colesterolo alto,
goloso di formaggi,
amante di gatti e cani,
molto interessato alle donne,
monogamo…
Già da questo elenco è evidente che alcune di queste sub-identità possono cozzare.
Una persona complessivamente “equilibrata” è quella in cui le sub-identità convivono abbastanza bene.
Il dramma è quando in una persona una sub-identità prende (come in un golpe) il sopravvento sulle altre. Ad esempio nei teppisti del calcio, in cui la sub-identità dell’ultra arriva da sola al “governo” della “ex-democrazia parlamentare”

Postato martedì, 27 aprile 2010 alle 23:23 da luciano / idefix


Il testo di prima potresti metterlo in musica, in un bel rock frizzante.

Postato martedì, 27 aprile 2010 alle 23:25 da luciano / idefix


Bell’intervento, Luciano, siamo tutti multipli, a partire da quelli che credono insieme alla reincarnazione e alla psicosomatica, che non so come possano collimare, ma è un fatto di sintesi soggettive. Quanto al chissà com’era sto extraterrestre? Beh, quello dell’epoca lo aveva fatto Rambaldi e sembrava un incrocio tra Giulietta Masina e Tina Pica, però si spacciava per bambino; per chiamare il suo pianeta usava il telefono dunque non doveva essere esattamente un genio; in compenso faceva volare le biciclette che notoriamente servono per questo; e ci conduceva al ricevimento dei suoi parenti filiformi che non si distinguevano gli uomini dalle donne e non si capiva neanche chi li avesse disegnati con quelle teste a lampadina, gli occhi a oliva e pure sporgenti, il naso così sottile che sembrava il residuato di infinite operazioni plastiche, e che si beava al suono di sole cinque note quando ce ne sono sette, anzi dodici , ma si vede che i marziani non conoscono ancora la dodecafonia (il che faceva parte di un altro film , ma il regista era lo stesso). Adesso dimmi tu, Luciano…ma io a uno del genere chiedo di portarmi via?

Postato mercoledì, 28 aprile 2010 alle 02:37 da Gianfranco Manfredi


Se dall’astronave fosse apparsa Vampirella del Pianeta Drakulon confesso che un pensierino ce l’avrei fatto.

Postato mercoledì, 28 aprile 2010 alle 02:56 da Gianfranco Manfredi


Che domande…
ET può essere un extraterrestre a misura di bambini (e infatti se lo sciroppa un gruppo di pre-adolescenti), così come gli alieni di “Incontri ravvicinati” erano per adulti con problemi di maturazione relazionale (ricordi gli infantilismi di ritorno di Richard Dreyfuss e di lei…non rammento l’attrice?). Roba da dovergli far da baby-sitter vita natural durante.
Mentre Vampirella (ariecco li vampiri che rispunteno com’ a gramigna) è carnale come un sogno a occhi aperti fatto da post-adolescenti di ogni età. Una fantasticata scappatella intergalattica ce la si può concedere. (Come con Druuna)
E a quel punto, nell’astronave dove viaggiamo con una di queste donne, tra i tanti altri passeggeri ci può stare pure il piccolo ET, assieme a cui guardare qualche cartone animato di Tom & Jerry o giocando a Rubamazzetto o Minigolf (la nave spaziale è attrezzata anche per questo) e perfino gli alieni del Terzo Tipo che ci farebbero qualche lezione assai dotta sul senso dell’Universo e su come (nel pianeta Cirikanus 14°) venne risolto il problema della convivenza tra cirikauny e grolpanoudi.
Per finire: a me Avatar non è piaciuto tanto (tutte idee riciclate qua e là e gli effetti speciali a furia di esserci non sono più “speciali” ma noiosissimi) ma almeno preservava l’elemento erotico degli alieni (presente in tanta fantascienza e horror di valore). Mentre i vari Et, Incontri ravvicinati e mille altri film rimuovono del tutto questo aspetto. Che (ne do atto pur non essendo un vampirofilo) nel genere vampiresco esiste ed è spesso cruciale.

Postato mercoledì, 28 aprile 2010 alle 09:31 da luciano / idefix


Vigono due pesi e due misure. la Meyer propone un vampiro-bravo ragazzo e sono strali da parte degli appassionati di vampiri, Spielberg propose un alieno neo-orsacchiotto, un tenero Gabibbo dello Spazio, e furono celebrazioni universali. Per fortuna ci ha pensato Tim Burton a rimettere le cose a posto: se gli alieni sono ragazzini, allora tanto vale che siano terribilmente dispettosi, mentitori abituali, dotati di micidiali armi giocattolo e insofferenti alla musica country.

Postato mercoledì, 28 aprile 2010 alle 12:55 da Gianfranco Manfredi


Beh, allora c’è da sperare che spunti fuori un Burton e rimetta ordine anche a questa situazione. In netta opposizione con i vampiri buonisti della Meyer,mi sovviene un racconto a fumetti intitolato “Morto!”.In quel racconto il vampiro è un punk marcio e lurido,(talmente marcio,che lo sono pure i suoi denti)che si aggirà per i bassifondi di una città interagendo con vari esempi di umanità.La cosa divertente è che questo vampiro ,in quanto punk (uno dei primi punk,quelli rabbiosi e luridi dei seventies) si trova ad essere doppiamente stigmatizzato;perchè essere un punk vero nella plasticosa società attuale lo rende perfino più escluso del fatto di essere un vampiro.

Postato mercoledì, 28 aprile 2010 alle 13:09 da Francesco Moretta


Io sono lontanissimo dal maoismo e aborro i totalitarismi (sono un liberale di sinistra vicino a Giustizia e Libertà e fin da quand’ero adolescente nel 1968 i miei eroi civili erano Martin Luther King e Bob Kennedy).
Però il Libretto rosso di Mao aveva degli aforismi niente male.
Come questo (che potrebbe adattarsi all’horror): “Non conta che un gatto sia bianco, nero o grigio. L’importante è che prenda i topi”
E dunque (trasferendolo alla narrativa e al cinema dell’orrore e del fantastico): “Non conta che una storia sia splatter o senza sangue, erotica o casta, lugubre o comida, lunga o corta, veloce o lenta, tenera o crudele, per bambini o per adulti. L’importante è che ti faccia voltar pagina dopo pagina”

Postato mercoledì, 28 aprile 2010 alle 13:16 da luciano / idefix


Freud non aveva tutti i torti: facciamo dei lapsus che pare averceli dettati lui.
Come quello che m’è sfuggito a riga otto del commento precedente: una comica che riderò fino a stasera.

Postato mercoledì, 28 aprile 2010 alle 13:19 da luciano / idefix


QUALCHE NOTA SULL’ATTO DELLO SCRIVERE
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” Avete bisogno di parole?”
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W. Burroughs

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NO GOD. Il centro non tiene. Rida chi può…E’ quando sei aggredito alla gola dalla paura, che incominci a parlare… A parlare e a vagare nella terra, immensamente distante, della lingua – come quei disertori che nei film di guerra si vedono vagare attorno ai casolari, perché – come colpiti da improvvisa amnesia – hanno perso il contatto con il Quartier Generale.
Questo lo devi proprio scrivere. Presto, un foglio, una penna, accendi il pc… Di cosa vive uno scrittore? Della paura della morte. Come quando Rimbaud esclama: ” A me!”, e incomincia a raccontare ” la storia di una delle mie follie”. Come quando, nell’incombenza dell’apparizione dello spettro del padre ( “Ti ricordi di me?”) , Amleto chiede a gran voce il suo taccuino.
O come quando nei fumetti si grida “help!” – passando impercettibilmente dalla parte dell’Es ( dell’ES-O-ES, direbbe la buonanima di Giuliano Gramigna).
Insomma, si tratta di mettere in scena questo caratteristico, ricorrente “impulso scrittorio”. E – nel tempo del trionfo del nichilismo, anche ridente e attivo – operare una ricognizione dalle parti della memoria in corto circuito. Di una memoria venuta da altrove e che non è solo “io”, ma la traccia, il ricordo, l’ombra e lo spettro degli altri lebbrosi incontrati in numerose altre vite, così come nel cammino della scrittura vivente.
Scrivi come se ti stessi grattando. Il petto ricoperto da un’armatura di piccoli lampi, passi – ad ogni frase compiuta – nella morte dello spazio bianco. Più vicino che mai al segreto di energie mutanti e a ritmi di distruzione e origine, eccoti in un foro, in uno stato secondo prossimo alla trance.
Proprio come quell’appestata di Mina, quando nel Dracula di Bram Stocker viene posta dal professor Van Helsing in uno stato d’ipnosi ( secondo una tecnica codificata da Charcot) per leggere i pensieri del suo vampiro, comunicare con lui per vie aeree, invisibili onde telepatiche. Quello di Mina è un ascolto semisommerso, che le permette di seguire il cammino della bara del conte lungo il fiume e « lapping water » , in risposta alla questione insistente « what do you hear ? ».
L’ascolto di Mina funziona, se posso esprimermi così, come una specie di sonda, di sonar o di antenna, che indica agli inseguitori del vampiro di essere sulla buona pista, o che l’inseguito non ha ancora cambiato strada.
A mano a mano che i cacciatori si avvicinano alla tana del vampiro per distruggerlo, il potere dell’ipnosi declina e i messaggi diventano sempre più brevi: « dark and quiet » dice uno degli ultimi bollettini trasmessi da questo altrove dove la notte si fa sentire per quasi impercettibili fruscìi e il “lappare dei vampiri”.
Anche tu hai bisogno di parole? Hai bisogno della tua dose di parole per farti di lingua e produrre un effetto magico molto preciso: liberarti da questa notte che non è come le altre notti, ma LA NOTTE – la sempiterna notte della Letteratura color d’inchiostro, di fughe, d’imboscate.
Insomma, hai bisogno di parole e della tetta di una lingua per liberarti dalla paura della morte.
Come Sheerazade, sottoposta all’ingiunzione del suo tiranno ( “Raccontami una bella storia o ti uccido”), attraverso la Letteratura forse potresti liberarti sia dalla Letteratura che dalla paura della morte. Proprio qui, alla gola: una specie di nodo scorsoio che, volendo, le parole, ancorché puttane, potrebbero allentare, perlomeno un po’ – dando il via, finalmente, alla gioia del linguaggio.
Che scioltezza! Ma da dove ti vengono tante sciocchezze ? Naturalmente potresti anche incontrare Vampirella e farci qualche pensierino… Non sarebbe la prima volta che nel dormiveglia vieni visitato da certe strane COSE che per tranquillità potremmo chiamare “seducenti” fantasmi femminili. A inviarli, dice la leggenda, è la madre di tutti i vampiri: Lilith. Si manifesta tramite un suo tipico sex appeal spettrale, quindi non è difficile riconoscerla.
Lilith pare un tipico parassita astrale, assetato di sangue, sesso e morte. Come i fantasmi in genere può venire, per così dire, insieme alla scrittura. E salire nel corso di un’ attività scrittoria che potremmo mettere in risonanza, non in un rapporto di causalità stretta, con quella pratica del contrappunto che, con espressione molto bella, viene detta: pratica solitatria.
Ih! Ih! Ih! Sarebbe il punto in cui, nell’impossibilità di relazionarsi con la “società”, il flaneur si abbandona alla natura idiota del piacere, a una specie di coito incestuoso con le Ombre. Fra questi vampiri, splendido nell’immaginazione, prima o poi, ognuno, ognuna, incontrerà il proprio Assassino ( il segno che te lo indicherà è che ti sembrerà più bello dell’Aurora, benché in fondo, neanche tanto in fondo, non sia che il solito Lucifero).
L’hai appena scritto, cadendo nero su bianco, quindi lo hai pensato. E sei diventato simile a quella seppia che nelle profondità marine diffonde attorno a sé nuvole d’inchiostro per sfuggire al predatore.
Nello stesso tempo, quando ti chini sul pc e sorvegli le parole, non solo le emozioni e i sentimenti, sei simile a un virologo nel suo laboratorio. Forse sei un drogato che secerne da sé il suo proprio antidoto. In ogni caso, sei un “socio” della morte e vorresti indietreggiare davanti alla confessione di considerarti un posseduto.
Come Mina, all’ascolto delle tracce del suo fragile Vampiro nella notte. Niente altro che il personaggio di un romanzo polveroso, oppure di uno dei tuoi giorni nell’abisso?
Il famoso abisso viene fabbricato dal pensiero, non c’è dubbio. O perlomeno così pare. Non fu forse quando la luce si trasformò in “giorno” e l’oscurità in “notte”, non senza un resto di abisso? E l’immaginario entrò nella prima formazione dello psichismo che diciamo umano?
Fabbricato dal pensiero, dall’immaginario e dal simbolico, l’abisso – come si vede anche in certi film – non può essere abolito dalla Letteratura, ma scavalcato solo dall’Amore. Che, naturalmente, a differenza dell’abisso che grida follemente sopra i tetti, sussurra a bassa voce, quasi senza voce, nei tombini.
E spesso – come capita agli amanti – è costretto a nascondersi, a darsi alla macchia, o a cambiare Paese e a volare alto – semplicemente per sopravvivere. “Avete bisogno di parole?”. Ma vi rendete conto che il Paese declina ?

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P.S. Questo corrisponde, mi pare, a ciò che intendeva Mallarmé, quando all’inizio della conferenza su Villier de l’Isle Adam, medita su ” cos’è scrivere” ( ce que c’est qu’écrire), e suggerisce ( finendo poi con il cospirare in una parentesi), che tale pratica consiste in “quelque devoir de tout recréer, avec des réminiscences, pour avérer qu’on est bien là où l’on doit etre ( parce que, permettez moi d’exprimer cette appréhension, demeure une incertitude).” Scrivere consiste “in qualche dovere di tutto ricreare, per accertare che si è davvero là dove si deve essere ( perché, permettemi di esprimere questa apprensione, l’incertezza resta”.
Non tanto la paura, come banalmente si dice, della morte ( “modesto fiumicello, a lungo calunniato”) , ma un’altra apprensione, se non una vera e propria angoscia ( la cui vera sede sarebbe l’Io).
L’altra apprensione, peggio della morte, sarebbe il terrore di non essere.
E’ per questo, per rinsanguarci, che – oltre ai tanti dubbi e a qualche incertezza tipica dei tempi nichilisti – inviamo questo nostro fratello oscuro, questo Vampiro al nostro posto nel mondo.
Naturalmente in tv i terroristi e gli uomini-bomba fanno molto meglio e hanno ben altra audience, ma tant’è.
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( A proposito di Mallarmé, l’ho evocato per una strana associazione d’idee: nello scrivere, l’altro giorno, della casa di Genet a Larache, mi sono ricordato che nella camera da letto, con il pavimento a scacchiera bianco e nero e una nuda lampadina pendente da un filo, l’amico Vittorio Pescatori, nel fotografare una scaffalatura nell’angolo, notò fra i libri copie capovolte di opere di Cocteau e di Mallarmé – che furono, probabilmente, tra i libri più cari di Genet, al punto da portarseli in Marocco dove avrebbe voluto concludere i suoi giorni – fra i traffici animati di bei ragazzi bruni e traditori del piccolo porto di Larache, il negozio del barbiere accanto alla Pension Malaga e il giardino con l’ulivo, il melograno, la vite e l’ibisco per i fiori vermigli).

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Esito nel postare… forse temo di far figura di fuochista, non a tutti piacciono i fuochi d’artificio. L’aria sa’ di zolfo. Uh, quanto fumo ! :-)

Postato mercoledì, 28 aprile 2010 alle 14:11 da Gianni De Martino


Io non fumo, mia moglie purtroppo sì.
Adesso m’è venuta in mente un’idea per un horror proprio sulla dipendenza dalla nicotina, molto molto orrida. Ci lavorerò su.
Ti ringrazio perchè m’è nata leggendo il tuo commento.

Postato mercoledì, 28 aprile 2010 alle 14:45 da luciano / idefix


L’intervento di Gianni è come al solito perfetto. C’è però qualcosa di specifico negli ultimi affioramenti. Parte della nostra generazione (dico parte, perchè della generazione dei baby-boomers che ci piaccia o no sono parte anche i Charlie Manson e gli Ignazio La Russa, si parva licet) ha attraversato una stravagante esperienza e cerco di restare sul facile: nello spazio di pochissimi anni, chi cantava nel covo renudista di via Maroncelli, senza accompagnamento, disegnando vocalizzi in acido su un palco, per luce una proiezione di una devastazione in 8mm da parte di Godzilla, ce lo siamo visto riapparire di bianco vestito a cantare “Noi siamo i Figli delle Stelle”, chi cantava della musica ribelle l’abbiamo sentito elevare il suo inno implorazione di salvezza a un benevolo ET, con la stessa identica voce rockconvinta ( e sarebbe più consigliabile con gli alieni parlare a bassa voce perchè quelli ci mettono poco… bip-bip-bip… e finisci incenerito) , ma sempre (in questo passaggio) continuano a farsi le canne (unico vero mainstream generazionale) per poi ritrovarsi decenni dopo di fatto casti , per ascesi, per colesterolo alto, per noia , a ciascuno la sua motivazione. Certo è che questa parte di una generazione é sempre stata e continua ad essere “fuori come un terrazzo”. Chi ha letto questi affioramenti e non è stato, né mai si è sentito parte del vissuto di questa generazione, può legittimamente sentirsi sballottato ben più che sballato. Ma perché esitare a esplodere Ultimi Fuochi? Tuttavia mi ritiro per un po’ (perché altri fuochi esplodano, anche generazionalmente altri) a meditare su quella ardua sintesi richiestaci da Massimo e nel mio caso a un breve contributo alla questione famiglia vampirica. Tra l’altro oggi il Corriere della Sera titola: “Ne uccide più la famiglia che la Mafia” ed è titolo ottimista in quanto non considera che la stessa Mafia si presenta come Famiglia.

Postato mercoledì, 28 aprile 2010 alle 15:51 da Gianfranco Manfredi


A chiarimento del discorso sull’Ingranaggio , sullo starne DENTRO e FUORI vorrei citare Mario Schiavo, militante e leader del Free Speech Movement di Berkeley (CA), per molti anni attivo nel volontariato sociale cattolico, nato a New York nel 1942 da padre siciliano, operaio metalmeccanico.

“C’è un tempo in cui l’operare della macchina diventa così odioso – ti fa stare così intimamente male – che non puoi più prenderne parte. Nemmeno passivamente. E allora devi mettere il tuo corpo tra gli ingranaggi, le ruote, le leve, di traverso all’apparato intero, per bloccarlo. E devi dire alle persone che lo fanno funzionare, che lo possiedono, che fino a quando non sarai libero, alla macchina verrà impedito di funzionare.” (discorso agli Sproul Hall Steps, 1964).

Postato mercoledì, 28 aprile 2010 alle 16:00 da Gianfranco Manfredi


pensa che refuso. Ho scritto Mario Schiavo! Trattasi di Mario Savio. Quanta saggezza nel riconoscere la propria e altrui condizione di Schiavi e proclamare l’urgenza della Liberazione.

Postato mercoledì, 28 aprile 2010 alle 16:04 da Gianfranco Manfredi


MACCHERONI DEL DIAVOLO
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… Fosse nient’altro che fumo e niente arrosto ! Bruciare ! Bruciare ! Nella Sua luce che per me è fuoco ! Liberarsi di Lui e uscir fuori da un posto in cui non sei mai è entrato, è illusione ! Illusione !
Oh, quanti punti esclamativi ! Del resto, uno di voi due – per quanto si drizzi sul catafalco ed esclami – vedrà morire l’altro. Detto a nessuno, in famiglia : come si chiama la moglie, C-a-n-c-r-e-l-l-a ?
E dire che questo sciagurato compagno d’Inferno, Nietzsche, lo aveva previsto. Non fa che ripetere : « Credi di essere libero ? Chiedilo alla tua volontà, è anch’essa prigioniera ».
E ancora, agitandosi senza polmoni e tuttavia sforzandosi d’esser sano soffia : « Se guarderai troppo a lungo dentro l’abisso, alla fine sarà l’abisso a guardare dentro di te».
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Di contro, il pensiero del Liberatore, forse un po’ di refrigerio: “ Questa specie di demoni non esce se non per mezzo della preghiera e del digiuno ” (Mc 9,29, Matteo 17:19-21). Solo una vecchina con il fazzoletto sulla testa oggi crederebbe a quello là. .. Ah, come brucio! Brucio! E dire che un tempo avevi creduto di poter ardere senza bruciare. Come dicono Lassù ? Questi esuberi , veri e propri extracomunitari, fanno troppo, sempre troppo. E poi se ne vanno per strada, fra la brava gente e fin nell’infosfera, volgendo in giro quel loro tipico sguardo da disoccupati e da poeti. Ah, le Ronde, ci vogliono, le Ronde! E, tornando a casa, dite ai vostri bimbi, vi prego, vi preghiamo, che nella vita occorre provare di tutto, eccetto la droga e i culattoni. Non lo dice forse anche la Trota ? Oh, sì, fate una carezza ai vostri bimbi padani e dite loro, vi prego, vi preghiamo, mentre il Paese decade, che l’ano è la tomba del fafallo, ancorché celodurista.
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P.S. Perfezione ? Oh no, solo mani piene di fantasmi : mani che sembravano linee colme di fuoco ed ora sono solo inchiostri o bit che sbiadiscono col tempo. L’Inferno non esiste ? E’ solo un immenso formaggio fluorescente ? Solo bagattelle ? L’Inferno esiste.
To’, a proposito di bagattelle : « Lentamente, diventeranno tutti fantasmi… tutti… Yubelblat… e la Nonna… e Natalia, come Elisabetta, l’altra imperatrice… come Nicola Nicolaievic che faticava tanto a scegliere… come Borodin… come Jacob Schiff… che era così ricco e potente… come tutto l’ “Intelligence Service”… e l’ “Istituto del Cervello”… come le mie scarpe al Mont-Boron… tutto diventerà fantasma… luuu!… luuu!… lì si vedrà sulle lande… E sarà meglio per loro… saranno più felici, molto più felici, nel vento… nelle pieghe dell’ombra… vluuu!…vluuu!… Non voglio più andare in nessun posto… Le mani sono piene di fantasmi… verso l’Irlanda… o verso la Russia… diffido dei fantasmi… ce ne sono dappertutto… non voglio più viaggiare… è troppo pericoloso… Voglio rimanere qui per vedere… per vedere tutto… farò a tutti: huuu!… huuu!… Creperanno di paura!… M’hanno scocciato abbastanza quand’ero vivo… sarà il mio turno…. » ( Céline , Bagattelles – cadono qui, le bagattelle, quasi come il cacio sui maccheroni – Maccheroni del Diavolo, naturalmente !
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Un pasto di parole fredde per il povero scrittore tra le nebbie, non solo padane, di quella stazione di confine : su e giù, ancora a spasso tra le nebbie con Cèline – sperando che sia perlomeno il Purgatorio e non il solito mare di pus.
Della scrittura il tuo amico Gianfranco ha, giustamente, sottolineato l’urgenza. Tu, invece, altrettanto giustamente, come Blanchot, sottolinei l’incertezza. Vediamo ( ma perché adesso parli come mago Otelma?) . Intanto, mangia questi maccheroni di realtà, Vampiro ! Voglio vedere tutto. E non dimenticare di salutare Mario Schiavo ). :-)

Postato mercoledì, 28 aprile 2010 alle 18:16 da Gianni De Martino


E fingiamo d’esser (Ber)sani. Si parva licet.

Postato mercoledì, 28 aprile 2010 alle 18:27 da Gianni De Martino


E’ un’incerta urgenza, Gianni. Quell’urgenza che non ci ha ordinato nessuno. E non può che essere in-certa. Su Mario Savio ho appena scritto un fumetto che sarà disegnato da Paolo Bacilieri per la Semana Negra di Gijon, quest’anno dedicata ai Dimenticati. Tra tanti festival letterari per i Famosi, ce n’è anche qualcuno per los olvidados.

Postato mercoledì, 28 aprile 2010 alle 18:56 da Gianfranco Manfredi


@Luciano. Naturalmente mi fa piacere che ti sia nata un’idea leggendo un mio commento.
“Mi hai fatto venir voglia di scrivere” : è quanto mi disse una volta ( al telefono) Giuliano Gramigna, dopo aver letto “Lo scriba e il tiranno. Note sull’atto dello scrivere” ( poi uscito nel n. 77 della rivista di analisi materialistica Il piccolo Hans).
I complimenti, ancorché rari fra scrittori, sono altrettanti rari segni d’intelligenza e quasi di pietà, capaci, talvolta, di salvare un artista – se non dall’indigenza cronica, il vampirismo part-time e la disoccupazione – perlomeno dal suicidio e da altri crimini. ( In genere, oggi, dietro i paraventi degli ospedali, si muore aggrappandosi alle radiografie e a tante altre cose virtuali, così oltre a qualche colpo di tosse, metterei anche qualche radiografia ) .
Grazie a te, Luciano, e buon lavoro con quel tuo horror nicotinico. Chissà cosa ne pensa Gaetano.

Postato mercoledì, 28 aprile 2010 alle 19:44 da Gianni De Martino


@ Gianfranco. L’incerta-urgenza è un gioco, un gioco serio, naturalmente. Forse un po’ simile al gioco del rocchetto di cui parlava Freud, a proposito del piccolo Hans: un bambino di due o tre anni che “domina” in qualche modo l’angoscia dovuta all’assenza della madre, mettendosi davanti allo specchio e lanciandovi sotto un rocchetto, gridando tutto contento Fort! quando scompare, Da! quando riappare. Un po’ come fare Uh uh, poi subito dopo Ah ah ! Eccolo qua.
Mi piacerebbe vedere il fumetto dedicato al vecchio Mario Savio. W los olvivados!

Postato mercoledì, 28 aprile 2010 alle 19:55 da Gianni De Martino


Un rocchetto legato a uno spago, lanciato e ritirato per lo spago. Nel mito, potrebbe essere il filo offerto all’eroe ( in ricognizione nell’antro del mostro, il Minotauro) da qualla santa donna di Arianna, ecc.

Postato mercoledì, 28 aprile 2010 alle 20:17 da Gianni De Martino


quella.

Postato mercoledì, 28 aprile 2010 alle 20:24 da Gianni De Martino


LA VAMPIRA TELEMATICA: “CIAO STRANIERO”

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Prima di andare a letto, apro la posta e, tra la fuffa, noto – a proposito di “quella” – il tipico messaggio di una vampira telematica ( proveniente, come Dracula, dall’Est europeo – si chiama Tatyana) :

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” Ciao straniero.
Molto tempo che volevo fare conoscenza con un uomo su Internet, ma non ha il coraggio di farlo. Dal momento che non ho fiducia l’amore su Internet. Ma ragazza incontro un uomo su Internet, e si sposarono. Ora hanno una famiglia felice. Spero anche che posso trovare amore qui. Mi auguro che tu sei un uomo, di cui ho un sogno! Ed e mia speranza che si vada a scrivere di me. Probabilmente – il destino? Io credo nel destino, e spero che Dio mi aiutera a trovare un uomo decente. Forse questo e si!
Questo – un popo’su di me [VEDI FOTO con virus in allegato]: io sono – uno snello, occhi azzurri bionda. Io sono laboriosi e mi piace cucinare. Sono una ragazza modesta e non mi piace conflitti. Ebbene, questo io, e io vi scrivero piu su di me nella prossima lettera. Spero vivamente di ricevere la vostra risposta.
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La mia e-mail: [...]

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scrivimi questo indirizzo, e non posso inviare piu delle mie foto. Non vedo l’ora di attendere per la Sua lettera.
Vi auguro una piacevole giornata, spero che la mia lettera per migliorare il tuo stato d’animo.
Cordiali auguri a te, Tatyana”.

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Tra l’altra fuffa, ho notato anche una Newsletter di Pagine mediche N. 283, che forse potrebbe interessare luciano che sta scrivendo un noir nicotinico: ” La dipendenza da nicotina e’ scritta nel DNA” (“Alcune mutazioni genetiche in 4 cromosomi influiscono sulla scelta di iniziare a fumare, sul numero di sigarette consumate e sulla capacità di smettere. E’ quanto hanno appurato tre studi pubblicati ‘Nature Genetics’, ecc”.
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Segue un articolo intitolato ” Un micione raffreddato” ( “Non solo gli esseri umani: anche gli animali si ammalano. In questo caso, è successo a un gatto, da giorni alle prese con starnuti, catarro e forti colpi di tosse…E’ consigliabile l’aerosol? E’ vero che ai gatti si puo’ soffiare il naso? ).
Interessante ! L’ho annusato e mi sono letto tutto l’articolo successivo, intitolato: ” Un utero troppo contratto”. ( ” Che fare? Basta una buona dose di magnesio, potassio e progesterone, banane e acqua a volontà, camomille doppie e bagni caldi ?”).
Ecco, ho buttato tutto nella spazzatura, insieme a ” Bimbi prematuri a rischio problemi psicologici” e altre “Informazioni e curiosità” provenienti dalla “Community”. C’era anche “l’angolo delle psicopompe”, pardon, “delle psicologhe”.
Questo per dire che uno scrittore è capace di leggere di tutto. Per fortuna o sventura, nel nostro Paese la lettura resta un vizio impunito. A volte ti sforzi di leggere anche attraverso le buste chiuse. Certo, non tutte le lettere sono indirizzate a te ma a un Paese in piena decadenza, però t’incuriosiscono – non si sa mai da dove potrebbe arrivare un messaggio inatteso.
Eccoti diventato una vittima dei libri, uno che crde, ingenuamente, che la Risposta si trovi nei libri e nei vampiri. Fa’ bene la Famiglia a diffidare di te. Presto, o micione raffreddato, strappa i libri, tutti i libri, e butta via tv e pc – un attimo prima che Tatyana ti strappi unghie, baffi, portafogli e cuore. Miaooo. :-)

Postato mercoledì, 28 aprile 2010 alle 22:55 da Gianni De Martino


Capolavoro, Gianni. Son qui con le lacrime dal ridere e non solo. La prosa di Tatyana e la tua risposta. Beh, se non è questo il bello di vivere la scrittura nel margine, cos’è? Grande confusione sotto il cielo, la situazione è putrescente, ma si riesce a riderne! Meglio di così, si muore.

Postato mercoledì, 28 aprile 2010 alle 23:32 da Gianfranco Manfredi


Nel frattempo, rischio il collasso da New Italian Cepu. Ricevo ormai quasi quotidianamente racconti e romanzi via mail, via posta dattiloscritti (rari) e libri (sempre più spesso) pubblicati da editori-cartolai- tipografi o auto-prodotti (in ottime edizioni cartonate). La pila è ormai enorme. La osservo crescere affascinato. Rievoco l’epoca della Grande Crisi Discografica, durante la quale i debuttanti neppure più ci provavano a mandare i loro demo alla Multinazionale del Disco, se lo producevano e se lo vendevano da soli ai concerti, oppure manco lo facevano, perché vale di più un concerto della sua riproduzione meccanica. C’è un’onda in arrivo, è partita da parecchio e si sta gonfiando… si limiteranno a traballare i grandi editori tanto generalisti quanto “a numero chiuso” riguardo agli accessi di “estranei imprevisto e sgraditi” , oppure crolleranno com’è avvenuto per la grandi case discografiche? Gli editori vampiri ( per tornare al tema e a Poe) saranno vampirizzati dall’orda famelica che essi stessi hanno evocato? Ci sarà da divertirsi, nei prossimi anni.

Postato mercoledì, 28 aprile 2010 alle 23:42 da Gianfranco Manfredi


Gianni: anche mia moglie si chiama Tatjana ma posso assicurare che NON è l’autrice di quell’email (arrivata pure nella mia posta di Libero).
Di solito pure io (come te) leggo questi spam, perchè ogni tanto si incappa in esilaranti gioiellini umoristici (purtroppo inconsapevoli).
Gianfranco: la trasformazione di Alan Sorrenti (da COME UN VECCHIO INCENSIERE a FIGLI DELLE STELLE) resta una delle più strabilianti (e sature di delusione) mai accadute nella storia della musica italiana. Quello che aveva le potenzialità per fare il Tim Buckley de noantri si affittò anima e corpo al mercato discografico, finendone vampirizzato. Tra l’altro: che fine ha fatto?
Molto interessante (almeno per me) di tutta questa lunghissima discussione-post è che ho modificato la mia posizione iniziale sui vampiri. Come in tutti i confronti degni di questo nome, cammin facendo, ci si trasforma e le proprie idee si plasmano entrando in contatto con quelle altrui. Se così non avvenisse, che discussione sarebbe? Si ridurrebbe a una serie di autoerotici monologhi autoreferenziali. Insomma: partito da un sostanziale disinteresse nei confronti della narrativa-cinema vampiresco mi sono pian piano reso conto che il tema va oltre (banalizzo)il Dracula svolazzante che ficca i denti nel collo di qualcuna/o per ciucciarne il sangue. Ma può diventare una metafora di tante cose. Ecco allora (per esempio) che un talento psichedelico come quello di Alan Sorrenti venne vampirizzato dall’industria e dalla moda di metà anni Settanta. O avvenne il contrario? Che fu Alan a vampirizzare i discografici per ottenere successo e visibilità’ quelle che NON avrebbe mai ottenuto se avesse continuato a fare il Tim Baklei della Campania magari assieme alla sorella Jenny (che comunque m’era simpatica)?
Insomma, la discussione con voi mi ha aperto finestre e pertugi per ampliare le visuali con cui osservavo il mondo vampiresco.
Grazie, perciò
(Ho sempre detestato gli scrittori che non riconoscono apertamente i propri immensi debiti nei confronti degli altri autori)

Postato giovedì, 29 aprile 2010 alle 09:11 da luciano / idefix


@Massimo. Ho parlato a Francesco Saba Sardi, l’immortale traduttore del Dracula di Stoker, del dibattito in corso sulla letteratura dei vampiri.
Mi ha chiesto il link al tuo sito: chissà che, trovandosi in vena, non gli venga voglia d’intervenire. Continuo a pensare che avrebbe cose decisive da dire sui vampiri. Non so se ho fatto bene.

Postato giovedì, 29 aprile 2010 alle 11:02 da Gianni De Martino


Mi permetto di parlare a nome di Massimo?
(E se lui non sarà d’accordo lo autorizzo a insultarmi nei modi più atroci, utilizzando le espressioni linguistiche siciliane più sanguinose).
Massimo direbbe che hai non ha fatto ma benissimo.

Postato giovedì, 29 aprile 2010 alle 11:17 da luciano / idefix


Refuso nell’ultima riga che va letta:
Massimo direbbe che non hai fatto ma benissimo.
:

Postato giovedì, 29 aprile 2010 alle 11:20 da luciano / idefix


Ma che è?! La maledizione de lu vampiro de le Frasette?
E’ venuta sbajjata de novo!
Va infatti letta:
Massimo direbbe che non hai fatto bene ma benissimo.
AHO’!!
Al terzo tintativo ci l’ho fatta!

Postato giovedì, 29 aprile 2010 alle 11:25 da luciano / idefix


@ Luciano. Non volevo mica parlar male di Sorrenti. A volte nascono equivoci da personalizzazione. In quel breve lasso di tempo, in quella fase di passaggio, tutti noi (me compreso) ci siamo sentiti scompaginati e abbiamo scritto e fatto cose che il nostro io precedente avrebbe magari considerato biasimevoli. C’è anche chi è saltato a due piedi dal punk allo yuppismo. Si sono visti iconoclasti di vocazione passare alla corte di sacerdoti con la Rolls e la scorta armata. O provocatori anti-salottieri frequentare lusingati il salotto craxiano. In tutto questo movimento convulso Sorrenti a mio avviso è stato uno dei più coerenti: c’era in lui fin dal principio un mix californiano riconoscibilissimo. Il suo unirsi al coro dei Bee Gees e il suo festoso travoltismo non era mera imitazione di una moda, ma travaso in quella moda di spirito new age californiano (Figli delle stelle). Che ci fosse anche della plastica in questo, non mi scandalizza affatto. C’era plastica anche nella Plastic Yoko Ono Band, per cui… Più misteriosa, per quanto esilarante, mi parve “Tu sei l’unica donna per me”. Si trattava però sempre di una certa propensione impudica all’estremo. Se Claudio Villa canta “Mamma” è nota e abusata retorica popolare. Se qualcosa di analogo lo si canta in falsetto, persino con maggior trasporto, si entra nel regno del sorprendente e dunque anche del buffo. Non ho prevenzioni, ti assicuro, e non accuso nessuno di “tradimento” (parola che la nostra generazione ha vissuto e respinto come proto-stalinista). Io ho trovato geniale anche la non-sorrentiana, ma goggiana “Maledetta primavera”. Prendere un lamento-luogo comune delle mamme (che fretta c’era? Maledetta primavera) e farne auto-ingiuria di giovane amante gabbata, l’ho trovato sublime. Nel bene e nel male, ciò che si cantava in quegli anni, ambiva alla trasparenza. Ogni deviazione che si andava ad esplorare, la si esplorava fino al rischio del ridicolo e oltre. Di fronte a certi testi a volte ci si chiedeva, ma qui siamo al distillato puro di ironia, o alla totale mancanza di ironia? C’è generosità anche nell’offrirsi al ridicolo. E’ da quel periodo di passaggio del resto che (decotto lo slancio della musica underground) fiorì in Italia il fenomeno dei Nuovi Comici. Da “una risata vi seppellirà” al “ridete di noi, perché siamo i primi a riderne”. Esercizi di equilibrismo squilibrato, come altro definirli? Una volta a San Francisco chiesi a un mio coetaneo musicista come mai un folk singer come Country Joe McDonald istoriasse i manifesti dei suoi concerti con la scritta Gothic Neon. Cosa c’entrava il Gotico con il Neon? Lui mi rispose: proprio perchè non c’entrava niente. Non ricordi i Jefferson Airplane? Cosa c’entra il Presidente Jefferson con gli aerei e addirittura le astronavi (Starship)? Niente. E’ un accostamento di contrari. Un senso che si esprime in non-senso. Forse è proprio in questo giusto del paradosso , in questa continua proposizione di ossimori, che stava lo stesso penchant di una californiana underground DOC come Anne Rice, per i vampiri.

Postato giovedì, 29 aprile 2010 alle 11:57 da Gianfranco Manfredi


Pure a me piace anche certo rock (in senso lato…musicale, figuratico e letterario) sguaiato. Penso al film che forse amo di più in assoluto in TUTTA la storia del cinema (e cioè Il fantasma del palcoscenico di Brian De Palma).
Diffido di chi ha UN SOLO gusto, mi fanno paura quelli che hanno una sola fissazione, mi fanno tristezza quelli che hanno un solo interesse. e così posso amare Mozart e i Ramones, Willie Nile e John Coltrane, Neil Young e Frank Zappa, Fred Buscaglione e gli Allman Brothers.
Emily Dickinson e Clive Barker.
Seneca e i Peanuts.
Magico Vento e la Bibbia.
Lynch e Stanlio & Ollio.
Cucinare e far volontariato.
Ridere e meditare.
Giocare a calcio e scrivere horror.
Passeggiare e dormire.
Bisogna sospettare dei totalitari monomaniaci.

Postato giovedì, 29 aprile 2010 alle 12:25 da luciano / idefix


Appunto. Sai dove avevo ri-trovato “Maledetta primavera”? Nella playlist di una diciottenne devota all’hard core. A un certo punto da quell’oceano di schitarramenti e scatarramenti, se ne esce Loretta Goggi. Allibisco: cosa c’entra? Risposta: fa ridere, ma è vero. Come dire: l’importante è esagerare. Solo dalla Macchina escono parole su misura, rivolte a tutti perché rivolte a nessuno, neutralità assoluta della comunicazione non comunicante. Di contro a questo, basta scaricarsi una canzone o un film da un sito pirata peer-to-peer per scoprire con una semplice operazione di Browsing quando sia errabondo il catalogo di ciascuno, come ospiti i contrari, dal porno a Disney, da film muti iper-cult all’ultimo blockbuster di provvisorio interesse, e lasciando anche ampi margini di dubbio perchè a volta, quando scarichi, ti accorgi che un pezzo presunto di Aretha Franklin è in realtà di Janis Joplin, o che sotto il titolo di un furente film d’azione è stato (chissà perchè) mascherato un film aspramente intimista e sentimentale di Cassavetes. Dalla Macchina si sfornano pezzi, noi li rimescoliamo e diventano altra cosa. “Parlano tutti del trionfo della Macchina, ma la Macchina non trionferà” (D.H. Lawrence).

Postato giovedì, 29 aprile 2010 alle 12:48 da Gianfranco Manfredi


La diciottenne non disse : fa ridere, ma è vero, bensì fa ridere, ma è troppo giusto, linguaggio da brivido perché a sua volta mi riportava indietro alla lingua del paninaro Braschi. E allora mi sono rivisto al President, una sala cinematografica milanese che aveva il singolare pregio di essere dotata di posti persino dietro le colonne (!) , durante una visione di Manhattan di Woody Allen. Allen parla della sua ex-moglie e dice: “Sta facendo una tesi sul sincretismo”. La sala scoppia in una risata inaudita. Avevano capito cretinismo? Boh. O senza rendersene conto illuminavano il cretinismo del nostro comune sincretismo? Siamo tutti seduti alla cena dei Cretini, dove il Cretino è il più sveglio? Non c’è più mistero in questa confusione semantica che nella univocità del linguaggio macchina? Per certi versi bisognerebbe uscirne, rivendicando storia e senso delle parole (come ho già detto sulla spinta di quanto ci aveva raccontato Gianni a proposito del suo iper-signorile bisticcio con Eco sul’espressione “prenderlo nel culo”) , ma per altri versi la caotica irruzione e proliferazione di segni e contro-segni non filtrati e inconsapevoli stimola quel senso di comunicazione enigmatica senza il quale non si dà narrazione. Se dovessimo sempre meditare sul senso originale quanto storicamente deviato di una parola, non riusciremmo neppure a dire Ciao (termine che secondo alcuni linguisti origina da Schiavo). L’equivoco polemico qui nato con Failla (ad esempio) e mi auguro sia un equivoco, ma se no va bene lo stesso, a proposito dell’uso del termine “isterico” da parte di un grande filosofo che considera tanto espressivo quanto vero un farfugliare falso e ideologico… ci dice che la nota divisione illuministica tra linguaggio superstizioso e linguaggio scientifico, oscura quanto di superstizioso ci sia nel linguaggio scientifico stesso. E ci indica forse che ogni nostro tentativo di depurazione dall’Ideologico non può comunque presumere di poter facilmente prescindere dal sincretismo soggettivo quanto universale che ci conduce ogni giorni sperduti nel nostro viaggio tra i segni. Detta così va bene? Spero che nessuno si offenda. Se no, va bene lo stesso.

Postato giovedì, 29 aprile 2010 alle 13:14 da Gianfranco Manfredi


Una volta , da universitario, mi studiai Stato e Rivoluzione di Bakunin, testo assai distante per scelta stilistica dall’inquietante prosa liquidatoria e burocratica di Lenin, testo tanto saggistico e politico quanto narrativo e persino ilare a volte. Arrivo a un passo di critica dei marxisti (non del pensiero di Marx) che si apre a una critica del tedesco-medio, delle sue istanze di ordine, di echi militar-prussiani che si ritrovano anche tra i rivoluzionari. Passo godibilissimo e apparentemente pieno di senso, eppure leggi e rileggi… non vi echeggiava anche un linguaggio da Bar dello Sport? La nostra idea di “tedesco” non è infettata tanto quanto la nostra idea di “ebreo”? La lingua non è riconducibile a macchina.

Postato giovedì, 29 aprile 2010 alle 13:24 da Gianfranco Manfredi


La lingua non è l’ alingua (chissà perché l’alingua che usiamo- il neologismo è di Barthes- è sempre un po’ fascista).
-
Il signorile “sedere” di Eco sembra ovvio, e proprio per questo non mi convince del tutto: avrei qualcosa da osservare – non so se è il caso di farlo qui, rispolverando quella vecchia Bustina di Minerva.
Avrei già il titolo: ” La mutanda di Minerva”.
Meglio di no: a frugar dentro in profondità nella bustina potrei bruciarmi la mano – per non dire del tipico odore di Acheronte che si “sprigionerebbe” … Quieta non movere.
Scrivere: che sporco, orribile e strano mestiere !

Postato giovedì, 29 aprile 2010 alle 14:07 da Gianni De Martino


Intanto ieri, in una libreria di fumetti a Trieste (Neopolis), ho trovato i primi quattro Magico Vento (giorni fa avevo scoperto con sgomento che i primi dieci erano scomparsi, evidentemente prestati a qualcuno).
e ancora una volta mi baloccavo su quanto potrebbe essere bello (e impossibile) un telefilm tratta da MV.
SUL PEZZO DI ALTIERI vorrei fare un’osservazione critica.
All’inizio lui dice che Dracula l’ha sempre affascinato per vari motivi ma (soprattutto) per questi (cito testualmente):
1) è solo, sopravvissuto suo malgrado a un passato di orrori,
2) condannato a coesistere con la propria mostruosità endogena,
3) i suoi avversari sono un’orgia di scornacchiati.
Non ci girerò intorno: in queste tre motivazioni sento (volente o nolente Altieri, consapevole o inconsapevole egli sia) le stesse uguali identiche motivazioni di fondo dei nazi-fascisti sconfitti nel ‘45.
La prima: se è vero che le maggioranze populiste non sono nel Giusto per il fatto stesso di essere tali, nemmeno le minoranze elitarie sono ipso facto depositarie della Verità. E’ un’idea aristrocratica e gerarchica del mondo che mi agghiaccia.
La seconda: dalla propria “mostruosità” si può guarire. O comunque non usarla come strumento di oppressione e di dominio contro il prossimo.
La terza: serpeggia in questo Dracula titanico lo stesso disprezzo verso la “normalità piccolo-borghese” e contro le persone “comuni” che i nazi-fascisti (soprattutto quelli del crepuscolo ‘45) avevano contro le democrazie parlamentari.
In questa chiave, la tolkieniana Compagnia dell’Anello (romanzi che comunque non mi piacciono molto) sa amalgamare il gusto dell’avventura con il “te all’inglese”, il senso del dovere della Resistenza contro gli invasori con “i prati verdi della campagna coltivata”, la Compagnia multietnica con l’amore per una vita tranquilla. in fondo, gli incubi mostruosi hitleriani furono sconfitti da tanti piccoli e normali hobbit di tutto il mondo, gente comune e “scornacchiata” che prese le armi non per Eroismo Titanico ma per difendere la decenza che rischiava di venir vampirizzata dal nazi-fascismo.

Postato giovedì, 29 aprile 2010 alle 14:13 da luciano / idefix


Scandaloso intervento di Luciano, ma ricco di stimoli. E Gianni: scrivere, che sporco, orribile e strano mestiere! Che dire di questo che ho appena letto sul giornale? Osserva D’Alema: “le politiche sono ormai tutte decise a livello internazionale” (Davvero c’è qualcuno che decide?) “mentre la politica ha una dimensione nazionale. Ma la politica EVIRATA dalle politiche, è solo comunicazione, e diventando uno scontro simbolico la sinistra è destinata alla sconfitta.” (Perché il simbolico dovrebbe uccidere la sinistra?) Che fare dunque? Di nuovo il leader maximo: ” mettere radici nei conflitti avendo capacità di RAPPRESENTARLI nella loro radicalità”. Ohibò! Ma D’Alema non era quello che sognava un Paese Normale? Comunque sia, si risolvono i conflitti RAPPRESENTANDOLI? Ma così non ci riconsegniamo al SIMBOLICO poco prima negato per NON EVIRARSI? Se qualcuno ha capito alzi la mano. Il titolo era: NON SERVE UN OBAMA BIANCO. Grande la confusione sotto il cielo, ripeto, la situazione definitela come vi pare: eccellente, putrescente, indecente, dipende dai gusti. Non si capisce niente. E noi scriviamo. Ma allora non era assai più comunicante dire: Jefferson Starship, Gothic neon, Little Giant, Cadavere Vivente? Accanto alla sintesi del messaggio di D’Alema, compare in Repubblica, questo cartiglio: “Le dieci parole-chiave per il rilancio del PD: un migliaio i commenti già presenti sul nostro sito”. Hegelismo della macchina: si attende la conversione della quantità in qualità, ma più aumenta la quantità, più la qualità pare svaporare. Dieci parole chiave: YOG-SOTHOT è sicuramente una delle dieci, direbbe Lovecraft. Che cosa aprano queste dieci chiavi, nessuno lo sa. C’è una cosa che striscia, oltre la soglia.

Postato giovedì, 29 aprile 2010 alle 15:00 da Gianfranco Manfredi


Per consolarmi dalla lettura d’alemiana, ho messo su Mamma mia! degli Abba. E la giornata è risolta.

Postato giovedì, 29 aprile 2010 alle 15:19 da Gianfranco Manfredi


D’Alema ? Sembra rappresentare una male-dizione.
“Contorcimento politicista”, osserva l’anomalo Nichi Vendola – oggi particolarmente mordace.

Postato giovedì, 29 aprile 2010 alle 16:23 da Gianni De Martino


Io nemmeno ho partecipato, alle primarie sulle dieci parole del Pd.
Anzi: nemmeno ci ho dato un’occhiata. mi par roba che non sta nè in cielo nè in terra.
E l’intervento di Dalemassimo mi conferma ancora una volta nella mia opinione ormai consolidata: “ahò! Ma quanno ne se va?!”
Una per tutte: questa cretinata secondo cui “lo scontro simbolico farebbe perdere la sinistra”. Ma perchè mai, Dalemassimo? Ma saranno li simbolazzi brutti e tristi de li mortacci tua. Proviamo piuttosto a combattere con i simboli giusti e vedrai che si può tentare di vincere.
“Non serve un Obama bianco”
Certo che no, verrebbe da rispondere a Dalemassimo, perchè anche quello a te te farebbe nero.

Postato giovedì, 29 aprile 2010 alle 16:51 da luciano / idefix


A distinguere il linguaggio della politica da quello narrativo credo possa servire da esempio un passo da Orgoglio e Pregiudizio Zombie. Elizabeth teme e insieme si augura oscuramente di incontrare Darcy in una certa casa di campagna, ma lui non c’è. Si è recato a Londra “per una riunione della Lega dei Gentiluomini per l’Incoraggiamento delle Ostilità Ininterrotte Contro il Nostro più Odioso Nemico.” Ah, come è più trasparente, più ironica, più lieve e dunque più seria, la lingua della letteratura! Forse uno dei motivi per perseverare a scrivere distogliendosi nell’atto stesso dallo stra-parlare.

Postato giovedì, 29 aprile 2010 alle 17:31 da Gianfranco Manfredi


Forse con quel suo invito alla rappresentanza della radicalità dei conflitti, D’Alema voleva semplicemente dire, cioè che Far Finta di Essere Ber-sani continua a ripetere ad ogni intervista: “Oh, guardate che la gente non sa più come arrivare alla fine del mese!” Come se LORO non lo sapessero che la gente non lo sa! Per qual motivo la Trota si candida, se non sapesse che uno stipendio garantito di quindicimila euro al mese non si trova ad ogni angolo di strada?

Postato giovedì, 29 aprile 2010 alle 17:46 da Gianfranco Manfredi


Non cioè, ma ciò che…

Postato giovedì, 29 aprile 2010 alle 17:47 da Gianfranco Manfredi


“Miss Darcy è attraente quanto il fratello?”
“Oh,sì! E’ la più bella signorina che ci sia, e così compita! Ha decapitato il suo primo innominabile meno di un mese dopo aver compiuto undici anni!”

Postato giovedì, 29 aprile 2010 alle 17:59 da Gianfranco Manfredi


Avete notato il putiferio che è stato sollevato l’altro ieri dalla franca ammissione di Albertazzi del suo ritenere I Promessi sposi un romanzo noioso e mal scritto? Si è tirato in ballo di tutto, la Patria offesa, Salò, la Resistenza, l’oltraggio al cattolicesimo… Cosa succederebbe a un autore italiano che si provasse a scrivere un PROMESSI SPOSI ZOMBIE?

Postato giovedì, 29 aprile 2010 alle 18:06 da Gianfranco Manfredi


Per testimoniare che non parlo bene solo dei romanzi Gargoyle e male della concorrenza, dopo avere demolito qualche centinaio di interventi orsono il deprecato “Undead” del pro-pronipote di Bram Stoker e di un suo complice, vi segnalo oggi una lettura che ho appena terminato e che mi sembra meritevole di menzione. Si tratta di “La Progenie”, altra opera scritta a quattro mani, stavolta dal regista Guillermo Del Toro e da Chuck Hogan, e pubblicata lo scorso anno da Mondadori (sono un po’ in ritardo con letture per diporto…)
Si tratta di una storia di invasione vampirica, con un aereo che atterra al JFK come il Demeter approda a Whitby (o meglio, qui i passeggeri ci sono, ma tutti apparentemente morti per cause inspiegabili). Protagonisti sono una coppia di medici del Centro di Controllo Epidemie e un vecchio Van Helsing della situazione…
Niente di eccezonale, per carità, e con evidenti debiti nei confronti dei vari McCammon e Masterton, ma comunque un plot solido e ben strutturato, con buona gestione dei climax e sicura padronanza della materia.
Una novità interessante: i vampiri non succhiano il sangue attraverso il consueto morso, ma mediante una sorta di proboscide allungabile che fuoriesce dalla gola, originata dalla fusione di trachea, epiglottide e altri organi interni in conseguenza del contagio: qualcosa, per chi lo ricorda, come accadeva in “Rabid, Sete di Sangue” di Cronenberg.
Unico neo: una traduzione davvero scadente, con periodare sconclusionato e frasi talvolta al limite del comprensibile (cito letteralmente: “Al momento gli argentei treni entravano nella luce del giorno e in piena aria mentre procedevano sul fondo della vasca da bagno verso le piattaforme temporanee”…)
Caro Massimo, un giorno di questi ti invito a occuparti dello scadimento che si va determinando nel livello medio delle traduzioni: da lettore non ci facevo caso più di tanto, ma da quando (e non è molto) ho intrapreso questo mestiere, mi accorgo che le dimensioni del problema vanno assumendo proporzioni allarmanti. Ho l’impressione, ma posso sbagliarmi, che ormai nemmeno le grandi case editrici vadano aldilà di una superficiale correzione bozze, latitando completamente in termini di revisione ed editing dei testi. Questo fa sì che, aldilà di pochi veri e propri “mostri” come Tullio Dobner (Stephen King) e Bruno Arpaia (Ruiz Zafon), traduttori anche bravi siano esposti a una sorta di gogna, dal momento che nessuno opera un minimo di “pulizia” sul loro lavoro, con evidente mancanza di rispetto nei confronti dell’Autore e del pubblico.
Che le cattive traduzioni si apprestino a “vampirizzare” il testo originale?

Postato giovedì, 29 aprile 2010 alle 18:18 da Paolo De Crescenzo


Concordo con quanto detto da Decrescenzo su “La Progenie”,ma il finale aperto,troppo aperto mi ha lasciato di sasso.Inoltre in alcune parti la scarsa originalità del plot un pò pesa.Pur essendomi piaciuto io gli ho preferito “Baltimore” di Christopher Golden e Mike Mignola.
Se altri partecipanti alla discussione hanno letto “La Progenie” e “Baltimore” non sarebbe male sentire anche la loro opinione.

Postato giovedì, 29 aprile 2010 alle 18:49 da Francesco Moretta


Caro Paolo, nel caso da te citato, peraltro foriero di un testo di incomparabile surrealismo, mi sa che nemmeno siamo di fronte alla sparizione di buoni traduttori e degli editor, ma alla comparsa della figura dell’Editore Non Leggente. Se la si accoppia a quella dello Scrittore Non Leggente, manca soltanto il Lettore non Leggente (figura che ci contagia tutti quando dopo due righe di lettura ci addormentiamo senza dormire per risvegliarci un capitolo dopo chiedendoci: cosa ho letto?). Dopodiché basterebbe vendere le copertine, che in compenso sono fatte sempre meglio, perché essendo veste del prodotto, devono quanto meno spiccare, a meno che non si scelga provocatoriamente (anche questo è stato fatto) di lasciarle bianche e decorate unicamente (al centro e in bella vista) con il Codice a Barre.

Postato giovedì, 29 aprile 2010 alle 19:50 da Gianfranco Manfredi


Nel frattempo è arrivata l’ora di cena, la mia signora è tornata a casa e mi ha recapitato sulla scrivania due nuove corpose opere del New Italian Cepu fresche fresche dalla cassetta della posta.

Postato giovedì, 29 aprile 2010 alle 19:53 da Gianfranco Manfredi


@ Paolo De Crescenzo
Caro Paolo, sulle traduzione è stato attivato questo forum (che peraltro è ancora attivo): http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/12/23/il-difficile-ruolo-dei-traduttori-laboratorio-d/
Si tratta di un post nato come dibattito sulle traduzioni e sul ruolo dei traduttori (che, come dici tu, è importante)… poi trasformatosi in una sorta di laboratorio di traduzioni amatoriale.

Postato giovedì, 29 aprile 2010 alle 22:36 da Massimo Maugeri


Si è parlato di post-hippismo, riflussi vari, sogni decotti, beh è tornata Mary Terror, protagonista del capolavoro di Robert McCammon, riproposto da Gargoyle con una bella introduzione “politica” di Antonella Beccaria.

Postato venerdì, 30 aprile 2010 alle 10:33 da Gianfranco Manfredi


Si vede che quando ci si è ribellati troppo da giovani, poi non si hanno energie che per il Riflusso – come si disse con orribile metafora mestruale. Bentornata Mary Terror… :-)

Postato venerdì, 30 aprile 2010 alle 10:59 da Gianni De Martino


Ho comprato Mine (cioè Mary Terror) a Los Angeles nel 1989, ero là per un disco del mio amico e collega Ricky Gianco, in particolare per girare un video on the road di una sua canzone, reincisa con musicisti americani. 1989 vuol dire dieci anni dopo il riflusso. Mary Terror mi riportò indietro. La protagonista è una povera ex-giovane, completamente schizzata, che rimpiange il leader della sua vecchia banda armata di appartenenza, che somiglia molto ai Weathermen. Il romanzo è tutto outdoor, un pazzesco inseguimento della folle Mary da parte di una poliziotta post-femminista. Su questo forum, mi è capitato di buttarmi nell’apologia dell’essere fuori. Mary Terror ricorda però, in modo più che ansiogeno, di come l’essere fuori possa convertirsi da sogno di liberazione a un viaggio oltre l’ultima porta dell’incubo. Non è lettura per buonisti.

Postato venerdì, 30 aprile 2010 alle 11:37 da Gianfranco Manfredi


@ Gianni. Hai scritto in questi ultimi giorni delle pagine molto belle sull’atto e sul senso dello scrivere. Ieri sera mi sono visto un film sugli anni 50 e la nascita del blues-rock nero. La sostanza del film è che il fare musica nella generazione dei baby-boomers origina da radici blues, cioè si suona e si canta dal dolore. Anche quando Little Sixteen di Chuck Berry viene vampirizzata dai Beach Boys per l’evasivo e allegrone Surfin’ in the USA, questa radice di dolore fa la differenza tra il vissuto e la plastica. Di fronte a un romanzo come quello di McCammon, non si può non avvertire, che al di là dei meccanismi di genere, della sapienza tecnica, dei colpi di scena a manetta, quell’autentico che scaturisce dal dolore, è ciò che da senso alla scrittura, ciò che rende diverso un romanzo da una macchinetta narrativa.

Postato venerdì, 30 aprile 2010 alle 11:50 da Gianfranco Manfredi


Il testo di Hey Jude dei Beatles ( take a sad song and make it better) è una terapia anti-depressione, ma il lato oscuro della fine del settanta propose qualcos’altro: il ritorno della retorica (sogno di una nuova famiglia, un neonato che ti trasforma la vita, il senso del possesso dopo tanto e forse troppo darsi) sotto una veste delirante e mostruosa. Come prendere una canzone da spiaggia o addirittura country e sprofondarla nell’allucinatorio.

Postato venerdì, 30 aprile 2010 alle 11:56 da Gianfranco Manfredi


LA MOSSA DEL CAVALLO
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… Hey, Jude, don’t make it bad/ Take a sad song and make it better/Remember to let her into your heart/ Then you can start to make it better… E’ su queste note che dal fondo dell’oblìo risuona una dimensione affettiva del tempo. La deflagrazione « allucinatoria” viene dal passato, dall’essere nati e dall’aver conosciuto l’influsso, il riflusso e l’impasse. Credi di essere arrivato in uno dei soliti vicoli ciechi dell’Universo ? Presto, fuori da questa buca – se non vuoi diventare come quei tuoi compagni con l’ago nella pancia in qualche cesso insanguinato , rischiarato d’irrealtà ; oppure finire nel deserto, libero di contemplare il mistero del Forno, ma afflitto dal vizio della chiaroveggenza. Più che ardere senza bruciare in questo famoso abisso e ungerti d’olio come una cartolina illustrata da spedire agli amici da « laggiù », dal deserto, forse ti occorrerebbe un altro desiderio, più alto e più veloce della morte abituale. E direi proprio uno scarto, un’impennata di lingua. Qui, nero su bianco, la tipica “Mossa del cavallo”. E però corri, corri se non vuoi diventare una vecchia tartaruga, sia pure tutta rifatta e lampadata come un giovane – non fosse che per evitare il famoso crollo verticale. Non si tratta solo di qualche ruga, e neanche di qualche depressione come conseguenza del rigetto del desiderio, ma del passaggio della caduta all’origine dell’umano, come conseguenza essenziale dell’apparizione dell’immaginario nello psichismo umano. Be’, caro Lucifero, non è roba da poco.
Gilles Deleuze, al seguito di Proust, afferma – con un andamento non a caso a zig zag – che lo scrittore decisivo: « inventa nella lingua una nuova lingua, una lingua, in qualche modo, straniera. Scopre nuove potenzialità grammaticali o sintattiche. Trascina la lingua fuori dai solchi abituali, la fa delirare. Ma il problema di scrivere non si scinde nemmeno da quello di vedere e sentire: in realtà, quando nella lingua si crea un’altra lingua, è l’intero linguaggio che tende verso un limite “asintattico”, “agrammaticale”, o che comunica con il proprio esterno. Il limite non è al di fuori del linguaggio, ne è il di fuori: è fatto di visioni e audizioni non linguistiche, ma che solo il linguaggio rende possibili. Ci sono quindi una pittura e una musica proprie della scrittura, come effetti di colori e di sonorità che s’innalzano al di sopra delle parole. È attraverso le parole, in mezzo alle parole, che si vede e si sente. Beckett parlava di “fare buchi” nel linguaggio per vedere o intendere “cos’è nascosto dietro”. Di ogni scrittore bisogna dire: è un veggente, un audiente; “mal visto mal detto”; è un colorista, un musicista. Queste visioni, questi ascolti non sono una faccenda privata, ma formano le figure di una Storia e di una Geografia continuamente reinventate. È il delirio che le inventa, come processo che trascina la parola da un capo all’altro dell’universo. Sono eventi alla frontiera del linguaggio. Ma quando il delirio ricade allo stato clinico, le parole non sboccano più su nulla, non si sente e non si vede più nulla attraverso di loro, tranne una notte che ha perso la sua storia, i suoi colori e i suoi canti. La letteratura è salute».” ( G. Deleuze, Critica e clinica, trad. it. A. Panaro, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1996, p. 11).
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La letteratura apre e richiude i buchi. E – proprio come fa la morte – la scrittura ci mantiene giovani e fa di noi degli stranieri. … Hey, Jude, don’t make it bad/ Take a sad song and make it better/Remember to let her into your heart/ Then you can start to make it better… O anche, come cantavano i Figli di Lucifero : « Papà, la nostra bambina se n’è andata / Come ha potuto farci una cosa simile ? ».
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Colonna sonora:

http://www.youtube.com/watch?v=BD3ovfZXO5Q
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Nella scrittura « morte » e « vita » hanno uguale durata. Per scrivere non bisogna viaggiare. Per quella « e » riuscirai a riprendere qui tutto quello che è perso ? Un folle lavoro : rimembrare l’universo. E accorgersi –senza sprofondare nella depressione o la clinica – di non essere il creatore. Non si può che scrivere secondo la legge. E, sia pure tra rivolta e obbedienza, consentire a che la Cosa inaudita possa farsi strada attraverso il linguaggio per dire, ridire che – al limite – dove il pensiero crea l’abisso, Amore ( benchè sembri parola banale, se non banalizzata), uscendo dalla tomba vuota lo scavalca.
Ancora e sempre immagine ? Non tutto passa per il linguaggio. Se non fosse per un venticello gentile che soffia tra le maglie della rete vuota, non resterebbero che occhi, muffa e il solito mare di pus. E’ difficile, quasi impossibile, fare un salto fuori dal proprio destino – senza sapere più verso quale culla voltarsi, verso che bara andare a riposare. E soprattutto verso che cosa correre o non correre. A che serve maledire ? Lo dice anche la Scrittura : “le benedizioni annullano le maledizioni”. Perciò, sfidando l’afasia e tendendo le mani per altro che per prendere, benediciamo in cuor nostro se qualcuno ci canta, ancora una volta, una di quelle stupide, vere e immortali canzoni d’amore. E che non sia una faccenda privata, ma la ripresa di una storia possibile, o anche impossibile, a insistere per una sua risurrezione futura.
A parte i fantasmi e le immagini, abbiamo qualcosa o qualcuno che venga dal presente o da un futuro emancipato dal tempo ?
Per quanto il soggetto del desiderio dell’inconscio, possa sembrare, in numerosi casi, insopportabile ai vampiri, un umile resto di terra – in noi ancora per poco umani, se non cristiani – non ha mai smesso di cantare la sua fame e sete di gioia, se non di fragile felicità.
E’ quello che dicono tutte le vere e stupide canzoni d’amore. E sospira anche la speranza, tenace, come le “erbacce” che crescono nei cimiteri – erbe che crescono, e quasi cospirano al sole o sotto la luna, anche ai bordi dei campi di sterminio, ma che l’alingua chiama “erbaccia”, forse solo perché non ne conosce ancora le virtù.
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P.S. Non ditemi che qualcuno si è fatto una canna, slacciando le cinture e ascoltando Hey Jude dei Beatles. “Hei, nonno, ancora qui tra i vampiri, a sbavare sullo spinello?” :-)

Postato venerdì, 30 aprile 2010 alle 22:38 da Gianni De Martino


Hey Jude? Hey Juuude?
Ah… si chiamava così?
http://www.youtube.com/watch?v=wREu95qLnfA
:)

Postato venerdì, 30 aprile 2010 alle 23:04 da Massimo Maugeri


UAO ! Grazie Massimo.
:-)

Postato sabato, 1 maggio 2010 alle 11:42 da Gianni De Martino


… Ascoltateli. [ride, sardonico] I figli della notte… quale dolce musica emettono. (Dracula)

Postato sabato, 1 maggio 2010 alle 11:51 da Gianni De Martino


Grazie a te, Gianni.
Secondo me Gianfranco, dopo aver visto e ascoltato il video di cui sopra, ha fatto harakiri con un paletto di frassino. :)

Postato domenica, 2 maggio 2010 alle 10:18 da Massimo Maugeri


Non c’entra perchè fa parte dei gusti personalissimi, ma io i Beatles non li ho mai amati: tra le band di quegli anni, preferisco di gran lunga i Kinks di Ray Davies.
Anche se in questi giorni sto vivendo in mezzo al White Album perchè scrivo un horror in cui co-protagonista è Charles Manson (e nella strage di Bel Air quel disco contò molto, con i deliranti messaggi che arrivavano a Manson, solo a Manson)

Postato domenica, 2 maggio 2010 alle 12:45 da luciano / idefix


Sono fuori, nel senso di non ancora rientrato a casa e scrivo da un altro PC. Caro Massimo, complimenti per il gruppo. La cantante è da sturbo (ah, le fossette!) altro che la Aniston! Perfetta testimonianza di come gli Incontri del Primo Tipo siano preferibili a quelli del Terzo ( quelli del secondo mi mancano, perchè ciascuno ha le sue lacune). Tornando alla canzone, il verso chiave per me è : don’t carry the world upon your shoulders cioé l’esatto contrario di La Storia siamo noi. Riversandoci in storie (da scrittori) è bello quando sentiamo che la storia va per conto suo e non ci pesa addosso.

Postato domenica, 2 maggio 2010 alle 14:51 da Gianfranco Manfredi


Il che ricorda un altro capolavoro psichedelico: “Finché la barca va, lasciala andare, finché la barca va, tu non remare”

Postato domenica, 2 maggio 2010 alle 15:01 da Gianfranco Manfredi


Legge di navigazione di Dracula. Primo: eliminare equipaggio.

Postato domenica, 2 maggio 2010 alle 15:52 da Gianfranco Manfredi


CERCASI VAMPIRI DA IMBARCARE
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« Voi, spero, mi scuserete se non mi unisco a voi, ma ho già cenato e non bevo mai… vino » ( risposta di Dracula all’invito dell’equipaggio di fare un brindisone in bella compagnia). OSSERVAZIONE : Si vede che il conte, simile a un invisibile e irriducibile pidocchio, non beve mai vino e non mangia tarallucci ma preferisce il sangue.
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A remare, una volta eliminato l’equipaggio, resterebbero solo i fantasmi o qualche dèmone. BRR! Come dire : « Ahi seRva Italia, albeRgo di doloRe, nave senza nocchieRo in gRan tempesta, non più SignoRa, esemplaRe di inteRe nazioni, ma boRdello! … ». Oppure : « Ma vi rendete conto che il Paese declina ? ». O anche, come quei virtuosi pensionati dall’esagitato gestire : « Ma dooove andremo a finire ? ».
Se Dracula è una specchio vuoto, una volta entrato nella scrittura che mai si chiude, si comporta come quei tipici parassiti alloggiati in questo o quell’angolo della testa. Quando uno di questi venerabili animali della creazione elegge come trono la tua testa e « avvinghia gli artigli alla radice dei capelli, con dignità », non ti resta che grattarti. Grattarti pensando di remare in alto mare…
E’ per questo che Lautréamont associava il vampiro al pidocchio ribelle a Dio e al mondo. E Burroughs, altro sulfureo e indomito agitatore culturale, con garbata ironia chiedeva : « Sterminatore, signora. Le serve il mio lavoro ? ».
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Topi, pidocchi, polipi e, naturalmente, i lupi, veicolano da sempre infezioni e favole inumane. Sarà perché l’Inconscio, come diciamo per tranquillità, specialmente l’Inconscio medio, non è tanto rizomatico e desiderante, ma quasi sempre topesco, pidocchioso e polipesco. D’altra parte è anche vero che ai bambini, che raramente sbagliano, piace molto la favola di Cappuccetto rosso e del vampiro nel letto.
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Il fatto ( « fatto », come si dice nel gergo dei marinai drogati) è che, una volta imbarcato un signor vampiro sulla nave e ai bordi della lingua , occorre che qualche altra forza del di fuori lo scongiuri. Se non bastano le note di una canzone, le tante croci portate sulla gobba e l’aglio fresco, avete provato a telegrafare al professor Van Helsing ?
Ammesso che sia sfuggito all’ecatombe del famoso abisso e del trionfo della notte, saprebbe dirci perlomeno se gli occhi di quei dèmoni brillano, al buio, per odio o per amore ?
Favole umane contendono lo spazio del cuore umano, di quello che ne resta, a favole inumane. Con le parole del poeta : “Tornano in alto ad ardere le favole/Cadranno colle foglie al primo vento./Ma venga un altro soffio,/ Ritornerà scintillamento nuovo ».
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Certo, le canzoni e qualche morso di poesia non salveranno l’equipaggio dalla galera, e nemmeno dai ri-morsi, ma forse potrebbero liberare qualche passeggero perlomeno dalla favola inumana che si annida nella disperazione degli umani – o perlomeno di quello che resta degli umani, dal momento che già sembrano tutti, quasi tutti dei Titani.
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P.S. Occorre un cuore d’acciaio per dire a chi è stato appena morso da un vampiro, che si tratta solo di una tempesta in un bicchiere d’acqua. E che all’orizzonte dell’umanile consueto non si profilano invasioni di pidocchi, di vampiri e di Titani. Forse è la stessa vuota tempesta vista da Shakespeare nella testa dell’idiota. Così, a chi sta per affogare, un povero scrittore, ahimè, non può che offrire, al limite, che un pezzetto di carta assorbente.
Gridare « per piacere ! per piacere ! » ( agitando le mani davanti occhi, come per scacciare uno sciame di vampiri fastidiosi), non è una via d’uscita. Del resto è impossibile non solo uscire da un abisso in cui non si è mai entrati, ma anche da una nave nella quale non ci si è mai imbarcati, neanche come mozzi. Perlomeno così pare. Cercasi vampiri da imbarcare.

Postato domenica, 2 maggio 2010 alle 22:11 da Gianni De Martino


SIGNORINA DEI VAMPIRI
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Salve a tutti,
è da tempo che leggo il vostro forum, ricco di informazioni utili, ma questo è il mio primo messaggio.
Mi presento, sono Tatyana e per soddisfare un mio bisogno ho fatto domanda per adottare un vampiro anche se sono single. Adesso posseggo un vampiro giovane e luccicante di circa 130 anni di taglia media, Tommy.
Purtroppo ieri, al ritorno dal Liceo, mentre cercavo di pulirgli i dentini come faccio regolarmente, mi è scappato per andare a nascondersi sotto il loculo. Non appena l’ho raggiunto ed ho allungato la mano per cercare di farlo venire fuori mi ha ringhiato, ha fatto un po’ il bullo e non mi ha morso, ma mi ha preso tra le forti braccia di diciassettenne eterno e – fissandomi con quegli incredibili occhioni blu – mi ha trasportato un attimino sotto la doccia per farmi uno sciampoo alle erbe.
Non mi morde mai anche se ne ha voglia, tanta voglia. Mai che lo facesse e sono rimasta basita di fronte a questo comportamento del quale, purtroppo, avevo già avuto qualche sentore.
Quando cerco di infilargli il pigiamino e avvicino il collo alle sue belle labbra rosse, pericolosissime, fa una smorfia e non tenta di mordermi, e lo stesso succede quando provo a togliergli qualcosa dalla bocca (dei grumi, coaguli o altre cose che vorrebbe mangiare). Per il resto Tommy è fantastico, dolcissimo, affettuoso,socievole, giocherellone e non mi ha mai dato alcun tipo di problema. Ritrovo in lui tutte le caratteristiche che avete elencato per i vampiri, specialmente quando mi sussurra al chiaro di luna : « Taty, ma io non ho niente di vivo dentro ».
Premetto che non ho mai usato le maniere forti, tipo il Rosario, il clistère e il vibratore con il mio vampiro, qualche sgridata di tanto in tanto e qualche NO secco, nulla di più.
Sto seriamente valutando la possibilità di rivolgermi ad un educatore perchè mi sembra assurdo che un nosferatu non abbia comportamenti carini in quel senso lì nei confronti del padrone, ma vorrei avere anche qualche consiglio da voi.
Cosa fare quando si rinchiude nel suo soggetivismo demonico e non mi si rivolta contro? Come correggere questo difetto? E’ vero che sta per arrivare l’Onda Nera e che è in atto una specie di demoralizzazione generalizzata del vampiro in Occidente ?
Ho sentito di una ragazza sordomuta ma con una figurina graziosa che è riuscita a farsi portare a letto e mordere dal suo vampiro dopo averlo fatto visitare da un educatore, solo che quell’imbranato di vampiro l’ha morsa al volto ed ora la ragazza è senza naso.
Se ne sta tutto il giorno seduta a guardarsi allo specchio e piangere. Ha un grosso buco in mezzo alla faccia che spaventa tutti anche lei stessa per cui non può rimproverare nessuno se non la chiamano a fare la valletta in tv e nessun giovanotto vuole portarla fuori o offrirle una pizza.
Purtroppo Tommy è il mio primo vampiro e non so come comportarmi. E’ vero che non si è mai così indefese come quando si ama un vampiro ? TOMMY ! TOMMY !
A volte ho l’impressione di essere entrata in un ossario, una specie di ciclopica e glaciale caverna, diciamo una specie di obitorio, e di esserne uscita con il nome TOMMY grande grande tatuato sulla gobba.
Dovrei uccidermi, secondo voi ? Oppure frequentare con Tommy un corso di scrittura creativa ? L’Arte non è forse una via d’uscita ?
Ma voi cosa fareste se accadesse lo stesso anche nella Vostra famiglia ?
Grazie a tutti quelli che mi risponderanno. Tatyana

Postato lunedì, 3 maggio 2010 alle 11:12 da Gianni De Martino


E’ Dracula un anti Ulisse? Viene da pensarlo perché liberatosi dell’inutile equipaggio, si abbandona alla Tempesta forse anche dopo averla sollecitata, sicuro che dai flutti del Fato verrà condotto a destinazione e non dirottato di qua e di là, dove non avrebbe voluto andare (o forse sì… davvero Ulisse voleva tornare a casa ? E l’equipaggio non viene liquidato lo stesso? Non si ritrova solo anche Ulisse, alla fine? Non sbarca anche Ulisse sotto mentite spoglie, non proprio in guisa di cane, forse, ma comunque soltanto da un cane riconosciuto?). Altri eroi solcano i mari con altro piglio e carichi di illusioni. Eccone uno: “L’occhio correa sull’onde, e cento prede in balia del corsaro inosservato s’offrian ricche ed inermi, il vil metallo meta non fu degna di noi, ma il santo nome di Libertade”. Versi del Poema Autobiografico di… Sandokan, il Corsaro Nero? No, perché loro, pur Libertari, non disdegnavano il bottino. Versi di Giuseppe Garibaldi. quanto diverso dal vampiro eppure altrettanto seduttivo agli occhi del popolo! Dracula sbarca come cane e sfugge ai controlli della dogana. Dopo lo sbarco, giunge a prelevarne i bagagli il corriere da lui preventivamente fissato (sempre meglio che di queste delicate quanto noiose incombenze si occupi un’agenzia: allo scrittore lo sbarco incognito e inquietante, all’agente letterario il compito di tutelarne i bagagli-feretro). Garibaldi trova invece all’approdo orde di austriaci in armi. E allora: “Scendete e disarmate quei felloni” Io dissi a’ miei compagni, al limitare di Cesenatico. E siccome lampo, furono presi e disarmati i pochi sgherri dell’Austria…” Sembra facile, “preludio non disprezzabil di salvezza” , si guadagnano nuovi legni per infiltrarsi nelle Lagune, ma “la fortuna intanto non cessò di esser ria. Un temporale l’onda infuriò dell’Adrio e nell’angusta foce i marosi accavallati e infranti, ostinata barriera a’ perseguiti, spumeggianti innalzavan. E la fune de’ ferri, infranta, alla balìa dell’onde ributtava i bragozzi e il perigliante de’ miei compagni pugno alla mercede dell’Austro numeroso e non lontano. Ad altra strage era serbato il fido de’ superstiti nucleo!” Contro la Storia e contro la Natura e contro il Fato combatte l’Eroe e sta in questo combattere non in una Terra la sua libertà. I compagni son sempre più nucleo, l’amata Anita non scampa alla febbre, tutto pare perduto fuorché l’onore. Dracula, condottiero di eserciti un tempo, non conosce più onore: il Principe delle Tenebre sbarca come cagnaccio bastardo e corre a rifugiarsi nel primo anfratto in attesa del proprio agente con bare in dote (e poi non lamentarti se finisci drogato come Elvis e come Michael e il tuo vil metallo resta all’agenzia). Dal canto suo Ulisse recupera i beni e la moglie e mostra la sua forza anche da vecchio e scaglia frecce infallibili, e si guadagna talamo e trono, mentre suo figlio lo sta ancora cercando in giro per il mondo. Ma il vero finale ce lo racconta padre Dante: Ulisse si rompe le palle a corte, e dunque … alle onde, alle onde… o anche: “Onda su onda il mare mi porterà alla deriva, in balia di una sorte bizzarra e cattiva… onda su onda, mi sto allontanando ormai…
la nave è una lucciola persa nel blu… mai più mi salverò…” E chi l’ha detto? Un Conte (il Conte Paolo) prospetta esito diverso al suo Ulisse: “Onda su onda il mar mi ha portato qui: ritmi, canzoni, donne di sogno, banane, lamponi… onda su onda, mi sono ambientato ormai…
il naufragio mi ha dato la felicità che tu non mi sai dar…” E Ulisse si ritrova Marlon Brando dopo l’Ammutinamento del Bounty. Quante navigazioni! E il Diario di bordo, la scrittura fissata, si imprime al contrario sulla carta assorbente, finché un estraneo trova quel vecchio tampone su una bancarella antiquaria, e quei segni confusi e sovrapposti… qualcosa vorranno pur dire e una qualche memoria del viaggio saranno pure !

Postato lunedì, 3 maggio 2010 alle 12:01 da Gianfranco Manfredi


I vampiri de “La progenie” citata da Paolo De Crescenzo mi sembrano un mix tra i Langsuir malesi, che succhiano il sangue dei bambini attraverso un’apposita fessura situata alla base del collo, e lo Yara-ma-yha-who,
vampiro originario del folklore aborigeno che, cosa insolita, non ha denti ma succhia il sangue alle sue vittime mediante delle potenti ventose su mani e piedi. E perché no, anche un po’ Alien…
Concordo sulla questione traduzione: ho da poco finito di leggere uno degli ultimi di James Patterson “Ultimo avvertimento” e ho trovato la traduzione davvero scialba, con diverse ripetizioni… Ma il termine è proprio quello: scialba.

Postato lunedì, 3 maggio 2010 alle 12:08 da Simonetta Santamaria


@ a Tatjana. Se ti ha deluso Tommy, puoi sempre provare con The Rocky Horror Picture Show. Si replica ad libitum e si recita all’unisono con gli attori.

Postato lunedì, 3 maggio 2010 alle 12:09 da Gianfranco Manfredi


Forse anche nel campo dei nomi, in un qualche modo c’entrano i vampiri.
Mia moglie (cittadina italiana nata e vissuta a Trieste ma di madre lingua slovena) si chiama Tatjana.
E (se posso suggerirlo) il suo nome è meglio scriverlo con la J e non con la y.
Comunque sia, da dove nasce?
Ha origini antiche, di origine sabina e precisamente deriva da “Tatianus”, cioè “figlio di Tatius”.
Il nome Taziana non era per nulla diffuso in Italia perchè (obiettivamente) brutto e sgraziato, dal suono “barbarico”.
Invece, da qualche anno è diventata di moda la bellissima forma russa “Tatiana”, più vicina all’originale nome latino. e soprattutto dal suono assai più dolce e musicale dell’infelice nome italiano (che è stato vampirizzato e annientato dai suoi lontani avi).
Insomma, forse anche nel campo dei nomi, in un qualche modo c’entrano i vampiri.

Postato lunedì, 3 maggio 2010 alle 12:11 da luciano / idefix


@ Simonetta. “Ultimo avvertimento: la traduzione è scialba”. Il titolo era questo, ma la seconda riga è saltata causa scarsa cura editoriale.

Postato lunedì, 3 maggio 2010 alle 12:12 da Gianfranco Manfredi


Gli intrecci si fanno spasmodici. La moglie di Luciano, sabina mascherata da slava, sedotta dai post di Gianni, lo contatta sotto le mentite spoglie di vampira dell’est. La ciurma distratta sta intanto cantando Hey Jude mascherata da “patetica ex di Brad Pitt” (a giudizio di Pitt stesso del quale è lecito dubitare essendo un “bastardo senza gloria”). Il vascello naviga “sul fondo di una vasca da bagno verso le piattaforme provvisorie”, per nocchiero un traduttore malaccorto che usa il pilota automatico. Ritto sul ponte di comando, Patterson scruta uno scialbo mare con scialbo occhio. Tommy, il mozzo di bordo, sta leggendo Twilight, in cui la traduzione è un optional dato che il basic english lo capiscono tutti. Dracula già sbarcato e in incognito, non si è ancora pronunciato sul dilemma: “stante l’accoglienza della Regina Vittoria che m’accusa di spargere la peste, è il caso che io mi fermi in Inghilterra o non sarebbe più provvido riprendere il viaggio e sbarcare in paese più accogliente?” Non può d’altro canto andarsene finché il suo agente non gli riporta i bagagli o li trasferisce su nuovo vascello verso nuovo Impero. Tutti attendono il verbo del Principe e la sua inappellabile decisione, ma sarebbe forse consigliabile chiedere responso all’agente. L’Ultimo Avvertimento di Patterson (“Occhio, puntiamo diritti sugli scogli!”) risuona storpiato dalla traduzione e tutti intendono: “Calma piatta”.

Postato lunedì, 3 maggio 2010 alle 13:05 da Gianfranco Manfredi


Dracula è incolpevole se l’onda nera , frutto di oculata programmazione industriale, guadagna le spiagge. La BP giura che pagherà i conti. Dracula ne dubita perché non ha mai ricevuto stipendio da alcuno.

Postato lunedì, 3 maggio 2010 alle 13:35 da Gianfranco Manfredi


Pare anche in questo strano lunedì post-Primo Maggio, che i talebani abbiano rivendicato attentato, peraltro non riuscito, contro la serie televisiva South Park (i nostri Buddha, è noto, sono a cartoni animati). Turista venuto da Seattle, scampato per un pelo all’esplosione, sosta alle transenne per fotografare gli artificieri ed esclama: “Uno show così vale più del biglietto da 150 dollari per Mary Poppins.” Si sta davvero scrivendo Grande Letteratura. Si odono già echi di applausi dei posteri.

Postato lunedì, 3 maggio 2010 alle 13:45 da Gianfranco Manfredi


Avevo promesso intervento riassuntivo sulla Famiglia. Eccolo:

LA FAMIGLIA CULLEN
Nasce Senza Famiglia, il vampiro moderno. Di discendenza dinastica, era l’ultimo sopravvissuto di una stirpe. Single, randagio, bohémien. Immune da qualsiasi tentazione di normalità, non aspirava a farsi una famigliola, casomai un harem di vergini succubi. Nemmeno venne tentato dalla Famiglia Mostruosa, che lasciò volentieri al culto sprecone del desco dei cannibali di Texas Chainsaw Massacre. Al massimo scelse di andare a caccia con un piccolo clan di affini come il Lestat della Rice o i Near Dark della Bigelow, e incontrando sempre delle difficoltà nel condividere le prede, perché individualista ed egolatra depresso era e restava. Dai sonni vampirici dei primi novecento, si è risvegliato però all’alba del nuovo millennio, un inedito vampiro di innocua apparenza: Edward Anthony Masen Cullen. Fa impallidire ogni adolescente bamboccione di umana stirpe, restando in eterno imprigionato in corpo di diciassettenne. Ha un paio di lauree (ottenute in segreto), ma ufficialmente è un ripetente coatto, perpetuo liceale fuori corso. E’ stato adottato da un medico vampiro (Carlisle Cullen) il quale essendosi così dotato di figlio, ha pensato poi bene di dotarsi anche di moglie cui sbolognare il figlio stesso, e dunque ha vampirizzato altra comatosa ospedalizzata (Esme) per farne la sua signora. Si diventa madri dopo che il marito si è già provveduto di figlio, nella famiglia Cullen. Il sagace Carlisle, forse turbato dall’eterna adolescenza asessuata del pargolo, decide in seguito di procurargli una compagna e vampirizza allo scopo una povera ragazza stuprata e seviziata fino alla morte (Rosalie), sposa davvero ideale per Edward, il quale però la preferisce come sorella (tabù dell’incesto risolto al contrario: fai della Promessa Sposa tua sorella). Di adozione in adozione la famiglia cresce (Jasper, Alice, Emmett). Si sperimenta la strada, già battuta, del gruppo di caccia, con nuove regole politically correct. I Cullen si proclamano “vegetariani” in quanto sbranano esclusivamente animali. Tra umani si trattarebbe di carnivori, ma i vampiri vivono d’ossimoro, e dunque tra loro il vegetariano è un carnivoro. Non si alimentano di polli d’allevamento, per carità, ma di belve feroci, con un unico limite: che si tratti di esemplari in eccesso e in esubero. Nessuno gli fa osservare che tra le specie animali quella più in esubero è costituita dagli umani stessi, in questa epoca di sovrappopolazione e di sovradisoccupazione. Ma vuoi mettere tra il dare la caccia all’uomo (ormai pratica volgare e noiosamente seriale) e la caccia al puma? Nessuno fa notare altresì che non risulta siano i puma specie in esubero, caso mai da proteggere dall’estinzione, ma tant’é , una giustificazione morale e dunque anche ipocrita, è di prammatica. Colpo di scena: Edward finalmente si innamora (ci ha messo davvero un secolo!) , conduce l’umana in famiglia, inconsapevole del fatto d’averla presa in leasing dalla Bestia (eppure avrebbe dovuto accorgersene visto che si chiama Bella, ma Edward non brilla per acume e gli studi scolastici, per quanto ripetuti, non sembrano aver lasciato traccia alcuna in lui). Presenta Bella ai genitori e compone per lei una ninna nanna come canzone d’amore, il che non promette bene per la prima notte, né per le successive. Non c’è da stupirsi se si separano, per poi cadere entrambi all’istante in depressione grave, che sarebbe assai più lieve se si fosse depressi in due. Tornano così a deprimersi a vicenda e lei resta incinta al primo colpo, se no non sarebbe un’unione fortunata. La gravidanza è difficile, perché già un normale feto ha un che di parassitario, ma se il feto è vampiro, la povera madre è destinata quantomeno a “complicanze”. Difatti Bella rischia la morte per parto, se non fosse che Edward si decide (era ora) di vampirizzarla. L’esito è che si ritrovano in tre non-morti: Edward, Bella e Renesmee (nome attribuito alla neonata neomorta, da genitori in evidente stato confusionale). Riassumiamo l’inquietante metafora. Tra famiglia dinastica (che non c’è più da secoli), famiglia naturale disdegnata o crollata sua sponte, famiglia elettiva (il clan) in permanente conflitto intestino, la stirpe vampirica sceglie come modello di famiglia l’adozione vicendevole. Si nutrono di belve feroci da sfrondare in omaggio a un dubbio equilibrio ecologico (peraltro amano anche le auto sportive, e in ogni caso non si può chiedere rigore etico assoluto a un vampiro). In famiglia, gli adolescenti ritardati sono in soprannumero. Non gli è chiarissimo cosa ci trovino di tanto interessante gli umani nello scopare come forsennati. Intuiscono si tratti di una scappatoia dalla depressione nella quale loro (i giovani vampiri) invece sprofondano non per scelta, ma per condizione e dunque tanto vale farsela andar bene. Paternità e maternità paiono loro cose assai confuse e comunque l’accoppiamento è variabile aggiuntiva e non indispensabile. La gravidanza è esperienza orripilante. Chi ne esce bene, ne esce non-morta. Felici? Non si sa, si resta in attesa della prossima puntata, anche se corre voce che la storia ricominci da capo, stavolta non più narrata dal punto di vista di Bella, ma da quello di Cullen che non sarebbe vampiro se non si mettesse a riscrivere il già scritto. Che dire? Molti critici considerano i romanzi della Meyer “edulcorati”. Non ne sarei tanto sicuro considerato l’ideale di famiglia che propongono. Sono per certi versi anche la chiusura del cerchio. I veri vampiri (i vampiri storici) nascevano infatti in famiglia e alla famiglia tornavano per chiedere fiato e sangue che li riscaldassero (“Ho freddo”) nella tomba. Incapaci di separarsi dalla famiglia anche da morti, vi ritornavano per portarsi dietro la parentela nell’oltretomba, unico luogo possibile di riunione. Ma si direbbe che ormai con la famiglia, sia sparito anche l’oltretomba. Pare che unico possibile nucleo ri-fondante sia quello dei reciprocamente adottati. Unico orizzonte di non-vita, una comune condizione depressa da eterni adolescenti immemori dei secoli trascorsi.

Postato lunedì, 3 maggio 2010 alle 16:19 da Gianfranco Manfredi


Ciao, sono Tommy, il mozzo di bordo, che sta leggendo Twilight. Come avete fatto a capirlo ?
Ne approfitto per dire che io in queste storie di Famiglia non ci voglio proprio entrare e che non so se Tatyana sia la moglie di Luciano o se ha diritto a qualcosa di meglio.
So solo che mi sta dietro da un po’ di giorni . E che se le dico : « Bella lo sei ancora, Taty », e poi le faccio lo shampoo, è senza sapere perché, forse per paura.
Invece di tenerla per mano al crepuscolo avrei fatto meglio a lasciarla inghiottire dal mare o precipitare in un burrone. Tatyana è troppo brutta e ha una lingua lunga e strana – come si può vedere in questo sketch di scary movie… Qui la Bimba vive in Famiglia e si fa chiamare Dolly ( « Allora come sta ? », « Và sempre peggio, Padre… »).
Troppo forte. Buona catarsi a tutti ! Tommy >
http://www.youtube.com/watch?v=3TSGVIOL744&feature=related

Postato lunedì, 3 maggio 2010 alle 17:17 da Gianni De Martino


Questa m’è capitata sott’occhio per caso…
Preservativo per vampiri: Nosferhatu
:)

Postato martedì, 4 maggio 2010 alle 12:35 da Simonetta Santamaria


Tommy : « Come dice?… come… dice?… Preservativi per spermatozoi vampiri ? Dio, come siamo caduti in basso ! Chissà se dopo quello che lo fatto, Tatyana potrà ancora amarmi… » :-)

Postato martedì, 4 maggio 2010 alle 13:00 da Gianni De Martino


Tommy ( mordendosi la lingua) : “Chissà se dopo quello che LE HO fatto…”

Postato martedì, 4 maggio 2010 alle 13:04 da Gianni De Martino


Scusate se m’intrometto sono la sig.ra Leonarda , la mamma di Tayana e sono molto amareggiata. Sì, perché la bimba è solo leggermente anoressica, usa regolarmente i preservativi nosferhatu e non è quel mostro evocato da Tommy – Tommy il bugiardo dico io e finto mozzo ecco cos’è !
Dopo aver assistito un attimino all’accumulo di parodie e alla sua assoluta mancanza di buon gusto nel paragonare mia figlia Tatyana a quell’indemoniata e quant’altro , mi chiedo se Tatyana vorrà ancora bene a quello là. Ecco cosa capita a innamorarsi di mezzi-vampiri di piccola statura morale.
Dove andremo a finire ? Ma vi rendete conto che il Paese declina ?
Solo questo voleva dirVi una povera mamma amareggiata, ma ora vi devo lasciare, ho da badare ai fornelli.
Non chiedetemi cosa bolle in pentola. Potete leggerlo, se volete, nel mio libro « Confessioni di un’anima amareggiata », scritto nel manicomio di Aversa – dove non so perché vollero portarmi, insieme alla piccola Tatyana, forse per impedirci di regalare saponette di grasso umano ai vicini. Ma questa è un’altra storia. Tanto Vi dovevo a prescindere un attimino per Vs norma e regola.
Distinti saluti,
dev.issima sig.ra Leonarda Cianciulli, mamma ( adottiva) di Tatyana.

Postato martedì, 4 maggio 2010 alle 13:17 da Gianni De Martino


Sul preservativo per vampiri. Secondo la Meyer, le vampire femmine sono sterili, i vampiri maschi no, i loro spermato-zombie ingravidano lo stesso. Così si spiega la figura del Dampyr, figlio di un vampiro e di un’umana. E’ Dampyr anche Anita Blake, l’eroina della Hamilton, che somiglia come una goccia d’acqua, a detta dell’autrice, alla bagnina di Bay Watch Pamela Anderson. Chissà se nel seguito della serie Twilight assisteremo tramite Renesmee a una confluenza tematica delle due serie… sarebbe comunque urgente una campagna per la diffusione dei profilattici tra i vampiri, stanti i risultati della loro inseminazione. Resta peraltro controverso il risultato di un accoppiamento tra una Dampyr e un Vampiro: l’aumento della quota di sangue vampirico, è in grado di mutare una Pamela Anderson in una Angela Merker? E un accoppiamento tra una Dampyr e un umano è destinato a produrre un tifoso della Lazio? Qui lo scibile umano si arresta. Dopotutto, come continua a ripetere Lucarelli, “un mistero per coinvolgerti dev’essere misterioso”.

Postato martedì, 4 maggio 2010 alle 13:52 da Gianfranco Manfredi


Occacchio, ma Anita Blake non è bruna e la Pamelona Tuttetette Anderson biondo platino? Meno male che la Blake è una Dampyr, che se un vampiro azzannasse le tette della Anderson questa se ne volerebbe via come un palloncino…
Il dampyr è, nel folklore serbo-croato, un vampiro di sangue misto figlio di un vampiro e di un’umana (e, immagino, viceversa…). È considerato l’uccisore di vampiri per eccellenza perché, grazie alle sue origini impure, è in grado di vederli anche se si rendono invisibili e li combatte con armi o formule magiche. Il dampyr è dotato di grandi poteri psichici, ha capacità mutanti ed è l’unico vampiro della tradizione popolare a non essere sterile.

Postato martedì, 4 maggio 2010 alle 21:20 da Simonetta Santamaria


Sì è bruna, ma chissà come mai somiglia alla Anderson e ama anche le tutine rosse tipo body, omaggio alla bagnina, suppongo. Siamo sicuri del viceversa? Cioè, le vampire non sono sterili come sostiene la Meyer? E se il Dampyr è l’unico vampiro fecondo, allora sono sterili TUTTI i vampiri di razza pura? Ma allora come fa a nascere un Dampyr? Qui c’è qualcosa che non quadra. Un momento! Passa di nuovo lo spot di Lucarelli: “Un mistero per coinvolgerti dev’essere misterioso.”

Postato martedì, 4 maggio 2010 alle 23:55 da Gianfranco Manfredi


Se il vampiro di razza pura ( e cioè creatura del Diavolo, notoriamente con fallo scaglioso e sperma freddo, secondo le confessioni estorte alle streghe) non ha “niente di vivo dentro”, allora questa creatura dell’incubo ( oltre che della Letteratura) ha bisogno di prelevare sangue e sperma dagli umani.
Quel qualcosa che non quadra nel Vampiro, pare essere, ancora una volta, la Cosa sessuale.
Quanto al ricorrente spot di Lucarelli ( “Un mistero per coinvolgerti dev’essere misterioso”), quel “deve essere” sembra un’ingiunzione del Super-io, che in merito a questioni riguardanti morte & sesso, si pone interamente dalla parte della Letteratura come menzogna necessaria, formidabile strumento di difesa sociale.
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Altro è il cammino della scrittura vivente, attraverso la quale l’inaudito della Cosa cerca di farsi strada, affiorando incidentalmente, per poi essere di nuovo accultata dalla rimozione.
Così, ogni passo avanti nel cammino della conoscenza, richiede un’esposizione a tensioni fondamentali – simile a una navigazione in alto mare, e talvolta a tempeste in un bicchier d’acqua.

Postato mercoledì, 5 maggio 2010 alle 14:13 da Gianni De Martino


Lunedì in tv c’era Voyager (che non guardo mai ma ho fatto un’eccezione perchè il servizio centrale raccontava della presunta morte-sostituzione di Paul McCartney dei Beatles, una vicenda che avevo seguito già quasi quarant’anni fa, da sedicenne).
Una storia strampalata ma dal fascino macabro, che (ricordo) intinse di suggestioni fascinosamente sinistre molte mie serate tra fine Sessanta e inizio Settanta, studiando i testi beatlesiani, le loro copertine, bizzarri messaggi in codice, foto su giornali inglesi e italiani, cento e cento segnali criptici.
E’ forse il lato Beatles che mi stuzzica di più, questa loro horror side che si cela sotto la superficie “bene” e piaciona: va dai nerissimi influssi su Charles Manson alla cupissima leggendona metropolitan-globale su Paul defunto, dall’assassinio di John a tante altre piste disturbanti.
E non mi dispiacerebbe scrivere un vero e proprio romanzo dell’orrore incentrato sui Baronetti.

Postato mercoledì, 5 maggio 2010 alle 15:09 da luciano / idefix


Caro Gianni, hai il raro dono di nobilitare anche gli infortuni. Dire che il mistero dev’essere misterioso è come dire che l’avventura dev’essere avventurosa. Pura tautologia da povertà lessicale. Sarà che come dicono gli studiosi, è dopo i cinquanta che il cervello acquista maggiore ricchezza e proprietà linguistica, tuttavia agli scrittori ( di ogni età) dovrebbe competere quanto meno scansare l’ovvio. Qui non siamo alla menzogna necessaria, quanto alla banalità superflua. Il che riporta alla disinvoltura con la merce e la mercificazione di sé che è purtroppo caratteristica comune di una generazione cresciuta a merendine e TV e che intacca anche persone apprezzabili e di talento. Inutile purtroppo citare “la macchina non trionferà” a chi si vive connaturato alle macchinette. Non capirebbe di cosa si stia parlando… forse di una tempesta in un bicchier d’acqua, appunto. Ma tornando ai vampiri, mi pare significativo questo discorrere di meticciato dampirico, di filiazioni spermatiche in epoca di seme debole (il seme segue il pensiero?) , quando un vampiro aveva il raro privilegio di potersi creare figli, amanti e seguaci con la seduzione pura e graduando l’intensità del succhio (vedi Rice). Peraltro l’attuale Mondo Porno trova innaturale (in quanto poco spettacolare) il “venire dentro” (se non si vede è come se non ci fosse) e che questo compito se lo stiano accollando i vampiri, è come dire che i lavori pesanti finiscono sempre a loro.

Postato mercoledì, 5 maggio 2010 alle 15:16 da Gianfranco Manfredi


Ho tra l’altro notato navigando in rete che sono usciti almeno un paio di porno ispirati a Twilight. Non mi va di vederli avendomi già abbastanza annoiato il film, ma forse chi rimprovera alla Meyer d’aver desessualizzato il vampiro, potrà trovarvi consolazione, sempre che non consideri quanto ci sia di desessualizzante nel porno contemporaneo.

Postato mercoledì, 5 maggio 2010 alle 15:21 da Gianfranco Manfredi


E Luciano… quanto sei buono! Se riesci a ricavare stimoli anche da Voyager, sei addirittura un Santo! Pensa che pochi giorni fa ricevo telefonata da Misteri per un’intervista e incautamente mi dico disponibile. Successivamente vedo la puntata con Raz Degan dalla quale risulta che il Mistero è oggi materia per chi considera prodigioso anche un lampione stradale. Mi asterrò dall’intervista, ovviamente. Ma perché, perché, perché si sprofonda sempre più in basso e ben oltre il fondo del secchio? Presumo ci sia nei telespettatori un Imp of the Pervert , come diceva Poe, un Demone della Perversità, come traduceva Beaudelaire, che spinge a guardare tra l’allibito e il divertito, chiedendosi: riusciranno i nostri eroi ad essere anche più scemi di così?

Postato mercoledì, 5 maggio 2010 alle 15:30 da Gianfranco Manfredi


Gianfranco: non è questione di essere buoni. E’ che a me piace molto cucinare, e in particolare mi piace farlo usando gli avanzi. Il che non significa impiegare roba andata a male ma quel che si trova in cucina, in frigo o in dispensa. Nello stesso modo, le idee mi capita di trovarle nei posti più impensabili e incongrui. Anche in una trasmissione cialtronesca come Voyager. Che (per darti l’idea del livello di sciatteria) racconta della presunta morte di Paul McCartney nel 1967, della sua sostituzione con un sosia, poi fa addirittura il nome del sosia e poi…
…e poi basta: nemmeno una parola su questo sosia. Chi era? Fino al 1967 dove viveva? Come e quando imparò la parte di Paul? Qualcuno lo conosce? E gli altri Beatles cosa dicono?
Insomma una superficialità imbarazzante.
Però anche da questa fetecchia di trattamento (la materia macabra meritava un altro servizio) possono nascere idee.

Postato giovedì, 6 maggio 2010 alle 09:55 da luciano / idefix


Hai visto l’imitazione che fa Crozza di Cacioppo? Voyager è ribattezzato Cazzenger. Questo tipo di trasmissioni sono state inventate in America e giocavano volutamente sul filo del cialtronesco, ma con stile pop. Una delle più seguite era condotta da Dan Akroyd. Trattava preferibilmente di case infestate da fantasmi. I filmati erano ben fatti. Il farlocchismo era evidenziato dai soliti filtri azzurri e dai controluce, volutamente artefatti. Il modello opposto era (ed è) quello della BBC : documentarismo classico, estremamente ben curato e con ricostruzioni impeccabili. Notevole ad esempio lo special su Elizabeth Bathory. Ora: tolto l’umorismo all’americana e mai pervenuto il documentarismo british cosa resta? Prove di propaganda dell’insensato allo stato puro, per la serie: se credono a questo allora si bevono tutto. Non è dunque un mistero inspiegabile se Cacioppo è stato nominato vicedirettore di Rete.

Postato giovedì, 6 maggio 2010 alle 10:54 da Gianfranco Manfredi


La storia di Paul morto e sostituito è stata inventata da Paul stesso che ci teneva sempre a distinguersi dagli altri beatles per fare il paraculo. E’ una tipica burla pop dell’epoca. Poco prima un’altra aveva fatto il giro del mondo. Sul Berkley Barb, rivista studentesca californiana, era apparsa la notizia che le banane contenevano una sostanza psicotropa. Nonostante fosse evidente che si trattava di una burla, nell’intero mondo (Italia inclusa) si diffuse per breve tempo la pratica di farsi le canne con la buccia delle banane. Anche più divertente la notizia apparsa sul Barb, secondo la quale i cinesi (o i giapponesi, non ricordo) si stavano convertendo in massa all’ebraismo, per bilanciare il fatto che un numero crescenti di ebrei newyorkesi stava diventando buddista. Dallo stesso ceppo nacque in seguito la leggenda metropolitana dei coccodrilli bianchi nelle fogne di New York. Tutto ciò origina dal celebre falso radiofonico di Orson Welles sull’invasione marziana. L’obiettivo non era dimostrare quanto fosse credulone il popolo, ma prendersi gioco della pretesa credibilità della stampa e dei media. In Italia questo stile venne ripreso dal Male, fino al capolavoro satirico “Ugo Tognazzi capo delle BR”. Tutto finì con le finte teste di Modigliani, dopodiché non si è più vista più alcuna burla degna del nome. In epoca propagandistica, in cui l’invenzione della notizia è diventata un must, l’ironia doveva per forza essere azzerata. L’idea delle Armi di Diffusione di Massa nascoste da Saddam venne costruita con la stessa tecnica, ma non certo per il gusto della beffa. Ma anche la propaganda anti-bush con le ricostruzioni complottistiche dell’attacco alle Torri, ha mostrato la stessa filigrana (anche se dagli esiti assai più innocui) . Quando propaganda e anti-propaganda si scontrano, per la tenera, gentile ironia, hobby giocoso dell’intelligenza, non c’è più spazio. E Paul è morto davvero.

Postato giovedì, 6 maggio 2010 alle 11:37 da Gianfranco Manfredi


Piccolo episodio autobiografico. Ho smesso di collaborare alla rivista Re Nudo, quando Andrea Majid Valcarenghi decise di pubblicare la nota foto del fumo dalle torri che si diceva avesse disegnato nell’aria il volto del demonio, unendovi un editoriale in cui si sosteneva che Bid Laden era il volto del Male Assoluto e che l’attacco alle torri era stato previsto da Nostradamus. A quel punto era evidente che ogni traccia della controcultura underground si era ormai persa.

Postato giovedì, 6 maggio 2010 alle 11:52 da Gianfranco Manfredi


Anche a me piace riciclare parole e cose. Ricordo che quando vivevo a Essaouira, in Marocco, raccolsi sulla spiaggia una vertebra di cammello e ci feci un portacandela ( le notti sull’Atlantico erano umide e ventose e la luce della candela proiettava ombre sulle pareti della stanza… – Questo ricordo l’ho preso dal bidone della spazzatura della mia infanzia underground ? )
Non so perché mi piace riciclare parole e cose. Forse a muovere alla scrittura è uno strano sogno di riparazione, recupero, integrazione.
In ogni caso, non occorre essere scrittori in crisi – o falsi detective come Daniel Quinn, il protagonista di « Città di vetro » – per sapere che avanzi, materiali di scarto e rifiuti sembrano colludere creativamente con l’Inconscio, in particolare con la parte « ombra ».
E’ quello che dicono anche psicoanalisti e psicopompi diplomati… Mi viene in mente Ferdinand, il personaggio del « Paese delle ultime cose » di Paul Auster, quando utilizza de ossa e il cranio di un topo per fabbricare una navicella, una specie di goletta pirata ( « Era un piccolo capolavoro, devo ammetterlo, anche se provavo ribrezzo a guardarla »).
Talvolta si ha l’impressione, quasi la concreta percezione, di dover scalare una montagna di rifiuti – prima di godere di un attimo di serenità.

Postato giovedì, 6 maggio 2010 alle 12:07 da Gianni De Martino


le ossa e il cranio di un topo
IN LUOGO DI
de ossa ecc.

Postato giovedì, 6 maggio 2010 alle 12:18 da Gianni De Martino


Però mi pare che la storia della morte di Paul abbia un suo fascino macabro ben costruito: molti degli indizi sono coerenti e ben disseminati e poi la leggenda si è autoalimentata. Penso (nel mio piccolissimo) al me sedicenne che attorno al ‘70 subiva l’attrazione di quell’enigma cupo. Che cozzava con la superficie colorata e giocosa dei Beatles.
Ripeto: da questo punto di vista, trovavo (e trovo) più e stuzzicanti sinistri loro dei Rolling.
SULLE BANANE PSICOTROPE: io conoscevo una versione leggermente diversa (mai provata perchè in vita mia ho fatto solo tre spinelli e basta). E cioè la parte “psichedelica” del frutto sarebbe solo il filamento bilancastro tra la polpa e la buccia, da fumare dopo averlo tostato in forno.
Ma anche qui trattasi di leggenda, nemmeno metropolitana ma provinciale.

Postato giovedì, 6 maggio 2010 alle 12:26 da luciano / idefix


Il miglior modo per fare una profezia è scrivere un po’ di affermazioni a casaccio, preferibilmente con molti numeri. Poi aspettare che succeda qualcosa di eclatante e a quel punto inquadrare l’avvenimento nella nostra profezia.
In sintesi: il miglior modo per fare centro è scagliare la freccia e poi tracciarle intorno il bersaglio.

Postato giovedì, 6 maggio 2010 alle 12:30 da luciano / idefix


La leggenda delle banane fu tutt’altro che provinciale. Prima della sua diffusione in Europa , dopo la pubblicazione della falsa informazione sul Barb, non si trovava più una sola banana a san Francisco. Al mito della banana psichedelica dedicò un celebre quadro Andy Wharol scelto per la coprtina del LP dei Velvet Underground. Nella direzione del Barkeley Barb si discusse a lungo sull’infezione prodotta dalla diceria, che non era tra l’altro opera della redazione, ma di un corrispondente esterno in vena di burle. il Barb era un giornale molto serio. Si usavano volentieri disegni “acidi” e citazioni surreali (ad esempio da Carroll), ma la “falsa notizia” metteva in pericolo la credibilità del giornale. La parte più politica della redazione sosteneva che la contro-informazione dovesse distinguersi dalla satira , altrimenti si sarebbe imboccata la strada del falso contro falso. Scelta che di fatto, la Rete pare aver irradiato. Quando Diario di Deaglio ha pubblicato un’ampia e dettagliata ricostruzione dei falsi , prodotti in Rete, ad opera dei cosiddetti teorici del complotto, è stato sommerso da lettere di protesta di internauti che accusavano la redazione di essere passata dalla parte del nemico. Eppure questo discrimine critico va mantenuto. Ultimamente , forse per troppa celebrità televisiva, anche Travaglio sta sempre più mescolando contro-informazione e satira, in modo rischiosissimo, perché l’intento fin troppo esibito di “far ridere” (vedi il recente articolo su Il fatto a proposito della vicenda Scajola) riduce a cabaret fenomeni che andrebbero analizzati con ben altra severità ( si apprende oggi che tra i beneficiari di regali di Anemone ci sia stato anche Pupi Avati, che ha fama di brava persona, il che dovrebbe costituire materiale di inchiesta giornalistica su come l’italico costume delle regalie sia assai più diffuso di quanto non si pensi. Ci siamo dimenticati dell’esercito di giornalisti e consulenti vari regolarmente beneficiati di regalie da parte di case discografiche e altri soggetti privati, oltre che Comuni, Regioni e Istituzioni varie? ). La stessa satira italiana aveva un tempo obiettivi più alti. La nostra commedia all’italiana prendeva di mira figure sociali diffuse (i Mostri) e muoveva dunque da un terreno etico sollecitando gli italiani a cambiare comportamenti. Da quando la satira si è concentrata sui politici , ha di fatto rinunciato alla sua vocazione sociale. Dal canto suo, l’inchiesta, mescolata al “caricaturale” smarrisce la sua natura di denuncia. Non si capisce più se il suo fine sia suscitare presa di coscienza o collaborare attivamente alla farsa. Varrebbe la pena chiedersi quanto di “controculturale” sia stato integrato nella macchina, prima attraverso i creativi pubblicitari (i più svelti a cogliere il fenomeno) , ormai dalla politica internazionale che sui falsi costruisce guerre e persecuzioni (vedi la recente vicenda Emergency). Ricominciare a distinguere tra contro-informazione e satira farebbe bene a entrambe. Il giocoso sparisce quando si tratta di giochi di guerra. A cosa sono servite, viene da chiedersi, le indagini filosofiche sulla Società dello Spettacolo, se alla Spettacolarizzazione ci si consegna inermi e festanti?

Postato giovedì, 6 maggio 2010 alle 14:39 da Gianfranco Manfredi


Metti in pista un nuovo interessante e delicato tema: la contro-informazione che NON deve necessariamente far ridere. Per vari motivi.
Ne cito solo quattro.
1) Si rischia di abituare a pensare che satira e contro-informazione siano sinonimi.
2) Si rischia di allontanare da quella contro-informazione che non fa ridere.
3) Si obbliga chi fa inchieste importanti a cercare sempre e comunque lo sghignazzo.
4) Si rischia di seppellire tutto con una risata catartica (il contrario esatto dello slogan sessantottino).
Marco Travaglio è emblematico di questo processo mediatico: eccezionale quando raggiunge (e lo fa spesso) la sintesi di esilarante satira e precisa contro-informazione, sta però scivolando nel manierismo. Ma più quando appare in televisione, dove gigioneggia molto. (Però la tv è capace di distruggere la credibilità di tutto e tutti)

Postato giovedì, 6 maggio 2010 alle 15:05 da luciano / idefix


Tutta la narrativa vampirica, per tornare al tema, è costruita intorno a un Falso storico, prodotto da un mix tra superstizione, peste sociale, dirigismo delle corti e disinformazione “politica”. Eppure prendendo per buono questo falso, gli scrittori vanno oltre, indagando il Mito che è cosa ben diversa dalla falsificazione e conducendo il lettore nel mondo del Simbolico, che ci parla molto più da vicino di quanto non sospettiamo, ed è in qualche modo radice inconscia e occulta del nostro scrivere, pensare, percepire e agire. Un lavoro assai faticoso, anche quando assume la parvenza di libera giocosità dello spirito. Un lavoro che sempre dovrebbe interrogarsi sui possibili percorsi ideologici. La fantascienza anti-atomica, aveva di questi percorsi estrema consapevolezza. Lo stesso horror che riprendeva negli anni 80 a dilagare come controcanto a un’epoca celebrata come ottimista, neo-consumista, disinvolta quanto distante da antiche paure e retaggi (anche di ordine etico) era perfettamente consapevole di esplorare il Lato Oscuro dell’epoca, che le celebrazioni ottimiste coprivano sotto il tappeto. Il vampiro , come mi è capitato di osservare, ha la singolare capacità, ad ogni rinascita, di aderire come un guanto ai nuovi costumi e alle nuove mode, eppure essendo creatura secolare e sottratta al dominio del tempo, ci rende sempre attenti alla distanza tra Mito e Moda, consentendoci di leggere nelle stesse Mode, qualcosa di permanente, di ereditato, una sostanza di rifiuto riciclato e rivestito da Merce di ultimo grido, e insieme qualcosa di sottilmente infestante che ripetendoci un certo messaggio all’ossessione, significa e trasmette un messaggio opposto e contrario, spiacevole a dirsi, respinto d’istinto come “orrore”. Un messaggio che Beaudelaire chiamava “rivelazione” adottando da ateo una terminologia religiosa. Ogni narratore che si occupa di simbolico dovrebbe ricordare sempre che se si rende incapace a leggere i segni dei tempi, o li legge in modo ideologico, rinnega se stesso e si ritrova impaurito non da quanto ha scritto, ma da quello che avrebbe potuto scrivere e non ha osato o non è riuscito a scrivere.

Postato giovedì, 6 maggio 2010 alle 15:06 da Gianfranco Manfredi


Ricordate i guasti che combinavano i Gremlins con normalissimi oggetti di consumo che andavano in quegli anni a rendere simili a fabbriche le nostre cucine? Frullatori usati, con feroce ironia, come macchine di distruzione. Non ci dicevano forse quei film: guardate che i gadget domestici dei vostri sogni di consumatori à la page, sono strutturalmente violenti? Non diceva , con ironia ben più devastante, Cronenberg che i nostri televisori alimentati a cassette sono macchine di carne (non semplici fantasmi) capaci di inghiottirci? Queste non sono fantasie che lasciano il tempo che trovano, non sono “evasione” da tempo libero, sono esplorazioni del Simbolico che ci conducono a una sostanza del reale che preferiamo non vedere, cioè al nostro quotidiano Orrore. Un Horror che si dimentica di questo, è solo un’etichetta commerciale tra tante, con la specifica caratteristica di farci apparire la Paura, non come qualcosa di connaturato al vivere sociale, ma come frutto di puro artificio. Continuano a gridarci “al lupo al lupo” per farci credere che il lupo non c’è.

Postato giovedì, 6 maggio 2010 alle 15:22 da Gianfranco Manfredi


Avevo già suggerito la visione dello splendido film fantastico “Tears on Sale”. Suggerisco anche la visione di Broken di Sean Ellis. Quando si vedono questi film si capisce e si apprezza che ci sono ancora dei “visionari” al lavoro, che conoscono quale sia la loro vocazione. Quando si vedono invece degli horror pregiudizialmente, per scelta poetica, “a-sociali”, nei quali la paura è ridotta a booh dietro l’angolo, in ossessiva ripetizione di stilemi ereditati, e l’orrore viene ridotto a un prevedibile baaah di disgusto di fronte agli scarti di macelleria, viene non solo il sospetto, ma la certezza che i film di questo filone dimostrano la fine della spinta propulsiva originale, la fine di ogni vocazione allo “spiacevole, ma vero”, la rinuncia a porci la domanda: “ma che diavolo (ci) sta succedendo?”

Postato giovedì, 6 maggio 2010 alle 15:35 da Gianfranco Manfredi


Piccola mozione d’ordine. Laura Costantini che ha scritto un libro sul fenomeno Twilight è scomparsa dal forum, proprio quando si è affrontato il fenomeno sotto vari risvolti. Claudio Vergnani, fugacemente riapparso, è subito sparito di nuovo (inghiottito dal so nuovo romanzo?). Massimo Maugeri, forse sfinito dopo la sua eccellente prestazione canora, si è eclissato pure lui. Non è che sarebbe il caso di chiudere? Lo dico per quanto mi spiaccia, perchè a questo scambio di post mi ero affezionato, però ad ogni serial bisognerebbe rassegnarsi a dare una conclusione. Mi piacerebbe sapere se sono stato l’unico ad aver postato un contributo (seppur parzialissimo) per il libro di Massimo, se gli altri qui intervenuti sono al lavoro per fare altrettanto o “qualcosa di completamente diverso” oppure se sono a questo punto più stremati di Massimo (che ne avrebbe tutti i motivi). Un segnale sarebbe gradito, prima di salutarci.

Postato giovedì, 6 maggio 2010 alle 15:50 da Gianfranco Manfredi


Che faccio?
Anch’io una specie di Selezione del Reader’s Digest dei miei interventi oppure me ne astengo?
Comunque, credo abbia ragione Manfredi: pure io mi sono affezionato allo scambio di commenti (che svaria su tantissimi argomenti) però forse è il caso di decidere che il ciclo chiude.
E che a conficcare il paletto di frassino nel cuore della discussione ancora viva sia l’unico legittimato a farlo, e cioè il Van Helsing di questo blog, Massimo Maugeri.

Postato giovedì, 6 maggio 2010 alle 17:27 da luciano / idefix


LA SCRITTURA DI DRACULA
di Gianni De Martino
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Nel film “Dracula di Bram Stoker” (1992), il dottor Jack Seward è disperato: la sua Lucy sta morendo di una malattia incurabile di origini sovrannaturali, cosi è il momento di far intervenire il professor Abraham Van Helsing , docente universitario olandese che conosce molto bene – perlomeno così crede lui – la natura del vampirismo. L’incontro di Dracula con il corpo di Lucy ha lasciato due piccole tracce che diventano oggetto di una serie di letture da parte di parenti, conoscenti e amici della vittima. Inizialmente, i due puntini rossi sembrano quasi insignificanti : solo quando le due piccole piaghe non solo non guariscono, ma si allargano, mostrando bordi bianchicci e malsani, ci si rende conto della gravità del caso.
Nel film, come nel romanzo ( 1897), vengono più volte descritti in dettaglio i buchini lasciati nella carne. Il primo piano letterario anticipa quello cinematografico e il lettore-spettatore vede i bordi di due piaghe con orli che si allargano a tutto lo schermo. Nel primo piano dei buchi slabbrati si trova un messaggio che dice:
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DRACULA E’ SBARCATO SULL’ISOLA, HA PERCORSO LE VIE AFFOLLATE DI LONDRA, E’ VENUTO DENTRO LA NOSTRA CASA E HA ADDENTATO LA NOSTRA PICCOLA LUCY, PENETRANDOLA CON LE SUE GROSSE ZANNE INFETTE.
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Le due piaghe sembrano costituire una nuova forma di scrittura: la scrittura di un forestiero che ha un altro corpo, un’altra lingua e l’abitudine di mordere al collo le signorine di buona famiglia, e non solo. Lo sguardo del vampiro è focalizzato sempre sullo stesso punctum : le vene del collo, secondo una modalità percettiva di un occhio che sembra non considerare né il sesso della vittima né il resto del corpo, come se lo avesse già essiccato. Insomma, i due punti incisi nel vivo per farlo secco sono la scrittura di Dracula.
Si tratta di un morso che – come si vede nella scena feticcio del romanzo di Stoker riprodotta in maniera quasi caricaturale da Christopher Lee e Barbara Shelley nel film Dracula, Prince of Darkness, di Terence Fisher (1966) – segna con un marchio indelebile il momento dell’estasi, l’istante di un’intrusione nel corpo che ne modifica la grammatica: il desiderio si libera dalle costrizioni borghesi che lo limitano e la vittima diventa, a sua volta, un vampiro furbo e crudele.
I due punti, che segnano nella frase un tempo di pausa per un cambiamento di direzione, hanno aperto il corpo del vampirizzato verso altri spazi: quelli della notte – anzi di molte notti abitate da una Lucy diventata euforica : trasformata in una fiera seduttrice , lubricamente proiettata verso altri desideri, scambi scellerati e attività sotterranee che resistono alla legge. Dracula è la droga delle sue vittime e il suo morso è un’ouverture ( ouverture in musica e apertura nella carne). E’ quel che accade alla povera Lucy, che dopo la puntura di Dracula si sottrae alla società puritana dell’Inghilterra vittoriana che la destina al matrimonio e alla fedeltà, e passando, per così dire, dalla parte dell’Es, diventa una specie di umbratile punk ante-litteram.
Il primo morso non si scorda più; e il piacere si disegna dal profondo del sangue: sempre sul punto di cominciare e mai di finire. Morso dopo morso, in un vero e proprio delirio di filiazione negativa, i vampiri si generano indefinitivamente. Così come anche i più di mille film e i numerosi rifacimenti delle storie di vampiri. Per non dire dell’espansione dei media e dei blog, di cui Dracula rappresenta la figura: un’espansione indefinita che confonde i sistemi chiusi, le ortodossie di ogni genere – mentre per noia o sazietà, la classe letterata europea si lascia sedurre dalla barbarie e si apre ai multiculturalismi e alla bontà dei meticciati e delle contaminazioni di ogni genere.
D’altra parte, nel tentativo di difendere le nostre favole e il nostro benessere da ogni minima minaccia, è probabile che “finiremo schiacciati, sepolti, bianchi e immobili per sempre” sotto tutta questa ricchezza. E’ il timore espresso anche dall’amico Vincenzo Consolo (cfr. “Porta orientale”, in AA.VV., Milano per le strade, Azimut, Roma 2009 – libro pervenutomi grazie alla gentilezza di Mariano Bargellini, autore del racconto, landolfiano e di ascendenze metafisiche, intitolato “L’indossatore morto di freddo”).
Ma non è di noi vecchi Europei esangui ed evanescenti che volevo parlare… Si vede che nello scrivere, o meglio, nel digitare, il Vampiro non ha solo “scongelato”, per così dire, il corpo e l’anima di Lucy, ma ha anche introdotto un desiderio di far durare la frase, di accumulare, di viaggiare e deviare, di aggiungere proposizioni subordinate: e di dirlo per inciso, grazie ai suoi perversi incisivi.
Il cerchio della sinistra congrega dei nosferatu non cessa di allargarsi. Occorre mettere fine a tutto questo, cioè al vampirismo. E’ quel che raccomanda anche Van Helsing a Jonathan Harker (Keanu Reeves) e alla sua fidanzata Mina (Winona Ryder), descrivendo con fanatismo tranquillo la decapitazione di Lucy. Sono tutti e tre a tavola, Mina lo guarda esterefatta e Jonhatan Harker ha appena fatto la spia, rivelando dove si trova il conte Dracula. Ingurgitato in fretta e furia un bicchiere di vino, Helsing improvvisamente si anima e si rivolge alla giovane coppia per una veloce lezione sul vampiro e le sue abitudini : “ Il vampiro esiste ed è questo che combattiamo, questo affrontiamo. Egli ha la forza di venti e più persone, e voi lo potete testimoniare signor Harker, costui esercita il suo potere anche sugli esseri più infimi, il pipistrello il ratto, il lupo, può apparire sottoforma di bruma, vapore o nebbia e dileguarsi quando vuole. Ora…Dracula puo fare tutto ciò, ma non è libero, per accumulare tutta questa forza malefica deve riposare nella terra del suo paese natio, è li che lo troveremo e lo annienteremo definitivamente”.

E’ difficile contrastare il potere dei vampiri, capaci di metamorfosi, replicazioni, teletrasporti, allenamenti agli ultrasuoni ( come i pipistrelli ), comunicazioni telepatiche. Difficile, ma non impossibile: la forza malefica di Dracula può essere annientata con un punto; non il punto e virgola, punto con una piccola colata di sangue, ma un punto fermo e definitivo. Perlomeno così pare. Nella lotta contro Dracula occorre opporre una chiusura a sempre nuove aperture, doppi e multipli. La scrittura di Van Helsing sarà allora il punto lasciato dall’ago nel braccio di Lucy nel corso delle numerose trasfusioni da lui effettuate per sostituire il sangue contaminato da Dracula con quello dei suoi familiari. E alla fine il paletto – segno dell’autorità, dell’uno – conficcato nel cuore del Vampiro.
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Tecnica patetica dei cacciatori di vampiri. Li si può vedere ogni giorno sfrecciare in automobile o marciare con il cuore in mano alla luce del sole, del grande sole mentitore. Non dormono nella bara, ma quando non organizzano le ronde si rigirano nei loro letti, anche matrimoniali, minimizzando i buchini che si aprono nelle calze, nelle lenzuola e nel corpo. Oh, dicono, non sono altro che buchini quasi insignificanti, piccole ferite, anche narcisistiche, volendo. Neanche il loro accumulo, l’accumulo di tante piccole ferite, potrebbe convincerli di una gravità. A differenza di Frankenstein, inquieto e disperato, in lotta con se stesso ( come ogni buon eroe romantico), il professor Van Helsing – l’ayatollah dei cacciatori di vampiri – appare come uno stupido vittoriano. Come anche Jonhatan ( impiegato di uno studio legale) e sua moglie Mina, egli è convinto di rappresentare il Bene, e ne è soddisfatto.
Forse i veri vampiri sono quei “virtuosi” masochisti che chiudono un occhio e gli occhi sui bordi slabbrati, si tappano il naso, la bocca, le orecchie e l’uretra, per non dire dell’ano, ben stretto, o dei seni rifatti – in modo che tutto sia ben chiuso e sigillato dall’uno. Insomma, quando non tagliano nel vivo, i vampiri non cessano di riempire e chiudere i buchi, proprio come fa la morte.
La morte ? Se il Vampiro, sia pure mordendo nel vuoto, potesse parlare, forse direbbe: “Contro le sofferenze dell’amore, il più sicuro rimedio è il disprezzo: quando non c’è più confidenza né stima, la piaga del paletto di quello sciocco professore olandese si cicatrizza subito”.
Per fortuna o sventura, con quel bugiardo di Dracula c’è sempre un seguito. Punto. Anzi, due punti.
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FINE ( del mio contributo x il libro di Massimo)

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… Tommy : « Ma dov’è finito l’equipaggio ? Già tutti stremati … dissanguati in un angolo ? Che fare ? Cazzo, ma dov’è quel cazzo di Van Helsing quando ce n’è bisogno ? » :-)

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Variante ( parafrasando Asvagosha) : « Così come i pipistrelli che s’adunano al cader della notte e poi alle prime luci dell’alba svaniscono, tali sono le separazioni del mondo dei blog ».

Postato giovedì, 6 maggio 2010 alle 19:08 da Gianni De Martino


Caro Gianfranco, cari amici… non so se vi rendete conto, ma siamo andati oltre quota 1.290 commenti.
Ma non è solo l’impressionante partecipazione che ha fatto di questo dibattito un indubio successo. È anche la qualità degli interventi, la complessità, la capacità di affrontare il tema della letteratura vampirica da ogni possibile prospettiva, lo svicolare verso argomenti svariati per poi tornare – in un modo o nell’altro – al tema della discussione (trovando nuovi collegamenti, agganci, stimoli).
Per questi motivi credo che questo post possa considerarsi una pietra miliare nella storia dei blog letterari (e non solo italiani, mi viene da pensare).

Postato giovedì, 6 maggio 2010 alle 21:46 da Massimo Maugeri


Ed è partendo da questi presupposti che accolgo l’invito di Gianfranco e – con serena tristezza – dichiaro questo dibattito… non-chiuso!

Postato giovedì, 6 maggio 2010 alle 21:52 da Massimo Maugeri


Be’, un dibattito incentrato sui non-morti non può che terminare dichiarandolo non-chiuso.
Di conseguenza… se nei prossimi giorni, settimane, mesi a qualcuno dovesse venire qualche nuova idea – o dovesse trovare qualche nuovo spunto vampirico… ecco… ricordatevi di non dimenticare che la cript… ehm… la porta rimarrà sempre non-chiusa. ;)

Postato giovedì, 6 maggio 2010 alle 21:56 da Massimo Maugeri


Luciano, mandami pure il tuo contributo per “Letteratitudine, il libro”.
Gianfranco, mi manderesti il tuo per email?
Ho già ricevuto quello di Gianni.
Aspetto quelli di Simonetta, Danilo, Claudio, Flavio, Franco e Paolo.
Utilizzerò anche gli articoli di Sergio e Laura.
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Un saluto dal vostro Van Maugering.

Postato giovedì, 6 maggio 2010 alle 22:03 da Massimo Maugeri


Sarà fatto.
Ancora un applauso a Manfredi.
(E a Magico Vento…non fatemi pensare che tra poco se ne va)

Postato venerdì, 7 maggio 2010 alle 09:33 da luciano / idefix


Una sciocchezzuola sui buchini (per specialisti). La stragrande maggioranza dei buchini vampirici cinematografici e fumettistici è SBAGLIATA perché i buchi appaiono in posizione verticale, come se il vampiro li avesse inferti con i canini superiori forando doppiamente la giugulare. Ciò è fisicamente impossibile. Per poter mordere così il vampiro dovrebbe avere un’apertura mascellare superiore a quella di un serpente. Inoltre il sangue sprizzerebbe e il vampiro non riuscirebbe a lappare. La posizione corretta dei buchi è in orizzontale. Il vampiro addenta con il canino superiore e il corrispondente inferiore. Solo il canino superiore fora la vena. Quello inferiore fa presa di lato. Il sangue che cola dal minuscolo foro, scivola tra le labbra e il vampiro può lapparlo tranquillamente, emettendo un caratteristico suono: il poppysmus.

Postato venerdì, 7 maggio 2010 alle 10:47 da Gianfranco Manfredi


questo dibattito sui vampiri è oceanico e, in quanto dibattito non morto, non perirà mai davvero.

Postato venerdì, 7 maggio 2010 alle 11:05 da piero


A proposito di vampiri oceanici.
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Forse non tutti sanno che nel folklore dell’Oceania ci si imbatte in diverse figure della tipologia dei vampiri. In Australia si trovano i mrart, vampiri che infestano i deserti. Sono fantasmi, spiriti dei morti o di stranieri. Hanno molto più potere nelle tenebre, quando cercano di strappare altre vittime ai cimiteri. mentre in Nuova Guinea i Papua ritengono estremamente pericoloso perdere anche solo una goccia di sangue, perché essa è già più che sufficiente per consentire ad uno stregone di controllare magicamente il possessore di quel sangue e portarlo anche alla morte. Infine, per impedire il ritorno dei morti dalla tomba, queste popolazioni sono solite spezzare le gambe ai cadaveri o porre sul loro corpo delle pesanti pietre.

Affine alla famiglia dei vampiri è il Talamaur, delle Banks Islands. Il Talamaur può essere maschio o femmina ed è un vivente-vampiro che può parlare con i fantasmi dei morti per assoggettarli al suo volere e fare danno ai nemici vivi. Simile al Talamaus è il Tarunga, che fa uscire la sua anima dal corpo per appropriarsi dell’essenza vitale di chi sia appena morto, alla cui tomba si avvicina con un suono simile a quanto si fa grattando sul una porta di legno.

Un’altra figura spesso presente nella cultura aborigena è il Yara-ma-yha-who, creatura bassa e a metà tra un vampiro e un serpente. Questo tipo di vampiro ricorda l’africano Asasabonsam e si nasconde tra gli alberi di fico per aggredire gli ignari che vi passino sotto.

Postato venerdì, 7 maggio 2010 alle 11:07 da piero


Se ne può derivare che il vampiro pratica una pop-art di genere assai particolare. Non è la replicabilità infinita che gli interessa. Se così fosse, genererebbe con il morso altri vampiri in automatico. Gesto predatore (penetrazione) e gesto generativo, sarebbero la stessa cosa, come in un rapporto coniugale benedetto dalla Chiesa. Il vampiro decide invece dall’intensità del succhio il grado di vittimizzazione della sua preda. Il suo fine è lappare, non figliare altri vampiri (che oltretutto gli farebbero concorrenza e un vampiro è terribilmente geloso delle prede che ha scelto). Il succhio, infine, è auto-nutritivo. Il vampiro non insemina, non dà nulla di sé, bensì accoglie liquido altrui per farne sostanza propria. Letterariamente si potrebbe dire che il vampiro “copia per trasformare”, non produce il replicabile, tantomeno l’identico, in quanto ove producesse da un morso letale un altro vampiro, quel vampiro non sarebbe il proprio clone, né suo figlio genetico. Il contagio, per il vampiro, è effetto collaterale. Lui vuole nutrirsi, non vuole spargere la peste. E’ il morto che si nutre del vivo. Sono gli umani che si nutrono di morti. Questa è una differenza fondamentale. Al centro del desiderio del vampiro c’è il flusso vitale, non la morte. Gli esseri umani per sopravvivere hanno bisogno di morti. Il vampiro ha bisogno di vivi e se possibile integri, ecco perché preferisce delle giovani vergini in piena tempesta ormonale. Il suo pop non si alimenta di tradizioni (lui stesso è la tradizione) ma dei desideri delle nuove generazioni. “Copia” ab origine, succhia il nuovo e l’informale, il non ancora definito, per accoglierlo in sé e acquisire rinnovato spirito vitale. Lo stesso pop di Warhol occulta questa natura vampirica. In superficie si avvale del già noto (Liz,Brando,Marilyn) e lo ri-produce in immagine-standard. Ma nella sua operante quotidianità si circonda di giovani ed è da loro che trae forza e alimento. Warhol era il parassita-vampiro della sua Factory.

Postato venerdì, 7 maggio 2010 alle 11:22 da Gianfranco Manfredi


Ho scritto che il vampiro “copia per trasformare”, ma secondo altri sarebbe più corretto dire “ruba per trasformare”. Tuttavia anche “ruba” è termine improprio, in quanto il vampiro classico chiede il permesso prima di approfittare. Certo c’è un che di ingannevole in questa richiesta di permesso, perché il vampiro se-duce , cioè conduce a sé la vittima (a volte non la va a trovare nel suo letto, ma la conduce da sonnambula a sé). Il vampiro sa di poter approfittare del fascino del morto sul vivo. L’essere umano vivo per nutrirsi ha bisogno del morto e dunque è naturalmente dipendente dal morto. Il vampiro sfrutta questa propensione per capovolgerne l’esito. Si propone come pasto e così facendo attira il SUO pasto. Se si trasporta questa struttura di rapporti in palcoscenico e evidenziamo nel vampiro la metafora dell’attore, potremmo dire che gli attori che sono anziani e venerati Maestri , si dividono in due categorie: i melanconici che vedono “un grande avvenire alle loro spalle” (per citare il titolo del libro autobiografico di Vittorio Gassman) e consegnandosi al passato si preparano alla morte, e i predatori che per inclinazione son “fuori di sé”, apparizioni (“Sono apparso alla Madonna” è il titolo dell’autobiografia dell’alter-ego di Gassman, Carmelo Bene) e che tanto più si appagano quanto più si vedono intorno ( e in platea) dei Giovani. Per questi attori vampiri conta la replicabilità della soddisfazione presente, possibile soltanto se ci si alimenta di futuro.

Postato venerdì, 7 maggio 2010 alle 11:56 da Gianfranco Manfredi


Il termine corretto dunque non è “copia”, né “ruba”, bensì “poppa”. Quando qualche critico fa osservare che è improprio rappresentare il vampiro come un adolescente, non sospetta dunque che sarebbe assai più proprio considerare il vampiro come un poppante. Ma coma fa se è un vecchio, anzi un più che matusalemme? Una possibile risposta potrebbe riportarci (ma qui Pezzini ne sa senza dubbio più di me) alla mitica figura di Tages, il vecchio bambino, divinità di origine etrusca ricordata da Virgilio. Secondo il mito, un contadino mentre ara il suo campo, vede spuntare dal solco un neonato rugoso e vecchissimo, Tages appunto, che il nome rivela come intimamente legato alla Terra. E di qui, per metafore successive, si può continuare all’infinito. Proprio come il nostro “forum” che ogni volta che si appresta a morire rinasce. Se accorresse qualche giovane preda, però, sarebbe ben più profittevole.

Postato venerdì, 7 maggio 2010 alle 12:43 da Gianfranco Manfredi


Ma COMA fa, ho scritto. Mica male.

Postato venerdì, 7 maggio 2010 alle 12:44 da Gianfranco Manfredi


Riporto dal dizionario latino:

TAGES , figlio di un Genius Iovialis, nipote di Giove, balzò all’improvviso fuori dalla terra nell’Etruria, mentre il bifolco Tarconte praticava un solco più profondo del solito; fanciullo all’aspetto, vecchio per il senno, insegnò agli etruschi l’aruspicina, la quale venne poi da essi affidata alla scrittura in quei libri della divinazione che si chiamano appunto Tagetici Libri.

Il dizionario cita come fonte Ovidio (ma non credo di essermi sbagliato nel citare Virgilio).

Da Tages (il vecchio bambino) origina dunque la Scrittura.

Postato venerdì, 7 maggio 2010 alle 13:21 da Gianfranco Manfredi


Sono stata invitata, in veste di “scrittrice” del mio Vampiri (Gremese) al Twilight ItaCon, la prima convention italiana dei fans dei vampiri della Meyer, che si terrà a Roma dal 28 al 30 maggio. Già ho incontrato le organizzatrici al Orieto prima e al Comicon qui a Napoli e, devo ammettere, mi hanno guardata un po’ storto quando ho palesato la mia scarsa considerazione su quel tipo di vampiri (e si saranno chieste: ma che cacchio l’abbiamo invitata a fare?). Cercherò di recuperare qualche spunto da questo bellissimo thread per cercare di mediare la mia tendenza estremista. Del resto non intendo vendermi a una causa in cui non credo ma proverò a far fruttare un po’ del prezioso materiale contentuto qui dentro. ;)

Postato venerdì, 7 maggio 2010 alle 13:36 da Simonetta Santamaria


Beh, Simonetta, potresti far notare che i vampiri si nutrono abitualmente di sangue di adolescenti ed è questo che li conserva vecchi-bambini, continuamente ri-nati e giovani d’aspetto, quanto dotati di una sapienza millenaria (sapienza di cui peraltro il giovane Cullen pare del tutto sprovvisto, in quanto la sua memoria si limita alle canzoni degli anni 50 per le quali ha una vera fissazione, ma questo non dirlo sennò ti ammazzano). Prova però a chiedere ai fans di Twilight cosa pensino della Famiglia Cullen. Dalle testimonianze raccolte da Laura Costantini risulta che le lettrici di Twilight vedono come centrale soltanto il racconto del Primo Amore, e periferico il tema vampirico, puramente allusivo a una qualche particolarità/diversità dell’essere amato. Ne ho dedotto che le stesse fans non hanno probabilmente letto i libri successivi della saga, oppure li hanno letti come mero sequel avventuroso del primo e unico romanzo che fissa i caratteri e il tema. Romanzo letto come un romanzo d’amore, dunque, non come horror. Eppure… c’è del marcio in famiglia. Alle giovani fans, non è venuto il sospetto?

Postato venerdì, 7 maggio 2010 alle 15:08 da Gianfranco Manfredi


Altra curiosità: perché Edward Cullen non mostra la sua sapienza? Ne è sprovvisto o non vuol fare la figura del secchione? Non ho letto abbastanza della saga (che è di una prosa noiosissima) per capire se E.C. è un esemplare del moderno adolescente da memoria rimossa, oppure un insospettabile intellettuale clandestino che mai si rivelerebbe per tale, altrimenti verrebbe scacciato dagli adolescenti moderni come scassapalle, o come Nerd (scassapalle e sfigato al contempo). Il vampiro contemporaneo per risultare seducente deve apparire tanto dotato di super-poteri quanto sprovvisto di sapere alcuno?

Postato venerdì, 7 maggio 2010 alle 15:15 da Gianfranco Manfredi


Ok, appunto. Continua, continua… ;)

Postato venerdì, 7 maggio 2010 alle 18:34 da Simonetta Santamaria


Oh, se questi poi mi dovessero ammazzare, mordetemi voi e fatemi rinascere che c’ho da fare!!
:)

Postato venerdì, 7 maggio 2010 alle 18:36 da Simonetta Santamaria


Io non sto seguendo il dibattito e non so nemmeno a che punto è la discussione ma qualsiasi cosa dica la Simonetta Santamaria per me è vangelo. E’ un MITO, una creatura delle tenebre venuta a erudire i popoli. La vedrei bene come ministro delle Finanze, tanto con tutti quei vampiri che ci sono al governo…

Postato venerdì, 7 maggio 2010 alle 21:00 da Salvo Zappulla


Be’, quando ho dichiarato “non-chiuso” questo dibattito… avevo le mie buone ragioni! ;)

Postato venerdì, 7 maggio 2010 alle 22:40 da Massimo Maugeri


In effetti, ha fatto bene Manfredi a chiarire come avviene il pasto del vampiro (e soprattutto l’apertura della vena): raramente viene descritto con precisione e soprattutto dal punto di vista grafico tutto resta vago, pastrocchiato e poco convincente.
Ancora una volta (stavolta grazie a Manfredi) m’è venuta una bizzarrissima idea per un racconto. Addirittura sui vampiri. E mi pare che (incredibile ma vero!) lo spunto sia del tutto originale e inedito.
Tanto che non ne accenno nemmeno, perchè in Rete è pieno di vampiri di idee.
Adesso si tratta (attorno a questo piccoolo nucleo) di costruire una trama e dei personaggi. Ma l’idea mi pare proprio buona (grazie a Manfredi: senza di lui non mi sarebbe mai e poi mai venuta)

Postato venerdì, 7 maggio 2010 alle 22:45 da luciano / idefix


Mi pare d’averla usata (la faccenda dei fori) per un episodio di Dylan Dog ( Il masticatore di sudari) uscito in formato Gigante e disegnato da Roi. A un certo punto tra vari morti ammazzati da vampiro, ce n’è uno coi buchi in verticale e Dylan svaga che quello è stato assassinato simulando (male) un omicidio vampirico. Non me la ricordo benissimo, quella storia, perché l’ho scritta parecchi anni fa e scrivendo a raffica non posso ricordarmi tutto (tra l’altro una volta che sono pubblicate e le rileggo per controllo, poi non le rileggo più, avendo la testa impegnata in quelle nuove) però mi pare di ricordare che ci fosse anche un FLASH BACK non Bram Stoker in persona.

Postato venerdì, 7 maggio 2010 alle 23:05 da Gianfranco Manfredi


@ Simonetta. Mi piacerebbe anche (questo è un favore che ti chiedo) se tu potessi appurare questa questione: i fans di Twilight leggono (o hanno letto) anche Dylan Dog oppure no? Perché ho l’impressione che si tratti di adolescenti totalmente diversi. ovviamente sia Dylan dog che la Meyer non hanno soltanto elettori adolescenti, altrimenti certe cifre spaziali di vendita non si spiegherebbero, però quello degli adolescenti è senz’altro il motore propulsore, diciamo così.

Postato venerdì, 7 maggio 2010 alle 23:10 da Gianfranco Manfredi


C’è un refuso sopra. Con Bram Stoker invece di non…

Postato venerdì, 7 maggio 2010 alle 23:12 da Gianfranco Manfredi


Cara Simonetta, in bocca al lupo (o dovrei augurare “nei canini del vampiro”?) per la tua presenza al Twilight ItaCon.:-)

Postato venerdì, 7 maggio 2010 alle 23:46 da Massimo Maugeri


Luciano, anche Gianfranco mi ha detto di aver ricevuto “stimoli narrativi” da questa discussione.
Mi sembra una cosa bellissima.

Postato venerdì, 7 maggio 2010 alle 23:49 da Massimo Maugeri


Gianfranco, intendo assolutamente procurami questa storia di Dylan Dog a cui fai riferimento.
(P.s. Se il sottoscritto è “l’uomo con la camicia celeste”, il buon vecchio Dylan è “l’uomo con la camicia rossa”… i suoi colori sono senz’altro più vampirici dei miei).

Postato venerdì, 7 maggio 2010 alle 23:52 da Massimo Maugeri


La Storia era inclusa nell’Albo Gigante n.6 di DyD. Ignoro come puoi fare a procurartela perché (mi pare, non sono sicuro) il servizio arretrati della Bonelli non tratta i numeri extra-collana. Mi informerò lunedì e ti farò sapere.

Postato sabato, 8 maggio 2010 alle 11:08 da Gianfranco Manfredi


Caro signor Gianfranco Manfredi,
e p.c. cari signori vampirologhi

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Apprezzo molto il fruscìo di tante ali sottili e le V.stre precisazioni sull’apertura della vena adolescente con il pasto di sangue che colerebbe da un unico forellino… Sss…Avete mai provato a pompare aria in un copertone bucato ? E’ quel che faccio da sempre, regolarmente. Non corro infatti appresso alle ragazze o ai giovanotti – emo, truzzi o dark che siano – ma brancolo come un vero attore dietro la vita e – nel forare qua e là il futuro – mi chiedo sempre più spesso perché la vita è così malata, e chi ha imputridito persino l’idea di vita.
Non ditemi che parlo come un poeta, un disoccupato o un primitivo, e che voi siete sani. Se lo foste, non vi aggrappereste con carne lampadata e prudente, impaurita e che invecchia alle radiografie, all’aglio fresco e alla cristalloterapia – così come un tempo si cadeva di botto davanti ai crocifissi, come si vede negli antichi quadri.
« Per piacere ! Per piacere ! », agitando le mani come per scacciare un insetto fastidioso. Lo fate quasi senza accorgervene quando vi passo accanto con un risucchio d’aria.
Poppysmus ? Eppure sono venuto a trovarvi l’anno scorso quest’anno l’anno prossimo per un tetto aperto, una finestra scomparsa, un uscio lasciato socchiuso. E il buco.
Toc toc. Posso entrare ? E’ permesso ? Ma cosa si prova a non essere più creature tagliate dal « prima » e dal « dopo » ?
Il nostro, se non proprio un incidere nel vivo e uno sbavare all’orlo della Cosa, è un sapere mal condiviso, ma cosa importa se avete uno o due buchini? E’ sempre possibile far finta di scrivere l’impossibile e confermare l’espulsione con la levigazione e brunitura di questo grande specchio: guardatemi bene e ditemi se tra noi, gli umani e i vampiri, non c’è che una piccola, minuscola differenza: un non luogo della vita proprio nel luogo pulsante dell’oscuro.
Espulso dalla vita non posso che espellere a mia volta la vita che mi passa accanto. E –diventato poroso – affacciarmi tra due righe come s’imporpora un viso. Mi occorre davvero molto poco per rinsanguarmi. E ringrazio lo specialista ha voluto raddrizzarmi e affilarmi il canino. Uh, una sciocchezzuola!
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Spero che vogliate perdonarmi, come dire, questa “introduzione”, ma noi, poveri Diavoli, siamo particolarmenti fieri della nostra tenebrosa origine e teniamo a che questa oscurità venga conosciuta e rispettata. In fondo, neanche tanto in fondo, siamo stati tutti espulsi, anche se poi abbiamo voluto dimenticarlo.
Voi – da un’immensa distanza che semplicemente mi attraversa – parlate di me come di un “parassita” pop che si alimenta di futuro: sopravvivo, in effetti, solo grazie ai succulenti visitatori che passano regolarmente da queste parti, nel forum.
E’ gentile da parte vostra preoccuparvi della mia vita sociale: non vi sono forse apparso in compagnia delle tre deliziose “vampirette”, come voi dite, che fanno finta di vivere con me ?
Ma per la verità non sono avido di compagnia e so apprezzare il piacere di restare in solitudine con i miei pensieri.
Quanto al signor Warhol, no, non lo conosco molto bene. Forse si trova in Purgatorio, che è da tutt’altra parte – se ricordo bene. Non essendo io, purtroppo, la fonte della mia poca luce, soffro anch’io – nonostante una qualche lucidità – di qualche vuoto o buco di memoria.
Il corpo ( ecco che riprende la lagna ) è un orologio che non si può aggiustare. Niente di grave se il risucchio di tante care immagini non fosse una perdita infinita.
Simile a una bolla d’aria, a uno scintillìo o alla nebbia, appaio talvolta nella forma di un poppante luminoso. Altre volte potrei assomigliare a un gatto, a un lupo o a una vecchia e rugosa tartaruga. In ogni caso, mi restano affilati dentini di luce breve per pungere i vostri giorni. E sono lieto dell’interesse che avete per loro e il loro modo, come dire, di funzionare e operare.
Detto questo, sarei lieto se una di queste notti qualche fanciulla in fiore o temerario giovanotto volesse farmi l’onore di una visita, nel caso dovessero passare nei pressi del mio castello! Il bacio di un vampiro è certamente doloroso, e l’eco del risucchio potrebbe anche sembrare alquanto spaventosa – ma solo la prima volta: in seguito le mie prede la smettono di piagnucolare e dicono che è nient’altro che una punturina e si lasciano invadere da una singolare voluttà che mi farebbe piacere farvi provare.
Il mio cuore ha cessato di battere da molti secoli. Non provo niente di quello che voi umani chiamate desiderio. Sento solo molto freddo. Sarà forse per via della beatitudine infinita del Risucchio. Mi promettete, ragazzi, di riflettere alla mia proposta ?
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Il Vostro dev.imo.
Conte Dracula
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P.S. Naturalmente estenderei l’invito anche Lei, signor Gianfranco, se non la sapessi già occupata da altri tipi di vampiri, presumibilmente Monodenti ; ed estenderei l’invito anche a Gianni e a Luciano, se non avessero la barba e non fossero piuttosto stagionati per i gusti di un vampiro poppante assetato di futuro.
Non vi resta che rivolgervi al buon Dio – come peraltro van facendo, negli ultimi tempi, anche numerosi vip, cantanti pop e attrici con il kulo non più tanto fresco di calendario. Si vede che a una certà età, il Diavolo non vi vuole più. O perlomeno così pare. Grazie comunque per aver voluto raddrizzare il mio ( e vostro) penzolante canino. :-)

Postato sabato, 8 maggio 2010 alle 13:37 da Gianni De Martino


SOFFIARE SULLE CENERI
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La scrittura ( a differenza della Letteratura) è un angolo che mai si chiude. In un giro ( senza fine ?) di fertili depressioni ed euforie, continue morti e resurrezioni nello spazio bianco, il movimento della scrittura apre, in qualche modo, a metamorfosi significative e quasi deliranti . Fra morsi, rimorsi e quello che per tranquillità chiamiamo l’Inconscio o il « ritorno del rimosso », il movimento vivente della scrittura esprime, anzi sprigiona le scintille di uno strano fuoco. E andando oltre, sempre oltre, forse andando incontro all’ imprevisto, esprime il desiderio di un altrove, forse di uno spazio di non-morte che la Letteratura, per sua stessa costituzione di menzogna necessaria o fabula, non raggiungerà mai. Sembravano voler andare chissà dove, le parole, ed eccole invece ritornare come disertori.
Le parole sono pipistrelli in volo verso i lettori per rinsanguarsi. E il Vampiro è il gemello oscuro che questo o quell’autore invia, al suo posto, nel mondo.
A volte le parole sembrano niente altro che cenere. Le ceneri della Fenice. Perlomeno così pare, finché non incontrano un lettore attivo, diventando le rivelatrici di una Cosa che cerca di farsi strada, e talvolta, di solito incidentalmente, vi riesce.
Cosa ardente e come proveniente da molto lontano, il suo spazio – per quanto possa sembrare inaudito o subito rimosso – pare l’Oltrespazio, il suo suono è l’Ultrasuono.
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Le parole che oggi si danno nella scrittura, un tempo affioravano in un canto e nei miti sembravano abitate dal fuoco di una presenza, “come un biblico roveto ardente” ( Antonio Spadaro, in L’altro fuoco: l’esperienza della letteratura, Jaca Book, Milano, 2009). In tal caso, la Bibbia sarebbe il libro bucato dal fuoco del cielo. E il « roveto ardente » la Cosa di Mosé che, nell’attraversamento del deserto, avvampava senza bruciare. Ardere senza bruciare, non è forse il sogno della Fenice ?
Esporsi al vento delle tensioni fondamentali e soffiare sulle ceneri del già detto per far ri-prendere il volo alle parole è un lavoro a un tempo delicato e rischioso. Occorre un punto di vista sufficientemente elevato, un’altezza che dipende da questo o quell’autore. Giordano Bruno, per esempio, dopo una pericolosa scalata di sesto grado superiore, non resiste al rischio e al vizio della chiaroveggenza ed evoca la Fenice definendola : “Unico augel del sol”. Baudelaire, invece, alle soglie del disincanto e dell’afasia, ne parlerà come dell’ « ala dell’imbecillità che passa ». Scrivere della Fenice, così come del Vampiro, è la scrittura meno gratuita che esista, la più pericolosa.
Del resto, ogni testo è una ripresa sull’immenso tessuto dei testi, una ripresa di diritto e di rovescio su questo o quel buco del reale. In tal senso, per restare in prossimità del mito, ogni scrittura è un tessuto di cui la Tessitrice sarebbe l’emblema ( la Tessitrice-Parca con ago, filo e forbice, nonché voce di morticina evocata a proposito del Pascoli, nel corso del dibattito sulla letteratura dei vampiri ).
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Oltre il tricotage sul buco del reale e nel simbolico, nessun nome tiene. Ad ogni ascensione/accensione dell’animale fantastico verso il sole un nome cede a un altro nome, ridotto in cenere per subito risollevarsi dalle sue ceneri.
E’ come se ogni volta le ceneri della Fenice generassero un altro uccello-fenice, se non un altro Icaro.
Dove anche la Fenice cade, scrivere è diventare cenere d’autore – non solo un’incenerazione del corpo dei significanti, ma anche di ” persone della nostra generazione, un tempo discorsive per abitudine di tutto e soprattutto esplorative di questioni ‘imbarazzanti’ ” ( Gianfranco Manfredi). Esplorative, aggiungerei, di questioni talmente “imbarazzanti” da costringersi a dover volare alto o “hig mind” per sopravvivere, come diceva anche Julian Beck. Mi riferisco naturalmente all’ala creativa di una generazione in movimento che credeva di sottrarsi al cosiddetto Sistema e che voleva vivere, solo vivere come i fiori dei campi e le bestie del cielo. Esiste forse un altro sogno più bello e più crudele di questo ?
C’è del marcio in tutta questa vecchia storia. Se non fosse per il lavoro della metafora ( il fuoco che cova sotto le ceneri della Fenice), oltre che per il lavoro della memoria, dell’immaginazione e del simbolico, le parole non potrebbero, per così dire, ritornare in vita, prendere fuoco e propagarsi, ri-accendendosi le une dopo le altre e proiettando – nel momento in cui le si pronuncia – scintille di significanti secondari che accendono altri focolai.
E’ quanto accade specialmente per la parola letteraria, poetica. Scrivendo non si sa, si va. Occorre lasciarsi sorprendere da un tratto inatteso. Ed essere intrepidi. Affinché rinasca la Fenice, occorre che un lettore attivo ( non dico grande, ma non fiacco ) soffi sulla brace delle parole e l’accensione si propaghi verso altri lettori che, a loro volta, girando la pagina o scrollando il blog tra un respiro e l’altro…vi rispondano con la propria storia, il proprio linguaggio, la propria libertà.
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Ma poiché molte sono le storie possibili, o anche impossibili, e linguaggio e libertà cambiano infinitamente, la risposta a uno scrittore non può che essere infinita. L’infinito ? Occorre davvero apparire un po’ citrulli o, ahimè, leopardiani, per andare all’infinito… Ma per fortuna o sventura, per essere scrittori non occorre forse essere un po’ citrulli ? Del resto, come suggeriva Freud – a proposito della lotta con l’Angelo delle parole – quello che non si può raggiungere a volo, talvolta è possibile raggiungerlo zoppicando. Zoppicare e apparire un po’ citrulli dopo aver lottato con le parole non è peccato.
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Con altre parole, volendo riprendere la questione fondamentale della Scrittura con le parole di Roland Barthes: “… on ne cesse jamais de répondre à ce qui a été écrit hors de toute réponse : affirmés, puis mis en rivalité, puis remplacés, les sens passent, la question demeure. ( Roland Barthes, Sur Racine, Seuil ed, 1963, p.11. Traduco:” … non si finisce mai di rispondere a quello che è stato scritto fuori da ogni risposta: affermati, poi messi in rivalità, poi rimpiazzati, i sensi passano, la questione resta”).
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La questione fondamentale della Scrittura oggi mi sembra questa : « Dove sei Adamo ? ». Fu posta dall’invisibile all’alba, mentre passeggiava nell’antico giardino piantato in noi da prima che cominciasse la Storia ( che ci uccide). E la nostra colpa – se mai vi fu colpa e se davvero l’innocenza è ancora più antica e criminale della colpa – è che da allora, da tempi immemorabili, per quanto si possa essere raffinati scrittori, noi, con Adamo, non sappiamo rispondere. Nello scrivere resta pur sempre un’indecisione riguardo al luogo da cui si parla : dalla culla o dalla bara ? Forse tra culla e bara, vale a dire tra due pulsioni. Sarà mai possibile riprendere tra i due tutto quello che è perso ?
Invece di fare come Edipo, e cioè cercare di risolvere stupidamente l’enigma posto dalla sfinge, forse occorrerebbe tacere meditando su queste parole : « Chi non diventa cenere mai risorgerà con la Fenice ».
E’ un modo di rispondere al Mistero ( di dover vivere, far vivere, amare e morire ) con il proprio mistero. Detto così, tra rivolta e ubbidienza, mi pare proprio un’utopia. L’utopia di un mondo senza Letteratura : solo voci, canti, stupide e vere canzoni d’amore, dialoghi e parole per comunicare cuore a cuore con il visibile e l’invisibile, dicendo bene di tutti i nostri amici nell’Universo.
L’alternativa, se si nasconde il proprio folle sperare nell’invisibile, sarebbe quella di morire senza voce. Tutta questa bellezza non potrà mai finire nel solito mare di pus e di petrolio – come vorrebbero i vampiri.
Non seppellire in fretta. Ma, nel tendere le mani per altro che per prendere : benedire, nonostante tutto, e soffiare sulle ceneri sperando nell’invisibile.
Con l’augurio, naturalmente, che soffi il vento.

Postato sabato, 8 maggio 2010 alle 14:27 da Gianni De Martino


Sto da tempo vampirizzando il mio tempo lavoro (che è ben pagato) però l’infezione propagata da questo forum continua a spingermi su altri percorsi, che devo fare? Mi sto studiando il mito di Tages e mi ripropongo di tornarci anche per accogliere alcuni segnali di Gianni (in merito alla scrittura, che negli etruschi è cosa assai particolare: scrittura tombale, persino sulle fasce delle mummie, scrittura di morti e sui morti, che i morti spiega e avvolge). Sulla Fenice non sono altrettanto versato, fors’anche perché mi richiama un ex-cinema milanese in cui solevo recarmi da ragazzo a vedere film di vampiri, e un tempo era ritrovo di pugili milanesi (vedi una celebre scena lì ripresa di Rocco – il non-ricco – e i suoi Fratelli di Visconti – ricco affascinato dal Rocco) e poi di wrestlers (celebre l’esibizione di un gigante contro i sette nani), in seguito sala porno, con annessa discoteca e albergo per pronto uso, oggi chissà che cosa… mutazioni, in ogni caso. Il Conte ha comunque frainteso, ché non intendevo affatto orbarlo di un canino , né di un foro, ma semplicemente osservare che dei due fori, uno non è in vena, e che non è il morso cannibale caratteristica vampirica, bensì il poppare ( e quale maggiore parassita del poppante? Quando si ha il primo figlio è una festa, nei giorni successivi si comincia ad avvertire il disagio: ma questo resta sempre qui? E i miei/nostri giorni e le mie/nostre notti devono essere al servizio interrotto dei suoi appetiti? E quando cresce e cammina e bofonchia le prime parole bisillabiche è tollerabile che mi rovini qualsiasi amicale convivio, pretendendo e ottenendo somma ed esclusiva attenzione per lui? ). Caro Dracula, con tutto il rispetto, non cerchi di intenerirmi simulandosi vecchio, annoiato e compagno della polvere, io riconosco in lei il poppante tanto capace di farsi amare in modo esclusivo, quanto rapace di tempo, di cure, di ansie e di alimento. Non si stupisca se la sua modesta propaggine Edward Cullen si sente a disagio di fronte alle pratiche sessuali in generale e a quelle procreative in particolare. Cullen, per quanto mostri di non sapere nulla di nulla, conosce quel nulla che alberga in lui. E’ politically correct in quanto non chiede neppure “permesso?”, ma “disturbo?” . La sua versione innocua quanto ipocrita, continua a sollecitarci a chiederle di disturbarci, per quanto lei abbia tutte le ragioni nello sbuffare “abbiamo già dato”, in quanto al di là della sua volontà, al di là del bene e del male, lei ha indubbiamente dato molto di più di quanto non abbia preso. Ma il disturbo, quello non ce lo faccia mancare, la imploro. Senza disturbo esterno ogni privacy è privazione e lei lo sa certo molto meglio di noi, altrimenti non si sarebbe mai mosso dal suo castello avito e in rovina.

Postato sabato, 8 maggio 2010 alle 15:19 da Gianfranco Manfredi


Per quanto lo si implori, Dracula non si muove mai dalla Letteratura, cioè da questo castello di splendide rovine.
Forse pratica percorsi immobili, o forse è lui stesso un evento immobile – come direbbe anche la buonanima di Piero Bigonciari, l’immortale autore, fra gli altri disturbi, di “La figlia di Babilonia” e di ” Col dito in terra”.

Postato sabato, 8 maggio 2010 alle 17:04 da Gianni De Martino


@ Salvo: ti ringrazio del meraviglioso complimeto: creatura delle tenebre mi si addice come un guanto… Ma qui c’è gente che ne sa mooolto più di me e io, da buona discepola, ascolto e imparo.
@ Gianfranco: ho appuntato le tue domande, insieme ad altre dissertazioni. Poi al ritorno ti faccio sapere.
Ma, a proposito di Dilan Dog e di buchi verticali: in effetti i fori dei canini dovrebbero essere proprio verticali in quanto la posizione del vampiro è (o dovrebbe essere) perpendicolare al collo del vampirizzato.
Giusto? O è un altro misterioso mistero come quello della genesi del Dampyr?

Postato sabato, 8 maggio 2010 alle 17:18 da Simonetta Santamaria


La posizione del vampiro è verticale in quanto piega il capo da un lato. Proprio per questo i buchi risultano orizzontali, perché vengono inferti da un canino superiore (in vena) e dal corrispondente inferiore (fuori vena). Mordere coi due canini superiori non è fisicamente possibile : provare per credere. Se poi i denti sono fangs è anche più impossibile. Hai mai provato le dentiere vampiriche da carnevale? Non si riesce nemmeno a chiudere la bocca e lo spazio del morso si restringe, non si allarga. In alcuni film recenti per risolvere questo problema, si è adottata una distorsione (da effetto speciale) della mascella e della bocca, per cui le facce dei vampiri si allungano come fossero di gomma , ma il succhio o il poppare diventano così impossibili, e vengono ridotti a sbranamento. L’effetto è farlocco due volte, infatti per lo sbranamento, non basta allungare il mento, bisognerebbe allungare anche il muso, come nelle trasformazioni in licantropo. Il vampiro classico non lacera la carne, lascia due forellini minuscoli che soltanto l’occhio di un medico esperto può individuare. Ripeto: è il lappare la caratteristica del vampiro. Il vampiro succhia il sangue non mangia! Il desco di Dracula non prevede carne sanguinolenta (e morta) di cui nutrirsi. A Dracula fa schifo persino vedere qualcuno che mangia, difatti lascia Harker da solo, a tavola. Ha apparecchiato per uno, non per due.

Postato sabato, 8 maggio 2010 alle 18:08 da Gianfranco Manfredi


Oltretutto , a parte la plausibilità fisica, ce n’è un’altra logica. Per quale motivo forare due volte la stessa vena? Il sangue mica corre in due direzioni opposte. Il buco sotto diventa inutile. Il buco laterale funziona invece da appoggio e difatti nelle versioni letterarie classiche e in quelle cinematografiche attente, i due forellini sono vicinissimi, da canino a canino (se si parla dei superiori) la distanza è tripla. Lo so che sembrano cazzate, ma il vampiro vive di plausibilità. Fin dalla sua nascita sociale e storica (parlo delle pesti europee del Seicento e Settecento) tutte le questioni sono nate da verifiche di plausibilità e verosimiglianza. A cominciare da una: come fa un vampiro a uscire dalla sepoltura? Se è stato interrato in una bara, mica può scavare, dovrebbe prima scoperchiarla e con la terra sopra è impossibile. Dunque si è ipotizzato che il vampiro esca in spirito (o come nebbia filtrante, secondo altri) per poi materializzarsi fuori . Tuttavia il suo corpo resta uno strano corpo. incarnandosi, la sua natura di immagine pare dissolversi e infatti non si riflette negli specchi. E’ un corpo che non proietta ombra, né immagine. Qual è il corpo che non può assumere e diffondere immagine? Il corpo di Dio. Dio proibisce il culto delle immagini, Primo Comandamento. Secondo gli iconoclasti dei secoli XVI e XVII , anche le immagini del Dio cristiano e dello stesso Cristo, sono profane e dunque da distruggere. La corporeità di Dio deve restarci inconoscibile. Ogni sua identificazione riconduce al paganesimo e ai culti idolatrici. Nel recente dibattito sui crocefissi a scuola, si dimentica che esistono ancora molte confessioni cristiane che considerano offensiva e scandalosa la raffigurazione fisica del Cristo. E’ del resto evidente che si presta a dubbi più che fondati: perché un palestinese viene rappresentato come un bianco di origine celtica, spesso addirittura biondo e con gli occhi azzurri? Dio rappresenta la Totalità e la pienezza dell’Essere. Se lo riduciamo ad immagine, operiamo delle scelte ad escludendum, lo rimpiccioliamo. Ogni aspetto fisico è parziale. Ogni identificazione nega la Totalità. Lo ricordò Papa Luciani dicendo, con grande scandalo, che Dio è anche “mamma”. La possibilità che Dio includa il femminile, causò un notevole scompenso tra i cattolici, abituati da secoli all’identità pittorica di un Dio Padre barbuto ( a Dio cresce la barba? E chi è il suo barbiere?) magari dotato di triangolo occhiuto , tanto per non essere scambiato per un patriarca qualsiasi… Dio ha dunque bisogno di un distintivo per essere riconosciuto? ma torniamo al vampiro. Cosa fa Van Helsing se non indicare con pedante minuziosità le sue caratteristiche di specie? Come può farlo? Sulla scorta di un lungo dibattito codificato dai testi e tutto incentrato sull’esigenza di dare plausibilità alla figura del vampiro. Nei secoli precedenti si dava quasi per scontato che esistesse, la peste vampirica era stata un fatto più che accertato, di nessuna altra peste in precedenza si erano offerte tante prove documentarie. Non si trattava di gnomi o di fate, ma di cadaveri che riapparivano ai loro cari, cadaveri che spargevano contagio. Dunque gli studiosi si concentravano allo spasimo sul problema: com’è possibile? Da qui tutte le precisazioni che certo possono risultare speciose, inutili, e che con spirito voltairiano potremmo anche considerare ridicole e incongruenti, tuttavia sono state date. Il vampiro non vive solo di fantastico, ma di realismo. Resta realismo paradossale, certo, perchè è il realismo di un ossimoro , rappresentazione di un contrasto inspiegabile. D’altra parte la fisica quantistica ha scandalizzato il senso comune, dimostrando che un oggetto può transitare contemporaneamente da due parti opposte. I Sette Problemi Matematici Irrisolti ci offrono problemi della stessa natura. Si potrebbe non tanto paradossalmente dire che una figura superstiziosa come quella del Vampiro, ci conduce alla stessa violazione del senso comune lungo la quale ci ha condotti lo sviluppo della Scienza. Questa continua violazione chiede, esige la compensazione del plausibile. Il vampiro, qualunque cosa sostenga Stephen King, non è Babbo Natale. Il vampiro è la Morte che viene a visitarci. E la Morte ci resta incomprensibile e astratta nella stessa misura in cui sappiamo che è ineluttabile ed estremamente concreta.

Postato sabato, 8 maggio 2010 alle 18:51 da Gianfranco Manfredi


Il tentativo di storicizzare la figura mitica di Cristo, rendendola plausibile al punto di convincere milioni e milioni di persone della sua effettiva realtà storica, è molto significativa in tal senso, ma magari ci tornerò quando avrò approfondito la faccenda di Tages. In generale, la mia impressione è che il materialismo scientifico dell’epoca moderna, nella sua prima fase, si è dedicato all’oggettivazione del simbolico, respingendone una parte nella pura superstizione, e storicizzandone un’altra. Il risultato è che noi crediamo agli Dei molto più di quanto non ci credessero gli antichi. Per credere abbiamo disperato bisogno di realismo, senza il quale il reale pare sfuggirci. Nella civiltà delle immagini, il non rappresentabile non esiste. Ecco perché la letteratura si è ritrovata a mal partito rispetto al popolo, quando è dilagato il cinema. Nel cinema vediamo cose del tutto implausibili, ma il fatto di vederle materialmente rappresentate e in azione, ce le rende credibili. La letteratura richiede uno sforzo ben superiore : la percezione del non rappresentabile. Il suo stesso oggetto, non appare identico per tutti, non esiste senza la soggettività del singolo lettore. La narrativa ha anticipato secoli prima il problema posto dalla Scienza moderna all’inizio del 900, vero punto di distacco dalla Scienza ottocentesca, e cioè: se l’osservazione influenza il fenomeno osservato, che ne è dell’oggettività del fenomeno? E qui mi fermo prima di precipitarci tutti nel deliquio.

Postato sabato, 8 maggio 2010 alle 19:10 da Gianfranco Manfredi


@Gianfranco
La Fenice è uccello mitico, quindi non commestibile, a metà tra un’aquila e un airone, di colore rosso sangue, capace di ricostruirsi ciclicamente dalle proprie ceneri. Cara al cuore di numerosi scrittori, pittori e musicisti, ne parla Ovidio nelle Metamorfosi (XV 391-408). E Dante Alighieri evoca proprio la Fenice ovidiana in relazione con la metamorfosi infernale del dannato Vanni Fucci, che morso alla nuca da un serpente in un istante si incenerisce e subito rinasce nelle sue fattezze precedenti.
L’incenerimento e la rinascita sono illustrati da una similitudine che apparenta il dannato alla fenice:
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«Così per li gran savi si confessa / che la fenice more e poi rinasce, / quando al cinquecentesimo anno appressa; // erba né biado in sua vita non pasce, / ma sol d’incenso lagrime e d’amomo, / e nardo e mirra son l’ultime fasce» (Inf. XXIV 106-111).
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Nel corso dell’evoluzione del mito della Fenice ( già menzionato dal poeta Esiodo e descritto nel quinto secolo a.C. da Erodoto, che collega l’Araba Fenice all’immarcescibilità dell’incenso ), questo uccello solare entra anche nel bestiario allegorico cristiano come figura di Cristo, della sua morte e risurrezione, e del cristiano destinato a risuscitare dopo la morte alla vita eterna. Non a rinascere continuamente, ma a risuscitare una volta per tutte, dove si svolta una sola volta.
Per quanto possa sembrare inaudito e contrario a ogni legge naturale, il tema cristiano della « tomba vuota » e della resurrezione in un salvifico “corpo di gloria” annuncia una immortalità ‘sovrannaturale’ e non ciclica.
L’immortale dannato Vanni Fucci rappresentato da Dante è invece soggetto alle metamorfosi in un giro senza fine di resurrezioni continue, vale a dire senza misericordia. La sua parodia infernale della Fenice cristiana è una immortalità vana, ripetitiva e crudele come quella della natura, tautologica come quella del serpente Uroboro, mitica e artistica come quella della fenice della lettura ovidiana – e infine fragile, disperata e malefica come l’immortalità del vampiro.
Anche nei racconti di vampiri vi sono tombe vuote. E, nell’attesa di essere invitato ad entrare, un fantasma a un tempo noto e inaspettato ( quasi un’ombrosa parodia del Risorto) si tiene malinconicamente alla porta e bussa mordendo il vuoto. Nell’epoca della notte del mondo e della famosa « mancanza » di Dio, il vampiro assume un colore di abisso e appare come uno specchio vuoto. Solo vuota cornice di spavento ?
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Aggiungo che l’altro giorno, tra un risucchio e l’altro, sono passato a casa di Francesco Saba Sardi, l’immortale traduttore del Dracula di Stoker, che mi ha detto che per capire qualcosa del Vampiro occorre conoscere il Diavolo. Non ho fatto una piega, anche se in cuor mio ho recitato una preghiera ( forse, come la nuova e gentile amica Simonetta, dovrei anch’io portare come amuleto un corno nella giarrettiera).
In effetti, Dracula è debitore di numerosi suoi tratti caratteristici all’immaginario cristiano. Il Diavolo, a sua volta, sarebbe una trasformazione in negativo dell’antico Pan – dato già per morto nella tarda antichità, quando – come racconta Plutarco nel Tramonto degli oracoli – un grido proveniente dal mare percorse le città e i villaggi: “ Pan, il grande, è morto!”.
La natura aveva perduto la sua anima, e l’uomo la sua connessione psichica con la natura. Non si trattava di una connessione chiara e razionale, ma essenzialmente emotiva, mediata da Eco.
Oggi è difficile che la natura riesca a uscire fuori dai televisori e dal pc, anche se talvolta ci riesce, incidentalmente.
Inoltre, riflettendo entro i nostri istinti, solo una debole eco permette di catturare coscienza. Ma gli istinti – come sostiene Hilmann – sembrano aver perduto la loro luce quasi luciferina e cadono facilmente nell’ascetismo e nel conformismo. Oltre che – aggiungerei – nella follia della normalità e nelle buone ed ipocrite maniere, tipiche di un Edward Cullen & C. .
Anche secondo Saba Sardi non esistono più i selvaggi e gli istinti seguirebbero come un gregge senza ribellione istintuale il nuovo pastore, il Cristo ascetico, con il suo monoteismo dai tratti astratti, violenti, e i suoi nuovi mezzi di direzione.
Naturalmente non sono molto d’accordo, perché a me il Primitivo, il Pazzo e il Selvaggio piacciono in Letteratura, non nella vita. Nel recinto della Letteratura queste forze primitive, insieme al cavallo pazzo della Fantasia, possono correre e scorazzare quanto vogliono – purché limitate dal recinto della Grammatica e della Sintassi, nonché dai limiti liberamente posti della fedeltà alla parola data e del disinteresse.
Così mi chiedo cosa sarebbe successo se il Paleolitico non fosse mai finito e se invece di seguire un Pastore di famiglie di pecorelle o finte pecorelle alla Edward Cullen & C seguissimo un Pastore di fratelli lupi.
Ad ogni modo, la tesi è che privata della sua anima grande, colma di Dèi, la natura può essere controllata ad oltranza dalla volontà del nuovo dio: l’uomo, modellato ad immagine di Ercole o Prometeo, che pompa, poppa e attinge da essa tutto quello che gli serve, la riduce a merce e l’inquina senza alcuna remora morale, salvo cacarsi sotto se qualche vulcano sbuffa ed erutta in lontananza… seguito dall’onda nera.
L’immagine di Pan, mescolatasi con quella del neo-paganesimo e del Diavolo, rivive però nell’immaginazione letteraria. E Pan vive nel rimosso che ritorna.
Se, come scrive Junger ( in Blatter una Steine), “gli altari in rovina sono abitati dai demoni” , c’è da chiedersi quali demoni abitano, oggi, questo splendido cantiere di rovine che è la Letteratura. E non dico il giornalismo, con le sue notizie del diavolo.
L’immagine di Pan rivive non solo, spesso edulcorata, nella Letteratura, ma anche nelle psicopatologie dell’istinto che si fanno avanti nell’incubo e nelle qualità erotiche e paniche ad esso associato. Oltre che nelle rivolte e nelle ribellioni dell’istinto. E, talvolta, nella Scrittura, che è altro dalla Letteratura ecc.
E’ quello che mi è parso di capire, mentre il Saba Sardi versava generose razioni di whisky irlandese nei nostri bicchieri e si lanciava in una vertiginosa difesa del Paleolitico e l’irrisione del Dominio in cui oggi versa il mondo cosiddetto civilizzato, afflitto dalle metastasi del potere politico, religioso e della perenne preparazione alla guerra. Son favole ben scritte, argomentate con molta sottigliezza e competenza semantica & linguistica. Le si possono leggere anche nel suo recente « L’onnifavola » ( Brevino editore, 2010), di cui sono onorato di aver potuto portare a casa una copia dedicata « con amicizia e bei ricordi ».
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Quanto a Tages, dal momento che hai voluto mettermi la pulce nell’orecchio, non mancherò d’informarmi – e credo che l’occasione certamente non mancherà, dal momento che uno dei nostri associati della SISSC ( Società Italiana per lo Studio degli Stati di Coscienza), Giovanni Feo, è un valido esperto di misteri etruschi. Suoi i libri “Misteri etruschi”, appunto, e “Miti, segni e simboli etruschi”, entrambi usciti in libreria per Stampa alternativa.
Forse potrebbero essere utili, li ho appena tirati fuori dalla libreria e – dopo una veloce spolveratina – attendono come vampiri in agguato sul comodino.
Spero che la lettura, questo vizio impunito, non ci costi troppo. Sarebbe il colmo se, dopo aver rinunciato ai dèmoni del Novecento, agli angeli new age e ai mezzi vampiri alla Eduarduccio, finissimo con il cader vittime dei libri. :-)
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P.S. A proposito, forse Harker avrebbe molto da dire su quello che gli ha combinato quello schifiltoso di Dracula quando, da brava mammina, gli serviva il pranzetto e gli rammendava le calze ( bucate dai rovi di Transilvania). Ma questa sarebbe un’altra storia e un altro Dracula.

Postato sabato, 8 maggio 2010 alle 19:10 da Gianni De Martino


Io li adoro i dibattiti non-chiusi ;-) .
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P.s. Prima o poi organizzerò una bella discussione sulla figura della Fenice (è una delle cose che ho “in cantiere”).

Postato sabato, 8 maggio 2010 alle 19:27 da Massimo Maugeri


Per Simonetta Santamaria, Danilo Arona, Claudio Vergnani, Flavio Santi, Franco Pezzini, Paolo De Crescenzo, Luciano Comida (se mi leggete).

Cari amici, sarei molto lieto di poter ospitare vostri interventi nel capitolo vampirico che inserirò nel nuovo volume di “Letteratitudine, il libro”. Vi chiederei – qualora foste disponibili – un contributo (massimo 12.000 battute) che potreste anche ricavare dai commenti che avete scritto nell’ambito di questa discussione.

Postato sabato, 8 maggio 2010 alle 19:36 da Massimo Maugeri


Sì, sulla fenice, andrebbe ricordato il mito di Horus, falco divorato dal sole, ma non voglio approfondire perché ne ho narrato nel mio nuovo romanzo, per cui… se approfondisco va a finire che sostituisco un testo concettuale a uno espressivo e allora perchè diavolo faccio lo scrittore? Torno invece sul problema del credibile e del rappresentabile con un esempio più letterario che filosofico. Leggo un libro di Wilbur Smith dove a un certo punto l’eroe viene letteralmente travolto da un’ondata di piena del Nilo (mica di un fiumiciattolo qualsiasi) . Che fa il nostro? Si arrampica su un detrito e usandolo come tavola da surf viaggia tranquillo. Letto in romanzo un passaggio del genere risulta esilarante, proprio in quanto assurdo. Vista in cinema una scena del genere risulterebbe per quanto improbabile, emozionante. Il cinema, in sostanza, ci fa apprezzare le cacate. Il romanzo quando ce ne offre a piene mani, ci sembra di colpo un romanzaccio. La credibilità, in romanzo, richiede maggiore realismo. Il fantastico, dal canto suo, in romanzo , ci coglie sorpresi e inadeguati, perché ci evoca simboli che la nostra mente NON riesce compiutamente a tradurre in immagine. Ecco perché ritengo la letteratura più vicina alla musica che alla pittura. In musica, applicare immagini mentali ai suoni, è esperienza disturbante. Quando Walt Disney lo fece in quel capolavoro che è Fantasia, venne accusato di pessimo gusto dai cultori di musica classica. Esagerando, perché la libera elaborazione di Disney, non toglieva nulla alla musica. Non ricordo quale fosse (Ponchielli?) il brano usato per la danza degli ippopotami, ma per quanto quelle immagini siano famose, se ascoltiamo quel brano, non ci vengono in mente degli ippopotami in tutù. Nella letteratura c’è molto dell’irrappresentabile che è proprio della musica.

Postato sabato, 8 maggio 2010 alle 19:53 da Gianfranco Manfredi


@ Massimo: ok, raccatto un po’ di roba e metto su qualcosa. Intanto grazie per la tua squisita ospitalità e disponibilità. Un vero Conte (Dracula?)
:)

Postato sabato, 8 maggio 2010 alle 20:07 da Simonetta Santamaria


Il processo in atto di riduzione della musicalità della scrittura, è frutto della rimozione del simbolico. Perdendo per noi di concretezza i simboli, come potremo, anzi come possiamo affrontare, la caduta della materialità del nostro mondo attuale sotto tempeste economiche e climatiche? Che ne sarà di noi quando l’unico simbolico conservato ed effettuale, la Virtualità del denaro, si dissolverà come in Argentina e come in Grecia sotto i nostri occhi e dai nostri conti correnti? Senza saldezza del simbolico, senza la forza della letteratura, ci ritroveremo come siamo: persi. Scusate, non sono riflessioni da sabato sera. Per fortuna domani c’è la pausa partite. Bello il racconto di Gianni del suo incontro con Saba Sardi. Nelle parole che riferisce riecheggia l’eco della distanza che si è andata allargando come voragine tra intellettuali veri, media e popolo. Eppure questo è un motivo in più per dedicare la propria vita (tra le altre cose necessarie ) al superfluo della scrittura (mai così necessaria come in questo momento). Non lamenti, ma racconti.

Postato sabato, 8 maggio 2010 alle 20:34 da Gianfranco Manfredi


E letture ovviamente. Chi non legge i segni vergati su carta, neanche riesce a leggere i segnali dei sentimenti sui volti, neanche riesce a leggere i segni dei tempi. La voragine si è scavata proprio tra chi ha letto e legge tanto e chi non sa più leggere.

Postato sabato, 8 maggio 2010 alle 20:39 da Gianfranco Manfredi


A MASSIMO: letto, grazie davvero, provvederò.
A TUTTI/E: complessivamente, è una discussione davvero splendida, ricchissima e multiforme. In teoria, potrebbe non finire mai e autoalimentarsi in eterno, con l’arrivo di sempre nuovi interlocutori che porterebbero sempre nuova linfa (o nuovo sangue, per restare in tema).
NON C’ENTRA: oggi ero in carcere, a trovare un detenuto che martedì ha il processo. Ha 49 anni, metà della sua vita passata in galera per furti, rapine a mano armata, violenza privata, tentato omicidio eccetera. Da alcuni anni rigava dritto ed è incappato in una storia nella quale è (forse) innocente.
Io l’ho conosciuto quasi un anno fa nel mio lavoro allo sportello “relazioni col pubblico” e da allora (Gesù Cristo è un rompiballe tremendo) ho cercato di aiutare lui e la sua sgangherata compagna. Ma è lei che l’ha inguaiato e che rischia di fargli fare 8 o 9 anni.
Al mondo lui non ha nessuno, nessuno se non me e il parroco (un giovane prete d’assalto).
Vite deragliate e naufragate.
E andare in carcere a fargli visita, portargli qualcosa (soldi, vestiti, libri ma soprattutto umanità) è come entrare in un’altra dimensione.
Due settimane fa gli avevo portato anche L’ISOLA DEL TESORO di Stevenson: mi ha fatto piacere che finora se lo siano passato in cinque o sei detenuti, divorandolo con gioia ed entusiasmo. Vorrei che Robert Louis lo sapesse.
Mi perdonate se vi ho tediati per raccontarvi questa cosa?

Postato sabato, 8 maggio 2010 alle 22:25 da luciano / idefix


Grazie a te, Simonoir… ma no, non sono Conte… però sono “con te”.
;)

Postato sabato, 8 maggio 2010 alle 23:15 da Massimo Maugeri


Non ci hai tediati, Luciano. Tutto il contrario, semmai.
Secondo me il vero tesoro dell’ “Isola del tesoro” è proprio il libro di Stevenson.
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Un saluto al prode Gianfranco.

Postato sabato, 8 maggio 2010 alle 23:18 da Massimo Maugeri


Prode? Ecco un esempio di vera prodezza da Repubblica di oggi, riportato da Michele Smargiassi.

” Si sa, espugnare la virtù è un afrodisiaco sublime per i libertini di ogni epoca. (D’Annunzio) ci riuscì (a espugnare la contessa Mancini) dopo un anno di corte serrata, strappandole finalmente il ‘grande dono’ la notte del 11 febbraio 1907, nelle stanze della Capponcina (la villa toscana che presto i creditori gli avrebbero a loro volta espugnato), in una “sera nebbiosa e molle” accesa da un amplesso destinato a restare leggendario e ineguagliato nella memoria di entrambi, tanto che quel numero undici diverrà magico per D’Annunzio: nello stesso giorno, undici anni dopo, piloterà pensando a lei il Mas dell’avventura di Buccari…”

Viene in mente, si parva licet, l’interpretazione coppoliana di Dracula, secondo la quale il Conte, ossessionato da un amore perduto, ritrova secoli dopo la sua amante rediviva nella di lei sosia Mina Harker. La vampirizzò ( a questo punto è lecito domandarselo) nella ricorrenza dell’ amplesso fatale di secoli prima? Un amplesso “leggendario e ineguagliato” ( ciascuno di noi ne ha avuto uno nella vita, pochi ne hanno segnato la data, molti hanno frugato invano nella memoria, pur certi d’avercelo avuto, almeno uno ) può dunque vampirizzarci nei secoli come diabolica ricorrenza? L’azione di Buccari, consistente in una “penetrazione” nelle linee nemiche, avvenne nella notte tra il dieci e l’undici. Dell’azione riferisce così Wikipedia: “Nonostante non abbia prodotto risultati materiali particolari, nel 1918 tale azione ebbe l’effetto di risollevare il morale italiano.” Appunto.

Postato domenica, 9 maggio 2010 alle 12:34 da Gianfranco Manfredi


@ Franco Pezzini. Essendo tu il massimo esperto di Dracula, ti è noto se la fugace penetrazione del Conte in Inghilterra risollevò il morale dei rumeni? O cose del genere capitano solo agli italiani?

Postato domenica, 9 maggio 2010 alle 12:56 da Gianfranco Manfredi


Taccio da un po’ ma – come Massimo sa – sto lavorando al mio pezzo “finale”. Cerco di farlo pervenire prossimamente.
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Penetrazioni… :-)

Beh, l’effetto-Stoker, o meglio il successo mondiale dei saggi di McNally e Florescu negli anni Settanta, ha avuto in Romania ripercussioni varie. Da un lato il fastidio mostrato dagli storici locali verso la lettura vampiresca del personaggio Vlad, e manifestato ai colleghi occidentali in occasione di vari simposii. Qualcuno ha risposto che difficilmente il Dracula storico avrebbe avuto notorietà internazionale in assenza di tale promoter; e va anche detto che sul personaggio – un po’ ingombrante, con le sue trovate e i suoi pali – nei secoli scorsi non era mancato qualche imbarazzo anche in loco. D’altra parte l’effetto-Disneyland presenta vantaggi pragmatici sfruttati già da Ceaucescu: e certi castelli presentati ai turisti non sono più storici di quello del romanzo (che tra l’altro, nel finale abortito, avrebbe dovuto sprofondare in un cataclisma). Ma anche il Dracula eroe nazionale, come ci dicevamo parecchi post addietro, è in qualche modo un personaggio fantastico: ovviamente non perché non abbia storicità, ma perché qualunque interpretazione a senso unico su una figura tanto estrema, complessa e sfuggente rischia la forzatura.
E il cinema non poteva che fare la sua parte. A dir la verità, prima dei rumeni sono arrivati i turchi, con quel Drakula Istanbulda di Mehmet Muhtar, 1952, dove Atif Kaptan nel ruolo del vampiro mostrava i primi canini allungati: e già qui si era nel terreno del vagamente storico, perché il film si ispirava a romanzi come Kazikli Voyvoda di Ali Riza Seifi, 1928. Ma poi inevitabilmente sono arrivati anche gli eredi di Vlad: a partire dal molto patriottico Vlad Tepes di Doru Nastase, 1978. In seguito però la figura storica e quella stokeriana si sono fusi con risultati non privi d’interesse: per esempio nel Vlad Nemuritorul di Adrian Popovici, Romania 2002, abbastanza curioso, o nella miniserie Dark Prince: The True Story of Dracula di Joe Chappelle, USA/Romania 2000, girata interamente in Romania. Dove a interpretare il protagonista – pallido, alto e longilineo, dunque tutto diverso dal Vlad storico – è quel Rudolf Martin, che lo stesso anno ha già ricoperto il ruolo nel telefilm Buffy vs. Dracula. Ormai la postmodernità è arrivata anche nei Carpazi…
In ogni caso è interessante che nella cultura di massa – e non solo in Occidente, a giudicare da questi film – i nomi Dracula e Vlad conoscano un’osmosi sempre più forsennata.

Postato domenica, 9 maggio 2010 alle 17:08 da Franco Pezzini


Ho chiesto notizie sul regista serbo autore di Tears for sale al mio amico di Belgrado Darko Perovic (disegnatore tra i migliori di Magico Vento). Non si tratta di un film di vampiri (avverto) ma di una storia fantastica che comunque molto a che fare con i temi qui discussi perché muove dalla tradizione popolare delle Piangenti, cioè le donne che venivano pagate per piangere i morti. Ero stato così contento di vedere un film bello prodotto da una cinematografia quasi sconosciuta come quella serba, che mi ero illuso che là le cose fossero più facili che da noi per dei registi con idee. Darko mi precisa però che Uros Stojanovic, il regista del film, che è anche regista teatrale, ci ha messo otto anni per realizzare il film. Ora ne sta preparando un altro. Chissà tra quanti anni potremo vederlo?

Postato domenica, 9 maggio 2010 alle 18:49 da Gianfranco Manfredi


Per chi fosse interessato, ecco l’originale della mail di Darko:

I don’t know personally director Uros Stojanovic, know only that he’s a son of popular and very sympathetic character actor Fedja Stojanovic(also appears in this movie). His sister is Alisa, very famous theater director… so, it’s a theater/movie family… As I know this is his first movie, and he made it through few(8) years…
I think he is making new one…
About film, as I told you, I watched it, but… I believe that you have luck to see it with subtitle or synchronisation. In serbian original sound is strange and I didn’t understand a half of dialogue. But, it is visually impressive and have good idea and story. And nice cast of course. Better that many other serbian movies in last period. That’s it:-)

Postato domenica, 9 maggio 2010 alle 18:52 da Gianfranco Manfredi


Curioso, eh? Io il film l’ho visto doppiato in francese per cui non ho avuto difficoltà di comprensione. In originale persino un serbo non ci capisce quasi un’acca (dei dialoghi). Scommetto che Ghezzi in Fuori Orario ce lo farà vedere in originale.

Postato domenica, 9 maggio 2010 alle 18:54 da Gianfranco Manfredi


Ho visto Tears For Sale, doppiato in francese con il titolo Charleston et Vendetta. E’ un’immersione fantastica nella Serbia degli anni Venti, all’indomani della Prima Guerra Mondiale. I giovani morti in combattimento sono stati risucchiati dai vampiri della guerra e nei villaggi di campagna, abitati unicamente da donne sopravvisute alla sbornia di sangue, si è creato un grosso buco demografico e molta frustrazione anche sessuale. Da qui iniziano le avventure delle due sorelle Ognjenka (Sonja Kolacaric) et Mala Boginja (Katarina Radivojevic) alla ricerca di giovani uomini in grado di amare e di « procreare ».
Non per lo stile irridente, quasi barocco, folle ed euforico ( come se per uscire dalla depressione fosse sufficiente l’euforia !), ma per il riferimento ai Balcani, il film mi riporta alla memoria la dolente immagine e le conversazioni avute con lo scrittore serbo Aleksandar Tišma (1924-2003), quando venne a Milano per presentare la traduzione del suo “Pratiche d’ amore”, edito da Garzanti.
Era un tristissimo mese d’Aprile del 1993 e l’Europa, come per improvvisa amnesia, era diventata una terra di Serbi, di Croati e di Bosniaci : una comunità multietnica di parenti, conoscenti e amici si trasformava in orde di miliziani, banditi e volontari che si scannavano con i coltelli, casa per casa e in pieno giorno, nella campagne, anzi nelle caverne, attaccandosi alle città della ex Jugoslavia.
Si attaccavano come bande di lupi alle città e a quello che le città rappresentavano ( il 25 agosto 1992, poco dopo la mezzanotte dalle colline che circondavano e ancora circondano la città di Sarajevo i serbi avevano sparato bombe incendiarie sulla biblioteca nazionale, continuando a bersagliarla a cannonate per tre intere giornate).
Lo scrittore –di madre ebrea ungherese e di padre serbo, già scampato allo sterminio degli ebrei di Novi Sad e testimone della tragedia della Shoa e dello sterminio degli Ebrei d’Europa – era fuggito in quello che restava dell’Occidente, passando da una capitale dell’altra.
“ Sono fissati con l’appartenenza tribale” – diceva – “ e caduto il comunismo, incapaci di produrre un pensiero politico sano, hanno scoperto la nazione, il gorgo del nazionalismo.”
Quello che mi colpì, fu che alla domanda “quando finirà”, lo scrittore allargò le braccia, dicendo: “ Quando i giovani morti in combattimento diventeranno troppi, i vecchi che restano per seppellirli cominceranno a riflettere e ogni famiglia avrà perlomeno un morto in casa , allora ci sarà qualche tregua” ( cfr. “Sbornia di sangue: intervista con Aleksandar Tisma”, Il Mattino, 14 aprile 1993).
E’ così che finiscono in genere le guerre – quelle del passato e quelle che si preparano – nei Balcani, in Medio-Oriente e altrove per il mondo ? Non è una consolazione sapere, o credere di sapere, che è da sempre, fin dai tempi di Caino e Abele, che una guerra incestuosa va senza fine consumandosi su terra e che il pianeta è in bilico su voragine di stelle. Certo, il paradosso della ripetizione non è una consolazione. Non lo è neanche rallegrarsi di veder passare il mondo, come farebbe uno gnostico dell’Adelphi.
Insomma, quello che volevo dire è che non sono le parole, e neanche i vampiri, a fare la guerra: sono gli uomini cosiddetti civilizzati, quando – come per improvvisa amnesia – vengono attratti dalla barbarie, anche per noia, infingardaggine o sazietà.
Attratti dalla barbarie, e dall’intensità della barbarie: a cominciare dalla tirannia che si annida nel rifiuto della complessità e della memoria, nel tentativo di abolire, insieme all’inconscio, anche il simbolico. E’ allora che il tempo, con le parole di Shakespeare, sembra uscire fuori dai suoi cardini ( “time out of joint”).
E’ quello che sta accadendo, mi pare, su scala planetaria, in un vero e propria clima di “disperazione di massa”. Oggi è specialmente dalle parti dell’area islamica ( compreso l’Iran sul punto di dotarsi dell’arma atomica ) – un’area islamica abitata da una gioventù verdeggiante, a un tempo esaltante e oppressiva , che gli intellettuali e gli scrittori – ormai sostituiti dai terroristi che in tv parlano alle moltitudini – non sono più in grado di influenzare, producendo un pensiero sano.
Così pare che oggi, a creare l’ immagine del mondo, della Storia e delle molte storie possibili, o anche impossibili, non siano rimasti che i terroristi e qualche giornalista. Perlomeno, a voler credere alla Rete, alla tv o a film come Matrix e altri dello stesso genere che si susseguono – così pare.
Altro è Tears For Sale, un film paradossale, un po’ difficile, fin troppo fluido, malinconico, indiavolato e “creativo”, e che però fa ancora riflettere sulla possibilità che possano ripetersi chissà quali altre porcherie che poi i posteri – se mai ci saranno posteri – chiameranno “di portata storica” – insomma, il famoso “uragano della Storia”, ecc.
Forse la responsabilità di uno scrittore, oltre che dai film che vede, dipende anche dai sogni che fa.

Postato lunedì, 10 maggio 2010 alle 14:22 da Gianni De Martino


Forse la responsabilità di uno scrittore, oltre che dai film che vede, dipende anche dai buchi di memoria e dai sogni che fa.

Postato lunedì, 10 maggio 2010 alle 14:24 da Gianni De Martino


I vampiri continuano a popolare le pagine dei quotidiani.
Segnalo questo articolo di Santa Di Salvo sulla Terza Pagina de “Il Mattino” di oggi:
qui
e qui

Postato lunedì, 10 maggio 2010 alle 15:45 da Massimo Maugeri


@ Gianni. Certo la guerra è l’orrore supremo. A mio modesto avviso Malaparte ha saputo renderlo meglio di Céline. Tolstoi si è ritratto, pur genialmente, mostrandoci solo polvere e sbandati che non sanno dove si trovano. E’ un modo per essere nella situazione, in quanto i racconti dei soldati sono spesso così: una confusione d’inferno in cui non si capisce niente. Le riflessioni Tolstoi le dedica da anarchico evangelico a irridere alla guerra spiegata con le Cause storico-economiche. Non c’è origine materiale, dice, che possa spiegare perché in certi momenti, masse sterminate di uomini che nella guerra e della guerra non hanno nulla da guadagnarci, invadono altri paesi in una sorta di cupio dissolvi di sé, più che del nemico. Sono contento che ti sia piaciuto il film che non è un capolavoro, ma di questi tempi magri è comunque una botta di espressività, costruito con amore, e si vede. Otto anni o meno, è stato fatto. Noi inseguiamo il Barbarossa e altra cazzate che al di là del merito sembrano voler percorrere strade del tutto incomprensibili nel vasto globo, non di racconto epico e tragico, ma guerrafondaio e celebrativo, roba che neppure il cinema di epoca fascista, nemmeno Blasetti ( che in ogni caso era un grande regista ) aveva avuto l’impudenza di fare.

Postato lunedì, 10 maggio 2010 alle 18:31 da Gianfranco Manfredi


Ho detto “noi”, ma avrei dovuto dire “loro”… questi poveri dementi che stanno a bofonchiare di Padania in pieno crollo del sistema occidentale, ormai (come ho sentito in un dibattito di RaiTre) cavallo dopato cui vengono inferte rinnovate iniezioni allo scopo di ritardarne il crollo che tutti sanno arriverà, e che i vecchi sperano ricada sui figli quando loro non ci saranno più. Che tristezza sentire Scalfari da Fazio… una stupidaggine via l’altra, lamenti da senescenza sulla lingua da messaggini, sulla fine del lavoro intellettuale della figura stessa dell’intellettuale (forse intendeva dire Dopo di me il Diluvio?) , sul tramonto della scrittura (ma quando mai? In nessuna epoca della storia umana si è scritto tanto come in questa, che poi si scrivano cose becere è un altro discorso, ma quanta roba bella ci perdiamo sommersi come spiamo da montagne di carta? Anche questo è un produrre in debito), sulla non-memoria delle nuove generazioni, generazioni peraltro di cui i grandi vecchi non hanno conoscenza alcuna ( e se è triste non conservare memoria , quanto più triste è la cecità per il nuovo e il non omologato, ogni giorno testimoniata dalle smarrite pagine culturali dei nostri quotidiani!). Se è così che si diventa vecchi, allora sì… meglio vampiri!

Postato lunedì, 10 maggio 2010 alle 18:46 da Gianfranco Manfredi


Come siamo non come spiamo… ma in fondo è lo stesso. Ormai anche la televisione la si guarda come da un pertugio. E’ morta e non lo sa. E’ sempre più televisione di ieri. Mai l’attualità ci è apparsa così sepolcrale.

Postato lunedì, 10 maggio 2010 alle 18:51 da Gianfranco Manfredi


Leggere, leggere e ancora leggere, per imparare a vedere. Basterebbe fare due conti per specchiarci nel nostro orrore: quante ore, giorni, anni della nostra vita abbiamo dedicato a un Costanzo, a un Baudo, a un Vespa? Se queste razioni quotidiane venissero messe tutte in fila, il tempo che ci abbiamo sprecato ci diverrebbe davvero intollerabile. Tutto tempo sottratto. Davvero è colpa dei figli, degli adolescenti, e non dei loro padri smemorati, sedotti da questa stupidità collettiva gabellata per pace, da queste litigate da cortile gabellate per scontri ? Sono responsabili i figli dell’illeggibilità dei giornali dei padri? I figli sono responsabili d’una sola cosa: di volergli troppo bene ai padri, di non essersi sbarazzati prima, di loro. Se lo avessero fatto, forse i padri non avrebbero fatto altri danni, e non avrebbero aspettato di diventare canuti per rimettersi a leggere.

Postato lunedì, 10 maggio 2010 alle 19:09 da Gianfranco Manfredi


Ma bisognava davvero aspettare che il petrolio si ingolfasse da solo e sputtanasse tutto lo sputtanabile per capire che bisognava cambiare? Da un paio di decenni, chi si è occupato di narrativa “giovane” e fumetti, ha visto rifiorire l’età del vapore (cioè dell’idrogeno): steam-punk, neo-vittorianesimo sarcastico, visioni e profezie di catastrofi imminenti. Il collasso dell’epoca della benzina non ci è stato raccontato in infiniti modi dal cinema, con sempre maggiore recrudescenza dagli anni 8o in poi? E quale destino si è riservato ai “giovani” profeti? La serie B. Bravi papà, che da nonni rimpiangono Cartesio e Voltaire, ma che mentre invecchiavano non si sono accorti di un beneamato cazzo. E quelli tra noi che confidavano nel cerino che poteva incendiare la prateria, hanno visto levarsi roghi immensi , ma subito circoscritti e spenti perché non trovassero alimento. E quelli che gridavano (non si capisce perché trionfanti) che una farfalla che sbatte le ali a Pechino può creare un tornado a Miami , hanno dovuto arrendersi all’evidenza che per quanto sbattano le ali le farfalle superstiti, non succede assolutamente niente,e tutto va come non dovrebbe andare , mentre l’unica peste che sentiamo davvero minacciosa è il collasso finanziario alle porte, perché della benzina, in fondo, si potrà anche fare a meno, qualcuno si inventerà qualcos’altro, ma dei quattrini… che ne sarà di noi senza quattrini?

Postato lunedì, 10 maggio 2010 alle 19:26 da Gianfranco Manfredi


Caro Gianfranco, riprendo questo tuo commento sui quattrini.
La parola “quattrini” mi richiama sempre in mente i “quatrini” di trilussiana memoria.
-
Ninna nanna nanna ninna
er pupetto vo’ la zinna
fa’ la ninna dormi pija sonno
che si dormi nun vedrai
tant’infamie e tanti guai
che succedono ner monno
tra le bombe e li fucili
per i popoli che so’ civili
.
ninna nanna tu non senti
li sospiri e li lamenti
de la pora gente che se scanna
che se scanna e che s’ammazza
a vantaggio della razza
de la gente che se scanna
per un matto che comanna
e a vantaggio pure d’una fede
per un Dio che nun se vede
.
ma che serve da riparo
ar re macellaro
che sa bene
che la guerra e’ un gran giro dr quattrini
che prepara le risorse
pe’ li ladri delle borse
.

fa’ la ninna fa’ la nanna
fa’ la ninna che domani
rivedremo ancora li sovrani
che se scambiano la stima
boni amichi come prima
so’ cugini e fra parenti
nun se fanno i complimenti
torneranno proprio tutti uguali
li rapporti personali
.
e senza l’ombra d’un rimorso
sai che ber discorso
ce faranno tutti insieme
su la pace e sul lavoro
pe’ quer popolo cojone
risparmiato dar cannone

Postato lunedì, 10 maggio 2010 alle 21:32 da Massimo Maugeri


E riprendendo il commento sui quattrini, provo a lanciare (rivolgendomi a voi esperti) un nuovo filone di discussione…
Che rapporto ha Dracula (ma estendiamo pure ai vampiri in generale) con il denaro?

Postato lunedì, 10 maggio 2010 alle 21:34 da Massimo Maugeri


Il magnate egiziano Mohamed Al-Fayed – che in questi giorni ha venduto lo storico negozio londinese Harrod’s alla famiglia reale del Qatar per 1,5 miliardi di sterline (circa 1,7 miliardi di euro) – continua a sostenere che Dracula si nasconde nella famiglia reale inglese. Il padre di Dodi, il compagno di Lady Diana morto insieme a lei nel terribile incidente a Parigi, ne è talmente convinto da averlo detto non ad un tabloid, ma davanti all’Alta Corte di Londra.
Secondo lui, e gran parte anche della stampa araba, dietro c’è un complotto per umiliare l’islàm, architettato proprio dalla famiglia reale : “Con l’aiuto di Allah, spero che la verità verrà fuori. È arrivato il momento di dire esattamente che cosa credo sia accaduto“. Il padre di Dodi – facendo un po’ di confusione fra Dracula e Frankenstein – se la prende soprattutto con il principe Filippo, accusandolo anche di razzismo e nazismo: “È ora di rispedirlo in Germania da dove viene. Volete sapere il suo nome per intero? Finisce con Frankenstein“.
Ora i giudici stanno facendo finta di esaminare le sue parole, non supportate da un minimo straccio di prova, e tuttavia alquanto imbarazzanti.
Al-Fayed ha anche dichiarato alla stampa di aver venduto i Grandi Magazzini Harrods per restare più vicino alla sua famiglia, specialmente alla figliola Camilla Al Fayed, un’incallita jet-setter nata nel 1985 e da molti indicata come la nuova Hilton, sebbene non la si veda mai in preda all’alcol ballare sui tavoli di qualche locale.
Forse se il Dracula di Stoker fosse stato ambientato nei giorni nostri, non sarebbe un antico nobile decaduto o un affiliato alla ricca famiglia Cullen, ma forse più un ricco trafficante di droga armi e rifiuti tossici. Forse sarebbe consulente della famiglia reale dell’Arabia saudita e socio di Bin Laden. E avrebbe come avversari, per ragioni diverse, Benedetto XVI, Corrado Augias, Scalfari da Fazio e il prof. Piergiorgio Odifreddi – quest’ultimo sarebbe avversario di Dracula solo per ragioni matematiche e strettamente scientifiche. :-)

Postato lunedì, 10 maggio 2010 alle 23:08 da Gianni De Martino


Interessante. Io credo invece (e l’ho anche scritto nel mio racconto lungo Summer of Love) che dovendo avvalersi i vampiri contemporanei di oculati amministratori del proprio patrimonio tra un risveglio e l’altro, e necessitando di tutela per svariati motivi, in materia di leggi sull’immigrazione anzitutto, ma anche di nuove registrazioni all’anagrafe, ai servizi sanitari, ai trattamenti pensionistici, oltreché (soprattutto se vampiri americani) costretti a pagare le tasse, le bollette e a ottemperare a numerose altre incombenze burocratiche da normale vita civile, abbiamo finito, i vampiri, per cadere sotto il totale controllo degli amministratori stessi, peraltro ormai facenti parte di un grosso gruppo multinazionale con partecipazioni azionarie nelle principali agenzie di rating. Quest’ultima cosa non l’avevo scritta, nel racconto, ma è un aggiornamento. Non è un caso se detti amministratori se la siano presa con la Grecia. Pare che lì, nella più classica delle patrie d’origine, gli ultimi vampiri ribelli stiano ancora facendo qualche resistenza. Sai com’è… un paletto oggi, uno domani… anche un vampiro moderno finisce per incazzarsi.

Postato martedì, 11 maggio 2010 alle 02:24 da Gianfranco Manfredi


Anche a me ha rattristato, lo Scalfari intervistato (intervistato…diciamo così) da Fazio. A parte qualche raro guizzo, era un monologo banale, fatto da una persona che non si raccapezza più e allora ricorre a sciocchezze piatte e logore, prive di quella sulfurea cattiveria che le avrebbero rese stuzzicanti. Penso ad esempio a nemici dei tempi attuali come Emil Cioran o Carmelo Bene: magari sparavano cose che non stavano nè in cielo nè in terra ma lo facevano con humour al vetriolo.
Invece Scalfari dava quest’idea: “dato che sto per morire io, con me finirà tutto. E comunque, quel che c’è non mi piace più di tanto perchè sono vecchio”
Almeno Giorgio Bocca si incazza ed è tentato di tirar di nuovo fuori il mitra partigiano del 1944.

Postato martedì, 11 maggio 2010 alle 14:33 da luciano / idefix


DRACULA E IL SUO AMMINISTRATORE

Massimo chiedeva del rapporto tra Dracula e i soldi, così sono andato a rileggere. Nel suo Diario, Harker si annota elementi del castello di Dracula e la prima cosa di cui si preoccupa è di valutare “i segni di ricchezza”. Scrive: “Il servizio da tavola è in oro e lavorato con tanta arte da far supporre un valore immenso. Le tende e le stoffe delle sedie e dei sofà e i drappeggi del mio letto sono delle marche più costose e fini e devono essere stati di un valore favoloso, poiché hanno un’età di secoli, benché di conservazione perfetta.” Poi ispeziona la biblioteca e scopre che tra la grande quantità dei volumi, molti riguardano l’Inghilterra. Quando Dracula, lo raggiunge così definisce i suoi libri: “Questi amici mi sono stati cari.” in seguito Harker torna sul tema dei quattrini. Arrivando al castello ha notato dei fuochi fatui e chiede se è vera la leggenda secondo la quale dove brillano fiamme azzurrine, lì sono nascosti dei tesori. Dracula ammette che sì, per proteggere i beni dagli invasori, i locali usavano seppellire i loro beni. Dopodiché si passa a discutere della tenuta di Carfax che Dracula intende acquistare tramite il capo di Harker , Peter Hawkins di Exeter, cioè il gottoso notaio e amministratore che Dracula definisce suo amico. Questo notaio, che io ricordi, ha avuto rilievo soltanto nel film di Herzog (Nosferatu) dov’era interpretato dal grande disegnatore grottesco Roland Topor. Il personaggio ha nel romanzo una certa importanza. A Dracula interessa oltre all’acquisto della casa, che l’agenzia inglese sia collegata ad altre agenzie in Inghilterra e possa dunque valersi di corrieri efficienti (per il trasporto delle sue bare). Tuttavia Dracula si mostra subito preoccupato che una tale organizzazione di agenzie e subagenzie possa condizionarlo e chiede. “Ma potrei essere libero di sbrigare i miei affari personalmente, vero?” Harker lo rassicura e discutendo nel merito conclude, dai tanti dettagli su cui Dracula si sofferma “che egli stesso avrebbe rappresentato un ottimo agente, poiché non vi fu nulla che non avesse pensato e a cui non avesse provveduto.” Rivela anche che Dracula mostra notevole acume per gli affari. Il Conte provvede anche a fargli redigere delle lettere, dal canto suo ne ha già scritte diverse, una delle quali è diretta a Coutts & Billrenth, banchieri di Budapest, evidentemente i SUOI banchieri di fuducia. La Banca Coutts d’altro canto è una storica banca inglese, fondata nel 1692. Il socio Billrenth non risulta. Da dove spunta fuori? Bill significa conto, fattura, contratto. Rent affitto o più propriamente all’epoca, rendita. Un amministratore di una rendita dunque. Stoker, com’è noto, era l’agente dell’attore Henry Irving. Può darsi che alluda nel romanzo, allo scrupolo dell’attore nell’informarsi circa i contratti e l’organizzazione delle sue tournée. Il riferimento bancario serve probabilmente a identificare la filiale di un’ipotetica banca inglese a Budapest, ma è significativo anche di un altro fatto: Dracula ha programmato il viaggio da molto tempo, ha studiato l’inglese sui libri, e affidato per tempo la gestione del suo patrimonio a una banca inglese. Fine della prima puntata.

Postato martedì, 11 maggio 2010 alle 18:33 da Gianfranco Manfredi


Nel capitolo 8, Stoker inserisce uno scambio di lettere commerciali tra agenzie che si occupano delle casse di Dracula, confermando che tutto si sta svolgendo con perfetta efficienza. Quando Harker torna in Inghilterra contatta le agenzie. Il carico era composto di cinquanta casse. Trovarne l’ubicazione però non è facile. Se ne rintracciano ventinove (a Carfax), ma le altre ventuno non si sa dove siano finite. Harker scopre in seguito che le casse sono state trasferite in “luoghi di smistamento”, evidentemente per depistare le indagini. Uno dei covi di Dracula viene individuato in una casa d’affitto al n.347 di Piccadilly. L’agenzia che se ne occupa dice di averla venduta, ma il responsabile “non vuole sbottonarsi”, però poi si apprende da un altro scambio di lettere che l’acquirente (un certo Conte di Ville, pseudonimo usato da Dracula) ha pagato in contanti. Van Helsing quando apprende della situazione, commenta: ” La chiave della situazione è in quella casa di Piccadilly. il conte deve aver comperato parecchie case, delle quali avrà in sua mano gli atti di vendita, le chiavi e altro. Gli occorrono la carta da scrivere, il libretto degli assegni… tutte queste cose potrebbe tenerle nella casa di Piccadilly, così centrale e comoda.” Harker riesce a entrare nella casa , vi trova otto bare “in sala da pranzo” . Da conteggio risulta che ne manca ancora una. Trova anche gli atti di vendita delle varie case e un gran mazzo di chiavi. Braccato di casa in casa, Dracula scappa dal suo ultimo rifugio londinese. Prima, durante la lotta, Herker gli sferra un colpo di pugnale, ma ottiene solo di tagliargli il vestito: “dallo squarcio cadde un fascio di banconote e una manciata di monete d’oro”. Dracula scappa dalla finestra. Van Helsing commenta :”Teme il tempo, teme la fame. Non voglio lasciargli nulla che possa essergli utile, nel caso ritorni.” Con questa giustificazione, Van helsing “intasca il denaro”, e requisisce gli atti di vendita. Mina scoprirà poi, sotto ipnosi, che Dracula, con la sua ultima bara, è ormai in fuga e sta tornando in patria. Fine seconda puntata.

Postato martedì, 11 maggio 2010 alle 19:13 da Gianfranco Manfredi


Un passo indietro. Harker sposata Mina e tornato in Inghilterra si reca a Exeter dal suo capo Hawkins che, malgrado un attacco di gotta, lo aspetta alla stazione. Benedice la coppia e li proclama suoi eredi. Harker , nell’attesa di ereditare, è ormai socio di Hawkins. Con lui (stranamente) non parla di Dracula, ma si lascia mettere al corrente degli affari e “di tutto quanto riguarda i clienti”. Tre giorni dopo e Hawkins muore improvvisamente. Harker si deprime: è vero che ha ereditato una fortuna però “la mole delle responsabilità che si vede addossata lo rende sempre più nervoso.” Hawkins voleva essere sepolto nella tomba di suo padre. Non ha parenti in vita, dunque “Jonathan dovrà accompagnare il feretro.” Il funerale è molto semplice. Alla fine, gli Harker prendono l’omnibus e poi fanno due passi a Piccadilly, dove Harker vede Dracula ringiovanito che “punta” una bellissima donna su un calesse fermo. (Se non ricordo male, nel film di Coppola, Dracula appare al funerale di Hawkins, però Stoker ha invece cura di narrare che Dracula in qualche modo se ne frega del funerale del suo “caro amico” ed è in tutt’altre faccende affaccendato, addirittura in pieno tampinamento). Seguono conclusioni.

Postato martedì, 11 maggio 2010 alle 19:46 da Gianfranco Manfredi


Conclusioni finanziarie. Harker è diventato ricco. da incontentabile si lamenta pure perché gestire tutti i clienti dell’agenzia è una bella responsabilità. Su Dracula tace con il buon Hawkins. Per risparmiargli una pena? O perché ha già previsto che con il cliente Dracula regolerà i conti lui? In ogni caso dalla sua prima coltellata al Conte, piovono quattrini invece che sangue. Van Helsing si intasca la robusta mazzetta sottraendola a Dracula, unitamente ai contratti d’acquisto di svariati appartamenti e stabili interi. Le agenzie di trasporti, pur nella correttezza del lavoro svolto per il Conte, hanno contribuito a farlo rintracciare. Dracula è dovuto rientrare in Romania in fretta e furia, non tanto e non solo per la caccia spietata, ma anche perché a Londra lo hanno letteralmente messo in bolletta. Vatti a fidare degli amministratori! Sette anni dopo, Harker e Mina, con il loro figlioletto, in estate, se ne vanno in Transilvania in vacanza. Fine.

Postato martedì, 11 maggio 2010 alle 19:58 da Gianfranco Manfredi


Piccola appendice. Leslie S. Klinger nelle sue note all’edizione critica di Dracula, scrive che il 347 di Piccadilly è un numero civico sbagliato, perché all’epoca del romanzo, le uniche case corrispondenti alla descrizione di Stoker erano al 138 e al 139. Questo è di nessun rilievo, ma se qualcuno volesse andare a Londra a cercarsi la casa di Dracula, è bene che lo sappia per non perdere tempo. In compenso 347 è un numero primo. Non so se sia anche un “numero vampiro” perché non sono disinvolto come Harker con i conti (di qualsiasi natura).

Postato martedì, 11 maggio 2010 alle 20:09 da Gianfranco Manfredi


Caro Gianfranco, sei un grande!
Grazie mille. :)

Postato martedì, 11 maggio 2010 alle 21:33 da Massimo Maugeri


Ieri sera mia moglie (con questa discussione abbiamo incuriosito perfino lei, donna ironica e solida, lettrice di gialli ma del tutto refrattaria al fascino dell’horror) ha cominciato a leggere il romanzo apocrifo “Sherlock Holmes contro Dracula”.
Sulla grandezza di Manfredi, concordo.

Postato mercoledì, 12 maggio 2010 alle 08:49 da luciano / idefix


DRACULA: CERCO LAVORO
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Giovane rumeno blasonato di aspetto vampirico, reduce da un disastroso viaggio a Londra e bisognoso di… liquidità perché vittima di una banda di amministratori scornacchiati ( come riferito anche da Gianfranco), CERCA LAVORO come fotomodello / indossatore settore moda o anche articoli sportivi.
Per Referenze in Italia : Sig.ra Tatyana e famiglia Volturi, Volterra.
Prego di scrivermi in e-mail:
Dracula (chiocciola transylvania.com
Non appena ricevo lettera da Voi allora manderò mia foto e videobook.
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P.S. Disponendo di tre “vampirette” belle e affascinanti, mi potete dire un buon sito serio che cerca hostess/escort /assistente personale ?…possibilmente non a Londra! grazie mille!

Postato mercoledì, 12 maggio 2010 alle 12:02 da Gianni De Martino


Ragazzi, vi ringrazio tanto per i complimenti, però questo forum è stimolante e dedicarci un po’ di tempo ogni giorno non è uno spreco, ma una consolazione. Ad esempio, sul tema dei soldi, non avevo fatto attenzione a come fosse intrecciato agli altri in Dracula. Nel romanzo ci sono una quantità di passaggi che il cinema ha tagliato per esigenze di sintesi, ma che hanno un senso, anche “estetico” diciamo così , perché vi si esprime un senso del grottesco che mescola con una certa arditezza serio e faceto, senza temere di sfiorare il ridicolo. Non è per esempio mai stata rappresentata sullo schermo (posso sbagliarmi, ma anche su questo Pezzini ne sa molto pi di me) la scena del duello Harker-Dracula con quell’affondo di stiletto che sbudella Dracula dai suoi “risparmi”, dopodiché Dracula salta dalla finestra (che non è a piano terra), fa un volo impressionante, ricade ben bilanciato sulle ginocchia come se avesse studiato kung-fu a Hong Kong, e ai suoi allibiti assalitori che lo guardano dalla finestra, tiene un minaccioso comizio, con tono enfatico e teatrale. Uno legge e si chiede: come mai questa situazione non me la ricordavo? Eppure è forte. Peccato che nei film l’abbiano tagliata. E molte altre ce ne sono, in una struttura che cambia il tradizionale romanzo epistolare in un romanzo “a rete” nel quale si alternano diari, lettere, frammenti di articoli, telegrammi, corrispondenza commerciale, confessioni. Questa rete esprime un punto di vista collettivo, per quanto ciascuno dei personaggi segua la propria pista. Dracula è protagonista in quanto ossessione di tutti. E riguardo ai soldi, non è da poco il fatto che un piccolo impiegato (Harker) da Dracula sottovalutato non poco al primo incontro e del resto sprovvisto di acume, quanto di fascino, dopo aver superato la malattia, si ritrovi premiato dalla sorte con un vero terno al lotto: 1. Mina lo sposa per pietà; 2. Il suo capo lo fa erede universale ; 3. Lui si ritrova uomo d’azione e si scopre in tutti i sensi “vincente”. Questo “sogno dell’impiegato” riecheggia a lungo, fino a codificarsi nel personaggio di James Bond, se ci si pensa bene: un impiegato al servizio di sua maestà, persino identificato da un numero, che però ha la licenza di fare quello che gli pare a spese dello stato (viaggi esotici, belle donne, case da gioco, macchine sportive, gadget salvavita usa e getta ). Altro che Fantozzi! Il cinema forse non è adatto a esprimere le sottigliezze del Dracula di Stoker. Sembra paradossale dirlo, ma è così. Il cinema ha bisogno di semplificare: il cattivo è Dracula e il buono suo antagonista è Van Helsing. In questo modo però, Harker risulta sempre , in tutti i film, un personaggio sfocato, che ha il compito di condurci attraverso un lungo prologo alla scoperta di Dracula, per poi sparire o quasi, sprofondando nella quasi insignificanza. Invece , nel romanzo, Harker è protagonista a tutto tondo, è quello che comincia il romanzo, lo conclude, e periodicamente tira i fili della narrazione, scandita dai ritorni del suo Diario, che è oltretutto traccia e informazione per tutti gli altri personaggi. Harker segnala il tema, modernissimo, della Supremazia del Mediocre, e non è cosa da poco.

Postato mercoledì, 12 maggio 2010 alle 12:09 da Gianfranco Manfredi


PERCHE’ DRACULA VA A LONDRA?

Questo è un altro tema mistificato dal cinema draculesco. Il Conte vuole rifarsi un Impero accorrendo al centro del nuovo Impero? Il Conte vuole celebrare una sorta di vendetta del vecchio impero mitteleuropeo, infettando il Nuovo Impero Vittoriano? Il Conte vuole (e questa , adottata da Coppola e non per primo, è la motivazione più inconsistente e ridicola) ritrovare un perduto amore? No. Nel romanzo, è Dracula stesso a spiegarci il perchè: Ha letto talmente tanto dell’Inghilterra, da esserne rimasto infatuato: è l’Inghilterra ad aver infettato lui: “Leggendoli (i libri) sono arrivato a conoscere la vostra grande Inghilterra; e il conoscerla vuol dire amarla. Bramerei poter attraversare le vie affollate della vostra colossale Londra, trovarmi in mezzo al turbine e al tumulto dell’umanità, prendere parte alla sua vita e ai suoi cambiamenti, alla sua MORTE e a tutto quanto l’ha fatta quello che è.” Questa spiegazione/motivazione è stata censurata nei film, forse giudicata ipocrita o puramente discorsiva, non fondante delle reali intenzioni di Dracula. Ma Dracula investe tutto ciò che ha, prepara con cura il viaggio, acquista case sfitte e vuote pagandole in contanti (cosa che i suoi stessi venditori giudicano piuttosto “volgare”, però abbozzano e intascano). Appena arrivato ringiovanisce e va a puttane ( perché la bellissima donna che incontra a Piccadilly, è una stradale di lusso, che batte con carrozza). Dracula vuole divertirsi, partecipare a un Impero in crescita impetuosa e conoscerne anche la fine e la Morte (che sa benissimo essere prossima, sulla scorta della sua esperienza secolare). insomma, ha perfettamente ragione Gianni che ce ne sono di punti di contatto con Al Fayed. Si arriva a Londra per godersela e ci si ritrova clandestini, braccati e rapinati. La Londra dei libri, non è la Londra reale. La Londra reale è una città di parassiti dello Straniero, organizzata per esserlo. Sembrano, gli inglesi, nutrirsi della loro mediocrità, del loro self control, dei loro riti salottieri, della loro presuntuosa razionalità, ma vivono in mezzo ai pazzi , tra devastanti melanconie e accessi di furia sadica, avvinghiati all’orgoglio nazionale mentre si aprono al mondo, incapaci di vedere Altro da se stessi, e uniti da due cose: la caccia e la rapina. Dracula vorrebbe integrarsi, ha studiato l’inglese sui libri, ma ad Harker chiede di controllare la sua pronuncia, perché non vuole apparire Straniero, a Londra, vuole davvero diventare Inglese. Ma gli sarà concesso solo di condividere la lingua, per il resto, che compri, che spenda, che si rovini, che presuma pure di divertirsi, a noi l’incasso.

Postato mercoledì, 12 maggio 2010 alle 12:44 da Gianfranco Manfredi


Altra raffinatezza di Stoker rimossa dal cinema: il FINALE, scritto di pugno da Harker: ” Tolsi le carte dalla cassaforte, dov’erano rimaste per tanto tempo dopo il nostro ritorno, e fummo colpiti dal fatto che in tutto quel materiale, così accuratamente raccolto, non c’è alcun documento autentico, null’altro che una massa di fogli dattiloscritti, alcune annotazioni e il Memorandum di Van Helsing. Non possiamo certamente chiedere ad alcuno, anche se lo volessimo, di accettare tutto questo come prova di così terribile storia.” Stoker seppellisce il suo stesso romanzo: la sua materia (così scrupolosamente documentata) è robaccia inaffidabile, ciarpame. Resta l’esperienza vissuta, la “prova di coraggio” che un giorno Mina e Jonathan, come asserisce Van Helsing tenendo il loro pargolo sulle ginocchia come un nonno affettuoso, potranno trasmettere al loro bambino. Ma nulla di ciò che è stato scritto è verificabile. Nessun romanzo, nemmeno QUESTO romanzo, costituisce PROVA di nulla.

Postato mercoledì, 12 maggio 2010 alle 13:12 da Gianfranco Manfredi


Non rileggo il Dracula stokeriano da tempo immemorabile. E i fertili semi buttati da Manfredi m’hanno fatto venir voglia di riprenderlo in mano. Anche perchè il ricordo che ho di quel romanzo è ottimo, per nulla ingessato e noioso ma anzi elettrizzante. All’epoca mi parve solido, avvincente, munito di doppi o tripli fondi, con guizzi ambigui e torbidissimi.
E poi, non è certo un caso se nella Londra di quegli anni esplosero tre (o quattro?) miti letterari ed extraletterari come Dracula, Sherlock Holmes e Jekyll-Hide.
Per non parlare di Jack the Ripper.

Postato mercoledì, 12 maggio 2010 alle 13:26 da luciano / idefix


E’ significativo, ed è uno strano happy end, che l’impiegato Harker, notaio addetto alle certificazioni, scopra alla fine che le “carte” non provano mai nulla di oggettivo, di certificabile, di Storico, ma siano unicamente tracce di un vissuto sfuggente, non PROVE documentarie, ma narrazione di prove attraversate. Si può dire che Stoker, in questo finale, da un lato anticipi la nota formula cautelativa: “Ogni riferimento a fatti e persone della vita reale è puramente immaginario” , dall’altro ne mostri un risvolto filosofico: ogni carta scritta è testimonianza onirica. Tutti i personaggi citati da Luciano sono fondati sulla cronaca del tempo, hanno radici storiche ben definite nel loro tempo( come la critica contemporanea ha ampiamente dimostrato), eppure la loro verità sta nel fatto che sono figure simboliche. Ed è proprio per questo che siamo in grado di ri-leggerle.

Postato mercoledì, 12 maggio 2010 alle 13:49 da Gianfranco Manfredi


Vi sono luoghi reali che a un certo punto precipitano (come nei composti chimici) e diventano ALTRO da com’erano, per segnare l’immaginario e diventare crezioni fantastiche. Appunto la Londra della seconda metà del Diciannovesimo secolo.
Oppure il pianeta Marte (su cui tra l’altro sono ambientate bellissime e originali storie di vampiri). Penso a tutta la splendida narrativa fantascientifica marziana: da Edgar Rice Burroughs e Leigh Brackett, da Clive Staples Lewis a Philip Josè Farmer, da Ray Bradbury a Kim Stanley Robinson a Philip Dick, da E. C. Tubb a Robert Heinlein, in cui il pianeta non è un semplice fondale ma (come la Londra dell’Ottocento) diventa co-protagonista.

Postato mercoledì, 12 maggio 2010 alle 14:01 da luciano / idefix


Vorrei a questo punto, sul tema della Città, segnalare il bellissimo libro di Silvia Albertazzi, “In questo mondo. Ovvero, quando i luoghi raccontano le storie” (Moltemi editore, 2006). Ho trovato questa nota illustrativa in rete, che suona come una risposta a quanto postato da Luciano:

Dalla Londra dickensiana a quella dei migranti postcoloniali, dalla Brooklyn delle brownstones oggetto del desiderio di intere comunità di immigrati a quella della gentrification di fine Novecento, passando attraverso la Manhattan degli yuppies e la furia metropolitana di inizio millennio, si approda alle città invisibili della narrativa fantastica contemporanea, mondi di fiaba e realtà parallele accostati nell’ambigua consapevolezza che la strada senza meta di cui costituiscono l’improbabile sbocco non sia un cammino conosciuto in sogno o paventato in un incubo, ma stia in questo mondo, l’unico che conosciamo.

Postato mercoledì, 12 maggio 2010 alle 18:36 da Gianfranco Manfredi


DRACULA, VITTIMA DEI LIBRI ?
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In questo mondo, l’unico che conosciamo, o che crediamo di conoscere, c’era una volta Dracula: un onesto vampiro transilvano, proprietario tra l’altro di una ricca biblioteca e afflitto dal vizio impunito della lettura. Stanco di nutrirsi del sangue di contadini da secoli, crede a quello che nei libri si dice e si racconta della lontana Europa.
Caduto vittima dei libri che ne parlano come di un’isola libera e felice, abitata da gente errante e disponibile, aperta e buona ( da succhiare o “prendere per il sedere” – come direbbe Umberto Eco ), Dracula si fida del mediocre e ambiguo impiegato di uno studio legale, il giovane Jonathan Harker, inviatogli per un primo assaggio dal boss Peter Hawkins.
Datasi una spuntatina alle folte sopracciglia, ai denti bianchi e aguzzi, nonché alle orecchie pallide e appuntite che lo farebbero apparire una bestia o un primitivo, Dracula tenta così di trasferirsi a Londra dove spera di spassarsela con la più emancipata, libera e moderna gioventù europea.
Purtroppo a causa della sua diversità e di un che di irriducibilmente selvatico che lo contraddistingue ( ha bisogno di succhiare il sangue degli altri per motivi genetici & culturali) , non riesce a integrarsi e – oltre a non riuscire a ottenere un permesso di soggiorno – cade preda di un gruppo di normali vampirofobi.
Il gruppo, finanziato dall’ onorevole Arthur Holmwood (poi Lord Godalming), si mette sulla difensiva e stabilisce il suo Quartier generale nel manicomio diretto dal Dr John Seward, seguace del professor Abraham Van Helsing – un visionario dall’ampia fronte convinto di dover salvare l’umanità dal relativismo e da un’incombente invasione vampirica, una minaccia ubiquitaria e diffusa.
Al gruppo di cacciatori di vampiri si aggregano anche Quincey P. Morris ( un cowboy del Texas, vecchio amico di Arthur Holmwood e John Seward), e Mina Murray, amica di Lucy e fidanzata e poi moglie di Jonathan Harker.
Vittima della follia della normalità, Dracula si rende conto che la realtà non è come quella descritta in Letteratura: viene infatti accoltellato da Jonathan e derubato dal gruppo dei vampirofobi.
Solo un certo RM Renfield, un mistico intellettuale masticamosche, si oppone all’ingiustizia con cui vengono trattati i forestieri: gentile e intelligente vorrebbe dire e fare la cosa giusta, ma viene catturato e detenuto dal dottor Seward, che lo fa assassinare dai secondini – anche per impedirgli di diffondere all’estero, magari con le sue pubblicazioni, una cattiva immagine dell’Inghilterra.
Costretto a di ritornare in Transilvania , Dracula fallisce il tentativo di venire in Italia per lavorare come fotomodello.
Decide allora di vendere il castello e inizia una brillante carriera di trafficante di droga, armi e rifiuti tossici.
Diventato ricchissimo, vent’anni dopo torna a Londra per vendicarsi ( come il conte di Montecristo) ed entra nel giro di incalliti jet-settter, fra cui la famiglia del magnate egiziano Mohamed Al-Fayed e di sua figlia Camilla, da molti indicata come la nuova Hilton.
Può così presenziare assiduamente i party più esclusivi, scrivere di moda su Vogue America, condurre un programma tutto suo su GMTV e cosa non da poco –nonostante Al Fayed l’abbia convinto a convertirsi all’islàm – ballare fatto di alcool e di coca fino all’alba con pallidi giovani travestiti da vampiri e ragazze escort sui tavoli dei migliori locali londinesi.
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Nel frattempo, Jonathan Harker e Arthur Holmwood (diventato Lord Godalming dopo la morte del papà) scoprono quello che non avrebbero mai osato immaginare della loro natura non tanto profonda : sono attratti uno dall’altro e, ormai inseparabili, si sono dati una bella occasione sposandosi : Jonathan con Mina e Arthur con Lucy Westenra.
Per non turbare il Sistema, vivono in due ville contigue e comunicanti. Nessuno potrebbe così sospettare degli scambi che avvengono tra due coppie perfette, normali e timorate di Dio, quando la notte Lucy e Mina dormono insieme mentre, da parte loro, Arthur e Jonhatan si allacciano quasi al modo vampirico & transilvano nelle braccia l’uno dell’altro, come hanno appreso dal Conte Dracula.
Naturalmente s’illudono che i vicini di condominio ( o condemonio) ignorino i loro maneggi: tutti a Londra sanno della tresca, anche a causa del rumore che fanno i visitatori notturni delle due coppie quando decidono di fare un’orgia. A far rumore non è tanto suor Agata, l’infermiera ( un tipetto alla Anna Finocchiaro ) che si prese cura di Jonathan Harker durante la sua malattia a Budapest e ora arriva sempre portando con sé una frusta e un grosso clistère, quanto Thomas Bilder, il giovane guardiano che veglia i lupi nel Giardino Zoologico, dotato di molto senso dell’umorismo ma molto rumoroso, specialmente quando è ubriaco o fatto e strafatto, e, nell’uscire da villa Harker-Holmwood, fa sempre casino.
Quanto al professor Abraham Van Helsing, diventato consulente del Vaticano ( anche a causa delle sue numerose pubblicazioni contro il relativismo innaturale dei sentimenti e dei legami familiari ), viene implicato in uno scandalo finanziario riguardante la gestione di alcuni fondi neri della città di Roma.
Come se non bastasse, benché non abbia alcuna rilevanza penale, la stampa diffonde intercettazioni telefoniche da cui si apprende che pagava diverse centinaia di Euro a un corista rumeno della Cappella Sistina per procurargli ragazzi, anche giovani seminaristi, per una sveltina ( Dalle intercettazioni telefoniche, diffuse dalla stampa :
« Uh, professò e che debbo fare ? », « Niente, tu avere cavicchio no ? Tu dare bene me paletto voi dire anche punteruolo no ? E io dare 500 Euro non di più se tu venire giovane ok ? »).
Insomma, non c’è più religione, come direbbe la signora Westenra, la madre di Lucy che quella banda di scornacchiati a caccia del Vampiro ha fatto morire di crepacure.
Soldi & sesso sembrano funzionare, se così si può dire, come analizzatori, quasi delle cartine da tornasole del non-detto di quella bella società.
E Dracula sarebbe, come del resto lo fu anche la povera madame Bovary, un’ennesima (“ennesima”, come le sigarette nei romanzi polizieschi) vittima della letteratitudine e dei libri ? Anzi, vittima
dei lib(e)ri ?

:-)

Postato mercoledì, 12 maggio 2010 alle 19:38 da Gianni De Martino


Questa riapertura della parentesi stokeriana mi pare davvero interessante. Grazie a voi.
E sì, Gianni… credo che letteratitudine stia vampirizzando il buon conte.
Secondo alcune indiscrezioni pare che gli si siano cariati i canini.
;)

Postato mercoledì, 12 maggio 2010 alle 21:36 da Massimo Maugeri


EUROPA DEI LIB(E)) RI ?
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Il 30 settembre 2005 dodici piccoli disegni umoristici pubblicati dal Jillands-Posten produssero una crisi mondiale. Oggi apprendiamo ( v. video qui sotto), che l’artista svedese Lars Vilks – fra gli autori delle controverse vignette raffiguranti il Profeta – è stato aggredito ad una conferenza nell’università di Uppsala mentre teneva una lezione davanti a circa 250 studenti proprio sui limiti della libertà artistica in Europa. Pare che abbia preso una testata che forse gli ha fatto saltare i canini.
Negli Usa un’islamista è in custodia cautelare da marzo, perché avrebbe pianificato l’assassinio del vignettista svedese.
Nella vicina Danimarca, intanto, il caricaturista Kurt Westergaard è stato invece bersaglio di un tentato omicidio nel giorno di Capodanno.
Anche se forse Renfield non sarebbe d’accordo, ritiro tutto quello che ho scritto su san Dracula.
In attesa che l’Europa e gli Europei ritornino sulla diritta via, eliminando « Le mille e una notte », il « Decamerone » e « Tommy e Jerry » – quegli orribili fumetti satanici che – come dice un autorevole mullah – sono stati creati apposta per presentare i « topi » in buona luce, contraddicendo il Profeta che invece ha comandato di sterminarli con tutti i mezzi e a qualsiasi costo per il bene dell’Umanità.
E’ proprio vero quel proverbio, vagamente mafioso, che dice : « Scherza coi fanti e lascia stare i santi ». Europa dei lib(e)ri ? Brrr ! Non si sa mai, tengo a precisare che non ho niente contro san Dracula.
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http://video.corriere.it/?vxSiteId=404a0ad6-6216-4e10-abfe-f4f6959487fd&vxChannel=Dal%20Mondo&vxClipId=2524_5175e530-5d9e-11df-8e28-00144f02aabe&vxBitrate=300

Postato mercoledì, 12 maggio 2010 alle 22:16 da Gianni De Martino


Interventi molto belli anche in questa fase che, nella normalità dei blog, sarebbe di lento spegnersi della discussione. Mi limito ad appunti sparsi.
Anzitutto una curiosità, ma piuttosto suggestiva alla luce dei discorsi fatti: “i Magazzini” dove Seward incontra l’emaciata Lucy per non turbarne la madre con visite troppo frequenti – suggerendo dunque una gravità di condizioni della ragazza – si identificano sicuramente con Harrod’s.

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Il signor Hawkins. Probabilmente il suo nome aveva un peso maggiore nella prima stesura, quella con un centinaio di pagine in più; e l’esordio vedeva un cospicuo scambio di documenti sulla transazione immobiliare che Harker andrà a definire – motore della vicenda ma forse anche strizzata d’occhio al vecchio “Varney”, con la sua tormentosa vicenda immobiliare. D’altra parte Hawkins non è solo il capo dell’ufficio legale dove lavora il procuratore Harker (i titoli professionali, nelle traduzioni italiane, sono un po’ ondivaghi) ma anche il suo pseudopadre, quello che gli passa il lavoro. E che sparisce – fateci caso – in simultanea con tutti con tutti gli altri genitori del romanzo, il vecchio Lord Godalming (che passa il censo), la madre di Lucy (che passa lo status di ragazza coccolata). Tutti o quasi tutti: perché resta lo pseudopadre di Seward, cioè Van Helsing. Comunque questa falcidia di genitori rende i giovani orfani: e a tal punto l’alternativa è tra padri di adozione, quello cattivo Dracula e quello buono Van Helsing. Il fatto che l’unico genitore buono sopravvissuto, Van Helsing, che a quel punto accoglie tutti gli orfani come figli (il suo è morto), sia uno scienziato umanista, la dice lunga sul senso di crisi che alligna nel romanzo – l’età degli orfani – e sul tipo di prospettiva. Senza l’Uomo Nuovo Van Helsing e la Donna Nuova Mina, trionferà il padre incestuoso, latore di un passato ormai putrido che rischia di dilagare in un futuro nopn-morto. E a questo punto il quadretto familiare finale rappresenta qualcosa di più serio di un semplice happy end – una sorta di memento che prescinde dalla storicità dei fatti esemplari, mitici narrati (lo scarso valore probatorio delle carte) ma richiama a uno sforzo impegnativo collettivo e personale.
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Il tema del denaro in Dracula. Tema molto bello, ogni tanto emerso nella critica: persino Il Sole-24 Ore vi aveva dedicato uno spazio un paio d’anni fa. Osserva Mina nel proprio diario (trad. Newton Compton):

“Mi è stato di grande aiuto vedere all’opera questi valorosi amici. Come potrebbe una donna non amare degli uomini così sinceri, leali e coraggiosi! Inoltre, questo mi ha fatto riflettere sul meraviglioso potere del denaro! Che cosa non riesce ad ottenere quando i suoi scopi sono giusti, e quale potere ha quando viene appropriatamente usato! Sono così contenta che Lord Godalming sia ricco, e che sia lui che il signor Morris, che pure ha ingenti ricchezze, siano disposti a spendere con tanta liberalità! Se così non fosse, la nostra piccola spedizione non sarebbe mai cominciata, né tanto prontamente né così ben equipaggiata, in così breve tempo.”

È chiaro che la ricchezza di Arthur e Quincey permette al Narratore soluzioni più fluide, viaggi, equipaggiamenti, continue mance dei “buoni” per ammorbidire il riserbo professionale dei più vari operatori (in genere di ceto popolare) – e tuttavia il discorso non si consuma in tale funzione strumentale. Virtualmente erede delle preoccupazioni economiche del “Varney”, “Dracula” vede tra i molteplici nodi simbolici anche quello dell’uso dei beni: e se per l’arsenale religioso-apotropaico pesca da un immaginario cattolico, per il versante economico sembra serenamente simpatizzare con l’ottica protestante. La ricchezza è potenzialmente benedizione; quella del Conte, invece, rappresenta in qualche modo l’ennesima sovversione di un assetto ordinato di valori, frutto com’è della storia terribile di un casato lontano nel tempo e nello spazio (dunque irrimediabilmente vecchio e incivile) e insieme di oscuri commerci col sovrannaturale (il citato tema dei tesori svelati dalle fiamme azzurre della vigilia di san Giorgio). Verso la ricchezza, il Conte mostra un rapporto forzato e predatorio: e la sua foga nel chinarsi a raccogliere una manciata di soldi nel pieno dello scontro al covo di Piccadilly è in fondo l’ennesima, grottesca icona della profanazione, in questo caso di un bene-benedizione di Dio. No, la scena non appare al cinema: solo in una scena eliminata della versione di Coppola si vede il fuggitivo Jonathan farfugliare sconvolto alla porta del convento, allungare la mano attraverso la fessura a forma di croce nella porta e lasciar cadere le antiche monete trovate al castello. Le suore sembrano riconoscere il viso effigiato sulle monete e lo soccorrono…
Nei fatti il romanzo (a differenza di molte riproposizioni cinematografiche) guarda a un orizzonte vittoriano di compiaciuta stabilità sociale, percorso da profonde inquietudini ma piantonato dai valori di uomini coraggiosi e donne angeliche in un saldo connubio di tradizione e novità: i crociati di Van Helsing rappresentano la versione dinamica e ottimistica (anche sul piano dei rapporti internazionali: un olandese, un americano…) dei vecchi cacciatori di Le Fanu, e la disinvoltura con cui trattano il denaro è per esempio contrapposta all’avidità dell’ebreo Immanuel Hildesheim – si veda un post precedente – che ha ricevuto a Galati la cassa di Dracula.
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Dracula a Londra. Mi pare che, alla luce oscura dei soliti richiami alla letteratura sacra ma volti in nero, il conte si rechi nella Metropoli della civiltà come gli Apostoli, negli Atti, vanno a Roma: mira cioè al cuore del mondo, dove può spargere il suo apostolato nero con tutte le implicazioni simboliche del caso. D’altra parte – e qui si ha il sospetto che Stoker conosca Poe – Dracula è insieme il Super-Uomo della folla, in riferimento al racconto poesco. Che si ambienta a Londra, è narrato da un personaggio eccitato che può richiamare i racconti sopra le righe di Seward o Harker, ed è tutto giocato su un tipo di visione sfuggente che richiama certe apparizioni metropolitane del vampiro. Dracula cerca la folla e vuole immergervisi con l’entusiasmo della caccia e la gioia del bambino in pasticceria: ma forse, a un livello profondo, vive qualcosa di analogo all’Uomo della folla di Poe, vampiro/posseduto/personificazione della Notte etica di massa.
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E sì, il mondo vittoriano da moltissimo da dirci. Una quota importante dei nostri miti-chiave si radica lì, o vi trova la riscrittura nel linguaggio interiore per noi più consono. Sono grato agli amici di Carmillaonline che mi ospitano periodicamente in un itinerario, Victoriana, articolato proprio su questo.

Postato mercoledì, 12 maggio 2010 alle 22:26 da Franco Pezzini


Grazie anche a te, caro Franco.

Postato mercoledì, 12 maggio 2010 alle 23:02 da Massimo Maugeri


Splendido!

Postato giovedì, 13 maggio 2010 alle 00:20 da Gianfranco Manfredi


Folgorato da Gianni e da Franco, beh… a questo punto perché non sbudelliamo un altro romanzo d’epoca? Proponetelo voi.

Postato giovedì, 13 maggio 2010 alle 00:23 da Gianfranco Manfredi


@ Luciano. Eravamo entrambi rimasti sconcertati dalla pseudo intervista di Scalfari da Fazio. Si poteva imputarla alla superficialità della TV in quanto tale, forse… senonché stamani appare su Repubblica un articolo di Scalfari che racconta di un suo incontro con il Cardinal Martini. Da non perdere, perché fa davvero cascare le braccia. All’incipit Scalfari premette che il Cardinale vorrebbe parlare con lui di Resurrezione. Suo commento: “Ne rimasi un po’ stupito e anche preoccupato; gli feci osservare che su quell’argomento avremmo avuto assai poco da dirci. Se c’è un punto sul quale il non credente non ha alcuna possibilità di contatto con un cristiano doc come Martini è proprio questo.” Ora, a parte il cristiano DOC che unito a Martini, ricorda “No Martini, no Party”, dite voi se non c’è da restare allibiti. Perché a suo tempo nessuno ha avvertito Tolstoi che “Resurrezione” era titolo e argomento improprio per un autore anarchico (anche se anarchico-evangelico) ? Perché non si è diffuso comunicato laico che censurasse l’interesse in materia di André Gide (I sotterranei del Vaticano), Emile Zola (Lourdes) e prima di loro vasta schiera di atei “resurrezionisti” e dunque si suppone traditori del verbo voltairiano? Perché non si è aggiunto che il tema , essendo di spettanza dei cristiani DOC, non poteva “per rispetto” essere affrontato nei modi da serie B di Mary Shelley (Frankenstein), tantomeno in quelli di Stoker ( più ancora che in Dracula , nel suo romanzo “egizio” Il gioiello delle sette stelle, che tratta dell’Inghilterra Vittoriana, appunto, di risurgenti e di lamie)? Il nostro campione di laicismo , evidentemente ha aspettato l’approssimarsi (gli auguro ancor lontano) del momento fatale per rinvenire, seppur sbigottito, un qualche possibile interesse al tema, comportamento assai simile a quello dell’anarchico bestemmiatore di Gide che sul punto del collasso definitivo trova quanto meno opportuno valutare un’ipotesi da credenti che, vera o falsa che sia, alla resa dei conti appare ineludibile e forse foriera di qualche conforto. Che dire di simili laici che consegnano alla spettanza della Chiesa , temi di natura antropologica, da sempre affrontati (e senza svilirli) da non-credenti, pagani, illuministi, positivisti, liberi pensatori? Che questi laici presunti, sono quanto meno dei poveri ignoranti da compatire. Alcuna possibilità di contatto. E’ vero, ma non con i cattolici, con il Pensiero.

Postato giovedì, 13 maggio 2010 alle 11:40 da Gianfranco Manfredi


A proposito, il citato romanzo di Stoker (Il gioiello delle sette stelle) non ha un happy ending. Le ultime parole sono queste: “Fu misericordioso che mi venisse risparmiata la pena di sperare.”

Postato giovedì, 13 maggio 2010 alle 11:46 da Gianfranco Manfredi


A onore di Scalfari va detto che il Cardinal Martini si rivela ancor più triste di lui, nel colloquio. Il concetto di Resurrezione viene parificato a quello di Espiazione (collegamento che nessun antico egizio avrebbe fatto, pur parlando della stessa cosa). Pare che un uomo avveduto e sensibile non dovrebbe far altro nella vita che espiare la colpa d’essere nato. Leggere per credere. Cartesio si rivolta nella tomba.

Postato giovedì, 13 maggio 2010 alle 12:28 da Gianfranco Manfredi


Scusate, non c’entra ma mi pare importante.
Avevo appena spento il pc ieri sera e mi apprestavo a lavarmi i denti (fase quanto mai vampiresca della giornata) quando mi sono dato dello stupido. Perché un film importante con la scena del denaro che rotola dalla tasca tagliata di Dracula c’è. Certo un film un po’ particolare, perché è quel fantastico “Dracula: Pages from a Virgin’s Diary” distribuito in Italia da Gargoyle che riprende il celebre balletto su sinfonie di Mahler. E che è una miniera di spunti – anche molto provocatori. Da vedere, assolutamente.

Postato giovedì, 13 maggio 2010 alle 18:38 da Franco Pezzini


Molto suggestivo il richiamo a “Il gioiello delle sette stelle”. Il cui finale a avuto una storia curiosissima: uscito inizialmente con la conclusione shock (1903), in edizione successiva è ricomparso con finale ammorbidito (1912). Ma è divertente immaginare che mentre questa storia veniva letta, gli amici di Bram operanti nella Golden Dawn officiavano paludati da antichi egizi.
Comunque anche lo Stoker “minore” come questo è interessante. I racconti, per esempio. O altri romanzi come “La dama del sudario” – non trascinante, ma intriga – e soprattutto il delirante “La tana del Verme Bianco”, oggetto di una libera e divertentissima versione di Ken Russell. Sul tema sto raccogliendo materiale da parecchio tempo per un saggio, ed è affascinante. La dark lady della vicenda è insieme una lamia e un dinosauro: un romanzo dove si intravede la malattia dell’Autore che scardina nessi logici con un sentore onirico davvero inquietante. Il Verme del titolo – nel senso medioevale del Worm/Wyrm, cioè drago – finisce con l’evocare contorcimenti microbici. E per quanto onestamente non ci sia alcuna prova, il dubbio della sifilide resta. Jurassic Mark…

Postato giovedì, 13 maggio 2010 alle 20:16 da Franco Pezzini


A proposito di Dracula…
tra i vari plichi libreschi che mi arrivano ogni giorno, ne è arrivato uno molto particolare e molto vampirico.
Nella copertina figura un giovane in giacca nera con la camicia rossa.
Aprendo il volume, leggo: “Il masticatore di sudari”. Testi: Manfredi. Disegni: Roi.
La storia comincia così: “Nella prima metà del Settecento, l’Europa fu sconvolta da uno dei più terribili flagelli della sua storia: la peste vampirica”…
Il giovane della copertina si chiama Dylan Dog.
L’editore è Sergio Bonelli.
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Grazie, Gianfranco. :)

Postato giovedì, 13 maggio 2010 alle 20:39 da Massimo Maugeri


Sulla Vita Eterna.
Qui parlo da credente (non cattolico ma valdese e dunque laico) e faccio qualche osservazione sparsa.
1) Con l’avvicinarsi della propria morte, è normale che le persone riflettano alla vita che hanno alle spalle, facciano un bilancio, si chiedano cosa ci sarà dopo… E capita che qualche ateo guardi alla chiesa (in genere a quella cattolica che offre CERTEZZE tutte con la maiuscola), in base a una specie di “oh!!! Non si sa mai…intanto mi prendo il biglietto”
Mi pare sia ciò che sta facendo Scalfari, con in più la sua prosopopea intellettuale che in questi anni aumenta a vista d’occhio.
2) Trovo però abbastanza buffo che non-credenti si mettano a pontificare sull’Aldilà cristiano. Mi ricordano la feroce e deliziosa battuta di Longanesi su Montanelli: “è uno che spiega agli altri ciò che non ha capito”.
3) Invece i temi dell’Aldilà, della morte, del vischioso perdurare (in un modo o nell’altro) dei defunti, del Giudizio ecceterissima mi sembrano straordinariamente fertili dal punto di vista narrativo-fantastico.
4) Per quanto riguarda la Vita Eterna e la fede, ho delle convinzioni (sempre sottoposte a continuo e incessante esame: fede non vuol dire passiva ingestione di dogmi). Ma non vi tedio ulteriormente.

Postato venerdì, 14 maggio 2010 alle 11:50 da luciano / idefix


Ce ne sono molti di scritti di Stoker (diari di viaggi americani, delle sue tournée con Irving, una biografia di Irving stesso, romanzi horror e non-horror, racconti macabri per l’infanzia) ancora del tutto inediti in italiano. Non ho mai osato sondare Paolo de Crescenzo in materia, anche perché temo che sarebbe un bagno di sangue dal punto di vista editoriale (se di Stoker si ricorda solo Dracula, un motivo ci sarà) , però un bel saggio su Stoker con lettura critica delle sue opere e qualche frammento antologico dai suoi scritti, mi piacerebbe molto leggerlo, e se davvero Franco Pezzini ci sta pensando… beh, sarebbe un avvenimento da celebrare. E’ un curioso destino quello di Stoker. E’ autore di una delle opere letterarie più lette del pianeta terra, ma si direbbe che Dracula l’abbia vampirizzato. Le biografie di Stevenson o di Conan Doyle sono quasi un genere letterario a sè, da quante ne sono state pubblicate, ma sulla figura di Stoker non si è scritto molto. Si direbbe sia stato vampirizzato da Dracula (e tra l’altro l’edizione critica e annotata del romanzo è recente!) e non ha nemmeno avuto la soddisfazione di poter rivendicare “Dracula c’est moi!”

Postato venerdì, 14 maggio 2010 alle 12:15 da Gianfranco Manfredi


A me la Tana del Verme Bianco di Russell non è piaciuto molto. Sì è divertente, ma distantissimo dal vittorianesimo critico di Stoker, tutto avvolto nel barocchismo-pop di Russell , regista, se ci si pensa, dal percorso assai bizzarro: sicuramente celebrato all’epoca, ma oggi così stranamente out-of-tune … ricordo che mi piacque, con tutto il suo divertente (appunto) decadentismo film su Tchiaikovsy, ma l’ho rivisto qualche anno fa e mi è parso una cacata imbarazzante. E l’interrogativo allora si è spostato dal film al mio giudizio: come mai si cambia così radicalmente opinione? E’ una fortuna, peraltro, io non sono mai stato in cerca “di un centro di gravità permanente che mi mi faccia mai cambiare idea sulle cose e sulla gente”, anzi lo troverei tristissimo non cambiare mai idea nel corso degli anni. Il problema è come mai si cambia idea… soprattutto quando non si parla di idee sociali, politiche o filosofiche (che hanno una certa permanenza seppur erratica) , ma di gusti estetici. Spesso mi sconcerta (non so se capita anche a voi) anche il cambio epocale di gusti… ad esempio l’aver fatto diventare dei cult dei film degli anni 60/70 davvero osceni ( certi improbabili western spaghetti, ad esempio) continuo a trovarlo fenomeno assai misterioso. Li rivedo e il mio cambio di gusto posso sintetizzarlo così: mi sembravano cacate allora e adesso anche peggio. Che cavolo c’è da riscoprire? Non era meglio lasciarli sepolti?

Postato venerdì, 14 maggio 2010 alle 12:26 da Gianfranco Manfredi


Su Russell, ricordo anche che alla scena del rogo dei Diavoli, uscii nell’atrio perchè non la reggevo , proprio mi dava allo stomaco , non perchè non mi piacesse, ma per disturbo emotivo. Quando ho rivisto il film mi è parsa quasi innocua… sarà che nel frattempo si è visto ben altro… o sarà che c’è uno strano sapore nella “prima volta” che poi non si ritrova più. Chissà se rivedessimo alla distanza , magari con un viaggio nel tempo, certi eventi che nella nostra memoria conserviamo come epocali. certe prime esperienze di cui ancora ricordiamo l’emozione profonda… non ci sembrerebbero cosette quasi insignificanti? Il Soggettivo muta e l’Oggettivo resta sfuggente, proprio come nel finale di Dracula, quando ad Harker le testimonianze di ciò che ha vissuto risultano solo un mucchio di carte che non provano niente.

Postato venerdì, 14 maggio 2010 alle 12:37 da Gianfranco Manfredi


La memoria emotiva gioca dei tiri addirittura paradossali. Ricordo perfettamente d’aver visto da bambino una scena di “Kociss, l’eroe indiano” in cui il protagonista veniva torturato su una grata sistemata sopra dei carboni ardenti. La scena mi aveva molto impressionato. Ho rivisto il film e NON L’HO TROVATA! Quella scena non c’é proprio! Era un altro film su Kociss? Ne ho trovato un altro. Non c’era manco lì. E allora? Me la sono sognata? Era la scena di un altro film di indiani da me associato a Kociss? Boh… mistero assoluto. Sono capitati anche a voi simili episodi di memoria infedele? Nella Fede c’è qualcosa di simile. Ci si crede davvero. Poi si va a verificare e non si trova nulla. Resta la memoria Simbolica, ma il DATO OGGETTIVO sfuma e dissolve.

Postato venerdì, 14 maggio 2010 alle 12:44 da Gianfranco Manfredi


@ Gianfranco. Anzitutto ringrazio per le parole gentili. Questo collettivo dissodare i testi è estremamente arricchente. Sì, sarebbe bello – come suggerivi – allargarlo ad altri romanzi. Prima o poi sarebbe il caso di farlo sul “Frankenstein”, oggetto di tue ricerche recenti: non vi entra direttamente il soggetto di questo blog, ma le connessioni sono parecchie.
E capisco bene cosa intendi a proposito dei diversi occhi con cui rivediamo talune pellicole – dopo che, irrorato il nostro mondo simbolico, hanno un po’ perso l’impatto che altri momenti della nostra vita avevano riconosciuto loro. Come con certe prime letture, “quell’abbagliante e terribile felicità” – mi pare la definisse Borges – che poi con occhi più smaliziati fatichiamo a ritrovare. Mia madre mi racconta dell’inquietudine nel vedere tanti anni fa “La scala a chiocciola”, e di come la visione appaia oggi indebolita. Sui particolari poi che credevamo di ricordare e invece non ritroviamo – a parte il discorso delle sforbiciature e delle versioni alternative – ci sono casi paradigmatici: lo scontro a fuoco che King in “Danza macabra” descrive come presente alla fine del “Dracula” e invece non c’è. Dove il Re, alla luce di una sua sensibilità visiva, “rilegge” il testo nelle sue potenzialità anche filmiche – e la versione di Coppola, guarda caso, inserirà lo scontro a fuoco.
A proposito di Russell, indubbiamente la sua versione del “Verme Bianco” fa parte della produzione minore su cui a un certo punto si è un po’ ripiegato: molto divertente, ma provocatoria fino a un certo punto, anzi un po’ di maniera – ovviamente la maniera che ci si attende da Russell. (Un discorso in parte analogo vale per altri provocatori come Jess Franco o Jean Rollin, con certe opere ultime che intendono richiamare, ormai in chiave cult, quelle trasgressive e “vere”, per quanto magari imperfette, di fine anni Sessanta/inizio Settanta.) E le accentuate connotazioni vampiriche della lamia di Russell potrebbero rimandare a un suo “Dracula” abortito per l’uscita di quello di Coppola – se questa voce è vera. Lo stesso “Gothic” che pure mi piace ed è molto interessante (la scena di Mary Shelley con l’incubo fuseliano sul petto è una chicca di genio) appartiene probabilmente a questo filone minore. “I diavoli” è tutt’altra faccenda. Ma è vero che anche la provocazione de “I diavoli”, dopo fiumi di saghe inquisitorie, nunsploitation, eccetera, ci appare indebolita – o almeno tendiamo a distinguere aspetti che ancora convincono da altri che rappresentano segni d’epoca. D’altra parte mi domando se questo diverso sapore nel tempo non sia per noi un segno salutare…

Postato venerdì, 14 maggio 2010 alle 22:12 da Franco Pezzini


Caro Gianfranco, il concetto di fede (religiosa) è proprio in antitesi con la ricerca di un dato oggettivo finalizzato a fornire verifiche.
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p.s. Anch’io, come Luciano, sono credente… e non provare a farmi diventare ateo altrimenti ti mordo sul collo.
:-)

Postato venerdì, 14 maggio 2010 alle 22:29 da Massimo Maugeri


@ Franco, Gianfranco e tutti
A proposito di Frankenstein… cos’è – secondo voi – che ha in comune con un personaggio come Dracula, e in cosa se ne differenzia nettamente?
La domanda a prima vista può sembrare banale, ma potrebbe consentire approfondimenti interessanti.
E soprattutto, caro Franco… rimaniamo in tema! :)

Postato venerdì, 14 maggio 2010 alle 22:32 da Massimo Maugeri


Lungi da me l’idea di voler convertire qualcuno a qualsiasi cosa. Tra l’altro il mio ateismo è esso stesso eretico, in quanto ritengo che l’ateismo culturalmente parlando sia figlio del cristianesimo e in qualche modo sua parte integrante (letto mai di un pagano che si professasse ateo? “Credi in Giove?” era una domanda che nessuno poneva. Similmente ritengo che “credi in Dio?” sia semplicemente una domanda mal posta, ma lasciamo perdere, non voglio sconfinare). Si potrebbe (per tornare al tema) magari ripercorrere l’Olimpo delle divinità horror: Dracula, Frankenstein, Uomo Lupo, Mostro della Laguna Nera, Uomo Invisibile. Se il mostro della laguna vi appare particolarmente sfigato o per così dire “figlio di un Dio Minore”, beh allora diciamolo: parlando di cinema, il Mostro della Laguna viene subito dopo Frankenstein (non cronologicamente, come valore estetico) . Questi due film sono stati e sono ancora delle Scuole di Cinema, imparagonabili per livello, seduzione visiva , movimenti della macchina da presa, agli altri. Browing (regista eccelso) dà in meglio di sè in Freaks e nei film con Lon Chaney. Il suo Dracula con Bela Lugosi è un film teatrale, per molti versi anche lucidamente e volutamente “anti-cinematografico”. Il Mostro della Laguna Nera è stato cinematograficamente padre di molti figli da Lo Squalo ad Amsterdamned e continua ad insegnare a tutti come si dovrebbe muovere la macchina da presa. A livello narrativo è una straordinaria commistione tra l’esplorazione fantastica( Lost World, King Kong), l’erotismo della sessualità contro-natura( la Bella e la bestia) , l’horror abissale (Dal profondo) , la fantascienza ( esperimenti sulle specie aliene) e persino l’horror da college con inclusa autoparodia (il secondo e terzo capitolo della serie, soprattutto quando il Mostro si ritrova coinvolto in una festicciola studentesca del pre-rock’n'roll). Ma cominciamo da Frankenstein, il cui modello letterario è di maggior rilievo. Non rileggo il romanzo della Shelley da un secolo e dunque non saprei smontarlo, mi limito qui ad alcune osservazioni preliminari. E’ il primo romanzo che accoglie nel titolo la parola “Moderno” (Il moderno Prometeo). Se Dracula si volge alla Storia, alla sanguinosa eredità del Passato, Frankenstein salta direttamente dal Mito alla Modernità e non è cosa da poco. Ci dice anche che la modernità nasce con l’elettricità (in generale) e con l’applicazione della macchine alla medicina (in particolare). Alcuni critici hanno creduto di ricondurre gli esperimenti di Frankenstein all’alchimia. Confrontando il romanzo con il film, hanno rilevato che tutte le complicatissime strumentazioni da laboratorio del film, nel romanzo sono assenti. La Shelley dice infatti che Frankenstein prima dell’esperimento, raduna i suoi (pochi) attrezzi. Di qui l’ipotesi che si trattasse di una sorta di rituale alchemico, piuttosto che di un esperimento tecnologico. Ipotesi sbagliatissima, perchè la Shelley si riferisce alle apparecchiature galvaniche, che erano in effetti di minimo ingombro. Gli esperimenti di immissione di scosse elettriche nei corpi dei condannati a morte dopo la forza, vennero condotti a cavallo tra settecento e ottocento, e conobbero la prima clamorosa dimostrazione con l’esperimento londinese del 1803, tenuto dall’italiano Giovanni Aldini (nipote di Galvani) sul corpo dell’appena impiccato George Foster ( uxoricida e infanticida). Dunque come in Dracula anche in Frankenstein c’è una robusta traccia-radice di cronaca del tempo. In Frankenstein il tema (religioso) della Resurrezione slitta nel tema (scientifico) della Rianimazione. Il film, da questo punto di vista, confonde le cose. Le immagini originali del romanzo, ci mostrano la Creatura esattamente come l’uomo (nudo e completamente rasato) delle incisioni anatomiche. E’ di quello che si parla: dell’essere umano spogliato (denudato) dalla Scienza Moderna. Parallelamente, si attua una slittamento delle ricerche (spirituali) sull’Anima e sull’Energia Vitale, in quelle (fisiche) sulla natura e l’utilizzo dell’elettricità. Questo secondo aspetto è meglio espresso dal film (coi suoi complessi macchinari da laboratorio e l’aquilone alla Franklin) . Tra l’altro il primo film di Frankenstein è di Edison, dunque il legame è diretto (anche se lì la creatura è un mostriciattolo capellone che al massimo si può collegare al Golem da un lato e a Quasimodo dall’altro). Qui mi fermo, anche perché l’esperimento di Aldini su Foster è l’incipit del mio nuovo romanzo e non voglio scivolare in una sinossi. Rispetto a Dracula , che al tema amoroso/sentimentale non dedica molta attenzione, Frankenstein (e non solo perché scritto da una donna) pone le relazioni affettive e sentimentali al centro del racconto. Paradossalmente, il cinema più recente ha infilato l’Amore in Dracula e lo ha sottratto a Frankenstein, dove l’Amore è la vera sostanza dolente e malinconica dell’intero romanzo, condotto come una desolata confessione d’Amore impossibile … di più: dell’impossibilità dell’Amore, destinato ai ghiacci eterni, Regno della Solitudine Assoluta.

Postato sabato, 15 maggio 2010 alle 10:17 da Gianfranco Manfredi


Ho scritto Browing invece di Browning e “dopo la forza” invece di “dopo la forca”.

Postato sabato, 15 maggio 2010 alle 10:22 da Gianfranco Manfredi


Mi ero dimenticati dell’altra divinità primigenia dell’horror, cioè la Mummia. Tutte queste figure (Dracula,Frankenstein, l’Uomo Lupo e quello Invisibile, la Mummia, il Mostro della Laguna Nera) hanno un tratto e una questione in comune: di cosa parliamo quando parliamo di Corpo umano? Anche Jekyll e Dorian Grey partecipano di questa questione ( e anche questi due romanzi, non trattano affatto di Amore, a dispetto delle trascrizioni cinematografiche, ma si sa, il cinema piazza l’Amore ovunque). Il tema dell’indefinibilità del Corpo (nella sua sostanza, nelle sue origini, nei suoi caratteri metamorfici) unisce i racconti, quello dell’Amore li divide (perché non è presente in egual misura) , il che è significativo e se si vuole, costituisce il vero Scandalo della narrativa horror: il Corpo è centrale e l’Amore è accessorio, totale capovolgimento del senso comune da romanzo e da cinema, secondo cui l’Amore è il centro e il Corpo un orpello.

Postato sabato, 15 maggio 2010 alle 10:39 da Gianfranco Manfredi


Grazie mille, Gianfranco. :)
La sensazione è (non mi vorrei “allargare”… dunque chiedo preventivamente scusa) che questo post/dibattito si sia trasformato in una sorta di quotidiano nazionale on line dedicato alla letteratura vampirica e derivati.
Bellissimo!

Postato sabato, 15 maggio 2010 alle 11:48 da Massimo Maugeri


Vediamo se qualcun altro raccoglie gli ottimi spunti forniti da questo nuovo minisaggio scritto da Gianfranco e… rilancia.

Postato sabato, 15 maggio 2010 alle 11:50 da Massimo Maugeri


Venerdì Manfredi lanciava un tema che nessuna ha ripreso, ma che a me interessa molto: ci sono capitati episodi di memoria infedele?
Lui faceva un esempio cinematografico: una scena che (vista da ragazzino) l’aveva impressionato, ricordata per anni e poi mai più ritrovata nel film rivisto.
Come mai?
Io azzardo questa ipotesi: i libri e i film sono creature dormienti che prendono vita quando vengono letti o visti da qualcuno, un lettore o uno spettatore. Ma questi “risvegliatori” non si limitano a ridestare il libro o il film: lo modificano. Ecco perchè ogni testo e ogni immagine viene percepita in modo diverso da ogni fruitore diverso: perchè si crea un rapporto del tutto inedito. Costituito da:
UR-OPERA INIZIALE + FRUITORE = NUOVA OPERA, di cui il fruitore è co-autore.
Cosa accade però?
Che a distanza di anni (o di mesi), quando noi ci riaccostiamo al libro o al film che pensavamo di conoscere, ci accorgiamo che non vi sono più alcuni elementi.
Ma questi elementi NON facevano parte dell’UR-OPERA INIZIALE, bensì della NUOVA OPERA, di cui eravamo co-autori.
E dunque (essendo cambiati dalla persona che eravamo al momento della precedente lettura o visione) ecco che la NUOVA OPERA di adesso è diversa da quella precedente. E dunque sono scomparsi pezzi della precedente versione.

Postato sabato, 15 maggio 2010 alle 23:13 da luciano / idefix


@ Luciano e Franco. Probabilmente (Luciano) hai ragione, però la ricerca dell’impossibile (la scena rimossa che forse non esisteva affatto) è un tarlo. E’ come quando non ti viene in mente una parola “che hai sulla punta della lingua”, finché non l’hai trovata, l’assenza ti tortura. Poi ovviamente c’è quello che ti saresti dovuto ricordare e invece no. Mi riferisco alla scena del duello Harker-Dracula con caduta monete. Franco si è ricordato che c’è nello splendido film Pages from a Virgin Diary e appena l’ha postato m’è tornato in mente il dettaglio, andrò a controllare. Andrò a controllare anche uno dei più brutti film draculeschi mai realizzati e cioé Bram Stoker’s Dracula’s Guest di Michel Feifer (2006) dove al posto di Harker c’è Stoker stesso e dove Dracula è il Dracula più grasso mai apparso nella storia del cinema draculesco. Forse la scena delle monete c’è anche lì, ma è dura ricordarsene perché è uno di quei film che si guardano allibiti dalla bruttezza e non ci si sofferma molto sui dettagli. Invece non ho visto Dracula’s Curse di Leigh Scott (2006) che pare (a leggere i commenti dei customers) contendere la palma di peggior film draculesco con il precedente. Franco, lo hai visto? Alle volte nel pessimo c’è del geniale… è il caso? Qual è a tuo avviso il peggior film draculesco in assoluto?

Postato domenica, 16 maggio 2010 alle 11:55 da Gianfranco Manfredi


Dimenticavo. Dracula’s Curse è senz’altro un candidato a peggior film se si considera che il titolo completo è Bram Stroker’s Dracula’s Curse. Non è un refuso, è proprio scritto Stroker invece di Stoker. Ora dato che “stroker” in USA significa segaiolo potrebbe sembrare una parodia oppure un porno-gay, invece sembra che non sia né l’uno, né l’altro: così poco ironico da affondare nel funereo senza speranza e così castigato da far esclamare a un customer: ma come? Manco una vampira nuda? Di vampire nude e assai attive sono invece strapieni i due Cathulya ( I e II) e un altro porno : Draculya , film che non ho ancora visto. Il vampire porn è un genere particolare, oggi commisto al Fetish, ma che nasce all’alba dei 70 con Dracula Sucks e Dracula Exotica. In entrambi i film Dracula è un uomo giovane, ma annoiatissimo. Come recita lo slogan pubblicitario del secondo, Dracula “è venuto per mordere ed è rimasto per amore”. Con amore, si intende scopare, ma fino a un certo punto, perchè in realtà Dracula non ne può più neanche di orge e dunque cerca l’Amore come suprema deviazione. L’Amore come rimpianto di un amore perduto è anche al centro (si fa per dire ) del Dracula di Salieri (con Selen) , una versione porno del Dracula di Coppola, che ovviamente tra una rombata e l’altra smarrisce il filo narrativo (anche se Salieri cerca sempre di avere una sceneggiatura di base) al punto che Dracula retrocede quasi a comparsa. Che nei porno Dracula tenda a innamorarsi pare una caratteristica saliente. Se il porno è la normalità, un Diverso non può che aspirare al Sublime… anche se non si osa condurlo fino alla Castità, altrimenti il pubblico “schioda le sedie”. Questa espressione la usò un regista porno ex aiuto regista di Nanni Loy. Una volta lavoravo a un progetto di film con Nanni Loy. La prima scena avrebbe dovuto essere ambientata in un cinema porno milanese vicino alla stazione Centrale dove era appena avvenuto un fatto di cronaca (siamo negli anni 80): la polizia aveva compiuto una retata nel cinema e portato fuori tutti gli spettatori, facendoli allineare per strada con le mani contro il muro, mentre venivano perquisiti e identificati. Nanni voleva ricostruire l’episodio. Appurammo che il film che si proiettava quella sera si intitolava Clito, la vergine del sesso (o qualcosa di simile). Essendo Nanni scrupolosissimo e non avendo mai visto un porno, ricorse al suo ex assistente diventato nel frattempo celebre regista di porno. Questi ci ricevette nel suo ufficio, aprì un quadro dietro il quale si celava la finestrella di una cabina di proiezione e ci proiettò sul muro un altro film (Clito non era riuscito a trovarlo). Il film iniziava con un tipo al telefono. Entrava la segretaria, si accomodava sotto la scrivania e il resto è prevedibile. Nanni borbotta: “Ma come? Così… senza preparazione?” E il suo ex aiuto : “Ah, Nanni… se nun trombavano subbito, er pubblico schiodava le sedie!”

Postato domenica, 16 maggio 2010 alle 12:24 da Gianfranco Manfredi


Ah… l’idea che lo Stroker, fosse un porno gay, mi era sorta dal fatto d’aver letto da qualche parte che Stoker (pur sposato) fosse gay. Fondata la diceria? Lo chiedo a Franco. Altra diceria è quella secondo cui il racconto postumo L’Ospite di Dracula, non fosse la prima traccia di Dracula, bensì un racconto scritto dalla moglie di Stoker dopo la sua morte e attribuito al merito per questioni economiche. Vera o falsa? Sul ruolo delle mogli degli scrittori è in corso da tempo una diatriba. C’è chi sostiene che anche Jekill/Hyde sia stato scritto non da Stevenson, ma da sua moglie, e da Stevenson semplicemente rivisto. Secondo me questa è una bufala, ma (chiedo sempre a Franco) ha un qualche fondamento? Si fantastica parecchio in questi ultimi anni su mogli e amanti di musicisti illustri e di scrittori-monumento, persino di Filosofi, che facevano le “negre” per i mariti, non solo ricopiando “in bella” gli appunti (come la signora Tolstoi) , ma anche editando, riscrivendo, o (supremo sacrificio da negritudine) scrivendo al posto del marito (o dell’amante, o del Maestro). Lo si è detto ultimamente anche della moglie di Larrson. Gli autori, dunque, vampirizzano le mogli?

Postato domenica, 16 maggio 2010 alle 12:43 da Gianfranco Manfredi


Ho scritto “merito” invece di “marito”… cova dell’insospettata misoginia in me? Assicuro comunque che non ho mai chiesto a mia moglie di scrivere una sola riga al posto mio , anche se le impongo di leggere la prima scrittura dei miei romanzi per farmi dire cosa a suo avviso non funziona. Dato che mia moglie tende ad addormentarsi facilmente, appena si imbatte in una pagina noiosetta, crolla. Così prendo nota e taglio.

Postato domenica, 16 maggio 2010 alle 12:48 da Gianfranco Manfredi


Piccola inchiesta: voi fate uso di mogli o di mariti in corso scrittura? O mogli e figli/figlie sono nemiche della scrittura in quanto sottrae loro il marito o il padre? O le sono grate (alla scrittura) proprio per questo? E’ un po’ che non si sente Gianni, che qualche allusione in merito l’aveva fatta. “Gianni! Come si fa a non essere ottimisti?” Dì un po’? Ti ha torturato questo slogan? Si accennava giorni fa alla disinvoltura pubblicitaria di alcuni scrittori anni 80 e 90 , ma la cosa ha contagiato anche un Grande Vecchio come Tonino Guerra, vittima nel caso, di se stesso. Basta uno spot del cazzo per rovinare un’onorata carriera. Uno scrittore, è mia convinzione, dovrebbe aspirare a essere L’Uomo Invisibile. Meglio far vedere la moglie, dopotutto.

Postato domenica, 16 maggio 2010 alle 12:56 da Gianfranco Manfredi


CHE NE FACCIAMO DEL CORPO ?
ovvero
COME SI FA A NON ESSERE OTTIMISTI ?
-
ECCOMI… La mamma e il papà sono morti, la moglie Tatyana è partita portandosi via la bambina ( oltre che la casa), e lo scrittore, il dottor Talvone, vive in una solitudine assoluta.
Meglio così ! Tatyana stava diventando un mostro come la signora Portulano, la moglie di Pirandello, divorata da una gelosia patologica : “ Che fai? Scrivi alle tue fimmine scrivi eh?”. Pirandello si nutriva, come un vampiro, della follia della moglie. In lui c’era qualcosa di morto, che la signora Portulano non riusciva a sopportare.
Non esiste neanche qualcosa come ” il mondo degli scrittori” – come se un insieme di solitudini giustapposte fosse una comunità! L’attività letteraria non ha riti collettivi, tanto che i gesti propiziatori del mattino, prima di buttarsi in angolo a scrivere, sembrano quelli di un maniaco.
Né articoli né ridicole interviste ( ” quanto di autobiografico c’è nel suo romanzo?”) sono dei sacramenti. La pubblicazione poi non è che il ritorno alla durata inerte del solito trantran. E se poi malauguratamente arriva il successo, certamente ci si è sbagliati da qualche parte e – per non diventare un’azienda – bisogna ricominciare tutto daccapo.
Ogni volta trattenendo il fiato come uno yogi o un feto, a ogni frase compiuta: nel timore che tutto possa perire, tutto rifiorire. Condannato a continuare fin dai tempi degli Assiro-san-babilonesi un lavoro millenario che niente in lui, né fuori di lui, giustifica.
Quanto a quelli che circondano gli scrittori, quasi nessuno li ascolta. La mentalità pubblica non può che suggerire loro di cercarsi un altro lavoro. Baudelaire, vada a fare il piantatore alle isole Bourbon. Dante, smetta di fare l’accattone fra le ombre. E quel vagabondo di Artaud in Irlanda, non è un san Patrizio fuori posto? Campana, poi, si rivolga alle USLL o ASL e parli di quella sua attrazione torbida per l’insufficienza con la psicologa di zona. Balzac faccia il tipografo. Quel vecchio deficiente di Tolstoi è scappato di casa alla sua età? Acchiappa il nonno! E Rushdie, ma chi glielo ha fatto fare di scrivere I versetti satanici?
Quanti scrittori muoiono, oggi, sgozzati come i montoni dell’Aid el kebir in Algeria? Chi li conta più, anche Georges Perros è morto solo. Mario, a furia di andare dove porta il cuore, è finito all’ospedale per un infarto. E fino all’ultimo faceva segno che non poteva respirare.
L’autorità letteraria o universitaria se ne frega di Baudelaire, che pagò con l’afasia, o di Mallarmé morto strangolato. E di Gianni, che parafrasando Mallarmé, ha scritto di Dracula come “dell’assente di tutte le bare”. Ma chi se ne frega?
Forse dovrei evitare di fare dello spirito. Devo imparare a usare le parole.
A chi ci si rivolge veramente quando si scrive? Se date un milione di dollari al dottor Talvone forse potrò continuare le ricerche e offrire qualche paradigma decisivo. Come la strega di Puskin, che nessuno riusciva a prendere in castagna, dal momento che “non giocava per danaro: ma solo per l’eternità”, lo scrittore riesce persino a credere alle proprie menzogne.
In genere, gli scrittori non riescono a soddisfarsi di non potere agire che sulle rappresentazioni, e non sulle cose, di manipolare forme, che i linguisti gli dicono vuote, di non nominare niente che non sia necessariamente “privé d’etre”, secondo la parola di Maurice Blanchot.
E quindi continuano a desiderare una lingua motivata, una lingua vera per costruire, comporre e celebrare la vita e i mondi. Salvo poi a morire in un momento di distrazione, per una virgola sbagliata. Gli scrittori muoiono in uno schiocco di lingua – santi o dannati.
Ma metafore come la santità o la dannazione non si usano più. Meglio dire, per tranquillità, che gli scrittori non muoiono mai. Anzi, che non sono mai nati. Resta qualche cazzaro che fa piroette senza il toro – un vero toro nero di scrittura che lo incorni e comprometta fino in fondo.
E’ gente che ha fatto del cinismo una virtù supplementare della propria arte. Più ingenua o più furba che perversa.
Oltre ad essere morti siamo pazzi, pazzi da legare. E duplici: ora Gianni, ora un dottor Talvone “laggiù”. E questa tempesta in un bicchier d’acqua? La stessa tempesta che Shakespeare vide nella testa dell’idiota?
In ogni caso, vi sto parlando da un angolo che mai si chiude. E dalla clandestinità, dalla notte eterna della letteratura. Una notte che non è come le altre notti, ma La Notte. Quella nella mia testa è una notte che è sempre la stessa notte: color di vento di fughe e d’imboscate. In fuga verso un brillante avvenire di scheletro (“Giaaanni! Come si fa a non essere ottimisti?”).
Vorrei, come capita spesso ai morti essere triplice, quadruplo. Diceva l’amico Hervé Guibert, morto di Aids a trentasei anni: ” vorrei essere un ballerino, un gangster, un funambolo, un pittore, uno sciatore…”.
Sarebbe divertente scrivere una storia di cui essere l’eroe: un giorno usciamo di casa passando per la finestra e ci ritroviamo a camminare per strade senza paese, sole con il cielo.
E dopo essere andati il più lontano possibile, senza mai arrivare veramente in nessun luogo, cerchiamo una radura vicino a un ruscello non inquinato e ci costruiamo una capanna provvisoria di tronchi d’albero.
Potremmo dissetarci alla sorgente di un’acqua fresca, dolce e chiara. E anche togliere i sandali freschi di bosco e batterli uno contro l’altro, per togliere la polvere da sotto i piedi.
Sì, alla Sorgente diventerò un bellissimo fiore blu. E, asciugati tutti quegli occhi che hanno pianto, vivremo davvero nel Regno della libertà, descritto da Marx simile “ a un racconto di Fate”.
Insomma, vivere, solo vivere come i fiori dei campi e le bestie del cielo, esiste forse un sogno più bello di questo?
Entro nell’arena. Combatto con l’Angelo delle parole. Esco zoppicando. Zoppicare non è peccato. Respiro nella luce rosata.
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Un giorno racconterò la vita all’ombra del Talvone, la mia vita sempre provvisoria in compagnia del mio Vampiro. Per lungo tempo ha creduto, probabilmente a torto, che la psicoanalisi mi avrebbe permesso di ritrovare ricordi dimenticati, o semplicemente sparsi, e che avrei potuto dare un senso alla mia difficoltà a vivere.
Ma non ho trovato niente durante le mie due cure psicoanalitiche successive, se non gli stessi brandelli ciechi. Adesso mi vergogno di non avere altra memoria che la notte e vorrei essere un bodhisattva, un torero, un tuffatore.
E’ il modo che ho trovato per restare fedele alla Parola e proteggere l’universo. Quando mai sei diventato un “animale da tavolino” ? E chi ha incatenato l’ultracorpo come una zecca al tavolino, quando potresti rincorrere tua moglie, Tatyana, che proprio in questo preciso istante sta andando via con la bambina ( e si frega pure la tua automobile).
Invece di stare a litigare per dividervi la bambina, il cane e un frullaculo meglio dormire sui precipizi? ( “Scusa, Gianni, prendo anche questa pentola, ti dispiace? Apparteneva alla mia povera mamma!).
Apparentemente sveglio dentro il suo proprio sogno, il professor Talvone non vuole andare dove lo porta il cuore: all’ospedale o dentro un libro, verso la moltiplicazione di escatologie triviali e le pesantezze del piccolo commercio.
Forse scrive per addestrarsi a qualche trasformazione. E qualcosa, dal di Fuori entra e – con le parole dell’Uomo Invisibile, zio Burroughs – “ prende possesso della carne che scompare”. D’accordo, però una questione resta: cosa ne facciamo del corpo?
Il professor Talvone vuole un mondo senza Letteratura. Addio premio Strega. Tenterà la fortuna nel vuoto.
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La questione del dottor Talvone riguarda l’Essere e la nostalgia dell’Essere: come essere? Più vicini a ritmi di distruzione e di origine, potremmo avere un nome nuovo; qualcosa di terrificante e di bello. Come “Rosalind”, per esempio. E’il nome che appare negli “Ultimi vampiri” dello straordinario e commovente Gianfranco Manfredi, uno degli ultimi narratori veri – alla ricerca, anche lui, della Sorgente dei Fiori di Pesco: “ Noi veniamo dai fiori, e ai fiori dobbiamo ritornare. Ora li stiamo sorvolando, alla deriva nel vento. Ma solo tra di loro troveremo la pace e l’amore”.
Va’ pure, Tatyana. E, oltre alla mia automobile, porta con te anche la pentola della tua povera mamma morta. Io resto qui, alla Sorgente e sano e salvo in un angolo che mai si chiude: debbo imparare a usare le parole.
( “Sano e salvo”, ecco finalmente delle parole chiare!). :-)

Postato domenica, 16 maggio 2010 alle 15:22 da Gianni De Martino


L’idea che mogli sconosciute abbiano scritto tutte le opere celebri di mariti famosi (o viceversa) mi pare campata in aria.
Non che i “complotti” non esistano ma la mania di vedere sempre un doppiofondo a OGNI accadimento umano è paranoica e sembra derivata da una nottata in bianco dopo aver visto una puntata di X-Files subito dopo aver mangiato troppa peperonata con cipolle crude.
Ricordo invece almeno un caso autentico di moglie/marito che si scrivevano l’uno con l’altra e viceversa. Catherine Lucille Moore e Henry Kuttner: lei autrice di horror-fantasy negli anni Trenta (Shambleau, il ciclo spaziale di Nortwest Smith…che Clint Eastwood giovane avrebbe interpretato alla grande), lui autore di fantascienza, insieme autori di bei racconti sf. Capitava che, di sera tardi, Henry lasciasse un foglio nella macchina da scrivere e poi andasse a dormire, Catherine continuava il racconto e lui la mattina non ricordava più se l’autore era stato lui oppure no.
O la meravigliosa storia di Pierre Souvestre e Marcelle Allain, i due autori di Fantomas, 32 romanzi di trecento pagine al mese tra il 1911 e il 1913, libri sfrenati, macabri e pazzamente divertenti: all’inizio del mese decidevano la trama e si spartivano i capitoli, poi non si vedevano più e dettavano alla dattilografa un capitolo a testa, rileggevano solo le bozze prima di andare in stampa per correggere le incongruenze più macroscopiche: il risultato è una saga al di là del bene e del male, adorata da Ejsenstein e Cocteau, dai surrealisti e da Magritte, da intellettuali e da popolani, un meraviglioso delirio in cui gli stessi Souvestre e Allain non si raccapezzavano più.

Postato domenica, 16 maggio 2010 alle 15:53 da luciano / idefix


LE NOTTI BIANCHE
ovvero
UN MERAVIGLIOSO DELIRIO

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Immagino il professor Talvone trasformarsi in un Pierrot lunare. L’importante, mi pare, è che non si trasformi in un Pierrot lunatico : di quelli, per esempio, che si vedono talvolta parlare da soli in metropolitana :
« … Mia moglie Tatyana scriveva un capitolo e io un altro. Giocavamo, come i surrealisti, ai cadavres exquis – i Cadaveri squisiti o qualcosa del genere. Ci allacciavamo, marito e moglie anche nella scrittura, come serpenti immondi, pardon innamorati. Ma ora Tatyana mi ha lasciato per metttersi con una specie di satiro peloso…
Mi diceva sempre non fumare non fumare. E che ? Già vedeva in me qualcosa di morto ? Non fumare, non fumare…E che fai scrivi alle tue fimmine eh ? Proprio come la moglie di Pirandello, la signora Portulano. Solo che Tatyana è andata via con la bambina, prendendosi anche la mia casa, l’automobile e il copyright delle cose che ho scritto…
A Tatyana non interessava il mio lavoro. Volete che ve lo racconti ? Ma la letteratura non è forse già piena di storie di piccola sessualità italiana, medio-italiana ? Volete che vi racconti la storia del meraviglioso delirio di Tatyana che mi diceva di non fumare ? O forse ero io a dirlo a lei? Mah, non mi ci raccapezzo più e tra moglie e marito è meglio non mettere il dito. Meglio una bella storia di vampiri , ecc. ».

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Le peperonate e le notti bianche non hanno buona reputazione. Nell’oscurità non ci si sorveglia più e, talvolta, al posto del sonno, mentre gli altri dormono, vengono delle idee che non spingono alla motricità o all’azione ma si susseguono in una risurrezione incessante…
Nessun censore malevolo. Invece di dormire si pensa. Per pensare veramente occorre sentirsi liberi. E i pensieri notturni brillano, come vampiri, di uno strano chiarore.

Postato domenica, 16 maggio 2010 alle 17:49 da Gianni De Martino


Molto bella l’idea di Luciano sulle modifiche dei film. Nei fatti, è il problema del rapporto illusionistico con la visione. Un amico medico mi spiegava – mi scuso della terminologia “profana” che uso, che ovviamente banalizza – che una parte importante di ciò che crediamo di vedere in realtà la ricordiamo. Di lì slittamenti, connessioni indirette… Ci sono collegamenti sotterranei – cioè dei sotterranei di noi stessi – che ibridano ricordi diversi: elementi altri che catalizzano questa ibridazione. Quando Gianfranco ha parlato del suo episodio ho avuto anch’io confusa memoria di casi simili.
No, Gianfranco, non ho visto i due film di cui parli – ma ho in mente un certo numero di altri che mi pare contendano la palma. Sul tema draculesco tra i più pirotecnicamente brutti – al punto da essere virtuali opere d’arte – c’è l’ormai storico Dracula vs. Frankenstein di Al Adamson, 1971, che pure arruola J. Carrol Naish, Lon Chaney Jr. (ormai malatissimo, straziante) e Angelo Rossitto. Se lo trovate, vedetelo assolutamente: tra l’altro ha avuto una genesi del tutto folle (troppo lunga da raccontare qui) di inserti appiccicati quasi col nastro adesivo… Bruttissimo invece, ma senza quella dignità storica – e tuttavia, mi sembra, da vedere proprio per gli esiti estremi del kitsch – è Dracula 3000 (in Italia Van Helsing – Dracula’s Revenge, per sfruttare l’effetto-traino del Van Helsing di Sommers) di Darrell Roodt, 2004, terrificante mix di horror e fantascienza. Su Carmilla, invece, e con la faccia di tolla di citare pure Le Fanu, Vampires vs. Zombies, è davvero incredibile quanto a impudicizia estetica.
Un discorso a parte meritano in effetti gli hardcore, che contengono le cose più improbabili. In The Dark Screen abbiamo cercato di individuare almeno i principali su Dracula, come si era fatto in Le vampire per quelli su Carmilla, ma è davvero un sottomondo che sfugge a ogni pretesa di mappatura.
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Mah, su Stoker gay non sussistono certezze. Che la sua fascinazione per il vampiresco (e vampirizzato) Irving celasse una componente omosessuale può essere possibile – ma non necessario. Irving rappresentava per Stoker un intero orizzonte di possibilità e di sogni: lo entusiasmava e lo colpiva con il suo fascino magnetico, ma gli permetteva anche concretamente di vivere la vita che sognava. Certo, c’era un affetto geloso da parte di Stoker, ma questo si ritrova anche in talune forti amicizie. D’altra parte, considerando i caratteri ripugnanti di certa ambiguità sessuale propria del personaggio di Dracula, viene da pensare che un’eventuale omosessualità di Stoker rappresentasse qualcosa di poco accettato da lui stesso. Qualcuno sostiene per contro che fosse un donnaiolo, che Florence dopo la nascita del figlio non fosse più disposta a un’intimità con lui e che dunque Bram potesse avere interesse ad altre relazioni: e il mondo “libero” del teatro poteva offrire occasioni. La presunta sifilide potrebbe essergli arrivata a seguito di quelle storie – o in più normali bordelli come per tanti gentiluomini vittoriani. Possiamo capire che Bram non fosse il coniuge ideale: sempre fuori casa (lavoro notturno, lunghe tournée all’estero), con l’ombra continua di Irving di mezzo… E a peggiorare il tutto era forse l’educazione un po’ algida di Florence. Quando, nel 1882, Stoker strappa alle acque del Tamigi un suicida sperando di salvarlo, e piazza il corpo in sala di pranzo tra centrini e vasi di fiori fino all’avvenuta constatazione di morte, riceve una medaglia per il coraggio: ma la moglie sembra rimanga un tantino disgustata. Certo il vittoriano Stoker idealizza l’uomo forte, cui le donne si appoggiano: ma il carattere volitivo delle due figure femminili più importanti nella sua vita, la madre femminista Charlotte e la stessa Florence, spingono a relativizzare gli stereotipi. Se notiamo, il principale personaggio femminile dell’opera di Stoker, cioè Mina in Dracula, vive il paradosso di una grande intraprendenza entro un rispetto formale – per noi quasi fastidioso – di un ruolo all’ombra dell’opaco marito.
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Dracula’s Guest rappresenta uno dei rebus più affascinanti della genesi del Dracula. Non si tratta, in quanto tale, di uno degli iniziali capitoli mancanti (dove pure c’era – sappiamo dagli appunti – un episodio più o meno corrispondente): la critica ha ravvisato troppe incongruenze tra elementi del racconto e dati corrispondenti del romanzo. Sembra piuttosto una prima prova, oppure (e qui il dubbio di una mano diversa) un aggiustamento successivo e non filologico di una traccia-base stokeriana. Personalmente mi pare più plausibile l’ipotesi di una prova poi giudicata insoddisfacente dall’Autore e chiusa nel cassetto, ma ovviamente c’è spazio per diverse interpretazioni.
Teniamo anche presente che Lovecraft racconta di aver conosciuto una vecchia signora – non sappiamo chi – che vantava di essere stata lei a sistemare il testo del Dracula troppo confuso per la pubblicazione. Una specie di super-editor, insomma: peccato che la storia cozzi con il dato oggettivo di un enorme lavoro dell’Autore – modifiche, correzioni, riscritture – che emerge dagli appunti di Philadelphia. Alle spalle dell’operazione-Dracula ci sono stati insomma anni di travaglio e scrittura che l’indaffaratissimo Stoker ha condotto nei momenti liberi, ma evidentemente continuando a pensarci. Le altre opere non hanno avuto – e in generale si vede – così tanta attenzione da parte sua: ma immaginare interventi altri non sembra convincente.
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Vorrei però tornare brevemente al discorso molto interessante avviato in precedenza. Concordo assolutamente con Massimo che occorre non fuoriscire dal tema. Il problema è che però il vampiro ha nei fatti assunto nel tempo il valore di metafora – anzi, supermetafora – del Fantastico. Uscendo dai recinti dell’horror e strabordando in ogni possibile forma narrativa, dal fantasy al rosa, dalla fantascienza al poliziesco eccetera, si è affermato insomma come passepartout per parlare – in modo più o meno serio – delle grandi chiavi dell’esistenza e di ambiguità e dubbi che contraddistinguono l’esperienza della modernità.
Coinvolgendo dunque, per esempio, il tema più ampio delle teratologie. Di straordinario fascino le ricerche di Gianfranco sul Frankenstein, e il suo discorso sul Corpo nell’horror. Da quell’estate in cui, afflitti dal cattivo tempo innescato da un’eruzione vulcanica come quella che ha in questi mesi bloccato le euroflotte, alcuni inglesi in vacanza a Villa Diodati hanno dato forma all’horror moderno, i mostri tendono a richiamarsi. E tra loro c’è un forte gruppo che accorpa le deviazioni dalla “normalità” dei rapporti vita/morte. Il morto che torna in vita – cioè il vampiro – e il cadavere reviviscente – la mummia e lo zombie; l’assemblaggio di resti – il mostro di Frankenstein; e persino il renitente alla morte, la figura cioè che senza varcarne le soglie si garantisce una vitalità o una giovinezza innaturale. Come “L’uomo che ingannò la morte” del vecchio film Hammer o la contessa Bathory associata ai vampiri per l’uso ematocosmetico e un certo tipo di crudeltà – ma che resta vampira solo in senso metaforico. La nuova teratologia vede creature insieme spettrali e vampiresche che corrono per le vie del web, come la Melissa delle ricerche di Danilo; ma insieme vede confermarsi il discorso sul Corpo di cui sopra. E se, accanto a Jack the Ripper, l’altro personaggio storico di consolidata dignità teratologica nella fiction contemporanea è il Marchese de Sade che già ha influenzato Mary Shelley (si pensi alla sorte della cameriera Justine), non ci stupiamo di tutta una serie di declinazioni (Saw, Hostel…) che sul Corpo ab/usato e reso feticcio giocano con una ripetizione ormai rituale. Dove il vampiro non è in scena in quanto tale: ma c’è un vampirismo del piacere che dalle vicende narrate passa a coinvolgere voyeuristicamente gli spettatori.

Postato domenica, 16 maggio 2010 alle 18:54 da Franco Pezzini


Non c’entra davvero nulla coi vampiri, ma vorrei consigliare a tutti, in particolare ai milanesi, la lettura del romanzo “Milano è una Selva Oscura” di Laura Pariani (Einaudi, 2010). Non conosco personalmente l’autrice, tengo a precisare, questa è una segnalazione da lettore. Il romanzo , dedicato “A tutti quelli che non si imbrancano in greggi”, narra delle ultime Quattro Stagioni di vita di un barbone milanese, ex libraio e libero pensatore, in quel lontano anno 1969 che si sarebbe concluso con la terribile strage della Banca dell’Agricoltura. L’autrice ci ha messo due anni a scriverlo, limando scrupolosamente ogni passaggio, con rara dedizione. Ha esordito come scrittrice dopo i quarant’anni. Questo è il suo sedicesimo libro (tra romanzi e raccolte di racconti). Ha pubblicato con grandi e piccoli editori. Ha vinto molti premi, di quelli prestigiosi che si dice aiutino vendite e carriera. Si dice. Di questo suo ultimo romanzo non ho letto alcuna recensione. Critici che si occupano per mestiere della storia della letteratura italiana contemporanea, cioè in fieri, non ne hanno scritto, né la citano tra gli autori di rilievo, privilegiando quegli elenchi dell’ovvio che in quanto ovvi essi stessi disdegnano eppure leggono e verificano e dibattono per dovere di cronaca. Forse si premia, ma non si legge, o si premia per lavarsi ogni tanto la coscienza, o per non leggere ciò che andrebbe letto davvero, non certo per scrupolo di onniscienza, ma per assecondare quel segreto istinto che ancora spinge le ultime pattuglie di lettori forti a passare ore in libreria alla ricerca di qualcosa d’altro, ricerca non inevitabilmente premiata, in tempi in cui la singolare esperienza dell’una tantum non richiama felici incontri, ma le tasse, uniche stabili nella provvisorietà del tutto. Eppure brillano ancora strani chiarori nella notte in cui tutte le vacche sono nere. E chi li vede, questi fuochi non fatui, queste luci azzurrine che rivelano piccoli tesori sepolti che nessuno si cura di disseppellire per paura della notte, chi li vede, è bene che li indichi.

Postato domenica, 16 maggio 2010 alle 18:55 da Gianfranco Manfredi


E’ arrivato nel frattempo l’intervento di Franco. Preciso che nel tema del Corpo, ciò che mi pare affiorare in modo più notevole, è il tema delle trasformazioni-metamorfosi del corpo: corpo-fantasma, corpo-giovane-vecchio, corpo cadaverico che cammina, corpo-macchina, corpo assemblaggio di pezzi, corpo che perde i pezzi, corpo invisibile, corpo geneticamente mutante, corpo clinicamente modificato, corpo che sconfina dai limiti del corporeo, corpo dannato, torturato e auto-lesionato. Ma soprattutto Personaggi il cui percorso narrativo è segnato dalle metamorfosi del corpo, personaggi indubbiamente devianti rispetto alle consuete regole del personaggio letterario i cui tratti fisici vengono fissati al principio e poi mantenuti come caratteri fissi, ravvivati e cangianti più nell’immaginazione del lettore che nello scritto. Il romanzo classico tende a presentare corpi definiti e psicologie cangianti, in virtù delle esperienze, dell’educazione sentimentale (cambiamenti psicologici che corrispondono a cambiamenti di età, di stagioni della vita), di improvvise rotture psicotiche. La letteratura fantastica, quella horror in particolare (anche se il termine ha fatto il suo tempo) tende invece alla coerenza psicologica (anche nella schizofrenia, mai data come punto d’arrivo, ma come condizione di partenza di cui il resto è sviluppo fatale) e alla mutazione del corpo. E non mi pare un caso che in epoca pre-vittoriana e vittoriana e post-vittoriana, il fantastico sia strettamente legato allo scientifico.

Postato domenica, 16 maggio 2010 alle 19:14 da Gianfranco Manfredi


Un altro tema, vera ossessione per Dracula, è quello della Casa. Questo è un altro caposaldo della modernità, a partire dal romanzo Gotico. Il conforto dell’uomo moderno (la casa come bene e come paradiso privato) , sprezzante delle culture nomadi e viaggiatore vacanziero, viene fatto letteralmente a pezzi dalla narrativa horror: la Casa è il luogo più inquietante che si possa immaginare, nei più minuti dettagli, negli oggetti più tranquillizzanti, nella stessa suddivisione per Stanze adibite a usi diversificati e distinti, trasgrediti da Dracula (che piazza le bare in camera da pranzo) come dai pornografi sia quelli d’autore (il Bertolucci di Ultimo Tango a Parigi) che quelli “selvaggi” (la camera da letto sarà comoda, ma è noiosa). Al di fuori di questi “generi” pare che nel romanzo contemporaneo prevalga la tendenza a non raccontarle, le case, a non descriverle neppure “tanto” si dice “sono tutte uguali”, a rinchiudersi in un privato disambientato, di puri vaniloqui interiori, durante i quali si fissano nudi soffitti e nude pareti senza vederli. L’ultimo rifugio privato, l’ultima sensazione di paradiso e di inferno, l’ultima prigione in cui si vive senza accorgersene, è il solipsismo dell’Ego , dello scrittore che mette in scena soltanto se stesso, o ciò che crede essere il Se Stesso Autentico, irriducibile al corpo come all’ambiente. E’ in questo vuoto che prospera la letteratura del vuoto. Scrittori che usano la lingua degli sceneggiatori e come loro dicono… l’ambiente? Ci penserà lo scenografo, quando si farà il film. Il corpo? Meglio non precisare troppo, altrimenti si riduce la possibile scelta dell’attore.

Postato domenica, 16 maggio 2010 alle 19:33 da Gianfranco Manfredi


Cari amici, un passaggio al volo per ringraziarvi per i commenti.
Vi leggerò con calma domani.
Sul Domenicale del Sole24Ore di oggi (ovvero di ieri, data l’ora) c’è un articolo su “Varney, il vampiro” (pubblicato da Gargoyle).
L’avete letto?

Postato lunedì, 17 maggio 2010 alle 00:48 da Massimo Maugeri


L’interessante articolo di Bertinetti sul Sole 24 ore, collegandosi alla prefazione di Pagetti a Varney e al saggio di Moretti “Segni e stili del moderno” , avanza la tesi secondo cui la figure del vampiro è rappresentazione del Nemico Pubblico, cioè la simbolizzazione di una paura e di un Fantasma (avversario ideologico e immateriale) sul quale scaricare la conflittualità sociale latente. Dunque Varney “utilizzando il canone dell’intrattenimento, voleva raggiungere risultati utili a impedire scontri di classe.” Cavoli! Il Vampiro sarebbe dunque uno Scarico favolistico della reale lotta di classe? Mi consenta… ne dubito fortemente. Trovo anche piuttosto buffo che da un lato si consideri la letteratura popolare, nel senso più pulp del termine, come pura evasione (nel territorio dell’irrilevante dal punto di vista estetico), dall’altro come capace di “Impedire scontri di classe”. Mettiamoci d’accordo… il fantastico è irrilevante o è così potente da poter sedare le inquietudini del corpo sociale? Perché le due cose non vanno insieme. Ripeto: se non si considera l’intreccio sociale e storico di soggetti fondanti la figura del vampiro moderno (l’eretico, il dissidente, il sovversivo, il malato, l’asociale, il nomade-vagabondo, l’ebreo, la sonnambula, “l’isterica”, il depresso, il nottambulo, lo stupratore) non si riesce a capire la radice moderna e non-favolistica del Vampiro. Se poi non si comprende la natura antropologica della paura del “morto che ritorna” , non si afferra la sua capacità di contagio. Infine se si deduce , troppo semplicisticamente, che l’intento della letteratura popolare ( non solo horror, perché stessi criteri possono essere applicati all’avventuroso e al sentimentale) sia “educativo” (ristabilire il senso morale) e “utilitaristico” ( sedare i conflitti di classe) si finisce per attribuire eccessivo potere alla stessa letteratura, della quale si può dire, parafrasando ciò che disse Guccini in riferimento alla canzone, “con le canzoni non si fanno le rivoluzioni” e dunque tanto meno le si pompierizzano (se mi passate il neologismo). La rappresentazione simbolica dell’inquietudine, non dissolve affatto l’inquietudine, ma la esprime. La morale delle favole, somiglia molto alla soluzione tranquillizzante che negli anni 50-60 , si apponeva alle poco tranquillizzanti trame dei film e soprattutto i telefilm di Hitchcock e altri. Nella conclusione finale (nei telefilm posta addirittura fuori racconto) il Mago del Brivido assicurava il pubblico che alla fine l’assassino (vincente nel telefilm) era stato assicurato alla giustizia. Questa conclusione serviva a sedare la censura, non l’inquietudine del pubblico. Nessuno ha mai letto le favole per la loro morale, cioè quelle due righe finali che spiegavano il senso morale dell’apologo per poi concludere “vissero felici e contenti”. Il testo della favola, il suo tessuto narrativo, è Simbolico e in quanto tale prescinde totalmente dalla morale, esattamente come il simbolismo scientifico. Difficile pensare del resto che i personaggi delle favole, segnati da esperienze a dir poco traumatiche, possano in seguito a un tale turbolento vissuto, vivere “felici e contenti”. Può vivere felice è contenta una fanciulla che ha dormito per un secolo intero? Possono vivere felici e contenti due bambini che stavano per essere cannibalizzati e hanno ficcato la strega nel forno bruciandola viva? Se la critica “storicista” considerasse più attentamente la Storia e accogliesse qualche indicazione dall’Antropologia e dalla Psicanalisi, non incorrerebbe in simili sfondoni interpretativi.

Postato lunedì, 17 maggio 2010 alle 11:48 da Gianfranco Manfredi


E’ evidente che nelle figure dell’immaginario e soprattutto ne loro Successo di massa, si nasconde spesso un contenuto Ideologico, ma da qui a supporre che un autore si ponga consapevolmente un obiettivo propagandistico e reazionario, ce ne corre. Chi li pagava gli autori di Varney? Il servizio segreto britannico? Un McCarthy pre-vittoriano? Ce lo facciano conoscere se mai è esistito. Spiegare la letteratura attraverso il complottismo è ben più irrazionale di quell’irrazional-fantastico che si pretende di spiegare e giustificare. L’inconscio non conosce Morale. Lo stesso percorso ideologico si nutre di contraddizioni e di ossimori, che possono rivoltarlo come un vecchio cappotto. Dire poi, come si conclude nell’articolo, che Dickens , riportando la narrazione al suo contenuto storico-sociale , “muta i rapporti di forza in ambito editoriale” è quanto meno discutibile. E’ proprio la fondazione della Letteratura Sociale (non soltanto in Dickens, si pensi a Eugene Sue e ai suoi Misteri di Parigi) che riportando al centro della narrativa i Valori Morali ne fa strumento di consenso popolare, creando l’effetto ideologico tutto moderno della Rivoluzione Moralista (dal giacobinismo al bolscevismo) . E’ quella che si propone uno scopo “politico”. Non la narrativa fantastica , né i germi di fantastico inerenti alla stessa Letteratura Sociale. Ben poco confortanti e ideologici sono gli assassini popolari di Emile Zola. Alla fine, nessun Genere Letterario, in quanto Letterario, può sfuggire al Perturbante, soffocandolo sotto l’Edificante. Uno scrittore che si proponga finalità Edificanti , e a queste si limiti e si confini, non può che consegnarsi alla categoria degli scribi di Regime.

Postato lunedì, 17 maggio 2010 alle 12:13 da Gianfranco Manfredi


Quanto alla Rivoluzione, si dovrebbe ricordare che “non è un pranzo di gala” , altrimenti non si sa davvero di cosa si parla. Dalla Morale Giacobina al Terrore, il passo è breve.

Postato lunedì, 17 maggio 2010 alle 12:18 da Gianfranco Manfredi


A proposito del Terrore e della Rivoluzione islamista in corso. Colpisce la notizia dell’uccisione di due soldati italiani in un agguato terroristico a Bala Murghab, Afghanistan, zona di Herat. Morti il sergente Massimiliano Ramadù e il caporale Luigi Pascazio, feriti i caporali Cristina Buonacucina e Gianfranco Scirè.
I precedenti: sei vittime a Kabul lo scorso settembre, un altro militare morto a luglio, una lunga scia di sangue.
Tra i vari commenti usciti nel Corriere di oggi, un lettore evoca Dracula, metafora allucinata del “Potere insaziabile”.
Qualcosa di inquietante e di orribile esce fuori dalla Letteratura e sembra prenderlo alla gola:

DRACULA INSAZIABILE

“Il potere è un vampiro insaziabile, sempre disposto a tutto pur di mantenersi ed accrescersi. La vita umana? Poco più di nulla per il Potere. Ciò che non capisco è però perché la gente alimenti un tale sistema vampiresco che si nutre persino della vita delle stesse persone. Davvero non capisco. Condoglianze a parenti ed amici degli uccisi ed auguri ai feriti. Un Potere così è davvero intollerabile. Mi fa proprio schifo. Poveracci, specie se non sono accorti di essere strumentalizzati. Peccato. La morte è già difficilmente accettabile. Le morti provocate dalla stupidità e dalla volgarità del Potere sono proprio inconcepbili. Peccato”.( Peppe)
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Un altro commento, apparentemente più aderente al principio di realtà, ma con punte normalmente fobiche, rende invece onore ai caduti:
ONORE AI CADUTI

“La missione dei nostri soldati in afganistan ha lo scopo di fermare il terrorismo affinchè non arrivi dentro casa nostra, oltre a quello di portare un lume di civiltà e pace in un angolo ove regna oscura la barbarie.Per questo ritengo giusta la presenza dei nostri soldati in quelle terre lontane. Grazie a loro i miei figli possono vivere felici, liberi e sereni. Ai nostri soldati non può che andare la nostra gratitudine ed il nostro massimo rispetto”.(Lettore)

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Ancora sangue. Versato in forza del Nome ( del dio Allah) da una parte, e della fedeltà alla Repubblica e al bene comune dall’altro. Essere costretti a doversi difendere dal terrorismo ubiquitario e diffuso, di matrice islamista, è una situazione imprevista e infelice, che pare destinata a impestare il mondo per i decenni a venire. Chissà come se la caverà la classe letterata europea, medio-europea, e come andrà a finire…
Intanto vengono alla mente, ancora una volta, le parole di Freud, in nota a ‘Il disagio della civiltà’ : “Che immane ostacolo alla civiltà dev’essere la tendenza aggressiva, se la difesa contro di essa può rendere tanto infelici quanto la sua stessa esistenza!”.
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Freud lo ha scritto nel 1929, durante l’ ascesa sfolgorante, quindo non vista, del nazismo. Quella di Freud è un’annotazione a proposito del precetto “ama il prossimo come te stesso”. Dopo aver riconosciuto la funzione civilizzatrice di tale precetto, osserva : “ Eppure, chi nella presente civiltà s’attiene a tale precetto si mette solo in svantaggio rispetto a chi non se ne cura. Che immane ostacolo alla civiltà dev’essere la tendenza aggressiva, se la difesa contro di essa può rendere tanto infelici quanto la sua stessa esistenza!”.

Postato lunedì, 17 maggio 2010 alle 14:22 da Gianni De Martino


@ Gianni. Una cosa che desta scandalo (certo a occhi di pochi) è che sarebbe assai più chiaro, consapevole morale dire alle nostre masse: “Poche balle, la nostra vita quotidiana in occidente, e non solo, dipende dal Petrolio. Ce l’hanno loro e dobbiamo prendercelo, altrimenti affondiamo.” La cosiddetta gente capirebbe molto meglio perché siamo là e in nome di cosa sacrifichiamo i nostri giovani e poveri. Sarebbe anche costretta a prendere atto della valenza morale del proprio consenso. Si preferisce invece l’ipocrisia “civile”, forma autentica della nostra barbarie. L’ipocrisia è una brutta pianta che dilaga molto al di là di un terreno specifico. Tangentopoli: ma io rubavo per il partito. L’attuale tangentopoli: sì, ne approfittavo personalmente, ma io non sono che un granellino in una tempesta di sabbia e taccio per un dovere morale che mi impedisce di trascinare altri, men che meno i Signori della Tempesta. D’altro canto, in Italia, qualsiasi capo della matassa corruttiva che si cominci a tirare, rivela nodi nel Vaticano. Malaffare e Morale sono le due facce della stessa medaglia. Questo è il quadro. Dopodiché di fronte alla misteriosa pratica della scrittura si è spinti a interpretarla secondo gli stessi criteri: convenienza di Mercato da un lato e intento pedagogico e moralizzatore dall’altro, ma sempre della stessa moneta si tratta. Sfugge la natura di atto gratuito dello scrivere e del narrare. Sfugge persino agli “addetti ai lavori”. Ah, Gianni! Come si fa a essere ottimisti? E’ d’altro canto proprio l’incomprensione di fondo e di sostanza, a tutelare la libertà non riducibile a Merce-Morale della scrittura. E’ l’essere Uomini Invisibili che tutela i segreti percorsi degli scrittori, così occulti agli Interpreti, quanto trasparenti ai lettori che di quella stessa libertà, sanno fare la LORO libertà.

Postato lunedì, 17 maggio 2010 alle 15:49 da Gianfranco Manfredi


Piccola integrazione al tema della trasmutazione del Corpo. Mi ero dimenticato del corpo rimpicciolito (Dr. Cyclops, 1940) e ingigantito (The 50 Foot Woman, 1950).

Postato lunedì, 17 maggio 2010 alle 15:56 da Gianfranco Manfredi


Ipocrisia delle giustificazioni. Sì, rappresento il Nudo, ma a fini artistici. Sì, disse John Holmes, faccio porno, ma insegno agli uomini come si fa sesso corretto e piacevole ( se si ha cura di stimolare la donna, poi lei è disposta a tutto). Holmes era incolto, ma se l’avesse saputo, sarebbe stato assai più seducente se avesse ricordato gli eretici cristiani di epoca bizantina che praticavano l’orgia a oltranza come forma di “avvilimento del corpo”. Sì, dice l’autore pulp, scrivo robaccia di infimo ordine, ma lo scopo è intrattenere il popolo ed educarlo a diffidare (ad avere orrore) della violenza. “Il fine giustifica i mezzi” è da sempre legge della Politica , sia quella di Stato, che quella Rivoluzionaria. Entrambe si ammantano di Morale. C’è sempre uno scopo “altro” e Nobile a giustificazione dell’orrore Supremo della Guerra e del Massacro dell’Altro. L’Amorale è invece colui che narra il reale nei suoi misteriosi intrecci con il simbolico. L’Amorale è colui che definisce le cose per quello che sono: la Repressione Violenta dei conflitti sociali come la Rivoluzione in quanto Presa del potere, sono (per citare gli autori di Varney) Festa di Sangue. Vogliamo capirlo o no? Ciò scandalizza il vostro senso morale? Appunto.

Postato lunedì, 17 maggio 2010 alle 16:18 da Gianfranco Manfredi


Gianfranco : “Poche balle, la nostra vita quotidiana in occidente, e non solo, dipende dal Petrolio. Ce l’hanno loro e dobbiamo prendercelo, altrimenti affondiamo.”
Certo, le guerre non si fanno per « idealismo ». Ma detta così , l’occidente, e non solo ( Cina, India, Russia, insomma tutti i paesi industrializzati del pianeta) , appare come un Vampiro assetato di oro nero.
Mentre invece « loro », i paesi dell’area arabo-islamica, primi produttori di petrolio nel mondo, quindi ricchissimi, e supposti pacifici, se non pacifisti, sarebbero solo delle povere vittime da umiliare, succhiare, se non poppare, e depredare.
Forse le cose stanno in maniera differente e più complessa di quanto narri il racconto vampirico.
Il racconto vampirico e, ahimè, con qualche curvatura terzomondista, non spiega, per esempio, perché dall’interno dell’area area arabo-islamica, ci si rivolga all’occidente, e non solo, nel modo più perverso possibile.
Forse è in gioco non solo il ruolo di guida delle moltitudini giovani e verdeggianti del mondo islamico e del controllo del petrolio nell’area, ma anche lo scontro con usanze, mentalità e strane patologie di signori del terrore, predicatori e la loro fanteria che si struggono per vedere la loro e la nostra rovina.
La visione europea del mondo non contempla più la guerra, eppure è stata visitata dalle “furie” provenienti dall’area islamica in pieno scisma ed effervescenza – perlomeno a partire dalla Rivoluzione khomeinista in Iran, dove oggi vige il Terrore rivoluzionario, praticato per il bene del Popolo da pii e compassionevoli mullah armati.
E dopo l’11 settembre, dopo Londra, Madrid, Casablanca, Tel Aviv, Gerusalemme, Bali, Mosca, Mumbay, ecc., forse siamo diventati, senza saperlo, una delle fazioni della guerra civile che si combatte nel mondo arabo-musulmano, “ trovandoci – con le parole di Fouad Ajami – a metà tra gli autocrati e i loro figli che non li amano più, tra coloro i quali desiderano vivere una vita normale e i guerrieri della fede decisi ad imporre il loro volere su quelle terre turbolente”.
A imporlo con il sangue, appunto. Come se non fosse possibile un’altra storia: la storia di un mondo di tranquillità mentale e fisica e di una Festa ( che sia finalmente ) senza sangue.

Postato lunedì, 17 maggio 2010 alle 21:41 da Gianni De Martino


Caro Gianni, sull’11 settembre ho messo on line questo post ricorrente (nel senso che lo riporto in primo piano ogni 11 settembre):
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/09/11/sei-anni-dall11-settembre/
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Interessante il rapporto tra Dracula e la casa (e più in generale, tra Dracula e le “cose materiali”… denaro a parte).

Postato lunedì, 17 maggio 2010 alle 23:57 da Massimo Maugeri


@ Gianni. Hai ragione. D’altra parte non tirerei in ballo ( e so che non intendi farlo) “responsabilità oggettive” o “complicità involontarie” e nemmeno ingenuità tipica di gente facile da strumentalizzare da parte di chi non nutre le stesse buone intenzioni, né partecipa della stessa disillusione. Ricordo ancora, durante il 68, i giudizi della generazione che ci ha preceduto: vi fate strumentalizzare, fate il gioco del socialismo reale senza rendervene conto, vi illudete che la Rivoluzione Culturale cinese sia un grande cambiamento mentre è una nuova forma di Squadrismo Fascista. Le ricordo queste parole, il piccolo problema è che noi non eravamo così, che il socialismo reale lo disprezzavamo e lo consideravamo un tradimento, e che la nostra Rivoluzione Culturale, ci piacesse o no il modello cinese (non era obbligatorio) era davvero una Rivoluzione Culturale (che in Cina ci avrebbe spalancato le galere). Ci siamo lasciati strumentalizzare? Sì, dagli strumenti. La macchina del Mercato ci ha vampirizzato, senza che ce ne rendessimo conto. La Lunga Marcia attraverso le Istituzioni non c’è stata mai. La Lunga Marcia attraverso la Merce, sì. Ma non siamo riusciti ad A/traversala indenni. Una cosa alcuni di noi (non pochi) l’hanno capita. Che, come tu dici, dobbiamo lavorare a una Festa senza Sangue. E’ possibile, è urgente, c’è già, seppur clandestinamente. E quando parlavo dell’atteggiamento Amorale mi riferivo a una disposizione della scrittura che rifiuta l’Edificante in quanto Ideologico, ma non rifiuta affatto l’Etica nella concreta vita di tutti i giorni, anzi la pratica con naturalezza, senza sfoggio e nonostante il contesto. Senza scomodare Kant, basta citare il Gaber: “Le cose giuste tu le sai, dimmi perché poi non le fai?” Il perché non lo si confessa. E dunque c’è bisogno di chi lo racconti.

Postato martedì, 18 maggio 2010 alle 01:19 da Gianfranco Manfredi


LETTERATURA E GUERRA
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Ancora sangue in Afghanistan all’indomani dell’agguato costato la vita a due soldati italiani. Un uomo-bomba a bordo di una Toyota Corolla si è lanciato contro un convoglio Nato e ha fatto in mattinata almeno 17 morti a Kabul: tra le vittime, oltre al killer-suicida, ci sarebbero almeno 12 civili e cinque soldati della Nato.
Tra pezzi di metallo e di cadaveri catapultati in strada si contano numerosi feriti.
Secondo l’ambasciatore italiano a Kabul, Claudio Glaentzer, intervistato da Sky Tg24, la recrudescenza degli attacchi dei terroristi ha «come cause dirette» l’offensiva contro le basi talebane in Helmand e quella che si prepara contro Kandahar. «Nelle prossime settimane», annuncia intanto il ministro della Difesa, arriveranno in Afghanistan «i nuovi mezzi Freccia, blindati più grossi e un po’ meno veloci» dei Lince «ma più sicuri».
Quella che è stata approvata in Parlamento come una « missione di pace », in realtà è anche una guerra atroce, ubiquitaria e diffusa, alla quale l’Italia purtroppo non può sottrarsi.
Come afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione della rievocazione di quanto accadde l’11 settembre di sette anni fa a New York, il «disvelamento della matrice fondamentalista islamica dell’attacco alle Torri Gemelle» presentò esplicitamente «Al Qaeda come centrale del terrore e risultò chiaro che si trattava del più insidioso nemico non solo dell’Occidente, dell’America e dell’Europa; ma si trovarono esposte alla minaccia le più diverse realtà statuali, sociali e culturali anche in altri continenti, le realtà più aperte al futuro e gli interessi di fondo dello stesso mondo islamico».
Proprio per questa analisi ( sia pure espressa con tono notarile) il presidente della Repubblica sottolinea che «troppo comoda per le centrali organizzatrici e ispiratrici del terrorismo e radicalmente falsa è la rappresentazione di uno scontro tra civiltà e religioni inconciliabili, non già distinte e diverse ma irrimediabilmente contrapposte.
In gioco -replica Napolitano- sono invece le ragioni della pace, della vita, dei diritti umani, del progresso civile, contro una feroce logica di violenza e di sopraffazione, una miscela distruttiva di fanatismo, di intransigenza, di regressione». Così, entro l’anno saranno 4000 i soldati italiani presenti in Afghanistan.
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Intanto, il dolore della famiglia Pascazio per la morte di Luigi il caporalmaggiore di 24 anni ucciso ieri mattina in Afghanistan insieme al sergente Massimiliano Ramadù di 33 anni, è affidato ad una nota di tre righe che suo padre Angelo ha consegnato ad un collega poliziotto, Francesco Tiani.
Il padre Angelo Pascazio non ha la forza di vedere nessuno e non trova le parole per commentare la notizia che non avrebbe mai voluto ricevere. Per questo è Francesco Tiani ad uscire dalla palazzina anni Settanta di via Montegrappa 6 a Bitetto per dire ai giornalisti che «E’ un dolore per ogni uomo con un cuore, per ogni uomo che crede nel sacrificio per la patria, per ogni uomo che crede negli ideali, che dare un contributo piccolo o grande che sia, possa servire a migliorare il mondo. Anche con la propria vita». Luigi Pascazio è il dodicesimo militare pugliese negli ultimi dieci anni ad aver dato la vita per il suo Paese.
Ancora una volta il compito di « migliorare il mondo » è affidato al sacrificio della povera gente e al sangue di giovani innocenti, che con generosità e fede alla parola data hanno creduto di dover fare la cosa giusta.
Spesso non si fa la cosa giusta, perché farla non fa piacere e comporta qualche sacrificio. In qualche caso per fare la cosa giusta occorre, se non proprio essere intrepidi, un po’ di coraggio. Ma, come diceva anche don Abbondio – il cui principale desiderio era quello di non essere aggredito dai Bravi e di essere lasciato in pace dall’Innominato – se uno il coraggio non ce l’ha non se lo può dare.
Indipendentemente dalle ragioni della geopolitica e dalla questione riguardante che tipo di strategia si sta seguendo in Afghanistan e altrove, non possiamo che rendere onore a quei ragazzi che hanno creduto di dover fare la cosa giusta.
Non possiamo, inoltre, non sentirci, personalmente e collettivamente, attraversati da uno strano « senso di colpa » per quanto accade .
Quelli che muoiono nell’angoscia, quelli che perdono infinitamente quello che amano, sanno, con una disperazione sulla quale non trionferà nessun racconto di vampiri e nessuna Letteratura, che il tempo è strazio e privazione, e non oltrepassamento dialettico per « un mondo migliore », finalmente senza vampiri e senza Feste di sangue.
Ai sopravvissuti è tuttavia necessario persuadersi, per calmare scrupoli e rimorsi, che un futuro più libero e felice per tutti conserverà tutto quello che vi fu di positivo e di buono nell’amore , il sacrificio e la sofferenza dei morti.
E’ forse perché l’inconscio non riesce a compensare la catastrofe che si chiama « guerra » che, nonostante le tante storie che ci raccontiamo, ci si sente stranamente « in colpa ».
In ogni caso, nel giorno dei funerali che si susseguono, davanti ai giovani morti anche i vampiri, gli scrittori e i sognatori – senza per questo caricarsi del peso del mondo o piantarsi chi un paletto al cuore chi la Croce sulla gobba – fanno un minuto di silenzio.

Postato martedì, 18 maggio 2010 alle 13:52 da Gianni De Martino


… nella mia vita ho già visto le giacche, i coleotteri, un inferno stravolto da un Doré, il colera, il mare, i marmi: e una piazza di Oslo, e il Grand Hotel des Palmes, le buste, i busti:
.
ho già visto il settemezzo, gli anagrammi, gli ettogrammi, i panettoni, i corsari, i casini, i monumenti a Mazzini,i pulcini, i bambini, Ridolini

. ho già visto i fucilati del 3 maggio (ma riprodotti appena in bianco e nero), i torturati di giugno, i massacrati di settembre, gli impiccati di marzo, di dicembre: e il sesso di mia madre e di mio padre:e il vuoto, e il vero, e il verme inerme, e le terme

. ho già visto il neutrino, il neutrone, con il fotone, con l’elettrone (in rappresentazione grafica, schematica): con il pentamerone, con l’esamerone: e il sole e il sale e il cancro, e Patty Bravo: e Venere, e la cenere: con il mascarpone (o mascherpone), con il mascherone, con il mozzocannone: e il mascarpio (lat:), a* manuscarpere
.
ma adesso che ti ho visto vita mia, spegnimi gli occhi con due dita, e basta.
Edoardo Sanguineti (da Cataletto)

-
Addio a Edoardo Sanguineti
il poeta dell’avanguardia e del romanzo sperimentale.
Si è spento a Genova, improvvisamente dopo un’operazione,
aveva 79 anni.

.
http://www.lastampa.it/multimedia/multimedia.asp?IDmsezione=9&IDalbum=26663&tipo=VIDEO

Postato martedì, 18 maggio 2010 alle 18:15 da Gianni De Martino


Parrà enigmatica ma mi viene da citare la seguente poesia di Rodolfo Wilcock (dal volume adelphiano delle sue Poesie):

LA PAROLA MORTE

Uomo bugiardo, vomito della terra,
indescrivibile porcheria pensante,
vergogna dei primati, lingua di cancro,
impara dai maiali angelicità,
impara dai vampiri la purezza,
dallo sciacallo impara maestà,
dai vermi, dalle barbabietole impara
a stare zitto, sputo della natura

Postato martedì, 18 maggio 2010 alle 20:14 da Gianfranco Manfredi


Sarò forse troppo cinicamente realistico, ma di fronte all’orrore talebano, non posso fare a meno di pensare, ogni volta, che le armi gliele abbiamo fornite e gliele forniamo noi (Occidente e Russia) , così come ad ogni nuova pagina dell’eterno conflitto mediorientale non posso fare a meno di pensare che c’è un interesse industriale-criminale preciso che non intende rinunciare a zone di intenso consumo di armamenti bellici. Se metà delle energie inutilmente dedicate al pur farsesco e ipocrita contrasto al traffico di droga, venisse dedicato al contrasto ai fabbricanti e agli spacciatori di armi, si eviterebbero lacrime e le missioni di pace potrebbero essere davvero di pace. Ai ricatti sentimentali dei fabbricanti di strumenti di morte, non ci sto e non ci starò mai.

Postato martedì, 18 maggio 2010 alle 20:28 da Gianfranco Manfredi


E spostare il tema della guerra a quello dell’aggressività è un patetico inganno. Le arti marziali (che rispetto) servono a governare l’aggressività, non a scatenarla. E’ proprio dei vili il ricorrere alla supposta neutralità della tecnologia per indiscriminati massacri. Non esistono armi intelligenti. E l’unico aereo invisibile di cui si senta l’urgente necessità, è l’aereo che è invisibile perché non c’è. Di cosa stiamo parlando, se uno in America può andare al supermercato e comprarsi un bazooka? Non ci si deve stupire di fronte alla morte che è il più prevedibile degli eventi, ma di fronte a chi ne fa un’industria.

Postato martedì, 18 maggio 2010 alle 20:37 da Gianfranco Manfredi


A differenza dalle tigri con i denti a sciabola, uomini e donne hanno denti piuttosto piccoli. Probabilmente la ferocia è nella testa industriosa, specialmente se bacata dal vecchio e invisibile Verme dell’Odio ( ” The invisible worm,/ That flies in the night”, come udì il poeta William Blake “in the howling storm…”.
Ascolta Gianfranco ( amico, possi chiamarti amico?) …al limite, non sono le parole e neanche le armi a fare la guerra, ma la morte annodata come vampiro al movimento della vita e del linguaggio:
-

THE SICK ROSE
.
O Rose, thou art sick!
The invisible worm,
That flies in the night,
In the howling storm,
.

Has found out thy bed
Of crimson joy;
And his dark secret love
Does thy life destroy.

-

(La rosa malata)
.
O rosa, tu sei malata
Il verme invisibile,
Che nella notte vola,
Nella tempesta urlante,
.
Con gioia ha scoperto
il tuo letto color di sangue;
E il suo oscuro amore segreto
ti distrugge la vita.
.
(William Blake)

-
Ai poeti, per i quali “sentire è svanire”, perlomeno così pare… Da un minuto o un secolo, simulando un lampo…
D’altra parte, forse è anche vero che Morte non è in fondo, neanche tanto in fondo,
che “un modesto fiumicello, a lungo calunniato” ( Mallarmé).
In ogni caso, resta un impensabile, in quanto introduce nel vivente, se non proprio il Verme che lo rode, una alterità radicale.
Pensare la morte significa pensare a niente, come quando si pensa “Dio” e non si vede niente -
a parte il soffitto della stanza.
Dio è il soffitto ?
Se non fosse per questa “vuota cornice di spavento”, direi che è il tempo, solo a tempo a piegarmi in un forum come un punto di domanda : ?
Andando avanti di questo passo, nel bianco, prima o poi arriverà qualche raro punto esclamativo: !
Parrà enigmatico, perché no? – ma è allora, forse, che si diventa, felicemente, vampiri !
P.s. Naturalmente dico “forse” per tranquillità. :-)

Postato martedì, 18 maggio 2010 alle 21:37 da Gianni De Martino


ERRATA CORRIGE
Probabilmente la ferocia è nella testa industriosa, specialmente se bacata dal vecchio e invisibile Verme dell’Odio ( ” The invisible worm,/ That flies in the night”, come udì il poeta William Blake “in the howling storm…” ) .
Ascolta Gianfranco ( amico, posso chiamarti amico?) …al limite, non sono le parole e neanche le armi a fare la guerra, ma la morte annodata come vampiro al movimento creativo della vita e del linguaggio:
-

THE SICK ROSE

-
-
Sono quasi le 10, ora di cena. Basta – dico a me stesso – di riempire i buchi. E’ ora di uscire da questa specie di fossa e, non dico volare, ma
rimettere la vita sulle ossa e andare di là a vedere un po’ cosa bolle in pentola… Uh, che odorino ! :-)
CITAZIONE ( mi è caduta a fagiolo mentre in cucina, tra una patata e l’altra , cercavo il testo della poesia di Blake) : “La scrittura non concerne che un certo strato di eventi che si producono nel campo spirituale e fisico. Quello che ci occupa al più profondo di noi stessi sfugge alla comunicazione, e direi quasi alla percezione” ( Junger).

Postato martedì, 18 maggio 2010 alle 21:53 da Gianni De Martino


ERRATA CORRIGE
direi che è il tempo, solo il tempo a piegarmi in un forum come un punto di domanda : ?
IN LUOGO DI
direi che è il tempo, solo a tempo a piegarmi in un forum come un punto di domanda : ?

Postato martedì, 18 maggio 2010 alle 21:57 da Gianni De Martino


Parrà enigmatico, perché no? – ma è allora, forse, che si diventa, felicemente, vampiri !
-
VARIANTE ( questa sera sono in vena!)
.
Parrà enigmatico, perché no? – ma è allora, forse, che si diventa, felicemente, purissimi vampiri !
A questo punto, nel punto intenso e feroce in cui la vita va al di là – dico a me stesso – dovrebbe seguire una specie di beatitudine infinita e senza causa: LA DANZA LIEVE E IMMACOLATA DEI VAMPIRI.
Niente di speciale, in Letteratura è conosciuta come “estasi bianca” ( Michel de Certeau, il gesuita amico di Lacan) o anche “piccola morte” (Freud) – una specie di minuscolo orgasmo ortografico.
Affiora, talvolta, nelle autodescrizioni, in genere non a caso ironiche, degli scrittori in quanto scriventi, ecc.
… Un inizio o una rottura ? :-)

Postato martedì, 18 maggio 2010 alle 22:25 da Gianni De Martino


Sì, Gianni, amico mio, ti seguo, però ogni tanto avverto potente il richiamo ( o l’imperativo categorico?) di uscir di metafora e considerare quanto meno la Storia. Il Colonnello/Generale Custer , passato alla Storia (parlo di storia militare scritta dai militari) come primo teorico e stratega dello Sterminio, quand’anche fosse stato tale, cosa di cui dubito, era un dilettante a confronto dei contemporanei pianificatori ed esecutori di stragi. La più sanguinaria e lunga guerra indiana non fu quella contro i Lakota, bensì quella contro gli apache, i quali erano assai più riforniti di armi (vendutegli dai bianchi, dato che loro non avevano fabbriche) dei Lakota e per struttura territoriale e tradizione tribale e religiosa assai simili ai guerriglieri afgani e ai talebani in particolare. Ma ci sono epoche (e la nostra è la più agghiacciante della Storia da questo punto di vista) nelle quali qualità e quantità degli armamenti sono talmente a dismisura d’uomo da distruggere ogni parvenza di senso di onore e di valore guerriero, e dunque rileggere (ad esempio ) Mishima ci conduce all’esplorazione di abissi di candore che ci appare oggi patetico e non a caso suicida. Noi usiamo ormai la guerra come civilizzazione della Peste. La Peste appariva come flagello naturale. L’indiscriminato sterminio contemporaneo si fonda sulla natura artificiale di cui l’essere umano ama circondarsi e compiacersi (questa l’ho fatta io!), la pura tecnologia dello sterminio, anche all’interno del Nostro mondo. Era il 1989 e mi trovavo a Los Angeles. Mi servivano dei sacchi particolari per trasportare delle grosse bobine , mi imbatto per strada in una bottega di legno che sembra una scatola da scarpe, con in vetrina delle divise militari usate. Penso: magari lì hanno il tipo di borse che mi servono e così entro. Mi ritrovo un missile puntato contro, posto proprio al centro del negozio. Suppongo trattarsi di un oggetto d’arredo. Il bottegaio (fisico da culturista, camicia a quadri aperta su canotta bianca, pantaloni di tuta mimetica) mi dice che è un missile autentico e perfettamente funzionante e mi fa pure il prezzo. Alle pareti, mitra usciti da film di Rambo, solo che sono veri. Io manco sono americano, davvero mi posso comprare quello che voglio? chiedo allibito. Lui fa spallucce. Mi indica un cartello dove c’è scritto che lì si paga solo CASH. Un socio lo chiama da un retrobottega in cui sta provando con un cliente una pistola con silenziatore. Lancio uno sguardo al banco dove campeggia una vetrinetta di memorabilia nazisti. Esco di volata prima che il negoziante possa chiedermi perché vado tanto di fretta e svolto subito dietro l’angolo per non offrire le spalle. Basta. Che altro dire? Se uno prova a sparare con una vecchia Colt (pesante otto chili) il rinculo è tale che la pistola gli salta via di mano. Se un coglione qualsiasi schiaccia il grilletto di una di quelle armi là esposte semina una strage tra i compagni di scuola, i colleghi di lavoro, dei passeggeri di un autobus, dei passanti qualsiasi, con facilità irrisoria e senza prima aver mai sparato un colpo in vita sua. Ecco perché adesso in guerra si arruolano i bambini. Altro che verme invisibile! Qui, al centro del nostro mondo civilizzato, ci sono degli stragisti visibilissimi che aprono la loro bottega sulla pubblica via, che vanno coi mitra ai comizi anti-Obama e nessuno non dico li arresta, ma nemmeno li ferma per verificare se hanno il porto d’armi! Non viene il sospetto che la lobby dei trafficanti d’armi, unitamente a quella del petrolio e della droga, cioè l’economia criminale, sia oggi talmente più forte della pur ingiusta economia “normale” , da potersi consentire di tutto? E noi dovremmo stare a discutere se ha ragione questo o quello, quando sia questo che quello sono foraggiati dalla stesse tre industrie di cui sopra? No, se parliamo di vampiri, è davvero come ha scritto Wilcock, perché non possiamo che invidiarne la purezza.

Postato martedì, 18 maggio 2010 alle 23:57 da Gianfranco Manfredi


Un’ultima riflessione notturna. Già ne avevo discusso con Danilo qui, perchè era tema di un suo romanzo, poi l’argomento è tornato diverse volte ad affiorare. Parlo dell’attacco alle Torri gemelle. Confesso che sono stanco di sentirne parlare e con un’enfasi pari alla spettacolarità dell’evento, che io come molti di noi, ho visto in diretta televisiva (e guarda caso negli uffici del mio editore Tropea mentre eravamo impegnati a discutere di non so più cosa a proposito di un mio romanzo). Sono stanco perché più ne sento parlare, nei termini della Catastrofe Epocale e dell’Inaudito, del Segno Certo dell’Apocalisse, più capisco che ci siamo già scordati di Hiroshima.

Postato mercoledì, 19 maggio 2010 alle 02:24 da Gianfranco Manfredi


Tre giorni che mancavo da questo dibattito-quotidiano e trovo una tale quantità di roba…
tanto che mi domando: sono frequenti i post letterari (specializzati in un genere poi! E capaci di estendersi in ogni direzione) che si trasformano in quotidiani formato simil-tabloid? Penso di no.
Mi aggrego con due osservazioni.
Una sul sangue e una sugli eventi epocali (in particolare Hiroshima).
1) Il sangue e la concezione sacrificale che ne abbiamo. Lo dico da cristiano (valdese: ci tengo sempre a specificarlo): in questo, il messaggio di Gesù Cristo è rivoluzionario. Il suo sacrificio fisico e simbolico fu risolutivo: il suo sangue (sangue di una vittima totalmente innocente) è stato versato una volta per tutte e da allora in poi non c’è più nessun bisogno del sangue di nessuno. Da allora in poi va respinta nel modo più netto l’idea del sangue come tributo o sacrificio da versare.
2) Forse, più di Hiroshima (l’abominio del 6 agosto ‘45), la vera orrenda infamia fu Nagasaki il 9 agosto, la bomba atomica totalmente e atrocemente INUTILE al di là di ogni parametro.
(A questa atrocità, sia il fatto storico, sia la sua rimozione, dedica un ottimo capitolo del suo ultimo prezioso libro, SENZA VERGOGNA, Marco Belpoliti)

Postato mercoledì, 19 maggio 2010 alle 10:07 da luciano / idefix


L’impiego della Bomba è stato il più devastante atto di Terrorismo ( nel senso di produttivo oltre che di strage di Terrore intimidatorio) compiuto nella Storia Umana. Dopo settant’anni non ci siamo ancora liberati dalle conseguenze di quell’atto. La rimozione peraltro non ha riguardato gli scrittori, né della generazione dei baby-boomers, pur nell’intreccio fatale tra contestazione, edonismo di massa e Consumo. Dagli autori di Fantascienza del decennio successivo fino a Gregory Corso e compagni, alla canzone di protesta figlia dell’anti-militarismo studentesco, la Bomba pare aver prodotto un anticorpo senza il quale oggi noi non saremmo gli stessi, nemmeno come scrittori. Tuttavia questa radice sembra oggi quasi smarrita (e dunque il pacifismo tanto più debole nella sua capacità contestativa) . Forse perché le generazioni successive quell’evento non l’hanno visto in diretta televisiva? E nemmeno nella differita di un Giorno della Memoria? Forse perché la morale di Stato ha contribuito nella sua progressiva degenerazione a rafforzare quel devastante quanto inconfessabile “senso comune” secondo il quale, in fondo, compiere un atto “dimostrativo” contro dei “musi gialli” di due ” isolette del cazzo”, non era tutto sommato una gran tragedia, qualcosa bisognava pur fare per porre fine alla Seconda Guerra Mondiale, no? E lo stesso successivo Equilibrio del Terrore, come hanno sostenuto sconcertanti apologeti, non ci ha forse garantito decenni di pace, di allegro consumo e persino la fine del Pericolo Rosso? Ricordo un libro, pubblicato in Italia da Adelphi, libro purtroppo svanito dalla mia biblioteca, di uno dei padri della Bomba, che descrive l’agghiacciante irresponsabilità con la quale si compirono i primi esperimenti (i tecnici producevano l’effetto radioattivo a mani nude, come se si trattasse di una qualsiasi operazione di accostamento di due poli elettrici) e il momento davvero metafisico della prima esplosione test, quando gli scienziati videro (a occhio nudo) l’effetto: l’accecante bagliore, quell’inaudito fungo levarsi all’orizzonte, il vento radioattivo, e solo allora si resero conto di cosa avevano fatto e solo allora videro apparire di fronte a loro l’Angelo dell’Apocalisse come volto nascosto di Dio, il Dio più Potente e Distruttore mai apparso sulla faccia del Pianeta, vista che nessun umano può reggere, né fino ad allora aveva neppure potuto immaginare. Cosa è accaduto perché persino le testimonianze di chi aveva contribuito a creare la Bomba fossero seppellite nel Silenzio della rimozione? Come rileggiamo oggi Gregory Corso? Come esercizio stilistico? Come riascoltiamo The Eve of Distruction? Come una canzonetta carina figlia dell’ingenuità giovanile? In quanti studi attuali sulla canzone politica e sociale degli anni 60, ogni riferimento alla Bomba è sparito, quasi si trattasse di un mero corollario a un innocuo pacifismo di maniera? Grazie Luciano per il suggerimento librario.

Postato mercoledì, 19 maggio 2010 alle 11:51 da Gianfranco Manfredi


@ Luciano. Per passare ad argomento più futile ieri ho cercato il tuo saggio alla Libreria Feltrinelli di Piazza Piemonte a Milano. Non l’ho trovato. Ammetto che non ho chiesto agli impiegati perché andavo di fretta e tra l’altro quello al piano era in pausa pranzo. Ho rilevato d’altro canto che negli ultimi mesi la suddetta libreria ha subito un degrado allucinante. La confusione sui banchi è totale. Alcuni (quelli delle novità) vengono rinnovati con tale velocità che i libri usciti un mese prima già sono spariti e quand’anche esauriti non vengono riordinati se non su esplicita richiesta e con attesa media di quindici giorni. Altri banchi (come un’apposita sezione che prima era chiamata Horror) ora è stata ribattezzata Dracula e compagni ed è interamente e unicamente appaltata ai libri sui vampiri, primi tra tutti quelli (a pile) della serie di Jane Luisa comecazzosichiama Smith (“Il bacio del vampiro” e illeggibilità consimili fin dal titolo) , pile che restano delle stesse inalterate dimensioni, a testimonianza del fatto che nonostante lo spettacolare ingombro non se ne vende una copia che è una, per cui uno si chiede, ma come mai certi titoli vanno esauriti e non vengono riordinati dalla libreria mentre gli invenduti restano per mesi? Poi uno si chiede anche, come mai le Librerie Feltrinelli da sempre rinomate per dare spazio e visibilità anche ai piccoli editori, ora li rendono invisibili? Come mai invece alcuni piccoli-medi editori come Neri Pozza che pubblica cose egregie e con belle copertine, ma traduce anche romanzi di cui sinceramente non si capisce l’urgenza e nemmeno a chi cazzo possano interessare, hanno visibilità assoluta e appositi spazi? Rivolgo la domanda a un esperto del settore il quale mi spiega che la nuova politica delle Librerie Feltrinelli e di dare spazio e visibilità dietro adeguato compenso. Cioè, a dirla piatta, chi paga viene esposto, chi non paga no. Alla faccia della professione di libraio, alla faccia del servizio ai lettori, alla faccia di palta e basta! Ennesimo desolante episodio di come oggi, in ogni campo di espressione, Internet inclusa, il Distributore uccide il Produttore, e uccidendo il Produttore, uccide lo stesso Consumo consapevole. Del resto la distribuzione (in campo discografico e cinematografico è già avvenuto da un paio di decenni) oggi rappresenta un costo pari al 70% e oltre del prezzo di vendita del prodotto. Pare ovvio che (come è già avvenuto per la discografia e per il cinema) consimili politiche di vendita “astutamente” mercantili, distruggono alla base Produzione e Scelta e conducono fatalmente non alla Fine del Romanzo di cui si blatera almeno dai Sessanta, ma alla fine delle Case Editrici e del Lettore che sceglie, cioè quello che legge davvero. Ho visto anche che un romanzo fresco di lista dei best-seller e ospitato nella sezione dei dieci più venduti (Acciaio) viene già, a poche settimane dall’uscita e unico tra i best-seller del momento, venduto dalle librerie Feltrinelli con il 20% di sconto. Se ne può dedurre che le cifre di vendita sono un tantino truccate? Che quel libro stampatissimo bisogna scontarlo perché dopo il primo effetto promozionale sta facendo la muffa sugli scaffali? Viene anche un altro dubbio. Se vale la regola di pagare per essere visibili, si paga anche e in ben maggior misura per apparire nelle play-list delle Hit Librarie? Quale trasparenza di mercato esiste ancora in Italia? I best-sellers si sa che in genere di best hanno poco, ma conservano ancora qualcosa di sellers o ci stanno prendendo in giro?

Postato mercoledì, 19 maggio 2010 alle 12:37 da Gianfranco Manfredi


Ah, cercando il tuo saggio nella sezione psicologia, ho notato sullo scaffale che i libri di Hillman figuravano nell’apposita sezione accanto a quelli dell’esimio autore della nota serie sulle “seghe mentali”. Non perderò più tempo alla libreria di Piazza Piemonte, peccato perché era comoda e spaziosa, ma la prossima volta mi limiterò al suo servizio ristorante che è funzionale e sempre assai frequentato nella pause pranzo degli uffici della zona, senza rapporto alcuno con la vendita dei libri, in quanto tra i seduti a mangiare e gli in piedi in attesa turno, il sottoscritto era il solo che aveva appoggiato sul tavolo un libro appena preso dagli scaffali. Forse se si riducesse lo spazio libri e si allargasse il ristorante, la Libreria ci guadagnerebbe di più.

Postato mercoledì, 19 maggio 2010 alle 12:47 da Gianfranco Manfredi


Un mio amico che ho sentito pochi minuti fa al telefono e cui ho raccontato quanto sopra postato, mi ha confessato d’aver fatto questo esperimento che consiglio a tutti. Nella mega libreria più vicina a casa sua, ha infilato un vecchio biglietto del tram, dentro la copertina di un best seller di un notissimo autore italiano, e per l’esattezza dentro la terza copia dall’alto della pila. Periodicamente si è recato a controllare. Il biglietto era sempre dentro la terza copia, a riprova del fatto che non se ne erano vendute nemmeno due. La fascetta dello stesso libro vantava un successo epocale. Non rivelo il nome dell’autore del romanzo, perché ovviamente non è colpa sua. Probabilmente lui è ancora contento “di come stanno andando le vendite” e non sospetta che riceverà dalla casa editrice consuntivi con il segno meno. Si consolerà, perché ha comunque incassato (suppongo) un lauto anticipo (sul non venduto). Esperienza diffusa. Si annuncia anche, con largo strepito sui giornali, che presto le librerie Feltrinelli apriranno uno spazio apposito per il libri autoprodotti attraverso http://www.libro.it , così il New Italian Cepu avrà finalmente la sua visibilità in libreria. Resta il quesito se le spese di esposizione saranno (come la stampa del libro) a spese dell’autore stesso. Di questo andamento delle cose vorremmo leggere sui giornali, ma si tace: i giornalisti specializzati del resto, ricevono i libri gratis a casa e dunque in libreria non ci vanno, gli editori sotto ricatto non possono permettersi polemiche pubbliche, gli scrittori tacciono per opportunità (come i cantanti di Sanremo, del resto). Chi tutela il diritto dei lettori alla trasparenza di mercato?

Postato mercoledì, 19 maggio 2010 alle 14:26 da Gianfranco Manfredi


A proposito di Hiroshima (anche se, in effetti, siamo fuori argomento… ma che importa), mi ha fatto impressione che ne stiate parlando. Proprio in questi giorni stavo ragionando sulla eventualità di scrivere una storia che fosse in qualche modo collegata a quel terribile evento.
Ho intenzione di procurarmi questo romanzo:
http://www.ibs.it/code/9788831757560/ibuse-masuji/pioggia-nera.html

Postato mercoledì, 19 maggio 2010 alle 19:15 da Massimo Maugeri


@ Gianfranco, Simonetta e tutti
Dimenticavo… giusto per tornare ai vampiri.
Vi siete mai ascoltati (o ri-ascoltati)?
http://www.radiohinterland.com/files/registrazioni/letteratitudine/puntata9.marzo.mp3 ;)
-
Cliccate sopra…

Postato mercoledì, 19 maggio 2010 alle 19:20 da Massimo Maugeri


Gianfranco: il saggio-manuale sulla schizofrenia a cui ho collaborato (al 50% della scrittura) è a firma Peppe Dell’Acqua e io risulto solo (in sesta pagina mi pare) come collaboratore con schedina bio-bibliografica (ma nella precedente versione di Editori Riuniti . ero…Vanitas Vanitas!!!…in copertina).
Le librerie Feltrinelli (che tanti anni fa erano un luogo di scoperte editoriali e di ricchezza culturale) adesso sono come quegli squallidi iper-mercati dei centri commerciali: commessi incompetenti, scarsità di offerta, prodotti tutti uguali, arredamenti modaioli, pile e pile di merdine ben confezionate, scaffali ordinati con criteri stabiliti da chi non legge e dunque non si trova un tubo. Viva le libreria indipendenti! Viva le librerie dell’usato! (A Trieste ce ne sono molte, labirinti dove vivere avventure, ritrovamenti e affari splendidi)
Massimo: grazie ma su Hiroshima e Nagasaki non ho (francamente) voglia di leggere nulla. In questo momento il mio carico di sofferenze “narrative” è colmo: il colpo di grazia è stato dato qualche giorno fa dal bellissimo ma durissimo Vergogna di Coetzee (gran romanzo ma veramente uno di quelli che ti succhiano via energie). E dunque preferisco saltabeccare a qualcosa di più lieve (Alberto Savinio, le avventure spaziali della saga di Dumarest, Stevenson, ricominciare Magico Vento, le Metamorfosi di Ovidio…).
E comunque questo pomeriggio compro il terzo e conclusivo romanzo della trilogia di Javier Marìas (autore che mi affascina e nello stesso tempo mi esaspera).

Postato giovedì, 20 maggio 2010 alle 09:06 da luciano / idefix


Il vampiro puo essere visto come un eterno infante? Similmente al bambino nei suoi primi mesi di vita,anche il vampiro è una creatura legata all’oralità (anche in ambito sessuale),come l’infante è un perverso polimorfo e (perlomeno nel folclore) è una creatura abitudinaria e limitata nella sua facoltà di muoversi.Inoltre obbedisce al principio della soddisfazione delle pulsioni primarie. D’altro canto la letteratura vampirica non è fose piena di eterni bambini o eterni adolescenti?
P.S. A proposito di vampiri e traduzione,sentite come si presenta Dracula in un apocrifo di Alan Moore “Il nuovo Eurepeo”:
“Sono solo una finzione signor Halloran, un vecchio racconto Europeo. E perdo sempre qualcosa con la traduzione.”

Postato giovedì, 20 maggio 2010 alle 11:21 da Francesco Moretta


Volevo dire “Il nuovo Europeo”, non il nuovo eurepeo.
Scusate per il refuso.

Postato giovedì, 20 maggio 2010 alle 11:39 da Francesco Moretta


Nella comunità internazione c’è preoccupazione nei confronti della decisione dell’Iran di continuare l’arricchimento dell’uranio al 20%
Proprio quello che occorre per fabbricare la Bomba e ripulire finalmente la Terra da ogni forma di vita « impura », in forza della tecnologia in alleanza con il Nome di Allah.
Insomma, pare proprio una Cattiva Novella ( un po’ come dire : « C’è la merda, fratelli ! »).
La Bomba è in giro.
Non sarà una consolazione o la salvezza, ma per fortuna o sventura a noi vecchi Europei sempre più erranti e disponibili resta la Letteratura per allenarci alla morte, o comunque a scomparire.
E’ quel che diceva, mi pare, anche il povero Edoardo Sanguineti quando in risposta a un giornalista giapponese indicò i suoi due temi poetici principali: ” my wife and my death “.
Al che Giorgio Bertone osservò, giustamente, che “nuotare da morto”, “fare il morto” è un esercizio che attraversa decenni di scrittura a partire dal Giuoco dell’oca (1967), fino alla memorabile poesia in morte di Italo Calvino, con “L’autodidattico impararmi / a farmi il morto”: “il nodo centrale della trasmissione culturale sta nell’insegnare all’animale-uomo che deve morire”.
Influenzato della scena del Vampiro , il film di Dreyer, lo scrittore immaginava di stare dentro una cassa da morto e di vedere i visitatori attraverso una fessura (come suggerirebbe Cataletto 13 e Novissimum testamentum (e testamentario per l’appunto è anche questo Novecento giunto – come per improvvisa amnesia – al mistero attraverso il nichilismo ).
.
“Fin de siècle
avrò un tre versi, un sei secondi, ancora:
millennio mio, mi è finito il cammino:
ero un file:
e il tuo bug qui mi divora:”
.
Intanto, è un fatto che oggi nelle Cancellerie degli Stati in oriente e in occidente si parla, anzi si mormora con crescende malumore e disorientanento, di « scenari terrificanti… ».

Postato giovedì, 20 maggio 2010 alle 14:16 da Gianni De Martino


si parla, anzi si mormora con crescente malumore e disorientanento, di « scenari terrificanti… ».

Postato giovedì, 20 maggio 2010 alle 14:18 da Gianni De Martino


Chiedo scusa se cambio argomento, ma è in risposta a una sollecitazione di Massimo.

LA CASA: UNA RICERCA IMPOSSIBILE

Mi piacerebbe molto poter aderire alla richiesta di Massimo di approfondire il tema della Casa. Moltissimi anni fa avevo pensato a uno studio sul tema della Casa nel cinema horror e dunque avevo cominciato ad accumulare materiale, ma non c’è voluto molto per capire che non era “materialmente possibile” per una sola persona venire a capo di una compilazione, e che comunque l’eventuale pubblicazione avrebbe necessariamente assunto dimensioni enciclopediche. Per quanto il tema sia stato fondamentale nel cinema horror, dove la casa non è sfondo e ambiente, ma personaggio protagonista a pieno titolo, non si sarebbe potuto fare a meno di esondare in altri generi cinematografici. Come tenere fuori, tanto per fare degli esempi, Citizen Kane, Viridiana o L’anno scorso a Marienbad? Persino il cinema d’azione, così caratteristicamente en plein air, offre esempi innumerevoli di totale distruzione delle case rifugio (Commando, tanto per citarne uno), persino nel western il tema della casa è centrale (basti pensare alla formidabile sequenza di Sentieri Selvaggi che dall’interno buio della casa ci spalanca il panorama assolato della Monument Valley. Inoltre, dire Casa non basta, bisognerebbe indagare sui singoli ambienti che la compongono, la loro funzione e disfunzione. Uno dei problemi più notevoli degli sceneggiatori che hanno trasferito sullo schermo il Dottor Jekill di Stevenson, è stato quello di organizzare una planimetria realistica della sua casa. Dove si può realisticamente piazzare il laboratorio, da cui giungono rumori, che non devono però essere continuamente avvertibili dai domestici, altrimenti il gioco non regge. Inoltre il laboratorio deve avere un’uscita indipendente sulla strada dunque non può essere piazzato in un sotterraneo e neppure in un attico/soffitta. Così alcuni cinematografari lo hanno sistemato in una costruzione adiacente, unita alla casa del dottore da un ponte volante che attraversa il cortile, struttura architettonica inesistente nella Londra del periodo. La casa romanzesca è spesso luogo simbolico e labirintico difficile se non impossibile da riprodurre nel realismo cinematografico. La regola prevalente, nel cinema, è anzi quella di non consentire una ricostruzione topografica degli ambienti (come ad esempio usa in teatro, dove tutti sono disposti in riferimento all’ambiente fondamentale e puramente convenzionale, astratto, su cui si apre la “comune”, cioè la porta d’accesso da cui passano tutti) per non incorrere in implausibilità manifeste. In altre parole, spesso il cinema è costretto ad adottare codici romanzeschi, proprio per dare quell’evidenza simbolica che un eccessivo realismo ucciderebbe. E così: un’indagine cinematografica non avrebbe potuto fare a meno di incroci e confronti con il Letterario. No, davvero non se ne usciva più. Cercai di ripiegare su un unico ambiente che potesse rappresentare un tema fondamentale all’epoca (anni ottanta) e cioé il rovesciarsi del comfort casalingo in incubo. E l’ambiente ideale era, da questo punto di vista, il bagno. E’ stato il bagno privato l’ambiente simbolo del comfort moderno, tanto da duplicarsi, triplicarsi, proliferare di continuo (la ristrutturazione di Anemone da Scajola prevedeva un bagno per ogni camera da letto). Dire bagno nell’horror significa dire: doccia, vasca da bagno, specchio del lavandino e tazza del water (più carente il bidet se non altro perché in Inghilterra non usa). Decisione: mi limito alla doccia. Comincio col cercare precedenti alla sequenza epocale di Psycho e lo trovo senza ombra di dubbio nel film La settima vittima (1943) di Val Newton. Il vero problema però non è il prima di Hitchcok ma il dopo. Qui il catalogatore deve arrestarsi perchè sarebbe impresa davvero borgesiana passare in rassegna, o anche semplicemente elencare, tutti i film con scena della doccia, che ne hanno rappresentato varianti pressocché infinite. In conclusione: mi sono arreso e temo che l’impresa farebbe tremare i polsi anche a Franco Pezzini. Ci vorrebbe un esercito di catalogatori, una ricerca collettiva di dimensioni impressionanti. Tutti sentiamo urgente (nel Letterario quanto nel Cinematografico) una lettura critica per temi, eppure questa ricerca travalica le possibilità dei ricercatori. D’altro canto senza una base documentaria, un’indagine che si limitasse ai modelli esemplari o classici o dominanti, ricondurrebbe comunque il simbolico di quella scena a quel film e dunque comporterebbe contestualizzazione nell’opera, escludendo il trasversale. La Casa, da questo punto di vista, rappresenta l’impossibilità moderna, nell’ambito della produzione di massa, della ricognizione/catalogazione del Privato, non perchè il Privato sia inaccessibile, ma perchè infinitamente mostrato ed esplorato, perchè Privato/Pubblico dalle infinite declinazioni, perché, in sintesi, Privato/De-privato. Il nostro, quotidiano, comfort così poco confortante.

Postato giovedì, 20 maggio 2010 alle 14:29 da Gianfranco Manfredi


Scriveva il filosofo Jean Baudrillard nel DELITTO PERFETTO (sulla televisione): “una volta mostrato tutto, non c’è più nulla da vedere”.
Ed è forse per questo per una delle vie dell’horror degli ultimi anni è il torture-porn (che io personalmente detesto): corpi seviziati e mutilati, epidermidi strappate via a rivelare la carne, viscere denudate. alla spasmodica e disperata ricerca di qualcosa da vedere e da scoprire.
Per certi versi cominciò Clive Barker. Ricordate i “Libri di sangue”?
Con quell’epigrafe: “Siamo fatti di sangue, ovunque ci aprano siamo fatti di sangue”
Ma in lui c’erano (agli inizi) una visionarietà, un’eleganza grafica, un controllato delirio stilistico, una mescolanza di orrido e di pornografico e di grottesco, una sovversione davvero nuova (In collina le città, Macelleria mobile di mezzanotte, Paura…) che la ripetitività degli squartamenti (a mio avviso) nemmeno sfiora.

Postato giovedì, 20 maggio 2010 alle 17:27 da luciano / idefix


La Bomba è in giro e a me viene in mente, chissà perché, La collina dei conigli (Watership Down, un romanzo scritto da Richard Adams nel 1972).
CITAZIONE:” D’un tratto, Quintilio cominciò a rabbrividire e rannicchiarsi su se stesso.
«Oh, Moscardo! È da qui che proviene! Ora lo so… Una cosa molto brutta! Qualcosa di terribile… E vicina, vicina.»
Piagnucolava, dalla gran paura.
«Che genere di cosa?… che vuoi dire? Poco fa mi dicevi che pericoli non ce ne sono.»
«Non lo so, che cos’è» rispose Quintilio, desolato. «Qui non c’è nessun pericolo, per ora. Ma si sta avvicinando… è in arrivo. Oh, Moscardo, guarda! il prato! È coperto di sangue!» (cap. 1, Il cartello).
-
RIASSUNTO. Nella conigliera di Sandleford, Quintilio, un giovane coniglietto, sente l’odore di alcuni mozziconi di sigaretta lasciati per terra dagli umani e ha una terribile visione: l’imminente distruzione della loro casa.
Quintilio – in trance come quella rompiscatole di Cassandra che vedeva sgorgare sangue dai muri di casa e vaticinava la caduta della stirpe – non riesce a convincere gli altri conigli del pericolo imminente; allora, decide di partire insieme al fratello maggiore Moscardo e ad alcuni compagni, fra i quali: Parruccone e Argento (due prodi ufficiali dell’Ausla, la casta militare della conigliera), Mirtillo (un coniglio ingegnoso e intelligente) e Dente di Leone (velocissimo nella corsa, cioè nelle fughe, e abile narratore in lingua lapina ).
Moscardo assume la guida del gruppo dei fuggiaschi, che si avvia attraverso un territorio sconosciuto, in cerca di un posto migliore in cui vivere, far vivere tanti nuovi coniglietti, e costruire una nuova casa o conigliera.

Postato giovedì, 20 maggio 2010 alle 20:00 da Gianni De Martino


Esorbita dall’argomento, ma non resisto. Berlusconi ne ha sparata una davvero irresistibile, alla conferenza stampa con Mubarak. Ha accennato a un uso fraudolento di Gogol. Al che ho pensato. Berlusconi che cita Gogol? Non me lo sarei mai aspettato. Ma chi è che usa scorrettamente Gogol? Poi ha proseguito il discorso dicendo “su Internet”, così ho capito che voleva dire Google. Ricordate quelle barzellette sull’anziana mamma ignorante? Tipo. Dice il figlio: “Ma come mai hai sempre freddo, mamma?” Risposta: “Eh, non lo so. Pensa che ho messo persino due gladiatori davanti al letto!” (Intendeva radiatori, per chi non afferrasse). Ricordate il primo programma del Berlusca, quello delle tre I? Impresa, Inglese, Internet. Sulla sua impresa, i risultati li ha indubbiamente raggiunti. Sul resto, siamo alla Soluzione Frassica.

Postato giovedì, 20 maggio 2010 alle 20:14 da Gianfranco Manfredi


Mica male per essere il più grande editore italiano.

Postato giovedì, 20 maggio 2010 alle 20:15 da Gianfranco Manfredi


Anime motte? RIDA CHI PUO’ !
” Mi ero accorto che nelle mie opere avevo riso gratuitamente, senza un perché. Quando si ha da ridere val meglio ridere forte di quel che merita che tutti ridano. (Nikolaj Vasil’evič Google,da Confessione; citato in L.P. Savoj, introduzione a Google 2004, p. 52). :-)

Postato giovedì, 20 maggio 2010 alle 21:02 da Gianni De Martino


Domanda provocatoria: fa ridere di più un “uso fraudolento” di Gogol oppure aver accennato, con Moubarak ( che sembrava la Mummia) , a possibili “scenari terrificanti” se l’Iran va avanti con l’arricchimento dell’uranio al 20% ?
Forse si ride, ancora una volta, per non piangere – mentre affiora la tipica radice tragica del comico italiano, medio-italiano.
Ne ha scritto, con garbata ironia, Giuseppe Pontiggia ( in Le sabbie immobili, Mondadori, 1991). Tra gli antidetti, se ne può leggere uno che mi sembra irresistibile: “Soldati. Operatori di pace”.
E’ proprio vero che solo chi è morto si rivede e che , in quanto assente, ha sempre ragione. Perlomeno così pare.

Postato giovedì, 20 maggio 2010 alle 21:38 da Gianni De Martino


La Bomba è in giro.

Postato giovedì, 20 maggio 2010 alle 21:41 da Gianni De Martino


La domanda (una domanda antica come gli esseri umani) è: le tragedie possono suscitare ANCHE il riso?
Il più grosso (non “grande” ma “grosso”) editore italiano che confonde Gogol con Google (ma è solo una delle innumerevoli che ha combinato nel campo in/culturale) è una tragedia ma fa ridere.
Il nostro paese devastato da ignoranza e prosopopea, maleducazione e donne nude in televisione, criminalità organizzata e volgarità, ipocrisia e cementificazione, menzogne e maschilismo, viltà e ostentazione pacchiana di simboli di ricchezza, illegalità e cavilli, immerso in oceani di retorica e pressapochismo, fa anche scompisciare.
Una segnalazione culturale e una domanda horror.
1) Sto leggendo SORTE DELL’EUROPA di Alberto Savinio, preziosa raccolta di articoli del ‘43-’44, cento paginette ironiche e colte che fanno da talismano contro la retorica italiota.
2) Ho visto i due trailer di MORITURIS (l’imminente film horror di Raffaele Picchio) e letto un’intervista col regista. Che dice delle cose su cui io sono stradaccordissimo: l’Italia ha un terreno storico antropologico culturale paesaggistico artistico straordinariamente ricco. E dunque non ha senso scimmiottare gli amerikeni, i franciosi o i giapu: basta attingere al nostro immenso patrimonio. E Morituris pare vada in questa direzione. Ci spero molto.

Postato venerdì, 21 maggio 2010 alle 10:09 da luciano / idefix


L’uomo ride.
.

Origine del comico.
CITAZIONE.”Quando si considera che per varie centinaia di migliaia di anni l’uomo fu animale in sommo grado accessibile alla paura, e che ogni fatto improvviso e inaspettato gli imponeva di tenersi pronto a lottare e magari a morire; anzi che anche più tardi, nei rapporti sociali, ogni sicurezza fu basata su ciò che era scontato e tradizionale nel modo di pensare e di agire, non ci si può meravigliare del fatto che, per ogni parola e atto repentini e inattesi, quando sopraggiungano senza pericolo o danno, l’uomo prenda baldanza, trapassi nel contrario della paura: l’essere raggomitolato su se stesso e tremante di paura si rialza, si distende – l’uomo ride.
Questo passaggio da momentanea paura a baldanza di breve durata si chiama il comico.
Per contro nel fenomeno del tragico l’uomo trapassa rapidamente da una grande e durevole baldanza a una grande angoscia; dato però che fra i mortali la grande e durevole baldanza è molto più rara delle occasioni di angoscia, nel mondo c’è molto più comico che tragico; si ride molto più spesso che non si sia sconvolti”.
(Friedrich Nietzsche – Umano, troppo umano – Parte quarta “Dell’anima degli artisti e degli scrittori” ).
Sotto, il teschio ride sempre. Forse un anticipo di eternità, se non dell’ eterna beatitudine dei morti. :-)

Postato venerdì, 21 maggio 2010 alle 10:23 da Gianni De Martino


Più ci penso e più questa gaffe Gogol/Google mi pare stupefacente e rivelatoria. A inventarla ci voleva davvero un talentaccio.

Postato venerdì, 21 maggio 2010 alle 10:41 da luciano / idefix


IL VAMPIRO DI ARCORE?
Luciano: “Il nostro paese devastato da ignoranza e prosopopea, maleducazione e donne nude in televisione, criminalità organizzata e volgarità, ipocrisia e cementificazione, menzogne e maschilismo, viltà e ostentazione pacchiana di simboli di ricchezza, illegalità e cavilli, immerso in oceani di retorica e pressapochismo”.
Chi è il colpevole? Il Vampiro di Arcore?
Povero Vampiro, oggetto di un tipico e ricorrente discorso vittimario.
Più lo si demonizza – immaginandolo come una specie di ultracorpo responsabile di tutto quello che non va – più il Ns. puttaniere diventa “simpatico” a una minuscola maggioranza di italiani.
Il Vampiro, si sa, rassomiglia ai suoi persecutori, ed è un grande seduttore.

Postato venerdì, 21 maggio 2010 alle 11:04 da Gianni De Martino


Il Vampiro appare ( in Letteratura ) come il portatore, oltre che di infezione & contaminazione, di “seducenti” devastazioni.

Postato venerdì, 21 maggio 2010 alle 11:14 da Gianni De Martino


Io (per quanto riguarda me) non ho mai trovato seducente nessun tipo di Vampiro.
Ma (restando all’Italia) chi è il colpevole del crescente degrado?
Sul banco degli imputati porterei subito:
1) la religione degli antichi romani (agli dei familiari si dava qualcosa per ottenere pronta cassa un beneficio) che è rimasta a suppurare nel profondo della nostra mentalità,
2) la mancata Riforma protestante,
3) la presenza del Vaticano (siamo gli unici al mondo ad averlo nel salotto di casa),
4) il servilismo assorbito dagli italiani,
5) il drammatico ritardo con cui si formò uno stato unitario,
6) il ritardo di alfabetizzazione e diffusione di libri-giornali rispetto agli altri paesi,
7) l’inesistenza di una classe dirigente borghese col senso dello stato,
8) il perverso intreccio tra criminalità-violenza-politica,
9) privilegiare il proprio clan familiare invece della collettività pubblica,
10) la doppia morale,
11) il rifiuto (durato decenni) dello stato unitario da parte della chiesa cattolica,
12) il gusto parolaio per la retorica,
13) il gusto per la divisione,
14) lo sciagurato Mito fondante del fratricidio e non del parricidio,
15) l’amore subalterno verso l’Uomo Forte e verso l’Uomo Furbo.
Ecco, intanto porterei in Tribunale questi qua.

Postato venerdì, 21 maggio 2010 alle 11:47 da luciano / idefix


Invito a leggere l’appena uscito da Adelphi o come si usa dire “per i tipi di Adelphi” (che son davvero degli strani tipi, del genere raro in questo Paese) “Il reato di scrivere” di Rodolfo Wilcock (dal quale tra l’altro si evince che certi problemi in Italia sono ben precedenti alla discesa in campo di Berlusconi e riguardano, come no, anche l’editoria e i rapporti editoria-istituzioni). Quanto alla tracotanza e all’ignoranza degli editori, pare si sia nel tempo capovolta: dall’americanismo grottesco degli anni 60 (satireggiato ne “La Vita Agra” di Bianciardi, altro libro da rileggere assolutamente) al neo-italiota attuale (nous volevons savoir l’indriss). Entrambi hanno aspetti surreali che in quanto tali fanno ridere, per quanto non ci sia nulla da ridere (perché sennò si ride quando un personaggio dei cartoni, in caduta libera, si spiaccica al suolo?). Bomba? Non te la prendere, Gianni, se la nostra pubblica opinione non è poi così allarmata dalla corsa all’uranio arricchito, certo lo fa per indifferenza, o per eccessivo peso di troppi e insistiti allarmi, la maggioranza dei quali sono vuoti “al lupo, al lupo”. E’ anche piuttosto difficile rimuovere il fresco ricordo dell’allarme sugli arsenali di armi di distruzione di massa che non c’erano. Se in più si ricordasse che la corsa dispendiosissima agli armamenti pesanti ha storicamente mandato in pezzi le tirannie, la legge del contrappasso potrebbe confortare. Resta misterioso assai, come mai con il Pakistan e la Corea del Nord si tratta e con altri no, almeno non ufficialmente. Come mai l’embargo più lungo della Storia sia stato e sia ancora quello su Cuba, che non ha nemmeno la carta per stampare libri (con indubbio conforto del regime agonizzante). E come mai non scattino mai controlli su Stati che si dice ma non si sa se è vero, che la Bomba che l’abbiano. E come mai nell’elenco dei politici più ricchi del mondo, il nostro Paperone svetti come repubblicano “democratico” solitario, tra tiranni, monarchi ed emiri. Subito dopo di lui, sono in classifica: il principe del Liechtenstein (qualcuno sta indagando come mai, considerate le dimensioni lillipuziane del suo Principato?) , l’emiro del Qatar e, appunto, il Presidente del Pakistan. Limitandoci a questi primi posti, cinque sono occupati da tiranni mediorientali e signori del Petrolio di cui siamo tradizionali e affezionati alleati. Unico rimedio efficace all’esplosione è l’implosione. I danni saranno se non altro trasferiti sul piano economico e finanziario, che è quello che ci preoccupa di più, ma che alla prova di fatti potrebbe anche rivelarsi liberatorio. Forse allora, caro Luciano, potremo riascoltare con conforto le parole di Gesù: “Guardate gli uccelli del cielo…”

Postato venerdì, 21 maggio 2010 alle 12:40 da Gianfranco Manfredi


a proposito, ieri sera ad anno Zero, il noto cattolico italiano fondamentalista Socci richiamando i “Quattro Vangeli” (unica vera risorsa a suo dire della Chiesa) ha ricordato l’insegnamento dei Dodici Apostoli, dimostrando così platealmente la perdurante ignoranza dei cattolici nei confronti delle sacre Scritture, in quanto quei dodici erano Discepoli, non Apostoli. Noio… nous volevons savoir l’indriss.

Postato venerdì, 21 maggio 2010 alle 13:11 da Gianfranco Manfredi


Pare d’altro canto che non susciti imbarazzo alcuno tra i tanti entusiasti tifosi di sinistra conclamata dell’Inter, che il suo proprietario sia un petroliere (con moglie verde, ovviamente, e parente sindaco PDL, perché a Milano la buona borghesia sta da sempre statutariamente coi piedi in tutte le staffe), né che dallo scandalo telecom (per la quale illustri comici di sinistra fanno pubblicità) trapelino boatos circa le frequentazioni del fratello di Afef con trafficanti d’armi mediorientali. Ma perché intristirsi così? Pensiamo ai tituli.

Postato venerdì, 21 maggio 2010 alle 13:40 da Gianfranco Manfredi


Del vampiro si può dire di tutto, ma non che sia un ipocrita. Altri non sono degni d’essere chiamati Vampiri. La loro tragedia non sta nella Mostruosità, bensì nella stravagante Normalità che li rende così popolari.

Postato venerdì, 21 maggio 2010 alle 13:44 da Gianfranco Manfredi


Nel frattempo, e questo è davvero in tema, la notizia che l’assemblaggio di pezzi di DNA che ha creato artificialmente un nuovo essere vivente, produce dibattiti che dimostrano come dai tempi di Frankenstein non si sia spostata una virgola. Eccellente testimonianza di quanto poco sia potente e anche solo influente la Letteratura.

Postato venerdì, 21 maggio 2010 alle 14:12 da Gianfranco Manfredi


Eppure il Potere da sempre la vuole Controllare. Ma perché, paranoici che non siete altro?

Postato venerdì, 21 maggio 2010 alle 14:14 da Gianfranco Manfredi


A proposito di Sanguineti. Tra le tante confuse rievocazioni, è apparso un pio di giorni fa, un interessante aneddoto raccontato da Michele Serra, a proposito dell’uso del misterioso quanto inspiegato termine “bachofeniano” contenuto in un articolo del poeta. Dato che la questione riguarda questo dibattito, osto un estratto da Wikipedia a proposito di Bachofen. “Con il Saggio sul simbolismo funerario degli antichi (1859), Bachofen pose le basi metodologiche del suo lavoro: dallo studio del materiale archeologico trasse stimolo alla definizione del concetto di simbolo ‘riposante in sé stesso’, simbolo che non rappresenta altro che sé e che, rappresentando sé, attinge alla verità metafisica incarnata nella storia. Il mito, il quale aduna i simboli nelle sue forme, è dunque per Bachofen al tempo stesso immagine mediata di una verità trascendente e riflesso delle forme sociali e degli eventi della storia. Con l’opera Il diritto materno. nota anche come Il matriarcato (1861), Bachofen affrontò, attraverso l’analisi di simboli e miti, quella che egli presumeva essere la morfologia fondamentale e primordiale della storia. Partendo per la prima volta dalla disamina di tutte le testimonianze antiche circa la ginecocrazia, egli vide la storia dell’antichità come una successione di fasi in cui dapprima sarebbe prevalso l’elemento materno (e con esso il diritto naturale, la comunità dei beni, la promiscuità sessuale, i simboli della terra e dell’acqua) e in seguito l’elemento paterno (e con esso il diritto positivo, la proprietà privata, la monogamia, i simboli celesti).” Ecco. Fatti salvi i diritti dello “sprezzo poetico”, non sarebbe stato il caso di spiegare chi era Bachofen?

Postato venerdì, 21 maggio 2010 alle 14:32 da Gianfranco Manfredi


Gianfranco, grazie per aver scritto sul tema “Dracula e la Casa” (raccogliendo il mio invito).

Postato venerdì, 21 maggio 2010 alle 21:22 da Massimo Maugeri


FRANKENSTEIN ERA BOLOGNESE

Questa devo proprio raccontarla. Ieri sera alle 22.00 è andata in onda la seconda puntata della serie di History Channel: Trilogia del Terrore, cioè tre docu-fiction rispettivamente su L’Uomo Lupo, Frankenstein e Dracula. Ieri sera, era in programma Frankenstein. Avevo già ricordato in questo forum, che tra i tanti padri putativi del Frankenstein della Shelley, il più probabile era Giovanni Aldini di Bologna, nipote di Luigi Galvani, che si era fatto conoscere nella comunità scientifica europea per la sua applicazione delle macchine elettro-magnetiche agli studi anatomici. Aldini aveva anche , grazie all’impiego dell’elettricità, rianimato degli annegati. Tenne conferenze e dimostrazioni oltre che a Londra, anche a Parigi , al tempo in cui Napoleone era Primo Console. Di questo mi sono occupato nel mio nuovo romanzo “Tecniche di resurrezione” il cui primo capitolo è dedicato a una celebre dimostrazione di Aldini presso il St.Bartholomew’s Hospital di Londra (l’ospedale in cui farà i suoi esperimenti sui cadaveri Sherlock Holmes) sul cadavere del fresco impiccato George Foster, il cui caso giudiziario fu (e resta ancora a giudicare dalla docu-fiction di HC) assai controverso. Accusato di aver gettato nel Tamigi sua moglie e la sua figlioletta neonata , Foster si era proclamato innocente , per poi confessare alla vigilia dell’impiccagione. Confessione sincera o estorta? Non possiamo appurarlo, dunque via libera alla fantasia degli scrittori. (Di questo caso non tratto nel romanzo, perché avrebbe portato la narrazione su altri percorsi da quelli che mi proponevo, però l’ho studiato a fondo e ho rilevato piuttosto a senso unico la spiegazione offerta da HC, che omette dettagli essenziali, com’è facile appurare dalla semplice lettura degli atti del processo). Comunque sia, la puntata di HC è interamente dedicata alla figura di Giovanni Aldini (c’è una fondazione a suo nome a Bologna) e comprende un documentario ricostruito con attori (fiction) cui si alternano informazioni e opinioni di alcuni storici . Dato che lo stile docu-fiction presto invaderà anche le nostre televisioni, è il caso di farne notare la tecnica. Le opinioni degli storici sono di per sé corrette, ma montate all’interno della libera ricostruzione degli eventi, acquistano un altro senso: cioè suonano a conferma delle più ardite ipotesi fictionali, che nessuno storico potrebbe mai accreditare proprio in quanto inventate, e, nel caso, sulla misura di un pubblico che chiede un minimo di shock emotivo e di horror. La cosa più incredibile è proprio la rappresentazione del personaggio di Aldini che nella fiction appare come un pazzo forsennato e come un criminale. Si arriva a sostenere che Aldini, a Londra, bisognoso di un cadavere per le sue dimostrazioni, manovra perché l’innocente Foster venga condannato e consegnato a lui post mortem per un’improbabile rianimazione, in violazione della legislazione inglese in materia e con loschissime complicità, prima fra tutte quella del Beadle (bidello e custode) del Collegio dei Chirurghi. Questi, non si capisce in virtù di quale potere, avrebbe facoltà di entrare e uscire dal carcere di Newgate, per scegliere prigionieri adatti all’esperimento, e persino vegliarli e assisterli affinché muoiano in buona salute. Uno dei cadaveri (nella fiction televisiva) si vendica di lui. Insomma, una pirlata, se uno dovesse prenderla sul serio, e una soluzione piuttosto ovvia dal punto di vista dell’horror. Ma l’aspetto più sconcertate è il ritratto che si dà di Aldini, a cominciare dal suo aspetto fisico: un italiano tipicamente nelle tradizione del gotico britannico, cioè sinistro, con lo sguardo da folle, baracconesco nella sua teatralità, e persino dotato di orecchino a goccia (oltre che pazzo, gay!). Insomma, il Grande Perverso Latino, che oltretutto congiura nell’ombra, si crea una rete di complicità occulte tra i medici londinesi, applica insomma un metodo da P2. La sua presunta scientificità sarebbe in realtà follia pura, del tipo maniaco-ossessivo. L’esperimento su Foster, nella ricostruzione, non viene celebrato (come storicamente avvenne) nel Teatro Anatomico dell’ospedale, bensì in un ridotto segreto, dove il nostro tenta invano di rianimare il cadavere infilandogli una sbarra elettrificata nel culo (sic!). Nel mio romanzo ho ricostruito l’episodio sulla base della documentazione storica , ma ho comunque aggiunto dettagli del tutto di fantasia e mai avrei apposto l’etichetta Storico a quel capitolo iniziale, pur scrupoloso e rispettoso dei fatti. La docu-fiction appare invece su History Channel e conduce dunque gli spettatori alla persuasione che la ricostruzione fantastica sia autentica e certificata dagli Storici. La cosa interessante è però l’immagine di Italiano che ne deriva, puramente ideologica e non troppo velatamente razzista. Si conferma che del Gotico e del pre-romantico britannico noi siamo stati Patria di riferimento, ma si conferma al contempo che gli inglesi conservano di noi tuttora l’idea-pregiudizio secondo la quale il Genio Italico è per sua natura Criminale e incline alla Follia. Dal che verrebbe da concludere: facciamoci riconoscere! Peccato che il povero Aldini, le cui scoperte hanno riorientato la ricerca scientifica agli inizi dell’ottocento e introdotto un elemento decisivo (l’uso della tecnologia) nelle pratiche chirurgiche e nell’indagine medica, con questo ritratto fosco e malato non c’entri nulla. C’entrerebbe invece, e molto, la chirurgia inglese dell’epoca, che sarà, non per caso, la fonte delle figure dei tanti Mad Doctors della letteratura e del cinema horror. Ma per questo rimando al mio romanzo. Non volevo assolutamente che fosse una “vendetta italiana”, ma a questo punto lo è.

Postato sabato, 22 maggio 2010 alle 12:13 da Gianfranco Manfredi


Io sono terrificato dalla prospettiva dell’invasione delle docu-fiction. Non solo perchè imporranno un stile tele-cine-matografico sciatto, pedestre e omogeneizzato, ma perchè sempre più legioni di persone confonderanno realtà e finzione.
Già mi capitò, anni fa, di dovermi trattenere per non metter le mani addosso a un conoscente (CONOSCENTE!, non amico: torniamo al fatto che AMICI sono solo pochi e che gli altri saranno, casomai, “buoni conoscenti”).
Insomma, davanti a una discussione storica (non ricordo quale), ’sto tizio portava come prova provata delle sue affermazioni la sequenza di uno sceneggiato televisivo italiano.
Ricostruisco a memoria il dialogo:
CONOSCENTE: “Ma non hai visto quando lui dice che…?”
IO: “Guarda che un film non è mica una fonte storica” (Tralasciando la differenza tra fonte primaria e secondaria)
“Ma la scena era così”
Insomma, per questo tizio era un concetto impossibile da afferrare: la differenza tra storia e sua rappresentazione filmica. Figuriamoci quando si faranno proprio le docu-fiction.
E la fiction vampirizzerà la docu.
O viceversa.

Postato sabato, 22 maggio 2010 alle 18:33 da luciano / idefix


Hai perfettamente ragione, Luciano. Dovremo guardarci dalla docu-fiction. L’alterazione è programmatica. La cosa difficile da cogliere per il pubblico è la tecnica di montaggio per cui si alternano i commenti degli storici (nel caso, ma potrebbe trattarsi di qualsiasi altro tipo di esperto) con la ricostruzione inventata. Pare che l’esperto introduca e dunque “firmi” e accrediti l’elaborazione fantastica. Un esempio dal Frankenstein. Uno storico rileva che considerato il fatto che Aldini aveva rianimato degli affogati, l’Inghilterra (in guerra con la Francia e vincente sui mari) aveva un interesse anche militare per il soccorso degli annegati. Da questo parere, la fiction deduce che Aldini ottiene il via libera ufficiale per compiere un esperimento illegale che tra l’altro con gli annegamenti non aveva nulla a che fare. Altro esempio. Si cita un dato: nel 1802 (anno precedente all’esperimento di Aldini) solo due o tre cadaveri di condannati a morte erano stati poi affidati ai chirurghi. Da qui la fiction
deduce che Aldini era alla ricerca spasmodica di un cadavere , addirittura di un detenuto da far condannare alla pena capitale per poi poter sperimentare su di lui. Follia pura! All’epoca i cadaveri da sperimentazione li rifornivano i gaffers (cioè i battellieri che ripescavano gli annegati dal Tamigi) o i resurrection men (che li trafufavano dai cimiteri). Per un cadavere, i chirurghi sborsavano due corone. Li andavano a scegliere in una taverna vicino all’ospedale che aveva una sala nella quale si disponevano i corpi come al mercato, per la scelta dei chirurghi. E dunque: se Aldini doveva compiere un esperimento di rianimazione su un affogato, non c’era da far altro che andare a comprare un corpo scodellato fresco come il pesce. Insomma: il giudizio degli esperti, sezionato per frasi brevi ed estrapolate dalle interviste, viene posto a suggello di un’operazione di pura falsificazione storiografica.

Postato sabato, 22 maggio 2010 alle 21:46 da Gianfranco Manfredi


La recente moda vampirica sta spingendo molti editori di fumetti alle iniziative più disparate pur di concquistare i lettori.La Marvel comics ha deciso di buttarsi nella mischia rilanciando la sua versione di Dracula. Come? direte voi.Semplice facendolo morire! La nuova serie si intitolerà
“The death of Dracula”:non è un paradosso? Rilanciare un personaggio facendolo morire, come se poi non ci fossero mai state morti di Dracula (i film della Hammer vedono Dracula morire e risorgere in continuazione) e la loro fosse che ‘ne so,la morte vera del vampiro. Nonstante le dichiarazioni della Marvel,che assicura che la storia sarà un evento, mi sa tanto di trovata pubblicitaria. Dopo cosa verrà un “Funerale per il conte” o un “Il regno dei Dracula”? (Questa battuta è un riferimento a quello che la Dc comics ha fatto con “La morte di Superman”.) Va bene che il vampiro è il re degli ossimori e quindi morendo può forse rinascere, ma a me sembra una buffonata
P.S. Ho fatto uno strano sogno. Ho sognato un film su Dracula che la Hammer non ha mai fatto: “Isle of Dracula”. Da quel poco che ricordo, il Demeter naufraga su di un’isola popolata da forze ostili, con i pochi marinai superstiti che si trovano a combattere con gli indigeni,mentre il conte si confronta con la magia locale. Sarei curioso di sapere cosa direbbe Freud di un simile delirio.
P.P.S. A proposito di “Resurrection men”, John Landis ha in programma un film su Burke e Hare.

Postato domenica, 23 maggio 2010 alle 17:36 da Francesco Moretta


Grazie per le informazioni, Francesco. Ho appena visto su You Tube un bel corto di animazione (francese) e lo segnalo. Si chiama Logorama (16 minuti di durata). Non parla di vampiri, ma di un tema qui affrontato di sforo e cioè la riduzione del mondo a marchi e l’apocalisse da petrolio. Da vedere. E da sentire, perché le canzoni della colonna sonora sono deliziose. Ieri invece mi sono visto il film cui aveva accennato Pezzini in un intervento (Dark Prince) una ricostruzione “polpettone” della biografia sanguinaria di Vlad. Ben fatto, ben recitato, mal scritto. D’altro canto, per un tema del genere ci sarebbe voluto Shakespeare e non lo si può pretendere. Mi conferma nell’idea (del resto suggerita da Pezzini) che Dracula NON E’ Vlad, in quanto di Vlad e dei suoi trascorsi è assai difficile appassionarsi, anche perché il cinema vladiano si intestardisce cocciutamente ad attribuirgli tra un massacro e l’altro, aspirazioni a un Amore tanto Sublime quanto patetico e pretestuoso. Non è invece malaccio Draculya The girls are hungry che pur nei limiti costituzionali del porno (peraltro qui con qualche ideuzza in più che lo riscatta dalla monotonia della prestazione) tenta negli intervalli la strada dell’insolito , con inquadrature sghembe, dettagli simbolici, gran dispendio di candele, carrellate livello pavimento e luci contrastate, tra Bava e Rollin. E’ un po’ un vorrei, ma non posso… però è già qualcosa. La regista è una donna, e capita spesso che quando le donne fanno i film porno, si ricordano di essere registe. Gli attori (maschi e femmine) non si ricordano invece di essere tali, in quanto si sa… mentre un attore normale si imbarazza nelle scene di nudo e in particolare di accoppiamento, l’attore porno si paralizza quando deve recitare. Certe dizioni di battute sono così improbabili da risultare inaudite. Nessuno parla così , né sulla scena, né nella vita quotidiana e neppure raggelato dall’ansia durante un esame. A proposito, avete letto che è stato cacciato un docente della cattolica di Milano, perché ha osato pubblicare uno studio sul porno via Internet? La regola morale vuole che il porno lo si veda e lo si usi in solitario, ma che non se ne parli. E’ una parola che suona male, evidentemente. Una parola stonata.

Postato domenica, 23 maggio 2010 alle 18:12 da Gianfranco Manfredi


Sempre in merito a “The death of Dracula”, il sito anglofono Vampyres only mostra in anteprima un’immagine promozionale disegnata da Camuncoli.
P.S. Sempre lo stesso sito riporta che a Cannes, Dario Argento avrebbe annunciato di voler dirigere una versione di Dracula che dovrebbe vedersi nel 2012. (Questo mi spaventa sul serio,dove orde di mostri e psicosi hanno fallito,vince questa singola notizia.)
Vista l’aria che tira per i vampiri, suggerirei di creare una società che li tuteli, una sorta di WWF vampirico.

Postato lunedì, 24 maggio 2010 alle 11:08 da Francesco Moretta


Ieri sera ho ricominciato a leggere Magico Vento, riprendendo la saga dal primo numero.
Accidenti se funziona!
Per i miei gusti di lettore, direi che manca solo l’eros. Rispetto a Ken Parker (l’altro gigante del western a fumetti), in MV l’elemento “amoroso” in senso ampio è meno presente. Per il resto, sono due cicli davvero bellissimi, uniti dal forte sviluppo cronologico (“continuity” dicono gli amerikeni), dal rispetto per gli indiani (“nativi” si dovrebbe dire), dalla varietà dei registri narrativi, dalla rivisitazione a sinistra del mito della Frontiera, dalla miscela di avventura e malinconia.
Ho calcolato che (procedendo al ritmo di un albo al giorno) ho una scorta per quasi quattro mesi, insomma arriverò praticamente a ridosso della FINE ufficiale di Magico Vento.
E’ triste lasciarsi dopo tanto bel tempo trascorso insieme. Però quasi (il QUASI comprende solo Peanuts e Paperi di Barks) tutti i fumetti seriali che amo di più hanno chiuso il loro cerchio. O per volontà dell’autore (Sandman di Gaiman, Calvin & Hobbes di Watterson, Cibersix di Trillo) o per idiozia-pigrizia del mercato (Ken Parker) o per improvvisa morte del creatore (Zanardi di Pazienza) o per rarefazione della produzione (Corto Maltese).
Le saghe tirate per i capelli in eterno amen (inutile far nomi) anche quando non hanno più nulla di nulla da dire ma servono solo a portar soldi mi fanno tristezza.
Come canta Neil Young, “rust never sleeps – la ruggine non dorme mai, meglio bruciare che scomparire piano”. Se questo non vale per la vita delle persone, forse vale per le creazioni seriali e per le esperienze artistiche.
Comunque, Magico Vento will never die.

Postato lunedì, 24 maggio 2010 alle 12:19 da luciano / idefix


Caro Luciano, l’elemento eros purtroppo sui fumetti Bonelli, Disney e Marvel incontra ostacoli, per non urtare la sensibilità dei genitori e degli insegnanti. I manga giapponesi hanno fatto una scelta editoriale diversa, dando più spazio non solo alla sessualità, ma anche alla sessualità infantile e adolescenziale. Evidentemente si fanno meno problemi o gliene fanno meno le istituzioni educative e i comitati di controllo d’ogni tipo che da noi (persino in America) sono diventati una vera piaga. Intervengono persino se un personaggio fuma una sigaretta o si beve un whisky , figurati cosa farebbero se si vedessero scene anche solo allusivamente erotiche. D’altro canto questa rinuncia, in MV, non mi ha pesato molto, dato che il western tradizionalmente non ha mai riservato grande spazio all’erotismo, se non altro per il fatto che le abituali compagne dei cowboy erano le vacche (in senso proprio). Studiando le ultime ricerche sui soldati di Custer (i cui resti sono stati esaminati per vedere tra l’altro se erano sani o se soffrivano di qualche malattia) ho letto che uno dei malanni più diffusi nell’esercito era la sifilide. Ce l’aveva anche Custer, c’è l’aveva Wild Bill Hickok… insomma a voler essere scrupolosi, la sessualità western non potrebbe comunque venire raccontata nei termini dell’erotismo ( nonostante il capolavoro “Il Mio corpo di scalderà” ). Però sulle malattie sessuali oggi la pruderie è anche maggiore che sulle pratiche sessuali. Sifilide è diventata parola impronunciabile e nessuno ricorda per esempio che fino a un’epoca piuttosto recente (basta aver superato i cinquanta per ricordarsene) anche nei paesini più sperduti d’Italia esistevano laboratori per la cura della Lue, segnale indubbio di quanto fosse diffusa.

Postato lunedì, 24 maggio 2010 alle 14:01 da Gianfranco Manfredi


Eh…lo so. Pensa che una decina di anni fa il mio primo romanzo per ragazzi (“Vita privata, avventure e amori di Michele Crismani dodicenne”) venne censurato in una scuola media di Padova. Motivo?
In un paio di scene Michele io narrante accenna in maniera sfumatissima (tanto che alcuni ragazzini ancora ignari non capiscono di cosa si tratta) alla masturbazione.
ARRRRRRGGGGGGGGGGGGGGGGGHHHHHHHHHHHHHHH!!!!!!!!!!!!!
Scandalo orrrridissimo denunciato da qualche genitore sconvolto per il mio libro perverso.
E così l’incontro che con due professoresse avevamo programmato in quella scuola con i ragazzi venne annullato.
E ancor oggi mi capitano insegnanti che giudicano inopportune quelle scene.

Postato lunedì, 24 maggio 2010 alle 18:08 da luciano / idefix


Ciao a tutti, amici vampirologi e vampirofili! I vostri interventi sono dei veri e propri fiumi di sapienza!
Ieri sera ho visto il pezzo di Voyager in cui si parlava della “donna vampiro”, lo scheletro ritrovato nel veneziano con un mattone tra i denti (di cui cito nel mio libro a titolo di curiosità, senza entrare nel se e nel ma). L’hanno smontato, sezionato, triturato, scansionato, analizzato e alla fine del vampiro non ne hanno trovato traccia, come era prevedibile. Però non nascondo quel pizzico di delusione nel riscontrare ufficialmente quello che credo tutti temevamo.
Perché mi piace fantasticare. Mi piace anche credere alle minchiate soprannaturali anche se so che probabilmente lo sono. La scienza che cancella i sogni, in alcuni casi anche le speranze. Nonostante il carbonio 14 abbia provato che la sindone appartiene a un periodo che non coincide con la morte di Cristo, il telo viene venerato da milioni di persone che non accettano la sconfitta della fede. San Gennaro fa il miracolo due volte l’anno e pure lì ci hanno provato ma le alte sfere non hanno concesso di scavare nella verità.
Perché se restiamo ancorati al reale, se tutto deve diventare a ogni costo razionale, a noi cosa resta? Dove va a spaziare la nostra fantasia?
Diceva Shirley Jackson: “Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà.”
Io ci credo.
C’è gente che alle presentazioni mi chiede “ma esistono davvero i vampiri?” E io rispondo “se ti piace crederlo, allora sì.”
Io sono una che costruisce fantasie, non voglio essere una che le distrugge: sarebbe uguale a suicidarsi.
:)

Postato martedì, 25 maggio 2010 alle 20:42 da Simonetta Santamaria


Bentornata, Simonetta!
Ehm… aspetto ancora il tuo contributo per “letteratitudine, il libro – vol. II”. ;)

Postato martedì, 25 maggio 2010 alle 21:24 da Massimo Maugeri


Sulla Sindone:
se a qualcuno/a interessa, ne possiamo discutere. Però io (essendo un credente, protestante valdese) lo farei da un punto di vista che i media trascurano del tutto.
E cioè: al di là delle questioni storiche o carbonio B-C-K-Z, la Sindone non ha nessunissimo senso teologicamente ed è anzi un oggetto (e un culto) lontano (se non contrario) al messaggio cristiano.

Postato mercoledì, 26 maggio 2010 alle 08:26 da luciano / idefix


Dopo di che, lo ribadisco: se invece vogliamo scorazzare nella fantasia, via!!!!!!
Sono prontissimo a unirmi alla compagnia e a cercar di dare il mio contributo per inventare (ripeto: in-ven-ta-re) storie bizzarre o paurose, stuzzicanti o inquietanti, su qualsiasi tema.
Ma non spacciamole per vere.
Se non nei momenti in cui creiamo, le leggiamo o le guardiamo al cinema, quando cioè sospendiamo volontariamente la nostra incredulità per meglio godere del loro potenziale fantastico.
Ma poi dobbiamo essere capaci di distinguere. Se no, finisce che giriamo con collane di aglio per difenderci dai vampiri, con fucili caricati a pallettoni d’argento per sparare ai lupi mannari e con la tessera del PdL per difenderci dalla sinistra.

Postato mercoledì, 26 maggio 2010 alle 08:32 da luciano / idefix


Scorazzare nella fantasia è molto bello, ma bisogna tenere almeno un piccolo appiglio alla realtà. Mi spiego: prendiamo ad’esempio un tipo di scena che in certi film compare spesso,l’inseguimento.
In genere una certa voglia di stupire con effetti speciali,porta a tramutare anche una comune scena di inseguimento in una sorta di battaglia fantascientifica;uomini che saltano da un palazzo all’altro,che guidano qualsiasi tipo di veicolo gli capiti di trovare per strada o compiono in breve tempo azioni che spomperebbero un normale essere umano. Se a queste cose venissero date spiegazioni tipo “nelle sue vene scorre un sangue sintetico che aumenta la resistenza dei muscoli,delle ossa e l’elasticità dei tendini” andrebbe bene. Il problema in questi casi è che per realizzare un overdose di azione,si da per scontato e plausibile anche ciò che non lo è, ma proprio per niente.
Senza un po di cervello la fantasia può diventare fanta-demenza.
Ovviamente anche l’abitudine a fornire sempre degli spiegoni,di trovare sempre una base razionale all’irrazionale può diventare dannoso.
Pensate solo all’abitudine di cercare sempre in molte opere recenti una spiegaione scientifica al vampirismo,spiegazioni che spesso sfiorano l’implausibile o il ridicolo.

Postato mercoledì, 26 maggio 2010 alle 10:02 da Francesco Moretta


Intedevo spiegazione, scusate il refuso.

Postato mercoledì, 26 maggio 2010 alle 10:04 da Francesco Moretta


Francesco, d’accordissimo. Faccio un esempio tratto da Avatar (che è un film di fantascienza ortodossa) e DUNQUE si presuppone che quanto accade abbia una spiegazione scientifica.
A un certo punto arrivano le montagne volanti. A parte che sono scopiazzate dalle copertine discografiche di Roger Dean (come: http://api.ning.com/files/79xb1yI4El-k7tnQzg9raZPX3h9WzpfcnMtfwT6Be4EgrFd0-56xky-XIbQ14bx-MrgTEJmpT7K9-jDag-SwYnuC-ZxGZZAt/FlightsOfIcarus600.jpg), la perplessità nasce dal fatto che il fenomeno resta letteralmente sospeso in aria, senza una motivazione. E sì che sarebbe bastato un accenno a…che so…batteri che hanno scavato le montagne rendendole porose e piene di gas, dunque leggerissime. Così invece si introduce una specie di incongruo elemento fantasy in un contesto che voleva essere rigorosamente sf.
E non (si badi bene!) per il gusto della contaminazione, ma per sciatteria, perchè tanto al pubblico popcornizzato va bene tutto.

Postato mercoledì, 26 maggio 2010 alle 11:01 da luciano / idefix


http://www.sacred-texts.com/goth/vav/vav00.htm

segnalo questo interessante testo disponibile online
Saluti
Giovanni

Postato mercoledì, 26 maggio 2010 alle 11:14 da giovanni


Con Giovanni Turra Zan, che più sopra segnala il testo indù sui vampiri, siamo reduci da un simposio poetico, “In odor di poesia”, svoltosi sabato e domenica scorsi alla Fattoria di Statiano di Micciano, in Val Cecina, provincia di Pisa. Hanno partecipato, tra gli altri, Alessandra Conte (primo premio Gozzano e finalista premio Camaiore di questo anno), lo psicologo Fabio Albano che ci ha fatto fare esercizi di respirazione bio-energetica e la proprietaria Tina Castaldi che ci ha condotti per i sentieri del parco e presi gentilmente per il naso portandoci in giro tra le sue erbe aromatiche.
Abbiamo letto poesie sugli odori, e io ho tra l’altro parlato dell’odore di Dracula. Siamo anche andati a Volterra , la vicina città dei Volturi, sulle tracce di Eduarduccio & di Bella ( nel vicolo : « You have two minutes. Go, Bella, go ! »).
Entrato in una chiesa, sono stato molto colpito da un’iscrizione funeraria : FUMUS ET UMBRA SUMUS. Ne ho tratto lo spunto per dire che l’odorato è un senso triste perché ci ricorda quello che non è più. E, a tale proposito, ho introdotto la mia relazione sul senso dell’olfatto citando i « Detti memorabili di Filippo Ottonieri », dalle Operette morali di Giacomo Leopardi.
Volterra è territorio etrusco, abitato dal genius Tages ( di cui ha parlato Gianfranco) e con tracce delle antiche credenze. Secondo un’idea diffusa nel Mediterraneo saremmo abitati da molti « io », che al momento della morte si disgregano : il corpo fisico decade ed è riassorbito dalla terra, mentre la « persona » rilascia una specie di ombra, destinata eventualmente a rinascere ancora, dopo aver bevuto alla fonte dell’oblìo ; un terzo elemento è il demone, composto da varie parti, chiamate Lares e Mani. I Mani hanno un aspetto benefico e l’altro malefico, mentre i Lares designano un’entità collettiva che, simile ai rami di un albero, si ricollega al Genius dal quale deriva un ceppo, una gens, un lignaggio o famiglia ( quello che Jung direbbe il “pleroma degli antenati”, per cui all’avvicinarsi della morte si ha la tendenza a ricordarsi dei genitori, dei nonni, e a ritornare nei luoghi in cui si è nati, ecc. ).
Nel testo indù tradotto da Burton, si parla invece di vetalas o betails oppure baitals, che sono spiriti con le caratteristiche di un vampiro.
I vetalas possono possedere un cadavere o anche un corpo, animandolo, per poi succhiarne il sangue. Stoker ottenne queste informazioni facendo delle ricerche al British Museum e avvalendosi delle informazioni fornitegli dall’amico Vambery ma sicuramente fu influenzato, tra l’altro, dai racconti indù sull’argomento “vampiri” ( Vikram and The Vampire or Tales of Hindu Devilry ) tradotti da Richard Burton, altro suo amico, esploratore e letterato.
Il racconto popolare indù fu riadattato da Henrich Zimmer per il suo « Il re e il cadavere : Storie della vittoria dell’anima sul male.»
Nell’introduzione al suo libro Zimmer scrive:
-
“Il raccontare storie è stato, nei secoli, sia una cosa seria sia un passatempo spensierato. […] La psicologia proietta un raggio X sulle immagini simboliche della tradizione popolare, portando alla luce fondamentali elementi strutturali che primaerano immersi nelle tenebre. L’unica difficoltà sta nel fatto che l’interpretazione delle forme scoperte non può essere ricondotta ad un sistema sicuro. Perché nei veri simboli c’è qualcosa chenon si può circoscrivere. […] Essi sono inesauribili nel loro potere di evocare e di istruire. E’ perquesto che quando ci si avventura nel campo dell’interpretazione del folklore, lo scienziato, lo psicologo scientifico sa di trovarsi su un terreno molto pericoloso, incerto e ambiguo. I contenutiscopribili delle immagini ampiamente disseminate continuano a subire davanti ai suoi occhimutazioni incessanti, di pari passo coi diversi ambienti culturali del mondo e della storia. I
significati devono essere costantemente riletti e ricompresi. […] Nessuno scienziato sistematico chetenga molto alla propria reputazione si esporrebbe volentieri ai rischi dell’avventura. Questo, quindi, non può che essere compito del temerario dilettante. E da ciò nasce questo libro. […]
Non appena abbandoniamo questo atteggiamento dilettantesco nei confronti delle immagini del folklore e del mito, e cominciamo ad essere certi della loro corretta interpretazione (in quanto professionisti
della comprensione, che maneggiano gli utensili con un metodo infallibile), ci priviamo del contatto vivificante, dell’assalto demoniaco e ispiratore che è effetto della loro virtù intrinseca. […]
E proprio come l’eroe della storia-chiave di questa raccolta (un re nobile e coraggioso che si trova a conversare con lo spettro che abita quello che egli aveva preso per un semplice cadavere appeso a un albero) è condotto ad una più alta coscienza di sé […] così anche noi potremmo essere edotti,magari salvati, e forse persino trasformati spiritualmente, se soltanto ci umiliassimo abbastanza da conversare da pari a pari con le divinità e le figure folkloriche apparentemente moribonde che pendono numerosissime dall’albero prodigioso del passato. […] Loro sono gli eterni oracoli dellavita. […]
Le risposte già date, perciò, non ci possono servire. Le potenze devono essere riconsultatedirettamente – di nuovo, e poi di nuovo ancora. Il nostro compito principale sta nell’apprendere non tanto quello che si dice abbiano detto, quanto il modo di avvicinarci a loro, il modo di evocare da loro nuove parole, e poi capirle. […]
Di fronte a un simile compito dobbiamo restare tutti dilettanti,
che ci piaccia o no.”
-
P.s. Mi ha divertito e dato da pensare l’affermazione di Luciano : « Io (per quanto riguarda me) non ho mai trovato seducente nessun tipo di Vampiro. » :-)

Postato mercoledì, 26 maggio 2010 alle 13:14 da Gianni De Martino


Gianni: eppure io sono una persona molto orale.
Una piccola osservazione sugli odori: in un racconto (mi pare L’ultima illusione nel sesto Libro di sangue) così definisce l’odore del male: “un misto di sushi e incenso”
Mi pare ci vada vicino.

Postato mercoledì, 26 maggio 2010 alle 13:41 da luciano / idefix


Sono contento che Gianni non ci abbia fatto mancare un nuovo intelligente intervento. Su Tages, qualcosa avevo trovato, ma non ho postato niente perché esitavo a ritornare su certi aspetti “metafisici” di questo scambio di opinioni. Però a questo punto, cito una nota di Jung in proposito. E’ tratto da “Simboli della Trasformazione” (Parte Seconda Capitolo Quarto, dove Jung esamina una serie di miti fondativi dell’Origine dell’Eroe: ” Il Tagete etrusco, Fanciullo tratto dal solco arato di fresco, è anch’egli (come il babilonese Oannes e l’arabo Al Kadhir) maestro di saggezza. Nel mito Litaolane dei Basuto si parla di un mostro che inghiottì tutti gli uomini, lasciando viva solo una donna che diede alla luce un figlio, l’eroe, in una stalla (invece che in una grotta). prima ch’ella potesse apprestare un giaciglio di paglia per il neonato, costui era già cresciuto e diceva “parole di saggezza”. La rapida crescita dell’eroe, motivo che ritorna di continuo, sembra indicare che la nascita e l’apparente fanciullezza dell’eroe sono fuori dal comune perchè la nascita è in realtà una rinascita, e per questa ragione egli è in grado in seguito di abituarsi così rapidamente al suo ufficio di eroe.” Cosa significa questo discorso, nel contesto dell’analisi incrociata di Jung di vari miti eroici (che include le figure di Mosè, Elia e Gesù e di molti altri) ? Anzitutto che i miti sono trasversali alle culture e si connettono gli uni agli altri. I simboli hanno cioé una loro coerenza interna che si riproduce. Sono reali in quanto fondanti delle nostre spiegazioni (anche di quelle razionali). Se invece a questa realtà dei Simboli noi presumiamo con buona dose di materialismo volgare di attribuire esistenza storica agli Eroi Mitici (come nel caso della figura di Cristo) non capiamo più niente. Spediamo degli archeologi a trovare prove ed evidenze, a individuare la “vera stalla” di Cristo, il vero Calice usato prima nell’Ultima Cena e poi per raccogliere il suo sangue, la Sindone che ne ha accolto il corpo, gli atti (inesistenti) del suo processo e tutto il resto. tutto questo ci occulta la natura simbolica di Cristo, come di quelle figure di altre tradizioni culturali, che gli corrispondono (Horus, tanto per dirne un altro, nato anch’egli il 25 dicembre da una vergine, in una stalla, morto crocefisso e resuscitato, seguito da 12 discepoli, coincidenze non proprio casuali, e ce ne sono molte altre). Si sostituisce alla realtà psicologica ed esplicativa del simbolo, una sua pretesa realtà storica che pare unica base possibile per “poterci credere”. Senza questa Realtà Materiale, tutto ci pare gratuito, favolistico e destituito di fondamento. Cioè, edifichiamo le nostre certezze Spirituali sulla Materia, e il risultato è che i Simboli diventano una caotica e incomprensibile produzione di figure sprovviste di senso e senza alcuna influenza sulla nostra vita. Tages, il Vampiro, qualunque figura di eroe mitico che analizziamo, ci diventano in questo modo inaccessibili , tanto quanto ci risulta inaccessibile l’esistenza e il suo significato. Proclamando Reale il Vampiro, o proclamandolo di Fantasia, commettiamo lo stesso identico errore, in quanto Realtà e Fantasia così contrapposte sono facce della stessa insignificante medaglia. Il nostro Materialismo è misero e volgare tanto quanto la nostra Spiritualità. In entrambi i casi occultiamo, o stipiamo in un Inconscio sempre più simile a una discarica di miti perduti, la sostanza stessa del Simbolico, quel Simbolico senza il quale noi esseri umani non possiamo esistere in quanto esseri senzienti e ragionanti. Lo so che tutto questo è molto difficile da capire, perché scontiamo secoli di separazione tra Concreto e astratto, Reale e Immaginario, Materia e Spirito, scissione che è purtroppo ancora alla base della cultura occidentale diffusa e che la letteratura invece cerca (o dovrebbe cercare) di ricomporre. Ecco perchè è “sacrosanto” quanto osserva Gianni: “Le potenze devono essere riconsultate direttamente, di nuovo e poi di nuovo ancora.” Nell’elaborazione del Simbolico c’è una forza sorgiva entropica (Nulla si crea, nulla si distrugge) che anima in quanto rianima, pur senza il soccorso della memoria storica, né quello della contiguità culturale, sociale e geografica. Ogni nuova nascita è una rinascita. In ogni “bambino eroe”, c’è un vecchio sapiente. Noi sappiamo ormai, la scienza ce lo ha insegnato, che il nostro patrimonio genetico è tanto originale quanto originato, eppure di questa conoscenza non riusciamo a farne coscienza.

Postato mercoledì, 26 maggio 2010 alle 18:01 da Gianfranco Manfredi


@ Massimo: hai ragione, dài, ora mi ci dedico: croce (e non paletto) sul cuore.
;)

Postato mercoledì, 26 maggio 2010 alle 18:17 da Simonetta Santamaria


Freud si trovò da subito ad affrontare questo problema nei suoi primi studi sull’isteria. I sintomi della paziente che si era “confessata” con lui, per lo stesso fatto di esserci confessata, erano spariti. Rivelarsi, elaborare i simboli ed esprimerli in linguaggio, è REALMENTE terapeutico. Per aver divulgato questa scoperta, Freud venne cacciato dall’ordine dei medici. Ancora oggi, la vulgata diffusa e condivisa da molti troppi uomini di sedicente cultura, considera la psicanalisi come “non scientifica”. Non intendo certo farne la difesa a spada tratta, anche perchè non ce n’è bisogno, né si tratta di una fede da rivendicare in modo acritico, però in quell’intuizione originale di Freud c’erano i germi di una autentica Rivoluzione Culturale. Il Simbolico ha effetti pratici. I Riti hanno una funzione e un’efficacia reali. Se non cogliamo questo snodo, la nostra capacità di comprensione del senso come dei meccanismi della vita, rischia l’azzeramento e tutto precipita in Pregiudizio. Gli scrittori, si sa, e in particolare gli Esploratori del Fantastico, spesso sono trattati come dei bambini, ma è devastante per tutti non riconoscere che questi bambini sono tutt’altro che ingenui, perché è dato loro di essere anche bambini sapienti.

Postato mercoledì, 26 maggio 2010 alle 18:28 da Gianfranco Manfredi


Mi viene in mente quando alla mia prima figlia raccontavo storie di vampiri, cercando comunque come nella tradizione delle “balie”, di equilibrare macabro e comico. Restava tuttavia inquieta (come tutti noi siamo rimasti di fronte a certe favole che vi venivano narrate da bambini) . Una sera la trovo a fare un rito. Prima di infilarsi a letto, passava in cucina, prelevava una treccia di aglio e la gettava sotto la finestra, dopodichè dormiva tranquilla e serena. E dunque… non solo funziona il racconto, ma funziona anche il rimedio. So che c’è chi preferisce non raccontare mai storie ai figli, che quindi manco usano rimedi, ma questo davvero credete che li aiuti a superare le ansie notturne?

Postato mercoledì, 26 maggio 2010 alle 18:43 da Gianfranco Manfredi


Ho letto l’anno scorso una bellissima relazione psicologica sul caso di un professionista di origini africane, uomo più che realizzato nella vita, sposato con una milanese, completamente dimentico della sua origine che non rimpiangeva né poteva rimpiangere essendosi trasferito in italia da piccolissimo con la famiglia e avendone serbato qualche labile traccia solo attraverso i suoi genitori. In un momento delicato della sua vita, quest’uomo aveva cominciato ad avvertire degli inspiegabili malesseri, anche e soprattutto di natura fisica, per quanto dalle analisi risultasse assolutamente sano. L’analista gli aveva chiesto quali terapie si usassero nella sua terra d’origine contro malesseri analoghi. Lui, con un certo fastidio, aveva risposto che prima di addormentarsi il malato, su consiglio dello sciamano della tribù, si infilava nel letto un uovo sodo (o qualcosa del genere, adesso non ricordo di preciso). L’analista gli ha consigliato di fare altrettanto. Malesseri passati. In seguito quell’uomo tornò in vacanza nel suo paese, cercò con maggior rispetto e consapevolezza di conoscere meglio quei rituali da cui si era allontanato e per i quali, da uomo colto e civile, continuava ad avvertire diffidenza e disagio. Eppure quel viaggio gli consentì di ritrovare radici simboliche perdute, di colmare una scissione che coltivava segretamente in sè, di superare un misterioso conflitto interiore che lo faceva sentire male. Quante segrete lacerazioni da comporre ciascuno di noi porta in sè? E quanta potenza curativa c’è in quel Simbolico che costantemente ci neghiamo come “ingenuo”, “primitivo”, “superstizioso” e “fanciullesco”?

Postato mercoledì, 26 maggio 2010 alle 18:59 da Gianfranco Manfredi


Continuo a pensare che il male, come i soldi, non abbia odore. Un po’ come Grenouille, il serial killer del Profumo di Suskind, che come l’Ade non ha odore.
D’altra parte, può anche darsi che il male, come suggerisce luciano, si avvicini all’odore di “un misto di sushi e incenso”, cioè di pesce più o meno fresco e di fitosteroli, presenti sia nell’incenso ( quando viene bruciato) sia nel sudore delle ascelle maschili. In tal caso, il male avrebbe, ancora una volta, l’odore del sesso e della morte, tanto per cambiare.
E’ molto difficile per gli uomini cosiddetti civilizzati riconciliarsi sia con la propria realtà di creature biologiche & caduche sia con il proprio culo. E’ perlomeno dall’avvento del neolitico e l’abbandono della selva e della caccia che gli uomini civilizzati lottano strenuamente contro i “cattivi” odori e l’accumulo della polvere sui mobili.

Forse fu pensando a tipi cosiddetti orali che Walt Witman ( corrispondente di Stoker e di altri eminenti vittoriani) scrisse questi memorabili versi, simili al sudore dei ragazzi d’America dopo una corsa nei campi e più puri di una preghiera – versi da leccare con delicatezza:
-

Trickle drops! my blue veins leaving!
O drops of me! trickle, slow drops,
Candid from me falling, drip, bleeding drops,
From wounds made to free you whence you were prison’d
From my face, from my forehead and lips,
From my breast, from within where I was conceal’d, press forth red drops, confession drops,
Stain every page, stain every song I sing, every word I say, bloody drops…

-

… dal mio petto, dall’intimo ove ero nascosto, uscite fuori stille
purpuree, stille di confessione,
macchiate ogni pagina, macchiate ogni canto che intono, ogni
parola che dico, stille sanguigne (…).
-

Sebbene oggi l’olfatto non abbia un’importanza preminente nella nostra vita di cittadini ben strigliati, deodorati e smacchiati, senza i molteplici recettori delle nostre umide fosse nasali puntate verso il basso saremmo alquanto sguarniti per apprezzare il cibo, sentire l’aroma dei nostri amanti e per chiudere il gas.
Anche il campo della nostra immaginazione ne sarebbe abbastanza ridotto. Ma né l’ambiente, né l’esperienza, né la cultura ci hanno insegnato a prenderci cura degli odori, come se questi non fossero necessari alla nostra vita interiore quanto le immagini e i suoni.
Certo si parla molto di odori e di sapori, ma quasi sempre in termini di eventi, di prodotti, d’immagini e di segni.
Insomma difficilmente ci capita di renderci conto della ricchezza dell’olfatto. A differenza dei vampiri, così come anche degli onesti lupi che ormai fanno paura solo perché in via d’estinzione, siamo disabituati a distinguere e ad apprezzare le sfumature degli odori di qualità e accantoniamo uno dei più squisiti piaceri della vita.
Quanti hanno indagato a fondo in questo ambito, affermano che la causa risiederebbe nella repressione del sesso. Fisiologicamente l’essere umano sarebbe sensibile come qualunque altro animale, ma psicologicamente il senso dell’olfatto sarebbe stato ammaestrato e alterato.
Non a caso, Freud ritornerà più volte sulla “rimozione” dell’odorato, specialmente nelle note di Il disagio della civiltà, rintracciando il declino dell’olfatto nella “tendenza della civiltà a limitare la vita sessuale”. Vittima di una vera “rimozione organica” legata all’anale e al genitale, l’odorato appare come il primo e più pesante tributo da pagare al “fatale processo d’incivilimento”.
Per Freud il nocciolo del nostro problema irrisolto con gli odori è che:

-
“…. gli uomini civili (…) sono evidentemente imbarazzati da qualcosa che ricorda loro troppo da vicino l’origine animale. Cercano di emulare gli ‘angeli più perfetti’ dell’ultima scena del Faust che si lamentano:

-
A noi portare un resto

di terra è sforzo duro!

Ché, fosse pur di absesto

sempre rimane impuro.”

-

A scapito delle restrizioni che il naso impone alla libido, il suo indebolimento resta tuttavia, per Freud, la condizione di non-ritorno a una fase anteriore dello sviluppo umano. A tale proposito, sulla scia di Freud, Lacan ( nel seminario sull’Identificazione del 1961), dichiarò addirittura che: “…la regressione organica nell’uomo dell’odorato gioca un grande ruolo nel suo accesso alla dimensione Altro”, vale a dire alla sfera simbolica, implicante l’accesso al linguaggio verbale e alle relazioni sociali di ordine culturale.
Anche per questo, aggiungerei, non sorprende che accennare alla masturbazione in un romanzo per ragazzi (”Vita privata, avventure e amori di Michele Crismani dodicenne”) possa essere oggetto di censura in una scuola media di Padova ( come riferisce, più sopra, luciano).
E’ purtroppo ancora vero che, in questi tempi di caccia alle nuove streghe ( i temibili “pedofili” annidati in famiglia, nelle scuole, nelle sagrestie, in curia e persino nel coro della Cappella Sistina), “a’ stu munne nun ce sta’ niente e’ chiù pegge ka mane do prevete n’coppe o’ pesce do’ guaglione” ( parafrasando l’ingegnere Carlo Emilio Gadda).
Intanto, il poeta Giovanni ( anima inquieta) continua a inviarmi graditi messaggi nella posta elettronica, che riporto qui ( i messaggi s’intitolano “vampiri again”):

.
“…..e questa è la serie televisiva prodotta dall’americana HBO di cui ti parlavo a Volterra

http://it.wikipedia.org/wiki/True_Blood

Ciao
G “

Postato mercoledì, 26 maggio 2010 alle 19:31 da Gianni De Martino


Per la maggior parte degli uomini il male sa di cacca. Se è vero quanto sostengono Freud e la teoria evoluzionista, via via che l’olfatto perdeva importanza rispetto alla vista e che i genitali diventavano visibili, nasceva anche il senso del pudore e l’isolamento della donna durante il periodo mestruale. Nello stesso tempo, i concetti di odore e di moralità vengono a sovrapporsi, tanto da creare una vera e propria equazione tra buon profumo ( principalmente di cibo) e virtù, puzzo e corruzione morale. Non puzzare s’impone come modello di cultura e di più autentica forma di umanità, mentre all’altro saranno abbinati odori che lo avvicinano alla condizione di naturalità o di animalità.
Non a caso, l’operaio che scarica le casse di Dracula a Carfax dice che “Quella casa lì, capo, è la più zozza che mai ci ho messo piede. Porcaccia! (…) C’era un puzzo che sembrava di stare nell’antica Gerusalemme”. Il riferimento al foetor iudaicus è evidente. Si tratta di un pregiudizio diffuso oggi specialmente nei paesi islamici, dove anche persone di cultura e intellettuali credono che gli Ebrei abbiano un tipico odore di cadavere detto Jaffa o qualcosa del genere…
Ne parlavo con Gian Antonio Stella, che nel capitolo “L’insopportabile puzza dell’altro” ha citato qualche passaggio di “Odori” nel suo recente ” Negri froci giudei & c. – L’eterna lotta contro gli altri” pp. 118-119 ( pubblicato presso Rizzoli, perché, mi ha detto, alla Mondadorona non gli lasciano scrivere quello che vuole…).
Ma quello che volevo dire è che sarebbe assurdo criticare o irridere il fatto che, invece di vivere come i gigli dei campi e le bestie del cielo, si finisca con l’ubbidire a delle astrazioni e a credere alle metafore, perché questo impalarsi sui simboli è ormai una necessità per la maggioranza degli esseri umani.
Una volta acquisita la precaria posizione eretta e persa la placida orizzontalità dell’animale, occorre lavarsi ed elevarsi – il che non significa necessariamente pisciare a gambe larghe contro i muri e farsi venire un’ernia a furia di voler tenere alto, sempre più alto, lo stendardo della Ragione.
E’ come se – dopo la morte di Pan trasformato in Diavolo e l’avvento del nuovo pastore, il Cristo ascetico – natura e cultura non avessero lo stesso destino. Non più mediata dalla ninfa Eco, la voce di Pan riesce tuttavia talvolta a farsi strada nella clinica, cioè nelle psicopatologie, e altre volte nella cosiddetta “creatività” degli artisti o le rivolte, non a caso “giovanili”, dell’istinto.
In ogni caso, la fine storica dell’illusione di poter ricomporre la molteplicità dei linguaggi in un linguaggio unico, o complessivo, che potesse aver ragione della pluralità contraddittoria del reale, così come delle molte storie possibili, o anche impossibili, apre a un periodo di crisi dagli esiti imprevedibili. La crisi, come suggeriva Franco Rella ( ne Il mito dell’altro. Lacan, Deleuze, Foucault), non è solo disordine e male ma anche tensione verso ordini nuovi.
Le contraddizioni non possono essere “risolte”, ma devono essere trasformate. E il terreno di questa trasformazione è indubbiamente politico e simbolico – a patto naturalmente di non ridurre tutto al politico ( che non è la politica, ma l’arte di amministrare il dolore di dover vivere insieme) e di non impalarsi, non troppo, sui Simboli.

Postato mercoledì, 26 maggio 2010 alle 20:35 da Gianni De Martino


La lingua: ” Perché sono così bella? Perché il padrone mi lava”.

Postato mercoledì, 26 maggio 2010 alle 20:57 da Gianni De Martino


E’ possibile che la non trasparenza dei simboli sia anche dovuta nell”uomo contemporaneo alla loro trasformazione in marchi che alla natura simbolica attribuiscono la Proprietà. Così anche i numeri (entità simboliche) hanno perso valore in quanto risolti in Denaro. “Profumo” (il romanzo) parla se vogliamo anche di questo. Di come il mondo degli odori sia stato ridotto a Profumi, chimicamente e merceologicamente prodotti. Ridurre la Società a Mercato è la Perfetta Alienazione, nei confronti della quale l’Alienazione religiosa è ben poca cosa. Ci appare oggi, post-illuministicamente, e post-marxianamente, come desueta. Però nella coscienza comune, la liberazione dalla Superstizione ha significato relegare nel passato il Simbolico. E questa è cecità assoluta (o anosmia se vogliamo) rispetto all’Alienazione presente e trionfante, quella che ha consegnato il Simbolico alla Merce. Era proprio di QUESTA alienazione che il profeta Karl Marx parlava, ma i suoi interpreti hanno preferito considerare la sua critica dell’Alienazione, come critica del Simbolico come Primitivo. Applicando lo stesso criterio, la sua critica dell’economia politica, sarebbe una critica dei numeri. Quante fesserie sono state dette e scritte a salvaguardia dell’ordine esistente delle cose! Quanta limitatezza nel nostro modo di sentire, percepire, concepire, vivere il mondo, è stata così indotta.

Postato mercoledì, 26 maggio 2010 alle 22:32 da Gianfranco Manfredi


Quanto alle istanze di “ordine nuovo”, caro Gianni, non mi sento di condividere il tuo ottimismo. A me hanno sempre suscitato un brivido di disagio. Per esempio questa sentenza di Guy Debord: “Il futuro spetta a chi, pur non amandolo, saprà creare disordine, poiché è da esso che sorgerà un ordine nuovo.” Beh, se non si ama il futuro, davvero non vale la pena di viverlo, se non si ama il disordine in quanto sovversione permanente dell’ordine di cose costituito, ogni nuovo ordine sarò oppressivo, il disordine continuerà ad essere considerato non come il Caos creativo all’origine del Cosmo, ma come mezzo giustificato dal fine del Nuovo Ordine, e dunque riproposizione eterna del Totalitarismo come unico orizzonte possibile del Politico.

Postato mercoledì, 26 maggio 2010 alle 22:53 da Gianfranco Manfredi


Chissà, magari la traduzione è equivoca. Forse Debord con il “pur non amandolo” non si riferiva al futuro ,ma al disordine. Il che però non sposta di molto il senso. Del resto l’incipit è di per sé allarmante: “Il futuro spetta a chi…” Riecco il senso proprietario, e nei termini più patetici e ridicoli: il diritto di proprietà sul Futuro. Evidentemente i Profeti hanno imparato a Professionalizzarsi, al punto da reclamare un Diritto d’Autore sulla Storia a venire.

Postato mercoledì, 26 maggio 2010 alle 23:00 da Gianfranco Manfredi


Nel capitolo di Jung che ho citato prima, molte pagine sono dedicate al pesce. Per gli antichi, di tutte le latitudini e di tutte le culture, il pesce era un simbolo di Rinascita (e per i cristiani primitivi di Resurrezione). Per noi cos’è un pesce? Lo associamo ancora alla rinascita? Di un pesce noi vogliamo sapere la provenienza, perché per noi è un prodotto. E’ chiaro di cosa si parla, quando si parla di rimozione del Simbolico?

Postato mercoledì, 26 maggio 2010 alle 23:35 da Gianfranco Manfredi


Salvo poi scoprire che l’adorato Tonno Pinne Gialle che consumiamo in scatoletta e di cui vogliamo conoscere da consumatori consapevoli l’origine, è l’ultimo Tonno Pinne Gialle che potremo mangiare, perché i Tonni (e in particolare i Pinne Gialle) li stiamo sterminando nella stessa misura con cui abbiamo sterminato i bisonti. Un documentario TV ce lo fa vedere (l’altra sera, Report). Ed eccoci allora tornare improvvisamente consapevoli di quanta violenza sia occultata dentro il libero mercato! E allora, beh… basta tonno, non possiamo collaborare all’ennesima strage! Giusto… però l’aver smarrito il significato di rinascita insito nel pesce, non ci ha accompagnato alla serena e inconsapevole accettazione/esecuzione della strage? Quando scrivevo una storia di Magico vento su una tribù di indiani pescatori del Nord America, ho letto di una loro usanza che oggi ai contemporanei pare a seconda delle diverse sensibilità, “poetica” oppure “ignorante”. Quanto pescavano un pesce per mangiarlo, lo ringraziavano. Quanto pescavano in esubero rispetto alle necessità, ributtavano i pesci nel fiume, scusandosi. Quegli indiani conoscevano il significato simbolico del pesce e non lo conoscevano come qualcosa di separato e di applicato al pesce, ma come sostanziale al pesce. Noi non ringraziamo e non chiediamo scusa, vogliamo sapere e quando sappiamo possiamo jnorridire oppure fregarcene (dipende dalla sensibilità dei singoli), ma le cose non si spostano di una virgola se non recuperiamo il senso simbolico delle cose.

Postato mercoledì, 26 maggio 2010 alle 23:58 da Gianfranco Manfredi


Ho messo due “quanto” al posto di “quando”. E’ tardi e sono cotto. Vado a consegnarmi al simbolico dei sogni. Buonanotte.

Postato giovedì, 27 maggio 2010 alle 00:00 da Gianfranco Manfredi


Buonanotte, Gianfranco.
Questo tuo precedente commento è stato pubblicato a mezzanotte in punto… ed è il n. 1500 di questo dibattito.
Vorrà dire qualcosa, in simboli?
;)
p.s. mi pare che la discussione abbia beneficiato di una nuova impennata.
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Simonoir, ti aspetto… ;)

Postato giovedì, 27 maggio 2010 alle 00:10 da Massimo Maugeri


L’olfatto è uno dei sensi più brutali e ancestrali. Basta pensare a come i ricordi (quelli vecchi e sepolti) escono dai sepolcri per aggredirci se vengono rievocati dall’improvvisa comparsa dell’odore “giusto”.
Così, ritornano donne accantonate da decenni oppure pomeriggi passati col proprio padre a giocare vicino a un ruscello.
Su questo tema avevo provato (una ventina di anni fa) a scrivere un lungo horror sui feromoni, mescolandoci anche l’eros, la Shoah, le formiche e altre molte cose. Poi (dopo una settantina di pagine, che pur mi piacevano assai) lo accantonai: mi resi conto che quel progetto ambizioso andava troppo al di là delle mie capacità.

Postato giovedì, 27 maggio 2010 alle 10:54 da luciano / idefix


Il discorso di Manfredi su psicoanalisi e rimedi curativi,mi ha ricordato di un bel film intitolato “Le médecin de Gafire”. Il film parla di un medico di origini senegalesi,che ritorna in patria e apre una clinica in un piccolo villaggio dove però vive anche uno sciamano. Il medico vede lo sciamano come un ciarlatano e pertanto non prende in considerazione i suoi metodi curativi.Lentamente però (causa anche l’incapacità di comprendere i propri pazienti e i loro usi) si avvicina al sapere di cui lo sciamano è portatore e comprende il proprio errore:non ha considerato i pazienti come soggetti da curare,ma come oggetti da riparare. Per lui si apre cosi un cammino iniziatico che lo porta a riaccettare il sapere tradizionale,senza però rigettare la moderna medicina. Ecco l’episodio del signore africano citato da Manfredi sembra quasi una scena del film.
P.S. A proposito del considerare il paziente come un oggetto, un esempio angosciante di questo atteggiamento, l’ho trovato oltre che nella cronaca anche in un recente albo di Dylan Dog “Mater Morbi”, dove l’Old Boy Dylan sperimenta sulla propria pelle la disumanizzazione del paziente che spesso operano le moderne istituzioni.
P.P.S. Lo sapevate che recentemente la Castelvecchi ha ripubblicato “La vergine del sudario” di Bram Stoker?

Postato giovedì, 27 maggio 2010 alle 10:56 da Francesco Moretta


L’intervento di Francesco sul tema degli sciamani si incastra con la rilettura che sto facendo: da alcuni giorni ho ripreso (dal primo numero) Magico Vento di Manfredi. Ed è proprio una goduria.

Postato giovedì, 27 maggio 2010 alle 11:59 da luciano / idefix


Luciano: “ L’olfatto è uno dei sensi più brutali e ancestrali. Basta pensare a come i ricordi (quelli vecchi e sepolti) escono dai sepolcri per aggredirci se vengono rievocati dall’improvvisa comparsa dell’odore ‘giusto’ ”.
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Et tout d’un coup le souvenir m’est apparu. (…). La vue de la petite madeleine ne m’avait rien rappelé avant que je n’y eusse goûté; peut-être parce que, en ayant souvent aperçu depuis, sans en manger, sur les tablettes des pâtissiers, leur image avait quitté ces jours de Combray pour se lier à d’autres plus récents ; peut-être parce que de ces souvenirs abandonnés si longtemps hors de la mémoire, rien ne survivait, tout s’était désagrégé, les formes – et celle aussi du petit coquillage de pâtisserie, si grassement sensuel, sous son plissage sévère et dévot – s’étaient abolies, ou, ensommeillées, avaient perdu la force d’expansion qui leur eût permis de rejoindre la conscience.
Mais, quand d’un passé ancien rien ne subsiste, après la mort des êtres, après la destruction des choses seules, plus frêles mais plus vivaces, plus immatérielles, plus persistantes, plus fidèles, l’odeur et la saveur restent encore longtemps, comme des âmes, à se rappeler, à attendre, à espérer, sur la ruine de tout le reste, à porter sans fléchir, sur leur gouttelette presque impalpable, l’édifice immense du souvenir. (Marcel Proust, Du coté de chez Swann)
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E all’improvviso mi è venuto il ricordo. Proust assapora il ricordo come se fosse un dolcetto. Benché morto e sepolto, il passato non lo aggredisce. Il passato vive nel presente, in un “cuore” che ha la forma di una madelaine con la sua tipica gobbetta. Ed è grazie all’odore e al sapore che Proust attinge all’acqua viva della creazione.
A ognuno, naturalmente, la sua madelaine. Per Proust era quella di zia Leonia, inzuppata nel tè o in una infusione di tiglio. Per Kipling, invece, era l’odore dei bivacchi: “ Una zaffata: eccoci in piena Arabia!” E per Stoker, l’autore di Dracula, il puzzo (malodorous air) di corruzione che si esalava dalla casa londinese del vampiro.
Ai tempi di Proust ci si chiedeva se la fotografia, allora nascente, fosse arte. Oggi è tutto un proliferare di immagini e di evanescenze che parlano all’occhio corporeo e non al cuore e al naso. Senza per questo non amare le immagini ( legate alla vista, senso apollineo della distanza e della teoria), rivendico l’umiltà dell’odorato e i poteri dell’immortale madelaine di zia Leonia, ancorché morta, stramorta e sepolta.
La distinzione troppo radicale tra vita e morte, così come tra umanità e animalità ( in termini filosofici : tra enti da comprendere e enti da spiegare) oggi appare, in qualche modo, inumana. J
acques Derrida osservava che il fascismo comincia quando si insulta un animale, o anche l’animale nell’uomo. Se dai a un animale o a un uomo un brutto nome ( tipo puttana, bestia, mostro, vampiro, topo di fogna o stronzo), avendolo così privato, preventivamente, della sua umanità, puoi anche ucciderlo con maggiore tranquillità.
L’idealismo porta a insultare l’animale nell’uomo, o nel trattare l’uomo come un animale e l’animale come se fosse una cosa. La vera comprensione dell’altro essere umano significa riconoscere, accettare in lui anche la sua animalità. Penso che questo riconoscimento sia la base di ogni atteggiamento caritatevole e affettuoso. Nel libro « Odori » ho detto che allora ci si rende conto di amare veramente una persona quando se ne sopportano anche gli odori più indiscreti. Ovvero le « puzzette » – come peraltro, senza storcere il naso, scriveva Mozart rivolgendesi alla sua amata cuginetta. Ma queste son cose che gli amanti sanno benissimo, specialmente quando sussurrano « ti amo, maialino », o altre sciocchezze del genere, che poi al mattino facilmente tutti dimentichiamo. E magari cancelliamo. In questo procedere, come dire, « a lume di naso », più che kantiano o hegeliano ( filosofi del primato dell’astrazione,che, impalati sui sistemi idealistici, ritenevano l’olfatto legato alla “zavorra corporea”, escludendolo dall’estetica e dal sociale ), sarei più vicino ala rappresentazione dell’olfatto proposta da Feuerbach, con la sua concezione di un uomo onnilaterale, o totale, che rivendica i propri legami con il corpo e pensa in armonia con esso, e non fa dipendere la propria libertà unicamente da una Ragione dai tratti astratti e violenti – come il paletto del professor van Helsing e degli altri cacciatori di quei « fetenti » di vampiri.

Postato giovedì, 27 maggio 2010 alle 13:20 da Gianni De Martino


Torno sul tema del simbolico partendo da una classica immagine vampirica. Il Bela Lugosi di Dracula (1930) che trasporta la sua preda vergine tra le braccia. Quante volte abbiamo rivisto questa immagine! Apro un libro a caso sul cinema horror e trovo questa stessa composizione nei manifesti del Dracula di Fisher (il vampiro che trasporta la vergine svenuta), nell’horror di Jess Franco Gritos en la noche, sulla locandina francese di Les Proies du Vampire di Fernando Mendez, sul manifesto di La Cripta e l’Incubo di Camillo Mastrocinque , su quello de La Strage dei Vampiri di Roberto Mauri, su quello de La Vergine di Norimberga di Anthony Dawson. Tra le foto di set, ne spiccano due molto belle da I tre volti della paura di Mario Bava: il vurdalak Boris Karloff con in braccio una bambina svenuta, e un padre contadino con la sua bambina tra le braccia (forse morta). Non serve continuare. Migliaia di volte abbiamo visto riproposta questa immagine, fino a darla per scontata. Ma perché è così importante? Cosa simboleggia? Libere associazioni: il fresco sposo che conduce la moglie in braccio oltre l’uscio di casa, il celebrante che trasporta sull’altare sacrificale la vergine svenuta da offrire agli dei, il padre che culla la figlia. Capovolgimenti oppure originali a loro volta capovolti nell’immagine simbolo della Pietà: la Madonna che tiene in braccio e sulle ginocchia il Cristo deposto. La Pietà materna contrapposta al sacrificio di sangue del Padre Padrone. La Vergine che non viene portata, ma che porta. Le figure , in tutti i casi, disposte a croce. Riferimenti incestuosi sublimati oppure esplicitamente offerti allo sguardo. Immagini di violazione e di stupro oppure di soccorso e di amore compassionevole. Svenevolezza del femminile come estrema cedevolezza e come immagine dell’orgasmo o dell’abbandono al sonno. Il maschile come forte, consapevole e finalizzato. Quale concentrato di corrispondenze e di contrari pur intimamente legati in un’unica immagine simbolica. C’è una storia in questa immagine modello, vi si possono leggere passaggi e trasformazioni dal paganesimo, al cristianesimo al neo-paganesimo. Vi si può leggere il Sacro come la più consapevole profanazione e irrisione del Sacro. Ecco dunque come un’immagine infinitamente replicata, così chiara da esserci divenuta famigliare, può risultare all’indagine estremamente complessa, luogo di incontro e di conflitto di Simboli della Trasformazione, e anche esempio di infinita trasformazione dei Simboli. Il punto è: la nostra spontanea ricezione di questa immagine, ce la mantiene tuttavia trasparente? Riusciamo ancora a leggervi la natura simbolica oppure ne siamo inconsapevoli? Quante immagini guardiamo senza vederle, senza riuscire a leggerle? E il nostro turbamento di fronte all’immagine replicata appassisce (perché essa ci è diventata insignificante per abuso) oppure si potenzia (proprio perché il suo senso riposto ci è diventato occulto)? Queste le domande che vi giro.

Postato giovedì, 27 maggio 2010 alle 13:35 da Gianfranco Manfredi


Rilevo che nei Venerdì 13 et similia, l’immagine suddetta scompare. Il Mostro non porta più in braccio nessuna vittima, la fa a pezzi sul posto e all’istante, evitando con cura di toccarla. La vittima non è vergine, anzi (come ha fatto notare Craven in Scream) in genere il Mostro la uccide appena dopo che lei ha fatto l’amore (con un altro). Il Serial Killer come punitore del sesso. Il Mostro convertito in moralista giustiziere.

Postato giovedì, 27 maggio 2010 alle 13:43 da Gianfranco Manfredi


Prima mi sono comprato il romanzo “Lasciami entrare” di Linqvist. Dopo aver sentito tessere le sue lodi e a furia di parlare di vampiri su questo post, mi sono deciso. Tanto più che i protagonisti sono adolescenti come quelli dei miei libri e che il tema dell’eros tra adolescenti è rimosso-sublimato e raramente trattato con intelligenza. Ricordo un romanzo che infiammò i miei dodici-tredici anni (“L’onda dell’incrociatore” del mio concittadino Pier Antonio Quarantotti Gambini, che spesso affrontava l’erotismo tra i giovanissimi).
E pure a me piacerebbe raccontare in un romanzo la frenesia dell’eros adolescenziale, quanto sia elettrico tenere tra le proprie mani inesperte i fili scoperti del desiderio che esplode goffo e pazzo, fragile e totalizzante. Ci penso da molto e vorrei saper scrivere un libro che sia insieme un suspense e una love-story, buttando in scena gli adolescenti, evitando del tutto roba zozzona e ammiccante ma dando fuoco alle polveri di chi si inoltra nella foresta del sesso. I problemi che mi pongo sono: trovare uno spunto narrativo forte e poi…sarei capace di reggere la mia ambizione?

Postato giovedì, 27 maggio 2010 alle 16:09 da luciano / idefix


@ Luciano. Forse non c’entra niente con quello che hai in mente, però c’è un manga che ha avuto anche una bella versione in animazione (ne ho viste nove puntate, ma ne sono uscite di più) e che affronta in modo piuttosto nuovo e stralunato il tema della sessualità degli adolescenti. Si tratta di Chobits. L’autore è Clamp. Si narra di un ragazzetto di campagna, sessualmente del tutto inesperto, che arriva in una grande città, dove alla sessualità provvedono delle bamboline sexy, che sono dei robot, graziosi, sexy e servili in ogni senso. Cosa che suscita qualche turbamento nel ragazzo, anche se maggior turbamento gli suscita la sua vicina di casa, una ragazzina umana. C’è nella serie un intreccio di temi (pulsioni irrefrenabili, altrettanto irrefrenabili pudori, un certo indifferentismo sessuale da immaturità) coniugati al senso di estraneità e di solitudine dei ragazzi in un mondo in cui i gadget e la tecnologia sono pane quotidiano e diventano personalizzati, enigmatici compagni di gioco rispetto ai quali le normali compagnie umane sembrano assai più imbarazzanti da coltivare. qualcosa del genere echeggia nella strana compagna di giochi vampira del ragazzino protagonista di Lasciami entrare, con la differenza che i film nordici (inclusi quelli tratti da Larrson) sono davvero raggelanti e (almeno agli occhi di noi latini) a pronunciata vocazione suicida, mentre nei manga questi temi vengono trattati con una delicatezza e una poesia affascinanti.

Postato giovedì, 27 maggio 2010 alle 18:18 da Gianfranco Manfredi


Una delle cose strane dei manga (basta frequentare una qualsiasi mostra del fumetto per accorgersene, a Lucca balza agli occhi) è come i loro personaggi eterni bambini si proiettino ben oltre l’adolescenza. Quando alle fiere del fumetto si vedono gruppi di amici e amiche che si travestono come quei personaggi… in genere le ragazze da bamboline sexy, i ragazzi in abiti guerrieri, con sfumature di tutti i tipi dall’alieno mostruoso al clownesco… e si nota che quei ragazzi e quelle ragazze sono spesso più che ventenni (a volte persino trentenni), c’è davvero da chiedersi come possa l’adolescenziale prolungarsi così a lungo e come mai fumetti che in edicola vendono abbastanza poco possano sollecitare imitazioni, travestimenti, acconciature, al di là della rilevanza dei personaggi cui si ispirano. Di certo, la tristissima epoca dei bambini Zorro è definitivamente tramontata negli 80. Per generazioni i ragazzi hanno cercato di liberarsi dai costumi carnevaleschi identificati con l’infantile. Oggi ne creano, ispirandosi ai manga o al fantasy, in una sorta di rito di rinnovamento perpetuo dell’infanzia che si è fatto collettivo ed è curato maniacalmente perché quei costumi se li disegnano e se li cuciono da soli.

Postato giovedì, 27 maggio 2010 alle 18:35 da Gianfranco Manfredi


Sono anche curioso di vedere se nelle prossime fiere, vedremo degli Avatar o dei Twilight characters. Scommetterei di no, però. Negli anni scorsi, nonostante l’enorme successo di Harry Potter, i campi estivi sul maghetto eccetera eccetera, di cloni dei suoi personaggi alle Fiere del fumetto se ne sono visti pochi, forse perché si tratta da parte dei ragazzi di scelte più esclusive e “cult” che esprimono una differenza non un adeguamento ai modelli di mercato più diffusi e perché i personaggi dei manga e del fantasy proprio perché individualmente (uno per uno) meno forti consentono una maggiore libertà di interpretazione e ri-elaborazione creativa. Certo è che di questo fenomeno si è scritto poco. Al principio poteva venire considerato passeggero. Ormai però dura da una decina d’anni e si allarga invece che restringersi. Varrebbe la pena capirci qualcosa. Di sicuro non è un fenomeno indotto dalla televisione, nel senso che questa moda ne è completamente estranea, mai visto un programma televisivo che se ne sia occupato, nonostante sia stata proprio la Tv a diffondere a partire dagli 80, la manga-mania. Ma forse è un bene che non se ne occupi, perché così gli eterni adolescenti possono continuare a ritenerlo cosa loro, rito di gruppo inaccessibile tanto agli adulti quanto agli adolescenti “che fanno mercato”.

Postato giovedì, 27 maggio 2010 alle 18:55 da Gianfranco Manfredi


Che il ritorno a costumi adolescenziali non sia una crescente e più consapevole paura della vecchiaia e della morte?
Che non derivi anche da questo il rispolverato “fenomeno” Vampiro?
Ci travestiamo per essere altri. Ci travestiamo da ragazzini per dimenticare di essere vecchi (e si può essere vecchi a ogni età, come il contrario, del resto)
I Twilight Characters sono già esplosi lo scorso carnevale, ne ho visti diversi sul web travestiti da Edward e Bella, stesso capello, stesso pallore, stessi vestiti. Ovvio che non ci somigliava nessuno, neppure lontanamente. Perché manca il tratto distintivo, come per Zorro era la maschera o per Peter Pan la tutina verde.
Inutile dire che nessuno aveva la bocca sporca di sangue…
;)

Postato giovedì, 27 maggio 2010 alle 20:50 da Simonetta Santamaria


@ Massimo: il tuo richiamo notturno ha avuto seguito e, non potendo volare da te e bussare direttamente alla tua finestra, ho mandato il tutto via mail…
:)

Postato giovedì, 27 maggio 2010 alle 20:52 da Simonetta Santamaria


Mail ricevuta, Simonetta. Grazie mille.

Postato giovedì, 27 maggio 2010 alle 21:08 da Massimo Maugeri


Sempre prontissimo a curiosare, quando qualcuno di cui mi fido mi consiglia qualcosa. Così ascolterò il suggerimento di Gianfranco e sabato vado in fumetteria a comprare il primo episodio di Chobits. Poi se non mi dovesse piacere, pazienza.
Preferisco dar fiducia cento volte e sbagliare novanta volte piuttosto che non darla mai o quasi mai come fanno gli avari.

Postato giovedì, 27 maggio 2010 alle 21:56 da luciano / idefix


Gli interrogativi postati da Simonetta sono molto stuzzicanti. Non valgono solo per i ragazzini. Conosco persone della generazione precedente alla mia che ancora mimano se stessi da ragazzi, pensate solo ai cantanti… li conoscete anche voi. C’è chi , della mia generazione, e mi metto del mazzo, pur non simulando affatto un’età giovanile, restano confinati a vita nel ruolo di “esperti del giovanile”, a vario titolo: scrittori per giovani, fumettisti per giovani, attori, cantanti per giovani, come se dovesse restare loro marchio sociale una presunta giovinezza, il che significa che siccome non diventeranno (non diventeremo mai adulti) possono tranquillamente lasciarci, senza sentirsi minimamente in colpa, nel recinto dei giochi mentre loro si occupano di case serie da adulti. Qualcuno deve avere messo l’orologio indietro. A me, sinceramente sembra, come è stato accennato in una battuta del Crozza Live, che se il massimo del giovanile dev’essere vedere in testa alle classifiche mondiali di vendita dei dischi un vetusto LP dei Rolling Stones, vuol dire che persino il rock ha spostato l’orologio indietro, e allora vuol anche dire che questo nostro mondo della comunicazione sta davvero messo male: non è più Tages, il bambino sapiente, ma è un vecchiaccio rincoglionito che fa finta di essere un bambino! Ecco… il mio nuovo messaggio di mezzanotte.

Postato venerdì, 28 maggio 2010 alle 00:12 da Gianfranco Manfredi


Ho scritto di case serie invece che di cose serie… beh, non è un refuso perché di quello si preoccupano loro.

Postato venerdì, 28 maggio 2010 alle 00:14 da Gianfranco Manfredi


Io ho in orrore gli adulti che (nel tentativo di restar giovani) vampirizzano i ragazzini.
E penso che, per “comunicare” con gli adolescenti, la strada debba essere un’altra.
Non scimmiottarli succhiando i loro gusti musicali e modaioli, non vestendosi come loro (sono raccapriccianti i sessantenni agghindati come i tredicenni dell’ultima stagione), non imitandoli nel tentativo di compiacerli.
E nemmeno attaccarli, sfotterli o disprezzarli sistematicamente per la loro alienità.
Ma fare lo sforzo di conoscere il loro mondo e capirli, cercare di comprendere che ognuno di loro è un singolo e irripetibile essere umano: provare a dar loro consapevolezza e fiducia, rispetto e strumenti critici, ironia ed entusiasmo. Senza sciocche e passive indulgenze.

Postato venerdì, 28 maggio 2010 alle 09:20 da luciano / idefix


Un eterno bambino è il protagonista di un bel fumetto di Carlos Trillo e Eduardo Risso, “Vampire boy”. La storia inizia nell’antico Egitto e vede come protagonista un innominato figlio di Cheope, che ancora bambino si trova già costretto a fronteggiare congiure e trame di corte (ordite soprattutto da una sacerdotessa,amante infedele del padre). Un giorno una strana epidemia uccide il farone e i suoi seguaci,sopravvivono solo il bambino e la sacerdotessa. In breve scoprono che l’epidemia li ha resi immortali (e vampiri,anche se particolari!) e danno inizio ad un reciproco gioco al massacro,una caccia reciproca che si svolge nel corso dei secoli.
Il bambino diviene quindi testimone del passare delle epoche, incontra e conosce personaggi mitici e storici (come Merlino e Giovanna d’Arco),ma soffre a causa della sua condizione di eterno bambino. Soffre perchè condannato a non conoscere la gioie e i dolori del mondo adulto e quindi a vivere un esistenza incompleta.
Insomma,un fumetto un pò particolare,in cui si agitano sia l’archetipo dell’infante, che quello del vampiro.

Postato venerdì, 28 maggio 2010 alle 13:22 da Francesco Moretta


Scrivo per una piccola ma interessante segnalazione:il teatro Litta di Milano metterà in scena il Dracula di Dejan Dukovski,sotto la regia di Sandro Mabellini. Il tutto dal 14 Giugno al 3 Luglio.

Postato sabato, 29 maggio 2010 alle 10:58 da Francesco Moretta


In genere nei film di vampiri,dopo il primo morso e la prima succhiata, compare sempre una breve sequenza in cui il vampiro smette di succhiare e apre la bocca,come un nuotatore che si ferma per respirare.
Ora appurato che i vampiri non respirano,perchè nei film durante il morso, compare questa scena? Qual’è il suo significato?
Rivolgo questa mia domanda (un pò stupida,lo ammetto) agli esperti frequentatori del forum.

Postato sabato, 29 maggio 2010 alle 15:42 da Francesco Moretta


Forse per far entrare l’odore del sangue nel palato e poi nelle narici e dunque poterlo meglio gustare?

Postato sabato, 29 maggio 2010 alle 16:45 da luciano / idefix


@ Francesco Moretta
La tua domanda è tutt’altro che stupida.
Secondo me quella sequenza è finalizzata a mostrare la dentatura del vampiro di turno, così come nella sequenza di un tentativo di omicidio la camera inquadra l’arma utilizzata (la pistola che fuma, lo scintillio di un serramanico).
Può essere?

Postato sabato, 29 maggio 2010 alle 17:03 da Massimo Maugeri


@ Francesco. L’espressione di soddisfazione dopo l’oltraggio è una caratteristica del cattivo sadico. Nel caso del vampiro l’esibizione dei denti è qualcosa che lo avvicina nella raffigurazione, alla bestia feroce. Anche del lupo al cinema si mostrano dopo il pasto le zanne sporche di sangue. Più in generale, l’esibizione dei denti è segno di aggressività (ovviamente) ma anche simbolo della morte. Le figure del Libro dei Morti (testine dentate), le sculture maya, i teschi coi denti in bella vista, sono tutte visualizzazioni della Morte. Sui denti (l’attrazione e la repulsione per i denti) il racconto capolavoro resta Berenice di Poe. Il protagonista sta per sposare la sua bellissima cugina (Berenice, appunto). Sono cresciuti insieme, tanto di temperamento melanconico lui, quanto gaia e piena di energia lei. Ma poi Berenice si è ammalata gravemente di una malattia consuntiva , accompagnata da crisi epilettiche e stati catalettici. Lui fatica a guardarla, ormai, preferisce sognarla, com’era un tempo, e così si rende conto che il suo amore per lei non veniva dal cuore, è sempre stato fin dall’origine della mente. Di fatto deve riconoscere di “non averla mai amata” per se stessa, di non averla mai vista come “una Berenice vivente e respirante, ma come la Berenice d’un sogno.” Tuttavia, procede verso le nozze. Una sera in biblioteca se la vede apparire di fronte : estrema magrezza, occhi senza vita, senza splendore , “parevano senza pupille”. Così lui non osa più fissarli e si concentra sulle labbra sottili e serrate. “In un sorriso singolarmente significativo, i denti si schiusero lentamente alla mia vista. Volesse Iddio che non li avessi mai veduti, o che, vedutili, fossi morto!” Non dico come prosegue e finisce il racconto, perché chi lo ha letto lo sa e chi non l’ha letto, è bene che se lo legga senza che io lo rovini con un riassunto. E si può anche rileggerlo, anche se lo si è letto molte volte, perché la magia di Poe è che i suoi racconti sono pieno di infinite sottigliezze, e ogni volta che li si rilegge, vi si scopre qualcosa di nuovo. Il cinema ci offre immagini prefabbricate, simboli obbligati e ripetuti, anche se esplorati in migliaia di varianti, la Letteratura ci conduce a dare forma come lettori al non rappresentabile, proprio com’è non rappresentabile il Sacro (nonostante secoli di pittura sacra). E c’è tanta più profondità in questa evocazione letteraria eternamente sospesa che accumula dettagli descrittivi ossessivi, ma quando poi arriva a quello decisivo (i denti) sospende la descrizione restituendocene solo l’effetto: ” Volesse Iddio che non li avessi mai visti, o che, vedutili, fossi morto!”

Postato sabato, 29 maggio 2010 alle 18:31 da Gianfranco Manfredi


Il cinema (e in questo l’horror è uguale al porno) raggiunge il suo climax espressivo mostrandoci dettagli in primo piano, ingigantiti dalle dimensioni dello schermo. Ci costringe a guardare. La letteratura (la grande letteratura) ci costringe ad evocare il non rappresentabile. Ed è così che ci turba. Non con l’evidenza, ma con la sua negazione, conducendoci dall’assenza dell’oggetto alla presenza inquietante della nostra percezione interiore.

Postato sabato, 29 maggio 2010 alle 18:41 da Gianfranco Manfredi


Ringrazio Di nuovo Francesco per aver posto la domanda, anche in quanto la giornata di sabato e quella di domenica sono quelle tradizionali dei supplementi letterari, delle pagine della cultura, e di magazine pieni di recensioni librarie. Non so se accade lo stesso anche a voi, ma io quando li leggo divento più malinconico di Poe. Leggo, leggo e rileggo tutte queste chiacchiere sulla letteratura , faticando a rinvenirvi qualcosa di letterario. Oggi si può leggere un’intervista di Maurizio Bono a Tiziano Scarpa nella quale quest’ultimo definisce la sua differenza da Wu Ming, con queste parole: “Wu Ming, di cui apprezzo molto l’invito a pensare in grande, dice Omero, io dico Catullo.” Ohibò… che il pensare in grande sia un invito alla megalomania? Tra Omero e Catullo, tirati in ballo così a sproposito, non spira, nel caso, l’aria di chiuso delle aule di liceo? Ora: sarà che mi sono occupato molto di musica da giovane, ma so che quando due musicisti parlano di musica tra loro, parlano di accordi, di passaggi, di armonie, di sospensioni ritmiche. La discussione se siano meglio i Beatles o i Rolling Stones la lasciano volentieri a chi la musica la ascolta, ma non la fa. perché non si può discutere allo stesso modo tra scrittori? Forse perché alla scrittura oggi non è richiesta competenza. Non è per fare di nuovo i complimenti a questo forum, ma qui si parla di simboli, di odori, di denti, dettagli da cui nascono molte stimolanti (per me lo sono) questioni e interrogativi sul modo e sul senso dello scrivere. Quant’è avvilente il dibattito letterario da giornale…. è davvero inevitabile che debba essere così? Si può invitare a pensare in grande quando ci si esprime così in piccolo?

Postato sabato, 29 maggio 2010 alle 19:04 da Gianfranco Manfredi


Su “Berenice”:
-Nel film “Due occhi diabolici” nell’episodio “Il gatto nero” vi è una breve
scenetta che omaggia il racconto di Poe; ad interpretarla è il mago degli effetti speciali Tom Savini. (Nell’episodio compaiono anche riferimenti ad
scritti di Poe)
-Richard Corben realizzò un allucinata versione a fumetti di “Berenice”
per il volume “L’antro dell’orrore”, ambientando la vicenda ai nostri
giorni.Questo in parte tradisce l’originale di Poe, ma il carattere
simbolico dei denti rimane.
Gianfranco, (ma anche Pezzini,Luciano,Maurizio ecc,ecc.) cosa ne pensi di Ambrose Bierce?Io trovo la sua prosa molto potente anche al giorno d’oggi, mi ricordo di un suo racconto di guerra che era narrato da un bambino sordo,dal suo punto di vista ed è ancora oggi una delle letture più visionarie che ricordi.

Postato sabato, 29 maggio 2010 alle 19:27 da Francesco Moretta


Grazie anche per le risposte che mi avete fornito,le vostre ipotesi sono interessanti. Sarebbe interessante sapere se chi per primo concepì la rappresentazione filmica dell’atto vampirico,era più o meno conscio di veicolare certi significati o fece tutto in modo inconscio.
Non c’entra niente con i vampiri,ma stanotte su raitre per “Fuori orario” danno un film che mi sento di consigliare,una rappresentazione particolare del mito arturiano intitolata “Merlin”.Non è un film con effetti speciali,ma una pellicola dai rimandi teatrali,stravagante e onirica.

Postato sabato, 29 maggio 2010 alle 19:55 da Francesco Moretta


Il regista è Adolfo Arrieta. (Mi ero scordato di scriverlo)

Postato sabato, 29 maggio 2010 alle 19:58 da Francesco Moretta


Se sarò ancora sveglio e se Ghezzi non mi avrà addormentato sul divano con la sua solita introduzione, mi guarderò Merlin. Riguardo a Bierce , è un vero maestro della sottrazione. Dal punto di vista tecnico e stilistico, tutti dovrebbero studiarlo, se non altro per capire che ogni testo che si scrive non è definitivo per il semplice fatto che è stato scritto, ma che richiede revisione e limatura, cioè tagliare e tagliare finché resta non il nocciolo del contenuto, ma la forza dell’espressione. In questo il cinema è maestro, perché qualunque regista sa ( o dovrebbe sapere) che un conto è il materiale girato, un altro il montaggio del materiale, e il montaggio procede per tagli. Caratteristica di questa stagione letteraria invece è che molti scrittori non sanno tagliare e se qualcuno gli chiede di farlo, si offendono, identificando il taglio con la censura, mentre si tratta di due cose completamente diverse, persino opposte. La censura , nella comunicazione contemporanea, non procede soltanto tagliando, anzi soprattutto aggiungendo a dismisura. Un’opinione fondata, nel coro che si viene così a creare, viene sommersa da una caterva di opinioni insensate, per cui alla fine tutto risulta “opinabile”, ma sarebbe più onesti dire “insensato”. Nell’orgia e nell’abuso delle parole , quelle importanti e davvero espressive, vengono così soffocate. La sorveglianza degli scrittori su quanto essi stessi scrivono, cioé sulla loro prosa, diventa quindi fondamentale, non come forma di autocensura, ma come ricerca di efficacia espressiva.

Postato sabato, 29 maggio 2010 alle 21:09 da Gianfranco Manfredi


L’ultimo commento di Manfredi andrebbe preso e fatto leggere nelle scuole (non quelle di scrittura ma proprio le “scuole normali”, quelle dell’obbligo).
Gli spunti sono tanti e preziosi:
- la sottrazione che non è impoverimento ma arricchimento e rafforzamento (lo insegna il rock…canzoni memorabili e potenti non MALGRADO ma PROPRIO PERCHE’ durano tre minuti),
- d’altro canto, questa non è una regola fissa (nella creatività NON ci sono leggi assolute): basta vedere opere come Gargantua od Horcynus Orca, costruite per bulemico accumulo),
- scrivere un racconto, un romanzo, un saggio, una poesia non è come suonare jazz dal vivo: scrivendo si può improvvisare in modo magmatico nella prima rovente stesura. Ma poi si deve ricorrere al “freddo” cesello della correzione e delle revisioni,
- mai sconvolgersi se qualcuno suggerisce modifiche al nostro testo: può aver ragione,
- la censura che fa scomparire un testo o un’immagine non è più quella tradizionale, quando si usavano le forbici o il fuoco. Adesso è più intelligente ricorrere all’ “effetto foresta”: ciò che devo censurare non lo faccio sparire ma lo confondo in mezzo a mille e mille e centomila altre cose simili,
- ecco allora che l’attività di scrittura è solitaria (ma può anche essere collettiva, come La mente in/visibile, di cui discutiamo nel post http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/05/27/la-camera-accanto-17/) ma poi è preziosissima la fase di “cavie”. In cui il testo scritto viene fatto leggere (con ampio diritto/dovere di spietata critica) ad alcuni lettori/lettrici.

Postato domenica, 30 maggio 2010 alle 12:29 da luciano / idefix


Di ritorno da una serata (magnifica) dedicata ai Vampiri e una giornata al Twilight ItaCon; dopo questa full immersion avrei tante di quelle cose da dire, e sono quasi tutte riflessioni negative, che preferisco provare a sintetizzare senza affondare troppo il coltello, che poi mi dicono che sono cattiva…
La convention di Roma. Delusione per non aver venduto abbastanza pass. Be’, se si considera che l’accesso all’intera convention e a tutti gli eventi costava 250 euro, mi pare ovvio che non tutti se le possono permettere. Gli altri pass, a costo più ridotto, da 170 a 50, erano decisamente riduttivi.
Vietato fare foto, vietato chiedere autografi non autorizzati. Tutto era incanalato in una sequenza perfetta di eventi in cui ‘ ogni mossa era controllata. Perfetto, è così che funziona una convention. Solo che a me non piace.
I protagonisti ovviamente non c’erano. Loro per contratto devono partecipare solo a eventi ufficiali. C’erano altri attori (tutti maschi), molto disponibili (nei limiti del consentito dall’organizzazione). In sala al momento delle domande dal pubblico c’erano sì e no un centinaio di “Twilighters” (i posti erano 1200); tutte donne, buona parte era over 25. Quando nel breve documentario su Montepulciano e i luoghi in cui hanno girato parte di New Moon, appare Pattinson/Cullen in sala si alzano gridolini. Il portone del comune è stato soprannominato “il portone di Pattinson” (povero sindaco). Una ragazza (non certo adolescente) dice “Robert (Pattinson) è l’amore. E’ quello che combatte per te, che muore per te…”
E mi pareva di averle dette ’ste cose, forse anche in questo thread. Perché il sospetto è diventato realtà.
Signori, qui non c’è nessun fenomeno Twilight, e neppure Edward Cullen, il vampiro di cui dicono tutte di essere innammorate: no, qui siamo davanti al fenomeno Robert Pattinson.
L’attore, non il vampiro.
Se ci fosse stato lui a questa convention, non sarebbe bastato il Marriot a contenere le fans. Invece io ho visto solo un centinaio di ragazzotte sognatrici, qualcuna avanti negli anni probabilmente ittiopriva (si comprende il senso?) che saltellava sulla sedia ogni volta che qualcuno di questi bellocci attori sparava la sua battuta di turno.
Sono cattiva? Lo so. Ormai con Giuseppe Cozzolino, presidente dell’associazione Mondocult con cui faccio spesso presentazioni, giochiamo a Sbirro buono, Sbirro cattivo. Io sono il secondo, ovviamente.
A nessuna interessava nulla del romanzo, della Meyer, di parlare di Vampiri, tant’è che alla conferenza sui Vampiri erano un numero imbarazzante (al negativo).
Avrei chiesto quante di loro hanno letto Dracula, quante conoscono almeno uno scrittore italiano che ha narrato di vampiri, chi ha mai sentito parlare di Carmilla o di Bela Lugosi… ma non ho potuto.
Twilight è un fenomeno importato, che hanno frammentato per comodità e adottato solo un pezzetto: a nessuno interessa cosa c’è intorno a quel pezzetto.
Noi non siamo capaci di costruire un fenomeno perché siamo circondati da gente incapace di pensare autonomamente. L’ho già detto e lo ribadisco. Crudelmente.
Ci sarebbe tanto altro da raccontare… Magari a episodi. Come Twilight.
Chiudo con:
A) Quando al nostro tavolo, in attesa di iniziare la conferenza, s’è seduto l’attore che impersona il padre della schiatta dei licantropi (un bel nativo di una certa età e non un ragazzetto imberbe) io ho dichiarato tutta la mia preferenza per i pelosi lupi mannari piuttosto che ai vampiri twilightiani che, come ha detto lui, “glitterano” al sole.
B) L’unica foto che avrei voluto farmi fare era con un bodyguard americano che pareva un armadio a muro, vestito di nero, pelato e con l’aria truce, di quelli che con un pugno in testa ti sotterra di mezzo metro. Quello sì che era figo! Ma non ho osato disturbarlo.
Peccato. Mi pento.
;)

Postato domenica, 30 maggio 2010 alle 20:53 da Simonetta Santamaria


caro Luciano, hai ragione che “non è una regola fissa”, infatti non sono affatto contrario al “romanzo fiume” , anzi nel mio piccolo sono sempre stato un cultore del massimalismo contro il minimalismo (dopotutto Magico Vento lo si può anche leggere come un romanzone a puntate ormai di qualche decina di migliaia di pagine!). Però l’essere generosi nella scrittura non significa non cercare la sintesi efficace, in ogni singolo istante. Con le pagine di Magico Vento che ho buttato via, avrei potuto scrivere un’altra serie! Non le ho tagliate perché erano poco interessanti o malriuscite, ma per mantenere un certo ritmo narrativo che, in fumetto ancor più che in letteratura, richiede sintesi perché il testo definitivo risulti espressivo. Mi ha molto colpito, di recente, una riflessione che fa il critico Giulio Ferroni nel suo saggio “Scritture a perdere” (Laterza), un libro uscito da poco. Analizza (con una certa severità) un romanzo della Mazzantini che non ho letto e cita qualche passo nel quale la scrittrice per descrivere una certa cosa usa tre metafore una dopo l’altra. Ora: quando cominciavo a scrivere romanzi, ho avuto la fortuna di conoscere Grazia Cerchi, il più importante editor italiano all’epoca, la quale mi ha insegnato che se a un termine affibbio tre aggettivi, vuol dire che non ho trovato l’aggettivo giusto. Figuriamoci con le metafore! Di prima scrittura uno può anche metterne tre di seguito, ma in sede di revisione, dovrebbe scegliere la più forte e la più pregnante. Se nessuna delle tre regge da sola, allora è meglio che ne escogiti un’altra. Mica si può scrivere lasciando in pagina delle opzioni perché poi scelga il lettore a suo gradimento! Sarebbe come se in un disco uno mixasse tutti gli strumenti allo stesso livello e poi dicesse all’ascoltatore: concentrati sullo strumento che ti piace di più. Così una canzone diventa un casino. Così una “comunicazione di senso” la incasiniamo in partenza. A me è capitato un fatto analogo leggendo la sceneggiatura di un amico per una storia gialla. Nella sceneggiatura, l’assassino aveva tre o quattro moventi! Insomma… Agata Christie ha sempre insegnato che il movente dev’essere uno solo, quello più forte e decisivo e coerente alla storia e ai delitti. Se uno scrittore di moventi ne elenca tre, significa che sta parlando di moventi ipotetici, ma che non ha trovato quello giusto, che magari è un quarto!

Postato domenica, 30 maggio 2010 alle 21:01 da Gianfranco Manfredi


Cara Simonetta, ho postato prima di averti letto. Attendiamo tutti dei supplementi di cronaca. Certo che… 250 euro per una convention?! Ho letto bene? Spero che almeno ti abbiano pagato.

p.s. Nel post di prima ho scritto Grazia Cerchi, invece di Grazia Cherchi. Sarà che un editor alla sua altezza lo si cerca ancora, ma non lo si trova.O forse non lo si cerca nemmeno. L’editor per le case editrici pare sia diventato un costo non necessario, purtroppo se ne vede l’assenza, leggendo.

Postato domenica, 30 maggio 2010 alle 21:10 da Gianfranco Manfredi


Wilcock (mi pare) nel suo Il reato di scrivere, nota che se a uno sceneggiatore (o scrittore) viene chiesta una modifica , solo lo sceneggiatore (o scrittore) mediocre si incazza. Non si incazza per la censura, ma perché non gli viene in mente un’alternativa più convincente.

Postato domenica, 30 maggio 2010 alle 21:19 da Gianfranco Manfredi


Credo che in quella convention,dati i prezzi i veri vampiri dovevano essere gli organizzatori! Non è che per caso figurava anche un certo ingegner Nosferatu?
Dato che Simonetta a citato i licantropi,sarebbe interessante aprire una breve parentesi sulla figura del lupo mannaro. (Tanto più che alcune figure del folclore come il Vukovlad o il Farkaskoldoi mischiano elementi sia del vampiro che del lincantropo)
Inoltre nel folclore popolare la figura del lupo mannaro è più diffusa di quella del vampiro. (Nel paese natale di mio padre,erano presenti molti uomini malati di licantropia.Mio nonno ne incontro uno e io sono letteralmente cresciuto sentendomi raccontare tale storia.)

Postato domenica, 30 maggio 2010 alle 21:26 da Francesco Moretta


Volevo dire ha citato,invece del refuso a citato. Scusate la confusione.

Postato domenica, 30 maggio 2010 alle 21:27 da Francesco Moretta


Altro errore, intendevo il folclore popolare italiano, sigh!Credo di essere un pò partito (Per dove non so,se ci arrivo ve lo dico).

Postato domenica, 30 maggio 2010 alle 21:30 da Francesco Moretta


Ho fatto un errore anch’io. Ho scritto che la mia serie a fumetti Magico vento è di qualche decina di migliaia di pagine, invece alla fine di quest’anno si concluderà a quota 13.000 circa. Mi sento male a pensarci. Ricevo quotidianamente messaggi di appassionati lettori che chiedono che la serie continui e ne lamentano la chiusura. Sinceramente, penso che avrei dovuto tagliare di più (qualche episodio per intero) e finirla prima, anche se per me è stata e resterà un’esperienza indimenticabile.

Postato domenica, 30 maggio 2010 alle 22:32 da Gianfranco Manfredi


@ Gianfranco: mi hanno pagata??? E magari!! Macché, i costi dei pass servivano per gli attori e tutto il circo, non me. E pensare che sono stata invitata da loro, e ci ho appizzato 400 km A/R e 50 euro di diesel… Appena (e se) qualcuno mi pagherà per parlare (o per scrivere) giuro che pago io da bere a tutti!!
;)
@ Francesco: è vero, le figure vampiro/licantropo spesso di intrecciano. Anche la famosa Bestia di Gevaudan, in Francia, ha connotazioni che ne fanno una creatura mezza e mezza. Così mio figlio, nel mio Vampiri, lo ha magnificamente disegnato come un licantropo in stazione semieretta, naso schiacciato e orecchie allungate da pipistrello, e due grossi canini.

Postato lunedì, 31 maggio 2010 alle 01:48 da Simonetta Santamaria


Quando gli/le editor della mia casa editrice (la El/Einaudi Ragazzi) mi fanno qualche critica o mi propongono qualche modifica al testo, non mi offendo mai.
Anzi.
Perchè SO (è una delle poche assolute certezze della mia vita) che le critiche sono SEMPRE utili, sempre, sempre e sempre. Che poi le accogliamo oppure no, ci spingono a guardare di nuovo ciò che abbiamo fatto. E ce lo fanno fare attraverso uno sguardo esterno, diverso dal nostro. Affinchè possiamo vedere cose che prima non avevamo visto e che forse non avremmo mai notato senza quelle critiche.
Offendersi per le critiche è, secondo me, sciocco e ridicolo. Ci si può incazzare solo in un caso: quando sono fatte pubblicamente, in malafede o da persone incompetenti, con lo scopo di colpire e danneggiare.
Ma se no…ben vengano.

Postato lunedì, 31 maggio 2010 alle 11:34 da luciano / idefix


La bestia di Gévaudan
È una creatura che ha terrorizzato la zona del Gévaudan (oggi Lozère), nell’area centro-meridionale della Francia, tra il 1764 e il 1767, uccidendo e facendo a pezzi circa 116 persone più un numero imprecisato di animali. La prima vittima ufficiale della bestia fu la quattordicenne Jeanne Boulet, uccisa il 30 giugno 1764 nei pressi del villaggio di Hubacs.
Le vittime erano per lo più donne e bambine, quattordici delle quali furono trovate decapitate. Anche se le cifre ufficiali parlano di 116, con ogni probabilità furono molte di più. A un certo punto non furono più conteggiate per volontà di Luigi XV, che ordinò la censura sulla vicenda, vietando anche di stilare certificati di morte.
Ancora oggi le fattezze della bestia non sono certe. Secondo le testimonianze di alcuni superstiti, pare che si trattasse di un grosso animale col corpo ricoperto da peluria nera e due grosse zanne. Subito tra la gente del luogo si diffuse il terrore del vampiro e del lupo mannaro, anche perché alcune caratteristiche delle aggressioni non erano certo ascrivibili ad animali, come vittime denudate i cui abiti integri e non lacerati erano disposti poco distanti, oppure decapitazioni dove la testa era inequivocabilmente tranciata di netto.

Postato lunedì, 31 maggio 2010 alle 13:40 da Simonetta Santamaria


Simonetta, per curiosità, dove hai trovato le informazioni dell’ultimo paragrafo (vittime nude e abiti ripiegati , decapitazioni) ? A te e a chi ha studiato il mito del lupo mannaro, vorrei anche chiedere un’altra cosa. Abbiamo già parlato qui delle obiezioni razionali alla figura del vampiro e delle discussioni infinite su problemi del tipo: come fa a uscire dalla tomba? Come morde? ecc. Ora riguardo all’uomo lupo, il cinema grazie allo sviluppo degli effetti speciali ha fatto un uso assai spettacolare della metamorfosi da uomo a lupo rendendocela sempre più realistica, però nella tradizione dl tempo come si spiegavano le metamorfosi? Oltre a comportare una totale rimappatura (diciamo così) degli organi interni , ci sono delle questioni specifiche da considerare: i lupi hanno quarantadue denti. Un vampiro può anche ritrovarsi con i canini che spuntano, magari per ritrazione delle gengive, ma sempre con trentadue denti resta. Come è possibile che all’uomo lupo ne spuntino (e da dove?) dieci in più? E’ evidente che qui si va ben oltre alla metamorfosi, diventa una mutazione “creazionista” e ben più sorprendente di altre. Le ali che spuntano, ad esempio, hanno comunque una base d’origine nella scapole che ne conservano “memoria corporea”, egualmente la metamorfosi totale o parziale in pesce sono il retrocedere a un gradino precedente dell’evoluzione. Ma nel caso del lupo mannaro queste condizioni non si danno. O si danno soltanto per la coda o per la postura. Come la mettiamo coi denti? Il più bel romanzo che io abbia letto sui licantropi è quello scritto da Jack Williamson Il figlio della Notte (Darker Then You Think, 1948) che venne tradotto in Italiano dalla non più esistente Libra e fu poi riproposto dagli Oscar di Urania, ma che da molti, troppi anni, è ormai introvabile (c’è da augurarsi che qualcuno lo ripubblichi). Qui Williamson risolve il problema parlando di una doppia evoluzione, cioè di una specie di crocicchio genetico a partire dal quale da un lato si sviluppano gli umani, dall’altro una razza parallela incrocio tra umani e canidi. Una spiegazione simile è stata trovata da altri scrittori riguardo ai vampiri che sarebbero una razza “altra” di origine umano-rettilica e che avrebbe addirittura la sua radice nei draghi primigeni (cioè nei dinosauri) i quali sarebbero, in sostanza, scomparsi perché evoluti in forma antropomorfa. Nel caso degli uomini lupo, quali discussioni avvennero nella comunità scientifica? Il caso più noto e clamoroso fu certo quello verificatosi in età napoleonica , del Ragazzo selvaggio dell’Aveyron, bambino misterioso cresciuto nei boschi dov’era stato abbandonato e allevato da una comunità di lupi (proprio come nel mito di Romolo e Remo) . Il ragazzo venne educato al linguaggio e alla vita civile , anche se continuò a soffrire del “richiamo della foresta”. In lui si erano notate anche delle distorsioni fiche (agli arti) dovute alla postura assunta tra i lupi. Truffaut dedicò un bellissimo film a questo documentatissimo episodio storico, che rappresentò anche un’esperienza fondamentale per lo sviluppo degli studi pedagogici, costringendo a rivedere molte convinzioni pedagogiche classiche nate dall’Emilio di Rousseau. Di nuovo, anche nel caso dell’uomo lupo, possiamo vedere come l’elaborazione del fantastico, in epoca moderna, sia inseparabile dallo sviluppo del pensiero scientifico.

Postato lunedì, 31 maggio 2010 alle 15:32 da Gianfranco Manfredi


Ho scritto “distorsioni fiche”, anziché “fisiche”. Vabbè. Oltre ai denti andrebbero comunque considerate anche le trasformazioni genitali, perché il pene di un umano e quello di un canide non sono proprio la stessa cosa. Mi rendo conto che un altro aspetto paradossale e scientificamente poco spiegabile è non tanto la crescita abnorme di peli , ma la loro ritrazione quando la creatura ridiventa uomo. In quel momento, i peli non cadono, cioè non restano a terra come nei vecchi negozi di barbiere, ma vengono risucchiati dal corpo. Insomma oltre al problema della metamorfosi in lupo, andrebbe considerato quello del “ritorno all’umano” che è anche più complesso. La psiche del ragazzo selvaggio poté essere curata, ma le sue artrosi no.

Postato lunedì, 31 maggio 2010 alle 15:43 da Gianfranco Manfredi


I lupi del Gévaudan, per quanto ho letto, erano dei lupi (almeno tre, secondo gli studiosi) di aspetto davvero insolito: molto più grossi di un normale lupo, ma più piccoli di una tigre. La grandezza era più o meno quella di un vitello. Può essere dunque storicamente fondato sostenere che si trattasse di una diversa razza canide , con caratteristiche del tutto specifiche. Resta tuttavia davvero impossibile che tali lupi potessero sfuggire alle cacce trasformandosi in umani, tantomeno che potessero portarsi dietro un’ascia per decapitare le vittime… interessante invece la leggenda, condivisa dal vampiro, secondo la quale sarebbero invulnerabili alle pallottole (a meno che d’argento e a volte anche decorate da una croce). Parrebbe una doppia giustificazione ad uso del cacciatore inetto (che non becca il bersaglio) e che magari vuol farsi pagare di più (le pallottole d’argento costano una cifra) , e che si sente con le spalle più coperte se coinvolge nel business la Chiesa, ma non voglio avvilire con una storia di tangenti il mito, per quanto… oggi contro l’uomo lupo si farebbe intervenire la Protezione Civile, con gli annessi e connessi che ben conosciamo.

Postato lunedì, 31 maggio 2010 alle 15:57 da Gianfranco Manfredi


D’altro canto, bisogna anche ricordare che Dracula è sempre in compagnia dei lupi e che sbarca in Inghilterra sotto forma canide. Dunque il lupo mannaro è “in realtà” soltanto una delle tante possibili incarnazioni dello spirito vampirico? Nel mito del lupo mannaro la cosa non è così trasparente, anzi se c’è un indubbio legame è con la figura dell’Uomo Selvaggio dei Boschi , cioè non un morto che ritorna, ma un bambino abbandonato in fasce nei boschi oppure un adulto che sopravvive come una sorta di eremita fuori dal mondo civile, salvo rare incursioni, comunque vivo e non resurgente.

Postato lunedì, 31 maggio 2010 alle 16:14 da Gianfranco Manfredi


Ma allora, se è una creatura vivente, perché i proiettili non gli fanno un baffo? Insomma, alla fine, questo insieme di elementi piuttosto incoerenti, e ben al di là e al di qua dell’ossimoro vampirico, può spiegare il perché in genere i romanzi sull’uomo lupo (con pochissime eccezioni) risultano piuttosto deludenti per i lettori? E’ certo che le attualizzazioni (a differenza di quelle vampiriche) risultano talmente implausibili da non reggere nemmeno alla trasposizione filmica . Basti pensare al bruttissimo Wolf con Nicholson, ai lupi finanzieri di Wall Street, e ad altre belinate che il cinema recente ha cercato senza grande successo di propinarci. Nella gerarchia dei mostri, rispetto al Principe Vampiro e allo Schiavo Zombi (tanto mitici quando sociali) l’Uomo Lupo fa proprio la parte del cane.

Postato lunedì, 31 maggio 2010 alle 16:24 da Gianfranco Manfredi


Resta ovviamente indimenticabile l’ironico Lupo Mannaro a Londra di Landis. Però gran parte del suo straordinario successo all’epoca, fu dovuto agli effetti speciali che (con molta maggiore spettacolarità che nel pur affascinante The Howling) colpivano lo spettatore per la prima volta. Rivisto oggi quel film si apprezza soprattutto per la regia, l’ironia sparsa a piene mani, e qualche bella idea (l’impazzimento del lupo a Piccadilly Circus in mezzo al traffico metropolitano). Però l’insieme risulta molto datato, in quanto non c’è cosa che invecchi più rapidamente al cinema, dell’Effetto Speciale, il che dovrebbe farci riflettere sul destino negli anni a venire, di prodotti come Avatar. Chiunque si consegni all’effetto speciale, può conoscere un clamoroso successo istantaneo , grazie allo Stupore del “mai visto prima”, ma spazio pochi anni tutto ciò che ci appariva avanguardistico, ci risulta inesorabilmente obsoleto.

Postato lunedì, 31 maggio 2010 alle 16:34 da Gianfranco Manfredi


@ Gianfranco: le info su Gevaudan proprio non mi ricordo, nello specifico: ho letto tante di quelle riviste, libri e siti in 4 mesi di ricerche… Però se riesco a fare mente locale ti informo senz’altro.
Sul mannaro: non ho ancora approfondito sulla la figura dell’uomo lupo perciò posso andare a braccio. Da quelllo che so, l’argento ha lo stesso effetto venefico che per i vampiri ha l’aglio o l’acqua santa: provoca ustioni, ulcerazioni e in grosse dosi la morte. Le comuni pallottole non è che non gli fanno niente, piuttosto gli fanno poco.
Quella del mannaro è sì una vera e propria mutazione, da umano a canide. Si modifica l’intero scheletro: mascella e mandibola si protrudono, lasciando spazio ai denti che normalmente mancano, i canini si trasformano in robuste zanne. Mani e piedi si trasformano in zampe artigliate e perfino la struttura della gamba (femore e tibia fanno un angolo opposto a quello umano) si stravolge.
Il fatto che spesso si accompagni al vampiro è perché anche il lupo è una creatura della notte. Quando l’umano dorme e sparisce, le altre creature prendono possesso del mondo.
Un giorno uno scienziato pazzo mise insieme i DNA di quelle più feroci al mondo per crearne una sola: la più cattiva.
E nacque l’uomo.

Postato lunedì, 31 maggio 2010 alle 16:54 da Simonetta Santamaria


Gianfranco: Nel medioevo la possibilità che i lupi mannari potessero cambiare fisicamente forma era al centro di un dibattito.
Le tesi erano due:
-Il lupo mannaro può realmente cambiare forma, mantenendo però una
dentatura umana (a volte anche zampe e viso mantenevano lievi tracce
di umanità, come nel caso di Peter Stubb,che asserì di aver cercato
di strangolare un ragazzo in forma lupesca).
-Il lupo mannaro non può realmente mutare, la mutazione è in realtà un
illusione creata dal diavolo,che in quanto inferiore a Dio non può
realmente concedere il potere di trasformarsi ai suoi servi.Oppure il
licantropo separa la sua anima dal corpo grazie ad un unguento ed è
questa ad assumere sembianze lupesche.
-I licantropi del folclore sono vulnerabili a armi e pallottole normali,il
loro morso non è infettivo. Si diventa lupo mannaro se:
-Si nasce a Natale.
-Si è il settimo figlio di un settimo figlio.
-Si è bevuta l’acqua nell’orma di un licantropo.
-Si è stretto un patto con il diavolo:qui la mutazione avviene o tramite
un unguento o indossando una pelliccia o cinta di pelle di lupo.
-Si è dormito all’aperto sotto la luna piena il venerdi santo.
Se un licantropo viene ferito anche in forma umana riporta la stessa ferita.
-Secondo altre credenze,il pelo cresceva dentro il corpo e il licantropo si
tramutava ribaltandosi come un guanto. (nel cinquecento a Pavia,un
poveraccio fu smembrato per provare questa tesi)
P.S. La tesi dei vampiri discendenti dei grandi rettili è un riferimento a “Dracula signore del tempo” di Aldiss?

Postato lunedì, 31 maggio 2010 alle 17:04 da Francesco Moretta


Resta invece quasi immutato il fascino de lo Squalo (che non a caso ci viene costantemente ripropinato in televisione in tutte le sue propaggini, anche le più scadenti). Con lo Squalo si può dire che la Bestia ritrova la sua autonomia. Per far paura non ha più bisogno di mescolarsi all’Umano. E’ anzi la sua natura di Bestia assoluta e irriducibile alla nostra Specie, che ci inquieta. E’ il simbolo, se vogliamo, di come ormai la natura ci sia diventata assolutamente estranea. Si mettono in scena due violenze contrapposte: quella umana CONTRO la natura (quasi sempre ci sono delle violazioni all’equilibrio naturale e sfruttamento della natura e disastro ecologico all’origine della vendetta delle Creature) e quella della natura CONTRO l’uomo. L’idea invece che la violenza nell’uomo moderno e civile sia emergenza del rimosso selvaggio che lo fa retrocedere evolutivamente, pare invece scomparsa o condannata all’irrilevanza simbolica. Noi oggi sappiamo che la nostra violenza è anche e soprattutto frutto della Civilità e della Tecnologia , se uno ci viene a raccontare che invece è figlia di una nostra origine selvaggia che non siamo riusciti compiutamente a padroneggiare/superare, beh questa spiegazione, più o meno consciamente, la sentiamo falsa e anche un po’ ridicola. Che diamine! Gli animali mica hanno inventato la Bomba Atomica! Nello stesso modo si può spiegare il successo del Serial Killer, che è tipica figura Civile, di chi uccide non in preda a un raptus ingovernabile, ma elaborando un piano tanto folle quanto lucido e ripetitivo nell’esecuzione. Ripetitività in cui sta la Firma d’Autore sui delitti compiuti. Se uno non Firma i suoi delitti, perché sono colpa del Lupo, cioè di uno sdoppiamento metamorfico di cui il soggetto perde persino memoria al risveglio, beh allora che gusto c’è ad ammazzare? Seguire l’istinto selvaggio, obbedirgli, è per noi diventato un richiamo positivo, persino sentimentale (Va dove ti porta il cuore), non è più riconoscibile come Negatività In-Umana. Difatti nei momenti più intensi dei film sull’Uomo Lupo, ci si sofferma su quanto sia esaltante riassaporare il mondo degli odori perduti (e questo farà contento Gianni) , delle sensazioni tattili e gustative ( la vista invece se diventa più acuta però regredisce in definizione e in colore) , delle pulsioni sessuali predatorie (finalmente il sesso si libera dalla prestazione ginnica!), di sensi aggiuntivi (il fiuto infallibile, la percezione anticipata del pericolo, l’orientamento nel buio) , cioè di tutto ciò che la Civiltà ci ha negato. Ma così l’Uomo Lupo, come può far paura? Può al massimo suscitare rimpianti per quanto abbiamo perduto e che, ci piaccia o no, non ritroveremo mai più.

Postato lunedì, 31 maggio 2010 alle 17:04 da Gianfranco Manfredi


@ Simonetta e Francesco. Grazie per i chiarimenti, che ovviamente incasinano non poco. Lo smembramento di Pavia, che ignoravo, documenta di nuovo come la trasformazione dei simboli sia accompagnata nella modernità dallo sviluppo della scienza. Sì, il riferimento che facevo alla stirpe vampirica primigenia, era da Aldiss , la cui caratteristica come scrittore è sempre stata quella di coniugare il racconto scientifico con l’horror (o il fantastico) . Ho tradotto, quand’ero ancora studente, “Frankenstein Liberato” di Aldiss per la Bompiani. In quel romanzo, la Creatura, persa nei ghiacci, va in realtà incontro a un’astronave. L’intero romanzo si fonda su una distorsione spazio-temporale. E’ molto interessante.

Postato lunedì, 31 maggio 2010 alle 17:17 da Gianfranco Manfredi


Se il Lupo Mannaro è il settimo figlio di un settimo figlio, vuol dire che almeno in occidente, non ne esistono più. E manco un barbone oggi beve l’acqua stagnante in un’orma. Insomma, è davvero un problema oggi poter resuscitare il mito del lupo mannaro, perché la nostra vita non corrisponde più a quelle condizioni.

Postato lunedì, 31 maggio 2010 alle 17:22 da Gianfranco Manfredi


Nella serie della Mayer come in quella di Underworld, nel confronto tra Vampiri e Licantropi, c’è più che una venatura razzista. I licantropi , in virtù della loro connessione con le bestie, sono una specie inferiore. Quanta distanza dalla demonologia che citava Francesco! Là il lupo , illusionisticamente creato dal demonio, era trasformazione universale che riguardava Streghe, Vampiri, servitori qualsiasi del Male… cioè la possibilità di tutti gli umani e anche degli umani inumani, di convertirsi in belve. Non abbiamo però più bisogno, nel mondo moderno, di questa conversione. Anzi, la nostra percezione, come ha scritto Simonetta, è che noi Semplici Umani siamo gli esseri più nocivi del pianeta.
Adams, nella sua gustosa Guida all’autostoppista intergalattico, scrive che l’essere umano ormai si sente talmente una merda (la mia non è una traduzione, ma il senso è quello) da invidiare qualsiasi altra specie vivente, persino i batteri.
Il batterio del resto si riproduce da solo, crea colonie di identici a se stesso, potrebbe, se umanizzato, fare il cantante rock accompagnato da altri se stesso come gruppo e osannato da milioni di se stesso come pubblico. Non è questa la massima ambizione dell’individuo contemporaneo?

Postato lunedì, 31 maggio 2010 alle 17:43 da Gianfranco Manfredi


Nel mio piccolo vademecum sui lupi mannari, ho dimenticato di scrivere una cosa:
-Un lupo mannaro morto può resuscitare come vampiro.
Questo chiude il cerchio sul rapporto lupo mannaro/vampiro.
Gianfranco: narrativamente parlamente il lupo mannaro folclorico è estinto,si è tramutato in una sorta di sconosciuto e imbarazzante antenato del licantropo della fiction. Raramente le caratteristiche che ho elencato sono riportate in romanzo. Oltre al romanzo di Williamson, ricordo solo altri due opere letterarie sull’argomento degne di nota (fra quelle che ho letto personalmente):
“Commercio in pelle” di George R. Martin (su una detective che indagando su una serie di delitti,scopre che le vittime sono lupi mannari) e un e-book scritto da un giovane autore italiano che si firma Alex Mcnab “Uomini e lupi”, una serrata e realistica storia di licantropi e cacciatori di licantropi ambientata in Italia. (Il libro può essere scaricato gratuitamente dal blog dell’autore, “Il blog sull’orlo del mondo”)
Figurati poi che il licantropo del folclore ha pure delle peculiarità in forma umana: le sopraciglia sono unite,il dito indice è più lungo del medio e ha le orecchie puntute,sembra quasi l’appartenente ad una minoranza stigmatizzata!
Meglio poi non provare le cure per la licantropia suggerite dal folclore, ne cito una praticata in Francia.
Il licantropo senza abiti addosso deve attraversare la piazza del paese,mentre 12 vergini lo colpiscono con rami di salice e gli viene gettato addosso dello zolfo!Se sopravvive risulta guarito.(Ed è quel se che dovrebbe preoccupare aspiranti lupi mannari)
Mi ero dimenticato anche di citare due cose:
-Il pover’uomo di Pavia fu sezionato vivo,in caso contrario gli autori
dell’esperimento temevano di non trovare nessuna prova empirica.
-Esiste una seconda categoria di avvistamenti di lupi mannari,molto
particolare in quanto in alcuni casi il licantropo sarebbe risultato essere
uno spirito,non un uomo mutato.Molti studiosi del paranormale,
avrebbero formulato la tesi che i lupi mannari sarebbero quindi entità
di un altro mondo che a volte si interseca con il nostro.
P.S. L’edizione che ho nella mia libreria di “Frankenstein liberato” è una vecchia copia della Bompiani, potrebbe quindi essere l’edizione da te tradotta?

Postato lunedì, 31 maggio 2010 alle 18:54 da Francesco Moretta


Finalmente, dopo anni e anni di paziente attesa e di inutili pedinamenti testuali, per una volta posso dirlo annunciandolo al popolo:
ho beccato il mostruosamente enciclopedico Gianfranco Manfredi in castagna!
Infatti, nel suo commento delle 3.32 di oggi, egli ha commesso (incredibile dictu!) un errore.
A proposito del romanzo di Jack Williamson “Il figlio della notte” (splendida storia sui licantropi), Manfredi scrive che ne esistevano un’edizione Libra e una negli Oscar Mondadori.
Notizia incompleta!!!!!
Venne infatti ristampato (e forse è ancora disponibile) dalla Newton Compton, nel gigantesco Mammuth “Storie di lupi mannari”.
Voi non avete idea di cosa significhi, per un comune mortale come me, poter segnalare una svista di Manfredi.
Sarebbe come (per qualcuno) poter segnalare una sincerità di Berlusconi.

Postato lunedì, 31 maggio 2010 alle 20:43 da luciano / idefix


Sono in arretrato con la lettura dei più recenti commenti. Lo farò con calma domani.
Però ho fatto in tempo a leggere l’irriverente e simpatica battuta che Luciano ha rivolto a Gianfranco. :-) )

Postato lunedì, 31 maggio 2010 alle 22:20 da Massimo Maugeri


Grazie per la segnalazione, Luciano. Confesso che non presto molta attenzione alle edizioni della Newton Compton. Adesso non ricordo chi avesse tradotto il romanzo di Williamson per la Libra (forse la grande Roberta Rambelli?) , ma di sicuro quella stravagante casa editrice (l’editore , almeno così mi è stato raccontato, aveva affidato le copertine alla moglie che si dilettava di pittura, ed erano davvero orrende, unica pecca del ricco catalogo) , la Libra, dicevo, ha avuto un ruolo preziosissimo per la storia della fantascienza in Italia, anzitutto pubblicando romanzi lunghi (che in Urania non potevano uscire a causa delle dimensioni) , di autori importantissimi , e tradotti splendidamente. Non altrettanto si può dire di altre traduzioni diciamo così “all’ammasso”. E qui mi fermo. Anzi aggiungo una cosa: molti autori di fantascienza sono stati dei veri ricercatori sul piano stilistico , autentici sperimentatori del linguaggio. Se non vengono tradotti bene risultano terribilmente ostici e quasi incomprensibili . Un esempio per tutti Fritz Leiber, autore coltissimo , su cui la Editrice Nord ha fatto un ottimo lavoro, eppure (letto in originale) talmente ricco di sfumature da far tremare i polsi al più eccelso dei traduttori. Brian Aldiss ( Francesco: sì l’edizione di Frankenstein liberato che hai non può che essere quella) è uno di questi autori. Dopo aver tradotto il suo Frankenstein , la Bompiani mi propose di tradurne un altro (The eighty minute hour, L’ora di ottanta minuti) e dovetti rinunciare per incapacità. Era un lavoro davvero di limite. Se non ricordo male, si trattava di una sorta di “caccia al tesoro”, per cui esseri di diversi pianeti si muovevano tutti verso lo stesso obiettivo. I rispettivi viaggi venivano narrati dal punto di vista delle differenti specie coinvolte. Uno dei personaggi veniva da un pianeta in cui tutte le parole cominciavano con la stessa iniziale. Aldiss si era divertito a scrivere un intero capitolo in cui tutte le parole cominciavano appunto con la stessa lettera. Più che da traduttore era un lavoro da enigmista. Il suo Dracula ho provato a leggerlo (in italiano), ma non riusciva ad appassionarmi perché non ritrovavo più il raffinato autore di Frankenstein. C’entra la traduzione? Ci sarebbe molto da dire , anche riguardo all’horror e al giallo, circa la tenuta stilistica dei romanzi tradotti. Nelle edizioni popolari da edicola o da cartoleria libraria, i testi venivano falcidiati orrendamente e la traduzione si preoccupava di sintetizzare il contenuto in modo chiaro, piuttosto che di mettere in rilievo lo stile dello scrittore. Ricordo ad esempio una traduzione del Giallo Mondadori, di un giallo di Chase ambientato a Milano. In una scena iniziale a Piazza Duomo, il testo originale diceva così: ” Rotolarono fuori dal torpedone come patate da un sacco” . La traduzione era questa: “I turisti scesero dal pullman.” Questa sciatteria delle traduzioni ha rafforzato il luogo comune che ha regnato per moltissimi anni in Italia, secondo cui Fantascienza, Giallo e Horror sarebbero letteratura di serie B. Ma traducendo in questo modo, diventerebbe di serie B anche Faulkner. Cito proprio lui, perché la traduzione Mondadoriana di Santuario inizia così: ” Attraverso lo schermo di arbusti che circondava la polla, Popeye guardava l’uomo che beveva.” Trattasi di canne intorno a uno stagno. Faulkner in quel romanzo voleva mimare la lingua dell’hard boiled, ma in questo caso, trattandosi di autore importante, si scelse di “letterarizzarlo”, di elevarne la prosa, col risultato di farlo sembrare Renato Fucini. In un altro punto si dice di una ragazza che corre via mostrando le mutande, “se ne fuggì in uno svolazzar di brachine.” Ricordo che quando lessi, ci misi molto a capire, perché li per lì pensai che le brachine fossero degli uccelli palustri, alzatisi in volo perché la ragazza era piombata tra loro scappando. Che con “brachine” si intendesse mutandine l’ho capito andandomi a leggere l’originale. Insomma, quasi sempre le traduzioni “riscrivono”, e questo è inevitabile, un buon traduttore anzi, deve conoscere meglio la lingua in cui traduce (cioè l’italiano) della lingua da cui traduce, il problema è che lo stile d’arrivo deve corrispondere in qualche modo all’originale, altrimenti non si tratta più di una traduzione ma di una totale riscrittura. Se poi dalla letteratura si passa alla saggistica o addirittura ai sacri testi di filosofia, si scopre che lì i guasti sono anche più gravi. In una delle sue lezioni, il mio professore di Storia della Filosofia Mario Dal Prà, sottopose ai raggi X la traduzione italiana della Fenomenologia dello Spirito di Hegel. Noi tutti, studenti, pensavamo che si trattasse di un testo quasi incomprensibile perché per sua natura ostico, invece era incomprensibile perchè il traduttore non l’aveva compreso, equivocando una quantità impressionante di termini tedeschi, e ricostruendo un senso a modo suo. Quando Dal Pra ci dimostrò questo e finalmente grazie alla sua traduzione corretta riuscimmo a comprendere in modo chiarissimo un passo assolutamente indecifrabile nella traduzione italiana, aprimmo gli occhi… come fare a meno di pensare a quanti filosofi sono stati rovinati in italiano? Da questo massacro dei testi, è nata da noi un’idea corriva della filosofia come coacervo di parole in libertà e di concettualizzazioni esoteriche per pochi iniziati, e questo è stato davvero rovinoso perché persino i filosofi sono stati precocemente indirizzati a scrivere in modo criptico , per poter essere riconosciuti come Filosofi, e diventare membri celebrati dell’Accademia dell’Insensato. Ho parlato finora di anni piuttosto lontani, ma pensate a oggi.., un esempio a caso? “posò la macchina fotografica sul tripode” (doveva essere il treppiede) . Un altro me lo ha citato di recente Paolo de Crescenzo: “Impugnò una pompa calibro 42″ (sarebbe un fucile a pompa). E già in questo forum ne ha riportato un’altra oltre i confini del surreale . C’è da chiedersi: quanti lettori sono stati allontanati dalla lettura e rovinati nel gusto da questo modo di tradurre? Quanti scrittori notevoli sono stati ridotti a ciarpame?

Postato martedì, 1 giugno 2010 alle 11:23 da Gianfranco Manfredi


Bravo, Gianfranco!
Ai bravi traduttori andrebbero costruiti immensi monumenti di gratitudine, fatti con la gioia dei lettori che hanno potuto godere dei testi solo grazie a quel lavoro oscuro e sottopagato.
Mentre ad altri pessimi traduttori (e soprattutto a chi li mandava) andrebbe riservata la lettura di certi libri spaventosamente traslati.
Ricordo con orrore una (stupenda in inglisc ma abominevole in quello pseudo-italian) antologia di racconti proprio del grande Fritz Leiber, uscita per la Siad con un testo che pareva scritto da un orango ungherese analfabeta nel mezzo di un brutto trip da funghi allucinogeni avariati.

Postato martedì, 1 giugno 2010 alle 13:07 da luciano / idefix


Comunque, è tanto orribile che ne ho due copie: quella comprata all’epoca (credo fosse il ‘77 o giù di lì) e una recuperata un anno fa su una bancarella dell’usato.

Postato martedì, 1 giugno 2010 alle 13:08 da luciano / idefix


@ a Francesco. Dato che sei un appassionato dell’uomo lupo, devi assolutamente leggere , se non l’hai già fatto, “L’ora del Lupo” di Robert McCammon (Gargoyle Books) . Soprattutto la prima parte è splendida perchè parla dell’iniziazione alla vita da lupo, di un giovane contagiato dal morso, la scoperta della caccia nei boschi, le regole della comunità dei lupi ecc…. Poi il romanzo va a incanalarsi in un’interessante contaminazione di generi tra lo spionistico (siamo in epoca nazista, ma c’è molto “bondismo” nel romanzo) e l’horror, diventa più dinamico , però perde un po’ di brillantezza letteraria. McCammon ha in comune con King un’attenzione “fuori dal comune” per gli adolescenti e una grande capacità di raccontarli, e ha in comune con il maestro una tendenza ad accumulare un po’ troppa azione da un certo punto in avanti. Il cinema ha avuto indubbiamente una grande influenza sui narratori di quella generazione, però questo ha anche comportato una notevole riduzione , in termini letterari, rispetto all’horror classico di Poe e Lovecraft. In questi due numi sacri l’orrore si dilata proprio quando non succede niente. Più azione ci si ficca e più si va verso l’avventura che spesso tende ad azzerare il clima e le psicologie, rendendo situazioni e personaggi puramente funzionali al ritmo incalzante delle azioni.

Postato martedì, 1 giugno 2010 alle 13:24 da Gianfranco Manfredi


@ Luciano. Non c’entra nulla coi vampiri, però tu cosa pensi delle traduzioni di Philip Dick? Confesso di non averlo mai letto in originale, per cui non so valutare. Certo è che nelle traduzione italiane appare così rigido e al contempo incasinato che non sono mai riuscito a proseguire nella lettura. Eppure ha schiere di appassionati. Non mi sfugge quanto interessanti siano le tematiche da lui affrontate, però l’insieme, sarà un mio limite, lo trovo illeggibile. Non può essere, ovviamente, altrimenti non si spiegherebbe il fatto che sia considerato un autore “cult” per eccellenza. Trattasi dunque di un altro caso di scempio da traduzione alla cazzo?

Postato martedì, 1 giugno 2010 alle 13:29 da Gianfranco Manfredi


Carissimi, riemergo da una serie di lavori e trovo migliaia di spunti nuovi nella discussione. Mi collego soltanto all’ultimo, perché tra l’altro me ne sono occupato direttamente – e parlo della licantropia. Il problema è che non esiste UN licantropo, ne esistono una quantità di tipi diversi, tante quante le declinazioni di una figura i cui rapporti con la comunità umana risalgono alla preistoria. Dalla licantropia rituale legata all’oscurissimo culto cannibalico di Zeus Liceo ai versipelli italici (i cui ultimi epigoni sopravvivono nelle storie di paese della Penisola, e in rapporto variegato con l’Uomo Selvatico), dai guerrieri “mutanti” dell’estremo nord agli uomini-lupo delle saghe arturiane e via via fino alla loro versione degradata e psicopatologica – quella dei licantropi processati dal Cinquecento in avanti – il problema sta nel significato della ferinità. A volte vista come valore – il predatore delle culture guerriere, spesso circonfuso del mistero di confraternite chiuse, elitarie – e allora troviamo i lupi associati ai padri di popoli come Romolo; a volte considerata semplicemente “altra”; a volte – e in particolare da una certa fase della storia europea – demonizzata; e a volte frutto dell’incastro di sistemi diversi di miti e valori, o dell’ossimoro legato a una necessaria dialettica tra forze opposte. Si pensi alle connotazioni a volte nobili ma a volte cosmicamente allarmanti del lupo nelle mitologie germaniche. Se poi al complessissimo rapporto con il lupo avviciniamo tutte le altre forme di “mannari” (orsi, iene, eccetera) e in generale di “animali umani”, il campo si spalanca in modo quasi ingovernabile.
Certo, le figure di vampiri e licantropi – nelle rispettive varietà – tendono ad associarsi e a tratti a confondersi. Ma non dimentichiamo che i due prototipi, come consolidati poi dalla galleria dei mostri popolari del cinema, hanno avuto una diversa storia culturale. L’abietto licantropo che dai processi cinquecenteschi transita al primo romanzo in materia, il penny dreadful Wagner, the Wehr-Wolf di George William Reynolds (pubblicato a puntate in settantasette fascicoli tra il 1846 e il 1847 – dunque contemporaneo al Varney, a stabilire fin da allora un abbinamento mediatico) e di lì lentamente muoverà al cinema, trova una codificazione teologico-filosofica in epoca molto diversa e precedente quella ormai laica in cui si definisce con un dibattito in tutta Europa “il” vampiro. Sul licantropo influisce ancora pesantemente la lotta alla stregoneria, il dibattito sui poteri del diavolo eccetera. Ma varia anche il criterio di messa a fuoco: spesso nei processi ai licantropi si tratta di crimini (aggressioni, infanticidi…) commessi in contesti sociali di estrema violenza e degradazione. E dunque molto diversi dal contesto delle inchieste sui vampiri.
D’altro canto anche il licantropo richiama alcune sacche di pensiero arcaicissimo della nostra cultura. Confrontando le descrizioni della bestia del Gevaudan con le immagini preistoriche del demone della morte che per semplicità gli studiosi dell’arte hanno chiamato Tarasque (in riferimento al mostro ibrido del folklore del sud della Francia), cioè una specie di lupo-leone, o lupo-orco, troviamo interessanti somiglianze. Se nel caso del Gevaudan si trattava probabilmente di grossi lupi – magari con lo zampino di agenti tutti umani, ipotesi ripresa in modo romanzesco nel film “Il patto dei lupi” – le descrizioni sedimentano anche questi elementi mitici. Consideriamo che gli avvistamenti avvenivano di sfuggita: “integrare” con le proprie categorie era non solo ovvio, ma psicologicamente necessario. A complicare poi le cose ci si è messa la tradizione successiva – compresa quella di infinite pubblicazioni poco attendibili.
D’altra parte c’è un problema più ampio: noi troviamo repertoriati “tipi” diversi di licantropi, di vampiri, eccetera – e compiliamo tabelle (spesso articolatissime) sulla base delle quali riconosciamo talune caratteristiche ai singoli “tipi”. Il problema è che non si tratta di specie zoologiche, e Linneo non può aiutarci. Se infatti poi andiamo a cercare su testi monografici del folklore di questa o quella zona, i “tipi” delle nostre tabelle spesso esplodono: si tratta infatti, con frequenza, di patchwork antropologici che rimbalzano in modo poco affidabile da una pubblicazione all’altra. E astraggono e tendono a integrare realtà folkloriche assai più confuse e incomplete – o meglio, che non necessitano di alcuni dati da noi considerati fondamentali. Nelle narrazioni locali alcuni elementi sono circonfusi di vaghezza; se io invece devo portare in un’immagine o una pellicola quel personaggio dovrò integrarlo. E tutto contribuisce alla mitopoiesi.

Postato martedì, 1 giugno 2010 alle 13:37 da Franco Pezzini


Di recente, Fanucci (un vero massacratore di romanzi con traduzioni invereconde) ha pubblicato l’inedito di Philip Dick “Il paradiso maoista”. L’ho comprato subito, interessato al tema e incuriosito da un Dick in Cina. Non sono riuscito a andare avanti. Può anche darsi che in questo caso non sia colpa della traduzione. Infatti lo stile è abbastanza scorrevole e non si notano svarioni evidenti. Però boh… Tanto per fare un esempio, cito il piccolo periodo che compare sul retro di copertina, dove di solito si piazzano gli elementi più stuzzicanti che ti invitano all’acquisto. Beh, eccolo : “Il cinese mise una mano nella tasca del pastrano e tirò fuori un oggetto, che gettò a terra e schiacciò con il tacco dello stivale. Verne scrollò le spalle. Era il suo accendisigari. ‘Mio Dio’, scosse il capo, sbalordito. ‘Così è questo il futuro che ci aspetta…’ ” Uno pensa: Mio dio! E’ questa la lettura che mi aspetta? Ci provi lo stesso, giusto perché è Philp K. Dick, ma alla fine ti arrendi. Forse un tempo si aveva più pazienza,ma oggi di fronte a una rottura di palle prolungata, si cambia romanzo con la stessa velocità con cui si cambia canale.

Postato martedì, 1 giugno 2010 alle 13:40 da Gianfranco Manfredi


Il bel intervento di Pezzini mi ha fatto venire in mente che una delle prime descrizioni letterarie dell’uomo lupo si trova in un racconto del Satyricon di Petronio. L’uomo (un soldato) che diventa lupo (per poi infilarsi a fare strage in un ovile, e dunque non di esseri umani) fa notare la propria stranezza all’allibito spettatore , prima ancora di trasformarsi, pisciando per marcare il territorio, e il territorio in questione è un cimitero. Alla chiusura del racconto (dove il soldato torna umano e muore per una ferita che gli è stata inferta quando era in forma di lupo) si sottolinea già il tema dell’incredulità, perché il narratore conclude: “Ciascuno è libero di pensarla come vuole, ma se ho detto una bugia, che gli Dei mi puniscano.”

Postato martedì, 1 giugno 2010 alle 13:51 da Gianfranco Manfredi


Gianfranco: con Philip Dick raggiungi uno degli scrittori per cui stravedo: da quando ero dodicenne e mio papà me lo fece leggere nel ‘66 su Urania (La città sostituita) non l’ho più lasciato. E (delle mie passioni di quegli anni) sopravvive assieme a Buzzati Simenon Guareschi Chesterton Barks.
Però alla tua domanda (come scrive Dick e come sono le traduzioni dickiane?) non posso rispondere che in modo monco: mai inglisc is no guud. E dunque il mio giudizio è praticamente basato solo sulle edizioni italiane. (Sarebbe come dare un’opinione delle canzoni di Ray Davies in base alla UN FIGLIO DEI FIORI NON PENSA AL DOMANI dei Nomadi-Guccini che riprendeva “Death of a clown”…quanto si perde del suono e delle voci geniali dei Kinks?).
Dico che le traduzione Fanucci sono spesso brutte e confuse: meglio quelle Libra o Nord (o Le tre stimmate di Palmer Eldtrich nella Sellerio…uno dei dieci romanzi che amo di più in assoluto). Anche se mi pare che l’operazione più riuscita sotto ogni punto di vista sia quella curata da Vittorio Curtoni all’inizio degli anni Novanta per Mondadori (i quattro volumi con TUTTI i racconti e la Trilogia di Valis).
SUL SATYRICON di Petronio: uno dei miei sogni impossibili è che ne venga ritrovato il testo integrale.
Un altro è che l’Italia diventi un paese civile.

Postato martedì, 1 giugno 2010 alle 14:10 da luciano / idefix


Interessante l’apertura della parentesi “licantropica”.
Stavo pensando una cosa… ma vorrei confrontarmi con voi.
Che ne direste se cambiassi lievemente il titolo di questo spazio permanente, dedicato alla letteratura vampirica, in… “Dibattito sulla letteratura dei vampiri… e di altri orrori”.
Cosa ne dite?

Postato martedì, 1 giugno 2010 alle 19:54 da Massimo Maugeri


Gianfranco: Grazie per il consiglio,il libro di Mc Cammon sembra interessante.
Maurizio:Il cambio di titolo mi sembra sensato,spesso si sono fatti riferimenti in generale all’horror e alla paura.

Postato mercoledì, 2 giugno 2010 alle 10:28 da Francesco Moretta


Il mio voto sulla proposta di Massimo:
sì a modificare il titolo.

Postato mercoledì, 2 giugno 2010 alle 14:31 da luciano / idefix


Sì anch’io: visto che ormai si spazia verso lidi oltre confine…
CAMBIA IL TITOLO, MASSIMO!!
Come so’ poetica… ;)

Postato giovedì, 3 giugno 2010 alle 17:28 da Simonetta Santamaria


Mi sono silenziato perché sto facendo i compiti. Ieri sera mi sono visto il Bram Stroker’s (con la erre) Dracula’s Curse. Cioè… ho resistito per soli venti minuti, perché è una vaccata da non credere: i vampiri più brutti della storia del cinema, ma se vi rivelo il perché (brutti in che senso) vi tolgo la sorpresa , cioè l’unico motivo per cui valga la pena di vedere il film nonostante tutto… e a piccole dosi perché tutto di seguito sul serio non lo può reggere nemmeno il più fanatico del trash. Per consolarmi, ho messo su La Classe Dirigente (The Ruling Class) con Peter O’Toole, film che non c’entra coi vampiri, ma con Jack lo Squartatore sì, e visto che Massimo intende cambiare il titolo (giusto, sono d’accordo anch’io) , mi sono sentito di citarlo. Il film è un gioiello dell’epoca del cinema inglese “arrabbiato” e di satira sociale, include canzoni e balletti d notevole effetto, è recitato splendidamente, e per quanto mi riguarda è il film più bello che io abbia mai visto in merito alla figura di Jack lo Squartatore e la spiegazione più persuasiva e ficcante (è il caso di dirlo) del suo carattere tipicamente inglese, come delle ricorrenti nostalgie neo-vittoriane. Lo avevo visto da giovane, ma non me lo ricordavo affatto. Rivisto oggi è anche più fenomenale. Viene davvero di dirsi: ma perché non si fanno più dei film così? Qualcuno di voi se ne ricorda? Mi sono scaricato una versione coi sottotitoli in italiano (che aiutano) perché mi sa che doppiato (sempre che lo si trovi) non sia lo stesso godimento (ma come recita Peter O’Toole? Un mostro, davvero! Ti fa sbellicare dalle risa e un attimo dopo te la fai sotto dalla paura).
Sulle altre cose che mi sto studiando e che sono sbocciate da questa discussione, vi dirò quando avrò finito i compiti.

Postato giovedì, 3 giugno 2010 alle 18:47 da Gianfranco Manfredi


Dimenticavo. The Ruling Class (il film) è del 1972 (regia di Peter Medak) e ce ne sono due versioni , quella originale di 130 minuti e quella “uncut” di 141, edita nel 1983. Il film è tratto dall’opera teatrale di Peter Barnes. Chissà che a qualcuno non venga in mente di rimetterla in scena? Non ha certo perso d’attualità, anzi…

Postato giovedì, 3 giugno 2010 alle 19:02 da Gianfranco Manfredi


Provvedo subito a integrare il titolo.
Della serie: “detto-fatto”.

Postato giovedì, 3 giugno 2010 alle 22:19 da Massimo Maugeri


Che bello che era, “La classe dirigente”!
Io ne andavo proprio matto, all’epoca, e lo rincorrevo da un cinema all’altro per rivedermelo in sala: mi pare che in televisione non sia mai passato e in quell’era remota non esistevano nè dvd nè vhs.
Non lo rivedo da tanto tempo e purtroppo non ne è stata fatta nessuna edizione dvd. Anche se non ho mai scaricato nulla (non so nemmeno da dove cominciare), chiederò in giro: mi piacerebbe molto rivederlo. Mi darò da fare.
Su Jack the Ripper, mi aveva convinto molto anche una miniserie televisiva inglese assai curata (la vidi una quindicina o ventina di anni fa in vhs) diretta da David Wickes, con Michael Caine nella parte di Abberline.
Mentre avevo trovato una insopportabile fetecchia il tradimento cinematografico con Johnny Depp dello stupendo fumetto From Hell di Alan Moore (che ha delle parti davvero terrificanti).

Postato venerdì, 4 giugno 2010 alle 09:19 da luciano / idefix


Luciano:Hai ragione,tanto il fumetto di Moore è ricco di simbolismi, accuratezza storica e paura vera,tanto il film è squallido,banale e piatto.
Su Saucy Jack ricordo con piacere un romanzo di Robert Bloch, “Night of the ripper” e un arco narrativo del fumetto Hellblazer intitolato “Sangue reale”.
Il romanzo di Bloch presenta numerosi riferimenti alla Londra del periodo nonchè numerosi guest-starring d’eccezione (Oscar Wilde e l’uomo elefante per citarne due) descrivendo anche molte delle strategie usate da Scotland Yard nel tentativo di catturare Jack. “Sangue reale” invece fa solo un breve riferimento ai delitti dello squartatore,unendo la trama del complotto reale (che vede nel Dottor Gull lo squartatore) con una seconda traccia a base di possesione demoniaca.
Consiglio ai patiti di delitti seriali e epoca vittoriana la serie di Rick Geary
“Assasini vittoriani” pubblicata dalla 001 edizioni. Tale collana si segnala per un ottima ricostruzione delle cronache vittoriane, tanto da essere insieme a “From Hell” uno dei punti più alti del connubio serial killer e fumetti.

Postato venerdì, 4 giugno 2010 alle 13:27 da Francesco Moretta


Ho seminato un altro refuso,assasini invece del corretto assassini, scusate.

Postato venerdì, 4 giugno 2010 alle 13:30 da Francesco Moretta


Francesco: sono d’accordo con te.
Aggiungo una digressione sul giallo.
Io amo la letteratura poliziesca.
Ma da qualche anno, entrando in libreria e vedendo i banconi colmi di pile di centinaia e centinaia di volumi e volumi di libri gialli, noir, thrilling, suspense, thriller, neo-romantic-hard-boiled, commissari all’amatriciana, investigatrici spagnole, detective svedesi, gangsters di Mumbai, indagini su Dante Alighieri compiute da Stanlio e Ollio, misteri di Aristotele svelati da Walt Disney, delitti commessi da Caravaggio in coppia con Torquato Tasso, l’assassinio di Edgar Allan Poe risolto da Albert Einstein, il gatto poliziotto, er sirial chiller più ferosce de tutti, l’urtima rivelazzzione der giallo esotico der Paraguay, i segreti della crocifissione di Gesù nel poliziesco più originale dell’anno ch’ha sconvolto pure er fratello gimello de Razzingher, L’Ipnotista cecato, La vicebrigadiera culona, La notte che m’hanno acciso p’aa seconna vorta, La città dell’inferno a rovescio, Il ritorno del Mitra di carne, Stra-Millennium, X, Doppia X, tutti librazzi lunghi centinaia di pagine…
vengo colto da un senso di nausea.
E così (se ho voglia di leggere un giallo) prendo (a casa mia, così non devo nemmeno spendere) qualcosa che vale per davvero.
Che so…
Wilkie Collins, Chesterton, Queen, John Dickson Carr, Ed McBain, Scerbanenco, Macchiavelli, Hammett, Sanantonio, Chandler, Conan Doyle, Borges, Patrick Quentin, Woolrich, Peter Lovesey, Souvestre-Allain, Ross Mac Donald, gli esordi di Connelly, certe cose di Ellroy, Sue Grafton, Stout, Simenon, i primissimi Altieri, due o tre Fruttero-Lucentini, la Highsmith…
Gente che di solito non aveva bisogno di riempire mega-centinaiate di pagine.
Gente che scriveva cose di valore.
Per certi versi siamo sempre lì:
dopo l’iniziale euforia, l’eccessiva offerta di un prodotto suscita prima un senso di saturazione e poi addirittura una certa repulsione.
Analogamente, accade con “il giallo”. Vedere le librerie stracolme di centinaia e centinaia di titoli di centinaia e centinaia di autori tutti strombazzati come un fenomeno o (mal che vada) come un mezzo-fenomeno, dà la nausea.
Primo: come orientarsi in mezzo a tutta questa roba? Come poter distinguere dalla monnezza ciò che pur ci sarà di decente, di buono o addirittura di ottimo? Chi filtra a priori? Editori? Collane? Premi? Recensori? Critici? Librai? Di chi fidarsi?
Io mi fido solo (eventualmente) del passa-parola di qualcuno di cui ho stima e di cui ho già sperimentato con successo i consigli. Se no, nemmeno prendo più in mano tutti quei libri colmi di colorate e fasulle lusinghe tenebrosamente thrilling.
Secondo: con tanti splendidi “gialli” che ancora non ho letto (o che ho letto e gradirei rileggere) e della cui qualità sono CERTO, perchè mai devo imbarcarmi in quasi sicuri bidoni? Tanto più che questi bidoni mi costano fior di euri mentre i “gialli” certamente belli li ho già a casa mia?
E dove sta secondo me il problema di troppi gialli di questi ultimi dieci/quindi anni? Che sono figli di uno dei più dannosi libri titoli (anche se era un bel romanzo) della storia poliziesca: IL SILENZIO DEGLI INNOCENTI. E del più nefasto personaggio della storia “nera”: Hannibal Lecter. E di uno dei due autori che hanno fatto più danni nella storia della letteratura thrilling: Thomas Harris (l’altro è Dan Brown).
Perchè a partire dalla fine degli anni Ottanta e con un’accelerazione esponenziale, i gialli, noir, thrilling eccetera sono diventati sempre più contorti, con trame vieppiù arzigogolate, colpi di scena su colpi di scena, intrecci barocchi e fasulli oltre ogni sopportabilità, in una smania di lasciare il pubblico a bocca aperta e sempre più aperta, spalancata e sempre più spalancata. Il risultato è ormai ridicolo.
Ridateci la solida stufa di ghisa di Maigret, la pipa di Sherlock, le camere chiuse dall’interno di Gideon Fell, il Falcone maltese di Sam Spade, gli sghignazzi di Sanà, la colite di Sarti Antonio, la Venere privata di Duca Lamberti, il teschio del Transvaal di Fantomas, le birre di Nero Wolfe, le false piste di Ellery Queen, l’incubo nero di Cornell Woolrich, i delitti teatrali di Peter Duluth, i poliziotti dell’87° Distretto, i rompicapo di padre Brown…e aiutatemi a buttare nel cassonetto della carta da riciclare tutta la monnezza modaiola.
Di troppi giallisti contemporanei non sopporto l’esagerazione bulemica degli intrecci, spesso stesa per nascondere la povertà di base. Come quando un pessimo cuoco (per celare la schifezza del suo piatto) butta su panna e pepe bianco e besciamella e curry e pepe rosa e questo e quello e dragoncello e curcuma e poi passa il tutto al forno e infine gli dà un nome altisonante e te lo fa pagare un casino ma intanto in tavola ti rifila una fetecchia.
Rimpiango i “giallisti” di un tempo: romanzieri bravi e onesti che (senza fronzoli e senza pretese) andavano al sodo raccontando storie affascinanti e misteri appassionanti sullo sfondo della società del loro tempo.
Vorrei esserci tra duecento anni, per vedere chi resterà: tra le geniali camere chiuse di Dickson Carr o le inchieste di Maigret, le risate rabelaisiane di Sanantonio o l’87° Distretto di Ed McBain e tutta questa fuffa che riempie le librerie (dalla Cornwell alla Vargas, dagli svedesi a Faletti, dagli psicopatici ai misteriosissimissimissimissimi delle origini del cristianesimo e via vendendo)

Postato venerdì, 4 giugno 2010 alle 14:31 da luciano / idefix


Il romanzo di Clanash Farjeon “Le memorie di Jack lo Squartatore” (Gargoyle) è bellissimo. Ci piomba nell’epoca con una accuratezza di particolari impressionante e segue le mosse di Jack (narrate da Jack stesso) vicolo per vicolo, con una precisione documentaria davvero insolita. Però “La Classe dirigente” (che non si propone di essere una ricostruzione storica, ma simbolica) con tutta la sua carica corrosiva e confrontando la figura di Jack the Ripper con quella assolutamente altra di un Cristo tipicamente di ascendenza hippy e beatlesiana (Love,Love,Love) , ci offre una chiave d’interpretazione della psico-patologia inglese di notevole acutezza . Sulla psicologia e la cultura di Jack, Farjeron ha delle pagine illuminanti e altrettanto sarcastiche, ma a volte un tantino compiaciute, giustificate letterariamente dal fatto che Jack si racconta e … non dico chi è, per non svelare la trama, ma la sua identità ne giustifica la natura “machiavellica”. In questo modo però se ne offusca un po’ il lato schizoide, molto più esplicito nella versione che ci offre Peter O’Toole.

Postato venerdì, 4 giugno 2010 alle 14:38 da Gianfranco Manfredi


@ Luciano. Sono d’accordo sulla tua analisi del giallo papocchio. Ho letto di recente sul saggio di Ferroni che ho già citato, un capitolo molto bello in particolare sul noir all’italiana. Osserva in sostanza che se da un lato è vero che molti con la scusa del giallo offrono o tentano di offrire un qualche quadro della realtà italiana (anche di quella di provincia) il fenomeno, esplodendo, si è convertito nel suo contrario e cioè il contesto sociale è diventato un puro pretesto per una storia di fiction condotta sui parametri più scontati e televisivi (vedi Banda della Magliana, di cui nessuno pare più ricordare che erano degli squallidi fascisti in combutta coi servizi segreti deviati e che risulta piuttosto riprovevole fare di simili carogne degli eroi noir, contraddicendo così gli stessi propositi di ricostruzione storico-sociale che sono o dovrebbero essere alla base del romanzo) . Riguardo alla sovrappduzione, basti dire questo. Trovavo stimolante che attraverso il giallo si tornasse a parlare della provincia italiana, anche quella più sperduta, è così anni fa, scrissi anch’io un giallo “Una fortuna d’annata” ambientato in Valchiavenna (dove vivo). Il romanzo uscì prima dell’estate. In quello stesso segmento di fornitura alle librerie, uscirono in quel periodo 75 nuovi gialli italiani, la massima parte dei quali di esordienti.Tecla Dozio della Libreria del Giallo a Milano, una libreria specializzata ormai chiusa (purtroppo) ma dove si trovava davvero tutto, non sapeva più dove sbattere la testa. Anche tra i fanatici del giallo, nessuno può nemmeno dare una rapida scorsa a tanti romanzi o pseudo-romanzi che escono contemporaneamente. Inoltre va considerato che un tempo il mistery richiedeva una scrittura di grande tecnica e dei professionisti del genere, oggi invece chiunque presume di poter scrivere un giallo e ne fa il proprio esordio letterario, col risultato che si leggono trame che non stanno in piedi nemmeno dal punto di vista del puro enigma da detection.

Postato venerdì, 4 giugno 2010 alle 14:52 da Gianfranco Manfredi


Quanto alla moda ormai vetusta dei serial killer e dei maniaci, resto vero quanto mi disse il grandissimo e compianto Donald Westlake un giorno ad Asti durante un convegno: “Usano dei matti come assassini, perché così possono fare a meno di dare una logica ai delitti.” Può sembrare riduttiva, ma questo è… nella stragrande maggior parte dei casi, il quesito che si poneva ogni scrittore di gialli (e il movente? Perché l’assassino fa questo?)
può diventare irrilevante (che senso ha interrogarsi sulle motivazioni di un pazzo?) . Sarà anche vero che molti assassini seriali uccidono ossessivamente e dunque i tradizionali moventi non si applicano a loro. Il punto è che il giallo sociale, attraverso le motivazioni di un delitto (denaro, potere, gelosia, vendetta) mostrava le storture sociali. Così invece non si fa che illustrare l’omicidio gratuito di un folle. E’ un modo di scaricare i problemi (le nostre stesse pulsioni omicide) sui “matti”. e così, trema che dovrebbe interessarti molto Luciano, anche l’idea di follia retrocede agli anni 50 e ancora più indietro: la malattia inspiegabile, asociale, violenta oltre ogni confine, che non può essere compresa, né curata. Mostruosità allo stato puro, da cancellare dalla terra, come un incidente di percorso, senza vero rapporto con la storia del tempo e con il tessuto delle relazioni sociali.

Postato venerdì, 4 giugno 2010 alle 16:30 da Gianfranco Manfredi


Jack the Ripper docet. Anche il pazzo, è una cartina di tornasole del disagio sociale e uno svelamento dei veri Valori che sono il fondamento della civiltà presunta. Nel caso, la ferocia contro il corpo femminile.

Postato venerdì, 4 giugno 2010 alle 16:36 da Gianfranco Manfredi


Cose turche: “L’ho ucciso perché ho avuto una visione”.
Anche il pazzo è un analizzatore involontario, una specie di cartina di tornasole di quello che, compresso nell’individuo, si dispiega nella società. A volte contro il corpo femminile, altre volte contro altri corpi supposti o suggeriti come “impuri” dalla propria cultura o sottocultura di appartenenza.
ww.corriere.it/cronache/10_giugno_04/vescovo-assassino-confessa_16ec7eba-6fb9-11df-b547-00144f02aabe.shtml

Postato venerdì, 4 giugno 2010 alle 16:53 da Gianni De Martino


ww.corriere.it/cronache/10_giugno_04/vescovo-assassino-confessa_16ec7eba-6fb9-11df-b547-00144f02aabe.shtml

Postato venerdì, 4 giugno 2010 alle 16:54 da Gianni De Martino


La pazzia (anche quando non sfocia nell’omicidio seriale) è sempre una cartina di tornasole.Il pazzo in quanto tale spesso ha la facoltà di proferire verità che gli altri tacciono. (potere che spesso spetta ai bambini o ai giullari,categorie spesso associate al pazzo,perchè latori di comportamenti incomprensibili e quindi perturbanti)
Nel caso di Jack,i suoi delitti hanno svelato gli aspetti più repressivi e misogini della società del periodo,tanto che ci fu anche chi propose di considerare lo squartatore come un benefattore perchè uccideva delle prostitute.Purtroppo guardando a certi fatti di cronaca sembra che una certa morale misogina non sia scomparsa.(e questo è un orrore con la O maiuscola)

Postato venerdì, 4 giugno 2010 alle 17:10 da Francesco Moretta


Sempre recuperando dalla miniera di spunti che avete regalato, tornerei alla dimensione di simboli, miti e riti – e in particolare su un aspetto di cui mi sono occupato anni fa proprio in relazione al vampiro. Anzi alle vampire, e con particolare riferimento al movimento neogotico: nel cui ambito mi pare emergano in modo solo più trasparente una serie di dinamiche diffuse nel mondo contemporaneo. Il punto di partenza stava nel considerare la trasformazione della Carmilla di Le Fanu in eroina – ma diciamo semplicemente eroe, nel senso tecnico, mitico-antropologico – di un movimento neogotico di latitudine internazionale. Quando un testo lungo come quello di Le Fanu è riportato nella sua integrità in una pletora di siti diversi nella stessa lingua è interessante domandarsene il motivo: non si tratta di una semplice agevolazione della lettura, perché basterebbe un link. Sembra piuttosto trattarsi della condivisione su un piano più profondo di un testo-chiave, un “testo sacro”, se mi passate il termine, devotamente celebrato. Quando ciò poi si accompagna a un ampio contesto di pratiche di identificazione (da condivisioni letterarie e musicali all’abbigliamento in neo-romantic look – che richiama la “nerezza” e insieme una rilettura postmoderna degli abiti vittoriani – alla frequentazione di certe realtà web, al turismo cimiteriale, eccetera) è chiaro che si va oltre la dimensione del gusto e della semplice “moda” e si parla di qualcosa che coinvolge la definizione di sé e di una comunità. Al di là degli aspetti bizzarri ed esteriori delle mimesi (si sono citati in questo blog i giovani vestiti come personaggi manga) quel che rileva sono evidentemente i livelli più profondi e inespressi, spesso carichi di emotività ma anche di ragioni e inquietudini serissime. D’altra parte la mimesi avviene in forme molto diverse e non sempre riconosciute o riconoscibili all’esterno.
Il discorso è ampio e occupava un’intera sezione de Le vampire, quindi mi scuso per la sintesi brutale che può alla fine risultare confusa: Carmilla, Dracula e in generale i protagonisti del gotico sono assunti a figure non solo mitologiche ma connesse con riti e pratiche esistenziali (di forma e profondità variabile) da una fetta più o meno rilevante di cultura alternativa. Nelle antiche civiltà erano ritualizzati “Misteri”, cioè celebrazioni collettive di aspetti centrali dell’esistenza, il cui nucleo non dicibile (e connotato drammaticamente) era offerto in forma esemplare all’esperienza dei partecipanti. Certo tutto ciò riguardava in prima battuta il rapporto con la Natura di civiltà agrarie, che così partecipavano allo sforzo per il rinnovamento stagionale: solo più avanti si passerà ai Misteri del rinnovamento personale. Le pratiche condivise dei gruppi neogotici sembrano riprendere – in modo più o meno cosciente – questo ordine di suggestioni: la celebrazione di Misteri che mettono in gioco le istanze “grosse” dell’esistenza, e con un linguaggio provocatorio che richiama un tremendum.
Il parlare di un “culto” degli eroi gotici, a noi che da mesi dibattiamo di vampiri, non appare strano: attraverso queste figure – che hanno oltretutto un indiscutibile fascino estetico – l’uomo contemporaneo ha la possibilità di riflettere su una serie di temi enormi. E comunque sente, più o meno confusamente, che questi miti toccano qualcosa di profondo della nostra vita interiore, offrono un linguaggio per certe emozioni, per certe critiche ai modelli esistenti – e per una riscoperta, tanto per dirne una, di una categoria della morte fuggita come un tabù dal mondo contemporaneo. E proprio a partire da quei nuclei tematici nei quali ancora riconosciamo il nostro rapporto con la Natura: la generazione/nascita, la sessualità, la morte: elementi presenti nei Misteri del vampiro, di Frankenstein e di un po’ tutti gli eroi gotici. Proprio sulla base dell’esperienza – per quanto settoriale – degli amici neogotici e delle loro pratiche cultu(r)ali si può però individuare un orizzonte più diffuso, che interessa noi tutti.
La nostra esperienza del Fantastico è per molti versi venata di ritualità. Il Fantastico è un linguaggio esemplare – nel senso di fornire chiavi forti per l’interpretazione della realtà – recettivo di un orizzonte di miti estremamente radicati e condivisi; e in particolare il Fantastico orrifico costituisce, almeno in potenza, una delle forme più emblematiche di manifestazione del tremendum al fruitore/devoto. Scrittori e registi (da Whale a Fisher) hanno corteggiato lucidamente questa dimensione rituale/liturgica nelle loro opere, a definire veri e propri Misteri per platee più o meno vaste di lettori e spettatori. Una dimensione che del resto trova significativo raccordo con il linguaggio della serialità – dai penny dreadful ai telefilm, a certi cicli di film (Universal, Hammer…) sullo stesso personaggio, che vedono riproporre come una celebrazione le stesse istanze ossessivamente ripetute… Che l’horror sveli in sostanza a livello di immaginario collettivo una forte dimensione di rito – e rito sacrificale, del Mostro in prima battuta – è un dato ormai acquisito.
Posto però che la dimensione rituale è pre-religiosa, riguarda l’orizzonte della comunicazione simbolica e fa parte delle strategie dell’uomo di ogni tempo per affrontare le crisi individuali e collettive, il rito impregna il nostro comportamento anche privato ben al di là di quanto ci accorgiamo. E in qualche modo un “culto” (con tutte le virgolette del caso) dei grandi eroi gotici interessa anche noi, certo con “pratiche” variabili ma con la condivisione di istanze simboliche profonde e con l’esperienza (ritualizzata) dell’accesso a un tremendum che ci spiazza o dovrebbe farlo.

Postato sabato, 5 giugno 2010 alle 21:56 da Franco Pezzini


Vi passo una mia trama demente per un mega-giallo storico alla moda.
Se qualcuno/a vuol scriverlo assieme a me, fatemi un fischio.

Mentre scriveva il seguito del “Principe”, il cui titolo sarebbe stato “Il presidente”, Machiavelli uccise Cesare Borgia durante un’orgia.
Nove mesi dopo nacque una bambina che sarebbe stata la bis-bis-bis-bis-bis-bis nonna di Mozart, che nascose questo tenebroso mistero familiare (rivelatogli da Giacomo Casanova che lo aveva scoperto nei sotterranei di Venezia) nelle note del Rondò per pianoforte e orchestra K 386.
Oltre un secolo dopo, per portare alla luce l’enigma mozartiano, Albert Einstein e Franz Kafka devono cercare le pagine mancanti e scomparse da due millenni del “Satyricon” di Petronio Arbitro.
In esso troveranno sconcertanti indizi che li condurranno a comprendere il mistero dei delitti di Jack lo Squartatore.
Ma il colpevole ormai vecchio fuggirà in America, cambierà identità, si arricchirà e diventerà un miliardario, i cui eredi commissioneranno l’assassinio del presidente John Fitzgerald Kennedy, ucciso il giorno prima di poter finalmente leggere l’opera inedita di Machiavelli, appunto “Il presidente”, libro che avrebbe cambiato la storia del mondo.

Postato domenica, 6 giugno 2010 alle 12:15 da luciano / idefix


L’intervento di Franco, lo leggo subito dopo aver leto nel week end due sei saggi appena usciti. Uno è di Fabrizio Foni “Piccoli Mostri crescono” (WalkieTalkie) che analizza i temi fantastici nella prima annata de “La Domenica del Corriere”. L’altro è il saggio di Monica Dall’Asta: “Trame spezzate- Archeologia del film seriale” (Le Mani) che considera il cinema seriale e di genere dei primi del novecento. In entrambi gli studi, ci sono dei capitoli iniziali molto interessanti sul dibattito critico in corso in merito al ruolo della narrativa popolare e del fantastico in particolare. Quello che qui ha scritto Pezzini in merito agli aspetti rituali (cosa c’è di più rituale della serialità?) va anche considerato all’interno di un problema che non si affronta mai con la necessaria consapevolezza e lucidità e cioè che dalla nascita del romanzo d’appendice in poi , assistiamo al dispiegarsi di una narrativa che “crea il lettore”, ne forgia addirittura le abitudini. Gli appuntamenti editoriali (giornalieri, nel caso dei quotidiani; settimanali nel caso dei fumetti o dei telefilm : mensili , annuali e così via a seconda dei media e dei format utilizzati) sono già una forma di rito prescritto ai fedeli. Cambiano la vita delle persone non nel senso che possano direttamente causare cambiamenti psicologici , tanto meno rivoluzioni politiche, ma anzitutto proprio stabilendo dei rituali, primo fra tutti, quell’appuntamento che ci fa sospendere ogni altro nostro impegno (“no, mercoledì sera non posso, perchè c’è Desparate Housewives” può sembrare una dichiarazione da subornati della TV, ma vi assicuro che nel 1989 mentre mi trovavo a Los Angeles per la registrazione di un disco, cui partecipavano musicisti così famosi da far tremare i polsi, la sera in cui andava in onda la nuova puntata di Twin Peaks di Lynch. la sala si fermava, si fermava mezza Los Angeles, perchè nessuno voleva perdersela ). La Messa alla domenica, è un rito ereditato, cui molti credenti non partecipano più (si va in chiesa se obbligati da un lutto o da un matrimonio). Si sono invece moltiplicati gli appuntamenti cui non si può proprio mancare, perché li si sceglie senza apparente condizionamento. Nella produzione di questi riti e costumi laici, certo c’è molto di “alternativo” (basti pensare all’importanza del rock in questa produzione di riti di massa) , ma questo non spiega del tutto il fenomeno, perché a volte si tratta anche di riti mercificati , da “consenso” bovino, o addirittura regressivi , che si raggrumano per esempio intorno a rivendicazioni sessuofobe, omofobe, razziste, reazionarie d’ogni genere. In tutto ciò, e nell’ambiguità di senso di ogni singolo appuntamento/evento, di certo la cultura popolare gioca e ha giocato un ruolo gigantesco, che è ancora tutto da indagare. Di certo non se ne occupano gli studiosi di religioni, e invece dovrebbero. Se ne stanno occupando e molto gli studiosi della letteratura e del cinema popolare e in particolare di quello di orientamento fantastico. Non è un caso.

Postato domenica, 6 giugno 2010 alle 20:08 da Gianfranco Manfredi


@ Gianfranco
Anche se fuori argomento, mi piacerebbe conoscere maggiori dettagli su cosa accadde in quel di Los Angels nel 1989. Qual è questo disco che si stava registrando, con il coinvolgimento di musicisti così famosi da far tremare i polsi?
Sono troppo curioso, lo ammetto.

Postato domenica, 6 giugno 2010 alle 21:54 da Massimo Maugeri


E a questo punto mi è venuto in mente un nuovo possibile argomento di discussione vampirica…
Che connessioni ci sono (se ci sono) tra il mito e la letteratura vampirica e la musica (classica o moderna)?
Ci sono, per esempio, brani musicali ispirati ai vampiri.

Postato domenica, 6 giugno 2010 alle 21:59 da Massimo Maugeri


I musicisti di quel disco?Ne cito alcuni : Jeff Porcaro (che suonava la mattina per un LP di Springsteen e il pomeriggio e la sera con noi), Toto, Tower of Power, giovani di spicco come Steve Lukater e veterani leggendari come James Burton (chitarrista di Elvis Presley), produceva (e suonava) Scott Page, appena rientrato dalla tournée coi Pink Floyd. L’album era “E’ rock’n'roll” del mio amico Ricky Gianco.

Postato domenica, 6 giugno 2010 alle 23:34 da Gianfranco Manfredi


Mi viene subito in mente il mio amatissimo Neil Young con “Vampire blues”, dallo splendido e sottovalutato “On the beach”, lp del 1974.
Ecco il testo:
I’m a vampire, babe,
Sono un vampiro, piccola,
suckin’ blood
succhiando sangue
from the earth
dalla terra terra.
I’m a vampire, baby,
Sono un vampiro, bambina,
suckin’ blood
succhiando sangue
from the earth.
dalla terra.
Well, I’m a vampire, babe,
Beh, sono un vampiro, piccola.
sell you
Darti via
twenty barrels worth.
Vale la pena per venti barili
I’m a black bat, babe,
Sono un nero pipistrello, piccola
bangin’ on
che sbatte le ali
your window pane
sul vetro della tua finestra
I’m a black bat, babe,
Sono un nero pipistrello, piccola
bangin’ on
Che sbatte le ali
your window pane
sul vetro della tua finestra
Well, I’m a black bat, babe,
Beh, sono un nero pipistrello, piccola
I need my high octane.
Ho bisogno del mio carburante
Good times are comin’,
Stanno arrivando tempi d’oro
I hear it everywhere I go
Ne vedo i segni ovunque vado
Good times are comin’,
I tempi d’oro stanno arrivando
I hear it everywhere I go
Ne vedo i segni ovunque vado
Good times are comin’,
I tempi d’oro stanno arrivando
but they sure comin’ slow.
Ma in effetti arrivano piano.
I’m a vampire, babe,
Sono un vampiro, piccola
suckin’ blood
succhiando sangue
from the earth
dalla terra
I’m a vampire, baby,
Sono un vampiro, piccola
suckin’ blood
succhiando sangue
from the earth.
dalla terra
Well, I’m a vampire, babe,
Beh, sono un vampiro, piccola
sell you
Darti via
twenty barrels worth.
Vale la pena per venti barili
Good times are comin’.
Tempi d’oro stanno arrivando

Postato lunedì, 7 giugno 2010 alle 10:32 da luciano / idefix


L’opera più importante sul vampiro, è senz’altro Der Vampyr di Heinrich August Marschner (1795-1861) in due atti tratta dal racconto di Polidori. Prima rappresentazione Lipsia 29 marzo 1828. La Fonit Cetra la pubblicò, in una registrazione dal vivo del 1980 con l’Orchestra e Coro di Roma della Radiotelevisione Italiana, direttore Gunter Neuhold. Comincia con un coro di streghe e spiriti che canta: “Su streghe, folletti, teniamoci per mano, danzando s’aspetti il nostro Sovrano (…) Mezzanotte: morto è il dì, sol paura regna qui, al chiaror di luna andiamo fra le rocce cauti entriamo. Serpi, bisce sibilanti, fuochi, guizzi crepitanti, angui, rospi, nere gatte, mostri, streghe, laide schiatte, tutti in cerchio noi danziamo, corvi, gufi, su stridiamo! Jo ho ho ho! Jo ho ho ho!” Conviene precisare che la musica è infinitamente più bella del testo. L’altra opera indimenticabile e ancora insuperata, ma nella musica leggera, è “Dracula Cha-cha-cha” di Bruno Martino , cui seguì l’appendice “Draculino”. Entrambe presenti in varie versioni e parecchie lingue, su YouTube.

Postato lunedì, 7 giugno 2010 alle 10:34 da Gianfranco Manfredi


Spero che mi permettiate un piccolo sfogo. Vi ricordate che molti post fa parlai di una miniserie marveliana chiamata “Death of Dracula”?
Sono riuscito a leggere in anteprima il primo albo e posso affermare che ogni presagio negativo che avevo……..
……. si è magicamente avverato!
Il fumetto è l’ennesimo e insulso blockbuster a fumetti che la Marvel sforna ormai da anni. La trama vede i due figli di Dracula Janus e Xanus (che fantasia con i nomi Drac,un terzogenito come lo chiamavi,Zanus?)
che uccidono l’amato paparino per poi instaurare una guerra fratricida per il posseso del regno,alla quale partecipano anche gli X-men. Dracula muore subito,venendo liquidato come una sanguisuga qualunque,inoltre fisicamente non sembra Dracula,ma una specie di monarca albino vomitato dall’ultimo Mortal Kombat. La cosa che però mi fa inferocire di brutto è che questa schifezza verrà considerata quasi sicuramente come un capovaloro dalle orde di nerd Marvel-dipendenti! Dopo lo shifoso sequel “ufficiale” ecco un altro chiodo (o paletto) da conficcare nella bara del Conte. Mi consola solo l’uscita per un altro editore di un fumetto “The company of monsters” (sempre su Dracula) scritto da Kurt Busiek e che sembra essere qualcosa di ben fatto per una volta tanto.
Fine sfogo. Grazie per la pazienza.

Postato lunedì, 7 giugno 2010 alle 11:03 da Francesco Moretta


PULP ITALIANO

La settimana scorsa mi sono letto quattro horror di Laura Toscano scritti per KKK negli anni 60. Non posso analizzarli qui a fondo perché ci sarebbe troppo da dire , ma farò una rapida sintesi. I romanzi sono: “Furia” , un bizzarro mistery horror, ambientato tra Soho e la Scozia, che riecheggia e mescola situazioni da Hammer films, tra locali notturni alla moda e un cupo castello con i più tradizionali passaggi segreti che possiate pensare, e col finale obbligato: tutto in fiamme. “Gli esperimenti del Dott. Hass” , un horror di ambientazione nazista , col dottore pazzo che vuole creare un esercito di zombi (anche se non si usa questa parola, ma quella “cavie umane” o “automi”). “Macabrus” , storia di alchimia e di reincarnazioni. E il più interessante, che è “La quarta parete”, storia ambientata in una casa stregata in Canada. In tutte le storie l’horror ha come componente obbligata il sesso nelle varianti più toste: incesto, pedofilia, necrofilia, torture-porn. Di queste situazioni si offre una rappresentazione cruda e non appesantita da giudizi di tipo morale che suonerebbero nell’ambito di quel genere di pubblicazione, piuttosto ipocriti. Interessante e assai rivelatore è invece che tra tutte queste deviazioni da patologia sessuale, l’unica che desta nell’autrice autentico ribrezzo e riprovazione morale è il lesbismo (che come è noto, non fa male a nessuno, nonostante quanto ha sostenuto Paul Verhoven in quel suo orrido film Basic Instinct). Se si leggono questi romanzi nel contesto del cinema italiano dell’epoca ( Laura Toscano era sceneggiatrice) si possono rinvenirne i principali filoni: quello cormaniano dei castelli di cartapesta e dei castellani schizzati e ossessionati da maledizioni e morbose storie famigliari; quello della tortura associata a stravaganti ritorni medievali in pieni anni 60; quello del nazi-carcerario come pretesto per il sado-maso; e soprattutto quello che da Bava condurrà poi ad Argento, Sergio Martino e altri, cioè l’assorbimento dell’horror nel thriller maniacale con tanto di inchiesta “gialla” e abbondanti coloriture sexy. Su quest’ultimo punto si possono fare delle utili riflessioni. Non so se , come me, vi siete mai posti la domanda: ma perchè Argento infila i suoi momenti deliranti (che sono la cosa migliore dei suoi film) in una cornice gialla che presume di spiegare la vicenda razionalmente, mentre le spiegazioni sono così inconsistenti e ridicole che se ne potrebbe tranquillamente fare a meno? Cosa analoga si può rinvenire in molti film di Bava. La lettura della Toscano, da questo punto di vista è illuminante. Quasi tutti i suoi romanzi si concludono con il colpo di scena, grazie al quale tutto il sovrannaturale sparso a piene mani, alla fine si rivela truffaldino (anche per il lettore): era il delirio di un pazzo. La classica soluzione che spinge chi legge a mandare a quel paese l’autore, in quanto il lettore si sente preso per i fondelli (proprio come per le “spiegazioni” dei film di Argento. Io che li ho visti quasi tutti in sala, posso testimoniare che quasi sempre al momento delle spiegazioni, risuonano i vaffanculo del pubblico). Che bisogno c’è di queste spiegazioni pseudo-razionali che rinnegano di fatto gli assunti stessi dell’horror e interpretano l’onirismo come “ah, beh… era tutto un sogno” (nel senso di insignificante e/o di malato), oppure spiegano le insensatezza dei delitti con la facile tautologia: beh, l’assassino era pazzo? Gli autori, laici e svezzati, si rivolgono all’horror perché di matrice anti-clericale e perché provocatori per vocazione, però non vogliono passare per retrogradi, superstiziosi e anti-scientifici , ma soprattutto non vogliono fare la figura dei brutaloni da serie B tutti sesso e violenza. Per cui credono di salvaguardarsi confinando l’horror nel terreno del delirio e giustapponendo una costruzione e una spiegazione di tipo razionale, e confinando l’amore per il genere in una sorta di gioco con il gusto “popolare” cui inframezzare da “intellettuali”, qualche riflessione sociale (molto sullo sfondo) e qualche guizzo umoristico del tipo “non prendiamoci troppo sul serio”. Dopotutto, se si sfida la censura della Pubblica Morale, non ci si può esporre anche a quella delle accademie laiche diffidenti a sempre dell’ “emotivo” contrapposto all’ “intelligente”. Il problema è che le punte espressive sono proprio nell’emotivo, mentre di intelligenza se ne vede poca, anzi è di solito risibile. Questo è a mio avviso, il marchio d’infamia dell’horror italiano: da un lato rincorre il grand guignol con gli effettacci, dall’altro rinuncia al simbolico per un “razionale” piccolo piccolo, mera giustificazione di eventi efferati che di giustificazione non hanno bisogno, soprattutto a tale livello di inconsistenza. Se ci si pensa bene, anche Dylan Dog , pur cambiando completamente i parametri, è per molti versi figlio di questa eredità. Il personaggio è un Investigatore dell’Incubo, cioè i suoi deliri si iscrivono in un percorso di detection, e danno luogo alla fine a una spiegazione “razionale”, vista come una specie di catarsi, quasi che fosse la Ragione a poterci liberare dall’Incubo e non facesse parte ( la Ragione stessa) dell’Incubo. In sostanza sia il coté “intellettuale” che quello “emotivo” vengono così relegati all’infantilismo. Intellettualismo da poveri di spirito ed emotività che invece raggiunge punte espressive e “trasgressive” che gli americani non potevano all’epoca permettersi , eppure costantemente negate per non diventare dei paria delle Accademie. Da qui anche l’esigenza di occultarsi sotto pseudonimi e nomignoli stranieri , di modo che l’autore non debba vergognarsi troppo di fronte ai suoi amici borghesi. Rispetto a romanzieri pulp e a a cineasti in maschera, va rilevato come gli autori di fumetto siano sempre stati più coraggiosi e spericolati, firmandosi con il proprio nome , fregandosene bellamente delle accademie, dei critici, delle associazioni per la tutela morale dell’infanzia, e dei luoghi comuni del tipo : queste cose le fanno meglio gli anglosassoni, lasciamole fare a loro. Forse è anche per questo che oggi, a distanza di mezzo secolo, certi fumetti popolari considerati all’epoca diseducativi, vengono studiati nelle Università e fatti oggetto di ponderosi saggi, mentre molta produzione in vario modo edulcorata si presta più a una lettura storico-sociologica “da costume letterario” (o cinematografico) , perché lo specifico estetico e narrativo è invece scoraggiante. Ben fatto artigianalmente, intendiamoci, si usa spesso il linguaggio con la stessa sapienza con cui si usa la macchina da presa, però senza presumere mai di voler davvero significare qualcosa. L’insieme risulta così, sempre, accozzato. Bisogna ricorrere a categorie esterne (il gusto nazionale dell’epoca, il cambiare dei costumi e della morale dall’epoca del boom in avanti) , perché l’indagine interna, strutturale dei testi e dei film non può che mostrare tutti i limiti e l’inconcludenza dell’opera in sé.

Postato lunedì, 7 giugno 2010 alle 11:48 da Gianfranco Manfredi


IL PULP DI SARTRE

A titolo di confronto, vale la pena di citare una citazione di Fabrizio Foni di Jean-Paul Sartre: ” Durante una delle nostre passeggiate, mia madre si fermò come per caso di fronte a un’edicola: vidi figure meravigliose, quei colori accesi mi affascinarono, le volli a tutti i costi, le ottenni (…) Debbo a queste scatole magiche e non alle frasi ben bilanciate di Chateaubriand, i miei primi incontri con la Bellezza. Quando le aprivo, scordavo tutto: era leggere, questo? No, ma morire d’estasi: dall’abolizione di me stesso nascevano subito indigeni muniti di zagaglie, la boscaglia, un esploratore col casco bianco. Ero VISIONE, inondavo di luce le belle guance scure di Aouda, i favoriti di Philéas Fogg. Liberatasi di se stessa, la piccola meraviglia si lasciava diventare puro stupore. A cinquanta centimetri dal pavimento nasceva una gioia senza padrone né guinzaglio, perfetta. Il Nuovo Mondo sembrava dapprincipio più inquietante dell’Antico. Saccheggi, massacri: il sangue scorreva a fiumi. Indiani, Indù, Moicani, Ottentotti, rapivano la fanciulla, legavano solidamente il vecchio padre e si ripromettevano di farlo perire tra i più atroci supplizi.” Strano destino del romanzo popolare figlio del colonialismo, studiato all’apparenza per farci inorridire dei selvaggi, ma nella percezione fantastica dei ragazzi, sogno invece di vita selvaggia, fuori da ogni regola, base fondativa di tutte le trasgressioni a venire, prima fra tutti la fantasia militante de “L’Immaginazione al Potere”. Va notato come di recente, molti critici giudichino Sartre come scrittore e filosofo eccessivamente razionalista! A volte c’è davvero di che stupire: ma certi critici accademici possibile che non debbano mai capire un cazzo? Si sono mai sentiti, da lettori, diventare VISIONE?

Postato lunedì, 7 giugno 2010 alle 12:47 da Gianfranco Manfredi


DI NUOVO SU FRANKENSTEIN

Per puro scrupolo mi sono accollato la visione di una puntata di Voyager del 2004 sulle origini di Frankenstein. Confrontandola con quella pur vituperabile di History Channel , di cui ho già parlato, c’è davvero di che farsi cascare le braccia. L’ineffabile conduttore aggirandosi in un bosco tra fumoni finti e risaputi effetti di gelatine azzurre si reca al castello di Frankenstein (il Frankenstein storico ha un rapporto ancor più labile con quello letterario di quanto non ne abbia Vlad con Dracula ) dove intervista lo studioso Florescu , autore di un saggio alla fine degli anni 70, in cui sosteneva che il personaggio di Victor Frankenstein derivava direttamente da Conrad Dippel, un anatomista secentesco abitatore del suddetto castello. Difficile provare che Mary Shelley ne conoscesse la storia se non per vago sentito dire, tant’é che la maggior parte dei ricercatori non ha dato molto credito (se non come coloritura folklorica) alle sue labirintiche quanto indimostrabili supposizioni, essendo tra l’altro invece ben documentato che la Shelley, per relazioni e interessi di famiglia, conosceva benissimo gli esperimenti londinesi di Giovanni Aldini (reputato come modello più credibile e tra l’altro ben più attuale, all’epoca, del Frankenstein letterario). Comunque si sa che Voyager va alla ricerca non dei sentieri più documentati e credibili, ma delle piste più farlocche. Nello pseudo documentario, il nostro intervista anche un non meglio identificato giornalista, il quale sostiene che la Shelley assistette di persona all’immissione di energia elettrica in un cadavere (nel salotto di casa sua), i cui movimenti divennero così forsennati da spezzare la sbarra d’acciaio che lo teneva assicurato al tavolo anatomico, e da inzaccherare di sangue gli astanti. Dato che i cadaveri non sanguinano, l’effetto dovette davvero essere prodigioso. Insomma una sequenza di bestialità inenarrabili, quattro riprese in esterno che un qualsiasi filmaker realizzerebbe meglio e a costi inferiori, montaggio di frammenti cinematografici e finalino sulla pecore Dolly e la clonazione umana, che con Frankenstein c’entra come i cavoli a merenda. Per questa feccia di programmi, paghiamo il canone. Sfumatura ideologica: mentre gli inglesi producono la docufiction su Aldini, noi italiani collochiamo lo scienziato pazzo in Germania perché ci fa più comodo e non rischiamo di turbare la coscienza nazionale.

Postato lunedì, 7 giugno 2010 alle 16:16 da Gianfranco Manfredi


Chi fosse interessato ai legami di Frankenstein con la ricerca scientifica dell’epoca, può leggersi il bel saggio di Iwan Rhys Morus, Frankenstein’s Children – Electricity, Exhibition and Experiment in Early-Nineteenth-Century London (Princeton University Press, 1998). Sulla storia culturale del mito si può invece leggere “Frankenstein – A Cultural History” di Susan Tyler Hitchcock (Norton & Company, 2007).

Postato lunedì, 7 giugno 2010 alle 16:26 da Gianfranco Manfredi


@ Gianni. Avevo letto anch’io del caso giornalistico cui hai accennato. Mi pare però che l’omicida non abbia detto di aver avuto una visione, ma di aver udito una voce divina che gli ordinava di commettere il delitto, stessa giustificazione del resto già data a suo tempo da Ali Agcia per giustificare il suo attentato al Papa. L’ordine delittuoso impartito da una voce divina è un classico della neuropsichiatria su cui sono scritte montagne di pagine. L’origine è nel mito di Abramo cui viene impartito l’ordine assurdo (e poi revocato) di uccidere suo figlio. Nelle versioni schizoidi, l’ordine divino non viene mai revocato. L’omicida per discolparsi non può ammettere una revoca dell’ordine, altrimenti l’esecuzione cieca con cui si autoassolve, non starebbe più in piedi. C’è una logica razionale nel delirio, di un razionalismo molto rozzo, che esclude la contraddizione, trattasi cioè di razionalismo pre-dialettico. La Ragione viene usata come artificio sofistico auto-giustificazionista. L’incapacità di elaborare il simbolico, si sposa dunque con un uso puerile della ragione (Non è colpa mia, me l’ha ordinato una voce) . Che la voce sia quella di Dio o del superiore diretto ( obbedivo agli ordini) oppure vox populi ( sì, mi sarò comportato male, ma così fan tutti) ciò che si sente istintivamente di dover negare è il principio di responsabilità personale (sul quale dovrebbe fondarsi la Democrazia, perché senza responsabilità personale non c’è Democrazia possibile). Se dunque irridiamo alla versione primitiva e “folle” del “me l’ha ordinato Dio”, dovremo considerare con maggiore severità quella del tutto ordinaria secondo la quale si tollera che una persona normale esegua passivamente ordini che sente ingiusti e sbagliati in ossequio alla gerarchia, o che conservi comportamenti deplorevoli (corruzione, nepotismo, sudditanza alle idee correnti e dominanti, consumismo telecomandato) per puro senso di appartenenza al gregge. Mentre infatti “le voci di dentro” offrono comunque una possibilità di indagine e di terapia, “le voci di fuori” vengono accettate come date e ineluttabili, come Legge Comportamentale non scritta. Tutti colpevoli, nessun responsabile.

Postato lunedì, 7 giugno 2010 alle 16:49 da Gianfranco Manfredi


Per tornare ai temi narrativi, il visionario è cosa ben diversa dall’etero-diretto e nel passo di Sartre citato da Foni, questo risalta ben chiaro. La visione è esperienza estatica senza la quale non si dà possibilità di estetica. La visione è anche rivelazione, cioè anticipazione/svelamento di senso (che nelle tribù degli indiani d’America veniva sottoposta a verifica di credibilità da parte dell’assemblea della tribù stessa, dunque non veniva di per sè accettata senza criterio). La rivelazione conduce all’indagine. C’è una significativa diatriba nata in Italia a proposito del racconto di Poe The Tell-Tale Heart , che alla lettera significa “Il Cuore Chiacchierone” o anche Il Cuore Spione (e pettegolo), racconto che Beaudelaire tradusse con “Il Cuore Rivelatore”. Alcuni studiosi recenti hanno irriso a Beaudelaire, che secondo loro avrebbe attribuito a Poe, fumisterie “rivelazioniste” e “simboliste” a lui estranee. Manganelli nella sua traduzione di Poe, tagliò corto e intitolò: “Il rumore del cuore”. Per cui , via le rivelazioni e via anche le ironie di Poe sulle spiate di un organo pulsante. Il battito del cuore ridotto a rumore, compiuta rivoluzione laicista depurata da ogni tentazione al visionario, all’onirico e al simbolico. Ora è vero che la traduzione di Beaudelaire annulla l’ironia di Poe, ma è anche vero , come fa Claude Richard che “questo cuore in realtà non rivela nulla” è una manifesta bestialità, e basta leggere il racconto per rendersene conto. ne racconto, il protagonista ossessionato dal battito del cuore dell’uomo da lui ucciso, confessa la sua colpa alla polizia e conduce gli agenti al rinvenimento del cadavere. Il che equivale a stabilire la connessione di cui sopra: rivelazione-indagine-prova. Questo è un tipo di esempio di come nella percezione di molti intellettuali, il mondo del simbolico sia legato all’infantile, e non debba perciò richiedere indagine, anzi ogni indagine razionale non può avere altro effetto che la distruzione dell’universo simbolico. I tempi sono maturi per superare questa superstizione laicista come nei secoli passati si sono superate quelle di origine religiosa. In Italia, dopo Fellini, è davvero incredibilmente retrodatato questo avvilimento del visionario a infantile e immaturo (accusa che pure venne rivolta a Fellini stesso). Gli junghiani sono da sempre considerati come una sorta di circolo esoterico dai contorni intellettuali piuttosto vaghi e dalla scientificità parecchio vaga. Sembra che se non si erige una diga tra Fantastico e Razionale , ci si senta all’improvviso travolti dal Caos. Il pensiero laico ha un disperato bisogno di sicurezze esattamente come quello religioso. Senza certezze di fede, il Mondo perde consistenza. Salvo poi riconoscere melanconicamente che questa consistenza è così terribilmente fragile da lasciarci indifesi di fronte “all’insostenibile leggerezza dell’essere.”

Postato lunedì, 7 giugno 2010 alle 17:20 da Gianfranco Manfredi


correggo: è anche vero che sostenere, come fa Claude Richard che “questo cuore in realtà non rivela nulla”…

Postato lunedì, 7 giugno 2010 alle 17:25 da Gianfranco Manfredi


Questo riconduce anche al discorso sui riti e sui comportamenti. Continuiamo a intrupparci in riti di cui non comprendiamo il senso, ma che per noi hanno senso partecipandovi, salvo poi scoprire nel tempo che questo senso è appassito, non c’è più, ucciso dalla ripetizione, e dunque passiamo con la stessa disinvoltura a un altro rito (quanti ho sentito dire: ah, di questo calcio non se ne può più, io passo al rugby). Celebrare riti e cerimonie senza sapere minimamente cosa si sta facendo , non è l’ebrezza del perdersi nel rito sentendone il senso, ma è affidarsi a una ritualità cieca. Non so se l’ho già citato, ma alla metà degli anni 60, un gruppo di hippies di san Francisco contattò degli indiani Hopi per celebrare un rito della fratellanza. Il capo-sciamano cui si rivolsero, respinse l’invito con delle parole piuttosto crude nella loro verità: voi non avete la minima idea di cosa sia una tribù, siete e resterete individui profondamente soli che si aggregano provvisoriamente per tornare soli un attimo dopo. Beh, non sono molto spesso i nostri riti di gruppo , pura fuga della solitudine nell’identificazione con un collettivo altrettanto impalpabile dell’io? Ogni volta che si sente di appartenere a una comunità, si avverte lentamente un senso di oppressione schiavistica che dalla comunità ci fa fuggire, senonchè quando ci ritroviamo soli, non ci sentiamo perciò liberati, ma nostalgici dell’appartenenza (come cantò Gaber in una sua famosa canzone). E’ un circolo vizioso da cui non si esce, soprattutto se si continua ad essere ciechi sul senso di un rito. E’ il modo più sicuro per consegnarsi a riti che poco dopo essere stati vissuti ci appaiono senza senso. Se non ne conoscevamo il senso in partenza, né volevamo conoscerlo magari perché convinti che “Libertà è partecipazione” come possiamo esserne consapevoli alla fine? Una volta chiesi a Giorgio Gaber, dopo qualche anno dalla sua canzone, “ma sei ancora sicuro che Libertà non sia anche star sopra un albero?” Sorrise e assentì, come di fronte a una piccola, ironica rivelazione.

Postato lunedì, 7 giugno 2010 alle 17:47 da Gianfranco Manfredi


C’era anche qualche reminiscenza letteraria nella libertà dello “star sopra un albero” , vedi il fantastico racconto fantastico di Calvino “il barone rampante”.

Postato lunedì, 7 giugno 2010 alle 17:52 da Gianfranco Manfredi


Cosa dire del commento di Manfredi delle 11.48?
Mi immagino una scena: all’Università il professorone esamina il candidato Gianfranco Manfredi che fa un intervento così. Al che, il docente si alza e, indicando la sedia dietro la cattedra, dice: “prego”
Un testo lucido e pieno di stimoli.
Provo a riprenderne solo una.
E’ tutto il rapporto della narrativa italiana con l’avventura, col fantastico, con lo “strano”, con i generi, a essere distorto e sbagliato. Nelle scuole, per decenni e decenni, fu imposta una visione penitenziale della lettura e della letteratura: dai Malavoglia alle Ultime lettere di Jacopo Ortis.
Perchè qui da noi la sola idea di “godimento letterario”, di piacere del testo venne combattuta a lungo. Da un lato dai cattolici, dall’altro da certa cultura marxista.
Basti ricordare uno dei capolavori della nostra letteratura (anche se scritto in francese: la Storia della mia vita di Casanova): ancora adesso chi mai lo cita a scuola? Eppure è una delle opere più belle, libere e travolgenti che esistano. Raus!!!! Proibito, verbotten, forbidden.
Urania, Galassia e fantascienza? Roba per mentecatti.
Il Signore degli anelli e la fantasy? Reperti fascistoidi.
I fumetti? Carta imbrattata per analfabeti.
Stevenson? Purtroppo scrisse troppa roba per ragazzi.
Poe & C? Beh, non sono mica letteratura.
Salgari? Si legge fino a dieci anni.
Ecco allora che pure il fantastico-thrilling-di genere italiano risente di questa impostazione “culturale”.
Perfino nelle sue punte migliori.
Per restare a Manfredi e al suo Magico Vento, c’è un forte e solido fondamento storico e antropologico che irrobustisce l’intera saga. Oppure (altro esempio) nel televisivo “Voci notturne” scritto da Pupi Avati si mescolano oscuri riti dell’Antica Roma e le razzie naziste nel ghetto ebraico di Roma nel 1943. E nel “Segno del comando”, lord Byron e via via indietro nel passato di Roma.
Ma spesso (nei generi italiani) non vi è “cultura” bensì ambizioni culturali, sindrome del capolavoro, complessi di inferiorità/superiorità nei confronti di altri paesi che non hanno queste smanie scolastiche, questa paura di risultare troppo gratuiti.
Da noi bisogna essere Impegnati con la I maiuscola.
Oppure scoreggioni.
E solo pochi sono riusciti a sottrarsi a quest’alternativa del diavolo.

Postato lunedì, 7 giugno 2010 alle 22:15 da luciano / idefix


Caro Luciano, il tuo commento mi commuove (e non per la cattedra gentilmente offerta, perché quando ero lì per ottenerla per legge, diedi le dimissioni in quanto preferivo di gran lunga fare il cantante: in Università mi sentivo un sepolto vivo) ma per l’orgogliosa rivendicazione di quello che ci ha spinto a scrivere, che per altri generazioni venute dopo sono stati magari i manga, e va bene lo stesso, l’importante è che quando siamo lettori e non ancora scrittori, si accenda la luce e questa luce non conosce alto e basso, gusto e disgusto, questa lettura, come dice Sartre, non è neanche una lettura, è e-vocazione, e solo allora, quando capiamo che quel pezzo di carta ha svegliato in noi delle visioni,allora ci avviciniamo nel modo giusto all’idea di scrivere che non è quella di voler fare gli scrittori da grandi , perché non è il ruolo di SCRIBA che ci interessa , ma semplicemente il narrare. Ci interessa il narrare perché è parte della nostra vita, perché non potremmo farne a meno, perché anche la nostra vita e le vite degli altri le sentiamo come narrazioni. Tu che sei valdese capirai bene la differenza tra aspirare a fare il prete e il sacerdozio universale che non ha bisogno di chierici , che magari richiede molta più fatica e studio e spesso sofferenza, ma che ripaga non per quanto ci si guadagna, né per l’autorevolezza che se ne ricava (spesso anche da mediocri, ma “togati”), ma per la gioia che dà in sè. Per quanto… essere pagati per raccontare delle storie, beh… è il maggior privilegio che ci si possa attendere. Nessuna balia è mai stata compensata per raccontare storie, la pagavano per dare il latte e l’assistenza, ma quel di più , quel non richiesto, quel dono che sono le storie delle balie, nutre un bambino in misura ben maggiore e dà un senso prezioso e sacro al lavoro stesso della balia. Queste righe le dedico alla mia balia, la Finfo (questo il suo soprannome) che quand’ero piccolissimo mi raccontava (da analfabeta di incredibile capacità affabulatrice) delle storie macabre, meravigliose, comiche , semplici eppure complicatissime, come tutte le favole, insegnandomi che non c’è nutrimento migliore di quello che viene dalle storie. Se abbiamo paura di liberarci alla fascinazione delle storie, se le consideriamo, da grandi, come macchinette da sfornare dopo la lettura del manuale di una Scuola di scrittura o seguendo le prescrizioni Accademiche, allora potremo anche diventare degli scrittori professionisti, ma non dei narratori, perché le due cose sono molto, molto diverse. Oggi ho postato un sacco di cose, forse troppe, ma da domani me ne vado in vacanza per una decina di giorni e spegnerò il PC, altrimenti che vacanza è? Ma so che questo forum continuerà e che al ritorno potrò ricavarne nuovi stimoli. Viva Casanova, viva Stevenson, viva Pinocchio, viva “Il Segno del Comando”, viva Lady Oscar e chiunque vogliate infilarci che ha saputo accendere la vostra immaginazione. Dracula è in ottima compagnia.

Postato lunedì, 7 giugno 2010 alle 23:25 da Gianfranco Manfredi


Sono in arretrato e dovrò recuperare la lettura dei nuovi commenti.
Lo farò domani.
Intanto… un saluto.

Postato martedì, 8 giugno 2010 alle 00:54 da Massimo Maugeri


Arghhh!
Questo post si appresta a diventare il più commentato del blog, superando il mio amato “Letteratitudine book award 2008″.
Vampiri che non siete altro!
:-)

Postato martedì, 8 giugno 2010 alle 00:57 da Massimo Maugeri


A Gianfranco (e a chiunque altro voglia leggerlo), racconto un piccolo episodio che mi colpì molto.
Accadde tanti anni fa, credo fosse il 1985 o dintorni. A quel tempo frequentavo un negozio di dischi a Trieste in corso Saba, uno dei commessi era un ragazzo assai strano e di troppo fragile sensibilità, a metà fra il dark il punk il borderline, vestiva di nero o con colori schizzati, gli piacevano Cure Smith Syouxie Clash Television Xtc, l’allora sconosciuto Nick Cave con i suoi Birthday Party e altri nomi di nicchissima.
Un pomeriggio, parlando di musica, mi disse una frase che non dimenticherò mai: “io rispetto tutti quelli che ascoltano musica. Anche chi ha gusti diversisimi. Anche chi ascolta Julio Iglesias o i Ricchi e Poveri con passione. Invece diffido di chi ascolta le cose che ascolto io ma lo fa solo perchè va di moda, senza amore”
Sono passati tanti anni, quel ragazzo si è suicidato perchè era troppo trasparente e troppo fragile.
Ma la sua frase mi è rimasta dentro incisa a suon di rock.
Come il ricordo di un suo paio di babucce nere dalle nappe coloratissime che aveva in negozio.

Postato martedì, 8 giugno 2010 alle 10:07 da luciano / idefix


Pare che una moltitudine di lettori, ma anche di autori, campi sulla propria incapacità di considerare il senso, implicito ed essenziale, di molti termini della lingua che credono di padroneggiare. Immortalità è una di queste parole, mal comprese nella purezza della loro accezione. Questo termine indica l’essere al di sopra della durata temporale, quindi è associato all’eternità la quale deve essere oltre alla relatività dell’esistenza, nella manifestazione della realtà caratterizzata da limiti e relazioni che si disegnano vicendevolmente. Eternità non è perpetuità. Quest’ultima indica l’appartenenza a un determinato ciclo temporale e lo percorre nella sua valenza macrocosmica, alla fine della quale perderà l’appoggio che ne consente la sussistenza. L’Eternità, invece, è oltre ogni ciclica durata e anche all’estensione, essendo infinito eterno e assoluto tre termini tra loro sinonimi che indicano delle assenze. L’Assoluto, in effetti, può essere definito solo attraverso delle negazioni, ovvero la specificazione di ciò che assoluto non può essere. L’Assoluto, infinito ed eterno deve essere unico, perché se fossero due uno limiterebbe l’altro, indiviso, non esteso, privo di limiti e oltre l’essere. Per queste ragioni appena esposte si deve ammettere che le attribuzioni assolutistiche assegnate al male sono prive di fondamento. In fondo è questa assenza di senso e significato che affascina coloro che amano avere paura di ciò che ignorano. È per questa ignoranza totale che saranno sempre accontentati.

Postato martedì, 8 giugno 2010 alle 11:38 da vajmax


Non sono tanto d’accordo sulle tue conclusioni, vajmax. Un conto è l’assenza di senso oggettivo, un altro è l’attribuzione di senso. L’indagine del senso oggettivo resta fondante della conoscenza , che si parli delle Leggi di Natura o della supposta Armonia del creato o della apparentemente contraria teoria del Caos che tuttavia mantiene il carattere di indagine oggettiva e strutturale (basti pensare ai frattali), la descrizione del Fuori da noi resta indispensabile anche dal punto di vista dell’utilità delle conoscenze cioè del loro contenuto pratico e “funzionante”. Altra cosa però è supporre una finalità razionale nelle Cose, come disposizione divina di una finalità dell’esistenza insita nell’ordinamento delle cose. Marx giovane, tanto per fare un esempio, irridendo il concetto di “destra” e “sinistra”, scriveva che ciò che è a destra e ciò che è a sinistra dipende dalla direzione di marcia. In altre parole, e fuori dal pensiero “politico”, è il punto di vista che orienta e organizza il reale . Queste cose erano già state chiarite matematicamente da Leibniz e in tempi più recenti Gilles Deleuze si richiamò esplicitamente a lui. Il punto di vista, non significa che tutto è relativo in sè, ma che tutto è relativo alla posizione da cui si guarda, e anche che certi fenomeni, certi insiemi , possono essere analizzati nella loro sistematicità da un unico punto di vista. C’è dunque un punto di vista da cui possiamo spiegare, mentre da altri punti di vista no, perché vediamo altre cose. Questo ha determinato una vera rivoluzione scientifica , divenuta ancor più inquietante per la coscienza comune, quando la meccanica quantistica ha svelato che l’osservazione influenza il fenomeno osservato. La riscoperta del ruolo della soggettività, in un pensiero scientifico che per secoli si era ammantato di oggettività, è questione filosofica con cui ancora stiamo facendo i conti. Tutto ciò, non ha nulla a che fare con l’ignoranza, mentre ha tutto a che fare con la conoscenza. Lo si può forse meglio sintetizzare come fa Leopardi, sottolineando nello Zibaldone, che più si scopre, più si amplia il raggio della ricerca, dunque ogni raggiungimento della conoscenza aumenta il mistero dell’insieme. Ma senso e significato restano al centro del nostro bisogno di conoscere. Nessun cultore vero del fantastico lo considera come “la notte in cui tutte le vacche sono nere” e ne è attratto solo per fascinazione del buio. Anzi chi ama muoversi al buio, è perché sviluppa la capacità di vedere e di orientarsi nel buio. Così non è affatto vero che i cultori del fantastico sono dei boccaloni cui va bene tutto. Posso testimoniare per esperienza fumettistica se non altro, che i lettori di fantastico sono i più esigenti e incontentabili lettori che esitano, e i più riluttanti ad accettare le “spiegazioni facili”. Nella comunicazione, un fenomeno davvero importante, che spesso i critici accademici mostrano di non considerare affatto, è il ribaltamento del messaggio. L’esempio della produzione fantastica di epoca coloniale è illuminante: la figure dei selvaggi erano figure ideologiche che miravano a suscitare xenofobia, disprezzo del primitivo, pregiudizi sull’altrui barbarie ( si pensi alla figura del cinese mago e torturatore Fu-Manchu) . Piccolo particolare: ai ragazzi di quelle generazioni (e non solo ai ragazzi) le figure di quegli uomini e donne seminudi, istintuali, che prima e dopo il combattimento danzano e suonano tamburi, rapitori di donzelle e fustigatori di padri, risultavano tanto più affascinanti delle figure Borghesi che si ritrovavano intorno. E quando si giocava… il problema non era trovare chi faceva il selvaggio, ma chi si sarebbe accollato il ruolo dell’esploratore, predestinato al palo della tortura. Così anche in Dracula, nessuno, davvero nessuno, ne legge la storia perché affascinato da Van Helsing. E’ l’alterità del Vampiro ad appassionarci. La stessa cosa si può dire di Fu-Manchu, Genio del Male. Era lui l’affascinante protagonista dei romanzi di Sax Rohmer, non certo il dottor Petrie o Mister Denis Nayland Smith. Ecco così verificarsi un ribaltamento di senso che spiazza le interpretazioni politically correct: queste continuano a sottolineare (con riprovazione) il contenuto demonizzatore (indubbio) delle opere letterarie, ma continuano a non capire ciò che i surrealisti avevano invece perfettamente afferrato e cioè che più si urla al nemico Fantomas e più Fantomas diventa l’oggetto del desiderio di massa. Il punto di vista critico, muove dalla lettura strutturale del romanzo. Ma è dal punto di vista del lettore che si legge meglio un romanzo. Lo stesso critico è lettore. Se rimuove questo punto di vista specifico, riparandosi dietro una presunta oggettività scientifica, di nega la capacità di comprendere l’opera letteraria, la cui significazione nasce dall’incontro tra emissione e ricezione del messaggio, incontro che spesso si manifesta come totale ribaltamento di senso.

Postato martedì, 8 giugno 2010 alle 12:30 da Gianfranco Manfredi


Non voglio con questo dire che non sia importante l’analisi del testo, che resta e deve sicuramente restare al centro del lavoro critico, ma che se il critico si nega come lettore (dunque anche come lettore emotivo, sedotto dai simboli) diventa un critico guercio che presumendosi oggettivo sceglie in realtà di vedere in un testo solo quello che vuole lui, eleggendosi narcisisticamente a Lettore Unico e Supremo che disprezza o prescinde dal Lettore Comune. Il super-critico poi arriva anche a presumere di poter spiegare allo scrittore stesso ciò che ha scritto (“quelli che ti spiegano le tue idee senza fartele capire”). E’ il tipico critico che crede di regnare tra due opposte ignoranze : quella dello scrittore che scrive tanto ispirato quanto inconsapevole, e quella del pubblico che legge ma non capisce o tende a capire il contrario. L’Accademico si considera o tende a considerarsi come l’Autorità che ristabilisce la verità Oggettiva del verbo e provvede poi a classificarla all’interno di categorie estetiche e di valore. Chiunque abbia letto su questo forum i post di Franco Pezzini o di Fabrizio Foni non avrà avuto difficoltà a capire che per fortuna esiste un altro modo di essere critici e ricercatori in campo letterario e che questo modo si va sempre più diffondendo. Si studiano le opere, le si contestualizzano, le si smontano strutturalmente, vi si individuano i reticolati di senso e i mille riferimenti consapevoli e inconsapevoli, insomma non si rinuncia certo al lavoro scientifico, anzi se ne amplia il raggio, ma nemmeno si considerano mai le opere al di fuori e al di là della loro ricezione (e della Storia della loro ricezione) nel circuito della comunicazione, e infine non si rinuncia alla propria soggettività, alle predilezioni, alle scelte, anzi di ciò si fa motivo di orientamento della ricerca stessa.

Postato martedì, 8 giugno 2010 alle 13:00 da Gianfranco Manfredi


La realtà non è solamente una circonferenza, ma è anche il centro di questa circonferenza. Il centro non è un “punto di vista”, perché non ha opposizione né complementarità. La metafisica è consapevolezza di carattere universale, non umano quindi, anche se un umano può vederla e persino considerarne l’aderenza logica e ontologica. Il Centro è origine e fine di ogni circonferenza, la quale è ornata di indefiniti punti di vista che si fronteggiano e confrontano. Centro che è immagine del punto privo di estensione il quale, insieme all’istante privo di durata spifferano attorno allla non relatività del Mistero senza nome. In quel centro la Certezza è assoluta, anche se non può esaurire l’Infinito. Secondo un detto Sufi:
La Certezza è come l’infinità interna dell’Assoluto, la quale non può esaurirlo.

Postato martedì, 8 giugno 2010 alle 13:34 da vajmax


Quando qualcuno esprime giudizi determinati da principi, e io questo ha fatto nel mio primo messaggio, sarebbe necessario controbattere sullo stesso piano dei principi, chiarendone la natura e le ragioni d’essere. Non ha alcuna attinenza rispondere attraverso un miscuglio eterogeneo e sincretico di argomentazioni prive di sintesi univoca che hanno solo il difetto di accusare prima di aver capito il senso dello scritto al quale ambiscono rispondere.

Postato martedì, 8 giugno 2010 alle 14:19 da vajmax


“‘Giallo’ finalmente ha trovato un distributore in Italia. E presto sarà nelle nostre sale, ma non c’è ancora una data precisa”. Dario Argento, sentito telefonicamente da Affaritaliani.it, conferma le voci secondo cui il suo ultimo film (nel cast anche il divo Adrien Brody), dopo numerose vicissitudini, arriverà a breve nei cinema italiani. Sarà la Dell’Angelo Pictures a distribuire la pellicola, che non uscirà direttamente in dvd come si pensava. Ma Argento conferma anche che sta lavorando a un nuovo progetto: “Con una produzione mista, italiana e internazionale, sto lavorando alla versione 3D di Dracula, ma è ancora presto per parlare di date…”

Postato martedì, 8 giugno 2010 alle 15:29 da Dario Argento: "Farò 'Dracula' in 3D...". La rivelazione del regista ad Affaritaliani.it


Mio Dio, vajmax! Chi ha mai accusato e di cosa? Consideravo alcune inferenze liberamente sviluppate per cercare di rendere più esplicito un ragionamento in relazione a quanto detto in precedenza. Lungi da me l’intenzione di schierare Leibniz contro il sufismo, ciascuno ha delle radici e delle propensioni filosofiche e in questo forum ne abbiamo sfiorate tante… incluso il tema del vuoto… e abbiamo anche confrontato Cristo a Dracula senza che nessun cristiano si sia sentito offeso nel suo credo. Lo sforzo che facciamo tutti è di cercare poi sempre di ricondurre il dibattito nell’ambito dei problemi specifici di cui qui si parla, dato che non è un forum filosofico altrimenti ci si esprimerebbe diversamente e con minore approssimazione. Credo sia notevole e importante caratteristica di un forum, di questo in particolare, ospitare interventi a raggiera, più che dialoghi binari tizio-risponde a caio più adatti a una comunicazione non scritta e meno esposta ad equivoci (come più volte ha qui ricordato Massimo Maugeri) anche per il fatto che non ci si conosce per nulla l’un l’altro. Comunque come ho detto, sono in partenza, dunque se ho dato l’impressione di un ping-pong , non c’è più motivo di offendersi o di scusarsi. Qui stiamo discutendo ormai da mesi, nel modo più aperto possibile… se qualcuno avrà la pazienza di rileggere dall’inizio vedrà anche che nella diversità, ciascuno ha offerto stimoli agli altri e a turno abbiamo persino cambiato opinione in corsa, cercando di contribuire a costruire insieme un percorso attraverso e al di là degli occasionali interventi assertivi di questo e di quello, peraltro rari, ma anche, credo , sforzandoci tutti di non lasciare cadere nel vuoto l’intervento di alcuno, il che sarebbe dopotutto peggio, in una discussione collettiva, di un po’ di sano gusto dialettico. In attesa, ovviamente, di un forum 3D, che giudicherei a naso pericoloso perché le opinioni altrui ci arriverebbero in piena faccia e non sarebbe carino.

Postato martedì, 8 giugno 2010 alle 16:02 da Gianfranco Manfredi


Ho pensato che il tuo affermare: “… se il critico si nega come lettore (dunque anche come lettore emotivo, sedotto dai simboli) diventa un critico guercio che presumendosi oggettivo sceglie in realtà di vedere in un testo solo quello che vuole lui, eleggendosi narcisisticamente a Lettore Unico e Supremo che disprezza o prescinde dal Lettore Comune” fosse diretto al mio modo di aver criticato un credere cieco, di essermi riferito all’assenza di chiarezza e conoscenza dei princìpi che legiferano la realtà, al punto di poter dar credito a concetti come quello dell’immortalità, che sarebbe eternità, all’interno del male. Per quanto riguarda Leibnitz era un rosacrociano, un esoterico quindi, allo stesso modo dei sufisti.

Postato martedì, 8 giugno 2010 alle 16:17 da vajmax


vi seguo sempre con interesse, anche se non sto scrivendo più da un po’.
secondo me è meglio evitare di surriscaldarsi per possibili fraintendimenti, che peraltro ci stanno e sono quasi inevitabili. e sono d’accordo sul fatto che se la discussione prende una piega troppo filosofica si rischia di uscire fuori tema e andare un po’ oltre gli obiettivi di questo forum ( fra l’altro allargato a una dimensione più ampia della letteratura horror, senza più limitarsi ai vampiri ).
e comunque trovo che sia molto difficile trovare in rete un livello di discussione così elevato e polifonico.
i complimenti sono dovuti a tutti i partecipanti.

Postato martedì, 8 giugno 2010 alle 17:12 da piero


sono molto curioso di vedere tornare all’opera Dario Argento, alle prese con un film in 3 D sui vampiri.

Postato martedì, 8 giugno 2010 alle 17:13 da piero


Tempo fa mi capito di leggere un racconto sulla contessa Erzsebet Bathory intitolato “Sanguinarius”.Nel racconto l’autore immaginava che a spingere la Bathory verso i suoi sanguinari eccessi fosse stata l’influenza nefasta della sua famiglia, del giovane e violento sposo e dell’amante zingara di quest’ultimo.Nel finale dopo essere stata processata Erzsebet si lanciava in una lunga preghiera rivolta al diavolo per ottenere vendetta su coloro che l’avevano spinta verso quella vita .
Il finale del raconto era seguito da una nota dell’autore che spiegava come il giorno successivo la condanna della contessa,coloro che ne erano responsabili furono aggrediti da torme di felini inferociti.
Tale nota fa riferimento ad un episodio reale o è solo un invenzione dello scrittore?Se ne trova riferimento da qualche parte oppure no?
Rivolgo la domanda a chiunque possa rispondere.
P.S. Quando nel 1992 usci il Dracula di Coppola, una piccola casa editrice la Topps pubblicò una miniserie a fumetti intitolata “Dracula:Vlad the Impaler” sui testi di Roy Thomas e i disegni di Esteban Maroto. Il fumetto in breve raccontava della trasformazione in vampiro di Vlad,riuscendo per una volta tanto a rappresentare graficamente in modo esatto il Voivoda.Ora ripensando a quel fumetto,mi chiedo ma quante altre volte è stata narrata questa storia (anche in altri media)?Perchè perdura ancora oggi l’associazione tra i due Dracula,quando esimi esperti hanno più volte ribadito che il legame fra i due è in realta piuttosto debole,se non quasi inesistente?

Postato martedì, 8 giugno 2010 alle 18:18 da Francesco Moretta


Caro vajmax, ti assicuro che non c’era la minima allusione a te nella mia critica di certi critici letterari. In parallelo a questo forum, avevo appena scambiato una mail con Fabrizio Foni, il quale mi ringraziava per essermi occupato del suo saggio su questo forum. Nella lettera mi accennava anche alle difficoltà che incontra in Università chi affronta approcci critici diversi da quelli più tradizionalmente Accademici. Credevo che il mio riferimento fosse trasparente perché in questo forum abbiamo parlato spesso della critica letteraria togata e poco prima di questo mio ultimo intervento, Luciano si era riferito allo stesso tema, onde per cui, avevo solo ripreso il filo del discorso. Insomma non c’era il minimo riferimento al TUO post nel passo che citi. Poi sui “principi che legiferano la realtà” io sono troppo scettico per esprimermi , ma questo è tutto un altro discorso. Io intendevo, ripeto, semplicemente mettere in discussione la pretesa indiscutibilità di certi giudizi critici , in particolare escludenti della cosiddetta letteratura popolare. Certo non fanno parte di questo filone critico nè il compianto Oreste del Buono, né il Maestro Antonio Faeti di cui anzi approfitto per segnalare un bellissimo articolo appena pubblicato sulla rivista Il Corsaro Nero (n.11) intitolato “Il muretto delle tigri. Salgari nella mia vita.” Già un critico letterario che nel titolo scrive: Salgari nella mia vita, è un critico che valuta nel giusto modo l’importanza del punto di vista radicato nella soggettività dell’esperienza. Dunque anche ai piani alti della ricerca, per fortuna, (e in precedenza avevo citato anche Ferroni e Wilcock) è ben presente un approccio diverso al lavoro della critica letteraria e della ricerca in materia. E’ mio personale parere che questo diverso approccio critico sia nato proprio da chi studia la cosiddetta letteratura popolare. Di contro si leggono spesso saggi di accademici che si sono posti l’arduo compito di scrivere la Storia della Letteratura Italiana in fieri e che si assumono il compito e l’Autorità di certificare chi della suddetta Storia fa parte (in quanto rientra nelle loro categorie estetiche) e chi ne viene escluso a priori (e dunque non lo si legge neppure). Quando invece scrivevo che non ero tanto d’accordo sulla tua conclusione, era sul tema dell’ignoranza… perché nel merito, durante questa discussione, se ne era parlato nel senso più quotidiano del termine, cioè non nel senso di “sapere di non sapere”, ma nel senso proprio di essere ignoranti, etichetta da sempre appiccicata a chi si occupa di vampiri e altre” fole” immaginarie, mentre io ho sempre rilevato che sia tra gli scrittori riconducibili in parte o in tutto a questo genere, sia nei lettori che vi hanno trovato stimoli all’immaginazione, ci sia molta più conoscenza di quanto non si sospetti. Tutto qui… mi sono attaccato a una tua chiusa che poteva risultare ambigua nel contesto, per continuare un discorso iniziato in precedenza. Sono d’accordo con te che c’è invece molta ignoranza (vera) in certa presunzione di sapienza figlia di errati principi, rispetto alla quale l’ingenuo e aperto e disponibile accostarsi di un bambino a un libro magari solo per il fascino della copertina (Sartre in un passo citato da Foni, parlava dei pulp popolari illustrati, tipo I tre boy-scouts e dell’importanza di queste letture nella sua formazione) c’è molto più lavoro simbolico (e a suo modo esoterico) di quanto non si supponga in genere.

Postato martedì, 8 giugno 2010 alle 18:41 da Gianfranco Manfredi


Gianfranco : « Avevo letto anch’io del caso giornalistico cui hai accennato. Mi pare però che l’omicida non abbia detto di aver avuto una visione, ma di aver udito una voce divina che gli ordinava di commettere il delitto, stessa giustificazione del resto già data a suo tempo da Ali Agcia per giustificare il suo attentato al Papa. L’ordine delittuoso impartito da una voce divina è un classico della neuropsichiatria su cui sono scritte montagne di pagine ».
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Hai ragione, l’assassino di Mons. Luigi Padovese dice di aver ricevuto un « ordine divino », e più precisamente un « wahy »,
una « rivelazione ». Non si tratta quindi di « visione », ma di « voci » che ordinano, dirigono e guidano all’azione – come per santa Giovanna d’Arco, o per il profeta Maometto, in preda a misteriose crisi epilettiche durante le « rivelazioni » e accusato dai nemici di essere invasato dai jinn, quando invece – secondo i credenti – riceveva nel suo « cuore immacolato » le parole stesse dell’Onnipotente, trasmessegli nell’orecchio dall’arcangelo Gabriele.
Secondo i giornali turchi, durante l’assalto ( avvenuto per accoltellamento alle spalle, seguito da sgozzamento, secondo i dati dell’autopsia), il giovane omicida Murat avrebbe recitato l’adhan e il Takbīr ( Allāhu Akbar, “Allah è il più grande”), e poi gridato: “Ho ucciso il Dajjal ! ”.
Dajjal ( che i giornali italiani traducono con “Satana” o anche “Anticristo” ) significa “il mentitore”, è una figura inserita nel contesto escatologico dell’Islam, destinato a regnare per un certo periodo ( una tradizione parla di 40 anni) nel mondo prima della fine dei tempi, creando divisioni, impurità e fratture nella Umma islamica.
Secondo una tradizione il Dajjal ha le pupille di colore diverso (una è azzurra) e sulla fronte avrà scritta la parola araba “kāfir”, cioè “miscredente”, “infedele”, letteralmente “ingrato” e sordo nei confronti dei comandi del dio Allah ( che oggi si trovano scritti nel Corano, al quran, recitazione – il Libro che si autorizza da se stesso, come l’uroboros, dicendosi : “Questo è il Libro su cui non ci sono dubbi, una Guida per i timorati”).
L’adhan è invece il grido del muezzin e la radice della parola è DN أذن che significa “permesso”, e un altro derivato di questa parola è Udun, che significa “orecchio”.
Pare che niente riesca a spaventare meglio i kuffar se non gli sgozzamenti rituali effettuati in forza del Nome di Dio ( del dio Allah). Tanto è vero che la reazione più comune è quella di rassicurare gli spettatori dicendo ( anche per motivi geopolitici e di ordine pubblico) che siamo tutti fratelli, che l’islam fondamentalista non c’entra niente e un pazzo è solo un pazzo.
Naturalmente anche un piolo è solo un piolo, però se il piolo viene agitato in forza di un Nome e continua a esploderti in faccia, forse è saggio pensare che si tratti di un piolo esplosivo.
Nel caso dell’ assassinio di monsignor Luigi Padovese, alla vigilia della visita del papa a Cipro, il messaggio sembra forte e chiaro: era supposto e suggerito come un Vampiro da eliminare per salvare l’Umma.
Si tratterebbe di un tipico omicidio rituale islamico di purificazione, come ce ne sono stati altri in Turchia (e per il mondo). È questa l’ipotesi avanzata anche da AsiaNews*, un’agenzia di stampa del Pontificio Istituto Missioni Estere, secondo la quale l’assassinio del presidente della Conferenza episcopale della Turchia rientrerebbe nella visione di alcune correnti del composito islam fondamentalista, il cui scopo – aggiungerei – è appunto quello di confondere, terrorizzare, sottomettere i kuffar con sgozzamenti in mondovisione e altri orrori ( o casi giornalistici, come conviene dire per tranquillità).

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http://www.asianews.it/notizie-it/Oggi-i-funerali-di-mons.-Padovese.-L’assassino:-“Ho-ammazzato-il-grande-satana!”-18612.html

Postato martedì, 8 giugno 2010 alle 19:38 da Gianni De Martino


Come mai dici di essere scettico riguardo ai principi che legiferano la realtà, Gianfranco? Il principio, che è legge universale, al quale tutto il movimento dell’universo è sottomesso, in quanto principio del movimento e, quindi, suo asse centrale, non si muove rispetto alla realtà relativa che gli ruota attorno. Questa è logica indiscutibile alla quale non si dovrebbe credere o non credere, poiché è un dato di fatto. Che qualità e quantità siano due princìpi universali è altrettanto evidente, e non starò a fare l’elenco di principi che coinvolgono tutto l’esistente, non è questa la sede. Ti avevo male interpretato, strano, per uno come me dalla sciensa in infusione… :D

Postato martedì, 8 giugno 2010 alle 20:04 da vajmax


Gianfranco: ” L’ordine delittuoso impartito da una voce divina è un classico della neuropsichiatria su cui sono scritte montagne di pagine. L’origine è nel mito di Abramo cui viene impartito l’ordine assurdo (e poi revocato) di uccidere suo figlio”.
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Nel Corano del mito di Abramo si dà una versione diversa da quella biblica : Abramo, è vero, ode la voce che gli ordina di sacrificare il figlio, ma la ode “in sogno”.
A tale proposito, il mistico andaluso Ibn Arabî ( XII sec ) dà un’interpretazione quasi psicoanalitica del desiderio che Abramo ha di sacrificare il figlio. Egli mette l’accento sul “sogno” di Abramo, in base al versetto coranico in cui questi dice a suo figlio: “ In verità ho visto in un sogno che ti immolavo” ( La saggezza dei profeti a cura di T. Burckhardt, trad. it., Mediterranee, Roma 1987).
Quello che è in gioco è l’interpretazione del sogno di Abramo; e Ibn Arabî scrive:
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“ Ora il figlio è l’essenza del suo generatore. Quando Abramo vide che nel sogno egli immolava suo figlio, si vide di fatto sacrificare se stesso. E quando riscattò suo figlio con l’immolazione dell’ariete, vide la realtà, che si era manifestata sotto forma umana, manifestarsi in forma di ariete.”
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Qui Ibn Arabî ricorre alla sua teoria della presenza immaginativa ( hadrat al khayal, tradotto da Henri Corbin con l’espressione : l’ immaginazione creatrice ) ; e s’inscrive in una lunga tradizione del sufismo che considera il vero e grande sacrificio quello del “ sé” – il “sé” essendo “nafs”, ovvero psichismo, che è la parte animale e mortale dell’anima la cui rappresentazione è l’ariete passibile di sacrificio.
Ma l’originalità di Ibn Arabi consiste in una sottile interpretazione del desiderio – rivelatosi in sogno – di uccidere il figlio nel padre, e il passaggio all’atto dall’immaginazione verso il reale:
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“ Il sogno rileva di una presenza immaginativa che Abramo non ha interpretato. E’ infatti un ariete che apparve in sogno sotto la forma del figlio di Abramo. Così Dio riscattò il figlio dal fantasma ( wahm) di Abramo, tramite la grande immolazione dell’ariete, che era l’interpretazione divina del sogno, della quale Abramo non era consapevole o cosciente ( la yach ur ).”

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Quello a cui il sogno mirava era il sacrificio dell’infantile e dell’arcaico nel padre, e non l’omicidio del figlio. Credere alla lettera alle immagini dei sogni deriva da un difetto d’interpretazione, che senza l’intervento di Dio – che è l’ Interprete per eccellenza, in quanto “non è mai incosciente” ( bi la chu’ur) mentre noi non siamo capaci neanche di vedere la nostra forma spirituale – sarebbe diventato un infanticidio. ( Cfr.
http://giannidemartino.splinder.com/post/10386213 ).
Questo per osservare che l’evacuazione della metafora effettuata dai fondamentalisti islamici porta a un corto circuito fra reale, immaginario e simbolico, in nome di un islam politico e sacro che non rispetta la vita umana e neanche quello che di ragionevole e liberatorio esiste anche nella cultura musulmana, sia pure in ambienti minoritari.

Postato martedì, 8 giugno 2010 alle 20:30 da Gianni De Martino


Ibn Arabi era un metafisico, non un mistico. La differenza è grande, perché un mistico è passivo, mentre un metafisico è attivo nei confronti della consapevolezza universale. Il mistico ha visioni, il metafisico è consapevole di ciò che conosce attraverso la rivelazione spirituale.

Postato martedì, 8 giugno 2010 alle 21:16 da vajmax


@ Gianfranco e Vajmax
Mi pare che vi siate chiariti, e vi ringrazio… così mi semplificate il lavoro. :-)

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Piero… assunto come moderatore!

Postato martedì, 8 giugno 2010 alle 21:39 da Massimo Maugeri


Intanto dò il triste annuncio che questa discussione è balzata in vetta nella classifica dei post più commentati, scalzando il mio amato “Letteratitudine book award 2008″: http://letteratitudine.blog.kataweb.it/post-piu-commentati-e-post-permanenti/
Sigh!
Ovviamente scherzo…
Grazie a voi.
;)

Postato martedì, 8 giugno 2010 alle 21:42 da Massimo Maugeri


Vajmax: intanto un cordiale e non formale saluto. Poi devo confessarti in tutta sincerità che non riesco a seguirti. Se uno (come fai tu) scrive: “Il principio, che è legge universale, al quale tutto il movimento dell’universo è sottomesso, in quanto principio del movimento e, quindi, suo asse centrale, non si muove rispetto alla realtà relativa che gli ruota attorno” io annaspo. Devo leggere la frase tre o quattro volte, munito di bussola. E poi, alla fine, mi accorgo che non ho capito cos’è che dovevo capire.
Sarò ignorante e tardo di comprendonio: non ho difficoltà ad ammetterlo ma queste cose non mi interessano. Al che tu potresti (giustamente) replicare: “e allora perchè mai sei intervenuto?”
Semplicemente per dire questo:
1) che stento a capire e
2) che mi pare stessimo andando molto molto fuori tema. Pur essendo questo post “fuori tema” per scelta.
Ovviamente tu sei straliberissimo di scrivere ciò che vuoi. Ci mancherebbe!! Non censuro nessuno sul mio blog (solo un paio di volte chi ha minacciato od offeso pesantissimamente altre persone) e dunque figuriamoci se mi sogno di sindacare sul blog degli altri. Tanto più che Massimo Maugeri è uno squisito “padrone di casa”.
Ma davvero stento a capire il nesso tra alcuni degli ultimi interventi e il tema di fondo del post.

Postato martedì, 8 giugno 2010 alle 21:54 da luciano / idefix


Su Dario Argento:
come mai da oltre un ventennio è tracollato in questo modo? Cosa gli è accaduto?
Oppure: chi c’era dietro ai suoi film belli? Forse lo zampino di qualcuno che era sempre rimasto nell’ombra e che adesso da tanto tempo non collabora più con lui?
Attendo lumi. Perchè davvero non riesco a capire come sia stata possibile una decadenza (anche tecnica) così fragorosa. Che lo ha portato da film eccellenti a fetecchie orrendissime, al di sotto di ogni decenza.

Postato martedì, 8 giugno 2010 alle 21:59 da luciano / idefix


Vajmax, rispondi pure a Luciano (che saluto)… ma chiedo a entrambi di evitare polemiche, please.
E in effetti vi inviterei a tornare sui molteplici temi offerti dalla “letteratura dei vampiri… e di altri orrori”.
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Vajmax, se ti fa piacere ne “La camera accanto” – che è una sorta di spazio aperto (non limitato a discussioni su singoli argomenti) – puoi lanciare altri spunti alle “estreme conseguenze”: http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/05/27/la-camera-accanto-17/

Postato martedì, 8 giugno 2010 alle 22:04 da Massimo Maugeri


Auguro a tutti una buona notte… (mi scuserete) priva di orrori.
;)

Postato martedì, 8 giugno 2010 alle 22:06 da Massimo Maugeri


Massimo: polemico sono stato solo io.
Accetto il ribrotto (fatto con la tua squisita delicatezza).

Postato martedì, 8 giugno 2010 alle 22:30 da luciano / idefix


CITAZIONE: “Mentre scrivevo arrivavano su di me lampi di ispirazione divina che mi avvolgevano e io mettevo su carta. Se le mie opere dimostrano una qualche forma di composizione, ciò è del tutto senza intenzione. Scrissi alcune opere sotto comando di Allah, che mi furono mandate in sogno o attraverso una rivelazione mistica [ sul modello dell’ Isra wal mi’raj, il viaggio mistico del Profeta]. Il mio cuore suona alla porta della Presenza divina, aspetta premurosamente di vedere ciò che apparirà quando si aprirà la porta. Il mio cuore è misero e bisognoso, privo di qualsiasi conoscenza. Quando qualcosa appare al cuore da dietro quella tenda esso corre ad obbedirgli e si prostra a rispettarlo” ( IBN ‘ARABI, al-Futūhat al-Makkiyya fī maʿrifat asrār al-malikiyya wa-l-mulkiyya, in genere abbreviato con “Fotuhat”).
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Vedi anche : Il Libro del regalo del viaggio mistico e Theophanies and Lights in the Thought of Ibn ‘Arabi
http://www.ibnarabisociety.org/articles/osmanyahya.html

Postato martedì, 8 giugno 2010 alle 22:37 da Gianni De Martino


Tutto quello che ha scritto Gianni è come al solito molto interessante. C’entra anche con il tema, visto che le nostre care vampirizzate escono all’incontro con Dracula come sonnambule seguendone il richiamo. Sulle rivelazioni divine, si potrebbero scrivere , anzi si sono scritte enciclopedie, si può andare dai sogni del Faraone fino ai Mormoni (tra l’altro, avete mai letto il Libro di Mormon? Beh, è pazzesco. Io credo che qualche rapporto sotterraneo – e dove sennò? – con la poetica di Lovecraft ci sia). Quanto a Vajmax gli sono grato perchè dopo lo scambio di opinioni mi sono ripreso in mano Leibniz e così, aprendo un volume a caso (visione? rivelazione?) mi sono imbattuto in un brano di analisi incrociata di Miti che pareva Jung tale e quale , tre secoli prima e scusate se è poco. Per il resto, mi scuserai Vajmax se condivido lo smarrimento di Luciano. Personalmente non credo ad alcun principio ordinatore, forse perchè non me la sento, con tutto il mio amore per i simboli, a rinunciare al materialismo filosofico e cioè all’idea che i principi hanno origine dal mondo e non viceversa. Ma va bene lo stesso, tanto i Massimi sistemi sempre lì’ restano. Sarà anche per questo che poi uno ha qualche cedimento e scopre che Rin-Tin-Tin ha avuto un gran significato nella propria vita. Ecccheccazzo! Una volta ogni tanto una botta di sana superficialità ci vuole! E non è neanche così scema come sembra.

Postato mercoledì, 9 giugno 2010 alle 01:28 da Gianfranco Manfredi


Il post di cui sopra era accompagnato da sorrisi ironici … il punto è che non so dove pescare, perché sono imbranato, gli Smile… che poi ci avete fatto caso che di profilo uno Smile è Pacman? Tra i tanti vampiri di cui ci siamo occupati ci siamo dimenticati il Grande Pacman!

Postato mercoledì, 9 giugno 2010 alle 01:33 da Gianfranco Manfredi


Pacman è un divoratore. Sopravvive e si garantisce delle vite extra continuando a mangiare a velocità folle senza mano preoccuparsi di digerire, la pulsione bulimica non gli basta neanche perché ambisce alle power pills che aumentano il suo punteggio (cibi particolarmente sostanziosi). Compaiono ogni tanto delle icone, in maggioranza frutti proibiti (la mela però vale meno dell’uva) ma l’icona di maggior valore è la Chiave. Le icone vanno divorate tutte. Pacman è braccato dei dei fantasmini: l’orlo delle loro lenzuola pare dentato. I fantasmini se vengono divorati essi stessi da Pacman, rinvigorito dalle pillole del potere che gli garantiscono super-prestazioni, sgombrano il campo per poco, in quanto si rigenerano, a partire dagli occhi. Si dividono in specie diverse: il rosso è il più aggressivo, il Blu è astuto (blocca le vie d’uscita), il Rosa è velocissimo, poi c’è Guzuta, il cretino, che si muove lentamente e compie anche azioni autolesioniste ( lo zombie del gruppo, insomma). La metafora generale è chiara: divora se non vuoi essere divorato, se vuoi sfuggire alla morte, se vuoi garantirti nuove vite. Divora, ma godere del divorato non puoi, perché non c’è tempo. Metafora del capitalismo nell’età di passaggio al dominio della finanza ? Pacman è stato inventato negli ottanta. Pacman è l’umano divoratore di spettri, farmaco-dipendente, cocainomane per vocazione, insegue i più alti livelli di nuova vita, leggendari peraltro perché non si è mai chiarito del tutto se esista un ultimo livello oltre cui cessa la battaglia, o se l’ultimo livello raggiunto, scatena ultralivelli di gioco. A tutti i livelli d’altra parte trattasi di vita competitiva, più aumenta l’abilità nell’affrontarla e più diventa competitiva. Gli spettri che gli danno la caccia, nascono dagli occhi. Sono cioè i temuti poteri di controllo, da cui l’affarista deve sapersi sbarazzare, meglio se li fagocita. Si rigenerano? Ingoierà anche i nuovi. A cosa aspira davvero Pacman, inconsciamente? A detta del suo creatore, nasce da una pizza cui manca una fetta. La mancanza di quella fetta deve parergli intollerabile, perchè Pacman cerca la completezza di una pizza intatta, non consumata e non consumabile: la Pizza Vergine, non origine (ché l’origine è da pizza incompleta), ma fine (la pizza compiuta si sottrae al circuito del consumo). Della sua mancanza Pacman fa una bocca. La sua ossessione resta immutata: riempire quella mancanza, fagocitando tutto. Quando non ci sarà più nulla da consumare (né pillole, né morti, né nuove vite) Pacman sarà Dio, il cerchio perfetto, in quanto non consumabile. La finalità del consumismo, la sua Utopia, è la Fine del Consumo.

Postato mercoledì, 9 giugno 2010 alle 09:57 da Gianfranco Manfredi


Se ne deduce che gli esperti di economia (a quanto si dice) cercavano di spiegare cosa sarebbe accaduto e non l’avevano capito. Pacman lo mostrava in atto, ma la sua spiegazione ci restava occulta. Si comincia a non capire quando non si prendono sul serio i giochi, pur giocandoli.

Postato mercoledì, 9 giugno 2010 alle 10:20 da Gianfranco Manfredi


Luciano:Sul crollo artistico di Dario Argento se ne sentono tante. Per alcuni non c’è nessun crollo,Argento è un genio e la colpa e tutta della triste situazione del cinema nostrano.Per altri invece è solo rimbabimento
provocato da invecchiamento senile.Secondo un blogger che ho sentito tempo fa invece la sua sarebbe una cosciente e pubblica autocastrazione
artistica,di body art perversa tesa a tramutare in opera d’arte se stesso distruggendosi di fronte ai suoi sempre più basiti fan.
Se nel 1980 mi avessero detto che Argento stava preparando una sua versione di Dracula,ne sarei stato interessato,ma ora mi sento più preoccupato.(Se replica quello che ha fatto con il fantasma dell’opera
otterà solo un altra occasione mancata)

Postato mercoledì, 9 giugno 2010 alle 10:49 da Francesco Moretta


“e la colpa è tuta”,scusate mi ero dimenticato l’accento.

Postato mercoledì, 9 giugno 2010 alle 10:53 da Francesco Moretta


“e la colpa è tutta” nel corregere l’accento mi sono scordato una t, scusate.

Postato mercoledì, 9 giugno 2010 alle 10:59 da Francesco Moretta


Ho seminato un altro errore,la parola era correggere,scusatemi mi sa che stamattina sono proprio rimbambito.

Postato mercoledì, 9 giugno 2010 alle 11:03 da Francesco Moretta


Caro Francesco, bisogna rassegnarsi ai limiti degli artisti, anche a quelli diventati miti. Tra quelli della generazione di Argento, del resto, cosa dire di John Landis? Come sono rimasti i suoi fans di fronte al tristissimo Blues Brothers 2? Chi come me ha una certa età, ricorda ancora il dolore con cui vedemmo gli ultimi film di Hitchcock (Topaz, soprattutto, ma anche Complotto di Famiglia, non è che fosse propriamente un capolavoro). Mettiamo in fila gli altri: da Polanski a Brian de Palma. L’unico che è cresciuto a livelli davvero impensabili di maturazione artistica è Clint Eastwood. C’è una questione alla base, che non sta nell’invecchiamento del genio, ma da un lato nella maturazione del pubblico (oggi si tollererebbe la spiegazione psichiatrica e omofobica dell’Uccello dalle Piume di Cristallo? ) , dall’altro dal cambiamento delle strutture produttive. Un regista è figlio del suo tempo anche sotto il profilo dell’organizzazione del lavoro. Quando certe carrellate infinite, labirintiche e spiazzanti non si possono più fare perché non si costruisce più nulla in studio, perché le professionalità sul set sono diverse, perché non c’è più il tempo di produzione minimo indispensabile, per un regista questo significa porre fine in pratica alla sua estetica. La macchina non corrisponde più a quello che lui vorrebbe fare. Una volta Samperi mi disse: un attore può stare senza lavorare per anni e quando torna al lavoro non dimentica nulla di quello che ha imparato, un regista se sta lontano dal set per quattro o cinque anni, quando torna trova la macchina cambiata e fa una fatica dannata ad abituarsi. Per questo invece di rimpiangere i Maestri dovremo con maggiore energia sostenere i nuovi, quelli giovani, che con le nuove tecnologie e le nuove macchina produttive sono nati e dunque le conoscono meglio essendone esploratori protagonisti. Credo che nel sogno 3D di Argento, ci sia comunque una volontà di rinnovamento tecnologico , temo si tratti di una scappatoia piuttosto ingannevole, perché il problema non è la singola tecnologia in sé, ma l’insieme della macchina. Trent’anni fa nessun regista aveva bisogno di chiedere per contratto il Director’s Cut perchè era cosa ovvia e data per scontata. Oggi ottenerlo è un’impresa talmente difficile che lo stesso Spielberg ha detto che con le produzioni americane è impossibile lavorare e si è messo in società con gli indiani. E Clint Eastwood segue un percorso solitario, di autoproduzione, che gli consente di non dover rendere conto ad alcuno e di salvaguardare la sua poetica, pagando naturalmente il prezzo di dover per forza sfoderare degli hit, e serbando sempre una grande attenzione all’equilibrio tra ciò che si vorrebbe fare e ciò che è materialmente possibile fare.

Postato mercoledì, 9 giugno 2010 alle 11:18 da Gianfranco Manfredi


Ti spiego subito meglio ciò che intendevo significare con quell’esempio, Luciano. Ho dato un esempio di cosa sia un principio universale perché intelligenza vuole che anche nelle storie inventate, a meno che non debbano rappresentare l’assurdo, sarebbe necessaria una certa aderenza logica al presupposto dal quale il raccontare procede. Quando si parla di immortalità si entra in una sfera speciale e metafisica, e si coinvolgono concetti che non è buona norma deturpare. Assoluto, Infinito ed Eterno sono sinonimi tra loro e indicano ciò che un essere non può essere, perché l’essere è caratterizzato da una forma e la forma è il contorno di un limite. Nessun essere può ambire all’eternità prima di aver lasciato le proprie caratterizzazioni. Mi pare strano che tu non capisca che se tutto si muove nell’universo ci debba essere una legge universale che impone al tutto di muoversi e vibrare, e che questa legge debba, necessariamente, essere fissa nei confronti del movimento, in quanto causa del movimento. È un concetto logico indiscutibile e non ti farò perdere altro tempo per seguire uno scritto, questo appunto, che non ha più ragione per continuare. Ciao, quindi, spero di aver chiarito le mie intenzioni che fuori tema non sono affatto.

Postato mercoledì, 9 giugno 2010 alle 11:35 da vajmax


Gianfranco:Quello che dici è vero,spesso si perde tempo a rimpiangere i grandi del passato,che non ci si accorge delle nuove promettenti leve.
Il rifiuto del nuovo accompagnato da una santificazione del vecchio è un atteggiamento che si riscontra spesso (purtroppo) in molti appassionati,
atteggiamento che però porta ad una sorta di cecità immaginaria,non si vuole vedere (e quindi accettare) quello che è nuovo,in quanto nuovo.
Mentre invece vengono rivalutate anche delle sciocchezzuole perchè vecchie,rifiutare qualcosa di nuovo (e diverso) sembra sempre più facile che cercare di comprenderlo.

Postato mercoledì, 9 giugno 2010 alle 11:42 da Francesco Moretta


Due cose diverse: Argento e la superficialità.
DARIO ARGENTO:
io sono sempre più convinto che dietro il verticale tracollo qualitativo delle sue opere vi sia un mistero.
Con una soluzione. Su cui mi piacerebbe indagare, perchè ho in mente la pista da seguire.
Prima una sintetica premessa. vi fu un periodo dorato del suo cinema (grosso modo dall’Uccello a Opera, 1970-1987), due discontinui film di transizione (Due occhi diabolici e Trauma, 1990-’93), un netto calo (La sindrome, 1996) e poi il sempre più inarrestabile disastro (a partire dal Fantasma dell’opera, 1998).
Allora, per spiegare la parabola non “discendente” ma “precipitante”, faccio due ipotesi: una in levare, una in mettere.
“Ipotesi in levare”: nel periodo dorato, al fianco di Dario vi era qualcuno/a che esercitava un’influenza positiva. E che (da un certo punto in poi, per ragioni che non so dire e sulle quali si potrebbe “indagare”) venne a mancare.
“Ipotesi in mettere”: nel periodo disastroso, al fianco di Dario vi fu (o vi è ancora) qualcuno/a dall’influenza nefasta.
E allora azzardo anche i nomi (basta guardare le date dei film, le collaborazioni, le co-sceneggiature, le interpretazioni, la vita familiare..).
Ecco dunque i miei indiziati:
nel periodo dorato furono decisivi il suo maestro di regia Sergio Leone e la sua compagna Daria Nicolodi, in quello disastroso la loro figlia Asia Argento.
LA SUPERFICIALITA’:
io penso che la vita somigli (tra le tante cose) a un lungo concerto rock. E che si debbano alternare momenti iper-elettrici a ballatone romantiche, sparate chitarristiche e pause acustiche, riff da saltar sulle sedie e attimi da stringere i cuori, occhi lucidi di commozione e frenesia infantile, drammatica serietà e caciara, assoli e coralità, novità e già sentito e risentito, ricerca e tradizione, viaggio e ritorno.
Quando faccio meditazione, ho imparato a galleggiare con (consapevole) superficialità sull’oceano in tumulto della mia mente, come se fossi su una tavoletta da surf in mezzo al mare in tempesta, i pensieri vanno e vengono e io ci ballonzolo sopra.
E così, sono convinto che (nella nostra vita, psichica, affettiva, artistica, ludica, erotica, politica) non dovremmo mai farci afferrare dalla greve pesantezza del cupo rimuginio che vampirizza l’anima.
Il demonio e il vampiro diffidano della leggerezza e della gioia.
Pensate a Oliver Hardy: grasso ma quando danzava era lieve e allegro.
Poi pensate a Nosferatu: magro ma quando morde è greve e cupo.

Postato mercoledì, 9 giugno 2010 alle 11:59 da luciano / idefix


Insisto sul punto della tecnologia. Qui nel rapporto /confronto tra la vecchia generazione di registi e la nuova, c’è stato un salto paragonabile al passaggio tra cinema muto e cinema sonoro. I registi delle generazioni precedenti, avevano in mente un’idea, che presumeva certo un’approfondita conoscenza del funzionamento di un set, ma riguardo alla tecnologia, si affidavano a una competenza esterna: “voglio questo, tu tecnico studia il come”. Spesso ignoravano addirittura il funzionamento degli strumenti. Celebre l’aneddoto di Fellini che si arrabbiò perché attraverso la macchina da presa non riusciva a vedere niente , al che il direttore della fotografia lo avvertì di togliere il tappo dall’obiettivo. I nuovi registi non affidano ad altri l’expertise tecnologico, ma collaborano (vedi Cameron) all’ideazione-creazione della tecnologia, piegandola dunque a fini estetici. La tecnologia diventa così fondante del processo creativo, non un mero strumento esecutivo di un’idea. Le tendenza del cinema attuale la si vede ancor più chiaramente dall’incredibile sviluppo dei filmaker via Internet. La macchina produttiva , la troupe, si rendono più semplici (in apparenza) perchè si assottigliano. La figura del regista/autore diventa al contempo assai più complessa perché egli assume in sè figure che prima nel processo produttivo erano separate. La stessa persona pensa, scrive il film , lo dirige, lo gira e lo monta. La consapevolezza dell’intero processo produttivo, non è soltanto conoscenza dell’insieme, ma assunzione concreta dell’insieme nella figura di un singolo. Ecco perché il romanzo ritrova una sua centralità. Un narratore letterario è già, all’origine, questa figura di sintesi, non ha bisogno di diventarlo. Anche qui però si assiste a una modificazione in atto. Un tempo lo scrittore affidava il suo libro all’editore che conosceva assai meglio di lui i meccanismi di mercato, altrettanto si faceva per la promozione, la distribuzione eccetera. Ciò consentiva all’autore di mantenere una certa distanza dall’ingranaggio. Oggi i nuovi autori sembrano (e sono, in molti casi) più preoccupati della costruzione della propria figura di autore, della propria capacità di promuoversi, di trovare consumatori fedeli, piuttosto che dell’opera stessa, che non sanno (non possono) più pensare come autonoma dal ciclo produttivo e da sé stessi. L’autoproduzione libraria, l’autodiffusione in rete, conducono l’autore a diventare autore di se stesso, della propria immagine, prima che autore di opere letterarie, che diventano anzi puntello e pretesto (per quanto importante) di questo vero lavoro auto-riferito ed etero-riferito (perché indirizzato al mercato) ben più lungo, protratto nel tempo, e impegnativo. Di contro al vecchio ruolo del produttore-editore sorge invece il nuovo potere del distributore, ancora non minacciato e sempre più dotato di forza ricattatoria. Restai colpito parecchi anni fa quando mi accorsi di una pubblicità televisiva , in America, fatta assai poveramente, come una scaciata televendita, la quale sosteneva la vendita in blocco di opere di Stephen King, previa distribuzione postale. Mi informai e appurai che Stephen King pubblicato da editori diversi in diversi Stati americani, rilevava i resi, per rivenderli direttamente, cioè auto-distribuirsi, con il vantaggio di raggiungere zone non coperte dalla normale distribuzione e di instaurare un rapporto commerciale privato con i suoi lettori. Così oggi assistiamo ad autori (vedi la Meyer) che per un certo periodo, attraverso il proprio sito, distribuiscono gratuitamente il proprio romanzo. Ciò ostacola la vendita del romanzo? Al momento pare invece che potenzi la pulsione del lettore a impadronirsi dell’oggetto romanzo, cioè ad acquistarlo. Avrà davvero un futuro questo espediente? La discografia pare dire di no. Si è discusso molto della pirateria, ma non è forse vero che la stessa discografia diffonde gratuitamente in rete il singolo (anche il video relativo) sperando che ciò scateni l’assalto all’acquisto del feticcio oggettivizzato? Gli esiti di simili campagne promozionali hanno da un lato rafforzato l’idea che la cultura debba essere gratuita e insieme indubbiamente allargato la fruizione (che non deve più sottostare a un pagamento), ma ha anche portato alla rovina la Produzione (che è diventata Fabbrica Sociale condivisa) e a costosissime strategie di controllo della distribuzione , la quale si promuove attraverso la gratuità, ma nel tempo chiede balzelli sempre più elevati tanto all’autore quanto al fruitore , attraverso il controllo dei canali distributivi. D’altro canto, un pubblico di massa allevato con la gratuità, davvero si presume di poterlo costringere a pagare in futuro? Confesso di assistere a queste dinamiche da sopravvissuto, che ancora insiste contro ogni evidenza a dedicare i suoi maggiori sforzi all’opera stessa, convinto come sono che il dedicarsi ad altro (le strategie di vendita e di diffusione) sottragga all’autore il suo tempo più prezioso, così prezioso che non ha corrispettivi in termini di valore di scambio.

Postato mercoledì, 9 giugno 2010 alle 12:52 da Gianfranco Manfredi


C’è poi un’altra trappola insidiosissima in questa corsa (molto occidentale) all’Autonomia intesa come autonomia al contempo ideativa, esecutiva, produttiva e distributiva, e cioè la distruzione del valore aggiunto rappresentato dalla Cooperazione, vista ormai come fastidioso orpello e non come risorsa. Facendo tutto da soli, si fa in realtà molto meno di quanto non si possa fare in gruppo e si produce qualcosa di più povero, non di più ricco. Alla lunga inoltre l’Autonomia può reggere rispetto alla concorrenza solo se la propria Autonomia è più forte di quella altrui all’origine. In altre parole gli Autori ricchi possono far pesare la loro rendita. Un Autore ricco e già affermato ha mezzi superiori di uno povero e debuttante. Così il mercato resta congelato per anni e anni attorno alle stesse figure riconosciute e assodate (i Grandi Vecchi) sottraendo spazio e strumenti a chi è nuovo e costretto a crearseli da solo e in perfetta solitudine. Per questi (gli Esordienti) c’è infatti un mercato apposito: in cui occasionalmente si entra (e subito in veste di King Maker) e da cui si esce immediatamente quando esordienti non si è più ( cioè a partire dal secondo romanzo). Non dovremo stupirci se sempre più pronunciatamente in futuro vedremo trionfare nel campo della comunicazione indiani e cinesi , cioè popoli e culture che ancora fondano la propria crescita sul valore cooperativo (peraltro, va detto, ormai ridotto a prestazione di lavoro servile, se non schiavo, di sicuro sottopagato).

Postato mercoledì, 9 giugno 2010 alle 13:23 da Gianfranco Manfredi


[... Nella sezione dei post più commentati è ancora attivissimo il dibattito sulla letteratura dei vampiri e di altri orrori, che si avvia intorno a quota 1.650 commenti...]

Postato mercoledì, 9 giugno 2010 alle 14:03 da LETTERATITUDINE, il blog letterario più commentato della Rete


Ringrazio tutti per i nuovi sviluppi della discussione.
Un ringraziamento particolare agli amici del blog Terzapagina per l’affetto con cui seguonro Letteratitudine.

Postato mercoledì, 9 giugno 2010 alle 19:38 da Massimo Maugeri


Pensare e pretendere che cultura, arte, intrattenimento, spettacolo e informazione possano o addirittura debbano essere gratuiti, consumati senza cacciar fuori un soldo, è demente.
Frutto di abissale ignoranza e seme di terribili danni.
Eppure, quando nelle scuole o nelle biblioteche i ragazzi mi fanno domande su questo argomento, non è difficile raccontargli e fargli capire la realtà.
Che è molto, molto semplice: i musicisti, registi, scrittori, giornalisti, sceneggiatori, attori, scenografi, cabarettisti, cantanti, illustratori, ballerini, direttori della fotografia, macchinisti, tecnici del suono, grafici e così avanti come farebbero a vivere se i prodotti del loro lavoro fossero gratis, non pagati da nessuno e consumabili da chiunque senza alcuna formalità?
Dovrebbero
o trovare un Mecenate che li finanzi (ma a quel punto la loro libertà sarebbe completamente nelle mani di quella persona e della sua carta di credito),
o legarsi anima e corpo alla pubblicità. Che fine faccia la libertà creativa, non occorre descriverlo.
Ovviamente le vendite, gli incassi e gli introiti dovuti al “mercato” non garantiscono in alcun modo l’equità: ci sono tantissimi autori bravissimi che sopravvivono a stento, mentre altri di scarso o scarsissimo livello sono idolatrati e strapagti, completamente al di là dei propri meriti.
Però in una qualche maniera, anche se deficitaria ingiusta contraddittoria, il “mercato” (che come parola nasce da un luogo bello e importante) affranca da schiavitù peggiori e più oppressive (O il Mecenate O la pubblicità).
E il “mercato” di adesso è più libero (con le nuove tecnologie, col web, con la fulminea diffusione delle notizie, gli artisti e gli artigiani hanno la possibilità di far conoscere le proprie opere scavalcando i “venduti” monopoli di certi media).
E poi ha ragionissima Manfredi: Rete non deve significare solo mettere in rete le notizie, le informazioni o le foto sui social forum. Ma anche lavorare/creare in rete, reinventando la cooperativa, il gruppo. Così come esistono le band nel rock o nel jazz, le bande nel folk, le orchestre nella classica o nel tango, non vedo perchè non si possano sviluppare le “band” anche in altre forme artistiche.
Nel passaggio di sangue/creatività dagli uni agli altri non c’è solo il “modello vampiro” (Dracula succhia via il sangue dalla fanciulla) ma anche lo scambio solidale che arricchisce tutti i partecipanti.

Postato giovedì, 10 giugno 2010 alle 10:24 da luciano / idefix


Più sopra, a proposito di omicidi orribili compiuti da pazzi o presunti pazzi al seguito di “rivelazioni” o “voci” che guidano all’azione, è stato evocato il misticismo. Gli stessi stati modificati di coscienza (SMC) o trance che talvolta si riscontrano nella creazione poetica, l’invenzione scientifica o le estasi dei santi possono provocare ebbrezze criminali negli sprovveduti.
In merito all’indicibile che affiora in concomitanza degli stati di coscienza “ineffabili”, in genere accantonati perché rivelatori della natura asociale e idiota del piacere, Wittgenstein cita il celebre grido di Baudelaire: “Ah, non uscire mai dai numeri e dagli esseri!”
Per completezza, vorrei aggiungere che si tratta di stati di coscienza ambigui e mal conosciuti, che a volte riguardano la clinica e vere e proprie patologie, altre volte strati percettivi, emotivi e cognitivi di confine, ai limiti della percezione.
In linguaggio tecnico e iniziatico sufi si parla di ishraqat wa isharat ( lampi di illuminazione e allusioni).
Sul versante degli stati propriamente mistici, segnalo un libro di cui mi sono occupato qualche anno fa: Muhyî-d-Dîn ibn al-`Arabî, Tarjumân al-Ashwâq, a Collection of Mystical Odes. Arabic text (edited from three manuscripts) with a literal version of the text and an abridged translation of the author’s commentary, by Reynold. A. Nicholson (Royal Asiatic Society, London, 1911). Trad. italiana, L’interprete delle passioni, a cura di Gianni De Martino e Roberto Rossi Testa, Apogeo, Milano, 2008.
L’edizione italiana ha una prefazione intitolata, non a caso, “L’eccedenza mistica” – un’”eccedenza”, se non un “eccesso”, che forse costituisce uno dei segreti del linguaggio in generale.

Postato giovedì, 10 giugno 2010 alle 14:05 da Gianni De Martino


In realtà, i crimini compiuti dalle persone con disturbo mentale sono (rispetto ai crimini compiuti dalle persone senza disturbo mentale) enormemente inferiori.
Il problema è tutto mediatico:
mentre i giornali o le televisioni o la vox populi del bar Sport oppure del tram sono prontissimi a gridare “il colpevole è un pazzo!!! Un assistito dal Centro di salute mentale!!!”,
nessuno si sogna mai di ricordare: “il colpevole è una persona normalissima”.

Postato giovedì, 10 giugno 2010 alle 15:00 da luciano / idefix


“Tutti siamo pazzi,quelli che non stanno nei manicomi si solo nascosti bene”
Stephen King,Danza Macabra
A proposito di pazzia,per me rimane ancora oggi insuperabile “Il metodo del professor Piuma e del dottor Catrame” di Edgar Allan Poe.
Questo racconto,insieme ai testi di De Sade ispirò il regista cecoslovacco
Jan Svankmajer per il film “Lunacy/Sileni” una pellicola surreale in cui la pazzia è estasi artistica,creativa,libertaria e sessuale,mentre la sanità mentale è una rigida e oppressiva gabbia,in cui l’ordine si mantiene con la violenza.
L’idea del disordine come ispiratore d’ordine compare anche nel “Nosferatu” di Herzog:la pestilenza che il vampiro porta con se livella le classi sociali,facendo sprofondare il paese in una sorta di delirio comunitario a cui mette fine l’azione di Lucy,il suo tradimento nei confronti di Dracula. (Che anche se a modo suo,l’amava e ottiene solo tradimento ed un piolo nel cuore)

Postato giovedì, 10 giugno 2010 alle 19:55 da Francesco Moretta


Ma la pazzia è anche come una lente,un pezzo di vetro,che si distorce le nostre percezioni, ma le amplifica. Nel capolavoro fantasy/cosmico di Jim Starlin “Warlock” l’eroe deve accettare la pazzia,per divenire in grado di comprendere e sconfiggere il Magus che è il suo riflesso distorto.
I personaggi di Lovecraft sono impazziti dopo aver visto i grandi antichi o erano gia pazzi (che simulavano la loro sanità scrivendo delle loro esperienze) e per questo hanno visto gli antichi?

Postato giovedì, 10 giugno 2010 alle 20:03 da Francesco Moretta


Refuso: “si sono solo nascosti bene”,scusate.

Postato giovedì, 10 giugno 2010 alle 20:40 da Francesco Moretta


Il disturbo mentale (preferisco chiamarlo così piuttosto che usare lo stigmatizzante “pazzia” o “follia”) non è un qualcosa da maneggiare con leggerezza.
Dire (come fa King) “siamo tutti pazzi” può essere una provocazione, uno spunto narrativo, un dito nell’occhio ai pregiudizi contro chi ha un disturbo mentale ma è campato in aria.
Perchè sostenere una cosa del genere significa azzerare la condizione del disagio-disturbo mentale (o “follia”, se così preferiamo chiamarla): SE TUTTI sono pazzi, non lo è nessuno e dunque nemmeno le persone con un grave disturbo schizofrenico o con sociopatie gravi.
Molto in sintesi:
posso capire l’approccio “artistico” al problema del disturbo mentale ma (nel concreto delle vite reali delle persone in carne, ossa, mente, emozioni e relazioni) la “follia” non è affatto (se non del tutto marginalmente) “estasi artistica, creativa, libertaria e sessuale”. Presentarla in questo modo significa darne un’immagine tanto falsa, idilliaca e fuorviante quanto (al contrario…ma spesso gli opposti pregiudizi si toccano) presentarla come “violenza, pericolo per gli altri, non guaribilità”.

Postato venerdì, 11 giugno 2010 alle 09:43 da luciano / idefix


Banalizzare la patologia mentale è un rischio che si corre nella fiction, prendiamo come esempio quello che è successo con il film “Rain man”,a quanti luoghi comuni sugli autistici ha fatto involontariamente nascere.
Come dici tu Luciano, nella quotidianità della vita reale la pazzia è un fenomeno complesso e non facilmente trattabile,ma alcuni degli autori che ho citato avevano usato la pazzia più come un mezzo per poter parlare di altri temi.
L’abitudine umana di catalogare in entrambi i modi da te descritti la pazzia è solo un tentativo (nel bene e nel male) di venire a patti con una realtà difficile da comprendere realmente.

Postato venerdì, 11 giugno 2010 alle 18:14 da Francesco Moretta


Francesco, se avevo un tono saccentino da chi sale in cattedra aiutandosi con la scaletta, me ne scuso: non era mia intenzione.
Tanto più che io stesso, fino a quattro/cinque anni fa, sui disturbi mentali ero un guazzabuglio di ignorantissimi pregiudizi. E se adesso lo sono un poco di meno è solo perchè ho frequentato (per lavoro, per scrittura e per amicizia) Peppe Dell’Acqua (direttore del dipartimento di salute mentale) e altri operatori di Trieste, imparando non dico molte ma qualche cosa. E almeno diradando un po’ di nebbia che avevo.

Postato venerdì, 11 giugno 2010 alle 21:04 da luciano / idefix


Non preoccuparti,non me l’ero presa o simili,anche perchè la tua era un osservazione corretta,inoltre e bello pensare che ci siano persone pronte a farti notare errori o icongruenze. Dal canto mio avevo esagerato un pò,dimenticandomi di come il fenomeno della patologia sia spesso più complesso di come lo descrive la fiction.Perciò grazie per l’osservazione.

Postato sabato, 12 giugno 2010 alle 16:59 da Francesco Moretta


Ennesimo refuso: è bello pensare,gli accenti sono proprio la mia bestia nera,scusatemi.

Postato sabato, 12 giugno 2010 alle 17:02 da Francesco Moretta


A proposito di un certo buonismo vampirico,ma da quando precisamente gli scrittori hanno iniziato a umanizzare la figura del vampiro,ovvero a renderlo sempre più simile a noi anche nelle motivazioni?O a descriverlo come buono e incompreso?
Il primo esempio che mi salta alla mente è un racconto di Henry Kuttner
“I vampire” in cui il malvagio Cavaliere di Futaine,in trasferta negli U.S.A.
per seminare il male,si redime per amore.Poi mi viene in mente Vampirella di Drakulon,anche lei all’inizio un pò cattivella, ma successivamente assurta al ruolo di eroina contro le forze di Caos.
In “Tomb of Dracula” compare il detective vampiro Hannibal King,quasi un progenitore dei vari Angel e Moonlight,mentre la Dc comics pubblicava
“I….vampire!” gradevole serie dell’eccelso J.M. DeMatteis e Tom Sutton
(che gia aveva disegnato Vampirella) con protagonista il nobile Andrew Bennett.Anche nel romanzo “Lilith”,la vampira protagonista era una non-morta buona contro un organizzazione di vampiri malvagi. Ecco questi sono i primi esempi che mi vengono alla mente ed è materiale pre Anne Rice,che ricopre il periodo dagli anni ‘50 ai primi ‘70. Quindi in realtà anche se in modo più sensato una certa umanizzazione dei nostri amati mortini era già in atto da molto.

Postato sabato, 12 giugno 2010 alle 17:21 da Francesco Moretta


Mi ero dimenticato di citare il Barnabas Collins del telefilm di Dan Curtis
“Dark Shadows”,vero e proprio prototipo delle lunghe saghe gotico-vampiriche a cui siamo ormai abituati ed “Van Helsing detective del soprannaturale” di Alfredo Castelli e Carlo Peroni.Il suo protagonista non è l’ammazzavampiri creato da Stoker,ma un vampiro buono (con le fattezze di Peter Cushing) impegnato ad affrontare svariate minacce occulte.

Postato sabato, 12 giugno 2010 alle 18:39 da Francesco Moretta


Scrivo per parlare di un romanzo breve che mi ha positivamente colpito:
“Prometeo e la guerra:1935″. La storia è ambientata in un universo in cui l’impero Austro-Ungarico ha vinto la prima guerra mondiale usando le ricerche di Victor Von Frankenstein per creare intere armate di assemblati
o Prometei,inarrestabili patchwork di membra umana. Nel 1935 l’impero Austro-Ungarico ha annesso gran parte dell’Italia del Nord ed insieme alla Germania è la nazione più potente dell’Europa,ma è piagata da movimenti interni pangermanici che non vedono di buon occhio i Prometei. Quando a Milano uno degli esponenti di tali movimenti verrà trovato morto,ucciso forse da un Prometeo toccherà a un giovane antropologo Lombrosiano venire a capo della matassa per conto dell’impero Austri-Ungarico.La vicenda si svolge in un ucronia ben realizzata e descrittà,in cui personaggi storici e inventati interagiscono tra di loro.Al termine del romanzo è anche presente una dettagliata appendice che descrive l’universo parallelo in cui la storia è ambientata.

Postato domenica, 13 giugno 2010 alle 18:43 da Francesco Moretta


L’horror (inteso in senso molto ampio) ha senso, dà piacere e provoca brividi quando esce dagli schemi quotidiani stracciandone il pacifico e scontato tran-tran per introdurvi una dose di imprevedibilità destabilizzante.
Ecco allora che (quando nel genere horror) TUTTI i vampiri erano malvagi, l’idea di mettere in scena un vampiro “buono” fu originale e sorprendente.
Ma adesso il canone si è capovolto: quasi TUTTI i vampiri che circolano sono fascinosi principi azzurri, versioni annacquate ed esangui (l’ho fatto apposta…) dei Dracula o Nosferatu iniziali, privi della sinistra cattiveria originaria.
Per certi versi, siamo alle solite:
chapeau a chi si inventa un nuovo stilema (è un creatore),
calci in culo al settemillesimo che lo scopiazza pedissequamente (è un molesto manierista).
Pensiamo solo alla moda nauseabonda dei thrilling storici con personaggi famosi che indagano su atrocissimi delitti che coinvolgono un arcano mistero (in genere risalente agli albori della cristianità) nascosto nelle opere loro o di un loro antenato. Roba da fucilazione immediata con schioppi caricati a pallettoni di merda di leprotto.

Postato lunedì, 14 giugno 2010 alle 15:10 da luciano / idefix


L’horror dovrebbe essere anarchico,di rottura,l’horror è il ragazzo dispettoso che tra una linguaccia e una smorfia ci ricorda che a dispetto di quello che crediamo la realtà non è poi cosi pacificata e che i mostri si trovano dappertutto,anzi spesso sono dove non penseremmo mai di cercarli.Ma così facendo l’horror viene addomesticato e il suo potenziale espressivo stroncato sul nascere.Non è tanto il ripetere certe idee o figure il male,quanto il farlo senza un approccio personale.Molti scrittori da King in poi hanno riproposto figure,immagini e visioni create da altri,
ma mettendoci qualcosa di loro,una impronta personale.Spesso questo minimi apporto personale puo fare la differenza tra l’ennesimo “best seller” (termine quanto mai ambiguo) e un libro magari non originale,ma godevole,divertente e forse anche più onesto dei suddetti best seller.

Postato martedì, 15 giugno 2010 alle 19:46 da Francesco Moretta


Manfredi!
Torna!
Senza di te siamo rimasti solo in due: Lucianuzzo e Ciccio.
E noi due non attiramo cchiù nisciuno.

Postato mercoledì, 16 giugno 2010 alle 09:42 da luciano / idefix


Luciano:Mi sembra che Manfredi avesse detto che andava in vacanza una decina di giorni,quindi finchè non torna mi sa che ci toccherà difendere il forte da soli.
The Lambton Worm
John Lambton erede della casata dei Lambton della contea di Durham era un giovane dal carattere ribelle,poco motivato dall’assumersi i propri doveri di nobile.Una Domenica,recandosi a pescare (invece che a messa)
catturò uno strano essere simile ad una grossa lampreda.Quando un passante gli chiese cosa fosse John rispose:”credo di aver pescato il diavolo!”. Disgustato buttò la creatura in un pozzo e se ne dimenticò.
Come penitenza per il suo carattere John fu inviato alle crociate mentre nel frattempo la cosa nel pozzo crebbè diventando un enorme drago vermiforme.L’essere sparse il terrore nella zona facendo di una collina (la Penshaw Hill per alcuni,la Worm Hill per altri) la propria tana.
Quando John tornò dalle crociate era diventato un uomo nuovo,più saggio e informato delle stragi del mostro decise di porvi fine.
Interpellò una strega che gli rivelò come nullificare le facoltà rigenerative del mostro,avrebbe dovuto ricoprire di punte acuminate la sua armatura e dopo aver ucciso il mostro avrebbe dovuto sacrificare il primo essere che gli sarebbe corso incontro. Seguendo i consigli della strega,dopo una notte di meditazione John affronto la creatura presso il fiume Wear, tagliandone i segmenti del corpo con la sua spada ed uccidendolo.
John aveva dato ordine che al suono di un corno fosse liberato un cane per il sacrificio,ma sentendo il corno suonare il padre di John accorse sul luogo per abbracciare il figlio.Incapace di uccidere il padre John seppe dalla strega che come pena per l’infrazione del rituale per 9 generazioni nessuno dei Lambton sarebbe morto nel proprio letto.Maledizione che in efetti si avverò per alcuni membri della famiglia Lambton. L’essere ucciso fu chiamato Lambton Worm.
Ora vi chiederete perchè ho raccontato questa storia,cosa c’entra con il dibattito?Da un lato l’antica figura del drago mancava alla galleria degli orrori ed ho pensato di introdurla con una delle storie migliori.
Ma Bram Stoker ispirato dal mito del Lambton Worm scrisse uno dei suoi romanzi migliori,ovvero “La tana del verme bianco” che pur inferiore a “Dracula” riesce comunque a comunicare qualche potente immagine d’orrore. Inoltre anche Vlad Dracul e suo figlio Vlad Dracula erano nominalmente legati al drago.
P.S. In antico gaelico il drago è chiamato wyrm,parola che significa verme ripugnante.

Postato mercoledì, 16 giugno 2010 alle 19:19 da Francesco Moretta


Horror?
ma fatemi il piacere,
annatevene a coricà
e copriteve

P.S.
dal primo all’ultimo, salvo quello che ha scritto : bastaaaaaaaa!!!!!

Postato mercoledì, 16 giugno 2010 alle 21:30 da Stefano


Gentile Stefano, se questa discussione non ti aggrada è sufficiente non prenderne parte.
Io, invece, ne approfitto per ringraziare tutti gli intervenuti: quelli in piedi e quelli coricati, quelli scoperti e quelli coperti.
Grazie comunque per il tuo intervento.
E benvenuto a Letteratitudine!
:)

Postato mercoledì, 16 giugno 2010 alle 22:24 da Massimo Maugeri


E la discussione (essendo una discussione non-morta), ovviamente, continua.
;)
-
@ Luciano
Credo anch’io Gianfranco Manfredi sia in vacanza…

Postato mercoledì, 16 giugno 2010 alle 22:26 da Massimo Maugeri


Mi ha davvero affascinato l’intervento di Stefano.
Soprattutto perchè dal suo P.S. par di capire che egli si è letto TUTTI gli interventi.
E dato che detesta l’horror, ipotizzo si sia trattato di una crudelissima penitenza impostagli (per espiare chissà quali bizzarri peccati) da un misterioso monaco uscito da qualche interessante romanzo thrilling.

Postato giovedì, 17 giugno 2010 alle 11:40 da luciano / idefix


Mamma mia quanto scrivete!
Allora, dopo una rapida (confesso) volata sulla disquisizione filosofica vajmax/manfredi ma solo perché decisamente fuori dalla mia portata…
Bellissima la riflessione di Luciano/idefix su Argento e la superficialità. Devo dire che anch’io temo che sia un problema di influenze. Che siano negative quelle attuali o che gli manchino quelle positive, il risultato non cambia, purtroppo. Intorno al personaggio Argento orbitano tante realtà a cui temo che il maestro non si possa (o non riesca) a sottrarsi. Da quel po’ che ho visto a Orvieto non mi pareva tanto rincoglionito da “autoinfliggersi” un simile cambiamento di rotta…

Postato giovedì, 17 giugno 2010 alle 13:27 da Simonetta Santamaria


Pant pant… (ansima)
E ancora Luciano che mi precede sulla riflessione all’intervento di Stefano. Mentre lo leggevo pensavo quello che poi tu hai scritto. Mi piacerebbe avere un saggio della sua eccelsa competenza in materia!
Ah, se Maugeri non fosse in agguato… ;)
L’altro giorno Danilo Arona mi (e si) proponeva come scrittore Gothic Triller, giusto per tornare alla questione “definirsi scrittori Horror è discriminante”.
In effetti, ribadisco quello che ho accennato all’inizio di questo epico thread: credo che in Italia un po’ lo sia. Per mancanza generale di cultura sull’horror e le sue molteplici sfaccettature (Stefano docet).
Avete notato quanti “spin-off” sta dando questo tema? E poi dicono che l’horror è solo sangue e squartamenti… Ovvio che il lettore dalla stomaco delicato storca il naso davanti alla magica parolina che a noi invece piace tanto…
Che ne pensate, amici?
Raga’, io ho fatto del mio meglio, per il resto rimpiangiamo pure l’assenza di Manfredi e intanto cerchiamo… di non morire!
:)

Postato giovedì, 17 giugno 2010 alle 13:37 da Simonetta Santamaria


Simonetta, sono andato a curiosare sul tuo sito. E mi è piaciuta la tua bella faccia da donna alta quanto basta per avere i piedi piantati per terra, uno di quei volti di cui dire subito: “mi fido”.
Anch’io (come te) penso che l’horror non sia solo sangue e squartamenti, proprio per nulla. Certamente vi è tutta un’ala del Palazzo orrorifico dedicata solo a emoglobina e smembramenti. Ma esistono tante altre parti del Palazzo assai differenti.
Io credo che, alla fin fine, le nostre vite (e di conseguenza tutta la narrativa e la poesia) ruotino su quattro temi fondamentali: la scoperta, la paura, il potere, l’amore.
In questa chiave, l’horror oscilla fra tutti e quattro, mescolandoli in molti e bizzarri modi. Ecco perchè è stato, è e sarà inesauribile: perchè ci afferra nel più profondo dell’anima e delle viscere.

Postato giovedì, 17 giugno 2010 alle 14:59 da luciano / idefix


Quello che dite è vero,l’horror ha molte facce,molti aspetti e lo splatter è solo uno di questi volti.L’horror funziona ancora meglio quando si basa sulla tensione:penso ad un racconto di Algernon Blackwood “The Wendigo” in cui il mostro non si vede mai,ma si vedono gli effetti delle sue azioni e tutto il racconto è costruito grazie allo stile dell’autore sulla sensazione che qualcosa ti osservi e ti segua nella foresta,senza mai farsi vedere.Ricordo alcuni bei film della RKO come”Il bacio della pantera”,
“Il vampiro dell’isola”,”La settima vittima” e “L’uomo leopardo”.Quattro ottimi film costruiti sulla tensione e l’atmosfera ed il primo è considerato un capolavoro del cinema.Pertanto chi dice che l’horror non ha profondità
o che manca di spessore non sa quello che dice.(Inoltre esistono anche horror che pur essendo splatter non mancano d’atmosfera,penso ad esempio a scrittori come Ray Garton o Gianfranco Nerozzi)

Postato giovedì, 17 giugno 2010 alle 17:48 da Francesco Moretta


Francesco, se non lo sapevi, ti segnalo che uno dei primi episodi (in quinto se non mi sbaglio) del Magico Vento di Manfredi si intitola proprio Windigo ed è dedicato a quel “mostro”.

Postato venerdì, 18 giugno 2010 alle 10:14 da luciano / idefix


Luciano,conosco quell’albo di Magico Vento ed è uno dei miei preferiti sia per la storia che per i disegni.Sul wendigo invece ti consiglio un film di Antonia Bird in titolato “L’insaziabile” (“Ravenous” in originale).
Il film mischia molto bene l’orrore mitico del wendigo,con i fatti storici della spedizione del Donner Pass ottenendo così una buona storia.
Il film è uno dei pochi film horror usciti bene degli anni ‘90 e può contare anche su una recitazione soddisfacente e un ottima colonna sonora.

Postato venerdì, 18 giugno 2010 alle 19:29 da Francesco Moretta


Sempre sul wendigo consiglio “Lo spirito della montagna” (Tit.orig. “Skin and bones”) unico episodio benriuscito del telefilm “Fear Itself” e diretto da Larry Fessenden.L’episodio si segnala per l’ottima e viscerale interpretazione del wendigo data dall’attore Doug Jones (attore specializzato nell’interpretare mostri,quasi un novello Lon Chaney).

Postato venerdì, 18 giugno 2010 alle 20:01 da Francesco Moretta


Parlando del wendigo,mi sembra giusto tracciarne un breve identikit, dato che questo essere non è universalmente conosciuto come il vampiro o lo zombi. Il wendigo o windigo è una creatura antropofaga appartenente alla mitologia dei nativi americani,per la precisione al popolo degli Algonchini.Prima ho definito il wendigo un antropofago,ma tale essere ha origine da un atto cannibalico:il wendigo è in genere un uomo,un cacciatore che trovatosi in esilio in inverno nella foresta senza provviste o armi ricorre al cannibalismo.Ma la carne umana anzichè sfamarlo accresce la sua fame tramutandolo in una creatura mostruosa.
(Anche gli Inuit hanno miti simili sul cannibalismo,per loro la carne umana rende pazzi e desidorosi di mangiarne ancora ed anche mangiare cibo su cui sia stata strofinata carne umana ha effetti simili)
Il wendigo è veloce,tanto che quando corre i suoi piedi si consumano a causa dell’atrito e gli ricrescono,può imitare le voci ed è estremamente forte.Di giorno è un eccellente cacciatore,di notte è un cacciatore imbattibile.Sul suo aspetto le diverse tribù discordano se non per la presenza di zanne,artigli ed un aspetto scheletrico ma imponente. (Secondo altre tribù avrebbe una pelliccia bianca)
Siccome è figlio dell’inverno il suo cuore è di ghiaccio e per ucciderlo bisogna bruciarlo.

Postato sabato, 19 giugno 2010 alle 18:30 da Francesco Moretta


Stasera mi guardo su Youtube “Lidris quadrade di tre” (redice quadrata di tre) di Lorenzo Bianchini, un horror indipendente in friuliano, di cui ho letto molto bene.
Su Nocturno del mese scorso c’era un inserto sul “nuovo” cinema horror italiano e vari autori mi hanno stuzzicato assai: appunto Bianchini, Raffaele Picchio, Domenico Cristopharo, Gianni Vergadaula, Calogero Venezia…
Vedremo: in genere io tendo a dar fiducia alle proposte nuove. Almeno a prima vista. Se poi sono al di sotto della decenza (almeno del MIO criterio di decenza), archivio. Ma almeno ci provo a non fossilizzarmi.

Postato sabato, 19 giugno 2010 alle 18:33 da luciano / idefix


Esistono anche spiegazioni razionali sulla figura del wendigo,per molti vi sarebbe all’origine una malattia mentale che causerebbe comportamenti violenti,mentre altri parlano o di un eccessiva malnutrizione come causa dell’aspetto scheletrico o che il mito sia nato per rinforzare il tabù del cannibalismo.Per i criptozoligici il wendigo sarebbe in realtà il bigfoot o Sasquatch (che però è spesso invece raffigurato come una figura di positivo uomo dei boschi).

Postato sabato, 19 giugno 2010 alle 18:36 da Francesco Moretta


Con Bianchini vai sul sicuro è piuttosto bravo.Se “Lidris quadrade di tre” ti piace ti consiglio anche “Custodes Bestiae” sempre di Bianchini e dal sapore Lovecraftiano.
P.S. Ho scritto criptozologici,invece di criptozoologi scusate per l’ennesimo refuso.

Postato sabato, 19 giugno 2010 alle 18:41 da Francesco Moretta


Ho appena visitati il blog di un disegnatore di nome Aeron Alfrey (famoso in America per aver illustrato libri di Stephen King e Thomas Ligotti) e appena sono entrato nel sito mi sono trovato di fronte ad una galleria di immagini che celebravano il mostro in ogni suo aspetto;un autentica galleria dei mostri. Guardando questi disegni mi sono reso conto che erano figure si tragiche,ma anche comiche.I mostri di una volta e dell’immaginario popolare avevano una dimensione comico-grottesca che oggi si è completamente persa,ma che li rendeva ancora più interessanti. Oggi invece abbiamo mostri sempre più “cool”,alla moda,ma esangui e fatti con lo stampino.Che noia!Che banalità!Non possono reggere il confronto con le creature generate nel corso dei secoli dalla fantasia umana,l’elemento grottesco rendeva per certi aspetti i mostri più credibili.Oggi invece abbiamo solo “mostri per le masse”,vampiri fighetti e licantropi che tra un pò andranno in giro con lo smoking e laccati!Quanta perdita di immaginazione.

Postato sabato, 19 giugno 2010 alle 19:41 da Francesco Moretta


A proposito del Wendigo, un personagigo molto molto intrigante, copincollo dal mio “Vampiri- da Dracula a Twilight” a supporto di Francesco Moretta:
“Il windigo (o wendigo) è una controversa figura appartenente alla mitologia degli Algonchini, una delle tribù indiane più popolose esistenti tuttora. Si narra che il primo windigo fu un cacciatore esiliato dal suo villaggio durante un rigido inverno, il quale per poter sopravvivere si nutrì di carne umana che gli diede forza, velocità e immortalità. Proprio la caratteristica antropofaga (e di conseguenza ematofaga) e il suo status di immortale hanno fatto sì che alcuni accomunassero il windigo anche alla specie vampirica. Ha enormi artigli, bocca senza labbra e con lunghi denti, corpo emaciato e ricoperto di peli. Nonostante le dimensioni superiori a quelle di un essere umano, questa creatura è piuttosto agile e tanto veloce da consumarsi i piedi che, in tal caso, cadono e vengono sostituiti. Il windigo è anche in grado di imitare la voce umana e i versi di molti animali. La leggenda vuole che diventi un windigo chi da lui è stato morso, ma la trasformazione può essere anche causata dai riti magici di uno sciamano. Gli unici modi per uccidere questa creatura sono darle fuoco o sciogliere il suo cuore che si pensa sia di ghiaccio.”
Peccato che non potete vedere la bellissima illustrazione che mio figlio Fabrizio ha fatto del wendigo. Perché ve l’ho detto che i miei pargoli hanno collaborato al saggio con l’intero graphic design e le illiustrazioni vampiriche? E’ venuto fuori davvero un bel, bel saggio ilustrato. E lo dico convinta, non perché è mio. Giuro!
:)

Postato domenica, 20 giugno 2010 alle 20:03 da Simonetta Santamaria


Invece del film, ho dovuto assistere a un paio di crisi emicraniche. Purtroppo, è un disturbo che mi perseguita da quando ero piccolo e che ha una forte componente genetica (mia bisnonna, mia nonna, mia mamma, io e mia figlia).
Da anni sto pensando a un horror incentrato sul mal di testa.

Postato lunedì, 21 giugno 2010 alle 09:35 da luciano / idefix


Invece del film, ho dovuto vivere un paio di crisi emicraniche. Purtroppo, un disturbo che mi perseguita da quando ero piccolo e che ha una forte componente genetica (mia bisnonna, mia nonna, mia mamma, io e mia figlia).
E da anni sto pensando a un horror incentrato sul mal di testa.

Postato lunedì, 21 giugno 2010 alle 09:42 da luciano / idefix


Chiedo scusa: ho dovuto riscrivere il commento perchè il primo pareva fosse sparito.

Postato lunedì, 21 giugno 2010 alle 09:45 da luciano / idefix


@ Luciano: anche io sono vittima di frequenti crisi di emicrania da ragazzina (eredità di mio padre), quindi ulteriore elemento comune: e anch’io penso che una storia sul mal di testa prima o poi la devo scrivere, se non altro per esorcizzarlo. Magari lo visualizzo e lo ammazzo, come quando si giocava a Space Invaders.
Ora sto tentando una profilassi, vediamo un po’. Intanto dall’elettroencefalogramma non è venuto fuori nessun Gremlin divoratore, il che è già qualcosa. Neppure anomalie nelle onde cerebrali, e qui un po’ di delusione: perché almeno noi scrittori di horror mi aspettavo che qualcosa di anormale nel cervello ce l’avessimo, eccheccacchio…
;)

Postato lunedì, 21 giugno 2010 alle 13:24 da Simonetta Santamaria


Intanto (con l’emicrania in un ruolo secondario) sto scrivendo un horror. fa parte di un romanzo collettivo (La mente in/visibile) di cui si parlava in un altro post.
Il “mio” io narrante è il grande produttore di musica pop-rock Phil Spector e il co-protagonista è Charles Manson.

Postato lunedì, 21 giugno 2010 alle 17:34 da luciano / idefix


Mal di testa in chiave horror?
Eccovi uno spunto:
-Uno strano disturbo che si manifesta con violente e continue emicranie colpisce gran parte della popolazione terrestre.Il fenomeno raggiunge vette preoccupanti con la comparsa di un nuovo sintomo,i soggetti ammalati presentano ricordi che non appartengono a loro ma ad altri individui anch’essi colpiti dal disturbo.Vengono creati appositi centri per studiare il fenomeno e si scopre che le menti dei soggetti si stanno fondendo in un unica mente collettiva.I mal di testa erano solo dei segnali che accompagnavano la fase di risonanza tra cervelli diversi.
Gli scienziati vedono così emergere quello che a prima vista sembra essere un superuomo collettivo,che in seguito però si rivela essere tutt’altro……. qualcosa di antico!

Postato lunedì, 21 giugno 2010 alle 17:50 da Francesco Moretta


Francesco, non se tu abbia problemi di emicrania oppure no. In ogni caso tu stai seguendo una delle due possibili piste narrative.
Io penso che (in brutale sintesi) le principali direzioni per raccontare l’emicrania in un contesto thriling-orrorifico siano due:
a) il mal di testa riguarda tutti (o comunque molte persone) ed è una specie di epidemia,
b) il mal di testa riguarda una persona (o pochissime).

Postato martedì, 22 giugno 2010 alle 10:39 da luciano / idefix


Sono tornato dalle vacanze. Ho dato una rapida occhiata nella Libreria Giunti di Trapani per controllare le novità. Al terzo posto tra i più venduti ho visto PROMESSI VAMPIRI che , recita la fascetta di copertina, ha avuto una seconda edizione dopo solo 3 giorni dalla prima. Al quarto posto un altro libro non vampirico (di Gramellini, mi pare) la cui fascetta recitava : 3 edizioni in quindici giorni. Gli editori hanno scoperto che la fascette aiutano a vendere e d’accordo… ma non si rendono conto che così (ammesso che il contenuto pubblicitario sia vero) fanno la figura dei fessi? Se uno dopo tre giorni deve fare una nuova edizione, o una nuova ogni cinque giorni , cioè manco il tempo di distribuire, l’esimio editore non poteva stampare più copie in prima stampa? O ci stanno prendendo tutti per i fondelli? Riguardo a PROMESSI VAMPIRI (ah, il numero uno era il nuovo della Meyer) l’autore ha un nome inglese dunque presumo a naso che non si tratti affatto di un PROMESSI SPOSI in versione vampira, ma di una furbata dell’editore italiano (peraltro così scontata che c’era da aspettarsela). Il punto è: perché il pubblico imbocca così facilmente? Si stanno vendendo i titoli più dei libri? Ma non voglio essere aprioristico, così vi chiedo se qualcuno di voi lo ha letto. O se gli ha dato un’occhiata più approfondita della mia, che ho guardato e subito distolto lo sguardo (già non ho mai sopportato i Promessi sposi, figuriamoci i Promessi vampiri). Difficile, sempre più difficile, stare dietro all’ondata : uno sta via una settimana e spuntano decine di romanzi vampirici. Viene da dar ragione a Stefano, qualunque siano le sue motivazioni. Non che i libri NON HORROR si salvino. A entrare in una libreria si viene colti da vertigini. Ho notato almeno tre risposte svedesi a Larrson. Ormai basta essere svedese per avere un’edizione italiana? E gli autori svedesi stanno rispondendo tutti a lui, che dal suo canto riposa in pace? Ecco che allora, caro Stefano, siti come questo di Maugeri hanno la loro utilità sociale, qualunque sia l’argomento trattato (e ce n’è per tutti i gusti)… se non altro ci ricordano che il libro non è una fascetta e non dovrebbe risolvere a questo il suo appeal. Io sulle fascette ci farei scrivere per legge : per editare questo libro in tot copie si sono abbattuti tot alberi. Se non altro il consumatore coatto di best-seller verrebbe educato a chiedersi se ne valeva davvero la pena. Lo so che è una pia illusione… ogni volta che esce un mio fumetto ricevo lettere di lettori che nemmeno mi dicono se gli è piaciuta, ma mi chiedono quanto ha venduto. Ora… a parte che i dati certi del venduto (non del distribuito) si hanno soltanto dopo sei mesi (almeno) , resto sempre allibito: ma cosa gliene frega? Per esprimere un giudizio devono sapere prima quanto ha venduto? Le fascette probabilmente servono a questo tipo di lettori che non comprano se prima non sono sicuri d’essere in fitta schiera . Così gli editori stampano la fascetta prima ancora che il libro cominci ad essere davvero venduto, e siccome lo fanno tutti , alla fine si ha l’impressione che ci siano milioni di lettori… perché invece non è così? Perché tra i banchi uno vede aggirarsi soltanto tre o quattro sperdute persone, che in genere sono entrate per trovare fuggevole riparo alla pioggia? Ah, dimenticavo. La vetrina di quel libraio di Trapani era decorata con farfalle in omaggio al romanzo (“Sei milioni di copie vendute/ il libro più letto e più censurato – sic!- degli ultimi anni”) The Giver… titolo che a questo punto dovrebbe essere cambiato in The Taker.

Postato martedì, 22 giugno 2010 alle 18:30 da Gianfranco Manfredi


Luciano:Riflettendo sulla seconda traccia,il nostro protagonista potrebbe soffrire di emicranie perchè la sua mente si sta sintonizzando su un altra realtà,più le crisi sono forti,più lui finisce legato all’altro universo,un universo sconosciuto le cui visioni lo terrorizzano.
Gianfranco:Bentornato dalle vacanze, la tua visita in libreria assomiglia ad una piccola capatina che stamattina ho fatto alla Feltrinelli di Pavia.
Io però ho trovato due piccole ancore di salvezza nel reparto fumetti:un art-book su Vampirella ed un volume sul Licantropus della Marvel che tra le altre cose conteneva anche la ristampa dello scontro Dracula-Licantropus.Sfoggiando i due fumetti a mo’ di croce contro i recenti best sellers sono uscito e mi sono riparato in università. (Ovviamente gli acquisti li ho pagati)

Postato martedì, 22 giugno 2010 alle 19:03 da Francesco Moretta


Posto quanto appreso da rapida ricerca in Rete:

Promessi vampiri, di Beth Fantaskey, apprezzato romanzo d’esordio dell’autrice americana, è in arrivo, in Italia, per Giunti Y.

Gli elementi costitutivi del romanzo, che è autoconclusivo, sono senz’altro simili a molti paranormal romance per adolescenti che stiamo leggendo in questi anni. La high school americana, la ragazza e il vampiro bello e tenebroso non possono non ricordare Twilight di Stephenie Meyer o Il Diario del Vampiro di Lisa Jane Smith (per citare le due saghe più note). La storia, però, è completamente diversa. In piccola parte, mi ricorda anche la serie Pretty Princess di Meg Cabot, o meglio i film, Pretty Princess e Principe azzurro cercasi, che da quella serie sono stati tratti, con una Anne Hathaway-studentessa americana che scopre, all’improvviso, di essere una principessa europea. Solo che qui, oltre che europea, la ragazza americana scopre di essere anche vampira. Così come il ragazzo che la reclama come sua, che è anche maledettamente bello. E decisamente arrogante. Le frasi che pronuncia (alla “Io Tarzan, tu Jane”), ben chiariscono il concetto:

Si puntò un dito al petto e dichiarò scandendo bene le parole come se avesse di fronte un bambino: «Io sono un vampiro». Poi, con lo stesso dito, indicò me. «Tu sei un vampiro. Noi ci sposeremo all’alba della tua maggiore età. Così è stato deciso al momento della nostra nascita». Il mio povero cervello non arrivò nemmeno a processare la parola “sposeremo”, figuriamoci “deciso”. Si bloccò a “vampiro”.

Credo che basti.

Postato martedì, 22 giugno 2010 alle 20:27 da Gianfranco Manfredi


Bentornato Gianfranco! E a leggere di che tratta questa ultima meraviglia della letteratura m’è venuto subito un incoercibile attacco di nausea. L’ennesimo esempio di come gli autori americani ci surclassino indipendentemente dai contenuti dei loro stupidi libri, di come i librai seguano la scia di questi cosiddetti fenomeni dalle vendite stratosferiche e di come la gente abbocca alle cazzate (il mal di testa collettivo non è tanto lontano dalla realtà visto che già una Grande Mente Pensante ingloba la maggior parte dei cervelli Non-Autonomi: mi fa tanto sci-fi ’sta cosa…)
Il tutto ci regala un panorama editoriale deprimente.
Perciò ora chiudo il file del mio romanzo e vado a farmi una sigaretta in balcone. Perché la domanda continua a sorgere spontanea, amici: ma che sto scrivendo a fare?

Postato martedì, 22 giugno 2010 alle 21:01 da Simonetta Santamaria


La figura del vampiro ha successo perché associa l’orrore dell’essere posseduti alla sessualità che, in un certo senso, non contraddice la possessione. Certo, si dirà, ma anche i soldi si sposano altrettanto bene, sia alla sessualità che all’orrore, quindi sarebbe necessario che il vampiro debba pure essere ricco, per far toccare l’apice dell’orgasmo al lettore… Be’, qui si finisce, inevitabilmente, nella politica, e poche cose come la politica provocano piacere a pochi, quindi si capisce bene che il vampiro, per avere successo popolare, o è stronzo e povero, o è ricco e buono. Si deve ammettere che la fortuna degli ultimi vampiri buoni e ricchi la si può attribuire al fatto che il Vampiro vero, quello cattivo ricco e nemmeno un po’ sexy ce l’abbiamo al governo, e nessuno lo comprerebbe mai, perché è lui che ci compra…

Postato martedì, 22 giugno 2010 alle 21:04 da vajmax


Ringrazio tutti (ma proprio tutti) voi per i nuovi commenti pervenuti.
Bentornato a Gianfranco Manfredi (spero che le tue vacanze siano trascorse bene e in maniera serena).
-
A me il titolo “Promessi vampiri” fa venire in mente quello di un fumetto di Walt Disney di qualche anno fa: “Promessi paperi”.
:)

Postato martedì, 22 giugno 2010 alle 23:17 da Massimo Maugeri


Dedica demenziale a un vampiro che sa molto succhiare

Il vampiro bavaglio è l’ennesimo tormentone,
di colui che ostenta il suo caninone;
il vampiro bavaglio non permette di esser informati
soprattutto sugli uomini “insanguinati”,
sui molti imbrogli e imbroglioni
di chi ostenta certe boccali espressioni;
il vampiro bavaglio non ci permetterà più di sapere
quanto sia allettante il sangue trattenere,
alla faccia del popolo sovrano
che è in balia di questo gran sultano,
di un tal vampiro succhiasangue
che si impossessa di chi langue,
di chi non ha aglio in quantità
da respingerlo sin là,
in più d’un castello
ove posto non c’è per il poverello,
ma per chi come il vampiro nero,nero
è abituato a barattar sangue sintetico con quello vero.
ilarì

Postato mercoledì, 23 giugno 2010 alle 00:55 da ilari3


@ Francesco. Mi ha molto interessato questo tuo post di qualche giorno fa. “A proposito di pazzia,per me rimane ancora oggi insuperabile “Il metodo del professor Piuma e del dottor Catrame” di Edgar Allan Poe.
Questo racconto,insieme ai testi di De Sade ispirò il regista cecoslovacco
Jan Svankmajer per il film “Lunacy/Sileni”.” Non avevo mai sentito parlare del film che tu citi . Nel libro The Poe Cinema di Don G.Smith che esamina i film tratti da Poe (molti più di cento) questo Lunacy non figura. Di Svankmajer si citano due film, uno tratto dalla Caduta della casa Husher (1981) e un altro da il Pozzo e il Pendolo (1983), film che e a quanto pare impiega a dismisura la soggettiva. Sul dottor Piuma si cita invece il film La mansion de la Locura del regista messicano-hippy (diciamo così) J.L. Montezuma , film pop-allucinato non male come ambientazioni e per il surrealismo stile Jodorowski, molto caratteristico di quegli anni “psichedelici” (1972/73). Lo si trova su eMule. Posso sapere, caro Francesco, dove hai trovato il Lunacy che citi?

Postato mercoledì, 23 giugno 2010 alle 10:52 da Gianfranco Manfredi


A proposito di VAMPIRI E FOLLIA durante la mia vacanza mi sono letto alcuni romanzi di Libero Samale (Frank Graegorius ) pubblicati a suo tempo per la collana I racconti di Dracula. Quelli di Laura Toscano per KKK dei quali avevo qui parlato rivelano per ordine della struttura e per argomenti e modo di trattarli una scrittura cinematografica. Questi di Samale sono davvero deliranti. Sembrano scritti di getto, su argomenti insoliti e quanto mai esoterici che si ricollegano a tradizioni mitteleuropee, con pagine e pagine assolutamente visionarie e continui riferimenti alle droghe (l’acido in particolare, ma anche una cospicua varietà di funghi). A volte si rischia il ridicolo per accumulo, il lettore pensa :”No, questo è troppo”, ma va avanti a leggere e scopre che nelle righe successive l’autore se lo dice da solo, con spassosa ironia. Il suo biografo Sergio Bissoli ricorda che Samale (nato a Firenze nel 1914 e morto a Roma nel 1985) era figlio di un anarchico , e tutti i suoi parenti in un modo o nell’altro erano stati dissidenti e oppositori al regime fascista. era massone (iscritto al Grande Oriente). Scrisse un centinaio di romanzi, prevalentemente horror. Lasciò alla morte, per sopravvenuta per emorragia interna (“non gli è rimasta una sola goccia di sangue” sentenziò il suo medico) , casse di inediti andati poi perduti. Ebbe una formazione quanto mai erratica e divenne medico psichiatra. Mi sono piaciuti in particolare il suo “L’organo dei morti “( I racconti di Dracula, 73) e “I verdi occhi della dea vampira” (n.040). La collana I racconti di Dracula si vendeva in edicola e prosperò se non erro per una quindicina d’anni . Se ne deduce che quei romanzi dovevano vendere parecchio, come minimo 25-30.000 copie a uscita. La lettura della collana è molto interessante perché permette di cogliere l’evoluzione della tematica vampirica in Italia dal 1959 fino ai primi anni 70 . A naso mi pare che sia difficile oggi trovare in quel mare di produzione, anche se non lo si può escludere, qualcosa di ristampabile, ma un’antologia dei momenti migliori e di certe punte emotive, offrirebbe occasione di indubbio godimento e servirebbe se non altro a correggere l’idea secondo la quale l’horror italiano non sia mai stato fecondo di spunti e dotato di una sua originalità. Da riscoprire.

Postato mercoledì, 23 giugno 2010 alle 11:47 da Gianfranco Manfredi


Il film me lo presto un amico parecchi tempo fa,non so come fece a procurarselo ma il sudetto film è in effetti introvabile.Però esiste ed è stata per ora l’ultima regia di Svankmajer.

Postato mercoledì, 23 giugno 2010 alle 12:33 da Francesco Moretta


Il commento n. 1700 di questo forum sarà il mio e di nessun altro.
E’ bene che lo sappiate!

Postato mercoledì, 23 giugno 2010 alle 12:46 da Dracula


Comunque di Lunacy/Sileni ha una recensione il sito “Oltre il fondo” e ne hanno parlato anche quelli di Nocturno in un dossier sul surrealismo pubblicato l’anno scorso ed intitolato “La luna ed il rasoio”.

Postato mercoledì, 23 giugno 2010 alle 13:05 da Francesco Moretta


1) Bentornato Gianfranco.
Oggi m’è arrivato Cromantica: mi sono reso conto che i tuoi vecchi libri in prima edizione non li ho più (eccettuati alcuni Lato side) e così li ho reordinati. Due giorni fa è giunto Ultimi vampiri director’s cut. I libri belli sono tali anche alla rilettura e alla ri-rilettura: di King mi insospettisce che non ho mai avuto voglia di rileggerlo.
2 I romanzacci di KKK avevano vari pregi: costavano poco, non avevano nessuna pretesa e poche pagine, erano divertenti, venivano disprezzati dalle pagine culturali dei quotidiani e dei settimanali.
3) Se fosse vero che alte vendite danno alta qualità dei libri/film/dischi, Mc Donald sarebbe il miglior ristorante al mondo.

Postato mercoledì, 23 giugno 2010 alle 13:57 da luciano / idefix


Caro Luciano, ti ringrazio d’esserti procurato i miei romanzi. Riguardo ai “romanzacci pulp” si pensava (anch’io lo pensavo) che fossero scritti con un po’ di vergogna e tanto per sbarcare il lunario. Ma questo non è del tutto vero. Samale per esempio non era uno sceneggiatore che faceva romanzi tra un film e l’altro per raggranellare qualche soldo in più, ma era a suo modo uno scrittore di vocazione, che infatti mostra nei suoi romanzi un autentico interesse per ciò che scrive (e i riferimenti al folclore e alle tradizioni culturali sommerse, da quelle mitteleuropee alla cultura araba e islamica che conosceva benissimo, si sprecano, nei suoi libri). Non lo si può definire uno scrittore facile per un pubblico di bocca buona , è piuttosto uno scrittore Weird, di una bizzarria assoluta anche nella costruzione della struttura dei suoi romanzi che non si replica mai identica. Ci sono diverse situazioni sessuali nei suoi romanzi, ma lui preferisce alludere, non infila mai situazioni pruriginose tanto per eccitare il lettore. E’ comprensibile che la critica letteraria non considerasse questi scrittori da edicola, però oggi i ricercatori se ne occupano , almeno quelli che studiano la cosiddetta letteratura popolare che aveva caratteristiche ben diverse , anzi opposte rispetto a quel “popolare” che oggi va sotto l’etichetta di best seller. Anzitutto si trattava di scritture ampiamente sperimentali, poi trattavano temi e situazioni che la letteratura alta tendeva a escludere, infine vendevano tanto senza diventare famosi, anzi continuando per tutta la vita a sfornare romanzi pagati pochissimo, eredi in certo modo del salgarismo (Salgari finì suicida e in miseria dopo aver fatto arricchire i suoi editori). Riletti a distanza questi libri sono molto interessanti perché rappresentano una letteratura sommersa quanto diffusa, piena di eresie, anche stilistiche, ma vivacissima. Cosa che non si può dire dei bestseller che invece fanno della non originalità e dell’omologazione la loro regola. Uno scrittore di best seller si inorgoglisce se il suo nome viene affiancato a quello di un autore più famoso di lui e se il suo romanzo somiglia a quello che venduto di più l’anno precedente. Uno scrittore pulp si sarebbe offeso se fosse stato considerato nella scia di un altro. Ciascuno di loro, pur sentendosi parte di un genere, teneva moltissimo alla sua unicità e originalità, a qualunque livello la si collocasse. E’ interessante e anche un po’ triste notare come un po’ in tutto il mondo, fino alla fine degli anni 70, scrittori oscuri oppure popolarissimi, autori ciascuno di centinaia di romanzi di genere , ma sempre pubblicati in paperback senza mai l’onore di un’edizione hard cover, siano caduti nell’oblio appena dopo la loro morte (oggi si ritiene il contrario, e cioè che da morti si venda di più). Sull’ultimo numero di Magico Vento ho parlato di alcuni di questi autori americani, inglesi e spagnoli, di romanzi western in paperback. Tra loro alcuni che in vita hanno venduto per decenni milioni di copie. Morti e dimenticati. Alcuni scrivevano meravigliosamente bene e riletti oggi mostrano di essere più moderni dei film western girati alla loro epoca. Confrontando i pulp horror con quelli western, si può notare una caratteristica distintiva (soprattutto negli autori americani): i personaggi dei protagonisti e dei cattivi dei pulp western sono molto belli. Vite estreme (che ci vengono raccontate in sintesi) , modi di esprimersi non letterari ma ispirati al linguaggio parlato, assoluta epicità delle loro azioni guidate dalla disperata volontà di liberarsi dal tragico fato che incombe e giunge a compimento in pochi giorni. I personaggi degli horror invece sono senza biografia, molto approssimativi, figurette di eroi incolori e di cattivi demonizzati e improbabili, pure sagome di pupi agitate in un teatro degli orrori disambientato, simbolico, delirante. C’è da chiedersi se questa non sia una differenza fondante. In effetti nel romanzo di frontiera alla Fenimore Cooper, il disegno della biografia del protagonista era sempre molto accurato, mentre nei racconti di Poe i protagonisti tendono ad essere maschera dell’io narrante, spesso di loro e della loro vita non sappiamo nulla, non vengono descritti neppure fisicamente, partecipiamo soltanto dei loro incubi. Tuttavia non si può certo dire che siano sprovvisti di psicologia, anzi! Si tratta di due modi opposti di costruire la psicologia di un personaggio: quello epico muove dal vissuto concreto, nel quale ha grande spazio anche la materialità e la fisicità corporea dell’esperienza, quello horror muove invece dal pensiero e dall’inconscio, l’esperienza soggettiva (quella della paura ad esempio) , le contorsioni della psicologia, la follia, la malattia , l’insania anche dei comportamenti, esprimono qualcosa di più del personaggio in sé, si può dire che escono da lui e ci riguardano tutti. L’io narrante diventa io leggente. Mentre un eroe western ci affascina perché la sua esperienza è irriducibile alla nostra (magari la sogniamo, ma sappiamo che noi non saremo mai eroi e mai vivremmo in quel modo, neppure potremmo sopravvivere) quello horror ci parla da dentro, ci aiuta a ritrovare molte parti di noi che nella vita concreta e razionale tendiamo a rimuovere perché ci spaventano. Hai scritto benissimo, Luciano, che è una pericolosa deriva il credere che in fondo siamo tutti folli, perché in questo modo si nega la specificità della figura del malato mentale, però si può dire che molti autori horror se non potessero scrivere e dare sfogo all’inconscio in pagina (o in pellicola), è assai probabile che sprofonderebbero nella follia. Scrivere li aiuta a essere nella vita, persone equilibrate, ironiche, non violente e consapevoli. Tra gli autori epici invece non si contano i casi di scrittori dalle vite squilibrate, aggressive, insensibili. La figura dell’eroe nasconde in sé qualcosa di autoritario e di legato a una concezione della vita come scontro brutale da “homo homini lupus”. Nell’horror c’è invece qualcosa di sciamanico, una ricerca spirituale più pronunciata, l’esperienza del viaggio attraverso le paure che ti fa sentire meglio perché attraverso questo viaggio si impara a fare i conti con il proprio nemico interiore, la propria stessa ombra.

Postato mercoledì, 23 giugno 2010 alle 16:08 da Gianfranco Manfredi


Gianfranco,visitando il tuo sito ho dato un occhiata alla lista dei ghost finders e in particolare ha attirato la mia attenzione Antonio De Montpalau e il romanzo in cui compare “Le storie naturali”.Volevo chiederti se potevi gentilmente fornirmi qualche informazioni su questo libro e sulla sua reperibilità,perchè mi ha incuriosito molto.

Postato mercoledì, 23 giugno 2010 alle 17:10 da Francesco Moretta


Il romanzo Le Storie Naturali dell’autore catalano Joan Perucho è stato tradotto in italiano per Rizzoli nel 1989. Il protagonista Antonio de Montapalau è un giovane aristocratico di Barcellona che combatte per il progresso scientifico e contro la superstizione, tuttavia non è così razionalista da non ammettere l’esistenza reale di un vampiro che minaccia l’esistenza di un piccolo villaggio. La cosa interessante è che ne deduce l’esistenza sulla base della logica, non come cedimento all’irrazionale. Il romanzo è molto raffinato. Uno di quei casi in cui il fantastico (e il vampirico) si coniugano alla letteratura alta e attraverso la lettura dei miti popolari si offre un’immagine della società (qui la Spagna del 1830 sconvolta dalla guerra civile). Sono quei romanzi che in genere la critica omaggia (perchè non potrebbe fare altro) ma che non sa bene come collocare. Si è parlato di thriller filosofico, una di quelle definizioni che lasciano il tempo che trovano. Non basterebbe dire che è un gran bel romanzo? Non conosco gli altri romanzi di Perucho che a quanto mi risulta è, a parte questo suo romanzo vampirico, non tradotto in Italia. E’ nato nel 1920 , al momento della traduzione di Las historias Naturales (che lui aveva scritto nel 1978) era ancora vivo e aveva finalmente potuto godere di fama internazionale dato che essendo stato sempre un avversario del regime franchista le sue opere erano state non poco ostacolate in Spagna.

Postato mercoledì, 23 giugno 2010 alle 18:32 da Gianfranco Manfredi


Grazie mille per le informazioni, la definizione di thriller filosofico,in effetti è da far cascare certe parti del corpo,l’ossessione dell’uomo per la catalogazione messa al servizio delle leggi dell’editoria.
Cercherò di procurarmi il libro,che in effetti mi sembra un autentica perla rara in tempi come questi.Voglio complimentarmi anche per la galleria dei ghost finders,ben scritta e comprende personaggi molto diversi tra loro anche per collocazione temporale o estrazione letteraria.Un ottimo lavoro.

Postato mercoledì, 23 giugno 2010 alle 18:42 da Francesco Moretta


Ho appena visto, grazie a Wikipedia, che Perucho è morto nel 2003. Peccato non poter leggere i suoi numerosi poemi , scritti in catalano. Di romanzi e saggi ne ha scritti tantissimi. Mi piacerebbe molto leggere un suo saggio (credo) del 1956 intitolato Sulla tecnica di Lovecraft. Parecchi suoi titoli sono romanzi di spettri e fantasmi. Segnalerò a Paolo de Crescenzo. Lodevolmente Paolo ha cominciato a pubblicare dei classici alcuni dei quali finora inediti in Italia (dal Varney al bellissimo Zio Silas di LeFanu che in Gran Bretagna si studia a scuola e che in Italia non era mai stato tradotto!). Chissà quante perle ancora nascoste (per noi) ci sono , capaci di coniugare grande letteratura e temi fantastici. Certo, se poi il coraggio editoriale (quando c’è) fosse più premiato dal pubblico, si potrebbe fare molto di più.

Postato mercoledì, 23 giugno 2010 alle 18:48 da Gianfranco Manfredi


Un altro autore (a quanti mi dicono,purtroppo io per ora di suo non ho letto nulla) che potrebbe essere degno di riscoperta è Paul Feval,autore di una trilogia vampirica antecedente al libro di Stoker,così come tutta una serie di scrittori europei dei primi del novecento,che da noi non sono mai stati pubblicati.In America esiste una casa editrice specializzata in questi autori,si chiama Blackcoat Press ed ha un catalogo in cui compaiono alcuni titoli interessanti.(Ad esempio gli ultimi libri di Brian Stableford,in cui omaggia sia Frankenstein,sia Feval ed altri scrittori francesi)

Postato mercoledì, 23 giugno 2010 alle 19:29 da Francesco Moretta


Gli incontri che faccio a scuola e in biblioteca con i ragazzi (e con gli insegnanti!) sono utilissimi.
Non so per loro (spero di sì), ma per me certamente sì: perchè imparo costantemente cose nuove, scopro aspetti del mondo e della vita inediti, vedo in presa diretta gli adolescenti (e i loro professori), devo rispondere a domande e di conseguenza devo trovare dentro di me le risposte (che a volte non avevo).
E tra le conferme importanti c’è questa:
sbagliano tremendamente gli insegnanti che dicono ai ragazzi “non leggere questo libro perchè è brutto, non guardare questo film perchè è bruttissimo”.
L’errore è enorme e vasto:
- intanto, proibire qualcosa ai giovanissimi è inutile e controproducente,
- poi, si impara tanto PROPRIO leggendo anche romanzacci e fumettacci, guardando anche filmacci e ascoltando anche musicaccia,
- infine, chi può stabilire con ASSOLUTA SICUMERA e UNA VOLTA PER TUTTE cosa sia Arte, cosa sia artigianato e cosa sia -accia?
Se ripenso alla mia infanzia e alla mia adolescenza, ai cinema di periferia in cui correvo per guardare Maciste o pessimi western di serie Z od orribili film catastrofici giapponesi come Gorgo, alle edicole che saccheggiavo per comprare Kinowa o Gordon, alle bancarelle dell’usato in cui frugavo alla ricerca di Fantomas o dei KKK, agli scaffali della biblioteca di mio papà in cui spostavo libri “seri” per trovare quelli a me vietati come Caroline Cherie o Mickey Spillane, tutto ciò si mescola a testi e film che erano UFFICIALMENTE ritenuti “belli” e nobilitanti. Ma da questo guazzabuglio, come in una specie di selezione naturale, emersero pian piano i miei gusti veri e propri.
Anche se mi porto sempre appresso il piacere per molta -accia.

Postato giovedì, 24 giugno 2010 alle 10:04 da luciano / idefix


Tra le tante scuole di sceneggiatura e regia cinematografica americane, spicca per originalità quella di Jerry Lewis (non so se sia ancora attiva). Il suo metodo di insegnamento consisteva soprattutto nel far vedere ai ragazzi film decisamente brutti. I motivi erano due: 1. guardando un film brutto si notano più facilmente gli errori e ci si educa a evitarli; 2. in un film brutto si possono notare a volte anche dei colpi di genio: soluzioni non prescritte, fuori dalle regole, rivolte a risolvere dei nodi di racconto oppure delle difficoltà di tipo economico-produttivo. In altre parole, si impara dagli errori in due sensi: riconoscendoli da un lato, comprendendone il potenziale creativo dall’altro, in quanto molto spesso ciò che l’insegnamento accademico o gli standard narrativi considerano “errore” è in realtà uno scostamento dal consueto. Nel pulp (e nel fumetto) assistiamo spesso a questa doppia natura dell’errore: c’è un errore del tutto inconsapevole, frutto di ignoranza o di approssimazione espressiva, e c’è un errore consapevole, voluto, magari escogitato per necessità, ma espressivo. Nel libro (per certi versi famigerato) del maestro d’Orta sugli svarioni dei suoi allievi (“Io speriamo che me la cavo”) fin dal titolo veniamo messi di fronte a uno stravagante ossimoro: la frase è sbagliata, ma è quanto mai espressiva, proprio per questo. Lo sbaglio diventa invenzione linguistica. L’errore banale (da evitare) è scrivere un altro con l’apostrofo. Ma inventare linguaggio è un’arte. Gli strafalcioni voluti di Totò sono una grande invenzione linguistica. Costringere l’insegnamento (come spesso si fa nelle Scuole di scrittura) dentro i binari della correttezza e della funzionalità, non produce bella scrittura, ma scrittura tanto chiara e comprensibile, quanto omologata e non creativa.

Postato giovedì, 24 giugno 2010 alle 14:02 da Gianfranco Manfredi


Simonetta ha più volte espresso la sensazione desolante che molti scrittori oggi vivono. Ci si chiede se ne valga ancora la pena di fronte alla quantità di roba inqualificabile che viene pubblicata e sembra di assistere all’assurdo fenomeno di una società che legge sempre meno, ma pubblica sempre di più, tra proclami roboanti di successi epocali. Non vale solo per la scrittura. L’estate scorsa mi trovavo nel quartiere ispanico di san Francisco (Mission) e leggo sul giornale di quartiere di un giovane cantante ispanico che sta per tenere un suo concerto. La faccia non mi dice niente, il nome non l’ho mai sentito, non so che genere di musica faccia ma secondo il giornale ha venduto sette milioni di dischi del suo ultimo album. Così chiedo ad amici americani che sanno chi sia, e tra i miei amici ci sono anche dei discografici e dei musicisti locali. Nessuno lo ha mai sentito nominare. Ecco un aspetto del paradosso: vendite spaziali che persino dei grandi del rock del passato non hanno mai avuto, e fama reale pari a zero. Viene davvero da chiedersi cosa stia succedendo. Forse, Simonetta, dovremo imparare di nuovo che il lavoro della scrittura è un lavoro solitario, una comunicazione sottile che richiede tempi lunghi per passare e diventare davvero significativa, che non deve farsi troppo distrarre dai rimbalzi di un mercato diventato inafferrabile e spesso del tutto artefatto. Per restare alla musica, Elvis diceva che se ogni sei mesi non si cambia, si resta tagliati fuori dal mercato. All’epoca si vedeva nel mercato “artistico” qualcosa che nasceva dal basso, che era diretto dal basso e che segnalava e imponeva agli artisti una continua rivoluzione espressiva se si voleva restare al passo. Oggi si ha l’impressione che il mercato sia governato dall’alto e imponga la continua replica dell’identico, accolta passivamente da un pubblico di utenti stimolati non più dai contenuti e dalle forme espressive, ma dagli input della promozione. C’è un Comitato di Verifica delle Affermazioni sul Paranormale, ma non esiste un Comitato di Verifica sulle Affermazioni pubblicitarie e promozionali che sono parte predominante della nostra attuale superstizione di massa. Uno legge su una fascetta o su una pubblicità: 150.000 copie vendute in una settimana. Chiede a un esperto del settore: ma è vero? La risposta è quasi sempre: neanche un terzo. Non si conta più il numero dei Successi autoproclamati che sono in realtà dei flop assoluti. Così uno scrittore o un editore onesti si chiedono: quanto si può andare avanti, ha ancora senso andare avanti nella menzogna più assoluta? E come mai il grande pubblico, tutti noi, siamo diventati così fragili e succubi che Michael Jackson vivo non ci interessa più mentre Michael Jackson morto vende e rivende centinaia di volte di più il suo catalogo che era già lì, disponibile e invenduto, sugli scaffali? Quale oscuro cerimoniale sacro (e funebre) stiamo celebrando proprio mentre siamo sempre più sicuri del dominio razionale della Merce, misurato in numeri e non in opinioni? Però liberarsi di questa Superstizione Mercantile può essere davvero liberatorio. Da questo sito, come da migliaia di siti in Rete, si può facilmente vedere che moltissime persone scoprono e riscoprono per proprio conto , trovano magari più interessante discutere di anticaglie che ormai nemmeno si trovano più sul mercato che dell’ultimo successo vero o apparente sfornato dalla Fabbrica della Comunicazione. Io non credo che si tratti di isole di resistenza, ma di qualcosa di molto nuovo e potenzialmente fecondo, ma anche se si trattasse solo di isole di resistenza, varrebbe la pena di vederle come un arcipelago connesso che testimonia e prepara un altro modo di scrivere, di leggere, di discutere e di condividere. Per questo arcipelago ha davvero senso continuare a lavorare. Non bisogna sentirla come una prigione, ma come un’opportunità esplorativa. Tornando all’horror, certo ci sarebbe molto su cui riflettere. Se l’horror, talmente edulcorato da non essere più tale, diventa mainstream … cosa possono fare gli scrittori che lo amano davvero e che lo hanno sempre considerato esclusivo e insieme escludente, diverso per natura, inquietante e sovversivo per vocazione? Lo stesso identico discorso può valere per il Rock. Quando una religione catacombale diventa Insegna Imperiale, vale ancora la pena di restarle devoti , magari rimpiangendone l’originale purezza, o dobbiamo avere il coraggio di considerarla ormai morta e sepolta e di inventarcene un’altra? Personalmente starò sempre dalla parte della seconda… quando una forma espressiva è così codificata da risultare Monumento al Milite Noto o Ignoto, meglio bagnarsi nel brodo primordiale che continuamente si ricrea , nel pozzo da cui germinano combinazioni impredicabili e impreviste, che attardarsi a rimpiangere. Creare Mostri e l’unico modo per restare fedeli al Mostruoso.

Postato giovedì, 24 giugno 2010 alle 14:47 da Gianfranco Manfredi


Frankenstein Jr. è indubbiamente uno dei più grandi film comici mai realizzati. Ma come in tutti i capolavori, la risata spesso si accompagna a qualcosa di melanconico, che ci turba intimamente. Prendiamo la sequenza di Frankenstein che si esibisce in palcoscenico con la Creatura, in un classico tip tap. In quella sequenza c’è il problema di cui parlavo sopra. Il Mostro risulta accettabile, viene persino acclamato, finché esegue i passi di una tipica danza borghese, magari un po’ da imbranato, ma rispettando una correttezza di tempi prestabilita che sollecita reazioni plaudenti altrettanto prestabilite. Ma se di fronte all’imprevisto (lo scoppio di un lume) il Mostro torna mostro e si incazza, ecco tornare il Rifiuto… gli ortaggi lanciati, lo scherno, la paura, e la ricomparsa del mob giustiziere di ogni diversità, braccio armato dei benpensanti borghesi accorsi allo spettacolo.

Postato giovedì, 24 giugno 2010 alle 15:07 da Gianfranco Manfredi


Questo tema della Creatura in spettacolo è ben presente anche in King Kong e nel Mostro della Laguna Nera. Nasce dall’amarezza dei vecchi spettacoli dei freak, dei sideshow cui il popolo e i borghesi accorrevano per stupirsi di fronte all’orribile e al prodigioso. Ma simili spettacoli già si erano celebrati nei manicomi, in quello londinese di Bedlam, ad esempio, nel quale un pubblico pagante veniva ammesso ad assistere allo spettacolo della degradazione e della follia. Il “normale” ha bisogno dello spettacolo del “diverso” per sentirsi appagato e confortato nella sua normalità, ma se il diverso si libera dalle catene e dalle gabbie, allora deve essere represso con violenza e nascosto alla vista.

Postato giovedì, 24 giugno 2010 alle 15:17 da Gianfranco Manfredi


Anche io giornalista come Laura Costantini, ma cinquantenne, due anni fa ho preso in mano Twilight che mi figlia leggeva avidamente. Un casino: quattro libri divorati in dieci giorni, l’ultimo l’ho finito durante la notte di Capodanno in un rifugio in quota, tra quelli del CAI che cantavano a squarciagola e mio marito sull’orlo del suicidio… eppure non ho staccato il naso dal libro neanche davanti alla polenta taragna. Che dire? Ho cominciato ad aggirarmi per strada controllando che non ci fosse in giro un vampiro così attratto dal mio adore da persuadersi di non potermisi avvicinare per non innamorarsi (lo avrei convinto a lasciarsi andare :-) . Scongiurato il rischio, mi sono messa a scrivere storie, a riunire intorno a me un gruppo di ragazze dai 18 ai 50 che neppure si conoscono di nome ma che scrivono bene e sempre meglio. Abbiamo pubblicato 4 libri che sono andati benissimo in libreria e altri tre ne stanno uscendo, l’ultimo un’intelligente variazione sul tema (non mio).
Per darvi un’idea di questo outsider atteso per l’inverno:
Il titolo è “Porcaccia, un vampiro!”
«Lo udii uscire dalla stanza ed entrare in cucina.
Aprì il frigo.
Cazzo vuole dal mio frigo?, pensai.
Assassinarmi a colpi di broccoli?
Ammazzarmi a cotolettate?»
L’autrice si chiama Giusi de Nicolo, non sono io.

Abbiamo aperto ora a tutti i generi letterari e siamo una ventina ormai. Il tutto: scrittura, editing, promozione, copertina, viene discusso on line apertamente. La legge del gruppo è criticarsi reciprocamente senza pietà. Rispetto a certi minuetti che si vedono in rete tra autori che se la cantano e se la suonano, la differenza si vede, usciamo su carta, non paghiamo per pubblicare, entriamo in libreria e vendiamo bene.

Con le mie consorelle abbiamo messo a punto una teoria su questa cosa del fascino del nuovo vampiro : perchè un romance alla Bronte funzioni, occorre che la protagonista sia magneticamente attratta dai minimi movimenti, espressioni dell’eroe, cosa che si supporta e si costruisce a partire da un’alterità tra lei e lui che nella società è andata perduta. Perchè l’eroe prenda consistenza e decolli è necessario che la “lei” ne abbia un po’ paura-soggezione, solo così sarà portata a studiarne ogni più piccola mossa. In realtà Edward Cullen non ci allontana dal maschio dunque, ce lo restituisce perché oggi nelle relazioni tra maschio e femmina questa attenzione spasmodica e reciproca si è persa. Per questo “l’angelo” su cui sta tentando di puntare l’editoria, tira meno: non ha il sottile fascino della paura. Tuttavia se immaginassimo una storia da Sindrome di Stoccolma con la tipa rapita da una banda di guerriglieri eticamente giustificati ma non per questo meno feroci, l’effetto Edward Cullen, per il rapitore figo, sarebbe assicurato anche in assenza di zanne.:-)

Postato venerdì, 25 giugno 2010 alle 01:59 da Anonimo


Sono l’autrice del post precedente, m’è partito l’invio, non volendo:-)

Postato venerdì, 25 giugno 2010 alle 02:01 da Monica Montanari


Cara Monica, come si chiama la vostra casa editrice o marchio? Puoi segnalare qualche altro titolo in catalogo? Come siete organizzati , in cooperativa? I contratti editoriali sono tutti uguali? Avete una distribuzione nazionale? Ti chiedo queste cose come supplemento di informazione. Non ti chiedo cosa vuoi dire in pratica quando scrivi che “andate benissimo in libreria” perché comunque se rientrate nelle spese questo è già positivo. La mia curiosità è motivata dal fatto che fin da quando facevo il cantante mi ha sempre interessato l’attività delle produzioni indipendenti e il loro modo di organizzarsi e di distribuirsi.

Postato venerdì, 25 giugno 2010 alle 10:38 da Gianfranco Manfredi


Quanto all’alterità tra lui e lei, Flaiano ne diede una celebre definizione che recita più o meno così: quando vedi entrare una donna e pensi “ma chi è questa stronza” quella è la donna della tua vita. Se ne può dedurre che (come nella tradizione del romanzo di sentimenti che tu ricordi) l’uomo deve apparire (alla donna) un po’ alieno e vagamente intimidatorio e la donna (all’uomo) come altera, capricciosa e rompipalle (come molte eroine di Jane Austen, sicuramente intelligenti, ma “stronze” nel senso buono del termine)? Su questo tema non credo che le cose siano rimaste come un tempo. L’alterità oggi si è fatta molto più ambigua. Non si tratta più di opposizione sessuale (i poli opposti da cui scaturisce la scintilla) ma di bi-morfismo in parecchio casi addirittura a-sessuale. I Manga sono Bibbia in questo senso. E nel culto adolescenziale per il ragazzo “carino” e per la ragazza “esploratrice di sensazioni forti” ci sono tutte le caratteristiche di una sessualità in formazione, caratteristica di questa adolescenza che è assai più lunga e dilatata che non ai tempi delle Bronte quando le ragazze diventavano in età da marito e spesso madri da teenagers. L’alterità assoluta di Dracula era ben altra cosa: uno straniero, un essere venuto dall’oltretomba, un vecchio che succhia giovani prede per mantenersi giovane … oggi gli adolescenti non sono più affascinati da questa alterità , a me pare che riconoscano la diversità soltanto all’interno del proprio stesso gruppo anagrafico, è qui che sta la radice del genere vampire-college , che non ha inventato la Meyer, ma gli autori della serie televisiva Buffy che ha dato la stura al genere. Per i lettori adulti (e la Meyer ne ha molti, come ha avuto pubblico adulto anche Buffy) questo fascino dell’adolescenziale non si presenta come rimpianto di un’età di passaggio, bensì come mito dell’adolescenza prolungata all’infinito, l’adolescenza come “condizione ideale” sottratta alla responsabilità sociale e familiare. Così credo si possa dire che oggi gli adolescenti cercando di trovare se stessi, mentre gli adulti siano in fuga da se stessi.

Postato venerdì, 25 giugno 2010 alle 11:00 da Gianfranco Manfredi


E’ saltata una parola: “che oggi gli adolescenti stiano cercando”.

Postato venerdì, 25 giugno 2010 alle 11:01 da Gianfranco Manfredi


Interessante anche il tuo rilievo sugli “angeli”. Però… davvero funzionano meno perché fanno meno paura? Io credo invece che ne facciano troppa. Nella nostra epoca si diffida del “mistico”, che è smarrimento totale dell’identità, orgasmo allo stato puro e luce assoluta. Noi siamo terrorizzati dal bianco, non dal nero. Abbiamo paura di smarrirci confluendo nel tutto, liberando il nostro inconscio, cercando una consapevolezza che non è “sapere tecnologico”. Poe lo aveva previsto: Gordon Pym si perde alla fine del suo viaggio, nel bianco assoluto e polare, dove la luce cancella ogni cosa. La Creatura di Frankenstein sparisce egualmente nei ghiacci. Ma viaggiare verso la luce per noi è evocazione della morte, è condizione molto più rischiosa e inquietante del buio cui ci siamo ormai abituati e che ci appare molto più consueto che alieno, molto più sociale. La nostra notte è piena di vita. L’alba non vorremmo proprio vederla. L’angelo non sappiamo più chi è e davvero non vogliamo saperlo. Ma chi non sa più vedere gli angeli, neppure può vedere quell’angelo caduto che si chiama, non a caso, Lucifero cioè “Il Portatore di Luce”. Ecco perché i veri amanti del vampiro non amano i vampirucci della Meyer.

Postato venerdì, 25 giugno 2010 alle 11:18 da Gianfranco Manfredi


Come tu scrivi, le zanne nel meyerismo sono un optional. Ma senza zanne, un vampiro che fa? Succhia minestrine? Altro che alterità, qui siamo al cocco di mamma!

Postato venerdì, 25 giugno 2010 alle 11:22 da Gianfranco Manfredi


Consiglio la lettura di un articolo sul rapporto tra i sessi in Twilight che ho trovato in un blog chimato “Malpertuis”,nella sezione dossier.
L’autore dell’articolo analizza in modo acuto il primo libro della serie ed è anche riuscito a riflettere su alcuni punti spesso ignorati del rapporto Edward/Bella.
P.S. Qualche giorno fa mi sono rivisto “Per favore non mordermi sul collo!” di Polanski e lo trovo tutt’ora una geniale sintesi di tutti gli stereotipi vampirici del periodo,ma ribaltati con una feroce dose di umorismo.Più che una parodia del genere,ne è invece un acuta e ironica analisi.
P.P.S. Gli Yazidi (presunti adoratori del diavolo) adorano l’angelo caduto come un pavone che sul capo porta una candela,loro lo riconoscono e adorano proprio in quanto portatore di luce.

Postato venerdì, 25 giugno 2010 alle 12:57 da Francesco Moretta


Non c’entra coi vampiri, ma dato che se ne è parlato qui lo stesso, e che questo sito è anche rivolto ai librai, segnalo la tabella comparsa oggi su Repubblica a pag.18 riguardante il reddito medio impresa di lavoratore autonomo, dalla quale risulta, per la categoria Librai un reddito medio annuo di 13.300 euro , e per la categoria Edicolanti (utile per un raffronto) un reddito medio annuo di 21.900. Sorge un interrogativo : se la politica editoriale del bestseller moltiplica le copie come mai i librai guadagnano così poco? Un’impresa autonoma di Servizi di pompe funebri (per stare in tema vampirico) si porta a casa 46.700 euro all’anno. Non converrebbe scrivere lapidi invece che libri?

Postato venerdì, 25 giugno 2010 alle 14:28 da Gianfranco Manfredi


“O grande angelo nero, fuligginoso, riparami sotto le tue ali… O angelo nero, disvelati, ma non uccidermi col tuo fulgore, non dissipare la nebbia che ti aureola. (“L’angelo nero”, E. Montale).
Dalla “cella bianca” piena di “angeliche voci bronzee”" di Dino Campana all’angelo tremendo di Rilke*, passabdo per la famosa “estasi bianca” di Michel de Certeau, le citazioni sul terrore che è nel bianco, più che nel buio, potrebbero moltiplicarsi.
Allo stesso modo, il dolore è molto più tranquillizzante della gioia, della “gioia eccessiva”,estatica, di cui ha scritto Elvio Fachinelli, ecc.
Non a caso, gli uomini preferiscono le tenebre, Gentlemen prefere darkness. In ogni caso, la scrittura non è una lapide.
-

* “Gli angeli (è fama) sovente non sanno se tra i viventi vadano o i morti. Ma chi, se gridassi, mi udrebbe, dalle schiere degli Angeli? E se anche un Angelo ad un tratto mi stringesse al suo cuore: la sua essenza più forte mi farebbe morire. Perché il bello non è che il tremendo, al suo inizio, noi lo possiamo reggere ancora, lo ammiriamo anche tanto, perch’esso calmo, sdegna di distruggerci. Degli angeli ciascuno è tremendo… La bellezza che da voi defluisce la riattingete nei vostri volti”.
(“Elegie Duinesi”, R.M. Rilke)

Postato venerdì, 25 giugno 2010 alle 14:39 da Gianni De Martino


In ogni caso, la scrittura – a differenza di certi libri, come per esempio quelli di san Saramago e affini – non è una lapide. :-)

Postato venerdì, 25 giugno 2010 alle 14:41 da Gianni De Martino


Nel film di Michael Mann “Manhunter” Lecter (qui chiamato Lector in riferimento alla figura sciamanica del lettore e quindi connotando il cannibale con la figura dello sciamano oscuro) non compare rinchiuso in una prigione gotica come nel film di Demme,ma immerso in bianco asettico simile a quello degli ambienti di “2001 Odissea nello spazio”.
Questo riconosce Lecter sia come un individuo pericoloso,(è pur sempre rinchiuso) ma con doti sapienti è il fratello oscuro del saggio della foresta a cui ci si rivolge per ottenere consigli.

Postato venerdì, 25 giugno 2010 alle 16:12 da Francesco Moretta


@ Manfredi

Ti rispondo schematicamente perché mi hai fatto una pigna di domande.

Ho dal novantasette una casa editrice dedita allo studio dell’immaginario religioso.
Lavoriamo con 6 distributori regionali prevalentemente del circuito CDA che portano i nostri titoli nella penisola dal Nord al Centro Lazio e e Abruzzo compresi. Sotto questa latitudine non abbiamo distribuzione.
La casa editrice si chiama Mamma editori.

I primi titoli dei vampiri che abbiamo pubblicato sono:
La sedicesima notte di Margaret Gaiottina: euro 9,80, cop colori plastificata, 370 pp,
Moonlight Rainbow di Violet Folgorata: euro 9,80, cop colori plastificata, 370 pp,

Sono usciti ufficialmente nel settembre 2009, ma hanno raggiunto i distributori e le librerie alla fine di ottobre. Da ottobre 2009 a marzo 2010, abbiamo venduto in libreria 500 copie cad per titolo. Stampando con nostra officina in base agli ordinativi, abbiamo avuto il nostro ricarico come è giusto.
Abbiamo venduto molto anche per corrispondenza, senza far pagare spese di spedizione, fino alla recente modifica normativa.
Ho indicato il periodo ottobre-marzo solo perché è il dato certo che ho sottomano, ma per esempio La Sedicesima Notte continua ad essere ordinata.

Sono appena usciti:
Dark Angel di F. Goldrose
Raining Stars di M. Dooley

Usciranno in atunno:
In una gelida rosa di V.Folgorata
L’Alba della Chimera di M.Gaiottina
Porcaccia, un vampiro! di G. De Nicolo

Poi altri due romanzi dal titolo ancora da decidere, la prossima primavera.

Sta cosa di pubblicare gothic romance, è nata per caso come dicevo dalla lettura di Twilight e dal mio conseguente rincoglionimento.

Essendo nata la cosa come passione, e non come impresa, mi trovo ora per le mani un meccanismo stranissimo in cui, siamo una ventina di autrici che decidono tutto insieme, alla fine si sa che mantengo l’ultima parola, ma sto morbida: se vedo che una cosa piace alla maggioranza, faccio come vuole la maggioranza. Il gruppo si chiama Bloody Roses Secret Society

La novità di questo gruppo è che si fonda sulla passione per le storie e non sul narcisismo autoriale. Questo ci consente di dirci in faccia: guarda che hai scritto una cagata.
Sembrerà poca cosa, ma lo si può vedere con le nuove uscite, la scrittura decolla.

Facciamo solo narrativa di genere, ma stiamo cercando di sganciarci dai vampiri e stiamo tentando di affacciarci nel giallo con la collana, “Not in my backyard”.

Mi piace molto l’approfondimento e l’intelligenza dei tuoi argomenti, ma ciò che intrippa di Edward Cullen non è la adolescenzialità, in Twilight ciò che ha fatto scattare il delirio collettivo non è ciò che tu definisci “il culto del ragazzo carino” bensì la centratura perfetta del punto G letterario. Come sai la narrativa sentimentale rosa ha una finalità emotiva di tipo onanistico. Le ragazze leggono e si eccitano. Ho imposto a mio marito di leggere Twilight proprio per fargli capire dove casca l’asino della psicologia erotica femminile ma è stato del tutto inutile.
Edward Cullen riesce nel miracolo di manifestare un desiderio parossisitico e nel contempo una’enorme forza nel trattenersi. Col che la “fimmina”, può pregustare l’incontro senza sentirsene minacciata. Dovete sempre pensare che larvatamente per tutte le donne, tanto più se adolescenti, l’approccio col maschio per sua natura invasivo, è anche una minaccia.
Questo è il motivo per cui 4 volumi da 500 pagine di trombate rimandate mi sono piaciuti tanto ☺
L’adolescenza non c’entra.

Certo che il vampiro classico ha ben altra Alterità rispetto a Cullen, direi che Edward non può nemmeno essere definito un vampiro in questo senso. Ciò che conta è che abbia un segreto inconfessabile, che sia pericoloso teoricamente. Non conosco i manga, per motivi generazionali e ideologici, ma ribadisco che al di là dello specifico della storia di Twilight, in generale il paranormale nel romance ci da la possibilità di intessere rapporti psicologici di grande attenzione al partner.
Quanto all’Angelo, due osservazioni: i mussulmani hanno confinato nel ruolo di adoratori del diavolo non solo gli yaziti ma anche i mandei, sono etichette che attengono più al marketing che alla storia di questi gruppi sostanzialmente gnostici.

È verissimo che l’angelo fa ben più paura del demonio oggi, perché esprime quell’assoluto indistinto, cui raramente la società è mai stata impreparata come ora. Ma stiamo confondendo i piani delle paure. La paura dell’angelo potremmo definirla una paura esistenziale, quella del moderno vampiro, una paura molto fisica☺

Una curiosità, vent’anni fa avevo in macchina una cassetta clandestina con una canzone bellissima su ciò che assolutamente non si può scrivere in una canzone di successo tipo: “Cernusco Lombardone? Naaaaa…» Non so perché ho in testa che fosse di Manfredi, è tua?

Postato sabato, 26 giugno 2010 alle 02:27 da Monica Montanari


AH dimenticavo se volete vedere come sta nascendo il nostro primo libro giallo potete andare qui:
http://docks.forumcommunity.net/?t=38367970
Con l’avvertenza che puntiamo a fare gialli di taglio piuttosto preciso, per vedere il progetto della collana, potete andare qui:
http://docks.forumcommunity.net/?t=38185036

Postato sabato, 26 giugno 2010 alle 02:56 da Monica Montanari


ah sì, mi chiedevi dei contratti, abbiamo tutti lo stesso tipo di contratto me compresa, 8% di royalties e cinque copie all’autore, venti copie saggio senza royalties. Ovviamente, ma spero che la domanda non sottintendesse questo dubbio, gli autori non tirano fuori mezza lira. Lavorano però, anzi lavoriamo tutte a farci gli editing l’una con l’altra, a fare le copertine, la promozione etc… :-)

Postato sabato, 26 giugno 2010 alle 03:00 da Monica Montanari


Cara Monica, la canzone che citi si chiamava Decalogo e prescriveva i dieci comandamenti da osservare per fare un album che funzioni. Era ovviamente ironica. L’ultimo comandamento era: “Prendere il Decalogo, buttarlo nel cesso e fare il disco.” Era il pezzo introduttivo di un mio LP , anzi CD, dell’ormai lontano 1993, pubblicato dalla Sony su etichetta autoprodotta (Gordon Link) e che si intitolava “In Paradiso fa troppo caldo.” C’erano degli angioletti di Raffaello/Fiorucci in copertina dall’aria oltre che paffuta, un po’ ubriaca. Interessanti le tue riflessioni su Cullen e sull’erotismo del rinvio, che peraltro è da considerare in parallelo (e non so quanto antagonistico) con la sbrigatività del porno in cui ormai ogni preliminare è abolito e i due o più appaiono già nudi e operativi fin dal primo fotto-gramma. Tra anticipo e rinvio sorge il dubbio che in realtà non si trombi mai sul serio, cioè con un minimo di devozione. Questo elemento dell’ORGASMO nella letteratura e nel cinema vampirico (ma più in generale nel cinema di “tensione” e di “suspense”) ha una certa centralità. E vale in egual misura, come ben osservi, per il romanzo sentimentale più o meno erotico. La struttura classica era: lungo corteggiamento reso eccitante dalla moltiplicazione di ostacoli di vario tipo ( differenze di classe come in Lady Chatterly, conflitti famigliari come in Romeo e Giulietta, difficoltà e astuzie da incontro clandestino come nel Decamerone, separazioni coatte degli amanti come in Aline e Valcour di e Sade o come nei Promessi Sposi, eccetera eccetera) . Questa struttura impostata sull’eccitazione per l’obiettivo lontano e sul rinvio dell’accoppiamento, rinvio non voluto, ma imposto dalle circostanze, ha dominato fino al cinema erotico soft degli anni 70 e ha avuto la sua consacrazione in Malizia di Samperi dove un adolescente (appunto) molesta la procace domestica fino all’organismo finale con epica scopata “vedo non vedo” in una notte di temporale, durante la quale risuona l’epica e indimenticabile battuta di Laura Antonelli “Fotti, bambino mio, fotti.” Ho però l’impressione che la nuova sessualità da prestazione sia qualcosa di molto diverso: la prestazione o la si sbriga (come pratica ancillare o da trivellatore) o la si rinvia indefinitamente perché il “prestarsi” suscita (tanto nei maschi quanto nelle femmine) ansie da invasività. All’orgasmo non si vuole cedere, per non smarrirsi, o per citare la frase di un paziente in analisi riportata in un saggio di Marina Valcarenghi “perché non so cosa potrebbe succedermi”. E’ la sindrome del controllo su se stessi e sulle proprie emozioni, rifiuto a diventare adulti in quanto non è più il matrimonio a scandire (con il servizio militare) il passaggio all’età adulta, ma l’incognita e potenzialmente rischiosa esperienza dell’orgasmo, che mette in questione la nostra identità. Il punto è che narrativamente corteggiamento/ ostacoli / orgasmo corrispondevano alla struttura: preparazione / sviluppo / dénouement. Se questa struttura viene meno, il racconto deve trovarne un’altra e infatti nelle Scuole di Scrittura e di scenografia si predica: la preparazione annoia, si deve entrare subito nel vivo o come prescrive Syd Field nei suoi manuali “entro pagina dieci deve accadere qualcosa di forte” ; a questo inizio violento deve seguire un allargamento esplorativo e digressivo ma ben scandito ritmicamente per non disperdere la fragile attenzione del fruitore; il finale dev’essere imprevisto, sì, ma fino a un certo punto perché deve anche essere positivo, “corretto” e coerente . L’idea di fondo è che in un buon finale tutto si leghi, ogni cosa venga spiegata, e ciò che appariva disorganico risulti “un meccanismo perfetto”. Il finale non è dunque affatto “romantico” ma di un razionalismo tecnologico da “funzionamento impeccabile”. Il che non può includere l’orgasmo che notoriamente è oltrepassamento del controllo razionale. Dalla lettura si esce spesso con una indefinibile delusione (“Oh, cavoli! E’ finito!”) che sospinge al seriale (“quando ricomincia?”) . Alla seconda però già emerge una certa insoddisfazione perché non si ritrovano più le stesse emozioni della prima volta (“troppo uguale”, “troppo cambiato”) . Si insegue una soddisfazione retroattiva (nostalgia del primo bacio) perchè gli sviluppi ci appaiono ormai come prestazioni replicate e un finale davvero liberatorio non c’è, la Fine pare coincidere con il Vuoto. “Non preoccupatevi” garantiscono gli autori di Lost “Alla fine, tutto verrà spiegato”. Già, ma come mai di questa spiegazione non ce ne frega assolutamente niente? Perchè l’ultima puntata non è mai il capolavoro assoluto o la Rivelazione sulla via di Damasco che ci ha cambiato per sempre e ha segnato il vero punto di non ritorno? Come mai rimpiangiamo sempre la Prima Stagione?

Postato sabato, 26 giugno 2010 alle 11:27 da Gianfranco Manfredi


Al titolo tipicamente anni 60/70 “L’Impossibilità di essere Normali” è subentrato “L’Impossibilità di essere Diversi.” La ricerca della diversità è ricerca di Altro e dell’Altro, dell’Altro in noi e dell’Altro da noi. Se invece cerchiamo narcisisticamente l’ennesima replica dell’identico, del permanente, del fisso-chiaro-risolto in sè, il Mondo ci resta inattingibili, l’Immaginazione diventa servile. In un pulp western che ho letto recentemente ( Reach for the sky, di George Byram, scritto nel 1963) un meticcio più vicino agli indiani che ai bianchi, di fronte a uno sterminato paesaggio riesce a individuare ogni più piccolo dettaglio. Il personaggio wasp (Bianco-anglosassone-protestante) che è al suo fianco, vede solo un paesaggio vuoto e immobile, non riesce a scorgere niente. “Questo accade perchè voi non sapete guardare”, dice l’indio. “Voi vedete solo ciò che volete vedere”. E cercando la cosa che abbiamo deciso di vedere in anticipo, non vediamo assolutamente niente. Ogni paesaggio diventa piatto. Ogni immagine, proiezione del nostro deserto interiore. Al paesaggio bisogna arrendersi, per vederlo.

Postato sabato, 26 giugno 2010 alle 11:47 da Gianfranco Manfredi


Vi ringrazio moltissimo per i nuovi commenti.
Non ho dati di riferimento, ma sono convinto che questo post sia uno dei post letterari più commentati (o forse il più commentato) al mondo.
Ma non è questo l’importante.
Ciò che conta è il fatto che si riescono a trovare sempre nuovi spunti di discussione e approfondimento.
È questa, a mio avviso, la cosa sorprendente.

Postato sabato, 26 giugno 2010 alle 14:51 da Massimo Maugeri


È vero In Paradiso fa troppo caldo… troppo caldo!! :-)
Bellissima quella cassetta! Sei venuto a vedere ai Docks?

Postato sabato, 26 giugno 2010 alle 14:52 da Monica Montanari


Ne approfitto per dare il benvenuto (in questo post… e su Letteratitudine) a Monica Montanari.
In bocca al lupo per il tuo (vostro) progetto editoriale, Monica.
E grazie per i tuoi interventi che hanno contribuito a sviluppare questa nuova parte di dibattito.

Postato sabato, 26 giugno 2010 alle 14:53 da Massimo Maugeri


Per la serie ultime notizie,in una recente intervista (segnalata sul sito vampire news) Stephenie Meyer avrebbe dichiarato di essere stufa dei suoi vampiri.C’è da dire che ha impiegato meno tempo di Anne Rice per stancarsi delle sue creature.Che tale abbandono possa mettere fine alla recente mania sui vampiri e lasciare in gioco solo sinceri amanti di questa figura?

Postato sabato, 26 giugno 2010 alle 15:36 da Francesco Moretta


@ Monica. Sì, ho visto. L’idea dell’editing in rete è bella, sia perché aiuta gli scrittori al debutto a capire che sulle pagine bisogna sempre continuare a lavorare fino alla fine e a non considerare Bibbia tutto quello che ci viene di getto. Gli sceneggiatori (di cinema e di fumetto) sono da sempre abituati a fare revisioni perché gli vengono richieste da tutti e per qualsiasi motivo, persino a sproposito, ma bisogna sempre far buon viso, non certo per accontentare tutti, ma perché uno sceneggiatore più è in grado di escogitare variazioni e soluzioni e più dimostra la sua bravura. Uno scrittore invece (non solo i debuttanti) spesso tende a vedere con fastidio e come invasività i consigli di riscrittura altrui, magari perché ingenuamente si sente “baciato dalla Musa”. Gli scrittori di vocazione invece riscrivono continuamente il già scritto perché sanno essere implacabili giudici di se stessi, e accade spesso che l’editore debba strappargli il manoscritto di sotto, altrimenti continuerebbero a correggere all’infinito anche se nessuno glielo ordina. L’altro elemento interessante dei docks è che i lettori vengono sollecitati ad assistere/partecipare alla stesura in corso e in questo modo riusciranno forse a sentire il romanzo più proprio, avendo un ruolo più attivo. Su altri siti invece assistiamo o alla pubblicazione di racconti e brani senza verifica alcuna, per il mero gusto di apparire, dunque senza nemmeno editing, oppure a discutibili infatuazioni per il cosiddetto romanzo “collettivo” da scrivere in gruppo, come un gioco spontaneistico.
Non c’è niente di male a giocare, per carità, ma avete presente quel romanzo scritto a più mani tantissimi anni fa dai migliori giallisti del mondo, inclusa Agatha Christie se non ricordo male, un capitolo a testa? Una roba illeggibile, come risultato finale, perdipiù corredata da un’appendice ancor più illeggibile dove ogni autore svela come sarebbe andato avanti lui. Altrettanto illeggibile ho trovato il romanzetto para-giallo pubblicato da King dopo l’incidente: nient’altro che un dialogo a proposito di un caso irrisolto e di un cadavere dislocato, e che non porta da nessuna parte, se non a una nota dello stesso King che offre sparse indicazioni su sviluppi possibili e qualche considerazione filosofica sullo scrivere. Uno si chiede: ma vogliamo farla, la fatica di scrivere un romanzo per bene, da cima a fondo, o dobbiamo scaricare anche questo peso sui poveri e già gravati lettori?

Postato sabato, 26 giugno 2010 alle 16:46 da Gianfranco Manfredi


Guarda Manfredi sono d’accordissimo con questa impostazione da sceneggiatura, è il punto debole della scrittura italiana anche nel cinema.
Vorrei dire due parole due su questo tuo argomento:
«Se questa struttura viene meno, il racconto deve trovarne un’altra e infatti nelle Scuole di Scrittura e di scenografia si predica: la preparazione annoia, si deve entrare subito nel vivo o come prescrive Syd Field nei suoi manuali “entro pagina dieci deve accadere qualcosa di forte” ; a questo inizio violento deve seguire un allargamento esplorativo e digressivo ma ben scandito ritmicamente per non disperdere la fragile attenzione del fruitore; il finale dev’essere imprevisto, sì, ma fino a un certo punto perché deve anche essere positivo, “corretto” e coerente . L’idea di fondo è che in un buon finale tutto si leghi, ogni cosa venga spiegata, e ciò che appariva disorganico risulti “un meccanismo perfetto”. Il finale non è dunque affatto “romantico” ma di un razionalismo tecnologico da “funzionamento impeccabile”. Il che non può includere l’orgasmo che notoriamente è oltrepassamento del controllo razionale. Dalla lettura si esce spesso con una indefinibile delusione (”Oh, cavoli! E’ finito!”) che sospinge al seriale (”quando ricomincia?”) . Alla seconda però già emerge una certa insoddisfazione perché non si ritrovano più le stesse emozioni della prima volta (”troppo uguale”, “troppo cambiato”) . Si insegue una soddisfazione retroattiva (nostalgia del primo bacio) perchè gli sviluppi ci appaiono ormai come prestazioni replicate e un finale davvero liberatorio non c’è, la Fine pare coincidere con il Vuoto. “Non preoccupatevi” garantiscono gli autori di Lost “Alla fine, tutto verrà spiegato”. Già, ma come mai di questa spiegazione non ce ne frega assolutamente niente? Perchè l’ultima puntata non è mai il capolavoro assoluto o la Rivelazione sulla via di Damasco che ci ha cambiato per sempre e ha segnato il vero punto di non ritorno? Come mai rimpiangiamo sempre la Prima Stagione?»

1. Concordo: “entro pagina dieci deve accadere qualcosa di forte”. L’ho imparato a mie spese. Posso prendere il tuo pezzettino su questo aspetto e postarlo nei Docks alla voce Attrezzi di scrittura?

2. Come mai rimpiangiamo sempre la Prima Stagione? Puoi trovare una bella risposta in L’antica via degli Empi di Rene Girard

Postato sabato, 26 giugno 2010 alle 19:05 da Monica Montanari


Ciao Maugeri, bello questo dibattito, molto alto. Sì c’era dibattio letterario forse altrettanto numericamente nutrito sui Gambery Fantasy di Gamberetta appunto, fantastico luogo d’incontro tra letterati e bimbemincha (non c’è alcun disprezzo uso il termine per brevità), dove si discuteva del successo di Twilight e dove più meno schematicamente i letterati non sapevano darsi pace e le ragazzine li insultavano senza pietà.
Io come bimbamminchia letterata ovviamente ne uscivo con le ossa rotte :-) .

Postato sabato, 26 giugno 2010 alle 19:10 da Monica Montanari


Ah un’altra cosa Mafre, noi non facciamo scrittura collettiva. Abbiamo condiviso un contesto nell’ambito del quale, poi ognuno ha scritto un libro autonomo.

Postato sabato, 26 giugno 2010 alle 19:25 da Monica Montanari


Sì, certo, Monica, appunto questo apprezzavo. Io non ho mai creduto alla scrittura collettiva, casomai alla lettura collettiva (che è ben altra cosa). Riguardo alla citazione da Syd Field, certo che puoi riportarla, anche perché è cosa nota. Tuttavia nel corso di sceneggiatura gratuito che ho pubblicato sul mio sito  gianfrancomanfredi.com) metto anche in guardia contro le trappole che si nascondono in questa indicazione. Non è assolutamente vero che un film sia noioso se entro il decimo minuto non accade qualcosa di dirompente: per esempio nell’Esorcista di Friedkin la prima scena forte è dopo il ventesimo minuto e si potrebbero fare (ne faccio nel sito) molti altri esempi. Dunque non è detto che l’attenzione la si possa tenere desta unicamente con questo mezzo: anzi, dipende da una scelta di ritmo complessivo che si vuol dare all’opera. Questa è una considerazione puramente cautelativa nei confronti del cinema , in quanto un film ha comunque un format e cioè una durata standard entro la quale condurre il racconto. Nei confronti del romanzo che ha una struttura assai più aperta e non rigidamente predeterminata, il consiglio di Syd Field vale molto meno e bisogna avere molta più prudenza nell’applicarlo: molto spesso un prologo é assolutamente indispensabile per consentire al lettore di entrare nell’atmosfera del romanzo. Prendiamo ad esempio il caso di una narrazione storica o ambientata in uno scenario molto particolare e caratteristico, non abituale e neutro come uno scenario cittadino contemporaneo. Se non creo il clima narrativo , l’ouverture che prepara lo sviluppo del tema, ed entro invece subito in presa diretta con gli eventi, l’effetto è disorientante. Il lettore magari resta colpito, ma non capisce niente. Se poi prendiamo a modello dei capolavori della letteratura, la cosa diventa ancor più evidente. “Il nostro comune amico” di Dickens inizia con un capitolo indubbiamente forte che ci proietta subito nel tema: la scoperta di un cadavere nel Tamigi da parte di un barcaiolo addetto appunto al recupero dei corpi degli annegati. La barca, il fango che galleggia, l’imbrunire, la strana coppia che sta sulla barca (una giovane fanciulla è accanto al barcaiolo), la difficoltà della navigazione, la discussione tra l’uomo e la ragazza che ci consente di capire non solo che sono padre e figlia, ma che tipo di rapporto ci sia tra di loro, l’incrocio con un altro equipaggio, tutto questo richiede il suo tempo narrativo, ci deve affascinare e ci affascina ben più del corpo dell’annegato, la cui presenza è anzi fugacissima , già sulla barca, sotto una coperta che un guizzo di luce del tramonto insanguina. E dunque… cosa cercano i due, se il morto è già stato ripescato? Lei non cerca niente, suo padre cerca i soldi, perchè il morto doveva pur averla avuta una borsa. Ecco un esempio, che ho citato a memoria, e qualche dettaglio può essere inesatto. Insomma: non è il morto che conta (anche se da questo annegato parte il romanzo) e nemmeno la borsa dei soldi, è il clima, l’atmosfera, la coppia dei personaggi che il momento consente di raccontare al massimo dell’efficacia e della suspense. Sarebbe stato pericolosissimo, sotto il profilo narrativo, concentrarsi solo sul cadavere, sacrificare la scrittura al presunto “colpaccio”. L’impazienza, in narrativa, è pessima consigliera.

Postato sabato, 26 giugno 2010 alle 20:31 da Gianfranco Manfredi


LE REGOLE, IL ROMANZO E L’HORROR

Si fa un gran parlare di tecniche di scrittura, si organizzano corsi, si studia cosa consente a uno scritto di “funzionare”, e tutto questo ha una sua parte positiva, se non altro perché aiuta chi comincia a scrivere, ci vorrebbe scrivere, a una certa consapevolezza compositiva. Però c’è un enorme rischio dietro tutto questo: l’omicidio di Madame Bovary, cioè del personaggio che più di ogni altro nella Storia, ha saputo esprimere il senso del Romanzo Moderno dal Punto di vista del Lettore (e della Lettrice in particolare, che è oggi diventata prevalente, ma che già segnalava di esserlo all’origine della forma Romanzo). Bovary è infatuata del romanzo perchè il Romanzo in sè, trasgredisce le regole, ne fonda altre da quelle oppressive della vita quotidiana, può addirittura indurre a un comportamento deviante da parte di chi sogna e pretende che la Vita stessa, quella concreta di tutti i giorni, riveli una natura romanzesca. Se dunque il Romanzo è liberazione delle regole e sovversione delle regole quotidiani, ridurre il Romanzo a Regola significa nè più nè meno: distruggere il Romanzo. Noi qui parliamo di Horror e l’Horror è il genere delirante per eccellenza, sregolato per vocazione. L’Horror non si limita a trasgredire le regole del quotidiano, ne mostra l’assurdità, la Mostruosità. L’horror per sua natura è spinto costantemente a trasgredire le sue stesse regole letterarie. I grandi capolavori ( che si tratti del Pozzo e il pendolo di Poe o di It di Stephen King, del Dracula di Stoker o del dottor Jekill di Stevenson ) non possono essere confrontati nemmeno con il resto della produzione degli stessi autori. Hanno ciascuno, una struttura, eppure c’è qualcosa che rende questa struttura irriproducibile. Un bestseller può essere imitato, un capolavoro no. Il capolavoro detiene il privilegio di fottersene delle regole, fa regola a sè, non è riproducibile neppure dal suo autore. Occorre dunque fare molta attenzione nel prescrivere un Codice , in particolare riguardo all’Horror il cui Codice è la negazione radicale di ogni codice, anche del proprio. L’horror deve reinventarsi continuamente. Del resto, la cosa dovrebbe apparire ovvia: si può anche scrivere un manuale per la Vita selvaggia (Wild) , ma che Selvaggio è uno che lo è diventato perché ha letto il Manuale?

Postato sabato, 26 giugno 2010 alle 21:53 da Gianfranco Manfredi


UN PICCOLO ESEMPIO DI SREGOLATEZZA HORROR

“Lo accompagnai da un misterioso personaggio che abitava, se ben ricordo, sul Boulevard des Italiens, in un appartamento vecchiotto e lussuoso, che mi richiamò alla memoria certe descrizioni di Proust.”
Da dove viene questa citazione? Da un pulp horror italiano da edicola scritto da Frank Graegorius (cioè Libero Samale) per la collana “I Racconti di Dracula”. Il titolo fa davvero schifo :”il Nero Monaco di Satana”. In copertina, una Lei e una Lui si accoppiano nudi tra le lenzuola. Minacciosa su di loro compare il volto di una strega delle più banali: una befana sdentata e con il naso a becco, occhi a palla, sgranati, senza palpebre, pelacci sul mento. Il titolo e il libro, si sa, sono fatti per attrarre un certo tipo di pubblico. Ora che cazzo c’entra citare Proust in una pubblicazione del genere? Da un lato, non solo non c’entra niente, ma è disfunzionale. Però è un horror. L’autore, Samale, è un uomo colto, e un sincero e prolifico autore horror. E un autore horror se ne frega bellamente della corrispondenza funzionale tra veste del prodotto, target dei lettori, e contenuto dell’opera. Se gli va di citare Proust, e molti altri anche più sofisticati nel senso di noti soltanto ai cultori, dandoli quasi per scontati come elemento di complicità con un lettore che ben difficilmente potrebbe essere complice di questi riferimenti… se lo fa, è perché se ne frega delle regola, ma visto che se ne frega delle regole, anzi proprio per questo, il comune lettore di horror comprende perfettamente di trovarsi di fronte a un autore horror. Continua a leggere, perchè non sa davvero cosa aspettarsi, può accadere di tutto, l’intera costruzione può anche miserevolmente franare… beh, un capolavoro, in questo caso, non me lo aspettavo, data la copertina… però a un horror mi attendo sorpresa e ben piàù che trasgressione: un sovrano prescindere, un vilipendio assoluto delle regole.
Per inciso, queste bizzarrie pulp, screditate dalle accademie, stravaganti per il lettore popolare, insensate e incomprensibili per il lettore medio, vendevano moltissimo. Non sarà che la nostra idea di popolare, ormai ridotta a idea del “commerciale”, è una solenne cazzata?

Postato sabato, 26 giugno 2010 alle 22:23 da Gianfranco Manfredi


Ho scritto così di getto da aver seminato orrori ortografici, ma credo si capisca lo stesso… anche che evidentemente mi trovo in fase Wild.

Postato sabato, 26 giugno 2010 alle 22:28 da Gianfranco Manfredi


Conoscere le regole di funzionamento del genere è utilissimo per infrangerle al momento opportuno e ottenere un certo effetto. In fondo, la grande goduria dello scrivere horror sta nell’agganciare il lettore e tirarlo per i capelli dove vuoi tu.
Poi c’è un altro aspetto: l’horror e la letteratura di genere consentono di dire cose, di esprimere la propria visone del mondo e magari le proprie convinzioni etiche in un modo, a mio parere, oggi spesso più credibile rispetto alla letteratura propagandata come “seria” (scusate, lo so, è una definizione raccapricciante e le virgolette sono da esilio a Sant’Elena ma dobbiamo chiarirci).
Dicevo, trovo interessante l’indagine di uno scrittore che, fingendo di raccontare favole, mi mostri un aspetto della realtà su cui non avevo aperto gli occhi, mi insegni qualcosa mentre fa finta di cazzeggiare con zombies e vampiri. Naturalmente non è la regola, le distinzioni ci sono e vanno fatte, ma dire che It o Lasciami entrare scorrono senza lasciare segni nel lettore è falso.
Che poi il contrario avvenga troppo spesso, cioè che libri di Letteratura Seria incensati dalla critica siano onestamente inutili e pallosi, è un altro discorso.

Postato sabato, 26 giugno 2010 alle 23:36 da Giusy De Nicolo


No, io credo nel codice della sceneggiatura, credo che ci siano leggi rigorosissime. D’altronde tutto si fonda su un patto, il patto narrativo, con clausole non violabili, nel campo della narrativa di consumo e io di questa mi occupo. PEr me il dosaggio tra evento forte e cornice elementi che entrabi debbono confluire nelle prime battute di una narrazione, è la cosa più difficile da ottenere. Però riscontro nel rivedere i lavori degli altri che alcune persone hanno un grande istinto per l’attacco, altre ce l’hanno per i finali, altre ancora hanno “il flusso”… Beh credo che questo abbia molto a vedere con aspetti psicologici che riguardano la persona ben al di là dello scrivere. Alla fine le difficoltò dell’attacco del romanzo io le ho risolte con lo schema: anticipazione, scadenza, prolusione, ripieno, impreviso.
Bisogna essere consapevoli che ogni capitolo deve strutturarsi secondo questo schema e che il primo capitolo è delicato, perchè su di esso gravita non solo la struttra del singolo capitolo ma quella dell’interno romanzo e dunque: l’incipit dovrà contenere pennellate anticipatore sull’imprevisto al termine del capitolo 1 ma anche pennellate anticipatorie sul finale dell’intero romanzo e così per la scadenza e la prolusione. Sai cosa? PEr me capire come si scrive un romanzo è perfino più interessante di scrivere un romanzo. Adesso vado a vedere il tuo sito di sceneggiatura, grazie di avermelo indicato. E poi posto a man bassa i tuoi consigli, mettendoli on line ai DOCKS. Grazie!!! :-)

Un ultima cosa, non mi sorprende che si possa citare Proust in romanzi di genere, bisogna credere come avviene nel mio caso, che la narrativa di consumo per comunicare a livello onirico contenuti anche complessi :-)

Postato sabato, 26 giugno 2010 alle 23:56 da Monica Montanari


Il messaggio precendente era rivolto a Gianfranco, comunque Giusy, sì sono d’accordissimo che la “favola” abbia un’enorme potere manipolativa e trovo che l’arroccarsi dell’intellettuale su una visione realista del racconto come strumento di conoscenza da mettere a disposizione dei lettori, porti gli intellettuali a chiamarsi fuori da un agone dove marketing, pubblicità e comunicazione restano i soli a proporre codici valoriali e di comportamento.

Postato domenica, 27 giugno 2010 alle 00:09 da Monica Montanari


Cara Monica, se non mi interessassero le tecniche narrative, non avrei scritto un corso di sceneggiatura, nè tenuto in passato lezioni in proposito. Il punto in discussione non sono le tecniche, ma la loro eccessiva semplificazione operata dalla Manualistica. C’è una differenza tra un cuoco professionista e di vocazione (che inventa i piatti) e chi cucina magari benino, ma seguendo una ricetta scritta. Il problema della tecnica riguarda il fine da ottenere. Se il fine è il semplice funzionamento, allora la tecnica diventa fine a se stessa e ciò non è bene per la letteratura (e non solo per essa, in qualche post passato ho citato Mishima a proposito del ruolo della tecnica nelle arti marziali). Ogni scrittore è in lotta con parole per poter esprimere ciò che vuole esprimere. Di recente da Fazio, Carlo Fruttero ha parlato del famoso passo dei Promessi Sposi noto come La Notte delll’Innominato. Lì, Manzoni si trova di fronte a un problema di contenuto espressivo che comporta di conseguenza una certa tecnica narrativa. Nel breve spazio di una pagina (o poco più) il personaggio attraversa una crisi di coscienza, che lo condurrà alla conversione, cioè cambia la sua natura di “capo-mafia” (si potrebbe dire) di fronte al caso di Lucia. Come rendere credibile questa svolta, questo radicale capovolgimento psicologico?
Fruttero fa notare che l’Innominato resta colpito dal fatto che il più cinico dei suoi giannizzeri mostra di essersi impietosito per Lucia, cioè in questo modo Manzoni prepara la svolta, poi rimarcata nel confronto con Lucia, poi vissuta in una notte di conflitto interiore. Attraverso questa tecnica di dilazione, che è in realtà una “tempistica” tanto ritmica quanto psicologica, Manzoni rende la svolta (la conversione che vuole raccontare) se non altro plausibile. Però, aggiunge Freccero, per quanto si rilegga quel momento e si cerchi di mettere in luce la tecnica che lo sottende, resta, nell’uso stesso e nella scelta delle parole, qualcosa di misterioso, di assoluta eccellenza letteraria. Altrettanto, anzi a mio mio avviso molto più complesso il capitolo iniziale che ho citato da “Il nostro comune amico” di Dickens. Cosa voglio dire? Che lo scrittore si propone un fine , questo fine è non soltanto il contenuto del capitolo, è il punto di vista da cui sceglie di raccontare ciò che avviene e la capacità di questo punto di vista di diventare/trasferirsi in punto di vista del lettore. Il lettore, si potrebbe dire, deve essere trascinato al fianco dell’Innominato, vivere la sua stessa notte, oppure condotto sul Tamigi, su quella barcaccia più fangosa del fiume, perso tra i timori di una giovane ragazza e i maneggi inquietanti quanto abitudinari del suo genitore. Tutto ciò deve venire espresso in parole. La sapienza tecnica deve sposarsi a quella estetica e stilistica. Ora: è un ben misero consiglio stabilire DEVE SUCCEDERE QUALCOSA . Questo per certi versi è ovvio, il punto è COME. E non si può negare che i grandi scrittori si vedono nella pagine in cui apparentemente NON SUCCEDE NIENTE. In una Scuola di scrittura si dovrebbero anche fare esercizi del tipo: descrivi quell’albero là che vedi fuori dalla finestra. Se ne sei capace sei uno scrittore, se no hai ancora molto da imparare. Il punto non è il funzionamento in sè del testo, ma la funzione espressiva che si assegna al testo. Se non c’è un obiettivo espressivo la tecnica è un misero attrezzo. Nella storia della pittura ciò si vede benissimo: gli artisti creano le tecniche che gli consentono di ottenere il risultato che si sono prefissati. Non raggiungono quei risultati semplicemente a partire dalla tecniche tradizionali che hanno appreso. L’attuale industria editoriale pare aver smarrito questo elementare principio. Se si dovessero prendere sul serio le prescrizioni di scrittura corretta e “funzionante” di certi editor, si dovrebbe concludere che Guerra e Pace, I Miserabili, I Tre moschettieri, sono libri sbagliati, e da non pubblicare. Se noi ci poniamo come obiettivo la vendita dell’oggetto libro, diventa importante sapere che oggi la stragrande maggioranza dei lettori, di fronte alla terza parola che non conosce, chiude il libro. E così si finisce per consigliare il “basic”, la scrittura facile che tutti possono comprendere. Siamo però sicuri che questa ricerca comprensibile di aumentare la platea dei lettori del proprio libro, non abbia nel tempo prodotto l’abbandono della letteratura e della lettura da parte di chi in un libro cercava altri stimoli? E’ un caso che nell’epoca della trionfale esibizione delle cifre di vendita dei best seller, assistiamo in realtà alla continua diminuzione del numero complessivo dei lettori e a un preoccupante fenomeno (in tutti i paesi occidentali) del cosiddetto analfabetismo di ritorno? Una letteratura povera è povera anche tecnicamente, non solo artisticamente. Una letteratura così, proprio mentre crede di poter “funzionare”, si auto-distrugge. Bovary non chiede l’ovvio e il ben regolato a un romanzo, non chiede a uno scrittore di esprimersi al suo livello di lettrice, chiede Altro dalla mediocrità del quotidiano, del già noto, del familiare, del ripetitivo. Persino un romanzo d’evasione nega il suo scopo, se non appaga questa vera richiesta del lettore: evadere (anche nel senso liberatorio del conte di Montecristo). Non si può evadere davvero se la macchinetta-romanzo e la sua povera tecnica semplificata riconduce anche la tua immaginazione alla prigione quotidiana dell’ordinato (quanto insensato) svolgersi delle cose. La letteratura del Best-Seller sta uccidendo Bovary. E non è nemmeno consapevole di se stessa. La serie di Harry Potter , bestseller per eccellenza, rispettava le regole? No, per l’editoria dell’epoca era una follia scrivere romanzoni di centinaia di pagine destinati a ragazzini e ragazzine che si dicevano, al tempo, occupati coi videogame o con la Tv. I libri per ragazzini dovevano essere “educativi”, “buffi” magari, ma soprattutto brevi e facili, anche un tantino noiosi perchè la lettura serale di poche pagine predisponesse al sonno. Il coraggioso editore di Harry Potter attua insomma un’iniziativa folle, fuori da ogni regola al tempo, e ci lavora allo spasimo cercando di convincere altri editori a uscire quasi simultaneamente con le traduzioni. Da Harry Potter in poi, lo scenario cambia. L’editoria per bambini e per ragazzi diventa da ancella minore, il primo settore editoriale dell’occidente. Si è fatto ciò che secondo le regole di mercato non si doveva fare, e si sono trovati i lettori cui tutti avevano rinunciato in partenza. Non si produce niente di nuovo se non si cambiano le regole. E per cambiare le regole ci vuole una tecnica molto più raffinata di quella prescritta dai Manuali. I Manuali vengono scritti sulla base del già scritto. Ma la scrittura è davanti a noi, non dietro. Come sostiene Chomsky, il linguaggio è pensiero in evoluzione. Un linguaggio codificato tende invece a escludere il pensiero. Ferma l’evoluzione del cervello .

Postato domenica, 27 giugno 2010 alle 13:05 da Gianfranco Manfredi


C’è qualcosa nel principio costitutivo del best-seller che richiama l’attuale fase di sotto-sviluppo: attraverso le tecniche di marketing , la persuasione, la semplificazione, la diffusione capillare, si ambisce alla fetta più grossa del mercato attuale. Pochi ricchi , milioni di poveri, sempre più poveri e sempre più impoveriti. Il risultato è che fanno e faranno crack anche i ricchi. Il vecchio capitalismo (quello dell’epoca di Elvis) era assai più consapevole che il mercato, prima di poter essere sfruttato, va creato. Se le tecniche di vendita prevalgono sulle tecniche di produzione, e se mirano soltanto ai risultati di quel certo prodotto, distruggono le condizioni base per la produzione del nuovo, le cui regole sono ancora tutte da stabilire, perché in continua evoluzione.

Postato domenica, 27 giugno 2010 alle 13:26 da Gianfranco Manfredi


Ho citato qualche post fa, un interessante passaggio di un recentissimo libro di Foni nel quale si fa notare come la letteratura popolare e in particolare il feuilleton, abbiano saputo non solo creare delle opere letterarie, ma creare persino i lettori giusti per quelle opere. Tutti gli autori popolari che segnano dei momenti importanti (anche solo di mercato) e dunque anche la Meyer, hanno saputo crearsi dei lettori, stabilendo con loro un’intesa e una sintonia. Questi lettori c’erano già potenzialmente, ma non erano stati chiamati a raccolta. Molti pensavano che non ci fossero affatto perché prima non risultavano altrettanto presenti, sul mercato (“Gli adolescenti? Non leggono. Perché sprecare tempo a scrivere per loro?” Non si ripeteva questo, nel pre-Moccia e nel pre-Meyer?). La cosa può riguardare anche la letteratura “alta”. Hanno chiesto al premio Nobel Pamuk “per chi scrive”. Lui ha risposto: 1. I lettori oggi in tutti i paesi sono una minoranza, dunque scrivo per una minoranza; 2. Questa minoranza tende alla globalizzazione dunque da questo punto di vista tante minoranze nazionali possono fare un’influente minoranza mondiale , minoranza si fa per dire, in quanto il numero è da capogiro; 3. Scrivendo mi rivolgo al mio lettore ideale, cioè scommetto sulla sua esistenza e lavoro perché esista.
Ecco qua. Chi si basa per scrivere sul pubblico già esistente dei lettori, quale viene identificato dai dati, si scorda pericolosamente che la narrativa si rivolge anche a chi magari ha smesso di leggere o ha appena cominciato a leggere o al momento non legge o legge altro. A scrivere per un lettore ideale (nel caso di Pamuk un lettore sensibile e colto, pronto ad accogliere la diversità) si può rischiare di scrivere per un lettore che non c’è, magari coltivando la speranza di scrivere per i posteri. La tecnica letteraria unita alla libertà e al coraggio creativi, possono però contribuire a creare o a destare dal letargo, adesso, non domani, questo “lettore ideale”.
Chi scrive un romanzo “alla Meyer” (magari pensando di averne colto le regole) è come se dichiarasse di aspirare a una quota dei lettori della Meyer. Ma un autore che si rispetti (cioè che rispetti se stesso) scrive per cercare i propri lettori o meglio dei lettori ideali , del tutto virtuali, al momento in cui scrive, ma parte della grande famiglia mondiale dei lettori in quanto tali: gli attuali , gli ex, e i prossimi venturi. Senza presumere di accontentarli tutti, anzi lavorando per cercare quelli giusti, quelli con cui valga la pena di stabilire un lungo e proficuo rapporto, non legato all’occasionalità di un successo che dura un quarto d’ora. Si può anche scoprire che questa minoranza della minoranza, non è poi così minoritaria quanto si credeva. Ma ci vuole coraggio, da parte di chi scrive e da parte degli editori. Se invece gli azionisti chiedono certezze, allora non sanno fare il loro mestiere, perché investire vuol dire rischiare e, se possibile, in proprio, non sulla pelle degli altri.

Postato domenica, 27 giugno 2010 alle 16:01 da Gianfranco Manfredi


Gianfranco, io non parlo di letteratura, l’ho premesso. Io faccio narrativa di consumo, artigianato, come dire seguire la ricetta benino, senza inventare niente. O per lo meno cerco di farlo spasmodicamente, le consorelle potrebbero dirti quanto mi prendono in giro per il numero di volte paradossali in cui riscrivo i primi capitoli chiedendo loro di leggere, o potrbbero raccontarti del mio “Sono Lenith, come può un’umana minacciare la potenza degli eoni?” Ad “eoni” c’è stata un’insurrezione! :-)
Quanto all’innovazione necessaria, sono d’accordissimo, e per quanto per me la Rowling sia imparentata con l’Ente supremo, credo che il suo sia ancora artigianato. Io adoro l’artigianato scrittorio, le sceneggiature di Capra, Arsenico e Vecchi Merletti, la scramble comedy (oddio non so se si dice così), i dialoghi di Georgette Hayer:
«- Avvicinatevi – disse allora a voce bassa Vidal.
- Prima ho qualcosa da dirvi – replicò calma Mary.
- Ma credete proprio ragazza mia, che vi abbia portato in Francia per sentirvi chiacchierare? – chiese ironicamente Vidal. – Giurerei che non dovreste essere tanto ingenua.
- Forse non lo sono. – ammise lei. – E tuttavia vi prego di volermi ascoltare. Non sosterrete, mi auguro, di esservi innamorato di me?
- Innamorato? – chiese lui in tono sprezzante. – No, signora, no. Non più di quanto lo fossi della vostra bella sorellina. Ma mi siete cascata voi tra le braccia e sull’anima mia vi prenderò! Avete un figuretta davvero molto graziosa, mia cara – aggiunse dopo averla esaminata attentamente – e da quanto ho potuto capire più cervello di quanto ne abbia Sophia. Vi manca la sua bellezza, ma non intendo sottilizzare…
Mary lo guardò con serietà profonda – Se mi prenderete, signore, sarà soltanto per avere la vostra rivincita. Ho meritato una pena così amara?
- Non siete molto lusinghiera – la burlò il marchese.
Mary si alzò, tenendo la pistola dietro la schiena : – Lasciatemi andare. Non è me che volete, e credo mi abbiate punita abbastanza.
- Ah è così dunque? Vi scotta che io preferissi Sophia? Non dovete darvene pena: ho già dimenticato la ragazza.
- Signore – disse lei con voce in cui vibrava la disperazione – non sono quella che credete!
Vidal diede in una risata beffarda e lei comprese che non avrebbe esercitato su di lui alcuna impressione.
Le si stava avvicinando; Mary trasse da dietro la schiena la pistola e la puntò contro il marchese – Non fate un passo! – disse – Se vi avvicinate soltanto un po’ vi uccido.
Vidal si fermò. – Dove avete preso quell’aggeggio?
- Nella vostra carrozza.
- E’ carico?
- Non lo so – rispose Mary, inguaribilmente sincera.
Vidal scoppiò nuovamente a ridere e riprese a camminare: – Allora tirate e lo sapremo. Perchè intendo avvicinarmi, e di parecchio, signora.
Mary comprese che l’uomo parlava sul serio, chiuse gli occhi e fece scattare con decisione il cane: uno scoppio assordante e il marchese barcollò. Ma si riprese in un attimo.
- Era carica – constatò freddamente.»

Postato domenica, 27 giugno 2010 alle 22:20 da Monica Montanari


Non avevo visto il tuo ultimo post. Diciamo questo se leggo un manoscritto che mi piace lo pubblico anche se non ho chiaro chi cavolo potrebbe leggerlo è il caso di “Porcaccia, un vampiro”. Ma se un manoscritto arranca, invece di gettarlo aiuto l’autore a convergere sulla famosa ricettina :-)

Postato domenica, 27 giugno 2010 alle 22:29 da Monica Montanari


Non intendevo mettere in discussione il tuo appassionato lavoro, Monica. Né disprezzo l’artigianato letterario. Rilevo soltanto che le produzioni indipendenti, come del resto le piccole librerie indipendenti, hanno tanto maggiore rilievo quanto più si mostrano esplorative del nuovo e del diverso. E’ oltretutto illusorio pensare di poter battere o semplicemente fare concorrenza all’editoria generalista (che non considera più la qualità letteraria come imprescindibile, e amplia anzi lo spazio esordi, dall’artigianato naif al romanzo d’occasione concepito direttamente dal marketing) o alle grosse catene produttive come, che so, i libri Harmony (molti dei quali non sono affatto scritti male, perché di artigiani ce ne sono di bravissimi) . I piccoli fanno scuola e possono rappresentare un modello se fanno tendenza e danno spazio a quei libri che secondo l’editoria diffusa “non hanno mercato”. Una piccola impresa ha la chance preziosa di creare mercato. E’ questo l’anello debole della grande editoria: bravissimi nello sfruttare il mercato esistente (e sempre più piccolo) incapaci di favorirne uno nuovo. Su Repubblica di oggi ci sono nelle pagine culturali un paio di articoli in questo senso, e ce n’è un altro in quelle milanesi sulle iniziative in atto tra i piccoli librari per ritagliarsi un ruolo diverso rispetto alla grande distribuzione. Credo che sia importante che la scelta delle cose da pubblicare (e da tenere e promuovere in libreria) sia all’interno di una scelta di tendenza, e cioè che il marchio editoriale possa diventare così una “garanzia” nei confronti dei lettori interessati a quel tipo di tendenza. Un nuovo modo di organizzarsi e di lavorare acquista rilievo nella misura in cui produce qualcosa che non esiste già. I feuilleton popolari dell’ottocento (che uscivano a puntate sui giornali e dunque inauguravano un altro modo di proporsi ai lettori) erano in larga misura artigianali , ma si trattava di un artigianato che produceva degli UNO (per usare la terminologia usata di recente dai Wu Ming) cioè degli oggetti narrativi non identificati. Non ancora identificati. So che questa non è un’impresa facile, ma di sicuro è più appassionante. Per me resta in questa fase però ben più appassionante un’impresa molto più urgente e a cui troppo pochi si applicano: l’impresa di creare nuovi lettori , di diffondere la lettura a tutti i livelli e in tutti i modi, anche con letture pubbliche o con la spontanea creazione/diffusione di circoli di lettura del tipo Il Club di Jane Austen (se non hai visto il film, procuratelo, perché è davvero bello e stimolante). In questo momento la domanda di lettura è in drammatico calo, mentre l’offerta di scrittura è in vertiginoso aumento (favorita anche dal precariato e dalla disoccupazione che lascia molto tempo libero e dunque spinge a scrivere di più e in mancanza d’altro). Uno sbilanciamento così vistoso non può reggere a lungo. I parenti e gli amici di uno scrittore debuttante possono sostenerlo la prima volta e consentirgli di vendere qualche centinaio di copie autoprodotte, ma uno che voglia davvero fare lo scrittore nella vita e camparci (senza necessariamente diventare ricco, anzi accettando consapevolmente di condurre una vita modesta come sempre è capitato agli scrittori nei secoli dei secoli amen) deve riuscire a venderne qualche migliaio, di copie. Come fa se tutti scrivono e nessuno legge? Dai tanti manoscritti o libri pubblicati autonomamente che ricevo, rilevo spesso che questi nuovi scrittori spontanei commettono degli errori non solo e non tanto perché ignorano delle regole narrative di base, ma perché non hanno letto abbastanza. Se non si legge, come si fa a scrivere decentemente? Nel mio corso on-line di sceneggiatura, davo dei consigli e prescrivevo al principio due tipi di esercizio: uno era compositivo (scrivere una scena sulla base di certe indicazioni) e questo lo facevano tutti; l’altro era invece di studio e consisteva nel guardare certi film, smontarli, vedere come erano condotte e risolte certe situazioni. Questo secondo esercizio non lo faceva quasi nessuno. Si pretende, in altre parole, di passare da una serie di istruzioni di base alla scrittura, senza preoccuparsi di verificare come quelle indicazioni siano state sviluppate in concreto, nella pratica della scrittura, da gente molto più esperta di noi. Alcuni addirittura sostengono: “non voglio vedere come altri hanno risolto questo problema narrativo, per non farmi condizionare”. L’idea è che la scrittura sia o un copia/incolla oppure un parto miracoloso della creatività individuale. Chi ha questa idea della scrittura è una persona che non sa leggere. Chi non riesce ad appassionarsi (come lettore) a quello che scrivono gli altri, non può fare appassionare nessuno al suo lavoro di scrittore. Credo che questo ti sia del resto chiarissimo. La tua idea di artigianato è piuttosto elevata se citi Frank Capra (alla faccia dell’artigiano! Quello è stato uno dei più grandi registi e autori della storia del cinema!) e Arsenico e Vecchi Merletti , una delle più sofisticate black comedy che siano mai state scritte , un capolavoro assoluto. L’artigianato attuale di cui stiamo parlando è invece il “Fai da te” … e questo “fai da te” spesso non si rende nemmeno conto che i negozi di bricolage così diffusi negli anni 80, sono stati da tempo, già da molto tempo, sconfitti e spazzati via dall’Ikea.

Postato lunedì, 28 giugno 2010 alle 13:26 da Gianfranco Manfredi


Allora Gianfranco, non è vero che i lettori sono in calo, le vendite di libri sono in crescita, e la quota di mercato dei libri italiani non è mai stata così alta.
Il libro si configura sempre più come prodotto anticiclico. Con 10 euro ci passi il weak end:-)
L’artigianato letterario cui faccio riferimento è come dicevo quello della narrativa di consumo professionale: appunto Rowling, Meyer, Frank Capra nel cinema. Tarantino per esempio secondo me non è un artigiano, Bastardi senza Gloria ha una tessisitura metalinguistica straordinaria.
Un nuovo autore sostenuto dai parenti vende al massimo 50 copie, non centinaia. E per nomi nuovo, italiani per di più, veleggiare verso le mille copie in un anno, è un fatto che non passa sotto silenzio. Tant’è si stanno aprendo le porte della grande distribuzione.
Sta nascendo a Piacenza una associazione tra librai ed editori indipendenti, cui ho dato un contributo proponendo di fare un servizio di libri in affitto, come avveniva con le videocassette per intenderci. Un servizio che le biblioteche circolanti fanno poco e male per vincoli logistico organizzativi, e che il piccolo negozio può gestire. L’idea sarebbe quella di mettere a disposiizone i cataloghi dell’editoria indipendente. Ci metteranno anni a decidere e l’idea è talmente nuova che ha non poche difficolta. Oggi come oggi, la piccola libreria continua a puntare sul best sellers. Ci sono nelle grandi città, è vero, delle librerie specializzate e storiche che hanno un ruolo insostituibile. Ma la realtà delle piccole librerie è molto più capillare e frammentaria. Una libreria specializzata per esempio non ha alcun modo di reggersi in cittadine di 15 mila abitanti. Tu mi dirai: che ci fa una libreria in un centro di 15 mila abitanti? E invece ci deve essere e ti dirò di più, dovrebbero essercene tante quante le edicole. Tuttavia i libri che poi vai a vendere debbono essere divertenti, debbono essere un modo piacevole per passare il tempo! Questo aspetto non può essere sacrificato alla sperimentazione. Poi, io lo faccio; ho dei long seller di alto profilo, non so, uno studio sul pitagorismo musicale che vende a distanza di oltre dieci anni dalla pubblicazione, ma non è questo con cui allarghi il consumo librario.
Ma ho parlato di saggi. Ci sono titoli narrativi che esprimono questo tentativo di qualità nel mio catalogo, ma sono titoli di cui semplicemente il lettore non riesce neppure a conoscere l’esistenza, e il motivo è che richiedono un lettore troppo scafato: penso a “Un uomo è felice, tutta la città ne parla ” di Minelli, o alla “Pianura dei Misteri” di Raffaglio.
Per la poesia non ne parliamo neppure.
Ora io ci sto a cercare di ragionare sofisticato sui contenuti, ma ingoldonati in una scrittura commerciale, altrimenti non filtrano. Questo è la mia linea guida attualemente.

Postato lunedì, 28 giugno 2010 alle 14:13 da Monica Montanari


Ah ah, utlima cosa. Ho visto che sei orginario di Senigallia, io sono di Pesaro :-)

Postato lunedì, 28 giugno 2010 alle 14:15 da Monica Montanari


Vi segnalo un articolo cha fa al caso nostro, pubblicato sul numero di “Tuttolibri” (La Stampa) di sabato 26 giugno. Dico “al caso nostro” perché è perfettamente in tema con questa discussione.
L’articolo è firmato da Ruggero Bianchi e si intitola ” Vampiri e angeli vestono in nero”.
Questo è il link: http://www3.lastampa.it/libri/sezioni/news/articolo/lstp/254572/

Postato lunedì, 28 giugno 2010 alle 19:02 da Massimo Maugeri


Ho letto l’articolo che hai segnalato e per me almeno descrive un quadro desolante:oltre ad altri romanzi vampirici da quattro soldi,ora dovremo sorbirci anche gli angeli in versione dark.Poi cosa verra fuori,licantropi impomatati? Alieni cloni di Di Caprio?Divinità infere che somigliano a cantanti rock? Ma devono proprio smitizzare tutto il panorama fantastico?
P.S.Il primo esempio di vampiro liceale non è stato “Buffy l’ammazzavampiri”,ma una serie di novelle scritte da Christopher Pike nei primi anni novanta, novelle che collegavano la figura del vampiro con l’induismo,fornivano una spiegazione decente al perchè un vampiro frequenti un liceo e uscivano in un periodo in cui il termine young adult non era stato coniato.Il loro titolo è “The last vampire”.

Postato lunedì, 28 giugno 2010 alle 20:20 da Francesco Moretta


Ti assicuro, cara Monica, avendo pubblicato il mio primo romanzo nel 1983 o giù di lì, che se vent’anni fa un autore italiano edito da una casa editrice di dimensioni medio-alte vendeva sulle quattromila copie in media e uno straniero il doppio, con il tempo queste percentuali si sono dimezzate (per entrambe le voci). Con i dischi è andata anche peggio: se un autore affermato alla fine dei settanta vendeva centinaia di migliaia di copie e uno emergente decine di migliaia, oggi se uno vende centomila copie di un CD sta per un anno in classifica. Più si vampirizza il mercato su pochi titoli, più si uccide la vendita media e quella medio-alta. Stessa cosa nel cinema: pur con evidenti flessioni, i campioni d’incasso nazionale sono sempre i film del tipo Vacanze di Natale. E’ vero che questi contribuiscono a portare gente nei cinema, ma è anche vero che contribuiscono in una misura che dovrebbe essere valutata (ma non lo si fa per opportunità “politica”) anche ad allontanarla, causando disgusto nella maggior parte del pubblico cinematografico italiano per il prodotto cinematografico italiano stesso. Credo che un effetto simile si possa riscontrare anche da parte dei lettori forti di narrativa, cioè dei veri affezionati alla lettura: di fronte a certe classifiche in cui tra i primi dieci libri venduti nemmeno la metà sono scritti da veri scrittori, finiscono per affidarsi ai classici , almeno sono sicuri di non prendersi delle sòle (come si dice a Roma). L’aumento o la diminuzione delle vendite, non deve essere valutato come nei consigli di amministrazione rispetto al fatturato dell’anno precedente, ma considerato sul tempo storico di almeno dieci anni e se possibile comparato anche qualitativamente. Quando io cominciavo a pubblicare romanzi, sai qual era il campione di vendita? “Il nome della rosa” di Umberto Eco. Pregasi confrontare con i titoli recentemente campioni di vendita. Ovviamente questo vale se parliamo di letteratura, se invece parliamo dell’oggetto libro anche il Manuale per smettere di fumare o le Barzellette di Totti fanno vendita. Ma un altro conto è la vendita letteraria. Oggi, anche in America, i libri di letteratura in senso stretto sono solo tra il 10 e il 15 per cento dei libri (nuovi) pubblicati da una casa editrice media. La stragrande maggioranza sono libri di “varia”. (Annuncio che prossimamente tornerò sul tema horror in quanto mi sono scaricato alcuni film del regista Svankmajer che non conoscevo affatto e che Francesco Moretta aveva citato qualche post addietro… il tempo di vederli).

Postato lunedì, 28 giugno 2010 alle 20:38 da Gianfranco Manfredi


Adesso vado a vedermi il link consigliato da Maugeri. Io Gianfranco posso parlare per i nostri 13 anni di esperienza. Ciò che ho notato è che ci sono delle grandi onde di moda che fanno addiritutra nascere le case editrici. Ti ricordi quante etichette facevano stampa alternativa e pamplet negli anni ‘70? Se negli anni ‘90, c’è stata la new age, ora ci sono i vampirici. Negli 80 che tu citi c’era il cosiddetto riflusso. La riscoperta del privato, della cultura, della narrativa… la terza pagina di Repubblica si leggeva in piazza seduti sugli scalini, al posto di Lotta Continua o Potere Operaio che si sfogliava fino a pochi anni prima. Poi tu, un cantautore impegnato, credo bene che vendessi tanto.
Se vogliamo dirla tutta sulla situazione del mercato, non è Harry Potter a saturare il mercato, questa è una vecchia tesi che non condivido. C’è anche il più facile accesso all’editoria consentito dalle nuove teconologie. Secondo i dati ISTAT escono ogni giorno 400 titoli nuovi sul mercato e in un anno quelli che superano le 1000 copie vendute sono una percentuale trascurabile, mi sembra che siano meno di 1000 titoli. Con la stagnazione del Pil dal ‘92 ad oggi, lo scontrino medio si contrae e il lettore ha cominciato a fare una scelta anche in base al prezzo. Come può infine rimanere deluso ul lettore di qualità che acquista un vampirico? :-) Spero sappia bene a cosa va incontro!
Adesso vado a leggermi l’articolo di cui sopra.

Postato lunedì, 28 giugno 2010 alle 21:44 da Monica Montanari


Letto l’articolo : Io non credo sull’esplosione degli angeli, l’ho già detto :-)

Postato lunedì, 28 giugno 2010 alle 21:51 da Monica Montanari


Scusate l’insistenza, ma una cosetta vorrei aggiungerla perché mi sta davvero sul gozzo (e da una vita). Di cosa parliamo quando parliamo di commerciale? Oggi, in un mercato di dimensioni globali, di questo aggettivo possono legittimamente fregiarsi soltanto coloro che vendono milioni di copie e in molti paesi. Quando di recente un grande autore come Elmore Leonard è venuto in Italia, gli è stata posta la solita domanda su Stephen King. Beh, Leonard, che pure è tradotto in quasi tutto il mondo, ha onestamente ammesso che tra lui e King c’è un abisso, ha aggiunto (con fine ironia) di non sapere neppure se loro due fanno lo stesso mestiere. Sul piano “commerciale”, sono davvero entità non paragonabili. Se la parola commerciale la si misura sul piano delle vendite,allora siamo seri: stiamo parlando di milioni e milioni di copie. Se uno scrive in uno stile cosiddetto commerciale (cioè facile) e ne vende soltanto qualche migliaio e tutte all’interno del proprio paese, quello non è considerabile “commerciale”. La categoria di “commerciale” non fa parte dell’estetica. La commercialità non è uno stile. La commercialità come stile è una patetica caricatura del commerciale vero che si misura esclusivamente sui dati oggettivi di mercato. E il mercato non premia inevitabilmente il peggio. Jimi Hendrix ha venduto molti più dischi di Santo e Johnny. “Raffinato”, “sperimentale” e “commerciale” non sono più termini antitetici almeno da Picasso in poi. Dunque di cosa cazzo stiamo parlando? E scusate la caduta di stile… ma sapete quante volte nella mia vita ho visto di persona che prodotti (di vario tipo) giudicati a priori “commerciali”, non hanno fatto una lira, mentre cose nuove e diverse che venivano giudicate a priori ostiche, hanno avuto un successo grandioso? Una volta , da sceneggiatore, ho scritto una commedia cinematografica interpretata da Montesano (che allora andava per la maggiore) . Il film era prodotto dallo stesso produttore che contemporaneamente stava producendo “Ricomincio da tre” di Massimo Troisi, che era al debutto. Il produttore era talmente in ansia per il film di Troisi (destinato secondo lui a sicuro insuccesso) che lo rivendette prima dell’uscita, credendo di evitarsi dei rischi. Pensate che genio di produttore! Il film con Montesano non andò male, ma quello di Troisi (tra l’altro costato molto, ma molto meno) già dai primi giorni di programmazione lo massacrò, sul piano degli incassi. Per cui comprenderete, e lo dico non come artista, ma come uno che ha vissuto anche le vicende del prodotto “commerciale” … quando vedo che qualcuno scommette sull’esistente e dubita talmente del diverso da farsi dei clamorosi autogol, non solo sul piano artistico, ma anche sul piano commerciale, mi si ribalta lo stomaco. Ma vi ricordate del Natale in cui la Mondadori aveva scommesso sul libro autobiografico di Alba Parietti? Pacchi enormi di volumi spediti alle librerie e tornati manco aperti. Tutto lavoro per i camion. Del resto era un libro per camionisti.

Postato lunedì, 28 giugno 2010 alle 21:56 da Gianfranco Manfredi


Per evitare equivoci. Parlando di vampirizzatori del mercato, non mi riferivo né alla Rowling né alla Meyer. Queste autrici come avevo già sottolineato in precedenti post, non hanno vampirizzato il mercato esistente, anzi ne hanno aperto uno nuovo. E’ uscita mesi fa una splendida intervista di Spagnol su Repubblica nella quale ha raccontato come la pubblicazione di Harry Potter sia stata davvero una coraggiosissima avventura editoriale, fatta per entusiasmo e ben oltre le regole consuete. Quanto alla Meyer… da chi è stata pubblicata in Italia? Da Mondadori? Da Rizzoli? No, da Fazi Editore. Le grandi casi editrici di lei non si erano nemmeno accorte. E Larsson chi l’ha pubblicato? Marsilio. E non parliamo neanche de La Biblioteca dei Morti di Cooper, pubblicato dalla Editrice Nord ! Non suscita qualche dubbio il fatto che i grandi gruppi editoriali, con tutti i loro uffici marketing, le loro strategie di controllo del mercato e la loro potenza di fuoco, ultimamente di grandi exploit, di veri best sellers internazionali, sul piano della narrativa non ne becchino più nemmeno uno?

Postato lunedì, 28 giugno 2010 alle 22:38 da Gianfranco Manfredi


Anche Lindquist l’autore di “Lasciami entrare” è stato scoperto e pubblicato da una casa editrice piccola,la Marsilio.

Postato martedì, 29 giugno 2010 alle 09:27 da Francesco Moretta


Un paio di giorni che non ho potuto seguire la discussione e quanta roba mi ritrovo.
A conferma che questo immenso post in progress è una vera mostruosità (nel senso originale del termine: dal latino “mostrum”, cosa straordinaria, da mostrare, contro natura). E che se uscisse un libro del genere lo comprerei immediatamente. Ma un volume così sarebbe impossibile o inutile o ingannevole proprio perchè paralizzerebbe (fissandola una volta per tute) la caratteristica più affascinante e originale del post: la divagazione che gli dà continua e incessante linfa, portando sempre nuovi temi.
Di tutto ciò che avete detto (e su cui si potrebbe scrivere o parlare a lungo lunghissimo) ne riprendo alcuni.
1) LA DELUSIONE
A proposito di telefilm (ma in genere delle opere seriali) Manfredi nota che “l’ultima puntata non è mai il capolavoro assoluto o la Rivelazione sulla via di Damasco che ci ha cambiato per sempre e ha segnato il vero punto di non ritorno. Come mai rimpiangiamo sempre la Prima Stagione?”
Forse i motivi sono tanti: la malinconia degli epiloghi soprattutto se paragonati ai fertili fermenti degli inizi, il fatto che un’esperienza è finita, l’elefantessa di aspettative che spesso partorisce un topolino…
Quasi sempre (soprattutto nei grandissimi…li scrivo con la maiuscola… Misteri che avevano suscitato enormi aspettative) assieme allo svelamento dell’enigma e alla rivelazione arriva anche la delusione (“tutto qua”?).
La gigantesca meraviglia accesa dal meccanismo narrativo e le enormi aspettative tenute deste dalle svolte della trama e delle sottotrame ci fanno attendere uno scioglimento altrettanto meraviglioso, che sia all’Altezza delle attese maturate in giorni e giorni, mesi e mesi se non addirittura in anni e anni di lettura o di visione.
Ma quasi sempre la Soluzione non è all’altezza del Mistero: non possiede lo stesso sense of wonder.
Se penso ai gialli incentrati su misteri misteriosissimi di divorante suspense enigmistica, solo pochi riescono a conservare (una volta conclusi) lo stesso fascino. Solo in pochi lo svelamento è adeguato alle aspettative. Per primi mi vengono in mente alcuni racconti con padre Brown (per esempio Il giardino segreto), qualcosa di Ellery Queen (il racconto sulla casa scomparsa), certi romanzi di John Dickson Carr (Le tre bare).
(Da cristiano valdese, ne approfitto per uno spottone: la Vita eterna sarà uno stupendo svelamento che andrà al di là di ogni nostra più accesa aspettativa)
2) Io scrivo romanzi per adolescenti (con EL ed Einaudi Ragazzi). Pur essendo un lettore bulemico (passo dai fumetti alla poesia, dalla teologia all’eros, dall’horror al comico, dai classici a Fantomas) non leggo quasi mai narrativa per ragazzi, se non di genere lontanissimo dalla mia. Per spocchia? No: perchè il mio protagonista tredicenne io narrante vuol far da solo. E io lo lascio libero di essere se stesso. Così (quando racconta, per esempio, delle ragazzine che gli piacciono) non deve star a pensare: “oddio, questa scena l’ha già scritta Tizio in quel libro così e colì e Caio in quell’altro romanzo colì e colà”. E dunque il mio Michele Crismani può descrivere tutto con occhi “nuovi”, come se ciò accadesse in modo rovente (e buffo) per la prima volta al mondo.
Ma affinchè questo possa accadere c’è una condizione: quando scrivo le storie di/con Michele, io lascio che lui prenda vita e dia voce/parola alle sue avventure. Ma per lasciarlo libero, io non devo essere sovraccaricato dalle mie letture della attuale narrativa per ragazzi.
Qualcuno mi ha obiettato: “ma così non sai quali sono le tendenze?”
Ho risposto: “no. E non me ne frega niente. Io scrivo le storie che mi piacerebbe leggere”
3) Gli editori grossi (non “grandi”: “grossi”, cioè Mondadori, Rizzoli, Bompiani eccetera) spesso non azzeccano GLI AUTENTICI SUCCESSONI perchè sono mega-industrie prive di gusto, di curiosità, di voglia di ricercare, di estro, di cultura (alta, media e bassa). Basta vedere le ORRENDE LIBRERIE delle grosse (non “grandi”: “grosse”) catene: negoziacci tutti uguali, dove i poveri commessi non capiscono nulla di libri, dove i banconi sono pieni di robaccia, dove esistono scaffali col “genere best seller”, dove chi ama la lettura si aggira smarrito come chi ama l’erotismo si aggirerebbe in un bordello per camionisti della camorra.

Postato martedì, 29 giugno 2010 alle 10:30 da luciano / idefix


e’ un piacere rileggerti, Luciano. Riguarda al punto 2, ciascuno ha il suo metodo. C’è chi prescinde (ma parliamo di scrittori non di apprendisti) da quanto scritto da altri in tema, e c’è invece chi si va a leggere un sacco di cose non per copiare ma all’opposto, per avere un raffronto e potere magari precisare meglio il proprio e originale punto di vista. Questo può riguardare il tema (se scrivo un horror sulla rianimazione dei cadaveri, una rinfrescata ai classici tipo il Reanimator di Lovecraft è bene darla) oppure un momento narrativo che comporta problemi stilistici particolari (posso trovarmi in difficoltà nel descrivere una notte di tempesta, una giornata nebbiosa, un’alluvione… e andarmi a studiare dei precedenti letterari mi aiuta nella scelta degli aggettivi, nelle accentuazioni climatiche, nelle sottolineature d’atmosfera, ecc. anche qui non in omaggio al principio deleterio del copia/incolla , ma per un’indagine tecnica su come altri scrittori hanno risolto una certa situazione narrativa). In un recente libro dedicato alla Nebbia, Umberto Eco ha ad esempio messo a confronto un’infinità di passi di molteplici autori riguardo appunto alla nebbia. Questa indagine comparativa è utilissima non solo a chi vuole imparare a scrivere, ma anche ad autori affermati come , ripeto, elemento di confronto. Se esamino dieci diversi modi di descrivere un incendio, riesco a evitare più facilmente certe banalità tanto spontanee quanto replicanti, mi arricchisco di diversi punti di vista che mi aiutano anche stilisticamente ad esprimere il mio.
Riguardo al punto 3. Io non ritengo che gli esperti commerciali o i direttori editoriali che valutano le opere da tradurre e da pubblicare siano degli assoluti incompetenti. Certo… a volta un dubbio mi viene, se penso che ho sentito sentenziare da un grande direttore editoriale ed esperto del settore che Dylan Dog non avrebbe venduto niente perché in Italia non c’era spazio per un simile prodotto (era persona esterna all’azienda Bonelli, ma d’altra parte nemmeno in Bonelli si aspettavano di battezzare il più grande successo commerciale della storia del fumetto italiano essendo ben consapevoli d’aver di fronte un’opera strana, sicuramente d’autore, e quasi senza precedenti) . Il punto è che tutti noi giudichiamo “cosa può funzionare” e cosa “non può funzionare” sulla base della nostra esperienza. A volte ci si prende, a volte no. Alcuni sono più esperti, altri meno. Il punto non è questo. Il punto è che tutti noi, del futuro non abbiamo ancora esperienza. E la Storia non si ripete eternamente identica a se stessa, tantomeno il Mercato , che ha andamenti sussultori, e in certe fasi davvero imprevedibili. Stabilire ciò che funziona sulla base dello stato presente delle cose (che poi è già lo stato passato delle cose, al momento stesso in cui lo si studia) non è e non può essere garanzia sufficiente a sfornare un prodotto che corrisponda allo stato delle cose al momento della sua uscita. Così facendo, anzi, spesso si creano delle ondate di exploitation , di sfruttamento dei filoni fino alla sovrapproduzione, che rendono un prodotto obsoleto prima ancora dell’uscita. Ad esempio il successo della Meyer ha sicuramente creato un indotto da paura: mai sono usciti tanti romanzi (e non sempre imitativi della Meyer) dedicati ai vampiri. A me pare facile prevedere che questa sovraproduzione ucciderà il vampiro per i prossimi dieci anni. Già adesso i veri cultori del vampiro, quei lettori che negli anni passati, di romanzi vampirici non se ne perdevano nemmeno uno, sono sotto sindrome da indigestione e gridano: bastaaa! Ma questo può riguardare anche il format dei romanzi. Negli anni 80 gli editori prescrivevano o raccomandavano agli scrittori romanzi minimalisti (anche nel numero di pagine) . Gli scrittori horror, gli autori di romanzi storici, gli amanti delle grandi saghe hanno invece cominciato a produrre l’opposto e cioé romanzi fluviali. Si è così dimostrato che quello che prevedevano certi editori (” funziona se è breve”) era falso, e che anzi esisteva un larghissimo pubblico potenziale per il romanzo smisurato. A volte a fare i bastian contrari, ci si becca. Viviamo in una società omologante, nella quale però se qualcuno fa una cosa diversa e opposta rispetto a quella dominante, gli può capitare di farsi notare molto di più. Ogni omologazione crea esclusione. E gli esclusi sono sempre di più degli omologati. Ciascun operatore di moda, sa che gli stimoli nuovi vanno cercati al di fuori del circuito delle mode, cioè nel sociale, che non si limita a subire le mode, le crea incessantemente. Se gli editori smarriscono per loro scelta questo “fiuto” per ciò che sta emergendo, e fanno i loro calcoli sulla base di ciò che è accaduto negli anni precedenti, allora programmano sulla base del passato, del già dato, o di un attuale che tra due anni non sarà più attuale. Ma ci siamo dimenticati cosa accadeva a uno scrittore, non solo in Italia, anche in America, solo pochi anni fa, prima del successone planetario della Meyer? Se proponevi a un editore un libro sui vampiri, ti sentivi rispondere: dei vampiri non frega più niente a nessuno! Adesso accade la cosa opposta. Ti chiamano per chiederti un nuovo libro sui vampiri e tu devi rispondergli: no, perché di vampiri ormai ce ne sono troppi in circolazione, non se ne può davvero più, al momento! (Se la Meyer ha annunciato di voler cambiare genere, non è per stanchezza del tema, ma perché, come ogni scrittore di talento, ha le antenne). Come dice Dylan Dog, il “sesto senso” è concesso a pochi, ma cerchiamo almeno di aver un po’ più di fiducia nel “quinto senso e mezzo”.

Postato martedì, 29 giugno 2010 alle 12:45 da Gianfranco Manfredi


E vi ricordate di quanto tutti gli esperti del settore sentenziavano che “l’inchiesta giornalistica è un genere morto”? A quei tempi (e non sono passati neanche dieci anni) Enrico Deaglio polemicamente, su Diario, pubblicava inchieste sotto il titolo “L’Inchiesta vecchia maniera”. Appena data per morta, l’inchiesta giornalistica è addirittura esplosa sul piano commerciale, grazie ai libri di Saviano, di Stella e di Travaglio. Vampiri anche loro, in certo modo: non fai a tempo a giudicare una cosa morta e sepolta, che te la ritrova risorta senza sapere il perché. Dunque l’imprevisto risulta da due lati: imprevisto perché nuovo, imprevisto perché revenant. Ma il bello dello scrivere sta proprio qui: nel sorprendere.

Postato martedì, 29 giugno 2010 alle 13:41 da Gianfranco Manfredi


Buongiorno signori tutti.
Un paio di mie impressioni random. La Meyer molla i vampiri? Allah Akbar!!! Il filone vampiroso morirà? Non credo. Magari da Nilo si farà fiume standard, ma torrente asciutto non credo. Gli amanti del genere continueranno a cercare libri con le zanne, preferibilmente scritti bene, e chi ha in testa una storia da raccontare cercherà di farlo. Sul comportamento degli editori, ovviamente non posso pronunciarmi. Forse alcuni cercheranno di inseguire il prossimo colpaccio, altri rischieranno. Al solito.
Da drogata del genere, un po’ mi fa piacere non sentir più parlare di Edward la Fatina. Ma forse non faccio testo: quando rivedo i film della Hammer, ancora spero che Christopher Lee sbaragli gli avversari.
Gli Angeli dark? Se il libro è scritto bene, perché no? In fondo, quella vecchia storia dei primogeniti ammazzati in serie dall’Angelo della morte è stata il primo horror di cui sia venuta a conoscenza.
I mannari impomatati? Di nuovo, dipende. Non nutro particolare timore reverenziale nei confronti di alcun cliché letterario. Anzi, stravolgerli può voler dire dar loro vita nuova, a patto che si sappia quello che si sta facendo e che ci sia un’idea solida a sottendere la costruzione della storia.
Per inciso, Edward Cullen per me è un assurdo non tanto perché al sole brilli (anche se, santa pazienza, e che è? Un albero di natale?) ma perché un immortale di 100 e rotti anni non va a rimorchiare al liceo, e soprattutto non ci arriva vergine e puro. Non esiste. È una barzelletta.

Postato martedì, 29 giugno 2010 alle 15:24 da Giusy De Nicolo


Cara Giusy, ieri sera è passato su Sky “40 anni vergine”, una commedia in effetti piuttosto divertente. Nel caso di Edward che è nato nel 1900/1901, il titolo sarebbe “110 anni vergine” e non sarebbe male… la cosa buffa è che milioni di fans lo hanno preso sul serio. Evidentemente, come cantava Jannacci su testo di Gino e Michele, “l’importante è esagerare”. Il suo brillare al sole non sarà per caso frutto di arrapamento incontenibile? L’energia repressa va pure sfogata in qualche modo. Certo che anche qui… non sarebbe meglio accendersi di notte? Una lampadina accesa sotto il sole risulta un po’ patetica… tutta materia per il prossimo Scary Movie, anche se di certi film è difficile fare la parodia perché se la fanno da soli all’origine. Va registrato in ogni caso che la Meyer ha davvero trasgredito ogni regola in campo vampirico, senza pudore alcuno, e fino allo sprezzo del ridicolo. Sarà mica anche questo uno dei motivi del suo successo? Per il resto, hai ragione. Come mi ha detto la Yarbro (cioè l’autrice della saga vampirica di St.Germain) le letture dei libri di vampiri nelle biblioteche da decenni restano alte e costanti, non segnalano né cadute, né punte, il che significa che i lettori appassionati di vampiri risentono assai poco delle traversie di mercato. Dice anche la Yarbro che dopotutto, per un vampiro anche il morire non costituisce problema. Se non c’è abituato lui… Può anche darsi che la nota frase di Dracula “c’è qualcosa di peggiore della Morte” alluda a certi libri che si scrivono sui vampiri…

Postato martedì, 29 giugno 2010 alle 17:58 da Gianfranco Manfredi


Ah, quello che ha profetizzato il silenzio sui vampiri per i prossimi dieci anni, augurandoselo, è Neil Gaiman che di vampiri se ne intende e ne ha scritto spesso nei suoi romanzi e nei suoi fumetti. Di lui, Mondadori ha pubblicato Coraline, nel 2004. Gaiman non disprezza né bambini, né adolescenti, ma indubbiamente ha ben altro stile nelle sue favole macabre. Anche perché il macabro gli piace, non è per lui un costume d’occasione.

Postato martedì, 29 giugno 2010 alle 18:07 da Gianfranco Manfredi


@ Francesco. Ho nel frattempo visto il corto del 1980 di Svankmejer dal racconto di Poe La Casa Usher. Dura un quarto d’ora, ma sembra una vita. L’ho visto in lingua originale ceca (il regista è praghese) con sottotitoli in giapponese! Si capisce lo stesso che il film è una lettura del racconto (con voce f.c.) piuttosto monotona e monocorde, che accompagna le immagini (in rigoroso Black and White). Trattasi dell’esplorazione di un vuoto casolare diroccato di campagna. Nessuna presenza umana. Unica protagonista: la casa. Molti effetti di animazione (a passo uno) delle macchie di umido sul muro, della polvere e del fango. L’inquadratura va spesso e volentieri fuori fuoco, volutamente, intendo, se no non sarebbe “avanguardia”. Di qualche comicità (non voluta) la bara di Madeline che si muove da sola e scende le scale della cripta. Gran finale con la casa che crolla (si sfarina) e la poca mobilia (sedie e un armadio) si dà alla fuga, sprofondando però nella palude. Si chiude con un corvo (omaggio a Poe) su cui la MDP stringe fino a mandarlo fuori fuoco (e ridagli!). Perfetto per un Fuori Orario di Ghezzi, da mandare verso le quattro del mattino ad uso di chi ancora non è riuscito ad addormentarsi. Conclusione: è quasi ovvio infastidirsi per prodotti di largo consumo, ma di fronte a quelli di presunta-avanguardia perché essere sempre comprensivi? Direbbe Moretti: andiamo avanti così, continuiamo a farci del male!

Postato martedì, 29 giugno 2010 alle 18:41 da Gianfranco Manfredi


@Gianfranco.L’animazione passo uno ricorre in tutto l’opera di Svankmajer,sembra quasi un ossesione.Lunacy/Sileni,nonostante le dichiarazioni dello stesso Svankmajer non va considerato assolutamente un horror,ma piuttosto come un opera bizzara e di questo bisogna tenere conto in vista di un eventuale visione.(Per non crearsi aspettative fuorvianti,non per perdonare eventuali errori)Sul fatto che spesso alcune opere esagerino con la storia della presunta avanguardia mi trovi d’accordo,troppo spesso l’incapacità di comunicare qualcosa è stata mascherata con intellettualismo.
Parlando di Gaiman e vampiri,mi hai spiazzato.Di Gaiman l’unica incursione vampirica che conosco è una sestina pubblicata in un antologia curata da Stephen Jones.(Ammetto però di non aver letto molto di Gaiman Sandman a parte)Si è quindi cimentato altre volte con la figura del ritornante?

Postato martedì, 29 giugno 2010 alle 19:59 da Francesco Moretta


@ Giusy: il tuo commento a proposito di Cullen è fantastico! E’ il frutto della ricerca a tutti i costi dell’originalità che, sia chiaro, non sempre coincide con la coerenza.
@ Gianfranco: ho apprezzato in toto il tuo commento a proposito dei fenomeni editoriali pubblicati in Italia da case editrici lungimiranti come Fazi, Nord, la stessa Gargoyle… Torniamo quindi al mio supposto, cioè il cavalcare fenomeni stranieri e campare di rendita conviene. Il grosso editore non ha bisogno di noi. Ecco perché nessuno in Italia, pur essendoci fior fiore di scrittori horror che francamente non hanno proprio niente da invidiare ai colleghi d’oltreoceano, è mai diventato “un caso editoriale”.
Ed è questo che mi fa rabbia assai. L’alone di scarsa considerazione che ci avvolge mi urta, in maniera direttamente proporzionale al fiorire di scrittori che producono roba trita e ritrita ma che siccome hanno un cognome americano, inglese o ora pure svedese, vendono a prescindere, dietro un millantato credito di “campione d’incassi”.
Ma, AMICI! OGGI E’ IL MIO COMPLEANNO, quindi non mi voglio incazzare e intossicare più di tanto perciò, alzo il mio calice virtuale con tutti voi e brindo alla nostra: il vento deve pur cambiare, prima o poi.
Speriamo solo di arrivarci. Il tempo, purtroppo, non aspetta.
:)

Postato martedì, 29 giugno 2010 alle 20:08 da Simonetta Santamaria


Tanti auguri Simonetta!Speriamo che il vento cambi davvero prima o poi in quel piccolo paese del sud dell’Europa chiamato Italia,ma meglio noto come “Terra dei cachi” o “Italiastan”.Perchè siamo veramente a un passo nel divenire a tutti gli effetti simili ad una sgradevole dittatura da terzo mondo.(il modo in cui è stato distribuito “Shadow” nei cinema è scandaloso)

Postato martedì, 29 giugno 2010 alle 20:27 da Francesco Moretta


@ Simonetta Auguri!!! E sì, un posticino nel mondo c’è pure per noi, cazzarola.
A proposito di angeli dark e film di impagabile umorismo involontario, mi preme qui segnalarvi il fantasmagorico “Legion”, un film così brutto che è meraviglioso, da vedersi preferibilmente al termine di una giornata cupa e faticosa e previo consumo di cibi colesteroici e molto, moltisismo alcol.
Parte con gli angeli stronzi che mandano contro i nostri la Nonna al plutonio e continua con l’arcangelo Gabriele che si muove e combatte come Robocop, armato di mazza chiodata, che quando si schiaccia un pulsante i chiodi girano modello motosega. Una moto mazza chiodata sacra!!!!
@ Gianfranco La capisco sì, la speranza degli scrittori di favole macabre che ’sta moda dei vampiri-albero di natale passi. E’ quasi un’appropriazione inbedita.

Postato martedì, 29 giugno 2010 alle 21:02 da Giusy De Nicolo


AUGURI, SIMONETTA!

Postato martedì, 29 giugno 2010 alle 21:22 da Gianfranco Manfredi


@ Francesco. Hai ragione, Gaiman non ha scritto di vampiri, perché le sue creature preferisce inventarsele rimescolando la tradizione, con un gusto fantasy molto americano e al contempo dark, per cui Odino può comparire insieme a divinità del tutto inventate, l’Anticristo assumere l’aspetto, ma anche il carattere di un simpatico ragazzino, e una suora essere satanista. Gli umori sottilmente vampirici però non mancano, come nel suo Il figlio del cimitero (2009) romanzo di formazione in cui un ragazzino viene allevato ed educato dai morti.

Postato martedì, 29 giugno 2010 alle 21:38 da Gianfranco Manfredi


Tanti auguri (mordaci?) a Simonoir!!!
;)

Postato mercoledì, 30 giugno 2010 alle 00:12 da Massimo Maugeri


DIVAGAZIONI

” I ricercatori dell’Università di Pittsburgh hanno misurato i momenti in cui si divaga con la mente. Hanno analizzato i movimenti degli occhi di un gruppo di persone intente a leggere “Ragione e Sentimento” di Jane Austen sullo schermo di un computer. Confrontando i movimenti degli occhi rispetto al testo hanno potuto stabilire quando i lettori rallentavano per comprendere frasi più complesse o quando davano una scorsa alla scrittura senza comprensione.” (da Repubblica di oggi, pag.39). Da questi test gli scienziati hanno dedotto che il vagare con la mente nei momenti di distrazione fa bene alla mente e potenzia la creatività. Il che non è una scoperta poi così clamorosa. Quante volte, leggendo o vedendo un film, ci siamo messi a fantasticare perdendoci dei passaggi narrativi? Ma il bello non è proprio questo? E cioè che un’opera dell’ingegno liberi la nostra immaginazione? Sì, la risposta dovrebbe essere ovvia, ma non lo è. Tutte o quasi le Scuole di scrittura, e in prima fila quelle di sceneggiatura cinematografica, basano il loro insegnamento sulla curva dell’attenzione che deve sempre essere mantenuta alta, perchè un lettore o uno spettatore distratto è considerato un fruitore perso. In televisione questo scrupolo è molto più alto, in quanto lo spettatore deve restare sempre vigile e collegato perché poi passa la pubblicità. Quando lavoravo in televisione, a noi autori arrivavano le rilevazioni dettagliate degli ascolti. Potevamo così sapere quasi minuto per minuto in quale punto del programma, masse intere di spettatori avevano cambiato canale. Scovato l’errore, si trattava di metterci riparo. Certo, molti autori osservavano che l’equazione cambio canale= disattenzione era scorretta. I dati dimostravano un’altra realtà. Ho cambiato canale proprio perché stavo attento e il programma faceva schifo. Non ho cambiato canale mai, perché mi sono addormentato, oppure pensavo a tutt’altro, oppure ero occupato in un’altra attività. Resta il fatto che nessuno di noi poteva dedicarsi al compito sociale di favorire la libera e creativa ginnastica mentale del pubblico , perchè bisognava invece costringerlo a un’attenzione ossessiva e continua da un lato, dall’altro all’assoluta passività perché la scelta (in televisione) si esprime con il cambio canale. Cosa si sarebbe augurata Jane Austen? Non possiamo saperlo, però i suoi stessi personaggi ci dicono che i pensieri, i sogni, i ritegni, le digressioni, le fantasie, i viaggi della mente sono più che auspicati dalla scrittrice. Oggi invece molti scrittori hanno un altro ideale e cioè che il lettore una volta cominciato il loro romanzo, non lo molli più fino alla fine, leggendolo con attenzione spasmodica. I lettori adolescenti addirittura si vantano davanti ai genitori: “Oggi ho letto 120 pagine!” come se avessero stabilito un record di prestazione. E’ comprensibile visto che il mondo degli adulti che non leggono (con la scusa che non ne hanno il tempo) li rimprovera sempre di non leggere abbastanza. Ora: rispetto a certe tecniche di scrittura mirate a sostenere sempre la massima attenzione, non bisognerebbe raccomandare il contrario? Quando leggete, prendetevi della pause, rifletteteci sopra, vagate con la mente, non ve l’ha prescritto nessuno di leggere quel tomo nel più breve tempo possibile, il tempo di lettura siete voi a stabilirlo, dunque siate attivi, fate dell’opera quello che volete, usatela davvero. La psicologa Anna Oliviero Ferraris così chiosa l’articolo di Repubblica: “Sognare a occhi aperti aiuta l’intelligenza emotiva… cioè i vagabondaggi della mente sono non solo utili, ma preziosi perché raccolgono emozioni, sentimenti, affetti molto profondi.” Dovremmo ricordarcene quando scriviamo. La differenza non è tra “noia” e “interesse spasmodico sotto stress”, ma tra una lettura che favorisce l’immaginazione e una lettura che la tarpa.

Postato mercoledì, 30 giugno 2010 alle 12:53 da Gianfranco Manfredi


Io per Neil Gaiman ho un debole (è solo una coincidenza che un altro dei miei amatissimi si chiami pure lui Neil? E cioè Neil Young?…a proposito: le loro dediche con autografo sono molto simili).
E quando Manfredi ha accennato al Gaiman con frequentazioni vampiriche mi sono detto: “orpo! Dove? Si vede che mi erano sfuggite”
Poi però, a pensarci bene, se non ha scritturato direttamente Dracula & C con tanto di denti aguzzi e ciucciate di sangue, ha spesso usato metafore del vampirismo, anche fortemente emoglobiniche.
Per essere più preciso dovrei consultare tutti i miei appunti su Sandman (a mio avviso un immenso e inesauribile capolavoro: basti pensare a Gilbert Keith Chesterton riutilizzato in un contesto tutto nuovo, all’invenzione di Death-Morte come dolcissima e carinissima ragazza dark, alla rivitalizzazione di Shakespeare e della sua opera, alla varietà di toni e di ritmi che vanno dall’horror alla commedia e dalla fiaba alla mitologia e dal filosofico all’avventuroso e dall’umoristico al tragico, al crescendo drammaturgico che porta al solenne finale della Veglia).
Riprendo un tema lanciato da Manfredi (in questo post jam-session) su sollecitazione mia che a mia volta lo riprendevo proprio da lui che lo aveva colto da non so più chi altro:
IL RAFFRONTO/CONFRONTO CON GLI ALTRI AUTORI
Io da ragazzino copiavo senza requie. Buzzati mi fece impazzire e presi a scopiazzarlo con orrendi raccontini nel suo stile. Leggevo Simenon, me ne innamoravo e cercavo di imitarlo. Poi impazzii per Ed McBain e tentai di rifare la sua voce narrativa, i suoi dialoghi. Quando affrontai i Karamazov, mi inoltrai a scimmiottare la prosa dostoevskiana. Non vi dico che effetto mi fece scoprire Majakovski. Oppure Achille Campanile e Joseph Heller o H. P. Lovecraft.
Non avendo una voce mia, copiavo, copiavo, copiavo.
Finchè piano piano questa voce ha cominciato a venir fuori: balbettante e patetica al confronto con i Maestri, schiacciata dalle maestosità degli Autori che amavo, umiliata dalla grandezza dei Narratori che adoravo, ridicolizzata dal paragone con la sicurezza della loro lezione.
Ma un passettino dopo l’altro, una frase in una pagina pessima e una mezza frase in una pagina indecente, una parola qua e una là, ho iniziato a intuire come volevo scrivere io.
fallimenti, delusioni, vicoli ciechi, confronti impietosi, critiche spietate inflittemi da crudeli (ma preziosissime) amiche più esperte e più adulte che facevano a brandelli i miei tentativi di scribacchino.
E intanto leggevo, leggevo, leggevo.
Libri e fumetti bellissimi, così così, ma anche brutti e pessimi.
Scrivendo tanto e leggendo tanto, confrontando e sperimentando, ho preso a metabolizzare le lezioni altrui e a evacuare le mie scorie.
Finchè ho trovato (e mai finirò di trovare: perchè lo stile non è mai definitivo e paralizzato) un mio modo di scrivere.

Postato mercoledì, 30 giugno 2010 alle 13:19 da luciano / idefix


Bella la tua testimonianza di lettore/scrittore e credo che ciascuno di noi potrebbe sottoscriverla. Torno un momento sul tema della televisione e delle sue tecniche di racconto perché credo possa essere stimolante. Una divagazione? Sì, ma questo forum dimostra che è attraverso le divagazioni che abbiamo sempre trovato stimoli per ricominciare e arrivare al punto (vero Gianni?) . Dunque, quando facevo l’autore televisivo, la percentuale più alta del cambio canale, la si rilevava dopo dieci minuti dall’inizio di un blocco. La gente cambiava canale PRIMA della pausa pubblicitaria, perchè anche se non sapevano consapevolmente che cadeva dopo dodici minuti, per riflesso, per abitudine avevano afferrato che le cose stavano proprio così. Ciò non aveva molto rapporto con il contenuto del programma: si cambiava per evitare la pubblicità, e non tanto la pubblicità in sé, ma la pubblicità già vista, perché nel programma rimbalzavano ossessivamente sempre gli stessi spot. Non lavoro più da tempo in televisione, ma quando guardo un talk show, mi rendo conto di come vengano ancora applicate le regole di un tempo. Non so se ci avete fatto caso, ma a un certo punto si scatena la rissa, le voci si sovrappongono fino all’effetto caos, e il presentatore/conduttore a quel punto stoppa: “ne riparleremo dopo la pubblicità, restate con noi”. Dopo la pausa, non ricomincia la rissa, perchè si parte da tutt’altro argomento. Lo scoppio della rissa sembra casuale, in realtà è ben regolato. La rissa si attiva in prossimità della pausa pubblicitaria, perchè il pubblico diventi attento, si goda il caso, resti con risposte inevase e dunque collegato al canale. Poi, a effetto ottenuto, si ricomincia da capo. Insomma: ciò che appare spontaneo è in realtà governato ( a volte anche all’insaputa dei partecipanti al dibattito). Questo avviene sia nei talk show di qualità che in quelli scaciati. Anche i più acerrimi avversari di Santoro, ammettono che è un grande professionista della televisione, perchè in Anno zero è proprio questo il metodo che si applica infallibilmente. Come far coincidere questa tecnica di confezione del programma con lo scopo dichiarato di “programma di approfondimento”, che dovrebbe dunque favorire la riflessione? Qui il gioco si fa duro. Ma a noi che ci occupiamo di letteratura, si può dire, cosa ce ne importa? Mica c’è la pubblicità, tra le pagine di un romanzo. Il problema che queste tecniche “dell’attenzione” vengono oggi applicate anche alla narrativa. “Se nelle prime dieci pagine non succede niente, il lettore molla il libro.” E chi l’ha detto? Nelle prime cento pagine del Nome della rosa, per scelta dichiarata dello stesso autore, non succede niente, ma non si può certo dire che il romanzo non abbia funzionato. Il punto è: funzionato per cosa? Se l’obiettivo di uno scrittore è , anche, quello di favorire delle riflessioni, allora quelle prime cento pagine sono fondamentali, come sono fondamentali le digressioni storico-critiche in Guerra e Pace. resta intatta la libertà del lettore di leggerle rapidamente, se non lo interessano abbastanza, o addirittura di saltarle. In un romanzo in cui non si può saltare nessun passaggio altrimenti non ci si capisce più niente, i salti (in lettura) avvengono lo stesso perché magari una certa battuta ha suscitato delle nostre riflessioni interiori, siamo andati avanti a leggere meccanicamente, ma in realtà stavamo pensando. Quando ce ne rendiamo conto, torniamo indietro e riprendiamo da dove ci eravamo distratti. Quante volte, Luciano, ci siamo distratti leggendo Lovecraft? Certi passaggi ci evocavano paesaggi e creature sconosciute che la nostra mente andava a rincorrere. Alla fine (sbaglio?) si doveva ritornare indietro perché ci eravamo distratti dall’andamento dei fatti veri e propri , se avessimo dovuto riassumere per qualcun altro la “trama” del racconto, non ci saremmo riusciti. La stessa esperienza di lettura credo riguardi un altro autore visionario come Poe. Tutti i suoi lettori credo conservino nella mente certe suggestioni de “il pozzo e il pendolo” o de “il gatto nero” , ma se dovessimo raccontare la storia a uno che non l’ha letta, sapremmo riassumerla? Non è capitato anche a voi di confondere “Berenice” e “Morella” (qual era delle due quella dei denti)? Eppure, quanti echi permanenti hanno lasciato Lovecraft e Poe nella nostra immaginazione? Di certi gialli invece si dice: “Non dirmi l’assassino”, altrimenti ci sembra che non valga neanche la pena leggerlo. Questa è indubbiamente un’altro tipo di lettura, sintonizzata su un altro obiettivo. C’è anche qui un fantasticare, ma selezionato, indirizzato all’anticipazione di una soluzione. L’età della massima diffusione del Who dunnit? /Chi è stato?) è stata quella dei quiz televisivi. Il giallista di maggior successo in TV era Francis Durbridge. Gli episodi erano inseriti all’interno di un quiz nel quale dei concorrenti gareggiavano a scoprire l’assassino, con contributi anche da casa. Il programma, condotto da Enzo Tortora, si chiamava Giallo Club. Fu uno dei primi esperimenti di sintonizzazione dell’attenzione su un obiettivo: vincere un premio. Se starai attento, verrai premiato (forse). Intanto ti sei visto la pubblicità.

Postato mercoledì, 30 giugno 2010 alle 14:01 da Gianfranco Manfredi


C’è anche da dire che quei programmi ci sembravano più degni, perché di pubblicità all’epoca ne passava molto meno, e con criteri diversi. C’è anche da dire che oggi in televisione c’è chi fa ottimi programmi di approfondimento (vedi Report) , i quali, non a caso, usano altre tecniche di scansione dei contenuti e scommettono su un pubblico sintonizzato per interesse al contenuto, non per emotività sotto stress.

Postato mercoledì, 30 giugno 2010 alle 14:10 da Gianfranco Manfredi


Il successivo stacco, nel campo del giallo TV, è stata la serie Colombo. Gli esperti avevano notato che il giallo enigmistico (inframezzato da spot pubblicitari) confondeva: alla fine il pubblico aveva dimenticato le premesse, dunque non era in grado di partecipare. Colombo rivoluziona la tecnica: l’assassino lo si sa subito, il pubblico vede come sono andati i fatti, prima che l’investigatore possa intuirlo. Liberato dall’incombenza , poi può godersi la simpatia del personaggio, lo spettacolo dei sul infallibile fiuto (perché anche lui , non sta mica a interrogare una decina di personaggi per individuare il probabile assassino, no, lui chi è l’assassino lo ha capito subito per intuito, deve solo scoprire come incastrarlo). Colombo è stata una splendida serie, rivoluzionaria nella struttura narrativa. Ma è stata anche una serie che consapevolmente si è detta: è inutile in televisione proporsi lo scopo di fare ragionare lo spettatore, anzi rendiamogli la comprensione più facile possibile, ci seguirà con maggiore complicità. Attualmente, con l’ingresso in campo dei canali satellitari, la fidelizzazione del pubblico a una serie , comporta l’accumulo di misteri irrisolti, ma solo perchè il pubblico si chieda: come andrà a finire? In realtà non lo sanno nemmeno gli autori, in quanto in finale non è stato previsto, si lavora sempre alla prossima stagione. Quando pubblico e autori sono giunti allo sfinimento, si chiude, in un modo o nell’altro. Stessa tecnica in molti romanzoni giallo-thriller, rispetto ai quali viene da chiedersi: perché un tempo erano più che sufficienti centoventi pagine per scoprire l’assassino, mentre oggi bisogna leggerne anche settecento? Finché le cose funzionano, si va avanti, poi si scopre che questo funzionamento alla resa dei conti non funziona molto, lascia un sacco di delusi e proprio tra il pubblico che si credeva di avere fidelizzato. Prendiamo di due ultimi romanzi di Stephen King: Duma Key e The Dome. Ma erano proprio necessarie tutte quelle pagine, tra le quali non si contano quelle ripetitive? Questa ossessività di scrittura, che ritorna sempre sul già detto, vorrebbe tecnicamente corrispondere a un’ossessività di lettura, ma riesce davvero a cogliere l’obiettivo, o ormai la tecnica della dilatazione continua è così nota al lettore dall’averlo stancato?

Postato mercoledì, 30 giugno 2010 alle 14:30 da Gianfranco Manfredi


Camilleri, dal canto suo, continua a usare la vecchia struttura del giallo-romanzo-breve e non si può certo dire che gli vada male. Non so cosa pensi di Larsson, certo anche lui sarebbe in grado (anzi molto meglio) di scrivere centinaia di pagine, ma suppongo che la cosa lo annoierebbe mortalmente. Dunque quando parliamo di tecniche e di strutture narrative, il punto sono gli obiettivi che si presumono di voler raggiungere attraverso queste tecniche, non le tecniche in sè. Queste sono costantemente in evoluzione e sono anche difficilmente omologabili perché una narrativa condotta in modo classico, può funzionare come una narrativa condotta secondo criteri nuovi e diversi. Al contrario tecniche codificate per libri di presunto “successo garantito” possono avere un processo di obsolescenza rapidissimo.

Postato mercoledì, 30 giugno 2010 alle 14:44 da Gianfranco Manfredi


A volte mi viene da pensare che la nostra fissazione per il “funzionamento” (mi ci metto anch’io, nessuno può sfuggire a questa istanza ossessiva) nasca anche dal fatto che non funziona più niente. Sono passato pochi giorni fa per un quartiere di Milano in cui avevo vissuto per vent’anni. I negozi erano cambiati tutti, tranne pochi e “storici” che sopravviveranno ancora non si sa per quanto. In una piazza vedo affacciarsi ben tre agenzie di Banca Impresa. C’erano tre banche anche prima, ma di gruppi diversi. Si saranno anche fusi o avranno venduto nel frattempo, però uno si chiede: perché tre agenzie della stessa Banca in una sola piazza, non ne basterebbe una a fare il lavoro? La spiegazione non sai dartela, ma non puoi non avvertire che qualcosa non funziona. Anche maggiore smarrimento viene quando si vede la città da anni ormai occupata a costruire nuovi edifici, anche colossali. La Milano di un tempo, ti sembrava più piccola. Eppure in quella Milano, negli anni sessanta, vivevano un milione e settecentomila persone. Oggi ce ne sono cinquecentomila in meno e continuano a diminuire. Che senso ha aumentare le cubature, sfigurare la città per costruire appartamenti e uffici destinati a restare vuoti? Un motivo ci sarà (favorire le lobby del mattone) ma quale idea di funzionamento presiede a queste scelte? Nessuna. Se funzionerà oppure no, si vedrà dopo. Già oggi però si può vedere che così le cose non funzionano, perchè la qualità della vita è molto peggiorata. Dunque confusi da un mondo in cui non funziona niente, anche se quello stesso mondo continua a prometterci efficienza, il “funzionamento”, la sua Utopia, il suo Mito, si sono trasferiti nella fiction. Lì sì esigiamo che funzioni tutto. Non dovrebbe essere difficile trattandosi di una realtà inventata. Invece nel regno dell’immaginario , nel quale gioca un enorme ruolo l’inconscio collettivo, il funzionamento non funziona così. Chomsky, il linguista, ricorda che vale per la scrittura ciò che vale per la matematica: c’è un codice numerico decimale, dieci numeri base, ma le loro combinazioni sono infinite. Il lavoro del pensiero è lo sviluppo di queste combinazioni. Nel mondo dell’immaginario e dell’astratto la variabili sono infinitamente maggiori di quante non ce ne offrano gli scenari sociali, nei quali le scelte possibili sono poche e spesso obbligate (anche se nessuno sa bene spiegare da cosa). Certo, se il mondo che ci circonda funzionasse un po’ meglio, sarebbe molto più forte la domanda rivolta alla letteratura di raccontare qualcosa di disfunzionale e di veramente creativo.

Postato mercoledì, 30 giugno 2010 alle 15:30 da Gianfranco Manfredi


Caro Gianfranco e cari eventuali altri lettori/lettrici,
mi immagino qualcuno non interessato a questa gigantesca e divagante discussione che capita per caso qua dentro. Leggiucchia un po’, vede la massa di parole, di notizie, riflessioni, confessioni, suggerimenti, consigli…e si dice: “ma cosa ci avete guadagnato? Voi poi? Voi che fate gli scrittori? Chi ve lo fa fare? E’ pensabile un cumenda del trevigiano o del bergamasco che invece di produrre (o far produrre) e di farsi pagare fior di schei per ciò che produce (o fa produrre) dà via aggratis la roba? Insomma: non state perdendo tempo? Tempo prezioso che potreste impiegare a far denaro?”
Io risponderei: “no, per quanto riguarda me non è tempo perduto o sprecato. Anzi. Sia perchè mi diverto, sia perchè mi arricchisco…non in schei o in euri ma in conoscenza e in escavazioni dentro ciò che mi piace, sia perchè dialogo con persone interessanti. Insomma, perchè vivo. Perchè faccio ciò che (se non fossimo un mondo impazzito anche per colpa del capitalismo) dovremmo far tutti per molte ore al giorno: vivere coltivando noi stessi e i nostri interessi. No no, signor cumenda: per “interessi” non intendevo quelli del c/c bancario”
Del tuo commento, Gianfranco, riprende tre temi.
LE INTERRUZIONI PUBBLICITARIE
Io ero a favore del referendum contro le interruzioni pubblicitarie nei film (ricordi? “Non si interrompe un’emozione”). Venne perso e quella sconfitta segnò una svolta importante nell apolitica italiana. Ma questo è un altro discorso.
Volevo dire una cosa diversa: i film nascono senza prevedere lo spot che li interrompe. Ed è delittuoso fermarli con la (come si diceva una volta) reclame.
I telefilm no: hanno già un ritmo che ingloba l’interruzione pubblicitaria. (A parte che io li guardo SOLO in dvd oppure registrati senza pubblicità) Ma resta il fatto che anche i telefilm migliori (penso ai Soprano, Millennium, Twin Peaks, NYPD, Shield, Six feet under…) hanno un ritmo pensato per contenere la pubblicità.
La cosa mi turba? No, se sono fatti bene no.
Così come non mi turba che la struttura dell’Orlando Fuorioso Ariosto sia in ottave, con gli ultimi due versi necessariamente in rima baciata.
E SE NON SUCCEDE NIENTE?
Io non credo affatto che la noia (in un libro, in un film) dipenda da ciò che accade o non accade.
In una sua lezione sull’arte di narrare, Julio Cortazar (il mio scrittore di racconti preferito) diceva: tutto dipende dalla tensione. Dunque ci possono essere storie d’avventura noiosissime e avvincenti storie in cui (in apparenza) non succede nulla. Il lettore (o lo spettatore) restano incatenati dalla tensione, che è il rapporto tra materia e stile.
Io ho sbadigliato di tedio davanti a barbosissimi film o romanzi avventurosi, così come ero tutto teso e attento di fronte a saggi di teologia.
SERIE TV
Sì, Colombo semplificò il plot (si sapeva subito chi era l’assassino e si sapeva pure che alla fine Colombo l’avrebbe smascherato col suo fare tontolone).
Però a partire da quegli anni il linguaggio delle serie tv è diventato sempre più complesso e sofisticato (trame e sottotrame molto articolate, flash back e flask forward vertiginosi, incroci tra passato-presente-futuro-dimensione onirica, pastiche di generi, narrazioni oblique, elissi frenetiche, temi audaci), utilizzando tecniche e linguaggi da cinema d’avanguardia. Mentre il cinema “popolare” ha conosciuto un’involuzione opposta: popcornizzandosi sempre più in direzione banalizzante e lobotomizzata.
Io non l’avrei mai detto: mi pare che ora, fatti salvi alcuni grandi (Eastwood, Mann) o giovani (Diritti, Garrone) o indipendenti, il meglio della narrazione visiva stia dentro la tv.

Postato mercoledì, 30 giugno 2010 alle 18:14 da luciano / idefix


Hai perfettamente ragione, Luciano. La svolta che sta migliorando la qualità dei telefilm, anzi che l’ha già molto migliorata negli ultimi anni, è nata dalle Tv a pagamento. Il pubblico che paga esige una qualità elevata (oltre che film senza interruzioni pubblicitarie) e se uno non gliela dà, si sposta e si affeziona al canale che gliela dà. Creare una programmazione adatta a un pubblico elevato nel senso di più esigente è diventato imprescindibile. Dunque non è vero che lo stile narrativo, in questo campo, si stia semplificando, anzi diventa sempre più complesso. Il che vale anche per lo sport. Oggi intorno a un campo di calcio ci sono quarantadue telecamere. Un tempo un regista delle partite di calcio poteva anche essere un incapace, perchè doveva solo scegliere tra due o tre punti di vista. Oggi in sala regia, si trova davanti a un muro di monitor che gli presentano in diretta quarantadue soluzioni diverse. Oltre a dare i tempi degli stacchi, deve anche ordinare in cuffia ai singoli cameramen degli eventuali aggiustamenti di inquadratura. Per non parlare dei rallentie eccetera. E’ diventato un lavoro difficilissimo. Il risultato però è notevole. I vecchi filmati delle partite che passano ogni tanto ci sembrano preistoria. Ci sono più stacchi nella ripresa di una partita che in una telenovela in studio (dove ancora si lavora con tre telecamere). Tra mezzo e messaggio c’è sempre una relazione strettissima. Le nuove tecnologie consentono nuove possibilità, e per adeguarsi bisogna essere molto più bravi di prima, perché “è quando il gioco si fa duro che i duri cominciano a giocare”. E dunque: con una narrazione televisiva che è sempre più raffinata, per quale dannato motivo i romanzi dovrebbero essere sempre più semplici? Le convinzioni editoriali nate nell’epoca del trionfo della TV generalista hanno fatto il loro tempo. Non è più possibile il gioco al ribasso e la scelta dell’imitazione/omologazione è perdente.

Postato mercoledì, 30 giugno 2010 alle 18:36 da Gianfranco Manfredi


Aggiungo che questa svolta la si è notata da tempo anche nei fumetti. Una volta il fumetto era il terreno del semplificato: testi facili, storie elementari, personaggi appena abbozzati, disegni piuttosto approssimativi o comunque di gusto estetico basso. Oggi un fumetto di bassa qualità non può avere alcun pubblico. I lettori di fumetti sono sofisticatissimi. Meno numerosi di un tempo, certo, ma infinitamente più esigenti. Se un lettore di fumetti degli anni 50 avesse letto Dylan Dog non ci avrebbe capito una mazza. Oggi, quando accede che Dylan Dog perda copie, è perché i lettori lamentano un calo di qualità nelle storie. Essere all’altezza del mercato, dunque, non è più rincorrere lo stereotipo, ma non fermare mai l’inventiva ed elevare costantemente la qualità stilistica. Altrimenti si affonda.

Postato mercoledì, 30 giugno 2010 alle 18:47 da Gianfranco Manfredi


ho scritto accede invece di accade…

Postato mercoledì, 30 giugno 2010 alle 18:49 da Gianfranco Manfredi


Alcune delle cose dette qui sulla Meyer o più in generale sul mito del vampiro, anche non detta da me, ma da altri in questo blog, le ho appena ripetute in una fugace intervista telefonica per RadioUno (della Rai) che andrà onda questa notte nell’occasione dell’uscita del nuovo film tratto dai romanzi della Meyer. Insomma, questa discussione può servire anche sul piano del lavoro, perché contribuisce a schiarire le idee, e magari a fare una figura migliore, se non altro si evita di rispondere alle domande improvvisando sul momento. Non so se capita anche a voi, ma anche se le domande sono sempre le stesse (perché la figura del vampiro è tanto popolare?) quando si deve rispondere al volo, si fa sempre un gran papocchio. Se prima invece si è chiacchierato amabilmente con gli altri, ci si è anche allenati a trovare le risposte più ficcanti.

Postato mercoledì, 30 giugno 2010 alle 20:04 da Gianfranco Manfredi


Innanzitutto grazie a tutti gli amici che mi hanno fatto gli auguri di compleanno!
@ Gianfranco: un’ottima riflessione sui romanzi fiume. Del resto come non trovarci voragini di descrizioni e concetti inutili, in un papiello di 600 pagine? Anch’io ho trovato in King la tendenza alla ripetitività: tra i due da te citati però meglio The Dome: Duma Key a tratti è riuscito perfino ad annoiarmi.
So da voci illustri che la Nord, che sta pubblicando davvero bei romanzi che mi hanno soddisfatta appieno, preferisce i tomi cospicui: niente libretti sotto le 150 pagine. Che sia vero o meno non lo so ma la cosa risponderebbe al rifiuto del mercato verso i racconti (a meno che non siano grandi classici). Come se lo spessore del libro facesse lo spessore dello scrittore. Niente di più probabile che nella mente del Lettore Medio(cre) sia davvero così e quindi ecco che SBAM! impattiamo contro un altro, l’ennesimo, paletto.
Personalmente io che, da giornalista vecchia scuola, soffro della Sindrome dellel Trenta Righe, trovo una grossa difficoltà nello scrivere tanto. Ho una innata propensione per la sintesi e quindi fatico come una bestia per allargarmi quel tanto che basta per entrare nel concetto di romanzo. L’eccesso di descrittività, oltre a far perdere concentrazione, toglie spazio all’immaginazione e alla capacità elaborativa del lettore.

Postato mercoledì, 30 giugno 2010 alle 20:15 da Simonetta Santamaria


E sì, questo thread è ricco di spunti utili anche per relazionarsi con un pubblico di “approcciandi”.
Il 25 luglio sarò ad Arezzo ospite di un festival e andrò a parlare di Vampiri. Se non fanno (e non credo proprio) un flop organizzativo alla Twilight ItaCon, utilizzerò un po’ di cotanto materiale.
Con orgoglio.

Postato mercoledì, 30 giugno 2010 alle 20:20 da Simonetta Santamaria


Nonostante non mi dispiacciano i romanzi lunghi,nutro una forte passione per il racconto soprattutto per quella generazione di scrittori che ha modellato l’immaginario in un periodo che va dagli anni 30 ai 50.
Ho letto alcuni racconti brevi di Bloch e Howard,che personalmente reputo più avvincenti di molti romanzi (quelli ambientati nell’antica Roma sono magnifici e da noi impensabili,troppi protesterebbero all’idea di una antica Roma pulp).Da quanto mi capità di leggere però la maggioranza la pensa diversamente ed al racconto preferisce il romanzo.Spesso la brevità permette di mantenere una maggiore coerenza in un opera,evitando una certa dispersione.(Pensate a bei telefilm rovinati da stagioni lunghe oltre il necessario,tipo X-files)
Pur non essendo uno scrittore anch’io soffro della sindrome delle trenta righe,tanto che spesso agli esami gli insegnanti mi dicono che mi esprimo correttamente,ma sono breve,evito i giri di parole e arrivo subito al concetto.

Postato mercoledì, 30 giugno 2010 alle 20:36 da Francesco Moretta


auguri di compleanno … ???

Certo! Lo sapevo … :)

Auguri Simonetta !!!

Postato mercoledì, 30 giugno 2010 alle 22:34 da claudio vergnani


Secondo Giulio Ferroni (mi riferisco al suo saggio Scritture a perdere) il racconto in Italia sta attraversando una fase di notevole vitalità. Cita alcune raccolte di vari autori, e cita anche raccolte di singoli autori. Tra questi: Giovanni Martini, Francesco Pecoraro, Silvana Grasso, Andrea Carraro, Giorgio Falco. Quando ho letto quel capitolo del saggio di Ferroni, mi sono un po’ vergognato perché lo confesso, tuttora non ho mai letto questi racconti, né mi è famigliare il nome degli autori. Certo, un critico letterario è normale che appunti la sua attenzione su scrittori che scelgono temi contemporanei, ricognizioni dell’Italia di oggi, anche nelle pieghe più estreme e nascoste. Meno normale è (ma speriamo che accada) che un critico letterario dedichi altrettanta attenzione ai racconti di genere (anche se ne sono usciti moltissimi) che sembrano apparentemente meno attenti al contemporaneo. Questo , a pensarci bene, è piuttosto bizzarro. Il grande racconto moderno nasce proprio come racconto di genere. Molti autori che hanno tratto i temi di cui ci stiamo occupando in questo forum (abbiamo citato Poe e Lovecraft, ma si potrebbero citare Nodier, Gautier, Maupassant, Kafka… un’infinità di altri) hanno espresso le loro vette stilistiche in racconto. Come mai, però, i libri di racconti vendono meno? Credo che uno dei problemi riguardi proprio il contenitore. La narrativa per racconti si è sempre sviluppata attraverso le riviste letterarie. La fine delle riviste letterarie ha impedito ai racconti di trovare la loro sede naturale. Le riviste letterarie avevano un loro prestigio, presso i lettori, che sapevano di potersi fidare delle scelte dei curatori , oppure avevano un ruolo come riviste di genere, cioè rivolte a uno specifico target di gusto. Come si fa oggi a fidarsi di antologie di racconti che vengono pubblicate da editori generalisti o da curatori occasionali? Le antologie di autori vari sono così piene di disparità di livello tra i racconti ospitati, da scoraggiare. Le antologie di singoli autori riescono ad avere un rilievo se l’autore è già di per sè noto (Tabucchi) ed è indubbiamente più semplice acquisire una certa notorietà attraverso un romanzo. Infine c’è da dire che molte antologie sono piene di esordienti. Spesso si ritiene che scrivere un racconto sia più facile che scrivere un romanzo e che dunque il racconto sia la forma ideale per cominciare a prendere confidenza con la scrittura. Sbagliato. In un racconto tutto è essenziale. Un racconto richiede un livello di scrittura molto consapevole. Scrivere un bel racconto è impresa più ardua che scrivere un romanzo “leggibile”, cioè magari non di grandi pretese, ma scorrevole. Un romanzo che zoppica, alla lettura, riusciamo anche a sopportarlo se ha dei bei momenti, mentre un racconto che zoppica ci lascia il senso d’aver perso tempo a leggerlo, risulta puramente deludente, sovente “una misera cosa”. Unite a questo il fatto che molti curatori danno un tema alle raccolte , cioè chiedono a singoli autori di scrivere un racconto su commissione, a proposito di un certo argomento ( “Delitti in cucina” , ad esempio, oppure “Diabolik” antologia di racconti omaggio all’eroe dei fumetti). Per uno scrittore di vocazione, scrivere a tema, è retrocedere ai tempi del liceo. E sul piano professionale, beh se devo scrivere su commissione allora voglio essere pagato bene, perchè trattasi di prestazione professionale, altrimenti diventa un giochino di modesto interesse e se proprio voglio fare il generoso, ti rifilo una cosuccia scritta al volo. Questo accade. Ci sono antologie di genere, dove i racconti più brutti sono proprio quelli scritti dagli autori più famosi, che si sono gentilmente prestati a fare da traino per autori sconosciuti o esordienti. E diciamone anche un’altra. Nel campo della letteratura di genere si sono pubblicate antologie troppo ripetitive (sempre gli stessi classici risaputi) , oppure troppo caotiche. Non so se vi è capitata in mano la grossa antologia di racconti “Super raccolta di storie d’avventura” curata da Michael Chabon, pubblicata in Italia da Mondadori. Vi figurano tra gli altri, racconti di Crichton, King, Eggers, Hornby, Leonard, Gaiman … e oltretutto questi racconti provengono da una rivista letteraria di notevole tradizione e credibilità (Mc Sweeney), però l’insieme (450 pagine a due colonne e scusate se è poco) risulta praticamente illeggibile. Si tratta di opere che Borges definisce “di immaginazione ragionata” , però estratte dal loro contenitore (la rivista originale) e riunite in unico volume, risultano così altalenanti, sparse, diverse tra loro, da sembrare occasionali. L’antologia pare una raccolta di scritti minori e tutto sommato trascurabili. Insomma, i racconti possono deludere molto più facilmente, per tutta una serie di motivi, dei romanzi e questo forse può spiegare il fatto che il pubblico dei lettori ne diffidi. Può darci che la Rete riesca a cambiare la percezione, ma al momento pare offrire spazio a un nuovo genere: il dilagante racconto di un io narrante che si sfoga. In altre parole la narrativa che ho definito qualche post fa come New Italian Cepu. Questa sorta di autobiografismo fantastico e di narcisismo espressivo, contraddice sia il racconto “sociale” (quello che racconta la realtà italiana) che il racconto cosiddetto di genere (che si ricollega , magari per trasgredirla, a una tradizione letteraria). Si scrive più per sé che per gli altri e lo schermo del PC diventa per chi scrive uno specchio. Il lettore (che è sempre un Altro) si specchia anche lui, e vede una faccia che non conosce che gli pare irrilevante. Al narcisismo dello scrittore corrisponde il narcisismo di un lettore che cerca in tutto l’immagine di sé, o meglio di quel sé che crede di essere. Il risultato è che lo scrittore non trova il lettore, e il lettore non trova lo scrittore. E questo accade perché si cerca più lo specchio della trasparenza.

Postato giovedì, 1 luglio 2010 alle 12:55 da Gianfranco Manfredi


La “Super raccolta di storie d’avventura” mi aveva deluso in un modo cocente. E anche da quella dolorosa scottatura avevo cominciato a riflettere a fondo sul rapporto narrativa/editoria, qualità/pulp, testi/contenitore.
SUI RACCONTI:
il mio amatissimo Julio Cortazar diceva:
“nel match col lettore, un romanzo può anche vincere ai punti, mentre un racconto può vincere solo per ko”

Postato giovedì, 1 luglio 2010 alle 13:50 da luciano / idefix


Allora voglio anch’io la “moto mazza chiodata sacra” di Legion.
Gli editori grandi non hanno strutture dedicata ai vari generi, e magari arrivano tardi sui nuovi filoni, sono più come si dice, istituzionali.
Beh io sono un editore piccolissimo o indipendentissimo, vedete voi, ma mi trovo a fare la difesa delle grandi. Anche un grande editore affronta spese enormi per aggiudicarsi i best seller all’asta diritti e poi se ne addossa i costi di traduzione. E ancora deve cominciare a stampare. Coprire la grande distribuzione. Comporta una stampa minima di 5000 copie. Ok, le fanno fare in Cina. Con questo quadro, se Mondadori trovasse un italiano che fa un horror di largo consumo si fa le pippe a due mani.

Riassumiamo, secondo voi ci vorrebbero libri preferibilmente noiosetti, perchè ogni tanto stufandoci un po’ ci fanno riflettere?
Scusate ragazzi, sto cercando da anni di pubblicare una vulgata de L’acerba, io di noiosetti, non per dire, me ne intendo.
Il pubblico di Twilight vuole un manzo di cui quasi toccare la faccia sbriluccicosa sulla pagina, vuole sentire il suo fiato nell’incavo del collo che sussurra “Non puoi starmi così vicino”, vuole provare l’irresistibile desiderio che quel mostro di discrezione si smutandi!
E vuole provare queste cose in modo vorace, poi finito il libro, altrochè se sogna ad occhi aperti. Sogna e risogna di far fare al povero Edward tutto ciò che Meyer ha avuto la bontà di risparmiarci.

Postato giovedì, 1 luglio 2010 alle 15:31 da Monica Montanari


Gianfranco scirve:
«Certo, se il mondo che ci circonda funzionasse un po’ meglio, sarebbe molto più forte la domanda rivolta alla letteratura di raccontare qualcosa di disfunzionale e di veramente creativo.»
Mi attacco a questa note per dire, sperando di non averlo già detto, che questa cosa del contesto è assolutamente indispensabile al thriller.
In una società britannica anche lo scatto improvviso della lancetta della pendola, suona sinistro. In una Bagdad appena bombardata ci vuole l’apocalisse entro pagina dieci. In questa Italia, il thriller e l’horror sono semplicemente impossibili se sono in contesti aperti. L’effetto è quello del pasticciaccio brutto di via Merulana (il film), dove le palazzine nei campi lunghi della periferia sebbene con poche inquadrature schiacciavano totalmente il temntativo di mistero da condominio. I Thriller hanno bisogno secondo me di contesti piccoli, i soli in cui poter far respirare un’atmosfera di quiete di base. Non a caso una Brescello ha fatto da sfondo a Guareschi ma anche alla Casa con le finestre che ridono di Pupi Avati. Il maestro di quest’arte di prendere una stanza e isolarla dal contesto, era Eduardo che a dispetto della retorica azzera completamente la napoli caotica e fa sopravvivere quella arcaica delle sue leggi sotterranee di sopravvivenza. Ecco Eduardo, silenzia Napoli e trasferisce le sue storie più in basso dei bassi :-)
Camilleri è scrupoloso nel circoscrivere i contesti, la sua tonnara ritorna empre così come la casa di Montalbano, e quei due o tre paesi che vengono nominati. La mafia non viene nominata viene incarnata come legge sottorranee, alla Eduardo.

Postato giovedì, 1 luglio 2010 alle 16:01 da Monica Montanari


Scusa, Monica, ma chi mai ha fatto l’apologia del noiosetto? Crichton, in Jurassic Park inizia con dei capitoli dedicati ai frattali e alla teoria del Caos, ma non è mica noioso! E’ noioso solo chi non sa scrivere, per cui qualunque cosa scriva ti ammorba. Io quando mi sforzo di leggere certi bestseller, crollo addormentato dopo poche righe, perché li trovo scritti in modo banale, con collezioni di frasette solo soggetto-verbo-complemento, ridondanti di luoghi comuni dei più abusati, desolanti perché sprovvisti di pensiero alcuno. Riguardo al thriller, vale quello che ha detto Luciano: conta saper mantenere la tensione. O dovremmo consigliare a Grisham “il piccolo contesto”? Non capisco. il Codice da Vinci di Dan Brown non è forse un thriller? Alla faccia del piccolo contesto! Sulle aste, poi… ce ne sarebbero da raccontare. Certe sono stante vinte sparando offerte del tutto fuori mercato col risultato, di quel capolavoro internazionale, di venderne solo ventimila copie. I grandi editori possono anche sborsare cifre fuori mercato e sganciare anticipi principeschi magari per una questione di prestigio, tanto mica pagano loro, ma gli azionisti. Sono i piccoli editori che rischiano i loro quattrini, i grandi investono quelli degli altri e quando è il caso ripianano. Spesso gli conviene che il bilancio sia in passivo (sai che Fulvia Serra quando dirigeva Linus venne prima sgridata e poi allontanata perché i suoi bilanci erano attivi, mentre al gruppo in quel momento servivano perdite per giustificare buchi di bilancio apertisi altrove?). A volte accade anche che gestire un successo clamoroso sia complicatissimo per una grande azienda. Spagnol, nella bella intervista su Harry Potter, ha spiegato che siccome nell’anno di uscita di un nuovo Harry Potter i profitti salgono alle stelle, nell’anno successivo , dove l’Harry Potter non c’è, crollano anche se la casa editrice va bene. All’epoca dell’inatteso successo del libro comico sulla Bibbia di Covatta (un milione di copie vendute) il gruppo Spagnol dovette sistemarlo in un bilancio separato, a evitare pericolosissimi squilibri. Tenere il bilancio in equilibrio è complicatissimo. E’ paradossalmente più facile risalire da un periodo di vacche magre, che gestire un periodo di vacche grasse, perché le vacche grasse dilatano i costi generali, mentre le perdite contribuiscono a contenerle. Non li invidio i manager dei grandi gruppi editoriali: è vero che sono alle prese con un lavoro complicatissimo e hanno sempre un tagliatore di teste in attesa fuori dalla porta. Il punto è che questo stress li distrae dai libri che pubblicano. La maggior parte li acquistano a scatola chiusa e li pubblicano senza neanche averli letti. Ho già raccontato, qui, di come l’autobiografia di Nino Manfredi sia stata pubblicata da Mondadori in una collana popolare per famiglie. Nei primi capitoli, Nino Manfredi raccontava che le sue prime esperienze sessuali erano avvenute con una pecora, e che durante la guerra aveva organizzato un bordello con le donne del paese mentre i mariti stavano al fronte. Quando un giornalista allibito ha fatto notare la cosa e ha chiesto come mai un libro così provocatorio fosse stato promosso come un “più lo mandi giù, più ti tira su”, alla Mondadori sono caduti dalle nuvole, perché il libro di Manfredi Nino, non l’avevano letto. Ci vorrebbe un Groucho Marx per raccontare in cinema cosa succede oggi in una grande casa editrice.

Postato giovedì, 1 luglio 2010 alle 18:30 da Gianfranco Manfredi


@Gianfranco.Non c’entra con il discorso sull’editoria ma mi è venuta in menta una cosa.Ti ricordi quando dissi che gli aspetti più folclorici del lupo mannaro non erano mai stati usati in un opera narrativa?Mi sbagliavo.Nel 1846 usci un penny-dreadfull “Wagner the werewolf” scritto da George W. Reynolds.La storia parla di un religioso tedesco Wagner che in seguito ad un patto col diavolo riacquista la giovinezza,ma per contrapasso ogni mese deve tramutarsi in lupo.
Il protagonista diventa un licantropo in seguito ad un patto diabolico,come nel folclore e presenta più tratti in comune con gli uomini lupo passati che con quelli moderni.Inoltre sembra che sia stata la prima opera narrativa a descrivere la sequenza della metamorfosi lupesca. Insomma un opera che sta al lupo mannaro come Varney sta al vampiro.

Postato giovedì, 1 luglio 2010 alle 18:32 da Francesco Moretta


La Mondadori ce le ha sempre avute strutture dedicate ai generi e validissimi esperti di settore (due si sono espressi anche qui: Lippi e Sergione Altieri). Da qualche mese la direzione del Giallo Mondadori è stata affidata a Maurizio Costanzo. Anche di questo qui si è già parlato e non voglio insistere. Del resto non credo richieda ulteriori commenti.

Postato giovedì, 1 luglio 2010 alle 18:41 da Gianfranco Manfredi


@ Francesco. Grazie per la segnalazione, anche perché ci riporta a mostri più amabili di quelli della cronaca corrente. Il primo film sui licantropi, risulterebbe essere The Werewolf of London del 1935 (in Italiano, Il Segreto del Tibet). Che tu sappia, ha qualche rapporto con il romanzo che tu citi o non c’entra niente? Il dubbio mi viene perché nella genesi dei mostri del cinema, c’è quasi sempre una radice letteraria. Comunque, il film ce l’ho e me lo guarderò ( cacchio! Non ho più il tempo nemmeno di vedermi i film che ho!). Se c’è un romanzo all’origine sarà pur segnalato nei titoli.

Postato giovedì, 1 luglio 2010 alle 18:51 da Gianfranco Manfredi


@Gianfranco.No, “Wagner the werewolf” non ha legami con “The werewolf of London”,film il cui titolo fu parodiato da un altra pellicola degli anni 70 “The werewolf of Washington” un film satirico in cui un giovane dopo essere stato licantropizzato,diventa vincente e competitivo tanto da diventare vice-presidente di Reagan.

Postato giovedì, 1 luglio 2010 alle 19:00 da Francesco Moretta


No, non c’entra niente. Ho controllato la scheda del film su Imdb. Non c’è alcun romanzo all’origine.

Postato giovedì, 1 luglio 2010 alle 19:02 da Gianfranco Manfredi


Refuso: ho scritto Reagan quando invece si tratta di Nixon.
Comunque un altra delle prime apparizioni del licantropo è un racconto (di cui non ricordo il titolo,forse era “Il cacciatore dei monti Hartz” ma non ne sono sicuro) in cui l’uomo lupo è in realtà una donna lupo,un indiana che può mutarsi in lupo bianco.

Postato giovedì, 1 luglio 2010 alle 19:09 da Francesco Moretta


Ho letto un’appassionata recensione di The werewolf of Washington, nel librone di Welch Everman “Cult Horror Films”. L’ho ripresa in mano adesso per rinfrescarmela. Dice che l’uomo lupo di Washington “is more than just a spoof of such classic films as Werewolf of London and The Wolf Man”. Di più di una parodia, in che senso? E’ stato fatto all’epoca dello scandalo del Watergate. Certe battute fanno ridere perchè alludono allo scandalo. Il protagonista è il capo ufficio stampa del Presidente. Durante un viaggio in Ungheria viene morso da un uomo lupo e viene dunque contagiato. Così, preoccupato, va dallo psichiatra e gli raccomanda segretezza assoluta. Al che lo psichiatra commenta così: “Non c’è dubbio che la stampa ci inzupperebbe il pane nella vostra tragedia, cogliendo l’occasione per screditare il presidente.” Nel corso del film, il capo ufficio stampa, si trasforma sull’aereo presidenziale in volo e attacca il Presidente mentre questi è a colloquio con l’ambasciatore cinese. Non so come vada a finire perchè il film … mi manca, come si diceva all’epoca delle figurine. Tu l’hai visto, Francesco?

Postato giovedì, 1 luglio 2010 alle 19:14 da Gianfranco Manfredi


Sì è giusto. Il Presidente in gioco era Nixon… Reagan nel 1973 credo (non sono sicuro, ma quasi) fosse ancora Governatore della California.

Postato giovedì, 1 luglio 2010 alle 19:17 da Gianfranco Manfredi


No,sfortunatamente questa figurina licantropica manca anche a me,mi ero imbattuto in questa pellicola durante delle ricerche,ma per il momento non l’ho visto e non ne possiedo una copia.Se non mi sbaglio a parte pochi titoli come “Ginger Snap” il licantropo non ha avuto in tempi recenti una pellicola veramente riuscita. Il recente remake di “The Wolfman” poteva esserlo,ma con il cambio di regia abbiamo ottenuto l’ennesimo blockbuster,più godibile di altri ma lontano dall’essere un film con la F maiuscola sull’argomento.

Postato giovedì, 1 luglio 2010 alle 19:22 da Francesco Moretta


Mi ricordo che anche Alexandre Dumas effettuo delle incursioni nelle tematiche a noi care: “La bella vampirizzata” e “Il signore dei lupi”.
Il primo inizia come una storia di genere avventuroso con tanto di duelli e storia d’amore,per virare a metà verso la storia di vampiri.Il secondo si concentra su di un altra figura dell’immaginario fantastico medievale, il meneur des loups,il signore dei lupi,un uomo che ha la facoltà di comandare ai lupi (spesso ottenuta tramite un patto diabolico) e ne fa uso per compiere nefandezze di vario genere.(Il racconto però ha qualche elemento licantropico e di più non dico per evitare spoiler)
Entrambi sono stati pubbblicati dalla Newton e Compton nei volumi “Storie di vampiri” e “Storie di lupi mannari”.

Postato giovedì, 1 luglio 2010 alle 21:30 da Francesco Moretta


Tra le incursioni nell’horror di Dumas, va segnalato Orrore a Fontenay , tradotto in italiano negli anni 70 dalla casa editrice MEB forse ormai defunta, chissà… Il romanzo è ambientato nel periodo del Terrore (quello delle ghigliottine). Il retro di copertina recita in stile pulp: “Può una bocca, dal capo staccato dal corpo, dare un bacio al suo amore o un morso al suo assassino?”

Postato giovedì, 1 luglio 2010 alle 21:53 da Gianfranco Manfredi


Gianfranco, non so forse non si capiva dal mio scritto. Agli scrittori che ambientano Thriller in Italia, io consiglio un piccolo contesto quieto.

Postato venerdì, 2 luglio 2010 alle 00:20 da Monica Montanari


Beh, Gianfranco, secondo me in Mondadori sui vampiri si sono strutturati in ritardo, sennò non si sarebbero fatti sfuggire Twilight, così come con Harry Potter e su molta New Age,
Poi è chiaro che hanno il settore gialli :-)

Postato venerdì, 2 luglio 2010 alle 00:27 da Monica Montanari


La piccola MEB (ricordata da Manfredi) negli anni Settanta pubblicò molti libri di grande livello: ad esempio le splendide antologie di Clark Ashton Smith, uno degli scrittori macabri più originali che esistano.
Sulla “noia nei testi narrativi”, vorrei insistere perchè mi pare un tema molto interessante. Tra l’altro cruciale per l’horror. Se infatti la “noia” è un nemico acerrimo per QUALSIASI romanzo o racconto (ma pure per i saggi, le poesie, i fumetti e ogni altra attività umana….però affrontare la noia da bambini e da ragazzini è un’esperienza formativa perchè ci spinge a trovare strategie per sconfiggerla), la noia è (per un’opera thrilling) una spietata assassina che lascia solo i putrescenti brandelli di ciò che ha trovato.
Se posso andare avanti a leggere un romanzo mainstream a tratti noioso (anche se “noioso” è un termine assai vago e soggettivo), non farò altrettanto con un romanzo che si autoproclama “avvincente”. Insomma: ciò che perdono a Marcel Proust non lo perdono alla (per fare due soli esempi) “Mappa di pietra” di James Rollins o “Niente di vero tranne gli occhi” di Giorgio Faletti, scritti in modo ab/ominevole.
Perchè il punto centrale resta (alla fin fine) sempre quello: ciò che conta davvero non è solo la storia narrata ma la voce e l’anima di chi la racconta, le sue pause, i suoi ritmi, le sue coloriture, i suoi silenzi, le sue allusioni, le sue reticenze, i suoi indugi, le sue ambiguità, il suo o i suoi punti di vista, la vita che sa dare ai propri materiali.
Ecco allora che trame appassionanti “in potenza” si afflosciano in una informe poltiglia se messe nelle mani di autori incapaci di renderle vitali, mentre storie apparentemente insignificanti oppure viste e riviste divengono entusiasmanti se raccontate da autori vivi.
Per restare alla Recherche: Swann che attende Odette fuori dal teatro, tormentandosi di gelosia, è una situazione usata e abusata eppure Proust la rende satura di suspense e di profondità.
Mentre negli ultimi film di Dario Argento, situazione che potrebbero essere colme di tensione diventano ridicole e/o noiose perchè l’autore non sa utilizzarle.

Postato venerdì, 2 luglio 2010 alle 11:13 da luciano / idefix


@ Monica. Evidentemente c’è stato un equivoco. Nasce dal fatto che certi termini anglosassoni che definiscono i generi (thriller, mystery, horror, Goth, splatter ecc.) e che in lingua originale circoscrivono degli ambiti letterari di genere in modo estremamente preciso (e ulteriormente suddiviso in sotto generi, come benissimo ha documentato Alan Altieri nel contributo che appare in testa a questo blog vampirico) noi invece li usiamo in senso lato e mescolando con una certa disinvoltura cose assai diverse. Camilleri scrive un poliziesco classico che più classico non si può. E’ stato sicuramente influenzato dal fatto di essere stato autore della trasposizione italiana di Maigret (prototipo del commissario “sociale”). E’ pienamente nel solco di quella tradizione italiana del giallo d’autore che a differenza del giallo enigmistico anglosassone, ha sempre stabilito una relazione tra indagine poliziesca e indagine sui costumi cittadini ( la Milano di Scerbanenco, la Torino di Fruttero e Lucentini, la Palermo di Sciascia, la Roma di Gadda) e che in tempi più recenti è tornata (come ai tempi di Piero Chiara) ad occuparsi della provincia italiana , a partire dai grandi centri (la Bologna di Lucarelli, la Padova di Carlotto) fino ai piccoli e piccolissimi, che consentono di “misurare” il grado di penetrazione del comportamento criminale nel profondo della società italiana. Tutto ciò non ha nulla a che fare con il thriller. Il thriller internazionale (quello spionistico alla Grisham, o quello complottistico alla Brown) si muove su scenari mondiali, continuamente dislocato, dispiega tecniche investigative raffinatissime, è fondato su una documentazione scrupolosissima che comporta la collaborazione di stuoli di esperti. Faletti può piacere oppure no, però gli va riconosciuto d’essersi scostato dal modello classico all’italiana , perché i suoi autori di riferimento appartengono al thriller, non a quello che noi definiamo “giallo”. Jeffrey Deaver per dirne uno, definito dal Times a torto o a ragione “il più grande scrittore di thriller dei giorni nostri”. In questi romanzi prevale l’elemento della caccia all’assassino inafferrabile, non perchè non si sappia chi sia, ma perché non si sa come prenderlo: è astuto, ha complicità ad alti livelli, gode di coperture e di mezzi finanziari, si sposta di continuo, perennemente “dislocato”. La tensione è costruita sul ritmo dei delitti e sull’azione di chi dovrebbe/vorrebbe fermarlo, ma arriva sempre in ritardo. Di conseguenza gli scenari si spostano di continuo. L’indagine sociale si appanna a favore di quella professionale : tutti sono professionisti al massimo livello, tanto gli investigatori, quanto l’assassino. Il thriller è dunque assai diverso anche dal noir, che di solito mette in scena non-professionisti, bensì persone comuni coinvolte e travolte da trame e situazioni che non sono all’altezza di affrontare.

Postato venerdì, 2 luglio 2010 alle 12:45 da Gianfranco Manfredi


La definizione dei generi può apparire questione puramente tecnica, ma non è così, perché i diversi generi e sottogeneri implicano diversi punti di vista e diversi obiettivi narrativi. Nel giallo sociale-locale, la vita quotidiana della città piccola o grande, le relazioni tra le persone, lo stesso modo di parlare, non sono mera cornice di un meccanismo-giallo. Sono il vero oggetto della narrazione. Di più: l’indagine vera a propria e la scoperta dell’assassino non spesso un pretesto per narrare il costume civile, le ipocrisie, i loschi intrecci che si nascondono sotto la normalità. Il vecchio giallo in cui il commissario o l’investigatore punendo l’assassino restauravano l’ordine sociale, è tramontato da decenni. Il commissario , soprattutto quando è “buono” e consapevole, arresta l’assassino, ma sa benissimo che la società resterà quella che è, cioè marcia. Questa società locale, non è la cornice del racconto, è invece il centro della rappresentazione. Il thriller evoca un altro scenario: quello del delirio di onnipotenza, di tutti (supercriminali e superprofessionisti) , vittime di una sindrome del controllo che scatena paranoie emergenziali, complotti ai limiti dell’insensato. Qui il “locale” è del tutto provvisorio e ha sì la funzione di puro scenario: Parigi, Rio, Miami, Roma piuttosto che la Montecarlo di Faletti, sono tappe cartolinesche di un’avventura di caccia all’uomo molto simile a quella dei film di James Bond. Il centro “filosofico” del racconto, ripeto, è il delirio di potenza. Come ha ben sintetizzato Faletti: “Io sono Dio” (Poi si può discutere sui risultati narrativi, ma questo è un altro problema). Del noir si racconta invece il mondo dal punto di vista dei disperati, che non sono affatto “liberi” perché in lotta con un destino non scritto da loro, un fato del tutto tragico. Il lieto fine non è la vittoria, ma la sopravvivenza. Qui “i buoni” latitano: i poliziotti sono sbirri, i veri criminali assassini efferati, i piccoli criminali si sbattono per sopravvivere come dei naufraghi che non sanno nuotare e non possono nutrire motivazioni etiche e morali, né speranze di riscatto, l’unica loro speranza è riuscire a sopravvivere. Ecco dunque che sotto una ripartizione/classificazione apparentemente tecnica (cui corrispondono anche tecniche diverse di racconto) si nascondono (e nemmeno tanto) filosofie diverse, scelte distinte di “punto di vista”, modi diversi di intendere e di esprimere la realtà . Il “come” si racconta, non può mai essere disgiunto dal “cosa si vuole raccontare”. Stabilito questo, poi un autore può scegliere di incrociare i punti di vista, di contaminare i generi, di alterarli profondamente. In “Non è un paese per vecchi” Cormac McCarthy ci mostra un poliziotto locale, esperto di luoghi e persone, ma non a caso smarrito perché il vecchio “locale” cui era abituato si è frammentato fino ad apparire quasi irriconoscibile, e un superkiller che non si sa da dove viene, né per chi lavora, non si capisce quanto sia lucido e quanto sia schizzato, di certo non si ritiene parte e non è parte di alcun consesso, né sociale, né professionale. Una specie di variabile impazzita, che emerge sinistramente come “nuova regola”. Più che confidare di fermare il superkiller, il buon poliziotto locale spera di salvare un piccolo criminale d’occasione che non sa in quale pasticcio si è messo (tipica figura da noir). In questo romanzo, dunque, McCarthy incrocia tre generi differenti, costruendo un extra-genere (più che um meta-genere) che non si sa come prendere, ma che non si può certo dire sia passato inosservato.

Postato venerdì, 2 luglio 2010 alle 14:22 da Gianfranco Manfredi


Il titolo rappresenta magnificamente un’ambivalenza di contenuto. “Non è un paese per vecchi” può essere inteso al contempo come: qui, da sempre, si muore giovani; oppure come: qui un vecchio non riesce più a capire come vanno le cose. Il titolo dunque ha l’effetto di muovere il pensiero. Non si accontenta di una definizione facile e univoca. Fa un’asserzione. Ma il compito di svelarne il senso e di penetrarne le ambiguità viene lasciato al lettore.

Postato venerdì, 2 luglio 2010 alle 16:00 da Gianfranco Manfredi


Cito Luciano:
«Se posso andare avanti a leggere un romanzo mainstream a tratti noioso (anche se “noioso” è un termine assai vago e soggettivo), non farò altrettanto con un romanzo che si autoproclama “avvincente”. Insomma: ciò che perdono a Marcel Proust non lo perdono alla (per fare due soli esempi) “Mappa di pietra” di James Rollins o “Niente di vero tranne gli occhi” di Giorgio Faletti, scritti in modo ab/ominevole.» Parole sante. L’ho detto no? Di occuparmi solo di fuffa.

Ecco, parliamo di Scerbanenco, Gianfranco, hai fatto un’ottimo esempio che mette in crisi la mia teoria del contesto chiuso. Scerbanenco è bellissimo. Però da un canto mi sembra di ricordare che i suoi siano perlopiù noir, dove, da tua definizione, l’indagatore è coinvolto in prima persona. Ma anche se non si trattasse di noir, secondo te la Milano di Scerbanenko non è come una stanza buia e silente, dove tutto è immoto?

Sì Ghrisham e quel cazzone di Dan Brown fanno cadere la mia teoria, ma loro la visione anglosassone se la portano dentro. Non vedi come sono asciutti i personaggi e le emozioni? Io dico che se dovessimo oggi inventarci una storia suspance nell’estate italiana, con cronache in provenienza dalla Costa Smeralda, finremmo col piangerci addosso come sempre con un protagonista che suda in un troppo piccolo appartamento di Milano bombardato di cazzate televisive sull’ultimo assessore che fatto di coca ha arringato nudo una folla immaginaria dal balcone (notizia vera di ieri), annegherebbe in una birra presa al Lidl mentre, alla stronza che si è fatta ammazzare al piano di sotto, non baderebbe proprio nessuno. :-)
Se invece pensiamo ad un prosciuttificio di paese, sul punto di serrare i battenti per le ferie dove un tizio viene trovato appeso a un gancio, squartato come uno dei maiaili penzolanti in fila accanto a lui… Io dico che questo parte molto meglio per creare paura.

Pensa che secondo me Deaver, è sprecato sul Thriller, ha fatto un quadro dei gangsta in “L’ultimo copione di John Pellam” che è mainstream ma di quelli buoni.

Sì molto bello “Non è un paese per vecchi”, io ho in testa come progetto editoriale il genere tramontato da un pezzo :-) rivitalizzato dall’elemento mortifero paranormale.

Com’è andata l’intervista?

Postato venerdì, 2 luglio 2010 alle 18:37 da Monica Montanari


Cara Monica, le interviste vanno più o meno sempre nello stesso modo. Converrebbe segnarsi le risposte migliori e ripetere sempre le stesse. Io cerco di cambiare per sconfiggere la monotonia, ma in certi periodi passo più tempo a rispondere a interviste (ne arrivano a decine on line) che a scrivere. Ecco perchè in questo momento posso dedicare tempo a questo blog, è un momento di interviste scarse (come numero, voglio dire). Scerbanenco (ci risiamo con le definizioni all’italiana, ma non è colpa tua, è l’uso) non è un autore noir. La definizione “noir” è nata in Francia ed è stata resa popolare dalla collana Noir della Gallimard. Gli autori che la contraddistinguevano venivano in realtà dal mondo anglosassone. Alcuni, come David Goodis di “non sparate sul Pianista” (da cui Truffaut trasse un film) oppure il Cain de “Il postino suona sempre due volte”, erano considerati in patria autori hard boiled. L’inglese Hadley Chase (autore tra l’altro di “Niente orchidee per Miss Blandish”) che imitava i modi dell’hard boiled americano, anche se con una sua originalità, divenne il vessillo del Noir francese. Nel Noir non solo sparisce il Commissario, ma sparisce anche l’investigatore. L’avventura tipo è quella del delinquentello che finisce in un guaio allucinante, braccato sia dagli sbirri che da criminali molto più spietati di lui. L’azione è serratissima e ben poco prevedibile perché continuamente segnata da colpi di scena che hanno a che fare con l’imprevedibilità del caso (colpi preparati minuziosamente e poi per un nonnulla va tutto a catafascio). Ho appena visto Olanda-Brasile. Colpi di scena a raffica, imprevedibilità assoluta, piccoli eventi casuali che determinano svolte , ribaltamenti, collassi emotivi. Il copione della realtà non è scritto prima. Il più delle volte non accade niente e ci si rompe… qualche volta accade di tutto e nulla è prevedibile. Alla fine, nelle spiegazioni, la partita valutata sulla base del risultato, rivela una sua dinamica interna, una sua logica, ma nelle spiegazioni resta inevitabilmente un che di appiccicato. Lo spettacolo dello sport è avvincente narrativamente e così popolare, per i momento di suspense e di sorpresa autentica che sa creare. Anche se non tifi per nessuna delle due squadre e ti vedi la partita tranquillamente, scopri che deambuli, in certi momenti, e che ti fumi anche le dita. Ecco… i noir ben riusciti risultano coerenti e rigorosi solo alla fine, quando si sono conclusi. Mentre li leggi ti trascinano nel territorio del “tutto può accadere” che sottintende, però, “nulla (o quasi) di ciò che ti aspetti accadrà”. Anche il grande horror scommette su questo effetto di sorpresa emotiva… uno non può inorridire di fronte al prevedibile, perché lo conosce già, tantomeno può terrorizzarsi, A proposito, gli anglosassoni distinguono sempre tra Terror e Horror, il primo è “no… per carità, nooo” però vai avanti a leggere, il secondo è “dioo che schifooo” e ormai purtroppo hai letto: mia figlia quindicenne leggendo un romanzo di Palhaniuk (sì, dopo la Meyer è passata a Palhaniuk, gli adolescenti non si fermano mai) ha avuto uno svenimento dopo aver letto di un tipo che caga i suoi intestini. Sì è ovviamente ripresa e ne ha riso (sono esperienze che servono), ma un po’ smarrita è restata, D’altra parte un autore che si propone di sconvolgere, deve pur farlo il suo mestiere. In conclusione… se la letteratura di massa riuscisse anche in minima parte a “mimare” quel genere di imprevedibilità che a volte il calcio riesce a regalarci in diretta, beh forse ci sarebbero più lettori e un pochino meno spettatori di calcio in TV (stante che la maggioranza delle partite sono una palla micidiale).

Postato venerdì, 2 luglio 2010 alle 19:57 da Gianfranco Manfredi


Il finale del capolavoro noir “La fiamma del peccato” di Cain, è diverso da quello del film (di Billy Wilder, mica di pinco!). Nel romanzo, i due amanti omicidi sono riusciti a fuggire via mare, anche se lui è ferito. Apparentemente ce l’hanno fatta. Sono sfiniti e smarriti. In uno dei loro ultimi dialoghi, lei dice: “Potremmo sposarci, Walter” Lui risponde “Sì, e poi?”. Poco dopo, lei ripensa al marito che ha ucciso e fatto uccidere, l’uomo che aveva sempre odiato e di cui ha voluto con tutta se stessa liberarsi, di colpo lo chiama “il mio sposo” e si rende conto che è “Il solo che io abbia mai amato.” Esprime un proposito suicida. Si getterà dalla nave, che naviga in un mare infestato dagli squali. Lui decide di buttarsi con lei. “Non ci rimane altro, no?” Passeggiano sul ponte, intravedono le pinne degli squali. Decidono di aspettare la luna. A lui intanto è ripresa l’emorragia interna. Torna in cabina e scrive le sue ultime righe (sta scrivendo il romanzo stesso). Lei è in camera sua a prepararsi, poi entra… il finale lo riporto perché è troppo bello: “Si è fatta una faccia bianca come il gesso, con dei circoli neri intorno agli occhi e le labbra e i pomelli rossi. Si è avvolta in quell’orribile manto… un quadrato enorme di seta scarlatta. Ma non ci sono buchi per le braccia e per le mani, quando le muove ne escono come dei moncherini. Sembra quella “cosa” che nel poema di Coleridge sali a bordo per giocarsi ai dadi l’anima del Vecchio Marinaio. Sta spuntando la luna.” FINE. Si sono buttati o no? Forse sì, con ogni probabilità sì, tutto indica di sì… ma Cain non lo scrive (l’io narrante non potrebbe nemmeno scriverlo , a meno che non fosse un io narrante fantasma). Così Cain ci lascia persino alla fine con il fiato sospeso. Chapeau!

Postato venerdì, 2 luglio 2010 alle 20:24 da Gianfranco Manfredi


Solidarizzo con tua figlia, anche io sono sotto shoc alla semplice citazione della cosa degli intenstini :-(

Sulla fiamma del destino non ti seguo, a proposito di barche e di sceneggiature, preferisco la Regina d’africa. Il fatto è che sei un maschio, hai un’immaginario tutto diverso. Lo vedo con mio marito, lui sparebbe in testa a tutte le vecchiette cinematografiche che io adoro da Tina Pica alla Dame May Whitty di “La signora scompare” del 38, l’ho rivisto in questi giorni. Deve essere terrorizzato dall’archetipo della Babuska :-)

Postato venerdì, 2 luglio 2010 alle 23:05 da Monica Montanari


Sai che faccio copio e incollo queste tue dissertazioni sui generi e li metto ai DOCkS, a tua firma naturalmente.

Postato venerdì, 2 luglio 2010 alle 23:07 da Monica Montanari


Oh My God! Non sapevo che l’immaginario si distinguesse per sesso. Peraltro Barbara Stanwick (interprete de la Fiamma del Peccato) e Katherine Hepburn (interprete della Regina d’Africa) sono entrambe le maggiori icone femministe del cinema di quell’epoca. Tina Pica, Margareth Rutheford e altre adorabili vecchiette dello schermo sono sempre state ai vertici del mio gradimento, anche se ben superiore al divertimento procurato da queste, è l’emozione horror che danno Joan Crawford e Bette Davis in “Che fine ha fatto Baby Jane?”. Quello è un vero horror… quando l’invalida Joan scoperchia il vassoio che le ha servito l’amabile sorellina Bette e vede cosa c’è sotto… ecco il : oh nooo! Che schifooo! Ma ormai lo si è visto.

Postato sabato, 3 luglio 2010 alle 11:55 da Gianfranco Manfredi


IL DIAVOLO, QUESTO SCONOSCIUTO

Cari amici orrorofili, ieri sera mi sono rivisto Night of the Demon di Jacques Tourneur che insieme a l’Esorcista e a Rosemary’s Baby è uno dei più bei film dedicati al diavolo. Mi è venuto in mente, a quel punto, che qui del Diavolo abbiamo parlato tutto sommato poco. Come mai? Anche nel contesto del cinema horror, quello che mette in scena il Diavolo, bisogna ammetterlo, è un sottogenere di non particolare appeal a meno che non si tratti di capolavori. Anche nella narrativa Horror, i romanzi con il Diavolo diciamocelo francamente, sono spesso scadenti. Mephistovalzer di Stewart è stato sicuramente un grande romanzo, ma lì più che il Diavolo stesso era protagonista la musica, come anche nel Diavolo sul Campanile di Poe. Persino un supercapolavoro letterario come il Dottor Faust di Goethe, ai lettori contemporanei risulta, se non datato, assai poco inquietante. Sarà che il Diavolo è morto? Si sa che a Satana non solo i laici, ma anche molti religiosi , non credono più. Questo dal punto di vista dell’horror non dovrebbe significare molto, perchè anche ai vampiri e ai licantropi non ci si crede, però ci appassionano egualmente. Forse, dico forse, ma sottopongo la questione al vostro giudizio, inconsciamente pesa su di noi un fatto storico. Per due secoli almeno i trattati di Demonologia hanno dettato banco tra i bestseller, conoscendo una sempre maggior diffusione a partire dall’invenzione della stampa. Senonché la Demonologia si è resa corresponsabile di uno spaventoso Olocausto: la persecuzione/massacro delle Streghe. L’uscita dai “secoli oscuri” ha ucciso la demonologia. Due secoli di bestseller sono stati cancellati. Quei trattati, da allora in poi, sono diventati illeggibili, non perché siano vietati o perché siano stati bruciati, ma semplicemente perché a nessuno è più venuto in mente di leggerli. L’allucinante strage delle innocenti perpetrata in Europa e non solo per secoli, ha causato nelle coscienze una comprensibile ripulsa che si è estesa alla figura del Diavolo. Non possiamo più prendere sul serio il Diavolo, perché non possiamo in alcun modo giustificare l’ideologia della “demonizzazione” che presiedeva ai cosiddetti “processi” delle cosiddette Streghe. Non è per questo scomparso, dalle nostre coscienze, il tema del Male, però ci risulta intollerabile personificarlo in una Divinità Malvagia. O sbaglio?

Postato sabato, 3 luglio 2010 alle 12:28 da Gianfranco Manfredi


Mi viene anche in mente che il Manzoni nei Promessi Sposi depura il cattolicesimo secentesco dall’idea del Diavolo, risciacquandolo nell’Arno del Laicismo: il lato maledetto della religione viene cancellato da quello provvidenziale (dopodiché uno si domanda quale Provvidenza sia quella che usa la peste per riavvicinare due promessi sposi). Il ben più laico Dante, invece, al Diavolo spazio ne aveva dato, eccome. Eppure nelle lecturae dantis (incluse quelle di Benigni) tra i canti dell’Inferno, quello che riguarda il Signore e Padrone dell’Inferno e delle Anime Dannate e delle schiere di demoni minori, è il più trascurato. Perché? Aggiungeteci che gli esperti segnalano unanimemente che soprattutto in Italia, un romanzo o un saggio che abbia per argomento il Diavolo, è destinato a sicuro insuccesso. Ora si sa… quando gli esperti pronunciano una sentenza all’unanimità , per ciò stesso viene da dubitarne… però qualcosa di vero c’è. Il Diavolo , la figura del diavolo, ci suscita più che un “sacro timore”, un “fastidio della ragione”. Sbaglio?

Postato sabato, 3 luglio 2010 alle 13:44 da Gianfranco Manfredi


A proposito del Diavolo (notazione non letteraria). Mick Jagger ha assistito sinora a tre partite dei Mondiali di Calcio: a quella persona dagli USA (di cui si era detto tifoso), a quella persa dall’Inghilterra (di cui era tifoso obbligato) e a quella persa dal Brasile (di cui si è detto tifoso lui e sua figlia… Reagan?). Le squadre qualificate pare stiano organizzando cordoni di sicurezza per impedire a Jagger di sedersi in tribuna e proclamarsi loro tifoso. Tempi duri per il Diavolo!

Postato sabato, 3 luglio 2010 alle 15:10 da Gianfranco Manfredi


Ho scritto “persona” dagli Usa… ohibò, i refusi! Che la “persona” sia proprio una sconfitta al quadrato?

Postato sabato, 3 luglio 2010 alle 15:12 da Gianfranco Manfredi


Secondo me in Italia col diavolo ci si regola come con il “brutto male”: meglio non parlarne e tantomeno leggerne. Sono d’accordo anche io che un libro sul diavolo non venderebbe. Alla fine i libri di demonologia hanno messo i loro lettori a servizio del diavolo.
Per vendere un libro sul demonio in Italia bisognerebbe farne un libro sul potere.
Ho presente bene “che fine ha fatto baby Jane”, francamente non ricordo cosa bette Davies serve nel vassoio a Joan Crowford; ricordo l’incredibile Bette Davies vestita da shirley temple. Ricordo i suoi occhi, l’incredibile bianco e nero (per lo meno, io lo ricordo in bianco e nero). La scena surreale sulla sabbia, forse l’unica scena di bagnanti ordinari del cinema americano, ricordo come quel contesto, il più solare e rasserenante che ci sia, fosse stravolto al punto da far sentire la scena come avvolta da una sospensione temporale: con una sorella che sta morendo, l’altra che vaga in preda alla pazzia e la folla vicina e infinitamente lontana…

Postato sabato, 3 luglio 2010 alle 16:22 da Monica Montanari


Sì, un film meraviglioso. Non ti dico cosa c’era nel piatto, non per sadismo, ma per comprensione. Se l’hai rimosso un motivo ci sarà. “Cosa c’è nel piatto” è un tormentone angoscioso che nel film si ripete per tre volte. Condivido però che la scena più agghiacciante, che solo una grandissima attrice poteva interpretare è quella in cui Betty Davis canta “My heart belong to daddy” vestita da Shirley Temple. Lì si cita la Swanson di “viale del tramonto” che, anziana e squilibrata, pretende da uno sceneggiatore che le vengano scritti ruoli da vamp (Salomé). La Davis fa un passo in più e resta bloccata non alla fase della femminilità sex-symbol, ma a quella della “bambina prodigio”. E sul finale va a prendersi un gelato sulla spiaggia dove la sorella fa le sabbiature (da morta). Dov’è finito quel cinema americano così poco consolatorio?

Postato sabato, 3 luglio 2010 alle 16:58 da Gianfranco Manfredi


Personalmente mi risulta difficile credere alla concezione cattolica del diavolo perchè ho sempre visto il male come qualcosa di interno all’uomo,non come un entita esterna ad esso.L’idea del male come esterno all’uomo mi è sempre sembrato una scusante,un non voler ammetere l’esistenza degli impulsi peggiori della nostra specie come parte integrante della psiche.Sulla figura del diavolo ho sempre amato Devilman di Go Nagai,che fornisce una spiegazione antropologica ai demoni immaginandoli come una specie antecedente a quella umana e creando cosi una sortadi cosmogonia rovesciata in cui Dio è arrogante e no tanto perfetto e gli uomini stessi si dimostrano peggiori del diavolo.
Ricordo con immenso piacere “Il signore del male” originale e claustrofobica rilettura fantascientifica del maligno e i telefilm di Joss Whedon in cui di demoni e popoli demoniaci con le loro usanze ne compaiono centinaia.

Postato sabato, 3 luglio 2010 alle 19:47 da Francesco Moretta


“sorta di”,”non tanto perfetto” ho seminato l’ennesimo refuso scusate.
Sul diavolo però ricordo anche il Lucifero creato da Gaiman in “Sandman” che stufo del suo ruolo arriva ad abdicare ed abbandona gli inferi,il primo dei caduti creato da Garth Ennis per la sua run di “Hellblazer” (Il primo essere vivente creato da Dio è spedito negli inferi prima di Lucifero perchè rifiuto di farsi battezzare da Adamo e di obbedirgli) ed infine gli inferni burocratici gestiti da un diavolo bicefalo che Sclavi creò per “Dylan Dog”,inferni in cui si finisce non per meriti e colpe ma per pura casualità e che variano da assurdi incubi surreali ad autentiche bolge.

Postato sabato, 3 luglio 2010 alle 19:54 da Francesco Moretta


A proposito di film americani “strani”, mi viene in mente una pellicola che trovo terrificante (“Improvvisamente l’estate scorsa” di Mankiewitz): ha varie ingenuità sul piano psicanalitico ma quando vira sul turgidissimo melodramma con tanto di truculenti flash-back e di deliranti scenografie, secondo me andiamo verso i confini del macabro e dell’inquietante. Che il cinema “mainstream” non frequenta più da troppo tempo.
Ho apprezzato molto che Manfredi abbia ricordato (come esempio di spettacolo DAVVERO imprevedibile, di copione SUL SERIO mozzafiato) una partita di calcio. Ha usato la recentissima Brasile-Olanda 1-2 (io tifavo per i secondi), ma avrebbe potuto citare decine e decine di altri esempi. Tutti frutto della realtà ma “scritti” in maniera eccezionalmente abile.
Come ieri sera: Uruguay-Ghana. Allena la prima un vero hidalgo, hombre vertical come Oscar Tabarez, colto, elegante, di sinistra. Ma come tifare per loro se di là ci sono i neri africani? Unici rimasti del continente? E la partita…chi è lo sceneggiatore che ha scritto il copione? Al 120° rigore per i ghanesi, se segnano è fatta. Traversa. Si va ai rigori. Passa l’Uruguay. La disperazione nera è più forte della gioia dell’hombre vertical.
Non è suspense questa?
E oggi? Argentina-Germania?
Tanto amo gli scrittori argentini (il MIO adoratissimo Julio Cortazar, Borges, Sabato, Piug, Guiraldes (quello di Segundo Ombre), i fumettari Oesterheld e Trillo e Wood, quanto mi sta sulle balle la nazionale (fin dai tempi degli orridi Mondiali 1978 a Buenos Aires, quelli vinti in casa, con la sanguinaria dittatura fascista).
Per non parlare di Diego Armando Maradona (grande giocatore ma con guizzi scorrettissimi…il gol di mano agli inglesi nel 1986…e uomo dis/educativo come pochi): amico di camorristi, volgarità arricchita ed esibita, bigotto e superstizioso, pessimo esempio del peggior populismo plebeo, non a caso piace a tremendi tromboni come Sepulveda, Kusturica e Oliver Stone.
E ora, come tecnico, Maradona s’è dimostrato un presentuoso e arrogante disastro: lasciati a casa Zanetti e Cambiasso ed Elme e Alguero, fuori un difensore roccioso come Samuel, in panchina un attacccante letale come Milito, difesa scoperta, si è vestito come un boss mafioso (con tanto di rosario scaramantico in mano) e ha gestito la partita in modo sciagurato, mandando la propria squadra al massacro contro la Germania. Che mi piace tantissimo: giovane (24 anni di età media), multietnica, solida ma anche bella da vedere, veloce e ariosa, varia e spettacolare, con giocatori capaci di far tutto.
Ma che sceneggiatore poteva azzardarsi a scrivere quello zero a quattro finale per i tedeschi?
E allora butto una oscena domanda: com’è che (soprattutto nello sport, e nel calcio in particolare…sport narrativo quant’altri mai) tante storie sono così avvincenti, imprevedibili e ben riuscite?
Forse perchè (azzardo una blasfema risposta) non le scrive a tavolino nessun essere umano?

Postato sabato, 3 luglio 2010 alle 20:05 da luciano / idefix


E la sequenza dei rigori in Paraguay-Spagna pochi minuti fa?
Chi saprebbe scrivere una scena del genere?
Quiondicesimo del secondo tempo, ancora 0-0.
Rigore per il Paraguay (nettamente la squadra sfavorita).
Parato, sempre zero a zero.
Capovolgimento di fronte: rigore per la Spagna.
Gol.
L’arbitro fa ripetere.
Il portiere para.

Postato sabato, 3 luglio 2010 alle 21:55 da luciano / idefix


Senti Gianfranco su Wikipedia c’è scritto che la tizia mette un topo sul vassoio, io tra l’altro non ho particolari problemi coi topi, quando mi sono trasferita in campagna e stavo ristrutturando casa, vivevamo praticamente accampati. Il casolare era pieno di topi, uno in particolare era rimasto scioccato nello vedere che mi ero accorta di lui ma non avevo mosso un dito. La curiosità del topo era talmente tanta che aveva cominciato a girare intorno alla mia poltrona di forutna cercando di avvicinarsi. Quando si avviciniva troppo dovevo battere le mani per allontanarlo. Guardavo Bruno Vespa in una tv francobollo, seduta sulla sedia a sdraio e ovviamente mi sono addormentata.
Quando ho aperto un occhio ho scoperto che sulle mani incriociate sulla pancia dormiva anche il topolino.
Non saprei dire perché non ricordo l’episodio del topo, magari ero andata a fare la pipì.

Beh non è che sto scrittore non umano scriva sempre grandi plot, Luciano, ricordo quando perdemmo la finale degli europei contro la Francia per un gol segnato nell’ultimo minuto di recupero. Altro che zona Cesarini! Un finale che non mi ha divertito affatto!

Postato domenica, 4 luglio 2010 alle 02:46 da Monica Montanari


Non ho un ricordo perfetto del film Baby Jane, ma mi risulta che prima del topo morto, Jane metta sul vassoio della sorella l’adorato canarino (morto, ovviamente). La seconda volta, la sorella non osa scoperchiare il vassoio. Peggio per lei perché il pasto era regolare. Così resta affamata. La terza volta, si decide a scoperchiare e trova il topo. Sul topo… indubbiamente è un protagonista da sempre dell’horror (Herbert scrisse un bellissimo romanzo: Rats, e certo ricorderete il film: Willard e i topi) . Una sera chiacchierando di topi con Bonvi (il grande disegnatore) che già all’epoca (anni 80) cominciava ad usare il computer per l’elaborazione grafica dei disegni, lui disse: “Mickey Mouse non lo crea il computer”. Intendeva dire che il computer può essere un importante ausilio, però non gli si possono chiedere contributi creativi. Le macchina funzionano, gli esseri umani creano. Agli esseri umani non basta chiedere di “funzionare”, perché sarebbe limitativo. Questo dovremmo sempre tenerlo tutti a mente. Bonvi parlava da grafico, perchè l’invenzione di Disney del topino simpatico, dal punto di vista grafico era un capolavoro e altrettanto geniali le soluzioni prospettate (sembra facile, ma non é facile affatto disegnare quelle orecchie di 3/4, ad esempio, non basta un approccio realistico, bisogna inventare una soluzione grafica) . Altrettanto geniale, da parte di Disney, l’idea di disegnare le mani dei personaggi con sole quattro dita. La cosa, ovviamente, non esiste in natura, ma graficamente le mani sono una delle cose più difficili da disegnare, le quattro dita invece di cinque, lo rendono più semplice e al contempo espressivo. Mentre Bonvi mi elencava queste brillanti soluzioni tecniche, io pensavo (da scrittore) a un elemento di contenuto. La genialità di Disney è stata anche quella di fare diventare eroe e protagonista dei fumetti un TOPO. Il topo ha sempre fatto schifo, prima di Disney. Gli animali domestici (gatto/cane/canarino) suscitano simpatia, il topo , soprattutto quando è domestico, lo si scaccia. Nessuno abiterebbe tranquillo in una casa infestata dai topi. Il topo è il compagno dei poveri.
Mickey Mouse è per certi versi lo Charlot dei cartoni animati. La scelta del topo, come quella del vagabondo/barbone, sono scelte “popolari” nel senso di “vicine al popolo”, non in quello dell’adeguamento allo stereotipo del simpatico perché fascinoso, elegante, dandy e ricco. Qui c’è uno spartiacque e un artista consapevole deve decidere da che parte stare. Anche questo genere di scelte non può farle un computer.

Postato domenica, 4 luglio 2010 alle 12:51 da Gianfranco Manfredi


Riguardo all’imprevedibilità del calcio e al fascino della TV in diretta (non è stato epocale e irriproducibile l’attacco alle Torri Gemelle in diretta TV?) , segnala agli scrittori un problema e insieme un ritardo. Restiamo al calcio. Si sa che ha avuto sempre un pubblico prevalentemente maschile, ma da qualche anno le donne che lo vedono sono sempre di più, anche sugli spalti, e come si nota dalle riprese TV, non sono più semplici “accompagnatrici” dei loro fidanzati: ci sono interi gruppi di amiche che vanno allo stadio da sole. Si godono lo spettacolo da un doppio punto di vista : quello (conosciuto ai maschi) del gioco e quello (sconosciuto ai maschi) dello spettacolo dei corpi (dei calciatori). I calciatori sono diventati per larghe masse di ragazze, ciò che per i maschietti sono sempre state le ballerine (con la differenza non da poco che il calciatore è ricco, la ballerina in genere no, e dunque il primo si può anche sognare di sposarlo, mentre la seconda tranne rare eccezioni resterà confinata nel ruolo dell’amante auspicata). Comunque sia, le dinamiche narrative di una partita di calcio, mettono a dura prova la cosiddetta narrativa da colpo di scena e l’action. Effetto non nuovo. Negli anni 70 il cinema erotico cominciò a scricchiolare e poi crollò sotto un duplice effetto: da un lato era nato il porno e più in generale il live-sex-show , dall’altro la liberazione sessuale aveva reso il sesso sublimato e immaginato assai meno seducente di quello praticato (in parole povere: nessuna lettura erotica vale una sana scopata). Temo dunque che l’action in tutte le sue varianti, oggi, soprattutto quando funziona come una macchina inesorabile, sia destinato a non funzionare più, in confronto allo spettacolo dell’andamento reale dei fatti, funzionante emotivamente, perché imprevedibile. Tutti gli esperti si chiedono come mai ci sia un calo drammatico di lettori maschi. Oggi in USA (e non solo) i lettori sono all’80% lettrici. Persino generi letterari in passato tradizionalmente maschili, oggi sono letti dalle donne. Le donne sono più colte, curiose e disponibili, si sa… però come mai i maschi non leggono più? Forse uno degli elementi in gioco é lo scarso appeal dell’azione simulata della fiction rispetto all’azione sportiva che riserva ben maggiori colpi di scena e anche la messa in scena di azioni irrisolte, fallite, di errori pazzeschi alternati a giocate “miracolose”. Il noir classico (quello battezzato così in Francia) su queste componenti imprevedibili lavorava moltissimo. Si leggeva senza poter minimamente prevedere dove sarebbe andata a parare la storia, perché l’imprevedibile era in agguato in ogni pagina. In questo aiutava molto il fatto che il mondo, il tipo di realtà che si raccontava, era sconosciuta al lettore, taciuta persino dagli altri media. Segnalo la recensione di Maurizio Bono apparsa su D donna a proposito di un grande del noir francese da poco riscoperto: André Helena (Vita dura per le canaglie) . Questo autore è stato pubblicato da Fanucci e ora viene pubblicato dalla casa editrice indipendente Aìsara , la quale è una piccola casa editrice sarda in cui lavorano solo donne. Scrive Bono a proposito del mondo narrato da helena: ” I suoi protagonisti sono sempre miserabili: ladri, assassini, prostitute, protettori. Un’umanità sfregiata, dolente, ma follemente vitale. I romanzi di helena sono rose dimenticate in una cantina buia.” Ecco. Ora paragoniamo questo a quanto prescritto dalla maggior parte delle scuole di scrittura oltre che dalle pratiche di scrittura nate dall’ottimismo anni 80, dal suo culto dell’efficienza e della professionalità, dal suo narcisismo. Si insegna a costruire delle macchinette funzionanti, il protagonista spesso coincide con lo scrittore io-narrante, il mondo che si racconta è quello consueto, medio-borghese con aspirazioni al consumo di lusso, il contesto è metropolitano, di metropoli occidentali divenute nel tempo tutte uguali. Non si ha nemmeno voglia di descriverle. Spesso i romanzi non sono altro che una collazione di dialoghi simil-quotidiani e omologati nella scelta dei linguaggi. Quale interesse possono avere questi romanzi sul lettore maschio affascinato dall’azione (che è poi il lettore oltre che maschio, “popolare”?) Zero. Quale interesse possono avere azioni e colpi di scena che si sono già visti migliaia di volte, ripetuti appunto a macchina, nel contesto di una narrazione globale che oltretutto oggi ci propina migliaia di telefilm gialli-d’azione tanto che si potrebbe passare un giorno intero saltabeccando di canale in canale di “giallo” in “giallo”? I meccanismi sono spesso così ripetitivi che un bambino sveglio di otto anni può intuire anche solo da un’inquadratura iniziale, cosa racconterà quella scena, e cosa quella successiva. I ragazzi non sono diventati più ignoranti, ma più sofisticati. Le TV li ha imbevuti di tecniche narrative fin da quando erano in fasce. Le conoscono a memoria. Si annoiano terribilmente di fronte ai soliti colpi di scena prestabiliti. Ecco perché le TV stanno cercando disperatamente nelle nuove serie, una scrittura meno codificata nello standard, tutta diretta all’irruzione dell’evento davvero imprevedibile e di scenari poco conosciuti. Prendiamo Dr.House. Lo scenario dovrebbe esserci famigliare ormai, quante serie abbiamo viste ambientate negli ospedali? Lì però si tratta di casi limite, così complessi che nessuno, davvero nessuno degli spettatori, può riuscire a indovinare quale possa essere la malattia del paziente , figuriamoci la cura! dal punto di vista dell’etica professionale i medici fanno cose proibite, scorrette che davvero in nessun ospedale al mondo si potrebbero applicare:per esempio andare a frugare in casa del paziente, alla ricerca di possibili cause di contagio, oppure esplorare ogni angolo inconfessato della sua vita privata. Il dottore è il contrario dello stereotipo del Dottor Kildare. E’ un provocatore, un pazzo sempre sull’orlo del licenziamento. Trasgredendo i normali codici narrativi, la serie è diventata il maggior successo internazionale soprattutto verso il pubblico giovanile che invece fino ad allora i telefilm ospedalieri in versione soap-opera non li sopportava proprio.

Postato domenica, 4 luglio 2010 alle 13:35 da Gianfranco Manfredi


Ho parlato del lettore/spettatore comune, ma un lettore/spettatore “forte”, professionista, un amante di un genere che di quel suo genere elettivo ha letto centinaia di romanzi, come volete si comporti di fronte al prestabilito? Smette di leggere. A volte, di fronte a tv telefilm o a un film, faccio questo gioco: sciocco le dita un attimo prima che cambi l’inquadratura e ci becco sempre, perché un ritmo di montaggio prestabilito un professionista lo riconosce al volo. Quando non ci riesco è perché quel film è bello : ha tempi narrativi suoi, non scanditi dalla macchina, ma dalla temperatura emotiva che si sa creare. Quel film vale la pena di vederlo. Così, di fronte a Il Codice da Vinci di Dan Brown , confesso che io non l’ho letto, temendo l’effetto prestabilito, ma Laura Grimaldi (storica direttrice del Giallo Mondadori, una delle persone che in materia ne sa di più in Italia) mi ha detto: “Si può discutere sul contenuto, però ti prende… e se riesce a prendere e sorprendere me che di libri così ne ho letti migliaia, figurati l’impatto sul lettore comune.”

Postato domenica, 4 luglio 2010 alle 13:47 da Gianfranco Manfredi


Schiocco le dita, ovviamente, anche se può apparire sciocco…

Postato domenica, 4 luglio 2010 alle 13:55 da Gianfranco Manfredi


Citerò un caso piuttosto significativo. Riguarda un relativamente recente romanzo di Tiziano Sclavi (l’autore di Dylan Dog). Non è un pettegolezzo perchè lo ha raccontato lui stesso in una lunga, appassionata, coraggiosa e intelligente intervista apparsa sul Magazine del Corriere della Sera. Il romanzo era edito dalla Mondadori e si intitolava “Non è successo niente”. Con una soluzione grafica geniale (Sclavi è stato anche grafico e ha idee brillantissime in materia) la copertina riproduceva la grafica di un quotidiano e il titolo appariva come se fosse il clamoroso titolo del giorno: NON E’ SUCCESSO NIENTE. Il titolo però presentava anche il contenuto del romanzo, nel quale Sclavi mette in scena se stesso e la sua vita quotidiana applicando scrupolosamente i moduli della letteratura minimalista, narcisismo incluso. Ad esempio, va a fare la spesa? Ci elenca tutto quello che compra, con tanto di marche. Molti autori americani avevano fatto lo stesso dalla metà degli anni 80 in avanti. Nel romanzo, qualcosa per la verità succede, e si tratta di un caso autentico (che finì in tribunale e di cui la stampa parlò ampiamente). Un caso di ordinaria corruzione. Un collaboratore disonesto della casa editrice aveva falsificato i dati di vendita e speculato in proprio sui disavanzi. Sclavi e Dylan Dog (come testata), e ovviamente l’editore, erano stati coinvolti nel raggiro, in qualità di vittime. Il “non è successo niente” in questo caso assume anche una coloritura sarcastica, considerando la storia italiana, cioè una specie di “niente di nuovo sotto il sole.” Sclavi era, ed è, adorato da milioni di fans, e da diverse generazioni successive di “adolescenti”. Anche se i fumetti sono una cosa diversa dai romanzi, la Mondadori (e Sclavi stesso) supponevano che “comunque vada, sarà un successo.” Fiato alle trombe. Risultato? Il romanzo vendette infinitamente meno del previsto, cioè “soltanto” 7.000 copie, una cifra modesta sia per la Mondadori che per Sclavi. A mo’ di consolazione (e di recupero dell’invenduto) il romanzo venne poi proposta in nuova edizione economica nella collana “Bestsellers” (che è piena di best-seller mancati). Sclavi però con inaudito coraggio (nessuno autore aveva mai osato tanto) confessò al Magazine la sua profonda amarezza per il fallimento . Ora: può capitare a tutti di sbagliare un romanzo. Non è questo il problema. Lo shock ti arriva quando: hai scritto un romanzo sincero che parla di te e di un episodio realmente avvenuto, lo hai scritto da professionista smaliziato nell’uso delle tecniche narrative e usando modi che negli anni precedenti si erano rivelati “vincenti” e “funzionanti.” Alla fine però quel titolo si è rivelato profetico, riguardo ai destini del romanzo stesso: Non è successo niente. Se ne potrebbe concludere che sarebbe stato meglio che nel romanzo fosse accaduto di tutto, ma la controprova non c’è. Da autore horror , va detto, Sclavi ha sempre fatto accadere di tutto su Dylan Dog: uno che (in Golconda) mette in scena un gigantesco globo oculare che va in bicicletta, non si può certo dire che sia a corto di idee su come sorprendere il lettore. Sclavi forse, appagato dai successi così ottenuti, ha creduto di sorprendere di più, mutando radicalmente “maniera”. Le dinamiche dell’assurdo, gli erano divenute forse così abituali, che gli pareva più originale, più stravagante e forse anche letterariamente più nobile, fare il contrario. Da questo contrario si aspettava comunque un grande successo, perché era stato elaborato con tutti i crismi di una professionalità matura, e sulla base di modelli che nella stagione letteraria immediatamente precedente, avevano funzionato. L’antica saggezza anni 70, avrebbe potuto consigliargli cautela: quando un certo genere arriva primo in classifica (si diceva allora) vuol dire che è quasi morto. Le stagioni del declino e della morte sono sempre precedute da una stagione di trionfo ( il calcio, anche su questo, docet: Francia e Italia, le precedenti finaliste, fuori subito dai mondiali). Ora: quando un libro trionfa, quel libro è stato preparato anni prima della pubblicazione. Spesso non si è neppure imposto subito , ma ha dovuto passare per una fase lunga di “passa-parola” e il “tam-tam” (come è avvenuto sia per Moccia che per la Meyer). Fino al momento del trionfo, questo decorso sotterraneo è rimasto oscuro, poi se ne accorgono tutti. L’ondata delle imitazioni inizia nel momento in cui il percorso (per lo stesso autore) si è concluso. Parallelamente è nata e sta vivendo la storia sommersa del successo epocale di domani, che non segue le regole di ieri, è già oltre. L’imitazione è dunque un genere di exploitation che somiglia al raschiare il fondo del secchio. Il vero fiuto commerciale ce l’ha chi percepisce il sommerso emergente (non l’evidente). Questo sommerso, non è necessariamente “nuovo”, perché può anche ripescare (ricreandole) tecniche, sapori, atmosfere del passato (si pensi al fiorire recente della letteratura neo-vittoriana sulla quale dieci anni fa nessuno avrebbe scommesso un soldo bucato). E’ comunque un peccato che autori horror i quali avevano sempre scommesso all’imprevedibile, si affidino alla presunta sicurezza suggerita dall’attualità del mercato. Ci sono dinamiche che vanno ben oltre i cicli delle mode. Il lettore horror, in particolare, non lo si acchiappa ricorrendo al consueto e al corretto, ma al mostruoso.

Postato domenica, 4 luglio 2010 alle 15:06 da Gianfranco Manfredi


Ancora sul “Non è successo niente”. Il feuilleton nasce a puntate sui giornali. Il suo contenuto e le sue tecniche narrative sintonizzate sul “sorprendere”, fanno tutt’uno con il supporto mediatico che lo pubblica: il quotidiano, che per sua natura, si nutre di clamore e di eventi. Se uno scrittore “popolare” (in quel senso) si dimentica di questa radice, smarrisce la radice del suo scrivere. Anche la comunicazione televisiva e via Internet (molto più di quanto non abbiano saputo fare in passato i giornali) si nutre di eventi e di clamore. Spesso fugacissimi, e già dimenticati poco dopo i chiasso creato. Sintonizzarsi su questo ritmo, in scrittura, è praticamente impossibile, perché anche la scrittura più disordinata necessita di una struttura e di una definizione “conclusa”. Ma uscire totalmente dal ritmo (e dal movimento) pensando di raggiungere, attraverso l’adeguamento agli stilemi correnti più diffusi, a una sorta di magica eternità (funzionamento impeccabile in sè) è una patetica illusione. E’ la sindrome che Elvio Fachinelli definiva della “Freccia Ferma”. Il mito della stabilità come riproposizione ossessiva di gesti già eseguiti e permanentemente ri-eseguiti.

Postato domenica, 4 luglio 2010 alle 15:26 da Gianfranco Manfredi


Prometto che è l’ultimo post, per almeno un paio di giorni, perché starò in giro. Avevo appena scritto il precedente, quando ho letto un articolo pubblicato oggi sul Sole 24ore da Davide Rondoni “”Non scrivo, non sono.” Cita questi dati dal rapporto Invalsi (l’Istituto del ministero che ha il compito di monitorare la preparazione scolastica): ” L’85% per cento degli studenti fa molti errori grammaticali, quasi il 70% è insufficiente per quel che riguarda la la competenza lessicale e semantica e quasi il 60% per quel che riguarda la capacità ideativa. ” Commenta Rondoni: Non sarà un argomento chic, ma così stanno le cose, basta col dare la colpa alla TV, qui o si rifonda la scuola o si precipita. Ora mi viene da pensare: giusto, la scuola (che oltretutto è dell’obbligo) DEVE insegnare e bene, ed è importantissimo metterla in condizione di farlo, non solo con finanziamenti opportuni, ma con programmi rinnovati. Invece a una Scuola privata di scrittura non si va per obbligo e per venire ammessi basta pagare. Io ho tenuto lezioni per alcuni corsi di scrittura (tra l’altro ho partecipato, per la sezione scrittura cinematografica, a quello di Pontiggia che era un corso fantastico, davvero, certe SUE lezioni- non parlo delle mie- erano SPAZIALI). Fatto curioso: su cento che avevano pagato, frequentavano regolarmente poco più di cinquanta. Come mai? I paganti non frequentanti si accontentavano di esibire la ricevuta di iscrizione come testimonianza d’aver seguito il corso. Tra gli altri, tra quelli che seguivano, molti i casi disperati (e vi parlo dei tardi anni 80/primi 90 forse, quando la situazione non era ancora collassata ) di gente che per quante indicazioni gli si dessero, proprio era incapace di scrivere, non ci era minimamente portata, però visto che pagavano mica li si poteva cacciare: chi aveva organizzato quei corsi non era certo disposto a restituirgli i soldi spesi inutilmente. Dopo questa ed altre esperienze che non sto a raccontarvi, ho deciso di cercare di dare una mano agli esordienti pubblicando un corso on line (relativo alla scrittura cinematografica) che si può seguire a titolo completamente gratuito e anche solo per interesse culturale. Quando mi inviano degli esercizi svolti o delle prove di sceneggiatura, per due o tre volte segnalo errori e spiego come correggerli. Alla quarta stecca, stop. Non si possono prendere in giro le persone. Se uno non è capace di scrivere, bisogna dirglielo onestamente e chiaramente. Non significa dargli dello scemo o dell’ignorante, si tratta semplicemente di fargli capire che il mestiere, nel caso, dello sceneggiatore, non fa per lui. Punto. Io mica mi sono offeso quando il mio maestro di tennis mi ha detto che era meglio se passavo a un altro sport perché a tennis non sarei mai arrivato a un livello decente per una competizione. Se poi volevo continuare a farlo per hobby, questo era un altro discorso. Se uno si iscrive a un corso questa possibilità di venire giudicato inadeguato deve metterla in conto. Hanno rimproverato la scuola di far passare tutti, ma pare che il rimprovero non valga per la scuola privata. Lì, siccome hai pagato, maturi una sorta di “diritto”, e nessuno ti dice la verità (“Non sei portato per fare lo scrittore”). Risultato? Si spreca un sacco di tempo per insegnare quattro regole base davvero elementari a gente che comunque non sa scrivere e non possiede creatività alcuna, e non si aiuta chi si dovrebbe e potrebbe aiutare sul serio, cioè quelli che hanno talento, che capiscono al volo, e a cui spesso dopo solo poche lezioni, potresti dire, ecco, finito, se vuoi posso insegnarti trucchetti più raffinati, ma è meglio se li scopri da solo, perché li scoprirai, non c’è dubbio, con l’esperienza concreta e anche imparando dai tuoi stessi errori di percorso. Passa dunque alla scrittura vera e propria e poi lavoriamo su quella. Oppure, se è davvero promettente, gli si può tranquillamente dire: vai, libero e selvaggio, cercando però di evitare le capocciate, o di fartene una ragione se non va subito tutto liscio.

Postato domenica, 4 luglio 2010 alle 19:21 da Gianfranco Manfredi


@Gianfranco.Tempo fa mi è capitato di leggere una ricerca sulle cause della scarsa assunzione di neo laureati italiani da parte di compagnie straniere.Il risultato è desolante,oltre alla scarsa conoscenza della grammatica si parla anche di mancata conoscenza delle lingue straniere,mancanza di adattabilità e intraprendenza.Ne esce un quadro desolante per quel che riguarda la formazione dei più giovani.

Postato domenica, 4 luglio 2010 alle 20:32 da Francesco Moretta


Un saluto a tutti voi.
A proposito di orrori, direi che gli ultimi commenti di Gianfranco (sugli errori – od orrori? – di grammatica) e di Francesco sono perfettamente in tema.
Un saluto a tutti. ;)

Postato domenica, 4 luglio 2010 alle 22:14 da Massimo Maugeri


Beh, Gianfranco hai scritto un saggio praticamente, sono esausta da una giornata spesa a cercare finferli, rispondo domani.
Solo una cosa: Bonvi aveva i capelli lisci, lunghetti e biondicci? Parlava sempre di “Piccolo popolo”? Perché nell’84 eravamo una coppia fregapalline alla roulette della Valtour in Costa d’Avorio. Nel senso spostavamo i nostri mucchietti di palline da un numero all’altro mentre girava la roulette :-)
Fantastico tipo.

Postato lunedì, 5 luglio 2010 alle 00:00 da Monica Montanari


O forse era Corfù.

Postato lunedì, 5 luglio 2010 alle 00:03 da Monica Montanari


Forse era Corfù

Postato lunedì, 5 luglio 2010 alle 00:11 da Monica Montanari


Sul Codice da Vinci, era tutta roba rimasticatissima.
Non solo vecchia come il bis-nonno del cucco (leggende e sub-eresie antichissime), ma pure apparse una trentina d’anni fa nel “Santo Graal” di Lincoln, Baigent e Leigh. Uno pseudo-saggio storico che (maneggiato con le pinze e letto come “Indiana Jones alla ricerca der pedigrì de Cristo”) era divertentissimo (più del Codice, che dopo le prime cento pagine tracollava).
Bastava esser consapevoli che il libro dei tre inglesi di fregnacce trattava: a quel punto uno se la spassava.
Perchè il procedimento “storico” e sc-sc-sc-sc-sc-sc-scientifico del trio è così strutturato:
“abbiamo trovato K. Ipotizziamo che K sia collegato a X.
A questo punto, diamo per provato e dunque certo il legame tra K e X.
Su esso, costruiamo una teoria: JY.
E’ evidente a tutti coloro che non sono prevenuti che (basata sulla inconfutabbbbile documentazione acquisita in precedenza) la nostra teoria è salda.
E allora, alla luce di questa teoria, divenuta Certezza con la C maiuscola, illuminiamo il fatto Z.”
E i tre procedono così.
Ripeto: se il lettore sta al gioco, il divertimento è garantito. Se invece si mangia le loro mozzarelle blu, si ritrova a credere a Umberto Bossi erede di Odino, a Tom Cruise pronipote di Kalgarinus XIV° il famoso re di Astarius e a Peppino Ratzinger discendente diretto di Gesù Cristo e di Maria Maddalena.

Poi

Postato lunedì, 5 luglio 2010 alle 13:42 da luciano / idefix


Laura Grimaldi può dire ciò che vuole. ll codice da Vinci è un libro di merda, molto peggio del più infimo vampirico. Scritto coi piedi, è la tesi ad averne determinato il successo: anche nostro Signore ciulava.
Ed è lo stesso motivo per cui ha avuto successo il dr. House o le casalinghe disperate: l’amoralità liberatoria. L’amoralità liberatoria in questo caso ha funzione assolutoria: se Gesù non era casto si riaprono i giochi e si rimettono in discussioni i parametri del buon cristiano, se il dr. House è scorretto ma riesce a guarire i suoi pazienti, la correttezza non è più così importante, se la casalinga disperata si comporta come una iena però alla fine risolve i problemi, anche la mia ienitudine viene giustificata…
Nell’anesthesia di un Sincity, la brutalità amorale libera l’aggressività dello spettatore silenziando i sensi di colpa da cui è accompagnata.

Postato lunedì, 5 luglio 2010 alle 19:04 da Monica Montanari


@Monica Paragonare quella ciofeca immonda di Brown a dr House??? Penitentiagite!!!! :D
Seriamente. Non credo che il successo del Codice sia dovuto al suo contenuto amorale. Ritengo invece che sia una specie di bignami per lettori pigri. Mi spiego: ovviamente sapete che la tesi sostenuta da Brown ha una tradizione lunghissima, i Vangeli apocrifi e bla bla, la si può ritenere una stronzata fotonica ma esiste. Ecco, il Codice ne rivela l’esistenza a chi si dice cattolico ma non ha mai indagato la storia del proprio credo neanche di striscio. Brown gli racconta il fatterello condito di tanti inseguimenti in un paesaggio esotico (Parigi per un americano).

Postato lunedì, 5 luglio 2010 alle 19:52 da Giusy De Nicolo


Va tenuto conto che molti dei cosidetti fedeli,spesso non sanno niente della loro stessa religione,ignorando perfino conoscenze di base. Per questo certe teorie-rivelazioni-colpi di scena pseudo religiosi fanno effetto.
@Monica.Prima parlando di anestesia morale hai citato Sin city film ispirato ad una bella serie di fumetti noir e vorrei fare una piccola precisazione.In Sin city non domina la mancanza di morale,anzi i volumi della serie sono invece impregnati di morale.I protagonisti di Sin city sono spesso brutali ma non privi di un codice etico che invece manca ai politici e alle varie autorità,che diffatti commettono azioni più vili e disgustose se paragonate a ciò che fanno Marv e Dwight.Poi si può anche dire che la violenza è esagerata e brutale,ma no che non vi siano personaggi completamente privi di morale,anzi alcuni come come Hartigan (il detective protagonista di “Quel bastardo giallo”) sono personaggi dotati di una fortissima morale.

Postato lunedì, 5 luglio 2010 alle 20:32 da Francesco Moretta


Mah, io ricordo il personaggio interpretato da Mickey Rourke personaggio bellissimo che ammazzava una ragazza, mah magari ricordo male. Il termine anesthesia in riferimento a Sin City e congeneri, non è mio è un’analisi che la critica ha prodotto su quel tipo di pulp sfrenato.
Io poi ho aggiunto il termine “morale”.
Che il movente del lettore del Codice sia assolutorio, è assolutamento certo, Giusy e Luciano. La mia casa editrice per lunghi anni si è dedicata esclusivamente all’immaginario religioso, e vi posso garantire, in basa ai manoscritti che giungono in redazione e allo studio che ho potuto fare dell’argomento che il problema essenziale di tutto il vasto mondo che ha sengato un risveglio di curiosità attorno al religioso (esoterismo, occultismo, new age etc…) si regge sulla difficoltà di poter vivere una religiosità tradizionale e una vita sessuale più spensierata. Tutti, dico tutti i manoscritti provenienti da questo mood anni 90 esprimevano un’aggressività enorme contro il clero cattolico in contesti che spesso neppure lo richiedevano. Poi è arrivato Daniele Marrone…
A livello planetario credo che il Codice da Vinci sia stata una risposta anche debbo dire, giustificata all’operazione Passion di Mel Gibson. Se c’è una lezione da trarre nella lettura del Vangelo sulla Passione di Cristo è che nessuno si può chimare fuori:
dagli apostoli che si addormentano invece di vegliare, dai romani che catturano, crocifiggono Gesì, si giocano a dadi le sue vesti, da Pietro (il fondatore della Chiesa) che lo rinnega tre volte, alla folla che dopo averlo osannato al suo ingresso a Gerusalemme lo condanna preferendogli Barabba, al Sinedrio autorità religiosa… Romani, non romani, ebrei e non ebrei, donne e uomini… Mettere in scena una passione di Cristo che addossa a una nazione la responsabilità dei Deicidio è semplicemente non aver capito un cazzo o peggio… E la risposta non si è fatta attendere…
Al di là di queste guerre etnico culturali americane, Dan tuttavia rimane illeggibile.

Postato martedì, 6 luglio 2010 alle 00:55 da Monica Montanari


Ah Giusy, dimenticavo lo sfrucuglio nel torbido di quelli che Eco chiama nel, Pendolo “i diabolici” è proprio il mio sporco mestiere. Ma stai confondendo vari piani, ci sono gli apocrifi confluiti nella tradizione islamica che ci dipingono un Gesù molto umano, bellissimo l’episodio in cui Gesù fa i pupazzetti di fango e litiga con gli altri bambini comportandosi come un prepotentino con i superpoteri! altra cosa le teorie sulla linea di sangue, confluite nelle peggiori ideologie spiritualiste otto-novecentesche. Pessima roba, malata, credimi, artefatta e strumentale.

Postato martedì, 6 luglio 2010 alle 01:03 da Monica Montanari


Mi perdonate se (da valdese) per l’ennesima volta ridico ciò che mi tocca dire spesso?
E cioè che (soprattutto in Italia) “cristiano” e “cattolico” vengono usati come se fossero sinonimi. Mentre non lo sono per niente.
Quella cattolica romana è solo una, anche se la più grossa importante famosa e potente, delle chiese cristiane. E’ nel suo ambiente che prolifera l’ignoranza sui fondamentali della fede (provate a parlare con un “normale” catttolico e molto probabilmente non vi saprà dire…che so?…la differenza tra Bibbia e Vangeli). Perchè era/è funzionale al potere delle gerarchie mantenere il “popolo” all’oscuro. Basta pensare che, a Roma, leggere la Bibbia in italiano fu un reato penale fino al 20 settembre 1871, quando arrivarono alla Breccia di porta Pia i bersaglieri dello Stato italiano. E il giorno seguente i valdesi con i loro carretti colmi di Bibbie in italiano.
E’ dunque in ambienti zeppi di controriformistica ignoranza sul cristianesimo e sul messaggio di Gesù Cristo (sul senso stesso della propria fede) che possono nascere, proliferare e aver successo libercoli come “Il codice Da Vinci”, filmacci trucidi e reazionari come quello di Mel Gibson, leggende come la Sindone o culti come Pio da Montalcina o Teresa di Calcutta (che amava non i poveri ma la povertà, non i malati ma la malattia, tanto che non dava gli analgesici ai malati terminali, dato che la sofferenza avvicinerebbe a Dio).
C’entra questo con l’horror? Forse c’entra. Perchè una componente del genere orrorifico (a partire dal Monaco di Matthew Lewis fino all’Esorcista) si abbevera al cattolicesimo più retrivo e anti-umanista, quello che ha sempre contrastato la liberazione e la gioia del messagio evangelico.
Anticipo l’obiezione (e anzi la faccio mia):
“guarda, Luciano, che anche il protestantesimo ha aspetti cupissimi, antifemministi e tremendi. Pensa a Hathworne e alla Lettera scarlatta”
Certo: nessuna religione, nessuna chiesa, nessun partito ha l’esclusiva dell’oscurantismo, della mortificazione dei corpi e dell’oppressione delle coscienze”
Resta però il fatto che nel mondo protestante la lettura (grazie alla diffusione della Bibbia) divenne un fatto di massa. In Italia (a causa della presenza invasiva della chiesa cattolica) le cose andarono diversamente.
E se nei paesi anglosassoni e nordici i “generi” di massa (feuilleton, horror, giallo, thrilling, fantascienza, cappa e spada, western, fantasy, spionaggio) furono e sono molto scritti e molto letti da duecento anni, lo si deve anche alla cultura protestante. Che è incentrata sulla conoscenza diretta della Parola di Dio. E sul rapporto personale di ogni uomo e ogni donna con Dio, scavalcando le gerarchie ecclesiastiche.
(Che poi tutto ciò abbia avuto e abbia enormi conseguenze anche sulla vita politica e sociale italiana, mi pare evidente)

Postato martedì, 6 luglio 2010 alle 14:09 da luciano / idefix


Non mi conosci proprio Luciano, ti avrei risposto che c’è un valdese che adoro ascoltare, è innamorato come me di Rene Girard. L’ho ascoltato diverse volte da Lerner, credo si chiami Cesare Masera, ma non sono sicura.
Mia figlia si chiama Valda, è un nome di tradizione familiare. Magari abbiamo qualche valdese alle spalle.

No, non ti avrei risposto come hai immaginato. Ti avrei risposto che i valdesi nascono prima dei protestanti, intesi come luterani e calvinisti e con prospettive molto vicine al cattolicesimo e direi da me molto condivisibili. Sono cofluiti solo poi nella riforma.
Mi è capitato di ascoltare una vostra pastora con i capelli corti e gli occhiali, mi ricordo una bella dissertazione sul “Regno di Dio”. Anche in quella che era una bella omelia, si sente però la speculzione razional ragionevole. Mi mancano le frasi ricorrenti come mantram tipiche delle omelie cattoliche, frasi che condensano millenni di teologia e che riecheggiando sul fondo della coscienza dei fedeli, danno loro, quando le occasioni della vita lo rendono possibile, il disvelarsi di significati insospettabili. In questo quadro il non simpaticissimo Ratzinger è uomo generosissimo. Non ne ho letto molto ma una sua superspiega su che cosa significa l’immersione nelle acqua del battesimo era veramente sorprendente. Il senso dei preti che sequestrano la Bibbia sta nel cercare di non disperdere i fedeli, è evidente. Inoltre il clero assicura che ci sia sempre qualcuno, anche quando la società per influssi di ciclo è distratta, ci sia sempre dicevo qualcuno che elabora la tradizione e distilla pensiero religioso.
Ora è pur vero che come ogni istituzione e ogni burocrazia, il clero cattolico non è esente da comportamenti, strategie che hanno come solo fine il mantenimento e il trofismo dell’istituzione. Potremmo definirli leninisti ante litteram. Io credo che l’istituzione debba sopravvivere ma con un temperamento di modi e criteri! Cose come negare i funerali all’eutanasizzato Welbi e concederli pochi giorni dopo all’avvocatone Corso Bovio morto suicida, sono inaccettabili.

Non ti avrei mai risposto citando la lettera scarlatta, intanto perché i valdesi c’entrano ben poco con quei protestanti e poi perchè ognuno di noi banalmente ha alle spalle un nonno fascista che ha chinato la testa di fronte alle leggi razziali che hanno estromesso i bambini di sei anni dalle scuole. Ognuno di noi ha un bisavolo che ha ammazzato moglie e figli di botte o sfruttato il lavoro minorile. Le civiltà si evolvono, grazie a Dio, Luciano anche se il momento storico non è di quelli che che rafforzino l’ottimismo.

Postato martedì, 6 luglio 2010 alle 16:01 da Monica Montanari


Niente, non è Cesare Masera, ma non riesco a ritrovare il nome esatto

Postato mercoledì, 7 luglio 2010 alle 00:55 da Monica Montanari


Luiciano spiega un po meglio questo:
«E se nei paesi anglosassoni e nordici i “generi” di massa (feuilleton, horror, giallo, thrilling, fantascienza, cappa e spada, western, fantasy, spionaggio) furono e sono molto scritti e molto letti da duecento anni, lo si deve anche alla cultura protestante. Che è incentrata sulla conoscenza diretta della Parola di Dio. E sul rapporto personale di ogni uomo e ogni donna con Dio, scavalcando le gerarchie ecclesiastiche.»

Postato mercoledì, 7 luglio 2010 alle 11:33 da Monica Montanari


Manfre non fare lo schizzinoso, devi senzameno venire tra le bimbemminchia a postare il tuo parere sul linguaggio qui:
 ttp://docks.forumcommunity.net/?t=388341…

Postato mercoledì, 7 luglio 2010 alle 15:13 da Monica Montanari


Scrivo brevemente da un altro pc perchè non sono ancora rientrato a casa. Il madera di cui parla monica è romano madera (tra l’altro mio caro amico , filosofo e psicanalista, che ho qui citato sovente). La chiesa valdese origina da Pietro Valdo, figura di eretico che molti accostarono a san Francesco d’Assisi perché pauperista. I valdesi aderirono alla Riforma protestante e sono (siamo, perché mi considero valdese anch’io) legati in particolare alla tradizione di Calvino.Non so cosadiavolo possa aver convinto Monica ad accostarli al cattolicesimo. La Chesa Valdese fa attualmente parte della federazione delle chiese evangeliche italiane, cmposta anche da Battisti e Metodisti. Siamo nel campo del protestantesimo più puro e perdipiù federato. La Bibbia (antico e nuovo testamento)è stato fin da bambini il nostro fondamento educativo e culturale, come del resto avviene in tutti i paesi anglosassoni. Quando parliamo di Bibbia, sappiamo di cosa parliamo, perché l’abbiamo letta e studiata da quando eravamo pargoli. Questo tanto per puntualizzare. Sulle altre questioni (Dan Brown ad esempio) non mi pronuncio perché non ho letto i suoi romanzi, ma Laura Gimaldi, ripeto, non parlava del contenuto ma del mero meccanismo thriller. L’argomento avrebbe anche potuto essere il Traffico Clandestino di Dadi e Datteri. Il suo commento riguardava solo la scansione narrativa e la sua capacità di attrarre lettori. Detto qiuesto è evidente che oggi certi autori vendono tanto proprio perché non sono esperti del genere che trattano, spesso non sanno proprio di cosa parlano (come la meyer coi vampiri), e dunque attraggono lettori che certi generi non li conoscevano affatto. Molti lettori di faletti, hanno comprato il suo primo romanzo per curiosità, e non avevano mai letto prima un thriller in vita loro. Ecco perché tutto gli è parso nuovo. Questo tipo di scrittori di massa non sono affatto amati dagli appassionati: vangono giudicati regolarmente come banali, come scopiazzatori, come approssimativi nei riferimenti e nella scrittura, resta il fatto che proprio per questo attraggono lettori “vergini” e “ingenui”. Non sono stati certo i lettori del Nome della rosa a creare il successo di Dan Brown. Dan brwon ha ripetuto dei moduli nati nel post-modern degli anni 80, in un modo così elementare da farne quasi una barzelletta. Questa sua estrema semplificazione , fondata però su un’accelerazione di tempi ritmici, quanto su un linguaggio elementare, ha attratto alla lettura gente che del genere che lui ha scopiazzato non ha mai saputo, nè letto niente. Trattasi di letteratura per ritardatari. Al fast food letterario non si servono pietanze ricercate. Resta il fatto che a volte anche uno che si è sempre alimentato nei migliori ristoranti e dai migliori chef, a volte possa trovare divertente farsi un hamburger e patatine. Insomma gli Abba non sono mica i Beatles, ma nemmeno si può campare solo di beatles, a volte ci sono anche stronzate assolute che psssono cntribuire a dvertirci, e magari può anche accadere viceversa cioè che uno che da ragazzino faceva il guancia a guancia con nico fidenco, poi pochi anni dopo sbarelli per Frank Zappa. Per fortuna non siam automi e tutto cntribuisce a farci crescere, anche le cacate.

Postato mercoledì, 7 luglio 2010 alle 17:19 da gianfranco manfredi


La differenza tra un lettore consapevole e uno rozzo, è che il primo legge di tutto e pur nelle differenze di livello può apprezzare anche una letteratura “bassa”, persino “infima”. Il lettore rozzo invece è pieno di prevenzioni : legge solo quello che corrisponde a certi suoi criteri di gusto. bisogna ammettere che spesso scambia per capolavori delle opere che a distanza di un solo decennio risultano delle stronzate anche se facevano ricerca stilistica e anche se erano scritte bene. Al tempo di Byron, lui era il campione assoluto, sia sul piano della popolarità, sia sul piano accademico, adorato tanto dalla società colta, quanto dal popolo che magari non lo aveva letto, ma era affascinato dal suo mito e dal suo personaggio, indubbiamente forte. Keats al confronto non lo cava nessuno. Oggi byron è illeggibile, come poeta, un enfatico trombone. Keats invece è una perla che riluce nel buio, considerato ormai unanimemente uno dei più grandi poeti mai esistiti. Quanto Grandi che all’epoca vennero bistrrattati e stroncati, oggi sono considerati Maestri? Ciò significa che spesso la società Letteraria e i Veri esperti non ci beccano. La cosa dovrebbe consigliarrci cautela nei giudizi. ma soprattutto nei pregiudizi.

Postato mercoledì, 7 luglio 2010 alle 17:34 da gianfranco manfredi


scusate i refusi, ma come ho detto, scrivo da un pc estraneo.

Postato mercoledì, 7 luglio 2010 alle 17:36 da gianfranco manfredi


Mi fermo qui, perchè questa tastiera mi sta mandando al manicomio. Vorrei però fare una mozione d’ordine. Se uno scrive di essere valdese, sarebbe carino se un altro che non lo è, non gli spiegasse cos’é secondo lui un valdese. Giusto per non incorrere nella sindrome alla Jannacci del “quelli che ti spiegano le tue idee senza fartele capire.”

Postato mercoledì, 7 luglio 2010 alle 17:51 da gianfranco manfredi


Io non ho alcun pregiudzio verso la fuffa, ho letto il Codice e da buon lettore del cavolo esprimo un giudizio basato esclusivamente sul mio personale gradimento: fa schifo.
Ih grazie Gianfranco, sono impazzita ieri per cercare il nome del mio Cesare MAsera!!! Grazie!!!
Adesso vado a vedere, ma io ricordo che i valdesi nascono fuori dal luteranesimo e per una questione diversa dalle indulgenze. Allora perchè li accosto? Per mio caro, tutti gli eretici, protestanti compresi :-) , nascono dal cattolicesimo!

Postato mercoledì, 7 luglio 2010 alle 17:53 da Monica Montanari


Pietro Valdo visse nel XII secolo. Ha scritto di lui e del suo movimento Max Eynard: “Né in Valdo, né nei suoi seguaci si riscontrano esempi di estasi ascetiche, di macerazioni, di automartirio, di morbosi sadismi religiosi. Quella gente sapeva salire al rogo senza debolezza, nel pieno possesso dei propri sentimenti, con fredda e ponderata risoluzione, ma rispettava il proprio corpo. Vi é dunque nel primitivo movimento valdese un’espressione di perfetta salute corporea, mentale e spirituale, esente da sentimentalismi, dalle esaltazioni e dalle aberrazioni che si riscontrano in grado diverso in molti movimenti ereticali del medioevo; è un movimento che potrbbe definirsi come osservante di una scrupolosa igiene spirituale. Forse valdo mancò di poesia: il suo spirito, per tanti anni volto alla prosa del commercio, non poteva elevarsi in voli pindarici. in compenso, l’abitudine alla precisione contabile gli permise di imprimere al movimento valdese quel carattere di sobrietà, si serietà, di coerenza, quella capacità organizzativa che gli permise di resistere per secoli all’assorbimento dall’esterno e alla dissoluzione dall’interno. La sua adesione alla riforma protestante, fu assai ben ponderata, pur mantenendosi nelle più alte sfere dello spirito. Il suo fondamento fu la bibbia alla quale ricndusse sempre tutte le controversie, pronto ad accettare nell’interpretazione i maggior lumi altrui , come a rigettare, anche nel proprio seno, ogni contorta o artificiosa chiosa. ” della vita di Valdo non si sa molto, il luogo e la data della sua morte sono assai incerti. Fratelli di hussiti , vicini agli ugonotti, poi confluiti , seppur con una propria originalità nel calvinismo, i valdesi sono una delle più tipice confessioni protestanti, con la Bibbia come fondamento, ma senza alcun fondamentalismo, in un continua e aperta posizione di confronto, anche con il mondo che oggi definiamo sbrigativamente come “laico”. Oggi la loro posizione su temi come: il sacerdozio delle donne, la contraccezione, il divorzio, l’aborto, i gay,il rapporto con lo Stato,è radicalmente opposta a quella della chiesa cattolica. E dopo secoli di persecuzioni ( i valdesi di calabria, ad esempio, furono sterminati dal primo all’ultimo) , ma anche a prescindere da questi, non gradiscono e non meritano giudizi approossimativi e ignari della loro storia non solo confessionale (tra l’altro parteciparono TUTTI alla Resistenza). E per quanto considerati stranieri in patria , sono, siamo, italiani. come sono italiani tanti liberi pensatori, atei, ebrei, seguaci della newage, buddisti, musulmani che i cattolici e in particolare le gerarchie considerano e continuano a considerare italiani ABUSIVI. In particolare l’esposizione del crocefisso nelle scuole, li offende. Nelle chiese valdesi ci sono croci, ma senza cristi appesi, perchè come nella più pura tradizione riformata, qualsiasi immagine di dio e di cristo esposta a fini di devozione viene considerata blasfema e idolatrica. Di questa convinzione e sentimento si richiederebbe maggior rispetto.

Postato mercoledì, 7 luglio 2010 alle 18:28 da gianfranco manfredi


Parlo di rispetto da parte dello stato e della chiesa cattolica, ovviamente.Non ho scritto questa nota in polemicacon monica, ma come contributo di conoscenza. Voglio solo aggiungere che il fatto di appartenere a una minoranza religiosa (il che significa ad esempio che da ragazzino certi compagni di scuola mi sputavano in faccia perchè “non credevo alla Madonna” e a Senigallia la comunità protestante cui apparteneva la mia famiglia venne più volte aggredita a sassate da zelanti cattolici inviati dal prete, nel più assoluto disinteresse dei “laici” ) be, tutte queste esperienze mi sono state molto utili per lo sviluppo non solo di un pensiero, ma di un comportamento dissidente, critico e piuttosto scettivo nei confronti delle ideologie di massa. ecco perchè come, da cristiano, ho sempre cercato di stare dalla parte degli umili, degli offesi e degli oppressi, da intellettuale sono stato sempre con gli anticonformisti e in ultima analisi affezzionato persino a quelle creature eretiche, dissidenti, impalate e sacrificate persino da morte, che sono state storicamente in Europa, le streghe e i vampiri. il mio libro “Ultimi Vampiri” è un omaggio alla dissidenza. I miei vampiri sono “ultimi” perchè sono gli ultimi della terra, non dei fighetti. e a questo ci tengo.

Postato mercoledì, 7 luglio 2010 alle 18:42 da gianfranco manfredi


Allora, ora ho tempo. Valdo o Valdesio organizza i suoi predicatori intorno al 1170. Come gli umiliati, i poveri di Lione intendevano arginare il diffondersi del dualismo cataro. Si mettono così a predicare senza studi teologici e senza essere incardinati nelle strutture ecclesiastiche. Alessandro III fa due errori a questo punto: proibisce la predicazione spontanea e la nega anche quando Valdo e l’altro tizio degli Umiliati va a chiedere il permesso. Il movimento intanto si espande, e come gli uimiliati che chiedono e ottengono in un terzo momento il riconoscimento della Chiesa, ci provano anche i valdesi che l’ottengono con la creazione dell’ordine religioso dei…. Solo che il grosso degli aderenti del movimento non confluiscono nell’ordine riconosciuto e si costituiscono in una nuova egida i “Poveri di Cristo”.

Allora, probabilmente ai tempi di Valdo sarei stata valdese anche io, confesso che ho la debolezza della predicazione, non essendo in questione come dicevo alcuna questione teologica :-) Alle origini.
Poi ora confluendo nella riforma i valdesi si sono probabilmente molto distanziati, ma in origine non era così Gianfranco.

Le mie fonte è la storia del Cristianesimo di Filoramo.

Dunque sì sta cosa della resistenza la sapevo. Sapevo che i valdesi sono stati compattamente antifascisti. Ma nello spiegare a Luciano perchè non tiravo in scena la caccia alle streghe di matrice protestante, il mio nonno fascista poteva bastare.

I miei giudizi non sono approssimativi, e ripeto alla base della nascita del movimento valdese c’erano questioni diciamo disciplinari non teologiche. E questo Gianfranco è un fatto dalla testa dura.

Sulla questione delle immagini c’è un libro bellissimo che devi assolutamente leggere, è breve ma di sostanza Contro le immagini, di Maria Bettetini.

La disputa sulle immagini ha attraversato anche la chiesa romana, alla fine il ragionamento è stato questo: essendosi il Signore incarnato in un uomo, come dire ha accettato con ciò di farsi fotografare :-)
Io dico, ogni volta che vado a messa, devo fare ricorso a tutta la mia fantasia sul romanzo paranormale per darmi pace di come una religione che abbia come Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, possa dirsi monoteista… ti pare che sta cosa sulle immagini dei crocefissi sia degna di nota? A me starebbe bene anche un punto di domanda appeso nelle aule. O una domanda: Dove sei? Non mi darebbe fastidio avere un versetto coranico e mi è molto dispiaciuto non poter pregare in una moschea quando sono stata in Marocco. Queste diatribe sono tenute in piedi da chi della religione fa una questione di potere, politica, identità.

Con buona pace tua e di Jannacci quando ascolto Romano Madera che parla di Rene Girard, sento che ragiona come me me, che abbiamo il medesimo sentimento religioso :-)

Postato mercoledì, 7 luglio 2010 alle 22:04 da Monica Montanari


Non c’entra niente con questa discussione religiosa (che però trovo interessante,anche perchè non sapevo nulla dei Valdesi) ma navigando nella rete ho trovato una piccola notizia su Lovecraft.Per la precisione si è recentemente scoperto che il primo omaggio fumettistico a Lovecraft furono una serie di strisce comiche realizzate da Frank Belnap Long negli anni ‘20 e intitolate “Randolph Carter and the priests of Baal-Naplong”.
Erano strisce comiche realizzate da Long durante la sua corrispondenza con Lovecraft e ritraevano lo stesso solitario di Providence nei panni di Randolph Carter.

Postato giovedì, 8 luglio 2010 alle 10:45 da Francesco Moretta


1) Monica: solo una precisazione sui valdesi e dopo basta perchè se non andiamo troppo fuori tema. A un certo punto tu scrivi “i valdesi nascono fuori dal luteranesimo”. Sarebbe come scrivere: “Dashiell Hammett e Raymond Chandler nascono dai romanzi di Michael Connelly”
Non è questione di opinioni, ma di collocare i fatti, i movimenti e le opere in una successione temporale scandita dalla cronologia: i “poveri di Lione” (il movimento che si formò attorno a Valdo) è roba di fine 1100, la riforma luterana è roba della prima metà del 1500.
2) Monica: come facciamo noi cristiani (che crediamo nella trinità) a essere monoteisti? Provo a spiegartelo con un esempio un po’ rozzo ma (spero) chiaro. Io sono una persona sola ma (contemporaneamente) sono PADRE di mia Francesca, FIGLIO di mio papà e MARITO di Tatjana. E queste tre sub-identità NON sono la stessa cosa: tutti abbiamo esperienza della diversità dei nostri sub-ruoli, che a volte possono addirittura entrare in conflitto tra loro.
3) Sono stradaccordo col commento di Manfredi di ieri (5.34): sulla differenza tra un lettore consapevole e uno rozzo (il primo legge di tutto e anche schifezze perchè è curioso e in fondo si fida del proprio gusto, mentre il secondo non si fida affatto del proprio gusto, che delega alla massa).
Non condivido invece la critica demolitrice su Byron. Certo: una grossa parte della sua opera è obsoleta e naftalinica. Ma altre cose (come il Don Giovanni) le trovo ancora bellissime e frizzanti.
Ma questa (la nostra differenza su Byron) è la conferma che (nel bene o nel male) io e Manfredi e tantissimi altri/e siamo “lettori consapevoli” e onnivori. E dunque del giudizio “maggioritario” ce ne sbattiamo allegramente: ciò che ci importa è il NOSTRO piacere (che oviamente può venir accresciuto dal confronto con l’opinione di altri lettori, che ci offrono chiavi di lettura nuove e fertili)

Postato giovedì, 8 luglio 2010 alle 10:54 da luciano / idefix


@ Luciano. Ho citato byron per comodo. Più volte ho cercato di leggere il suo poema il Pirata. proprio non ce l’ho fatta, I poeti epici quanto nazionali del resto, hanno sempre vita dura, quando passano i decenni e i secoli. i loro valori politici e sociali e i loro riferimenti di gusto e di costume si perdono, non ci sono più trasparenti.Una csa simile si potrebbe dire confrontando Wal Withman e Emili Dickinson. Nel primo (il maggior poeta “nazionale” americano della sua e non solo della sua epoca) risuona una retorica tronfia, celebrativa, teatrale. La Dickinson inveceparla direttamente al nostro animo. Nell’epoca in cui scriveva (la stessa di Withman) era una sconosciuta: in vita aveva pubblicato pochissimo. in Italia si potrebbe dire la stessa cosa paragonando la poetica di Leopardi a quella enfatica di Carducci. Il celebrativismo (della nazione, del progresso, di quello che vi pare) fa la muffa. la “filosofia sensibile” che si esprime invece nella poesia lirica continua a dirci qualcosa a distanza di secoli. Per tornare all’horror, non è un caso che poe fosse un poeta. Dal punto di vista letterario in Stoker ritroviamo molto spirito del tempo, ma sotto uno strato di polvere. Poe sorge intatto di fronte a lettori vergini di ogni generazione, per la sua incredibile capacità di parlare all’intimo delle persone e di spiegare la dinamica dei sentimenti.

Postato giovedì, 8 luglio 2010 alle 13:02 da gianfranco manfredi


Più che la differenza tra protestanti e cattolici, nella questione vampirica propriamente detta ha pesato lo scisma d’oriente. Del critsianesimo d’oriente, spesso sia i cattolici che i protestanti non sanno assolutamente nulla. Su Bisanzio e la sua eredità è pesata e pesa ancora una censura inaudita da parte delle chiese cristiane ufficiali d’occidente.

Postato giovedì, 8 luglio 2010 alle 13:06 da gianfranco manfredi


Manfre: Io sono andata a una messa ortodossa etiopica, dura tre ore!!!
Luciano: eh magari fosse così semplice. Il fatto è che sono tre PERSONE non tre ruoli. Io mi dico ma se in un romanzo paranormal possimao immaginare che un tizio superi la barriera del tempo e compaia in tempi diversi come ragazzo, come padre di se stesso, e magari in altri tempi ancora come spirito. Perchè non dovrebbe riuscire a farlo il buon Dio, in questo modo sarebbe tre persone diverse in senso umano, ma sempre sé stesso. Continuo a pensare che ci voglia molta fantasia per superare questa apparente contraddizione tra trinità e monoteismo.
Quanto al “fuori del luteranesimo”, non intendevo dire “contro il luteranisimo” intedevo, appunto come ho scritto, molto prima e quindi al di fuori del movimento che darà luogo alla riforma.
Ma Luciano, non mi hai risposto, come ha influito secondo te la diffusione della bibbia sulla genesi del romanzo anglosassone?

Postato giovedì, 8 luglio 2010 alle 14:48 da Monica Montanari


I PICCOLI BRIVIDI DELLO SCRITTORE

Ho appena risolto, grazie all’intervento di un tecnico, una piccola angoscia da tecnologia che credo tutti gli scrittori conoscono e che fa parte del loro horror quotidiano. Il computer non si accendeva. Impossibile l’accesso ai file. Non si sa valutare il perché, né gli eventuali danni. Lo spettro di un lavoro di mesi e di anni che può volatilizzarsi ti attanaglia. Questo stato d’angoscia è noto agli scrittori fin da quando scrivevano in copie manoscritte. Se il manoscritto va perduto prima della consegna, si precipita nel Maelstrom. Una volta Busi ha perso il suo PC in treno, contenente il file quasi completo di uno suo nuovo romanzo. Pubblicò un appello ai ritrovatori o ai ladri sui giornali. Ignoro se sia o no riuscito a recuperare il suo scritto o se abbia dovuto riscrivere da capo. E’ un’esperienza di angoscia che chi non fa questo mestiere non può conoscere. Una volta, ai tempi del Commodore, dopo due giorni di lavoro ininterrotto perchè la scadenza di consegna era terribilmente vicina, concluso finalmente il testo alle 8.30 di sera, ho provvisoriamente chiuso e dopo cena ho riacceso per l’ultima rilettura di controllo. Il PC si accendeva, ma non riuscivo più a ritrovare il file. Oddio! L’avrò cancellato per sbaglio? Recupero un salvataggio precedente e parziale e riscrivo a memoria il testo delle ultime ore. Finisco alle 4 di mattina, davvero spossato, e prima che capitano altri scherzi, stampo. Il giorno dopo consegno (all’epoca ancora non si consegnavano i floppy). Libero da angoscia. Più tardi, riaperto il PC, ritrovo il file smarrito, che dannazione era proprio lì sotto i miei occhi come la lettera rubata, sarebbe bastato un leggerissimo scroll per individuarlo a pié di lista. Già che ci sono ricontrollo il vecchio testo e lo paragono a quello riscritto da capo. Il secondo (nonostante la stanchezza, l’ora, e l’ansia) è più bello, non c’è dubbio. Dopotutto la disgrazia ha prodotto un miglioramento. Però… quante ansie ci provocano le nuove tecnologie , quanti antichi timori risvegliano, quale sacro senso di impotenza come di fronte alla natura imprevedibile, quale affidamento al tecnico-sciamano!

Postato giovedì, 8 luglio 2010 alle 14:50 da Gianfranco Manfredi


1) Gianfranco: su Whitman e la Dickinson (co-protagonisti) c’è un romanzo horror assai interessante (uscito anche in Italia, edito dalla Nord) di Paul De Filippo. E’ nel volume Steampunk e si intitola Walt ed Emily.
2) Del cristianesimo ortodosso, in Occidente si sa (sappiamo…so…) poco o nulla. Colpevolmente e stupidamente: perchè vi sono aspetti affascinanti e assai profondi.
3) Monica, il mio esempio sulla trinità era solo un tentativo di esempio. Giusto un pallido flash per provare a buttare sul terreno una possibile suggestione interpretativa.
4) Quanto incise la Bibbia nelle letterature anglosassoni? Moltissimo.
Per noi protestanti il rapporto con la Bibbia è vitale e quotidiano: come bere acqua e mangiare pane. In più, per noi vi è il “libero esame”: la lettura non viene filtrata da una gerarchia ma è diretta, personale e (un tempo) anche familiare. Di conseguenza, perchè nei paesi protestanti (a differenza di quelli cattolici e dell’Italia in particolare) si diffuse la lettura. E ciò (ovviamente) dissodò il terreno anche per una fertile semina della letteratura “profana”.
La diffusione della Bibbia di Re Giacomo (pubblicata nel 1611 e moltissime volte revisionata) costituì un linguaggio inglese comune a cui si abbeverarono (uso appositamente per la seconda volta questa “vitale” metafora dell’acqua) innumerevoli autori, dal Seicento fino ad adesso. Basta pensare (ma è solo un esempio dei tantissimi possibili) agli innumerevoli riferimenti biblici in Bob Dylan (vedi soprattutto All along the watchtower che riprende quasi alla lettera Isaia 21, 6-9).

Postato giovedì, 8 luglio 2010 alle 15:13 da luciano / idefix


Gianfranco: un abbraccio solidale. E’ un’esperienza bruttissima, quella di finire nelle mani (mani…atomi, molecole o quel cavolo che sono) di un Hal a cui gira la luna storta.

Postato giovedì, 8 luglio 2010 alle 15:15 da luciano / idefix


@ Monica. Il tema dell’influenza della Bibbia e soprattutto dell’Antico Testamento sulla genesi del romanzo anglosassone è di rilievo assoluto, soprattutto se parliamo di romanzo gotico e horror, ma anche se parliamo non del romanzo ma della canzone rock americana che ridonda di citazioni bibliche che noi latini non siamo assolutamente in grado di cogliere. La non conoscenza della Bibbia rappresenta per l’Italia un drammatico ritardo culturale, di recente lo ha lamentato lo stesso Papa , dichiarazione che mi ha assai sorpreso per la sua novità, in quanto ricordo ancora un mio scontro al liceo, con Don Giussani, che era l’insegnante di religione della mia classe. Gli avevo chiesto, pur da estraneo e da esonerato dalla religione (ma non sempre all’epoca si poteva uscire di classe) come mai nelle sue lezioni la lettura e il commento di passi biblici fosse assente. Lui si incazzò come una furia e rispose che la Bibbia è un libro difficile, che il comune credente non può capire semplicemente leggendo, che può essere tratto in errore, eccetera eccetera. Dovrebbe cioé attenersi all’insegnamento della Chiesa. Il Libro sacro è meglio che non lo legga, perchè non è attrezzato a farlo. Lì misurai tutta la distanza tra quel tipo di cattolicesimo e il protestantesimo, ma anche la distanza dalla cultura laica. Qualcuno ha mai detto: è meglio che non leggiate direttamente Marx o Darwin o Freud perché tanto non ci capireste niente? Però detto o no, tutte le ideologie autoritarie quantomeno consigliano di leggere sotto interpretazione altrui, della Chiesa ufficiale, del Partito, dello Stato, dell’Accademia… E siccome il leggere sotto tutela non è un leggere libero, si finisce alla fine per non leggere (se è così difficile…). Persino alcuni intellettuali lucidi e progressisti possono incappare in questa diabolica trappola. Avete presente i Cento Chiodi di Olmi? Si esaltano i semplici e gli incolti, e si proclama che i libri (i libri non le accademie) sono parole morte che non riscaldano i cuori, e che di queste parole conservate nei secoli, se ne può serenamente , liberatoriamente , farne a meno. Vai a dire a un italiano che se non legge ha ragione, anzi fa meglio! Si sentirà sicuramente liberato dal senso di colpa di non aver letto abbastanza in vita sua. Anche se è un borghese d’avanguardia, potrà orgogliosamente proclamare come fece Oliviero Toscani: “Io i libri li uso per sedermici sopra!” . Bene, andiamo avanti così, continuiamo a farci del male.
2. Sulla Trinità. Non entro nel dibattito, anche se sto su questa questione dalla parte di Monica, ma vorrei ricordare che ne abbiamo già parlato in questo blog… la struttura trinitaria della divinità è nozione che precede il cristianesimo e si trova anche nella mitologia egizia. Spesso siamo così convinti che dalla figura di Cristo sia nata nata una totale rivoluzione culturale, da non prendere in considerazione l’evidenza e cioé che lo sviluppo di pensiero simbolico è caratteristica dell’umanità in quanto tale e trasversale alle culture. Da questo punto di vista la lettura di Jung è certo illuminante, ma come ho già detto, se si va a leggere Liebniz, si scopre che se ne era già occupato lui. Ci sono figure mitiche e simboliche e strutture filosofiche di riferimento che sono presenti in tutte le culture e che vengono anche tradotte di cultura in cultura. Se parliamo ad esempio del tema della Madre Vergine, questo non è affatto esclusivo del cattolicesimo, è un Mito ben presente nelle culture cosiddette pagane. Se di questo fossimo più consapevoli saremmo meno inclini a quella separazione dogmatica (frutto del Mercato della Fede) che ci impedisce di capire la religiosità altrui. Nella realtà, le culture sono molto più intrecciate di quanto sembri. In particolare sull’oriente, mi sento di consigliare la lettura del bel saggio di Robert Irwin “Lumi dall’oriente/ L’orientalismo e i suoi nemici” edito in Italia da Donzelli. Il libro racconta la storia dell’attrazione per l’Oriente passando da Erodoto a Euripide, da Platone e Aristotele alla Scolastica del Rinascimento, dal secolo dei lumi a quello delle industrie, fino ad arrivare al presente e toccando gli ambiti più diversi: letteratura, religione, filologia, politica, cultura scientifica.

Postato giovedì, 8 luglio 2010 alle 15:17 da Gianfranco Manfredi


Ah… il libro che ho consigliato, non parla però (sarà un caso?) degli ortodossi! Cioè se dobbiamo confrontarci con qualcuno, facciamolo con l’islam (anche perché dobbiamo comunque farlo, volenti o nolenti) oppure con buddismo e confucianesimo, ma considerare che le nostre eredità culturali sono state tutte (anche quelle non cristiane) segnate da conflitti, separazioni, scismi è cosa che non ci fa piacere: meglio pensarle organiche e coerenti, come invece non sono e non sono mai state nella Storia.

Postato giovedì, 8 luglio 2010 alle 15:25 da Gianfranco Manfredi


PICCOLA PROPOSTA

Abbiamo saggiamente evitato in questa libera discussione di farci contagiare troppo dall’attualità e da quella politica in particolare. Però domani ci sarà lo sciopero dell’informazione (anche quella su internet) contro la legge bavaglio. Proporrei dunque di aderire alla giornata di silenzio. Continuiamo oggi e dopodomani questo proficuo scambio, ma prendiamoci una pausa domani. La questione, l’abbiamo marginalmente affrontata anche qui accennando per esempio al Caso Saviano e più in generale al tema delle censure (non so se ci avete fatto caso , ma è uscito qualche giorno fa su repubblica un articolo di Umberto Eco che spiega come le censura oggi applichi non solo e non tanto il silenzio imposto, ma la confusione proliferante delle notizie,da quelle false, a quelle irrilevanti, per soffocare il libro dibattito delle opinioni e la conoscenza stessa dei fatti… beh, non abbiamo avuto bisogno di aspettare l’autorevole parere di eco, perchè queste stesse cose, qui, le avevamo già scritte, pur discutendo di vampiri!). Il silenzio scelto ha a questo punto un valore oppositivo rispetto alle sindromi da controllo che in larga misura prescinde e travalica gli orientamenti elettorali, ci riguarda tutti, tanto più chi si occupa di letteratura. Non so se Massimo Maugeri sia d’accordo, ma io direi che un giorno di silenzio partecipante sarebbe assai utile.

Postato giovedì, 8 luglio 2010 alle 15:53 da Gianfranco Manfredi


Comunicheremo lo stesso telepaticamente, penso. Quest’ultima parte della discussione anche se è andata spesso fuori dal seminato, è stata molto interessante e ha mostrato come nel confronto dialettico e anche nelle differenze evidenti di “gusto” (c’è chi è entusiasta di un libro o lo giudica comunque significativo e chi lo giudica invece una schifezza) a volte spuntano delle sintonie su altri temi : nessuno di noi è un’isola o una cittadella assediata che difende a priori le proprie posizioni. E’ per questo che ha senso discutere e con franchezza: non nascondere cosa ci separa, ci aiuta a capire cosa abbiamo in comune e il risultato non è mai prevedibile in anticipo.

Postato giovedì, 8 luglio 2010 alle 16:09 da Gianfranco Manfredi


Sulla Trinità non vado avanti, se no ci inoltriamo in sentieri da sesso degli angeli. Che non interessano a nessuno.
Gianfranco dice una cosa assai importante sulla lettura (incardinata ancora sul tema della diffusione della Bibbia): per gli italiani, l’ignoranza è una comoda coperta. E gli italiani apprezzano chi coccola la loro non-voglia di studiare, di applicarsi, di leggere.
Non caso il “nostro” santo (prima dell’arrivo di Pio da Montalcina…su cui stendo un velo pietoso) era Francesco d’Assisi. Persona formidabile, gran predicatore ricco di humour, caldo cuore, lontanissimo dal potere eccelsiastico, matto nel modo giusto.
Però, a differenza di Valdo (da cui nasce la chiesa valdese) che fece pure lui la scelta della povertà e della semplicità, Francesco ha un gravissimo difetto. Che ha influenzato pesantemente l’animo degli italiani: Francesco mise al primo posto l’umile obbedienza nei confronti del Vaticano. E questa sua scelta ha contribuito a plasmare il servile conformismo degli italiani, la loro subalternità intellettuale ed etica verso il potere.
In più: anche Valdo (mercante) donò i propri soldi ai poveri. Ma una parte del denaro la investì per far tradurre in volgare alcuni libri biblici, convinto com’era che la conoscenza fosse strumento di libertà e di fede.
Francesco invece elogiò spesso l’ignoranza, delegando la conoscenza alle gerarchie eclesiastiche vaticane.

Postato giovedì, 8 luglio 2010 alle 16:12 da luciano / idefix


Mah, tra i seguaci francescani c’erano i dissidenti chiamati Spirituali capeggiati da Angelo Clareno che durante il suo esilio in Tessaglia, presso i monasteri meteorici tradusse molti testi della patristica e li portò in Italia, testi come La scala paradisi di Giovanni Climaco. Ho il sospetto che Francesco elogiasse la semplicità non l’ingnoranza:-)

A proposito di San Pio da Pietralcina, mi ha riconciliato con il mistero della sua santità un documentario di Minoli. Una devozionalità tanto distante dalla mia capacità di comprensione (e non solo dalla mia a leggere i giudizi sul frate di Padre Gemelli e di qualche papa), si è improvvisamente chiarita alla luce della conoscenza di qualche aspetto non secondario. Pio era espressione di una realtà contadina abrutita dalla miseria, per tutta la sua vita ha cercato di regalare una possibilità alla propria terra. E se qualche francescano in passato (vedi i Fioretti di San Francesco) si limitava a volare entro le mura del chiostro, San Pio agli albori della civiltà mediatica ha pensato di uscire da quelle mura. Lo sapete che leggenda vuole apparisse in mezzo alle nuvole ai piloti dei bombardieri americani? :-)
Sì Gianfranco, a molti pare sacrilego accostare la trinità cristiana ad altre divinità trinitarie di ambiti culturali vicini e lontani, a me invece piace scoprire questi rimandi, mi fa sentire più vera la mia verità.

Certo l’influenza della pratica delle lettura dei libri sacri sull’alfabetizzazione ha segnato un grande stacco di civiltà di cui ancora paghiamo le conseguenze.

Quanto alla legge sulle intercettazioni, mi chiedo come possano confidare che passi il messaggio che sia mirata alla tutela della privacy, quando contestualmente approvano il passaporto elettronico con le impronte digitali per tutti e quando in strada c’è una telecamera ogni due metri. Va bene allora ci risentiamo dopodomani :-)

Postato giovedì, 8 luglio 2010 alle 17:26 da Monica Montanari


Intervengo a spot – emergendo da una calura da pizzeria – per salutare.
Un saluto particolare a Gianfranco di cui sposo (per quel che vale) totalmente le riflessioni su Byron/Keats e il ragionamento su Dan Brown. Sul gusto (bello o brutto) della massa sottoscrivo un ragionamento di Trevanian, che sosteneva “che l’uomo dotato dovrà sempre guardarsi dai molti, perchè sarà un’anomalia e un sassolino nell’ingranaggio, e dovrà nascondersi, o lottare o soccombere” …
Grosso modo …

Postato giovedì, 8 luglio 2010 alle 17:32 da claudio vergnani


La convinzione che leggere non serve a nulla nell’attuale ceto politico è prevalente: mai che si senta un leader politico (se non qualche volta Veltroni) citare un libro. Alla domanda rituale credo della Bignardi. qual è l’ultimo libro che ha letto? Bossi ha risposto con un sorriso imbarazzato: beh, adesso mi fa una domanda troppo difficile. Berlusconi non ha mai citato uno scrittore (e fa l’editore!) se non per polemizzare con Saviano (e ha aggiunto che non l’aveva letto, che la sua era una considerazione generale). Bersani se cita qualcuno è Vasco Rossi (per dire che gli piacciono le sue canzoni). D’Alema… gli avete mai sentito citare un romanzo in vita sua? Evidentemente sono tutti partecipi dello stesso ceto neo-borghese per il quale la lettura di romanzi è un optional, molto meno interessante dello sport, delle canzonette e dell’andare in barca. Si crede di risultare più “popolari” se si afferma di disinteressarsi della letteratura. Mentre scrivevo il mio nuovo romanzo ( a proposito, presto vi comunicherò dove potete trovare il trailer che esiste già, me voglio lasciare ovviamente il battesimo a Gargoyle), studiavo l’età di Napoleone Primo Console e leggendo alcuni saggi ho scoperto che la nuova borghesia dell’età napoleonica era esattamente così. Si credeva di risultare “nuovi” e “moderni” disprezzando apertamente i cosiddetti “salotti”, cioè i luoghi e momenti d’incontro creati e condotti da donne, per il dibattito filosofico e letterario e che enorme influenza avevano anche avuto nella diffusione del pensiero dei philosophes (oltre che nel loro mantenimento), dunque sulla rivoluzione stessa. La parola “salotto”, da allora acquistò una connotazione negativa che ancora ci portiamo dietro. Quante polemiche stupide riecheggiando sulla “sinistra dei salotti” e ultimamente anche sulla destra salottiera e “dunque” distante dal popolo. Dietro la ripulsa del salotto si nasconde storicamente il ripudio per le donne (non più considerate in età napoleonica come animatrici culturali e sostenitrici dello sviluppo del pensiero e della cultura, ma retrocesse a madri e a oggetti ornamentali. Napoleone anche se nessuno lo ricorda più, poco tempo dopo, mi pare un paio d’anni dopo, aver assunto la carica di primo Console, esiliò George Sand che in quanto scrittrice influente e donna intelligente gli stava sulle palle). Le donne continuano ad avere un ruolo importantissimo per la cultura, basti il fatto che rappresentano la stragrande maggioranza del pubblico dei lettori. Però soffrono di un rimprovero, magari non detto, ma pensato: leggere perchè non avete niente da fare. Sentenza assurda nella sua falsità: dato che le donne se non altro perché costrette ad assumersi più ruoli, lavorano il triplo dei maschi e vengono pagate meno. Ma il tempo per leggere lo trovano. Mai preso il metrò a Milano? Moltissime le donne che leggono romanzi durante il tragitto. I maschi non leggono più neanche la Gazzetta dello Sport, è rarissimo trovare un passeggero immerso nella lettura . Ora: mentre vieni trasportato, non hai nulla da fare. Dunque è solo un alibi dire: non leggo perché non ne ho il tempo. Se vuoi , il tempo lo trovi. Il problema è che consideri la lettura (da maschio) come una perdita di tempo, come qualcosa che non solo non ti arricchisce, ma ti confonde pericolosamente le idee. Magari ti piacerebbe scrivere, perché allora di colpo quel libro (magari autopubblicato) lo consideri uno status symbol, però leggere no… per carità, è roba da intellettuali simil-froci (magari non lo si dice, ma lo si pensa). Poi non stupiamoci se le prime voci che i governi maschili tagliano sono quelle relative alla Cultura. In questo luogo comune diligato, grande importanza hanno esercitato le Istituzioni Maschili (la Chiesa, l’Esercito, il Partito, l’Azienda). La letteratura e la Cultura hanno potuto resistere e continuano a resistere e a svilupparsi attraverso e grazie alle donne.

Postato giovedì, 8 luglio 2010 alle 17:43 da Gianfranco Manfredi


Un saluto a Claudio. So che ha appena terminato il suo nuovo romanzo, seguito del 18# vampiro e so che l’editore ne è entusiasta. Non vediamo l’ora di leggercelo. Adesso riposati e magari se ti va, torna a dire più spesso la tua in questa sede.

Postato giovedì, 8 luglio 2010 alle 17:51 da Gianfranco Manfredi


Ah, pare ridicolo oggi, ma Napoleone giustificò l’esilio di George Sand dicendo che era una traditrice della patria, in quanto in un suo romanzo epistolare un personaggio diceva di ammirare la cultura tedesca. Le persone di cultura tendono al cosmopolitismo, non c’è nulla di più anti-culturale di organizzare rassegne letterarie (come a Francoforte e a Torino) dedicandole ogni anno a una Letteratura Nazionale diversa. Come se fosse la Nazionalità a esprimere cultura! Tutto lo sviluppo della cultura ci dice il contrario. La cultura ha anticipato di millenni la cosiddetta globalizzazione. La cultura è in sé cosmopolita, da sempre. E questo è uno dei motivi per cui sta sulle palle a chi ottiene il potere sulla base dell’occupazione di spazi (geografici e/o di mercato).

Postato giovedì, 8 luglio 2010 alle 18:04 da Gianfranco Manfredi


Grazie Gianfranco, è vero. E sei un gentiluomo a rammentarlo. Tornerò di sicuro e con maggior frequenza. Tu, stando a quel che leggo, pari in gran forma. Confermi ?

Postato giovedì, 8 luglio 2010 alle 18:08 da claudio vergnani


Nel totalitarismo religioso la discriminante (e in questo si manifesta il rifiuto del femminile) continua ad essere la sessualità. Avrete letto che non so quale imam iraniano ha recentemente emesso una sentenza contro i cani. Dietro questo rifiuto dei cani, il fatto che accompagnando a spasso il cane, si fanno incontri con altri proprietari di cani e ne possono dunque nascere relazioni sessuali. La cosa è ovvio che ci appaia insensata, però un paio di giorni fa ho visto su RaiTre un bellissimo documentario storico sulla diffusione dell’automobile nell’Italia del dopoguerra. Beh, la Chiesa Cattolica era molto preoccupata che l’automobile potesse servire da alcova. Il Cardinale Schuster di Milano impedì ai preti di guida l’automobile, a meno che non richiedessero una speciale dispensa. Ora… perché la Chiesa continua a farsi questi clamorosi autogol e ad essere sempre in ritardo sulla Storia come sul costume quotidiano? Per una questione di tipo dottrinale? No, per una permanente avversione alla sessualità e alla libertà e all’autonomia delle donne.

Postato giovedì, 8 luglio 2010 alle 18:14 da Gianfranco Manfredi


@ Claudio. Sì, sono piuttosto rilassato. Ho scelto da un po’ di rallentare i ritmi di lavoro e liberarsi dallo stress aiuta, anche a leggere di più, a scrivere meglio e, soprattutto a riflettere. Si resta anche meno allibiti, per esempio, quando si partecipa a una riunione di venditori librari,come è capitato a me nei giorni scorsi. E’ il mio lavoro, dunque mi interessa e mi serve molto capire lo stato delle cose, come sono messe le librerie, come vanno in generale le vendite, eccetera. Però negli anni si sentono dire sempre le stesse cose. Come è possibile se intorno tutto cambia? L’ultima che ho sentito è questa: i librai sono spaventati dalle prospettive e dunque se l’anno scorso di un certo romanzo un librario ha venduto venti copie, quest’anno del nuovo romanzo dello stesso autore ne ordina quindici, almeno è sicuro di non smenarci. Sentirsi dire queste cose non è molto consolante. Per un autore (come per un editore), se un anno hai venduto cinque, l’anno dopo dieci, l’anno successivo ancora venti, vuol dire che il tuo trend è in ascesa e dunque ti auguri perlomeno di raggiungere il traguardo di trenta, mantenendo lo stesso passo. La paura globale del libraio non l’hai calcolata perché non riguarda te. E’ una paura indefinibile quanto concreta, spalmata su tutto e su tutti, magari come contrappeso porta a scommettere sul “sicuro vincente” . Dopodiché basta aver visto l’ultimo Mundial per vedere che fine hanno fatto gli scommettitori che puntavano sul “sicuro vincente”. Però che vuoi fare? Questi spettri te li sei visti agitare davanti per anni e anni, ormai li conosci e non ti spaventano più. La differenza è che se sei stressato ti angosci. Se non lo sei, ti viene da ridere.

Postato giovedì, 8 luglio 2010 alle 18:27 da Gianfranco Manfredi


Ce la dai qualche anticipazione del nuovo romanzo, Claudio?

Postato giovedì, 8 luglio 2010 alle 18:34 da Gianfranco Manfredi


Sapete cosa si nota alle riunioni dei venditori? Nuove presenze femminili. I maschi sono indubbiamente più stanziali e quasi tutti over-quaranta. Esperti, espertissimi, conoscono i librai per nome, però hai l’impressione che non si divertano a fare quel lavoro. Uno mi ha confessato d’aver sconsigliato a suo figlio di fare questo mestiere da grande. Ora. Tutta questa gente che ne ha viste tante (e parlo sia dei librai che dei venditori) pare preda di una profonda disillusione. Non si può fare a meno di pensare, che al di là dell’esperienza, conti anche il fattore età (anche questo lo si è visto ai Mondiali). Negli anni ottanta, nel settore della comunicazione, si vedevano spuntare dirigenti sempre più giovani. Dagli anni 90 questo ricambio , almeno in Italia, si è bloccato vistosamente. Questo è un problema non da poco. Se in una riunione aziendale l’età media dei partecipanti è abbondantemente sotto i quaranta, quella riunione è sicuramente più vitale. Se è over40, nelle pause, ti trovi a parlare di vecchi dischi, di vecchie canzoni, di vecchi romanzi, e il futuro, le prospettive non sono contemplate. Se insisti, li annoi.

Postato giovedì, 8 luglio 2010 alle 18:49 da Gianfranco Manfredi


Sì, Gianfranco.
Sono d’accordo nel sostenere la giornata del silenzio dell’informazione italiana.

Postato giovedì, 8 luglio 2010 alle 21:54 da Massimo Maugeri


Aderisco alla proposta di Manfredi: domani silenzio stampa anche noi.
Vi saluto però con il primo breve capitolo del mio racconto-cornice (al romanzo collettivo La mente in-visibile). In tutto saranno undici capitoletti.

LA MENTE IN/VISIBILE

Dal libro di Giobbe

1 C’era nel paese di Usa un uomo chiamato Phil Spector. Quest’uomo, pur non essendo troppo integro nè troppo retto, temeva abbastanza DIO e fuggiva abbastanza il male. 2 Non gli erano nati né figli nè figlie. 3 Aveva ventitre anni, possedeva tre ville, sei automobili, duecento milioni di dollari, duecento paia di scarpe, duecento abiti e un grandissimo numero di servitori. Così quest’uomo era il più grande di tutti i Produttori Pop ed era famoso per il wall of sound. 4 I suoi amici solevano andare a banchettare in casa sua e mandavano a chiamare le loro amiche perché venissero a mangiare e a bere con loro. 5 Phil Spector si alzava al mattino presto e andava a lavorare negli studi discografici e minacciava con la pistola o con la balestra coloro i quali non volevano fare così come lui e la sua Arte avevano deciso. 6 Un giorno avvenne che i figli degli Usa elessero loro presidente John Fitzgerald Kennedy e Phil Spector decise di fare un disco di gioia. Ma in mezzo ai figli degli Usa andò anche Satana. 7 L’Eterno disse a Satana: “Da dove vieni?”. Satana rispose all’Eterno e disse: “Dall’andare avanti e indietro sulla terra e dal percorrerla su e giù”. 8 L’Eterno disse a Satana: “Hai notato il mio servo Phil Spector? Poiché sulla terra non c’è nessun altro come lui, che sappia produrre dischi di musica pop” 9 Allora Satana rispose all’Eterno e disse: “E’ forse per nulla che Phil Spector crea quel suono? 10 Non hai tu messo un riparo tutt’intorno a lui, alle sue ville e a tutto ciò che possiede? Tu hai benedetto l’opera delle sue mani e il suo wall of sound è grandemente cresciuto nel paese. 11 Ma stendi la tua mano e tocca tutto ciò che possiede e vedrai se non ti maledice in faccia”.

Capitolo 1
La vita e la memoria: Phil Spector

Per l’esattezza, il mio nome completo sarebbe Harvey Philip Spector, ma voi chiamatemi pure con quello famoso. E se qualcuno dirà che non mi conosce, i casi sono soltanto tre: o siete sordi o in questi ultimi cinquant’anni avete vissuto su un altro pianeta oppure non avete nessuna memoria per i nomi.
Phil Spector. Ancora niente? Allora vi faccio subito due titoli di canzoni che senza di me non esisterebbero e poi la finiamo con questa stronzata di introduzione: “The Long and Winding Road” (nel 33 giri “Let it be”) e “Imagine”. E sappiate che, quando ascoltate il pezzo dei Beatles, il suono fu farina del mio mulino o (se mi capite meglio così) polvere bianca del mio sacchettino. E voglio raccontarvi un piccolo segreto su quella mezza checca di Paul McCartney: ovvio che “The long” l’aveva scritta lui, ma con un arrangiamento tanto moscio che faceva cagare. E nei giorni in cui lavorai alla postproduzione dell’intero disco, quando i Quattro Baronetti s’erano arenati come Quattro balenotteri e non sapevano nemmeno dove voltarsi perché neanche George Martin poteva più tirarli fuori dalle secche e tutti volarono da me a supplicare help (afferrato?), si fece come volevo io. A cominciare da “The Long and Winding Road”, aggiungendo violini dell’altromondo e cori celestiali arrivati direttamente dal Paradiso. Quando ascoltò il risultato finale, Paul piagnucolò e sbattè i piedi sulla moquette. Comunque, “Let it be” fu il disco beatlesiano di maggior successo. Qualcosa vorrà pur dire, no? Ma la vera rivincita la ottenni anni dopo: nei suoi concerti, il Belloccio non suonava mai “The Long” nella sua versione ma sempre nella mia.
E “Imagine”? Ogni volta che lo stacco della batteria e l’incedere dei violini sotto la voce di John vi fanno venire nei boxer o nelle mutandine, ricordatevi del vecchio Phil.
Vi bastano come esempi? E se no andate a farvi un giretto su Youtube, voi che potete usare Internet: troverete un oceano di canzoni mie.
Lo so, lo so che siete attenti. E che avete notato l’inciso di poco fa: “voi che potete usare Internet”.
“Voi”
Perché io, stando qua, non posso nemmeno toccarlo Internet. Il computer sì, il Web no. Non vi è chiaro? Beh, lo immagino. Ne riparleremo dopo, così ve lo spiego. E vi racconterò altre cose: come sono finito in questo posto, il demonio (o il figlio dell’uomo?) che ho incontrato, la proposta che mi ha fatto e i suoni della Mente In/visibile.
Ma intanto, abbiate la pazienza di seguirmi indietro nel tempo, tanti anni fa. Quarantasette, per la precisione.

“Cosa voglio fare con A Christmas Gift For You? Semplicissimo: il più bel disco natalizio che sia mai esistito e che mai esisterà. Prendere tredici grandi canzoni di Natale e trattarle con la stessa eccitazione di due adolescenti che per la prima volta si baciano e si toccano sul retro di un’auto al drive-in. Il tutto, senza perdere nulla dell’atmosfera natalizia”.
Inutile nasconderlo: davanti al negozio e al taccuino del giornalista inglese del New Musical Express ero nervoso. Intanto, quel londinese alto un metro e novanta mi superava di buoni trenta centimetri. E poi avevo un mal di testa da spaccare il cranio: un bulldozer carico di dolore andava avanti e indietro dall’osso occipitale fino all’occhio sinistro buttando giù tutto quello che trovava davanti a se. E per ultima cosa mi rendeva frenetico la vetrina, decine e decine di copertine del long playing uscito oggi: la foto coloratissima dei tre giganteschi pacchi natalizi con dietro Bob B. Soxx and the Blue Jeans, le Ronettes, le Crystals e soprattutto Darlene Love col vestito giallo e le braccia spalancata in un gesto così invitante. Non per nulla le avevo regalato la canzone migliore, “Christmas (Baby please come home)”. Settimane di lavoro in sala d’incisione, musicisti sull’orlo (e forse oltre) della ribellione…col batterista Hal Blaine ero quasi venuto alle mani e il pianista Leon Russell avevo dovuto minacciarlo con la mazza da baseball…ma era venuta fuori una gemma che sarebbe durata fino alla fine del secolo. Dal negozio uscì una ragazza, in mano il secondo disco di un certo Bob Dylan Freewheelin’ qualcosa, brodino folkie solo ossa, niente carne e niente pop, roba che aveva bisogno della polpa di un suono come Dio comanda, batteria basso tastiere e chitarre elettriche. Il giornalista inglese colse l’occasione per una domanda sulla politica americana: “Cosa pensa del presidente Kennedy?”
“I testi non sono male ma gli manca un produttore tosto”
Di nuovo si aprì la porta: mamma e figlia con Elvis a 45 giri, poi si spalancò ancora per far entrare un uomo anziano. Tutte e due le volte la polvere del marciapiede fu nobilitata dalle canzoni di “A Christmas Gift For You” diffuse dagli altoparlanti del negozio.
“Andiamo a mangiare?” propose Malcom Flandry.
Trovammo un tavolo alla Boos Brothers Cafeteria lì vicina. La radio era sintonizzata sulla ABC Network, l’orologio della parete segnava le 13.36 e io stavo dicendo che la carne dell’hamburger non sembrava…quando la voce di Don Gardner dall’altoparlante bloccò tutto, la mia frase, la forchetta del giornalista che portava tre pezzi di patate fritte alla bocca, la cameriera con quattro birre, la cassiera che dava il resto a un commesso viaggiatore, i clienti che mangiavano, una coppia che si baciava, una ragazza che si metteva il rossetto, gli Stati Uniti, il mondo intero: “Interrompiamo questo programma per trasmettervi un rapporto speciale della ABC Radio. C’è una notizia da Dallas, Texas. Tre colpi d’arma da fuoco hanno colpito il corteo del Presidente Kennedy oggi in centro a Dallas, Texas, alle 12.39 locali. Questa è la ABC Radio e stiamo appurando le numerose notizie. Restate sintonizzati”

Venerdì 22 novembre 1963, Charles Manson aveva ventinove anni e dieci giorni. Condannato per due stupri nel 1959, passava da un carcere all’altro e adesso era al McNeil Island nello stato di Washington. Il suo nuovo compagno di cella era polacco. Schifoso come tutti quelli col cognome in ski ma sempre meglio dividere l’aria con lui, Max Kaminski, che con quei negri di merda. O con qualche cubano. Almeno, Max stava ad ascoltarlo quando cantava i suoi pezzi, accompagnandosi col suono delle dita sui denti. Canzoni come “Cease to Exist” o “People say I’m no good”. O quel blues molto lungo che stava scrivendosi dentro la testa, “The In/visible mind”, la storia del tizio che si sveglia nel suo ufficio e non sa chi è, solo che si chiama Sam oppure Omar, e sgozza la moglie e poi entra in un mondo strano. E ogni volta che gliele faceva ascoltare il polacco applaudiva: “sei bravo. Appena esci diventi famoso. Ti ricorderai di me?”
Sì, certo, come no. Sarebbe uscito di galera solo nel ’67. E intanto doveva progettare il futuro: pensare a come l’America bianca poteva liberarsi una volta per tutte della feccia nera, imparare a suonare la chitarra, a farsi amare e ubbidire dagli altri. E forse Kaminski era una buona cavia.
Voci lungo le celle: “Gli hanno fatto saltare la testa…il presidente…”
Rimbalzavano: “Hanno ammazzato…sparato…Kennedy…”
Le labbra di Charles si stesero lente e soddisfatte: un amico dei negri di meno.

Non c’è bisogno che me lo diciate voi perché lo sapevo già da solo: questa piccola scena sulla vita del giovane Charles Manson in prigione non è molto convincente.
Ma ho voluto provarci lo stesso. Provate a capirmi: vederlo ogni giorno, lavorare con lui al nostro progetto, fissare i suoi occhi e ascoltare la sua voce fa venire pensieri strani. Davvero strani. Soprattutto di notte. E così, quando non riesco a dormire, passo le ore al buio, con gli occhi chiusi, a costruire dentro di me le sonorità del nostro Capolavoro. E poi, quando sono stanco e sto per addormentarmi, fantastico sulla storia di Manson, basandomi su fatti che conoscevo già, su altri che mi ha raccontato lui…oh sì! Charles è uno che adora parlare di se stesso…e sui suoni della Mente In/visibile che escono da queste mura.

Postato giovedì, 8 luglio 2010 alle 22:29 da luciano / idefix


Su questa cosa della discriminazione delle donne nella Chiesa c’è a fantastica cosa dei crismi che sarebbe bellissimo raccogliere in un romanzo magari vampirico.
Sì perchè tutto è fondato su un concetto di Tradizione che è letterale: c’è l’idea che il crisma di vescovo debba essere trasmesso senza soluzione di continuità da un vescovo all’altro in linea diretta dagli apostostoli, in particolare Pietro. Il crisma per essere validamente trasmesso richiede che il destinatario non abbia diminuzio nella sua integrità di essere umano. Per questo non vengono ordinati preti, gli handicappati per esempio, o i ciechi o i sordi e… neppure le donne …cui manca un pezzo.
Questa la teoria della tradizione del crisma. La chiesa discrimina dunque le donne? Sì. Si verifica però nel suo seno che nel monachesimo femminile le donne conoscano forme di libertà intellettuale e di potere impensabili nella società, quella di ieri e quella di oggi.

Luciano non so se ti può essere utile, ma Mario Pincherle, ebreo, sosteneva che alla fine Dio per restituire a Giobbe ciò che gli era stato tolto, faceva “l’antitempo”. :-)

Postato giovedì, 8 luglio 2010 alle 23:22 da Monica Montanari


Ho iniziato la lettura de “I vampiri di Ciudad Juarez” e ne sono rimasto piacevolmente sorpreso. Nel blog della Gargoyle era stato descritto come una vicenda d’azione e temevo di trovarmi tra le mani una sorta di action vampiresco.Invece è un acuta disamina della vita lungo il confine tra Texas e Messico ed in particolare dell’incubo che da anni pende su Ciudad Juarez.Dalla seconda metà degli anni 90 un numero consistente di donne scompare nel nulla e le poche che vengono ritrovate sono ridotte in uno stato raccapricciante:dilaniate,prive di arti,deturpate dalla fiamma o dall’acido.Nessuno fa niente e le ipotesi si sprecano.Il libro descrive tutto questo e anche la rassegnazione di chi vive a Juarez e l’indifferenza di un mondo che spesso non vuole guardare a certe tragedie. I vampiri? mi chiederete.Ci sono ma sono diversi dallo stereotipo,c’è una parola che li descrive bene, allucinanti.Oppure spiazzanti,soprattutto per chi crede di sapere cosa sia un vampiro.
Un ottimo libro per il quale vorrei ringraziare Paolo De Crescenzo,sperando che continui ancora a proporre letture di questo livello.

Postato sabato, 10 luglio 2010 alle 09:17 da Francesco Moretta


MA IL TRASH NON ERA CULT?

Esco dal fattivo silenzio (per quanto si possa essere fattivi con quest’afa) per sottoporvi una questione che da un po’ mi turba sottilmente. Da vent’anni a questa parte noi tutti (quelli che c’erano) e in particolare gli amanti dell’horror, hanno in parte coltivato, in parte subito la riscoperta del trash: romanzacci o filmacci di genere finiti nel dimenticatoio e ritrovati a distanza di generazioni, celebrati come “cult” , talvolta persino osannati come capolavori. Si è esagerato, senza dubbio, ma c’era anche un che di liberatorio in queste giocose e spiazzanti riscoperte, come ad esempio in quella di Ed Wood , “Il peggior regista del mondo”, di cui confesso, non solo mi procurai tutti (o quasi) i film, ma di cui acquistai anche la biografia di Rudolph Grey, pubblicata da Frassinelli. Certo, su Ed Wood, aveva fatto un film Tim Burton, con il suo attore-icona Johnny Depp, il che aveva non poco aiutato. Bene. Sappiamo com’è andata. La caccia al Peggio ha scovato di molto, ma di molto peggio di Ed Wood. Dev’essere subentrato, alla fine, un senso di sazietà. E’ spuntata oggi nei saggi di critica cinematografica, sulle riviste, nei siti Internet, una scuola del tutto opposta. Si prende una cosuccia qualsiasi e senza pretese e la si massacra spietatamente, irridendola (e non è molto difficile farlo). Anche in questo c’è qualcosa di liberatorio: alle giovani generazioni sono stati propinati come “cult” dei veri orrori senza arte né parte, senza infamia e senza lode, irredimibili perché semplicemente “qualunque”. C’era dunque da attendersi una reazione, più che legittima. L’inquietudine viene quando i lapidatori di oggi coincidono con gli incensatori di ieri… a quel punto non ci si capisce più niente (è una svolta di regime)? Prendo a modello l’ultimo numero della rivista Nocturno. Cito a caso alcune recensioni che compaiono in apertura. Film: Mother’s Day (manco a dirlo, un remake) . Si scrive: “L’originale è pellicola di rara noia e bruttezza, scema, sconclusionata e amatoriale … il nuovo non c’entra praticamente nulla… la vera rivelazione è il regista che si fa perdonare il mesto Repo (un cult di domani?) e dimostra finalmente di saper tenere ferma la cinepresa quando la storia lo richiede.” (Per parlare bene di un regista è necessario fare i nerd sulle sue opere precedenti?) Recensione di Rammrock (un film di zombie) : “Stile elegante… atmosfere squisitamente retrò che evocano un senso di profonda nostalgia… molto gustoso, altro che Zombieland.” (Per parlare bene di un film, è necessario sputtanarne un altro che non c’entra nulla?). Recensione di The Dead: “Il film parte bene, ma si impantana subito… ammazza senza resurrezione.” Recensione di Siren: ” Oh, ma che bella chiavica di film!” eccetera. Uno si chiede: se un film è davvero al di sotto del bene e del male, perché parlarne? Per il bisogno di sembrare fighi e raffinati massacrandolo? E tutte le cacate che ci avevate consigliato di vedere in passato? State riconsiderando il giudizio o lo confermate? Sorge un dubbio: non sarà che il post-trash è più trash del trash? Parlo del trash critico, non del trash cinematografico. I giusti mutamenti di orientamento, i nuovi punti di vista, non dovrebbero riorientare anche i giudizi dati in passato? E quanto si è sentenziato in passato, possibile che non sia più d’orientamento alcuno per gli stessi che quei giudizi hanno formulato? Pare affiorare uno dei noti e più diffusi vizi nazionali: autocritica, mai!

Postato sabato, 10 luglio 2010 alle 12:52 da Gianfranco Manfredi


Ho scritto Rammrock, ma il film si intitola Rammbock.

Postato sabato, 10 luglio 2010 alle 13:04 da Gianfranco Manfredi


Sarebbe interessantissimo fare una storia della critica horror italiana. Concentrandola sulle riviste come Nocturno e le sue antenate (le ho a casa di mio papà e non ne ricordo i nomi), ma focalizzando l’attenzione sui singoli recensori/critici. Per vedere se (proprio come suggerisce Manfredi) hanno mai ammesso: “oh…adesso penso così ma anni fa pensavo colà”
Ne vedremmo delle fantastiche.

Postato sabato, 10 luglio 2010 alle 13:25 da luciano / idefix


@Gianfranco.La maggior parte dei recensori oggi sono più o meno tutti cosi.(Di recensori bravi mi vengono in mente solo un paio di blogger)Nel recensire oggi vi è una forte superficialità accompagnata spesso da un incapacità di argomentare correttamente.Riguardo il massacro dei film brutti lo trovo un esercizio pretestuoso,un cercare di farsi belli sparando in massa sull’unica anitra zoppa dello stormo.Inoltre l’idea di brutto varia da persona a persona e non sempre un film è brutto per tutti.Alcuni film poi sono si brutti,ma proprio per questo terribilmente divertenti o a volte con dei brevi ma inaspettati colpi di genio.(Quasi tutte le persone che conosco hanno almeno uno o due film brutti che tengono solo per se come scheletri nell’armadio)
@Luciano.I critici rimangiano in continuazione quello che dicono.
P.S. Gianfranco c’è anche un film in cui compaiono licantropi da folclore ed è “In compagnia dei lupi” di Neil Jordan ispirato ai racconti di Angela Carter.

Postato sabato, 10 luglio 2010 alle 14:19 da Francesco Moretta


Sì, Luciano, credo anch’io. ma la questione ne sottende un’altra. Come stiamo messi sul piano del giudizio critico? Dobbiamo rassegnarci a dividerci sempre tra entusiasmo incensatorio e denigrazione spietata? (Il Caso Meyer di cui abbiamo abbondantemente discusso qui, è esemplare, da questo punto di vista). Prendiamo un esempio estraneo: i Mondiali di Calcio (insisto). Sarà anche “colore”, però Mick Jagger (il Diavolo) non ne ha beccata una, di previsioni, e dilagano le prese per il culo. Il polpo Paul, finora, le ha beccate tutte. Il “colore” in questo caso si sta tingendo di inquietante: possibile che il più infallibile nel prevedere il futuro sia un polipo? Il polpo Paul sta diventando il nostro Oracolo. La divinità cui affidare anche le scommesse (per chi le fa). Ohibò: non siamo in piena civiltà tecnologica? Come mai il giudizio delle macchine (basato su statistiche, ricorrenze, indagini di marketing, dati su dati), immune da emozioni del momento, Razionale per definizione, ci si rivela tanto spesso sbagliato e sempre discutibile, mentre l’insondabile e definitivo Giudizio di Dio, lo affidiamo a un polipo? L’esercizio critico della mente comporta l’elemento del dubbio. Il dubbio ci spaventa. E che diamine! Non siamo tutti affamati di sicurezza? Non cerchiamo tutti, in un gruppo di riferimento, la conferma alle nostre sicurezze? Non c’è forse un sacco di gente tra noi che non è più in grado di affrontare serenamente una discussione polemica, perché da chi non è d’accordo con noi, ci sentiamo non stimolati, ma offesi nell’intimo? E tuttavia… uno spettro si agita nelle nostre menti e nei nostri comporta-menti… il dubbio non è popolare, il dubbio spaventa, allontana… nessuno vuol passare per “caca-dubbi” ( figura ideologica modernissima, nuovo Ebreo cui si associa non il pensiero critico, ma l’irrisolutezza, l’impotenza, l’assenza di carisma, la frustrazione, l’isolamento, l’antipatia). Sono appena passato in libreria e ho sfogliato il libro di uno pseudo-filosofo (non ricordo il nome) che parla tra l’altro anche di vampiri. Sostiene questo: è il Soggetto Collettivo che ci vampirizza, perché noi cediamo noi stessi a un’Entità che ci supera (la Società, l’orientamento dominante, ma in ultima analisi gli Altri). Contro questo Vampiro dobbiamo tornare all’Io. La lettura di libri è citata come uno dei primi fattori che favoriscono questa “alienazione” dell’io-Mio all’Altro-altrui. Che cavolo! A me era sembrato di capire che è proprio la prigionia nel nostro piccolo Ego che ci predispone all’alienazione . E’ la mancanza di disponibilità e il dubbio anche nei confronti di se stessi e delle proprie convinzioni che non ci consente di crescere. Fuori da questo, la nostra Soggettività, cui teniamo tanto, non è altro che un Soggetto di Mercato. Che razza di inganno ideologico è quello di considerare alienante il confronto con la diversità ? Ciascuno di noi è anche DIVERSO da se stesso. Uno scrittore può anche mettere se stesso sulla pagina, ma appena lo ha fatto, quel “se stesso” diventa personaggio, diventa un Altro. In questa paura di essere Altri non si rivela la nostra profonda paura rispetto alla necessità di CAMBIARE per crescere? Se poi in questo nostro confortante IO non troviamo risposte… allora, sì, viva il polipo! E’ lui l’unico interprete del Futuro. La scienza ci ripete che il futuro è impredicabile? Chi se ne frega. Noi abbiamo lo stesso bisogno di conoscerlo, altrimenti ci sentiamo smarriti. Stiamo vivendo in una delle epoche più superstiziose della storia umana.

Postato sabato, 10 luglio 2010 alle 14:25 da Gianfranco Manfredi


L’apostolo Paolo, confesso, non mi è mai stato simpaticissimo, però diceva: “Io predico un Dio Sconosciuto.” Non diceva mica: ciascuno, dentro di sè, lo conosce benissimo, ed è lo stesso per tutti, anche per chi non ci crede. No, lui diceva, è Sconosciuto anche per chi ci crede. Se non sappiamo confrontarci allo Sconosciuto, perché proviamo angoscia solo nel sentirlo evocare, ecco che ci affidiamo a quello che Conosciamo benissimo, con i suoi pregi e i suoi difetti, ma almeno è fatto come noi. E se ci appare anche lui estraneo (il polipo, il mostro marino, è sempre stato fin dalle origini del racconto fantastico, il saggio di Foni che ho già citato docet, il primo simbolo dell’irriducibile a noi) battezziamolo Paul, così diventerà un pet, un confortante e simpatico animale domestico, il Dio innocuo che alle nostre preghiere risponde sempre infallibilmente, mentre l’Altro Dio, quello il più delle volte tace… e questo Silenzio non riusciamo più ad avvertirlo come uno stimolo alla riflessione, ma come un’intollerabile mancanza di rispetto per il nostro egotismo.

Postato sabato, 10 luglio 2010 alle 14:38 da Gianfranco Manfredi


Mia moglie fa i massaggi shatsu. Ultimamente mi dice che sono sempre più numerosi i pazienti che le chiedono ultimativamente: mi fa male qui, mi massaggi qui. Inutile spiegargli che se il dolore è qui, l’origine può essere altrove e che il massaggio richiede una tecnica di approccio più globale al sintomo. A loro sembrano palle, bugie dette per giustificare qualche seduta in più, e in tempi di crisi ogni seduta in più costa troppo. Una mia amica psicanalista mi ha raccontato la stessa cosa. Le arrivano pazienti sempre più numerosi che premettono: non intendo stare qui in terapia a tempo indeterminato, mi risolva questo disagio e nel più breve tempo possibile. Non serve a nulla spiegargli che ciò non è possibile ed è anzi anti-terapeutico. Non c’è da stupirsi se poi quei clienti preferiscono andare dal miracoloso guaritore di turno (sì, proprio quelli di Striscia la Notizia). Risposte! Risposte! Risposte! Soluzioni Immediate e di Pronto Uso! E’ questo che si chiede , anche alla Religione e ovviamente alla Politica. Se gli rispondi: guarda che è più complicato di quanto pensi… allora sei inaffidabile. Se gli rispondi: ghe pensi mì… lasciamo stare. A volte viene da pensare che solo una gigantesca Catastrofe ci salverà.

Postato sabato, 10 luglio 2010 alle 14:53 da Gianfranco Manfredi


@ Francesco. Dopo aver come sempre dilagato sui massimi sistemi , ti segnalo una piccola stronzata. E’ da quando hai postato il tuo messaggio su Lunacy che cerco di scaricarlo da eMule. Sono quasi alla fine … c’è voluto un sacco di tempo e spero davvero che risulti interessante. Per fortuna il file arriva da un utente straniero perché coi file italiani si sa cosa succede di solito: ti scarichi un film (magari in tempi celeri) e te ne ritrovi un altro. Solo tre giorni fa un amico mi ha detto che Wolfman con Benicio del Toro era un buon film. Così l’ho scaricato e per cautela l’ho fatto da tre file diversi, ma tutti in italiano. Risultato: due file erano dei porno , uno era This is it, cioè il film sull’ultimo e mancato concerto di Michael Jackson. Uno si chiede: ma per quale cazzo di motivo quasi tutte le volte che ci si attacca a un user italiano va a finire così? Che divertimento c’è ad appiccicare il titolo di un film a un altro film? E come mai questo insensato comportamento lo praticano solo gli utenti italiani? Possibile che il nostro concetto di scambio sociale si sia ridotto a quello di truffa reciproca? Dato che i peer appartengono prevalentemente alle nuove generazioni, c’è di che esserne sconfortati.

Postato sabato, 10 luglio 2010 alle 15:14 da Gianfranco Manfredi


@Gianfranco.Tempo fa parlavo con un amico del Giappone.Discutendo gli dissi che per facilitare a anziani e bambini l’attraversamento delle strisce pedonali ci sono delle cassette con delle palette.Il pedone usa la paletta per segnalare la sua presenza e poi la rimette a posto.Io mi domandai ad alta voce come mai non esistesse qualcosa di simile in Italia.Il mio amico mi rispose:”Perchè da noi le palette se le fregherebbero”.
Quello che segnali tu e la storielina che ho raccontato testimoniano come una certa idea di “frega il prossimo” si sia ormai insinuata nella società italiana e questo si riflette in tante altre cose.
P.S.Per tornare alla pratica di stroncare in massa i film,the Wolfman ne è un perfetto esempio,mentre all’estero pur facendone notare i difetti non si è arrivati al massacro,qui si è scelto di non perdonargli niente e adottare la linea dura.

Postato sabato, 10 luglio 2010 alle 16:33 da Francesco Moretta


Appunto. La linea dura a priori. Anche questo si fa fatica a capirlo. In un film ci sono tante cose: la storia, la regia, gli attori… certe cose magari possono piacere e altre no, ma che senso ha stroncare in blocco? Io non l’ho ancora visto, ma mi è stato detto che Benicio è perfetto nel ruolo. Ovvio che preferirei vedermelo al cinema, ma qui dove vivo e lavoro (cioè in montagna) c’è solo una sala parrocchiale, fanno anche buoni film, per carità, però lo schermo è troppo piccolo, i sedili di una scomodità assoluta, l’audio una vergogna… e allora se il pubblico pagante è costretto a soffrire, poi non lamentiamoci del pubblico scaricante… su Nocturno ho letto anche una giusta riflessione di Gomarasca che si stava vedendo un DVD della 01 (“che costa parecchi dindini pur senza uno straccio di extra e con master discutibile”) e si ritrova un film tagliato. E’ un film modesto, però nel DVD della 01 risulta a suo dire tagliato anche Rocco e i suoi Fratelli di Visconti. Conclude: “Dopo tanti editoriali contro la pirateria cominci a provare una certa empatia per chi passa le giornate a scaricare.” Sono d’accordo, anche se non su quel “chi passa le giornate”, in quanto il PC il lavoro lo fa da solo. Il pirata su internet, a volte lo si scorda, non è un ladro. Ha pagato per comprare una macchina che viene venduta proprio perché ha queste prestazioni, paga per il collegamento, consuma energia che paga … è mai possibile che i produttori che si sentono rapinati non riescano ad ottenere i loro diritti da chi realmente incassa, cioè quelli che fabbricano i PC, quelli che vendono i sistemi, quelli che gestiscono e guadagnano su questi server, le compagnie telefoniche, eccetera eccetera? Perché la colpa dev’essere del semplice utente e già pagante? E infine: se mi voglio vedere Night of the Demon, o Il Segreto del Tibet o Lunacy, cioè film fuori mercato, difficilissimi da trovare e a volte venduti in edizioni carissime quanto miserabili, per quale assurdo motivo non dovrei scaricarmelo? Lo dico perché la cosa non riguarda solo gli altri, ma anche me stesso in quanto autore. Sai quanti messaggi ricevo di gente che non riesce più a trovare i dischi delle mie canzoni? Vorrebbero comprarli, ma non sanno dove e da chi. Consiglio sempre loro di scaricarsi le canzoni da qualche sito di scambio. Io non mi offendo, anzi, lo considero loro diritto.

Postato sabato, 10 luglio 2010 alle 17:08 da Gianfranco Manfredi


Purtroppo sono tanti i film introvabili,pensa che io “Zombi 2″ e “Il signore del male” li ho visti proprio perchè li ho scaricati da internet.Questo vale per tanti altri film e in questo periodo sto cercando di scaricare “Shadow” di Zampaglione e “Valerie and her week of wonders” un film polacco degli anni 70 a base di vampiri e racconto fiabesco di formazione.Un film del genere dove potrei trovarlo?Parlare in quei termini significa metterlo nel culo (scusate il termine) a molti cinefili!

Postato sabato, 10 luglio 2010 alle 17:31 da Francesco Moretta


Poi è evidente che ci sono le degenerazioni: quelli che scaricano di tutto, non perché sono interessati a questo o quel film, canzone o romanzo, ma perché é (all’apparenza) disponibile a-gratis. Però penso che ciò sia avvenuto soprattutto all’inizio, adesso questo fenomeno è molto calato, se non altro per il fatto che bisogna anche avere il tempo di vederli, i film … oddio, sarà davvero calato? Non lo so, in realtà. Quando faccio il browsing vedo gente che ha in archivio soltanto le ultime uscite e di qualunque genere, tanto per averle… che individuo è quello che scarica per possedere e non vedere? Quanta gente, per tornare al letterario, compra (o frega dai banchi) libri che poi non legge? Quanta gente si sente alla cassa, pronunciare la frase di rito: ” E’ per un regalo”! La cassiera di solito risponde: “Vuole che le faccio un pacchetto?” Risposta: “No, grazie.” E allora? Che senso ha quel “è per un regalo”? C’è bisogno di giustificarsi come se si fosse comprata una roba sconveniente? Si intende “lo so che è una cacata, ma mica son così scemo da comprarla per me”? Succedono cose davvero incomprensibili… segni di una società arrivata alla frutta. Romero coi suoi zombi al centro commerciale lo aveva preconizzato…

Postato sabato, 10 luglio 2010 alle 17:31 da Gianfranco Manfredi


Il film su Valerie io lo avevo comprato anni fa in VHS, edito dalla Redemption (in inglese). Ci sono negozi “militanti” (come BloodBuster a Milano) dove questi film si trovano abbastanza facilmente, anche se a prezzi da capogiro. Ricordo che all’epoca mi comprai anche dei Mario Bava (sempre della collana Redemption) , e anche questi in inglese, perché al tempo in Italia nessuno aveva pensato di editare i film di Bava. Roba da chiodi, davvero… oggi chi cerca per curiosità culturale , cioè il compratore per libera scelta e per interesse al contenuto, viene punito assoggettandolo a dei Calvari allucinanti.

Postato sabato, 10 luglio 2010 alle 17:38 da Gianfranco Manfredi


Ai primi tempi degli scaricamenti si trovavano delle autentiche perle. Io ero un appassionato (lo sono ancora) di Lon Chaney padre. Sono andato a cercare i suoi film anche in sperduti negozietti di Los Angeles del tipo “Piccola Bottega degli orrori”. Non si trovavano proprio. Poi è arrivata la Rete e si sono visti spuntare anche film che secondo la critica erano andati perduti . Così ad esempio ho potuto vedermi Laugh Clown Laugh di cui qualcuno aveva ripescato una copia in Germania. Molti anni dopo, ravvisando che queste cose considerate all’epoca di scarso se non nullo interesse, un mercato potenziale invece ce lo avevano, venne editato negli USA un bel cofanetto di DVD che conteneva oltre al sopracitato film, anche The Unknown (un horror di Tod Browning di cui avevo visto solo una brutta copia non integrale su Fuori Orario) e l’introvabile e bellissimo The Ace of Hearts, tratto da un racconto di London, dove Lon Chaney interpreta il ruolo di un terrorista anarchico cui viene assegnata una missione suicida. Attualissimo, dato il tema! Comunque, ciò che voglio dire è che grazie a Internet è accaduto anche questo: il gratuito (per modo di dire) ha fatto affluire sul mercato perle che i cosiddetti esperti di mercato avevano giudicato invendibili. Adesso Lon Chaney lo si trova quasi integralmente. Molti suoi titoli sono stati riportati alla luce e restaurati. Il pubblico che sceglie esiste ancora, è vivo (e lotta insieme a noi) .

Postato sabato, 10 luglio 2010 alle 17:51 da Gianfranco Manfredi


Vale anche per i romanzi. Paolo de Crescenzo mi ha detto che i LeFanu che ha editato (tra i quali il grande classico Zio Silas, finora inedito in Italia) stanno andando benissimo. Chi avrebbe mai sospettato che LeFanu poteva rivelarsi un autore apprezzato in un momento come questo in cui sembrano prevalere letture scadenti? Rivolgersi agli appassionati e ai cercatori di qualità non è punitivo quanto potrebbe sembrare. Forse si può osare un’ipotesi: che più sembra prevalere un gusto di massa scaciato , più in tanto fango sparso le perle rifulgono.

Postato sabato, 10 luglio 2010 alle 17:59 da Gianfranco Manfredi


Mai letto su Nocturno un articolo su Lon Chaney. Uno si chiede: ma davvero bisogna per forza recuperare Monnezza? Sono convinti pure loro, i grandi e indubitabili esperti del cinema dimenticato, che di Lon Chaney non frega niente a nessuno?

Postato sabato, 10 luglio 2010 alle 18:09 da Gianfranco Manfredi


Lon Chaney è un autentico mito del cinema,di lui vorrei tanto vedere “London after midnight” pellicola importante per il cinema vampirico e per il percorso registico di Tod Browning.(Se solo avesse fatto “Dracula” con Chaney,sigh!)Lon Chaney,come dice Daniela Catelli in una puntata di Horror Night era un anomalia in un universo filmico composto da vamp e seduttori alla Rodolfo Valentino.

Postato sabato, 10 luglio 2010 alle 19:57 da Francesco Moretta


@ Gianfranco: vedo che anche “saltare” solo un paio di giorni si rimane indietro. Mi avevi chiesto de Il 36° Giusto … Ma leggendo gli interventi vari mi parrebbe di essere uno che mentre si parla di Bergman o di Resnais se ne interviene (senza alcuna ironia) mettendosi a spiegare per filo e per segno come sia ben concepito e strutturato l’ultimo film di Wesley Snipes.

Segnalo però che uscirà alla fine di agosto (primi di settembre) e che ho cercato di mettervi ciò che io per primo avrei voluto trovare in un seguito e soprattutto ciò che NON avrei voluto trovarvi. E che – nel mio piccolo e nel suo genere (ma non solo) per una volta ne sono anche soddisfatto .

Su Chaney e i classici aggiungo solo che un ruolo (negativo) lo gioca la lenta scomparsa della memoria storica delle nuove generazioni. E’ banale finchè si vuole ma in buona parte anche vero. Non perchè siano peggiori, ma perchè sono nuove. Intendo dire che ben presto un regista spregiudicato o semplicemente ironico potrà girare un bel film su Mussolini e sul fascismo (magari cambiando solo qualche nome) spacciandolo tranquillamente per un’opera originale, perchè tanto solo pochissimi sapranno che si tratta invece di storia.
Come diceva Borges, sarà possibile riscrivere identico il Don Chisciotte, tanto prima o poi si arriverà a proporlo solo a lettori che non solo non lo hanno mai letto, ma nemmeno ne hanno mai sentito parlare. Sarà come un’opera nuova, e come tale verrà apprezzata. Io – sempre nel mio piccolo – cerco di tenere invece in gran conto ciò che conosco, e il mio stile è volutamente citazionistico e irriverente. Ma se continuerò a scrivere, un giorno arriverò a citare solo libri o film che solo un 5% dei lettori conoscono. E vabbè … sarà allora come diceva Umberto Eco: una specie di colonna sonora, che alla fine serve ugualmente a fare atmosfera.

Postato sabato, 10 luglio 2010 alle 20:59 da claudio vergnani


Scrivo nella pausa della partita. Il polpo ha pronosticato Germania. Stiamo sul 1-1 e l’Uruguay ha giocato meglio. Tifo Uruguay. London After Midnight? Nel cofanetto di cui sopra, c’è anche una ricostruzione per immagini fisse. Riusciremo mai a ritrovare copia? Mai dire mai. Non si riscopre Chaney per colpa delle nuoce generazioni? Non credo. Sono state le nuove e nuovissime generazioni a riscoprire il Cinema Muto, se non esistesse questa massa critica mai e poi mai Repubblica e l’Espresso avrebbero riproposto film muti in allegato. Mussolini? Ho visto l’altra sera “Vincere”, bellissimo film di Bellocchio, oscurato sui media da prodotti magari attuali e provocatori, ma di poco conto. Quel film solleva questioni di cui nessuno vuole occuparsi perché sgradevoli. Racconta il Mussolini socialista. E il ricovero forzato in manicomio della sua prima moglie, precedente a Rachele e dunque da cancellare. Storia amarissima e tragica. Evidentemente si pensa che anche il cinema d’autore oggi abbia il compito di “divertire”. L’attore che interpreta Mussolini è di una bravura allucinante . Attualmente fa la spalla di Crozza interpretando in modo peraltro comicissimo, il Trota, cioè il figlio di Bossi. Si chiama Filippo Timi. Quanti bravissimi giovani attori sono costretti a riciclarsi in comici per mancanza di produzioni e di copioni? Dicci qualcosa di più del tuo romanzo, Claudio. Qui si divaga e si vagola per abitudine, nessun argomento resta indietro. Ogni cambio di discorso ( e di passo) è benvenuto. A me ad esempio è piaciuto molto il racconto di Luciano su Spector and Manson. Non l’ho commentato perché mi andava bene così. A volte vale il silenzio assenso.

Postato sabato, 10 luglio 2010 alle 21:34 da Gianfranco Manfredi


Sugli abbagli della critica: dubito che dovrò rivedere il mio giudizio su Eclipese. È il film più brutto che ho visto da anni :-)

Postato sabato, 10 luglio 2010 alle 22:09 da Monica Montanari


L’eclisse è appena calata. Ha vinto la Germania con traversa dell’Uruguay all’ultimo secondo. Partita appassionante quanto insensata, tecnicamente caotica, gol rocamboleschi ( da Rocambole, uno dei feuilleton più divertenti quanto insensati della storia della letteratura. L’autore, Ponson Du Terrail, per orientarsi nella selva dei personaggi, ne aveva fatto delle sagome di cartone con piedistallo. Quando uno moriva, lo abbatteva. E così si ricordava che era morto. Un giorno passò il gatto sulla scrivania e abbattè i soldatini. Ponson non ci capì più nulla e rimise in scena un personaggio morto senza manco resuscitarlo). Fatto sta che ha di nuovo avuto ragione quel cazzo di polipo! Ho sempre preferito Mick Jagger. Sarà un destino generazionale!

Postato sabato, 10 luglio 2010 alle 22:29 da Gianfranco Manfredi


A parte che ’sto Polpo Indovino ha un qualcosa di bizzarro, a metà tra il grottesco e il sinistro, l’edificante e il buffonesco.
C’è un episodio affascinante nel campo delle previsioni (riportato in un saggio che ho letto di recente, Quarkology). Anni fa una rivista scientifica inglese decise di fare un esperimento sui mercati finanziari e sulla possibilità di anticiparne gli andamenti. Così affidò alcune centinaia di sterline a:
A) un rinomato esperto della Borsa,
B) una astrologa specializzata in oroscopi societari (esiste anche l’astrologia che prende in esame le aziende, in base alla data della loro costituzione),
C) un redattore del gionale,
D) la figlia di cinque anni di un impiegato del giornale.
Tutti e quattro dovevano puntare la cifra su una società scelta tra cento possibili quotate in Borsa. Dopo un mese, si sarebbe visto chi avrebbe guadagnato di più.
L’esperto scelse in base alla situazione economico/finanziaria rapportata agli andamenti di non so cosa.
L’astrologa in base a congiunzioni astrali collegate a chi sa quali strolighezzi (in triestino vuol dire più o meno un sarcastico “indovinerie”).
Il redattore forse facendosi aiutare da qualcuno.
La bambina (convinta a partecipare al gioco da un gelato) fece così: il papà salì su una scaletta dopo aver ritagliato i nomi delle cento società in altrettanti fogliettini che buttò per aria. La bimba ne beccò al volo una manciata e poi ne scelse uno a caso.
Cosa accadde dopo un mese?
L’esperto guadagnò poco, l’astrologa perse pochissimo, il redattore andò più o meno in pari, la bambina guadagnò una discreta sommetta.
Ma il dato più interessante ci fu dopo un mese: quando fu evidente che la scelta della bambina di cinque anni era stata di gran lunga la più oculata.
Dunque viva il Polpo (che in triestino si dice Folpo).
A dimostrazione che questi super-mega-esperti sono affidabili solo se (a posteriori) vengono confermati dai fatti. La qual coda accade di rado. O comunque non più spesso di quanto accada alle previsioni random.

Postato domenica, 11 luglio 2010 alle 14:45 da luciano / idefix


Nell’ultimo capoverso, un lapsus gustoso (trattandosi di polpi poi…): invece di “cosa” ho scritto “coda”.
ALTRA QUESTIONE: Manfredi ha ricordato la saga di Rocambole. Se non l’avete mai letta, cercate di procurarvela (nell’usato si trova senza difficoltà…era nell’economica Garzanti). Secondo me non è al livello di Fantomas (per cui io ho un culto laico e delirante), ma resta pur sempre uno spasso: sgangheratissimo Ponson Du Terrail ma quanto divertente!
ANCORA DUE COSE:
1) saggissima la moglie di Manfredi. Il dolore si può provare nella zona XY ma per curarlo bisogna agire nella zona KW. Una prova molto banale? Avete mal di testa? La pillola la prendete per bocca, mica infilandovela nel cranio.
2) Gianfranco, sentendo che l’inizio del racconto ti piaceva sono cresciuto di sette centimetri.

Postato domenica, 11 luglio 2010 alle 14:55 da luciano / idefix


Trasportiamo la metafora finanziaria di Luciano sul piano delle scelte di prenotazione di un libraio. Si ha il sospetto che negli ultimi anni prevalgano i junk bonds. In altre parole, il povero librario che sopravvive come un piccolo risparmiatore, viene sollecitato a scommettere su titoli ad alto rendimento, scommessa facilitata dal fatto che in un portafoglio magro quelli a rendimento più sicuro non garantiscono ricavi allettanti, al massimo lasciano la situazione patrimoniale tale quale era. Dopodiché quasi regolarmente avviene che il titolo ad alto rendimento era una sòla , che le sue performance celebrate da esperti di mercato e ampiamente pubblicizzate, erano del tutto false e/o truffaldine. Al che il librario si incazza e l’editore-distributore allarga le braccia: ma non avevi letto la clausolina? Quel titolo era ad alto rischio, d’altro canto anch’io avevo rischiato stampandolo in centinaia di migliaia di copie. Piccola differenza: il rischio dell’editore-distributore lo pagano gli azionisti , inoltre un grande editore trova sempre il modo di ricevere (come le Banche) un sussidio di Stato. Il piccolo librario si attacca, cioè non viene aiutato da nessuno e fallisce.

Postato domenica, 11 luglio 2010 alle 15:09 da Gianfranco Manfredi


Anni fa, scrivendo un capitolo su Manson in un mio romanzo, ebbi anche la ventura di ascoltare una sua canzone. Una cosa davvero inqualificabile. Tempo dopo a San Francisco conobbi un discografico che Manson lo aveva conosciuto e gli chiesi un giudizio su di lui come cantante e autore. Mi guardò come se avessi detto una bestialità semplicemente ponendo la domanda, poi spiegò che secondo lui Manson non poteva nemmeno essere considerato un aspirante musicista frustrato, preferì definirlo come Tipo, usando un termine che più spregevole non si può: White Trash. A proposito del suo famoso “sguardo magnetico”, mi disse l’esatto contrario: Manson suscitava un’istintiva repulsione perché se qualcuno lo guardava in faccia, distoglieva immediatamente lo sguardo, cosa che all’epoca ( l’epoca della “trasparenza”) equivaleva non a timidezza, bensì a un atteggiamento equivoco e sordido. Se veniva invitato alle feste era perché portava ragazze, e se portava ragazza era perchè era sempre pieno di roba. Queste confessioni mi hanno lasciato un certo disagio… evocando nella mia mente l’immagine dello Sfigato che coltiva frustrazioni profonde. Al processo una delle sue donne disse in tribunale che sessualmente Manson non le piaceva perché “ce l’aveva piccolo”. Insomma… c’è qualcosa, nella figura di Manson, che fa pena (nel senso di compassione). Tra l’altro sua madre si prostituiva fin da adolescente, e lo ebbe da non si sa chi. Lui crebbe in riformatorio che considerava casa sua. Il mondo esterno lo confondeva. Quando usciva, non vedeva l’ora di tornare dentro. Ma è anche indubbia la sua presa su sfigati più sfigati di lui, che spingeva all’omicidio senza macchiarsi le mani personalmente. Tutto sommato una figura tragica. Phil Spector è l’opposto di Manson: il suo è stato vero delirio di potenza, non delirio da impotenza. A Spector riusciva tutto, comandava gli altri come un vero tiranno, ma di successi ne creava uno via l’altro e ciò faceva di lui un Dio. Di certo anticipò la figura dello yuppie vincente, cui scoppia il cervello per eccesso di carica oltre che di coca. E’ dunque molto interessante l’idea di mettere queste due figure a confronto in un racconto. Ora: non voglio chiedere a Luciano di anticipare il finale, però nel caso che uno dei due personaggi dovesse, nella fantasia, uccidere l’altro, per chi parteggeremmo da lettori?

Postato domenica, 11 luglio 2010 alle 15:37 da Gianfranco Manfredi


Onestamente quando serial-killer,cultisti,”pifferai magici” e dittatori si sono rivelati autentici vincenti?Quasi mai,anzi spesso nella migliore delle ipotesi sono l’incarnazione pura del cittadino medio.I loro seguaci o ammiratori sono persone che spesso hanno un ego spappolato come una mollica di pane (non sempre per colpa loro,poveracci…) perchè solo individui veramente dissociati si affiderebbero a coloro che agli occhi dell’uomo comune suscitano spesso ribrezzo.Un atteggiamento che mi ha veramente stufato da parte della società di massa è l’adorazione di simili individui o della loro immagine.(non scherzo,Manson e soci hanno più fans di una rockstar)Non è che dietro tutto questo si nasconde in realtà un deprimente culto del più piatto uomo comune?

Postato domenica, 11 luglio 2010 alle 15:56 da Francesco Moretta


Un’altra domanda vorrei porla a Monica. Cosa non ti è piaciuto in Eclipse il film? Io non l’ho visto, cioé ho visto solo il trailer ed è bastato quello a dissuadermi. Twilight tutto sommato era un filmetto innocuo, neanche malvagio. Rispettava l’ambientazione da college. Metteva in scena un protagonista simil-James Dean , il che era una trovata perchè esprimeva in immagine ciò che nel romanzo veniva detto: Edward è un inguaribile nostalgico degli anni 50, un ribelle buono, che non fa il maschiaccio con le donne. La sua stessa macchina sportiva, oculatamente, non diventava un antipatico segno di esibizione da upper-class, perché essa stessa rievocava la fine precoce di Dean in un incidente a un incrocio sulla sua auto sportiva. (Il richiamo , al pubblico americano risulta assai più trasparente che al nostro. All’osservatorio di Los Angeles è esposto un cippo a ricordo imperituro di Dean e di una scena di Rebel without a cause, che venne girata proprio lì). Ed era anche una furbata commerciale se vogliamo, perché univa una nostalgia da “mamme” ai sempiterni bollori adolescenziali per il belloccio “appartato”, ma che proprio per questo si fa notare. Il tema vampirico (ha ragione Monica) era piuttosto sullo sfondo, una coloritura anche questa abbastanza furba: se si presenta un personaggio Vergine, la cosa nel contesto di un film college, può davvero sembrare ridicola e fuori dal tempo, ma se la sua verginità viene accoppiata al vampirismo, allora si ammanta di un che di “alternativo”. Il punto è che vampiri , lupi mannari ed effetti speciali, nella Saga, prendono la mano. E, diciamocelo, fanno cacare. Vedere quei personaggi improbabili seduti su troni, truccati come a un carnevale, ridicole versioni di dark e di emo più che di vampiri, è cosa che non si regge proprio. In un romanzo, il lettore ha la fortuna di poterseli immaginare, i personaggi, ma in un film si vedono e se sembrano una manica di cialtroni non risultano né credibili, né affascinanti. Ma questo è quello che ho pensato io… tu come la vedi, anzi, come l’hai vista, Monica? Dato che ti sei dichiarata infatuata dai romanzi della Meyer, il tuo punto di vista sul film, è sicuramente più competente del mio.

Postato domenica, 11 luglio 2010 alle 15:59 da Gianfranco Manfredi


@ Francesco, Sì, forse su Manson hai ragione, ma quello che dici non si può certo riferire a Spector. Il suo è un caso diverso. Anzi opposto. All’uomo comune Spector sta ANTIPATICO perchè è BRAVO e ne indovina più del polpo. La sua arroganza dice agli altri: in confronto a me, voi siete delle merde.

Postato domenica, 11 luglio 2010 alle 16:08 da Gianfranco Manfredi


Come giustamente scrive nel suo racconto Luciano, queste cose Spector le diceva anche a Paul McCartney, mica a Pinco!

Postato domenica, 11 luglio 2010 alle 16:10 da Gianfranco Manfredi


Ne ho conosciute molte di star che nelle discussioni “artistiche” coi colleghi a un certo punto dicevano: Stai zitto che non capisci un cazzo. Non puoi parlare perché io ho fatto più successi di te. Questi personaggi, nello spettacolo, vengono riveriti finchè hanno successo, ma al primo appannamento nella loro carriera, tutti li scaricano. Giustamente, non vedevano l’ora di toglierseli dalle palle. Anche se dopo la botta si dicono “cambiati” (non mi drogo più, non sono più insopportabile come un tempo, chiedo solo di poter mostrare ancora il mio talento) nessuno li fa lavorare più. Si sono resi odiosi ai colleghi e questo è il peccato più grave che si possa commettere nello spettacolo.

Postato domenica, 11 luglio 2010 alle 16:16 da Gianfranco Manfredi


@Gianfranco.Infatti mi riferivo a Manson,non a Spector.Se un individuo ha talento e riesce bene nel suo lavoro trovo giusto che sia lodato e se ne vanti (entro un certo limite) anche se poi caratterialmente è stronzo e intrattabile.Di persone così la storia del cinema e della musica è piena,ma il fatto di avere un pessimo carattere non gli ha certo proibito fama e gloria.

Postato domenica, 11 luglio 2010 alle 16:26 da Francesco Moretta


Piccola segnalazione fumettistica: ad Agosto dovrebbe uscire negli States per la Wildstorm una miniserie chiamata “Ides of blood”.La trama immagina che Cesare annettendo la Transilvania all’impero romano,vi abbia condotto anche i vampiri ma come schiavi di Roma.La Wildstorm non è nuova a simili pastiche (in passato ha messo Sherlock Holmes contro un orda di zombi) ma spesso gli riescono bene quindi mi sento fiducioso nel pensare che potrebbe uscirne qualcosa di buono.

Postato domenica, 11 luglio 2010 alle 16:43 da Francesco Moretta


Gianfranco: conoscendoti immaginavo che avresti fatto centro al primo colpo. E hai colto in pieno ciò che mi accese la “lampadina” col primo barlume del bozzolo di idea del racconto: il confronto tra un Vincente e un Perdente che stanno tutti e due in galera.
Non nascondo la mia grandissima ammirazione per l’uno (malgrado le derive della sua vita privata e il crimine per cui è finito alla Corcoran State Prison), nè nascondo il mio ribrezzo per l’altro (la sua sciagurata infanzia NON giustifica gli orridi delitti che commise e fece commettere).
Per certi versi, Spector e Manson sono due facce della stessa medaglia che si chiama VOGLIA DI AFFERMARSI A TUTTI I COSTI. Ma le due facce sono opposte: successo/insuccesso, talento/assenza di genio, piacevolezza del prodotto/sangue e orrori.
Il paradosso è che (per la stragrande maggioranza delle persone) Manson è molto più noto di Spector (di cui tutti conoscono le canzoni…anche i ragazzini hanno sentito Imagine o “Baby please come home” che sta in Gremlins…ma pochissimi il nome).
Che sviluppi abbia il racconto nè come finisca, non ve lo dico.

Postato domenica, 11 luglio 2010 alle 18:47 da luciano / idefix


@Gianfranco (e oviamenti a tutti coloro che sono interessati)

Il 36° Giusto è il secondo episodio di una possibile trilogia inaugurata con Il 18° vampiro.

Dopo che l’attacco dei vampiri narrato ne Il 18° vampiro (per motivi che rimangono di fatto ignoti e sui quali nessuno pare seriamente interrogarsi) è cessato di colpo, Claudio e Vergy si ritrovano dopo mesi. La situazione si è normalizzata, e la società ha relegato l’accaduto nel novero delle tante tragedie più o meno inesplicabili che l’umanità si trova a dover affrontare ogni giorno.
La vecchia squadra di cacciatori si è sciolta. Si vuole solo dimenticare. Per i nostri, stanchezza e nausea sono i sentimenti predominanti. Ma le necessità economiche premono e i due sono costretti – pur molto controvoglia e dopo un paio di infruttuosi ed umilianti tentativi di trovare un lavoro “normale” – a rimettersi “sulla piazza”, questa volta al soldo di un mercenario senza scrupoli.

Sullo sfondo di una società costretta gettare la maschera dei moralismi e del finto perbenismo, e che suo malgrado ha finalmente visto riflesso nello specchio della propria coscienza il suo volto ipocrita e corrotto, i nostri saranno nuovamente obbligati ad affrontare – senza convinzione né mezzi adeguati – la loro nemesi di sempre, le sanguinarie creature della notte – sbandati assassini la cui sete senza redenzione scopriranno essere speculare alla scomparsa di ogni valore tra i cacciatori umani – in una lotta senza regole né onore, dove ai primi non rimarrà che aggrapparsi disperatamente alla loro miserabile vita e gli altri – con la disillusione e la rabbia di chi è già morto – combatteranno invece con ferocia e sadismo per continuare a camminare qualche notte ancora tra i vivi.

L’idea di fondo è di proporre un horror robusto che però presenti più piani di lettura senza mai diventare demagogico o pesante. Chi ha letto il prequel vi troverà ancora l’alternarsi di sutuazioni ai limiti dello splatter con altre più leggere e divertenti. L’accostamento tra citazioni “colte” e un linguaggio a tratti volutamente greve. Personalmente ne sono soddisfatto (cosa che mi capita di rado, per la verità). E pare che ne sia soddisfatto anche Paolo De Crescenzo.

Postato domenica, 11 luglio 2010 alle 20:49 da claudio vergnani


@ Luciano. Riassumo per chi non fosse al corrente. Phil Spector è stato condannato per omicidio di secondo grado di una povera cameriera aspirante attrice. Grazie a una cauzione milionaria, dopo la condanna era ancora a piede libero (ignoro a che punto stia il caso). Un ipotetico scontro Spector-Manson mi intriga perché lo scontro tra due “cattivi” è una delle cose più appassionanti, in teoria, ma più difficili da risolvere in narrativa e anche in cinema. Un esempio? Freddy Vs Jason. In teoria è una bella idea, in pratica non si sa proprio da che parte stare. Ecco perché nello scontro Spector-Manson mi sono astenuto.Non saprei davvero con chi stare. Francesco il suo giudizio l’ha dato e motivato, per cui al momento stiamo Spector 1 , Manson 0. Sempre meglio del noiosissimo 0-0 del primo tempo della finalissima Mundial. Non c’è che dire: il calcio può permettersi lussi che alla letteratura e al cinema sono sconosciuti. Nessun romanzo e nessun film possono reggere se arrivati a metà non è successo niente (e dunque in questo Syd Field ha ragione): il lettore o lo spettatore abbandonano. Il calcio invece è in diretta… e nella vita reale si spera sempre che qualcosa succeda anche se l’esperienza di tutti i giorni ci dice che in genere non succede niente. Molto interessante il tema del nuovo romanzo di Vegnani… tinto, a quanto sembra, di disperato survival.

Postato domenica, 11 luglio 2010 alle 21:32 da Gianfranco Manfredi


@Claudio.La parte survival e la caratterizzazione più spietata del mondo dei cacciatori mi interessa molto,ma ho una domanda:scriverai o hai nel cassetto anche romanzi non-vampirici?

Postato lunedì, 12 luglio 2010 alle 10:34 da Francesco Moretta


A mia moglie le partite di calcio non piacciono anche per un motivo “narrativo”.
E io non riesco a farle cogliere un fatto fondamentale:
una partita non è stata scritta in precedenza da un romanziere o da uno sceneggiatore
e dunque
le fasi “noiose” in cui non accade nulla di nulla,
NON si possono saltare perchè NON sono il frutto sciatto di una pessima e inconcludente scrittura. Ma anzi, da un momento all’altro, può accadere che una partita soporifera si accenda per trasformarsi in qualcosa di indimenticabile. Oppure che un 3-0 ormai avviato fiaccamente e sbadigliosamente verso la scontatissima vittoria di chi è in netto vantaggio diventi 3-1 e a quel punto la partita riesplode in pura e micidiale suspense.
Insomma, nel bene e nel male, nel calcio non si può mai (quasi mai) dire.
E questa è una delle sue fascinazioni.
(Basta pensare al Polpo Paolo che ha azzeccato sette pronostici su sette…le probabilità che imbroccasse l’intera sequenza erano circa
lo 0,3%)

Postato lunedì, 12 luglio 2010 alle 10:39 da luciano / idefix


Gianfranco stamattina mi sono svegliata con in testa la ninna nanna del camionista, quello che si infila nell’autogrill del Paradiso troppo caldo :-)
Ovviamente mi sono chiesta chi dovessi avvertire qualcuno raccomandadomi di avere cautela guidando. “Ovviamente”: ovviamente per chi, come me, coltivi un “pensiero magico”. Il polipo indovino fa riemergere questa cosa arcaica che l’uomo faber non riesce a del tutto tacitare: il pensiero magico appunto.

Postato lunedì, 12 luglio 2010 alle 11:03 da Monica Montanari


@Gianfranco/Luciano (e tutti gli altri).Ho appena letto che la Dagon Press con la collaborazione di Sergio Bissoli ha intenzione di varare una collana in cui ristampare i titoli migliori de “I racconti di Dracula”.

Postato lunedì, 12 luglio 2010 alle 11:17 da Francesco Moretta


Il livello di Eclipse è quello di un “Pedro non è tuo padre”. Livelo soap, ma di quelle orrende. Intanto, non riesce a decollare il movento affettivo per il personaggio semplicemente perchè il filme si dimentica di mostrare come i contatti col vampiro emozionino la protagonista. Questa è la chiave della narrazione sentimentale: Se dici che tizio è figo non basta. Devi dire che tizio è cosi Figo che lei si infiamma al solo vederlo e distoglie lo sguardo. Il che da rendere cinematograficamente non è semplice mantenendosi iperfedeli al romanzo originale. Il più grande a fare questa operazione è sempre stato Bolognini, il cui Metello sapeva riprodurre magistralmente tutti i sapori del romanzo di Pratolini (spero di non dire cazzate, l’età mi fa brutti scherzi quanto a memoria. Ora per raccontare al cinema: tizio è cosi figo che lei si infiamma al solo vederlo e distoglie lo sguardo. Non ti basta far distogliere lo sguardo a quel pesce lesso della Kristen che interpreta Bella: un po’ per i limiti obbiettivi dell’espressività dell’attrice e un po’ perchè è troppo fugace la reazione nel racconto per immagini. Dunque si richiederebbe di farle fare qualcosa di plastico per evidenziare il turbamento. Che ne so scappare e chiudersi al cesso per bagnarsi il viso accaldato.
Questo è il difetto fondamentale.
Sotto il profilo più strettamente tecnico, la colonna sonora è fatta da un tappetino musicale essenzailmente pianistico (effetto soap) su cui a volte irrompono “gli effetti” delle scene di battaglia.
Poi ci sono cadute alla “orologio di Benhur”: il personaggio non è truccato in modo sempre uguale. A volte ha il viso come di gesso con brillantini altre volte se ne dimenticano e, pure al sole, non brilla più, ha una bella faccia bianca e rosa. Credo che si siano detti, ma sì dietro c’è il tramonto, diremo che Edward era in controluce per questo sembra meno bianco e i brillii non si potevano vedere.
La tessitura dei dialoghi è semplicemente allucinante. Il cinema richiede di saper condensare in un botta e risposta efficace il sapore di dialoghi che in romanzo durano pagine. Bisogna riconcepirli per estrinsecarne il senso in poche battute. Qui hanno preso il culmine di alcune scene dialogate, le hanno stralciate e le hanno riproposte con effetto lunare, non emozionante e alla lunga veramente noioso. Volevo uscire.

Postato lunedì, 12 luglio 2010 alle 11:24 da Monica Montanari


A TUTTI. Consiglio vivamente di leggere l’articolo che apre le pagine cultura su repubblica di oggi, anzi i due articoli , a firma di Simonetta Fiori e di un gruppo di piccoli editori. Riguarda una legge che sarà presentata mercoledì alla Camera e che prevede un tetto agli sconti sui libri, ma consente di praticare questi sconti in permanenza, per tutto l’anno, cosa che solo i grandi editori potranno fare, massacrando i piccoli editori e i librai indipendenti. Cito alcuni passi dell’appello dei piccoli: “Nella composizione del costo di un libro ci sono voci fisse che incidono molto su tirature basse e si riducono con l’aumentare della tiratura. Se la tiratura raddoppia, queste voci incidono per la metà nella composizione del costo finale del prodotto.”
“Una piccola libreria sui libri che acquista ha normalmente uno sconto che si aggira sul 28/30% . Una grande libreria o una libreria di catena ha uno sconto che può essere anche del 50% maggiore, il che le dà margine per applicare sconti importanti.”
“Questo orientamento commerciale (che ostacola librerie di piccole dimensioni e i libri a bassa tiratura) svilisce il libro: invece di vendere contenuti, si finisce sempre più spesso per vendere prezzi di copertina scontati e a trasformare il lettore in consumatore.”
Dunque vedete… noi “ingenuamente” continuiamo a parlare di contenuti, di quel libro che ci è piaciuto oppure no, di quel best-seller che ci è parso una sòla e di quell’altro che abbiamo apprezzato, ma la posta in gioco è un’altra e la vera natura della “politica del best-seller” è di predominio economico del Grande sul Piccolo e di disorientamento del pubblico dei lettori, mutati in cacciatori di sconti a prescindere dal contenuto dei libri. Noi pensiamo anche, rozzamente, che stampando tante copie di un libro, il grande editori rischi, in realtà così facendo riduce assai il proprio rischio d’impresa, e ottiene l’effetto di togliere visibilità e di mettere fuori gioco chi stampa oculatamente e progressivamente sulla base dell’evolvere della richiesta sul mercato.

Postato lunedì, 12 luglio 2010 alle 11:57 da Gianfranco Manfredi


FA RIDERE?

Si è scoperto che il polpo indovino, anche se ha un nome inglese, è italiano, originario dell’Isola d’Elba. Un parlamentare ha emesso il seguente comunicato. “Mai come in questo momento il nostro paese ha un disperato bisogno di scelte chiare e per questo ho scelto al direttore dell’acquario di Oberhausen lanciando un appello per la restituzione del polpo.” Chi ha firmato e diffuso questo scherzoso comunicato? Manco a dirlo un parlamentare del PD, Andrea Sarubbi. Dobbiamo ridere?

Postato lunedì, 12 luglio 2010 alle 12:28 da Gianfranco Manfredi


refuso, invece di “ho scelto” , “ho scritto, al direttore ecc.”. Sarubbi non specifica se abbia anche proposto il polpo come nuovo segretario del PD. a noi per la verità basterebbe meno: che Sarubbi rassegnasse le dimissioni a favore del polpo. Non si viene eletti per fare gli spiritosi. O sbaglio?

Postato lunedì, 12 luglio 2010 alle 12:32 da Gianfranco Manfredi


Bravo Gianfranco!
Stavo pensando a fare qualcosa per questa vicenda gravissima degli sconti editoriali contro i piccoli editori e le piccole librerie (cioè contro i libri di qualità, magari anche brutti ma di qualità).
E’ che in Italia, dove ti volti, trovi cause importantissime a cui dovresti dedicarti anima e corpo 24 ore su 24: lo scempio del territorio, la legalità, il massacro della cultura, la latitanza della sinistra, il vuoto di laicità, la distruzione della scuola pubblica, il disfacimento dell’unità del Paese, l’attacco alla Costituzione, la maleducazione galoppante, la de/evoluzione antropologica…
Forse un deputato dotato di humour sarebbe utile. Però mi faccio due domande:
1) questo Sarubbi che emette comunicati sul polpo Paolo intendeva proprio far lo spiritoso?
2) oltre a scrivere battutine (nemmeno troppo riuscite…mi sa che noi qua sul questo post ne facciamo di migliori…e gratis), nella sua attività parlamentare il Sarubbi fa anche altro? A quanto so ha un feeling con il finiano Granata.

Postato lunedì, 12 luglio 2010 alle 12:58 da luciano / idefix


Gran brutta notizia,ma d’altronde in Italiastan le notizie come questa sono all’ordine del giorno,il più forte si mangia il più debole e chi ha ragione non necessariamente vince.Mi chiedo ma quando capiranno che a lungo termine questo genere di cose diventa controproducente,che è come lanciare un boomerang che tornando indietro ti spianera per bene la faccia?

Postato lunedì, 12 luglio 2010 alle 16:13 da Francesco Moretta


La cosa allucinante è che la spacciano per “modernizzazione” del paese! Cosa si può fare? Non so… anzitutto rinunciando a frequentare i megastore e sostenendo i piccoli librari anche se non fanno sconti perché non possono, poi se dai piccoli certi libri non si trovano, acquistando di più on line dove si trova anche un usato nuovissimo (tra l’altro, potrei citare un altro paradosso… un lettore che cercava l’edizione originale feltrinelli del mio Ultimi Vampiri, ne ha trovato una copia grazie ad amazon.com america. Sui nostri siti on line di vendita, l’usato e il fuori catalogo non si trova, per dire come funzionano bene le cose); infine continuando nei siti letterari come questi a suggerirci libri nuovi e vecchi, in barba al culto dell’attualità imposta e dell’obbligo d’acquisto. E a proposito di rarità… ai Francesco che oltre ad aver finalmente terminato lo scaricamento di Lunacy ho trovato su eMule il film vampirico scomparso di Chaney London After Midnight? Non so ancora se si tratti della ricostruzione per immagini che già possiedo, oppure di una copia ritrovata (oppure del solito porno con titolo contraffatto) . Comunque, se non ci fosse internet, davvero chi ci salverebbe da questi operatori di mercato che abbattono le coltivazioni naturali per piazzarci i loro ogm? L’appello di cui riferivo stamattina, è stato firmato da: Instar Libri, Iperborea, Marcos Y Marcos, Minimum Fax, Nottetempo, Voland. Stupisce un po’ che altri editori medio-piccoli non abbiano firmato, ma forse si aggiungeranno presto, almeno me lo auguro. Nel resto d’Europa le regole sono queste: in Olanda gli sconti sui libri sono proibiti per legge, in Spagna e in Francia lo sconto non può superare il 5%, in Inghilterra è liberalizzazione selvaggia e infatti le librerie indipendenti chiudono una dopo l’altra. Ora, a lume di logica: se uno vuole andare al cinema, non esiste che i film nelle multisale siano a sconto rispetto a quelli in programmazione nelle sale indipendenti. Sarebbe un evidente abuso e turbativa di mercato. Perché allora il costo di un libro ( o di un CD musicale o di un DVD) può essere applicato a capocchia a seconda di dove viene venduto?

Postato lunedì, 12 luglio 2010 alle 17:58 da Gianfranco Manfredi


Boicottare non comprando nelle grosse librerie è in effetti l’unica mossa che viene in mente anche a me.Qualche giorno fa mi sono trovato a fare discorsi simili,ma riguardo ai film e alla desolante piattezza delle major.Anche lì si era arrivati allo stesso punto:evitare i kolossal tutto fumo e niente arrosto e dedicarsi a film più validi ma magari meno pubblicizzati.

Postato lunedì, 12 luglio 2010 alle 18:55 da Francesco Moretta


Gianfranco, io nelle grosse e orribili catene (librerie, dischi, dvd eccetera) non vado mai per principio (una scelta ideologica, politico-economica ed estetica). Anche se so benissimo che a volte potrei risparmiarci uno o due euro, me ne sbatacchio allegramente e preferisco stornare quella cifra in favore di una piccola libreria o negozio di cd/dvd indipendente. tanto più che (in quelle atroci catene) comprare un libro dà la stessa emozione che copulare con una bambola gonfiabile (non l’ho mai provato ma posso immaginare).
La vera gioia del lettore curioso si prova nelle librerie piccole e gestite da librai competenti e amanti di ciò che vendono, oppure nelle bancarelle o librerie dell’usato. Non in quelle nefandezze tutte uguali che magari ti praticano sconti più alti ma se vuoi scambiare due parole col commesso su un libro che hai appena letto, il povero commesso co.co.co. ti guarda stralunato perchè leggere è l’ultimissimo dei suoi desideri.
E’ lo stesso motivo per cui i dvd in allegato a Panorama non li prendo mai e poi mai: preferisco comprarli nel mio negozio di fiducia, magari pagandoli di più ma mantenendo in vita un pezzo di realtà.
NON C’ENTRA: con la rilettura di Magico Vento sono arrivato ai Cancelli dell’Inferno. In pratica, a circa un quarto dell’intera saga. Gran bel fumetto.

Postato lunedì, 12 luglio 2010 alle 20:49 da luciano / idefix


@ Luciano. Una cosa importante ho imparato dall’intenso scambio di corrispondenza che ho mantenuto negli anni con i lettori di Magico Vento. Erano lettori che lo avevano scelto e che hanno collaborato a migliorarlo. Magico vento ha avuto ben pochi lettori di quelli che passano ogni tanto e poi se ne vanno, i lettori che si raccattano per strada, e infatti ha ottenuto un piccolo record : quello dell’indice di fedeltà o come detto in gergo , la percentuale minima di abbandoni. Questo significa molto per uno che scrive. Significa poter contare su qualcosa di non occasionale e significa sentire una grande responsabilità verso questi lettori (non sterminati, certo, come numero, altrimenti non sarebbero persone “rare” e non mi scriverebbero le lettere che scrivono) : questa responsabilità sta nel cercare di dare sempre il massimo, di rinnovarsi e di corrispondere al loro bisogno di qualità, che consiste nel non considerare mai una storia come un pezzo di carta scritta, e nel pretendere di più di un lavoro “professionale”. Leggere significa sapersi emozionare e viaggiare con la mente e con l’immaginazione. Scrivere significa entrare in contatto con i sentimenti delle persone. Chi si accontenta di entrare in contatto con i loro quattrini, può anche essere un ottimo scrittore, ma di certo è una persona arida. I manager della cultura di massa facciano quello che gli pare, non serve dare consigli, agiscono come rotelle di un ingranaggio (vecchio, tra l’altro, molto simile ormai alla Casa Usher) e dunque non potrebbero fare cose molto diverse da quelle che fanno. Ma chi scrive o fa l’editore o vende libri perché per loro non sono oggetti qualsiasi, non sono merci, ma “codici sentimentali” , imperfetti, magari, ma esplorativi, venuti dalla vita e dalla società, che alla vita e alla società ritornano per vocazione naturale, istintiva… beh queste persone si sono sempre protette tra loro e continueranno a farlo. Del resto, hanno sempre comunicato tra loro in rete, anche quando la Rete non esisteva ancora.

Postato lunedì, 12 luglio 2010 alle 23:10 da Gianfranco Manfredi


Stamattina presto m’hanno svegliato i primi raggi del sole, gli uccellini che cantavano, i due cani che abbaiavano per chissà quale rumore, mia moglie Tatjana (oggi in giornata libera dalla redazione Rai) che è andata a lavorare in orto, così ho preparato il caffè e mi sono regalato una mezzora di pausa prima di prepararmi per la giornata vera e propria.
Ho letto La fuggitiva (35° o 36° della serie di Magico Vento). E sempre più, procedendo nella rilettura continua, un episodio subito dietro l’altro, mi accorgo di quanto sia radicalmente diversa da quella fatta in precedenza, quando si presentava intervallata da un mese di attesa tra un numero e il successivo.
Adesso, la compattezza dei personaggi e delle sottotrame emerge ancora più solida di prima, si tocca con mano lo sviluppo dei temi “politico-sociali”, una malinconia di fondo con guizzi sfrontati che vanno in cento direzioni, la crescente autonomia della figura di Poe da quella di Ned e viceversa (non so se ne fumetto vi sia una coppia così convincente…forse Asterix e Obelix o Corto Maltese e Rasputin).
Certo: alcuni episodi sono meno riusciti, qualcuno così così. Ma santiddio!! quanto amore e rispetto c’è sempre per la propria arte (mestiere? artigianato? passione?) e per i propri lettori.
Ecco perchè io non ho mai avuto alcun dubbio:
se devo scegliere tra il narratore caldo e onesto da una parte e il genio gelido e disonesto dall’altra, sto dalla parte del primo.
E poi, chi l’ha detto che i narratori caldi e onesti non portino pepite di genialità?

Postato martedì, 13 luglio 2010 alle 10:09 da luciano / idefix


Che ce voi fa, Luciano? Attacchiamoci alle pepite, persino le pagliuzze vanno bene. La lettura dei giornali di oggi (articoli e verbali sulla P3) è desolante. Nessuno scrittore si sceglierebbe un plot così… i sordidi agenti segreti di Graham Green o i super-agenti di Grisham sono indubbiamente più affascinati di questi peracottari … che nemmeno andrebbero bene per un film di Vanzina dato che non fanno manco ridere. Si ha sempre l’impressione di essere arrivati al fondo del secchio, ma questo fondo è abissale… e un conto è il Maelstrom di Poe, un altro conto il risucchio nella tazza del cesso. Si assiste sconsolati, ma è come se fosse una partita tra loro, che non ci riguarda. Non si riesce neanche più a indignarsi. Subentra un senso di vergogna e di sconfitta generale, cui bisogna reagire, certo… solo che i giovani , portatori di futuro per definizione, tacciono… come le donne, del resto. Ieri sono stati diffusi dei dati (dopo la recente ondata di omicidi contro le donne) : 100 donne all’anno vengono uccise in Italia dai loro compagni (giovani o vecchi, di tutti i ceti sociali, di tutte le regioni) che non accettano la separazione. Come si fa ad accettare supinamente una realtà del genere?

Postato martedì, 13 luglio 2010 alle 13:44 da Gianfranco Manfredi


L’indagine sulla P3 è condotta dai Carabinieri. Viene da pensare a quanta superficialità c’era nelle barzellette sull’arma… viene anche da pensare che questo filone di barzellette (e di telefilm barzelletta) avesse come obiettivo il discredito per chi fa e continua a fare un lavoro importantissimo. Sarà anche il colmo che un anarcoide come me si attacchi ai carabinieri… però tanto di cappello, davvero. Nei gialli italiani si occupano di cazzate e persino in quelli “progressisti” c’è sempre qualche caramba “buffo”, risibile maschera della Commedia all’Italiana. La realtà è che abbiamo messo troppe maschere grottesche alle persone sbagliate. Sotto l’uso degli stereotipi, il più delle volte si nasconde un pensiero profondamente reazionario.

Postato martedì, 13 luglio 2010 alle 13:58 da Gianfranco Manfredi


Ancora una volta: bravo Gianfranco.
Pure la mia stima per carabinieri e poliziotti, magistrati e finanzieri onesti sta crescendo di continuo. Quando poi penso che devono lavorare tra mille ostacoli, boicottati dai potenti, impastoiati da leggi truffaldine, con mezzi risibili rispetto a quelli dei criminali, rischiando la vita e mangiandosi il fegato per la frustrazione e il senso di impotenza…beh, tanto di cappello per quello che riescono a fare.
Ormai il bollettino quotidiano delle zozzerie delle caste va al di là delle mie forze: do una scorsa ai titoli, leggo qualche articolo di fondo e di analisi ma i dettagli li salto perchè ormai è troppo.
Sarebbe come voler fermare un intero esercito di vampiri avendo un solo spicchio d’aglio e una croce di carta.

Postato martedì, 13 luglio 2010 alle 15:33 da luciano / idefix


A proposito di stereotipi e luoghi comuni letterari. Nei nostri gialli spesso i carabinieri parlano come babbi, tra inflessioni dialettali e riflessioni patetiche (almeno i sottoposti), mentre gli intercettati sembrano dei geni del male, manager insospettabili, smaliziatissimi nel linguaggio e nel tendere trappole. Confrontiamo con la realtà: i carabinieri oggi in Italia sono quasi gli ultimi pubblici funzionari che parlano in un Italiano sobrio, essenziale, non burocratico, e immune da accenti regionali. Quando presentano i risultati di un’indagine in una conferenza stampa televisiva sono un modello di sintesi e di parlare corretto. Gli intercettati, i furbissimi cospiratori, invece si esprimono così: “S’adda fa, Nico’, io domano stongo pure io a Roma se ci vulimmo da Letta ci vengo pure io, cchiu di chisto non tu posso fa” (Dai giornali di oggi). Non è il caso che gli scrittori si diano una rinfrescata?

Postato martedì, 13 luglio 2010 alle 18:38 da Gianfranco Manfredi


LOST FILMS

Temo proprio che la copia di London After Midnight sia quella ricostruita per immagini fisse, non male comunque. Di lon Chaney sono scomparsi anche That Devil, Bateese; e a Blind Bargain, sul quale però è uscito un librone riccamente illustrato e ricostruito con foto di scena bellissime . Ho dato una scorsa su Wikipedia alla lista dei film perduti (ma di cui si va ancora alla caccia ovunque, dall’America alla Russia). Tra gli horror, questi: The Vampire (1913) primo horror britannico; The Werewolf di Henry McRae (1913), primo film sull’Uomo Lupo; Der Phantom der Oper di Ernest Matray (1916): il seguito (primoi sequel horror della storia) di der Golem di Wegener (1917); Drakula halàla di Kardy Lajthay (primo film su Dracula, 1923). Pezzini lo data al 1921 e nel suo The Dark Screen ricorda che lo sceneggiatore di quest’ultimo film (che pare scostarsi assai dal romanzo di Stoker) era Michael Curtiz, cioè il regista di Casablanca, che in realtà si chiamava Mihaly Kertesz. La trama era questa: un insegnante di musica impazzisce, e viene rinchiuso in manicomio , convinto d’essere un vampiro. Per provare che ha ragione e che non è matto, chiede che gli si spari. Lo accontentano… se ne deduce che il primo Dracula dello schermo è un sedicente e pure un po’ pirla…

Postato martedì, 13 luglio 2010 alle 19:13 da Gianfranco Manfredi


@Gianfranco.Recentemente mi è capitato di dare un occhiata ad un saggio intitolato “The changing vampire of film and television” e con sorpresa mi sono reso conto che l’autore tralasciava di parlare di “Nosferatu” e di “London after midnight” giustificandosi più o meno così :
-Il modello vampirico del Graf Orlok è stato ripreso solo in pochi film quindi non ha avuto influenze particolari sul genere
-Nel film di Browning non c’è nessun vampiro autentico perciò non ha senso parlarne.
Sono rimasto allibito,in quanto è “Nosferatu” ad aver fissato la regola del sole che incenerisce i vampiri ed aver fatto la connessione tra il vampiro e il contagio pestilenziale,mentre “London after midnight” presenta già elementi surreali che torneranno ancora nell’opera di Browning,come gli armadilli. Insomma se anche gli studiosi ora ragionano in questo modo dove andremo finire? Tu cosa ne pensi dei criteri adottati dall’autore del saggio?

Postato martedì, 13 luglio 2010 alle 19:42 da Francesco Moretta


Povero Sarubbi! L’essenziale è che il PD non entri nelle larghe intese di Casini con accordi sottobanco di sostanziale fiancheggiamento in cambio di nomine e fette di sottopotere.
Gianfra, anarchico o anarcoide? Io, negli anni ‘70 stavo nell’Organizzazione Anarchica Marchigiana.
Libri: Romano Gobbi si sta muovendo bene sto pensando di entrare nella sua organizzazione. Sempre pronta a pigliarmela col governo e in particolare con Berlusconi, ma la competitività dei grandi editori non sta nella legge sugli sconti quanto sul costo copia che riescono a raggiungere. Le librerie sono troppo poche e tutte concentrate nei centri storici. Anche a parità di prezzi il supermercato spesso rappresenta l’unico contatto col libro per chi non sta in centro.
Qui è cruciale per noi editori saper utilizzare le domocraticissime nuove tecnologie, dalla rete alla stampa digitale ed altro e per le libreirie trovare una mission specialistica alternativa a quella di biblioteche e supermercati. Forse bisogna ritornare al libraio competente, che ne dite? Negli anni ‘80 sono spariti, sostituiti da commessi che non sanno un cazzo. Andare in libreria dev’essere un piacere. Dico una stronzata ma ci sono gruppi fanatici di giochi di ruolo dal vivo, perchè deve accedere nei bar e non nelle librerie?
Io fossi nelle librerie invece di incazzarmi sul 15 per cento chiederei una semplicissima legge che le esoneri dal divieto di fumare nei luoghi pubblici e allarghi d’amble le licenze alla dispensa di bevande. Eccola.

Postato martedì, 13 luglio 2010 alle 20:02 da Monica Montanari


@ Francesco. Penso che l’autore del saggio sia un pirla se ha scritto quelle cose, e che convenga sempre abbeverarsi da Pezzini . Il suo Dark Screen è uno studio esaustivo e monumentale che ogni amante dei vampiri dovrebbe avere in libreria, anche per consultarlo se gli viene qualche dubbio.
@ Monica. Sarebbe bello trovare in nuove librerie (forse da Era Farenheit) dei “commossi” anziché dei “commessi”. Un tempo era un piacere andare in libreria, è vero, anche se magari c’era troppo silenzio, manco si fosse in una biblioteca, quasi che i libri di per sè mettessero in soggezione. Però si facevano incontri e questo è sempre importante. Oggi la libreria in teoria è un posto più accogliente, specie le librerie medio-alte che se lo possono permettere e dove si tengono presentazioni e dibattiti, si ascolta musica, si può sfogliare un libro, prendere un caffè o mangiare. Però… è tra i banchi e gli scaffali che regna la sperduta deambulazione di pochi appassionati di libri che cercano cose che non trovano o che non cercano più niente, ma sperano che qualcosa di imprevisto gli salti agli occhi. Altri neanche ci fanno un giro, in libreria, tanto i due o tre bestseller del momento li impilano di fianco alla cassa, così ti servi, paghi, e tanti saluti. La libreria, se è sociale, lo è indipendentemente dai libri (come accade ai centri commerciali, diventati luogo di ritrovo per gente sola e spesso anziana). Ma una socialità intorno al libro, la si trova di più in certe biblioteche di provincia che organizzano circoli di lettura, piuttosto che in libreria. E infatti se a un autore giunge un invito da una scuola, da un’Università, da una bocciofila, da un bar, da un circolo, da una biblioteca, ci va volentieri. In libreria no, non ci va, in genere ce lo mandano per “promozione” quando esce il suo libro, ma lui lo sa che è un rito stanco, che in libreria non si può promuovere niente. Tra il pubblico , c’è sempre la stessa gente, più qualcuno che si ferma due minuti, più qualcun altro che era già seduto lì da prima che cominciasse perché non ci ha un cazzo da fare, chi magari è venuto a vedere il conduttore che è in genere più famoso dell’autore … insomma, che palle! Sarebbe più interessante una presentazione di un libro in un cimitero. Ah, a proposito di promozione, siccome per qualche giorno e per vostra fortuna non mi sentirete perchè vado nelle Asturias alla Semana Negra, una manifestazione letteraria, vi saluto segnalandovi che se vi interessa vedere il trailer che ho fatto (con mia figlia Diana, che in realtà ha fatto più lei di me) del mio prossimo romanzo, non avete che da andare su YouTube e digitare Tecniche di resurrezione.mov … dura tre minuti e mezzo. Poi mi dite se vi ha intrigato un minimo. Ah, ho dimenticato di rispondere a Monica sull’anarchico. Sì sono anarchico però devo ammettere che ho quasi sempre votato, alle elezioni, perchè sono di quegli anarchici che pensano che comunque è sempre meglio avere al governo un riformista di sinistra, per quanto borghese, almeno hai qualche garanzia in più di non finire del tutto emarginato o in galera. Quindi, per umiltà, ho usato l’anarcoide. Ma tu, Monica, avrai già capito benissimo visto che noi siamo nati in una terra di anarchia diffusa. E tra i grandi scrittori anarchici marchigiani, come non ricordare Mario Puccini, tra l’altro autore dei “Racconti cupi”?

Postato martedì, 13 luglio 2010 alle 23:32 da Gianfranco Manfredi


@ Mafredi
Sul rito stanco da libreria, hai ragione. Però vale per le librerie medie. Per le piccole e radicate no. Dipende sempre dal libraio e dal rapporto che ha con i clienti. A Milano per esempio c’è una libreria non esattamente di sistra che si chiama La bottega del fantastico dove la signora, una generalessa dallo sguardo lupino e dalle frasi brusche e smozzicate è un vero spettacolo. Ti etichetta la Bailey con una mezza frase, non la leggerei mai. Fuori dalla Tradizione, le speculazioni sull’esoterismo non sono niente”. Sulla Bailery la signora della Bottega ha ragione e sebbene io non possa essere più lontana dalle sue idee, quando stavo a Milano muoversi tra quegli scaffali era un piacere, perchè a gestirli c’era una testa pensante. Sono contenta che tu sia tornato al romanzo, me lo accatto. La forma dei racconti non mi prende.

Postato mercoledì, 14 luglio 2010 alle 02:10 da Monica Montanari


Il video non l’ho trovato

Postato mercoledì, 14 luglio 2010 alle 02:14 da Monica Montanari


Al ritorno vedrò di postare il link. Strano comunque che tu non abbia trovato il video. Basta anche solo digitare il titolo del romanzo. Aggiungo una cosa prima di partire, anzi due: devo ringraziare Francesco perchè il film Lunacy che ha suggerito è davvero bello. Gli intermezzi a passo uno sono tollerabili e non si può fare a meno di pensare che anche se oggi sembrano invecchiati anticipano gli effetti de La Casa di Sam Raimi. Ho anche rivisto l’edizione ricostruita di London after Midnight. E’ più interessante di quanto ricordassi. La storia è stranissima perchè incastra la parte vampirica dentro un meccanismo da giallo. Sia il soggetto che il costume scelto da Chaney richiamano non poco Varney il vampiro: il vampiro alato di Chaney con cilindro, riproduce il personaggio come appare nelle cover originali di Varney (anche se con un make up decisamente più “gorey”) e al centro della storia c’è una famiglia “nobile” coinvolta in un delitto a sfondo ereditario .

Postato mercoledì, 14 luglio 2010 alle 13:21 da Gianfranco Manfredi


Interessante anche l’investigatore (sempre interpretato da Chaney) che ricorre a una tecnica più che unica: l’ipnotismo, grazie al quale riesce a ricondurre i sospetti e persino se stesso sulla scena del delitto, in modo da assistere in diretta ai fatti.

Postato mercoledì, 14 luglio 2010 alle 13:24 da Gianfranco Manfredi


Ho scritto “diretta”, ma in realtà è una “differita”. L’espediente è molto cinematografico e l’effetto spiazzante perchè Chaney si raddoppia, per certi versi si triplica dato che interpreta anche il vampiro. Peccato non poter vedere come cambia movimenti nelle varie vesti, cosa di cui era campione, ma la ricostruzione è come ho detto condotta per immagini fisse su cui al massimo si fa qualche carrellata o panoramica.

Postato mercoledì, 14 luglio 2010 alle 13:28 da Gianfranco Manfredi


Gianfranco: ho visto il video.
L’unico commento che mi sento di fare è un acquolinoso:
“ma vaffanculo!”
Perchè adesso mi tocca aspettare fino a settembre per sapere come va avanti il tuo romanzo.

Postato mercoledì, 14 luglio 2010 alle 23:06 da luciano / idefix


Ieri sera ho ripreso in mano un vecchio libro intitolato “Storie di fantasmi tedeschi”,una raccolta di novelle di E.T.A.Hoffman e Gustav Meyrink.
Il primo racconto “L’ospite misterioso” di Hoffman presenta una figura di cattivo il Conte Von S., non vampirico ma con molte caratteristiche vampiriche:
-Appartiene alla nobiltà
-Può persuadere e manipolare la volontà degli altri tramite lo sguardo e
conoscenze arcane
-Viene descritto come pallido,dai lineamenti duri e freddi e con uno
sguardo minaccioso,ma penetrante
In più è italiano e per chi non lo sapesse molti cattivi dei vecchi racconti e romanzi gotici erano italiani o abitavano in Italia.A quell’epoca gli scrittori vedevano l’Italia come una terra di delitti,veleni e misteri alla faccia di chi dice che l’Italia è “la terra d’o sole” e che in Italia non si possono ambientare gli horror.
Sarebbe anche interessante una diesamina di cattivi che pur non essendo vampiri presentano tratti vampirici,perchè ne esistono e sono molti.

Postato venerdì, 16 luglio 2010 alle 10:30 da Francesco Moretta


@Gianfranco:(Per quando torni)Sono felice che Lunacy ti sia piaciuto,quando riuscirai a vedere “The wolfman” ti andrebbe di discuterne e scambiarci le nostre impressioni?(Cercherò di rivedere la pellicola per un confronto obbiettivo)
Mi unisco a Luciano nell’acquolinosa attesa del tuo nuovo romanzo,l’incipit è troppo interessante.

Postato venerdì, 16 luglio 2010 alle 10:38 da Francesco Moretta


Secondo me, non si finirebbe mai di tessere le lodi di Ernest Theodorus Amadeus Hoffman. E’ roba di due secoli fa (tedesco, nato nel 1776 e morto nel 1822) ma la sua modernità è impressionante.
Provo ad accennare solo qualche parola sul suo ultimo romanzo (Punti di vista e considerazioni del gatto Murr sulla vita nei suoi vari aspetti e biografia frammentaria del kappelmeister Johannes Kreisler su fogli di minuta casualmente inseriti ): il gatto ruba il diario al proprio padrone (il musicista Kreisler, innamorato infelice e compositore geniale ma incompreso dagli ipocriti borghesi). Strappa le pagine del diario e le butta all’aria.
Di conseguenza, nel libro che leggiamo noi, la malinconica vita di Kreisler compare in modo caotico e frammentario, nel disordine delle note diaristiche mescolate alla rinfusa e intrecciate con le meditazioni ironiche del gatto. Il risultato è esilarante e straziante, oltre a essere un rivoluzionario esperimento di meta-narrativa.
Ma Hoffmann scrisse decine e decine di racconti che spaziano nei generi più diversi: dal vampirismo alla satira della morente aristocrazia, dalle avventure gotiche al giallo urbano, dalle possessioni diaboliche all’erotismo morboso, dalle immersioni negli abissi dell’inconscio al tema del doppio, dal fascino della musica sinfonica alla fiaba surrealista, dalle paure adolescenziali alla fantasia più scatenata, dalle novelle del terrore che anticipano Poe alle tortuose psicologie che precorrono Dostoevskij.
Opere come Gli elisir del diavolo, L’uomo della sabbia, La principessa Brambilla, La pentola d’oro, I confratelli di san Serapione, La signorina de Scudery, Mastro Pulce e tante altre furono adorate da poeti come Baudelaire e detestate da tromboni come Hegel.
Ma duecento anni dopo, Hoffmann continua a dividere: chi (ad esempio Claudio Magris) lo considera un genio e chi (come quasi tutti gli editori) lo trascura in maniera ignobile.
Il risultato è che, purtroppo, un autore così grande e così multiforme, così fertile e così avvincente è poco noto e poco letto.

Postato sabato, 17 luglio 2010 alle 14:34 da luciano / idefix


@ Francesco Moretta
In pratica l’Italia era per il Gothico ciò che è oggi per noi la Scozia?
Sarebbe davvero interessante un breve saggio che ricostruisse la figurazione dell’Italia nell’immaginario gotico del perioco cui facevi riferimento. Forse si potrebbe partire da Shakespeare e da quel Rizzo appunto che complottò nella caduta della corona scozzesse, guarda caso. :-)

Postato domenica, 18 luglio 2010 alle 05:42 da Monica Montanari


Un caro saluto agli “amici vampirici”.
;)

Postato domenica, 18 luglio 2010 alle 18:51 da Massimo Maugeri


@Claudio.La parte survival e la caratterizzazione più spietata del mondo dei cacciatori mi interessa molto,ma ho una domanda:scriverai o hai nel cassetto anche romanzi non-vampirici?

@ Francesco Moretta (con il quale mi scuso per l’attesa biblica cui l’ho costretto – Ma ultimamente vegeto in uno stato semigassoso e il mio pc d’anteguerra emette il calore di una decina di stufe, per cui si capirà se non lo accendo troppo spesso) .

Nel cassetto ho parecchio materiale non vampirico. Ho materiale di ogni tipo mi verrebbe da dire. Lo stesso Il 18° vampiro era un romanzo ormai di più di dieci anni fa, che inviai ad un editore solo perchè l’avvento di internet mi permetteva di spedire agevolmente un file piuttosto che fare centinaia di fotocopie, rilegature e pacchi. Ho degli action-noir (sempre, nel bene e nel male, con il mio stile) che sono tutt’altro che malvagi. Così come molti racconti del tipo di quelli che Gargoyle ha inserito nel suo blog.
Che fine farà tutto ciò ? lo ignoro. Come oscuro esordiente mi sento legato a Gargoyle (che vuol poi dire nel mio caso Paolo, Costanza e il figlio di Paolo – Simone) anche per motivi di riconoscenza. Paolo ha pubblicato un mio romanzo che avrebbe potuto vendere tre copie in croce, però ci ha creduto e ha rischiato. Per come sono fatto io queste sono cose che non si dimenticano. I miei horror – vampirici o meno – (se altri ve ne saranno e se lui li vorrà) saranno Gargoyle.
Di certo il vampiro non è l’unica figura horror che mi interessa. Ci sono veramente tante strade, se uno ha vogli di provare a percorrerle. Essenziale, per me, è scrivere comunque qualcosa che IO per primo mi divertirei a leggere.
E quindi, per concludere: sì, ho anche storie non vampiriche … Forse vedranno la luce o forse no. Ma ci sono.

Grazie per avermi interpellato, e di nuovo scusa per il ritardo.

Postato domenica, 18 luglio 2010 alle 20:27 da claudio vergnani


Un abbozzo di risposta a Monica: sì, per il gotico e la narrativa macabra-thrilling dell’epoca, l’Italia era uno scenario assai appetibile.
Qualche esempio:
Gli elisir del diavolo sono in parte ambientati in Italia. E così
Il castello d’Otranto e Il confessionale dei penitenti neri, gli stessi Promessi sposi hanno elementi gotici (ad esempio il castello dell’Innominato…), il più tardo Fauno di marmo di Nathaniel Hawthorne…
Perchè?
L’Italia non era un paese bellissimo, caldo e solare?
Certo.
Ma nell’immaginario protestante dominava anche un altro elemento, per nulla “bello, caldo e solare”: l’oppressione della chiesa cattolica, gli echi cupi della Controriforma, i tormenti dell’Inquisizione. (Non a caso un altro seminale classico “gotico” è il Monaco, ambientato nella cattolicissima Spagna).
Il Vaticano era un avversario, un nemico religioso e politico. E dato che opprimeva l’Italia (paese considerato appunto splendido ma purtroppo caduto nelle mani dei papisti) ecco che diventava uno scenario perfetto per ambientare la lotta tra il bene e il male.

Postato lunedì, 19 luglio 2010 alle 09:55 da luciano / idefix


Cari amici, sono appena rientrato dalla Spagna, di cui vi darò notizie nel prossimo post. Qui mi riattacco al discorso di Francesco sul vampiro-non vampiro per tornare sull’amato Poe. Vittorini, che ne fu traduttore, scrisse questo di lui: “L’uomo del secolo, deluso, debole, vuoto di vita, pieno solo di volontà, perversità, non può, nell’America di Poe, mondo nuovo, non essere un vampiro. Egli succhia vita e si salva.” Vittorini vede la figura del vampiro come centrale nell’opera di Poe, al di là delle sue eroine reviviscenti, vede il vampiro persino nello spettro che compare sul tragico finale sospeso di Gordon Pym, un essere mai visto, nuovo, “dal volto velato, di proporzioni assai più grandi di ogni altro abitatore della terra… e il colore della sua pelle era il bianco perfetto della neve.”

Postato lunedì, 19 luglio 2010 alle 16:32 da Gianfranco Manfredi


Sulla Semana Negra di Gijon. A parte i discorsi sullo stato dell’editoria, che pare identico in tutta Europa (concentrazioni, massificazione-iperproduzione di titoli e di generi che vanno per la maggiore – pensate che in Germania l’anno scorso sono usciti 400 romanzi storici e in Spagna la nuova ondata horror ha già prodotto una voga non ancora arrivata da noi di romanzi sugli zombie , ormai così numerosi da aver già saturato il mercato, mentre i cloni della Meyer sono già morti da un pezzo- e infine altre cose di cui abbiamo qui parlato come la liquidazione delle piccole librerie) c’è un segno di novità che mi ha assolutamente sorpreso: da un paio d’anni a questa parte sono nati molti nuovi editori (prevalentemente di noir e di horror) che sono giovanissimi. Ne ho conosciuti alcuni, appena trentenni , che pubblicano romanzi di autori più anziani di loro. Che l’editore sia più giovane dello scrittore è fenomeno assolutamente nuovo, che capovolge uno stereotipo. Queste case editrice pubblicano libri curatissimi, con belle copertine, testi coraggiosi e stilisticamente ottimi, cose molte lontane sia dal “pulp” per amatori che dal linguaggio- macchina del best seller. Come è stato possibile questo rigoglio di editoria giovane? Grazie a una legge che per favorire iniziative imprenditoriali giovanili, le finanzia con 25.000 euro: se la cosa funziona, i soldi vengono restituiti, se non funziona sono a fondo perduto. Questo, nel campo dell’editoria, ha stimolato molti giovani, appassionati LETTORI, a pubblicare opere di rilievo e indubbiamente nuove tra le quali alcune di discreto successo , in genere affidate a scrittori professionisti, non a debuttanti assoluti. Cioé il contrario di quanto avviene da noi, dove gli esordienti si pubblicano da soli, oppure pagano per venire pubblicati e/o esposti sui banchi, con libri in genere di sfogo autobiografico, distanti da ogni frequentazione di genere come da ogni lettura ( e si vede, leggendo). Dunque… se più giovani si mettessero a fare gli editori e se lo Stato glielo consentisse, sarebbe certo un modo assai più proficuo di sfuggire alla disoccupazione, in confronto all’improvvisarsi scrittori che prevale nel cosiddetto (da me) New Italian Cepu.

Postato lunedì, 19 luglio 2010 alle 16:45 da Gianfranco Manfredi


Tra i vari romanzi che ho visto in Spagna, pubblicati dal genere di editori che ho sopra detto, ve ne cito uno (tanto per darvi un’idea): “Mio Sidi” di Ricard Ibanez ( editore Dolmen Books) . Ibanez (nato nel 1964) si è andato a studiare il folclore che si era addensato e riassunto nella figura del Cid Campeador, e ha scoperto due cose: che il nome El Cid nel X secolo suonava in castigliano come Sid ed era dunque un nome di derivazione musulmana. La storiografia cristiana presentò il Cid come crociato cristiano in lotta contro l’infedele, ma alle radici della figura c’era invece l’opposto e cioé una figura multi-etnica in particolare legata ai musulmani dell’Andalusia; seconda cosa: le leggende su cui è stata costruita la figura del Cid erano molto più orrorifiche e fantastiche di quanto non si sospettasse. Dunque il suo romanzo riporta la figura alle radici e fa del Cid un guerriero che si muove in uno scenario folclorico popolato di demoni e di mostri. Come potete vedere, lo scrupolo della ricerca e della documentazione, si unisce a nuove pulsioni epico-horror. Il romanzo è di più di quattrocento pagine. Qualcosa di simile il Quizoite Z
dello scrittore (sotto pseudonimo) Hazael G.Gonzales e che propone un Don Chisciotte che combatte a Lepanto contro orde di zombie. Un modo, insomma di coniugare la letteratura nazionale e i grandi classici, con la ricerca folclorica e con umori decisamente giovanili e orrorifici. Ho trovato interessante postarvi queste novità data la vostra discussione sull’Italia Nera e Oscura del gotico classico come di certe nostre tradizioni folcloriche che, però, sarebbe il caso di andarsi a studiare in profondità, cosa che le schiere dei nostri scrittori debuttanti si guarda bene dal fare, forse perché considera che tra il “giovanile” e lo “studio” l’abisso sia e debba restare incolmabile.

Postato lunedì, 19 luglio 2010 alle 17:04 da Gianfranco Manfredi


Ho citato romanzi che mi hanno colpito perché vicini alla mia sensibilità, ma naturalmente ce ne sono molti di ambientazione contemporanea. Sono romanzi, nella prosa, molto descrittivi e insieme visionari, i dialoghi non prevaricano mai sul racconto.

Postato lunedì, 19 luglio 2010 alle 17:16 da Gianfranco Manfredi


@Claudio.Grazie mille per la risposta,spero che la mia curiosità non ti abbia seccato,personalmente un tuo libro non-vampirico lo leggerei,avrei letto anche “Il 18 vampiro” senza non-morti perchè i personaggi mi avevano proprio preso.
@Monica.Mi scuso per non averti risposto sull’Italia gotica,ma in questo periodo sono un pò preso con gli esami universitari.Vedo comunque che Luciano si è espresso sull’argomento e non penso di poter dire nulla di più rispetto a lui.
@Gianfranco.Bentornato.La presenza di questi giovani editori all’estero è rincuorante,almeno da qualche parte le acque si smuovono.

Postato lunedì, 19 luglio 2010 alle 18:03 da Francesco Moretta


Sui giornali e telegiornali spagnoli nei giorni scorsi , molte notizie e immagini su quanto sta accadendo in Messico e in particolare a Ciudad Juarez, con attentati e scontri a fuoco tra narcos. Dubito che queste cose (ma se sbaglio ditemelo) siano affiorate in Italia , in ogni caso sono curioso di leggermi almeno “I vampiri di Ciudad Juarez” in uscita da Gargoyle, che dato il contesto pare particolarmente succoso e attuale. Chissà se il nostro provincialismo cederà almeno per una volta alla curiosità di vedere al di là del nostro naso? Si è parlato spesso in questo blog, del legame tra horror e attualità che alcuni vorrebbero più vivace, ma significativamente poi come esempio di attualità si è tornati a citare le Torri Gemelle che proprio attuali non sono. Uno dei bavagli calati comunque e senza che ce ne accorgessimo , è stato quello su quanto sta avvenendo nel mondo. All’estero se ne occupano, da noi se ne fregano.

Postato lunedì, 19 luglio 2010 alle 20:08 da Gianfranco Manfredi


Bentornato, Gianfranco.
E grazie per l’interessantissima parentesi spagnola (e per tutto il resto).
-
Secondo te dobbiamo dunque attenderci un boom italiano della letteratura-zombie nel breve periodo? C’è un romanzo (o un autore/autrice) che potrebbe fare da “traino”, come è avvenuto per la Meyer e i suoi vampiri twilight?

Postato lunedì, 19 luglio 2010 alle 20:14 da Massimo Maugeri


@ Massimo. Mi sono portato dalla Spagna alcuni romanzi zombeschi, ma devo ancora leggerli. Los caminantes di Carlos Sisì (che ha avuto tre edizioni) promette bene. Ma non stiamo parlando di un fenomeno paragonabile alla Meyer. E’ piuttosto difficile edulcorare in bestseller gli zombi , né si può replicare la formula ironica di Orgoglio, Pregiudizio e Zombi , che è destinata a restare piuttosto unica, almeno credo. Del resto, anche il cinema recente ci dice che quella degli zombi è infezione diffusa, non necessita di un trascinatore: gli zombi sono massa dal principio, per natura.
@ Monica. Le radici del Gotico Italiano ( e delle ambientazioni italiane del Gotico inglese) sono tre: Dante Alighieri (L’Inferno), Machiavelli (Il Principe, oscuri intrighi di corte con avvelenamenti, omicidi e congiure, e qui il richiamo a Shakespeare funziona, del resto c’è chi sostiene che il Grande Bardo fosse di origina italiana e in particolare valtellinese in quanto il nome Shake-Speare è esatta traduzione del cognome valtellinese Crolla-Lanza, cognome che si dava ai tessitori) , e infine , come sostiene giustamente Luciano, l’oscuro medioevo cattolico e papista che va ben oltre il medioevo (anche Garibaldi scrisse un romanzo ferocemente anticlericale e parecchio horror sul Vaticano). Se ci pensate, il Nome della Rosa ha avuto uno straordinario successo mondiale perchè ha dopo tantissimi anni riproposto il nostro oscuro medioevo ecclesiastico alla Penitenti Neri e il Codice da Vinci si è esplicitamente ricollegato all’anima nera del Vaticano . La radice dantesca invece intimidisce troppo per poter essere affrontata e riscoperta e forse non riuscirebbe nemmeno a diventare un successo, perché manca alla Modernità quell’indispensabile propensione al Mistico… senza la quale la Divina Commedia non la si capisce proprio e non c’è nemmeno vero gotico, ma quella caricatura/distorsione del gotico che viene etichettata oggi come Goth. Un Gotico con il sesso (o le pulsioni sessuali anche sublimate e virginali) al posto della Spiritualità (cioè tensione al cielo, attraverso mostri e fantasmi) non è più Gotico, è un gioco di travestimento carnevalesco , tanto giocoso e adolescenziale quanto insignificante letterariamente.

Postato lunedì, 19 luglio 2010 alle 21:11 da Gianfranco Manfredi


ZOMBI E VAMPIRI

Sono stato in una grande libreria spagnola e nella sezione horror si vedevano solo romanzi di zombi e di vampiri. Quelli di zombi (molti dei quali tradotti dall’America) erano di gran lunga prevalenti. (Del resto nel cinema, da dieci anni accade lo stesso: il rapporto tra film di vampiri e film di zombi è di dieci a cento a vantaggio degli zombi). Uno può chiedersi: come mai da noi, l’orda della letteratura zombie non è ancora arrivata? Semplice: siamo in ritardo. Ci siamo attaccati ai vampiri sentimentali quando stavano già tramontando e non ci siamo ancora attaccati agli zombi , che si innamorano assai più raramente, e che già, all’estero, danno segno di saturazione. Quando ci attaccheremo agli zombi, vorrà dire che all’estero il fenomeno sarà diventato scontato e quasi morente. Vogliano renderci conto che il nostro paese vive ormai ai margini delle tendenze occidentali ? (e non oso dire mondiali perché lì proprio non esistiamo). Si profila però per il nostro inverno horror qualcosa di interessante e di originale: uscirà in ottobre il nuovo romanzo di Umberto Eco ambientato a Praga , che pare riprenda la figura del Golem (mostro intellettuale per eccellenza). Lavoro di un isolato, certo, che non appartiene certo alle mode comunque si giudichino i suoi romanzi, ma di un isolato che ha abbondantemente dimostrato nel corso della sua davvero “pazzesca” carriera, di avere sempre le antenne. Sarà lui che sdoganerà una volta per tutte l’horror letterario in Italia?

Postato lunedì, 19 luglio 2010 alle 21:50 da Gianfranco Manfredi


Grazie per l’informazione “spagnoleggiante”, Gianfranco…

Postato lunedì, 19 luglio 2010 alle 22:26 da Massimo Maugeri


Mii, Gianfranco mi fai faticare, ma butti talmente tanta carne al fuoco che non posso non sentirmi motivata a scrivere.
Allora per gradi, comincio dal contenuto più forte. Dici il gotico con la sessualità al posto della spiritualità/misticismo è una carnevalata. Premetto che concordo ma non del tutto.
Se conveniamo sul fatto che il gotico parla al lettore/spettatore sul tema della morte, è chiaro che l’elemento escatologico non può mancare. Ma Thanatos ci porta a Eros e il più forte legante del binomio Eros/Thanatos è il fatto che Thanatos sia enzima/attivatore di Eros. Chi scrive di vampiri ha modo di interrogarsi su quanto rimanga dell’eros in un individuo che non può morire. Concordando sul fatto che sotto l’albero del bene e del male l’uomo sia stato condannato a uccidere per mangiare e a morire per fare figli, (ovvero a morire per trombare), è lecito chiedersi se in una prospettiva di immortalità, la pulsione che ci spinge a possedere l’oggetto del desiderio resti inalterata. Ora dunque per dire che proprio l’ineludibile appuntamento con la morte che ci dà il Gotico è però luogo ideale per incontrare i temi della sessualità.
Nel vampirico che ho appena finito costruisco un percorso tipo nozze alchemiche appunto dove la chiave trascendente suggerita dal Polifilo si unisce a un percorso erotico. E non sono certo orginale se vogliamo andare a vedere, eros e bellezza sono chiavi di ascendenza filosofica per tutto il nostro Rinascimento.

Ecco Luciano, sul tema dell’Italia territorio dell’immaginario gotico, riscontriamo che perfino la povera Meyer i supercattivi li ha piazzati proprio in Italia a Volterra. Certo la chiesa cattolica con il mistero e la ritualità che la circonda riverbera sull’Italia esotica un’allure gotica ma io ci metterei il paganisimo strisciante della nostra cultura contadina (il mostro di Firenze) e per esempio la politica della prima repubblica, ci si dimentica sempre che Prodi disse di aver avuto l’indicazione del nome Gradoli, in una riunione spiritica del Cerchio di Firenze. E la nostra massoneria, e i circoli salernitani alla Giuliano Kremmerz? Siamo gotici senza saperlo, accecati dalla popolarità apparente del carnevale berlusconiano dimentichiamo che ciò che nell’ora presente sembra solo volgare, in un probabile futuro si rivelerà un masque grottesco con molti grembiulini a muovere i fili.

Zombie: per l’esplosione degli zombi spagnoli, non parlerei di vague mancata da un Italia provinciale, Gianfranco. Lo scambio culturale con l’america caraibica e latina del voodo mi pare in questo determinante. Inoltre il gotico spagnolo da Del toro a Oliveira è ctonio da sempre. (A proposito di sceneggiature e di Spagna, l’hai visto Intacto, grande film)

Il Golem infatti non è zombesco secondo me. Non è ctonio appunto. A muoverlo è un’ “aleph” scritta sulla sua fronte (Gershom Sholem) e a Mala Strana, il suo aggirarsi può facilmente condurci alla Pavia di un Cornelio Agrippa e al monaco che portò alla prime traduzione del Pimandro. È la koiné rinascimentale cui il gotico italiano rimane legato ed Eco c’è dentro in pieno! Anche se con compiacenze politicamente corrette! :-)
In questo quadro il vampiro meyeriano attecchisce in Italia a mio avviso meglio del vampiro untore o sbattitore di denti, del vampiro vampiro insomma. Il vampiro Meyeriano alla fine è solo un pericoloso, affascinante e pericolosissimo Cagliostro.

Hai lasciato cadere la mia battuta sulla ninna nanna del camionista, fantastica!!!

Postato martedì, 20 luglio 2010 alle 02:40 da Monica Montanari


Monica: tu accenni al “paganesimo strisciante della nostra cultura contadina” e sembri metterlo in contrapposizione al cattolicesimo che predomina in Italia.
Io invece (da protestante…lo ri-sottolineo esplicitamente per chiarezza) vorrei ribaltare la tua osservazione. E saldare i due lati del problema: nel terreno antropologico del nostro paese, paganesimo e cattolicesimo si abbracciano strettamente. Nel cristianesimo versione-vaticana sopravvivono e prosperano elementi che nulla hanno a che fare col messaggio di Gesù Cristo e che appartengono al paganesimo ancestrale (culto delle reliquie e dei santi e cioè delle divinità minori, attaccamento al clan familiare, esteriorizzazione della fede, esibizionismo delle ricchezze e dello sfarzo, esaltazione delle gerarchie sacerdotali, attesa dei miracoli ottenuti grazie a un dono al dio, superstizione con tutto ciò che ne consegue, preghiere finalizzate a un risultato materiale, sacralizzazione di certi luoghi deputati al culto e all’evento magico, riti propiziatori).
Dal paganesimo però la versione vaticana ha cancellato altri elementi: il gusto verso il sesso, la visione tutto sommato godereccia della vita, la tolleranza verso gli dei altrui.
Insomma, direi che il cattolicesimo affermatosi in Italia ha preso il peggio del monoteismo (il rischio dell’integralismo universale) e il peggio del paganesimo (il rischio dell’asservimento alle gerarchie sacerdotali) per fonderli nel papismo.

Postato martedì, 20 luglio 2010 alle 09:17 da luciano / idefix


Gianfranco: ben tornato.
Del Cid in versione horror, ricordo il film con Charlton Heston e il finale col cadavere legato al cavallo, tutto bardato e lancia in resta, (come se fosse vivo) che galoppava sulla spiaggia per terrorizzare i mori.

Postato martedì, 20 luglio 2010 alle 09:20 da luciano / idefix


Sembra che il prossimo anno la SugarCo abbia in programma di ristampare “La stirpe di Dracula” di Massimo Introvigne.Personalmente ne ho sempre sentito parlare bene,però c’è percaso qualcuno che l’ho ha letto e potrebbe gentilmente darmi un parere personale?
P.S. @Luciano.La scena che tu citi me ne ha fatta venire in mente una simile da “Magnificat” di Pupi avati.Nella sudetta scena vediamo un gruppo di soldati attraversare le campagne con appresso il cadavere del loro comandante.Solo che non lo usano per spaventare,ma lo esibiscono come un fenomeno da baraccone in cambio di un pò di cibo.(Lo chiamano il “Re morto”)

Postato martedì, 20 luglio 2010 alle 10:53 da Francesco Moretta


Si sa che il gotico in architettura viene per solito contrapposto al nostro romanico. Trattandosi comunque in entrambi i casi di Chiese, il contenuto religioso è spiccato. Il gotico si riallaccia alla tradizione barbara (e ai suoi gargoyle) , il romanico, per definizione, a quella pagano-latina. Dunque a mio avviso sia la Riforma Protestante che il Cattolicesimo hanno radici o comunque hanno storicamente commisto e mediato con il paganesimo pre-esistente. Solo che si tratta di due paganesimi (e di due religioni) assai diversi. Il gotico è mistico e tende all’elevazione spirituale: dai mostri che accompagnano la nostra esistenza terrena, al cielo. Ha ragione Monica che in questa elevazione c’è anche qualcosa di fallico, ma insieme di sublimato. Il romanico poggia saldamente a terra , è più immanente che trascendente, più politico che spirituale. La sessualità , nel romanico, è sotterranea. Di mistici ne ha avuti anche la chiesa cattolica, basti pensare a Santa Caterina da Siena e non solo alle sue visioni estatiche, ma a come è stata tradizionalmente raffigurata, in un atteggiamento di rapita devozione trasparentemente orgasmico. E’ ovvio che tra religiosità e sessualità il rapporto è stretto e intrecciato. Il punto è che la sessualità contemporanea è assai poco religiosa. E questo lo si vede in modo chiarissimo dalle canzoni. Avete presente gli inni erotici di Gino Paoli negli anni 60? Il cielo in una stanza, per esempio. Via di violini e di “organo”, e un canto cantilenato come un coro gregoriano. Nel rock americano o nella ballad questo senso religioso si esprime invece in sintonia con il gospel da un lato e con un certo repertorio di innografia (un esempio We Shall Overcome) che si lega strettamente nei testi e nelle musiche alle chiese evangeliche. Questi richiami così espliciti, nella canzone contemporanea si sono dissolti. Il sesso è diventato trivellamento ritmico o esibizione (non poco puttanesca). L’ideologia della prestazione sessuale e del sesso come “fun” ha tolto attrattiva spirituale alla sessualità attraverso la sua compiuta mercificazione (che Marx chiamava “prostituzione universale”). Oggi la narrativa horror (e non è un caso) trascura il sessuale (come l’erotico) come se fosse tutto sommato poco interessante. Basta leggere Stephen King: l’erotismo è assente, la sessualità, se c’è (come in Carrie) è puramente biologica, de-sacralizzata. Diverso il caso di autori come McCammon che ad esempio in Blue World ha messo in scena un assassino di prostitute- prete, e che di personaggi religiosi ha inzeppato molti romanzi … preti guerrieri però, che è cosa ben diversa dai mistici-orgasmici. Di predicatori completamente schizzati ci ha dato qualche esempio folgorante Lansdale e certo molto autori “gore” e splatter si sono diffusi nel raccontare vampire da bordello (cose poi confluite nel tarantinano da Mezzanotte all’alba o come cavolo si chiamava). Si tratta però di una visione del sesso che è abissalmente lontana da quella hippy … un sesso tutt’altro che “libero” e del tutto privo di tensione all’orgasmo, un sesso commisto al danaro , alla prestazione, alla sopraffazione e alla violenza. Dietro questa visione del sesso che pare alternativa e provocatoria, si nasconde in realtà un ritorno puritano ma per certi versi anche cattolico all’idea del sesso come “cosa sporca”. Se dunque spuntano vergini e angeli più o meno “dark”, trattasi di una sorta di Utopia del non-sessuato, dell’a-sessuale, dell’indifferenziato, contrapposto al sesso obbligato e coatto della reciproca prestazione. Quando si parla di Goth o di moda gotica, oggi, beh… basta farsi un giro su Internet… si parla di bondage. Una messa in scena di rapporti servo-padrone, con travestismo, compiacimento per il sesso-dolore , crocefissioni blasfeme, inginocchiamento anche a pecoroni e con catena al collo, in una recita continuata che nemmeno richiede conclusione orgasmica, cioè il contrario esatto dell’elevazione, dello smarrimento di sé, e persino del misticismo sessuale classico, più che rimarcato in Sacher-Masoch (Vedi il suo capolavoro : La Madre santa). Questa non è una svolta culturale da poco. Viviamo in un’epoca tanto superstiziosa quanto servile allo “spettacolo”, impaurita dalle emozioni, dal superamento dell’io nell’altro, diffusamente masturbatoria e narcisista, dove tra gli opposti non scaturisce scintilla, ma conflitto ritualmente ripetuto e celebrato come unico orizzonte possibile. Tutto ciò va ben oltre il cristianesimo, ma non è nemmeno più riconducibile al paganesimo. Cosa sia, non lo si sa… ma che vi spiri un’aria mortuaria quanto deprimente mi pare chiaro.

Postato martedì, 20 luglio 2010 alle 12:13 da Gianfranco Manfredi


Riguardo agli zombi. Non è cosa puramente spagnola, al di là degli influssi culturali che peraltro sono più complessi ( la stessa parola voodoo secondo alcuni linguisti origina da vaudois, cioè valdese, quindi pensa te a che intrico di commistioni culturali ci stiamo riferendo!). Gli zombi dilagano in tutto il mondo: dall’America all’Australia, dal Giappone all’Argentina. Sono oggi figure della globalizzazione compiuta, simbolicamente espressive delle grandi masse dislocate e nomadi di servi senza più impiego alcuno, di schiavi in esubero rispetto al fabbisogno dei padroni, di consumatori passivi, vincolati a una corporeità putrescente. Come disse Romero: i morti vagano sulla terra perchè all’Inferno non c’è più posto. E’ roba forte: persino l’Inferno esclude e produce profughi. La redenzione è impossibile: c’è sempre chi cerca una cura, certo, ma l’epidemia è più forte e sommerge ogni possibile sforzo, lasciando il campo all’unica opzione dello sterminio militare di massa: il genocidio. No, cari miei, lo zombismo contemporaneo non è culturalmente circoscrivibile. I vampiri hanno un Master e l’infezione promana da lui e dipende da lui (da un bestseller, si potrebbe dire, all’orda degli infettati e degli imitatori), gli zombi nascono folla, escono dalle tombe tutti insieme, uomini e donne, vecchi e bambini, di tutte le razze, di tutte le culture, e tutti alla frutta, fisicamente e psichicamente devastati, erranti che non vanno da nessuna parte, ma deambulano. Gli zombi siamo noi, qui , oggi e in tutto il mondo. In Italia l’unico scrittore attuale che pare nutrire una qualche propensione agli zombi e Ammaniti che questa inclinazione l’ha dichiarata più volte, anche se non l’ha ancora espressa in un romanzo, ma credo ci stia pensando (la sua rubrica su XL si intitola I Love Zombies). Io un romanzo zombesco l’ho scritto nel 1981 (Magia rossa) , ma trattavasi di zombie “proletari” precedenti alla globalizzazione. Di questi zombi di oggi , dei “noi zombie” il mondo è consapevole, l’Italia no, non vogliamo proprio pensarci così: gli italiani rifiutano di riconoscersi. Se così non fosse non sarebbero stati per ventanni servili rispetto a un signore che questo servilismo lo chiama Libertà. Noi siamo intimamente sicuri di essere liberi (anche liberi da ogni regola di vivere civile) e rifiutiamo di vedere come questa nostra concezione della libertà coincide con lo spossessamento di qualsiasi Senso. Noi siamo ancora molto prudenti e scettici rispetto allo “zombismo” perché non vogliamo ammettere cosa siamo diventati.

Postato martedì, 20 luglio 2010 alle 12:39 da Gianfranco Manfredi


Al di là del titolo (Il 18# vampiro) i vampiri messi in scena da Vergnani, ammucchiati nelle fogne, in puzzolenti pozzi , in strutture ex-industriali fatiscenti, abbandonati a se stessi come immigrati senza casa e senza lavoro, considerati pura infezione da ripulire, hanno più degli zombi che dei vampiri. Il passo successivo sarà chiamarli con il loro nome. Sbaglio, Claudio?

Postato martedì, 20 luglio 2010 alle 12:48 da Gianfranco Manfredi


Queste connessioni tra vampiri e zombi non sono materiale nuovo,già i vampiri di “Io sono leggenda” avevano in se il seme dei moderni zombi e diffatti Romero per “La notte dei morti viventi” si rifece anche a Matheson. Sono luridi e zombeschi anche Rudy Pasko e i vampiri di “In fondo al tunnel” romanzo splatterpunk del duo Skipp/Spector.Daltro canto l’organizzazione degli zombi nel bel fumetto degli anni 80 “Deadworld” ha qualcosa di vampirico,in quanto gli zombi romeriani sono sottoposti all’autorità di un gruppetto di zombi sadici e intelligenti,il cui rappresentante più pericoloso è Re Zombi,vero e proprio anticristo in decomposione.In “La morte ci sfida” di Lansdale gli zombi sono addirittura la verità dietro il vampirismo.Mi sembra quindi che dagli anni 50 di scambi e connessioni tra zombi e vampiri ce ne siano state molte.

Postato martedì, 20 luglio 2010 alle 14:23 da Francesco Moretta


Mi ero anche dimenticato del mega contagio vampirico presentato in “Il sangue di Manitu” di Masterton e in “Baltimore” di Golden.Pur trattandosi di vampiri la proporzioni e il carattere pandemico del fenomeno non possono non richiamare indirettamente gli zombi.

Postato martedì, 20 luglio 2010 alle 14:29 da Francesco Moretta


Colgo l’invito di Massimo e segnalo dieci recenti bestseller americani dedicati agli Zombie: 1. World War Z: An oral history of the Zombie War (Max Brooks); 2. Autumn (David Moody) ; 3. The Rising (Brian Keene); 3. Day by day Armageddon (J.L.Bourne); 4. Empire (David Dunwoody); 5. Zombie Island (David Wellington); 6. Breathers: A Zombie’s Lament ( G.Browne); 7. Deah Troopers (Joe Schreiber); 8. Patient Zero: A Joe Ledger Novel (J. Maberry); 9. Zombies: a record of the year of Infection (Don Roff); 10. Pride and Prejudice and Zombies (già abbondantemente citato qui e tradotto in italiano pochi mesi fa). Tra il 2009 e il 2010 in corso dunque siamo quasi a un titolo zombesco al mese nella classifica dei più venduti (non li ho citati tutti), cui vanno aggiunti quelli poco fortunati commercialmente, le antologie di racconti, i libri per bambini (altrettanto pieni di zombie) , le “novellizzazioni” (cioè i romanzi tratti da film di zombie), le ristampe di vecchi titoli zombeschi, e i romanzi dove gli zombie ci sono ma non in ruoli protagonisti. Oltre ovviamente ai saggi sul cinema di zombies e ai numerosissimi fumetti zombeschi fioriti negli ultimi due anni, anche in forma di graphic novel. Se non è infezione questa…

Postato martedì, 20 luglio 2010 alle 14:59 da Gianfranco Manfredi


E’ anche vero quello che dice Francesco e cioè che molti romanzi recenti di vampiri, in realtà descrivono e trattano i vampiri come se si trattasse di zombie.

Postato martedì, 20 luglio 2010 alle 15:03 da Gianfranco Manfredi


1) E chissà che non ridiventi famosa una grande (e misconosciuta) band inglese di fine anni Sessanta: gli Zombies, guidati da Rod Argent. A parte il nome, nulla avevano a che fare col genere horror ma il loro suono è ancora fresco (anche se ovviamente datato) a distanza di quattro decenni.
2) “Magia rossa” di Manfredi (che avevo comprato, letto e gradito) nella vecchia edizione Feltrinelli ebbe la sventura di uscire completamente fuori tempo: pubblicare un romanzo di quel tipo in Italia nel 1981 era demente. E demente era chi lo acquistava e lo amava. Ma: “Beati i dementi perchè di loro sarà il regno dei libri”
3) Sul nesso horror/sesso, io credo che abbia scritto molte cose assai interessanti e perturbanti Clive Barker. Penso a racconti come “Le ultime volontà di Catherine Ess” o ad alcune sequenze del romanzo Imagica.

Postato martedì, 20 luglio 2010 alle 15:48 da luciano / idefix


Dobbiamo sintonizzarci :-) Voi dite cose giustissime ma su un piano diverso. Io parlo di gotico come mystery mortifero, voi ne parlate come movimento storico artistico religioso, o come horror, o come dark.

Per intenderci, per me Harry Potter è gotico, Tolkien non lo è. Agata Cristye è gotica, Faletti non lo è. Hitchcoc è sempre gotico, Tarantino mai. Il gargoyle non è dark, non è pulp, non è horror: è il mostro quotidiano che sta in mezzo alle nostre piazze ma nessuno lo vede. È la morte, scarafaggio affascianante che ci siamo abituati a ignorare di giorno e a riscoprire nella dimensione onirica: il notturno, il fantastico. In questo senso ci sono grandi mostri anche nel romanico. Basta vedere la porta dello zodiaco o lo scalone dei morti della Sacra di San Michele o la simbologia animale di Santa Maria de Ropoll secondo l’analisi che ne ha fatto Marius Shneier. Bene tutto ciò per dire che nel gotico rigurgita la religiosità cristiana con la sua escatologia e ovviamente il back gound “pagano”. E questo è vero sia nelle latitudini del protestantesimo che in quelle del cattolicesimo.
Non dimentichiamoci che la domanda era “l’Italia è ancora sentita all’estero come sfondo credibile per una storia gotica? La mia tesi è sì, e non solo per le ambienzazioni legate alla chiesa cattolica ma appunto per altri ingredienti gotici come il paganesimo (non in contrapposizione al gotico ispirato della chiesa ma in aggiunta).
Ma risponderò sull’inciso, “il papismo come ricettacolo del peggio del monoteismo e del paganesimo”.
Tre osservazioni. La prima riguarda il diffuso spirito di rivalsa verso l’oscurantismo di una chiesa cattolica che eticheatta come “peccato” alcuni comportamenti sopratutto in materia sessuale. A questo proposito vi chiedo se non vi sembri curioso che sia giudicato repressivo un magistero fondato sul sacramento della riconciliazione, per contrasto con l’ambiente protestante dove il “perdono” non c’è e dove occorre vedersela con strascici calvinisti dalla testa dura come la teoria della grazia e della predestinazione.
Seconda osservazione: si addebita allo spirito cattolico la pratica della ostentazione delle ricchezze. È in ambienti protestanti invece che la ricchezza è stata presa come segno della grazia di Dio.
Terza osservazione sull’addebito fatto ai cattolici di pregare e donare a Dio per ottenere cose concrete. In questo addebito c’è uno spirito elitario e impietoso nei confronti di un atteggiamento devozionale che è in definitiva solamente infantile. Come l’atteggiamento del bambino che si presenta alla mamma con un mazzolino di margherite perchè vuole la merenda. Non è molto grave pregare e pensare di poter donare qualcosa a Dio, né chiedere qualcosa di concreto e pratico. È grave se ciò che si chiede ci allontana da Dio. Per tornare al nostro esempio non mi è simpatico il bambino che invece di stare accanto alla mamma ammalata pensa di potersela cavare portandole delle margherite e poi di poter scappare lasciandola sola (scusate mi è venuto deamicisiano l’esempio :-) .
Purtroppo comunque si preghi, coloro che chiedono cose sbagliate sono presenti in maniera non esclusiva tra i protestanti, tra i cattolici e tra i mussulmani.

È vero Gianfranco che lo zomby si presta magnificamente a rivestire la metafora di ciò che la società rimuove e che invece continua a riaffiorare. Ricordo un film curioso sugli zombi di soldati americani morti in irak che sorgono dalla terra indiavolati e pacifisti.

Ed è vero anche che una storia con zombie ci porta inervitabilmente alla terra, alla materia, all’analisi delle società dove lo zomby si materalizza. Di contrario il vampiro meyeriano ci porta fuori dalla realtà, ne crea una parallela.
Un’attitudine quella di uscire dalla realtà tipica degli anni vittoriani, e dunque non necessariamente decadente anche se ti do atto che nel Paese c’è un’atmosfera weimariana. Tre ingredienti per tutti: Fabrizio Corona e le ninfette, la pupa e il secchione, il consiglere provinciale romano che arringava nudo una folla immaginaria, affacciato al balcone del quartierino in cui aveva appena festeggiato con trans e cocaina fa. Ma sopratutto la gente che vorrebbe essere nell’ordine: Corona, la ninfetta, la pupa e il consigliere.

Postato martedì, 20 luglio 2010 alle 18:18 da Monica Montanari


Sui Vampiri, anche quelli moderni, le loro valenze proprio in campo erotico c’è un bel saggio on line del Cesnur e di un tizio di cui non ricordo il nome che collabora sempre con Introvigne. Le analisi di Introvigne sono sempre acciaiose e ma esplicite :-)

Postato martedì, 20 luglio 2010 alle 18:28 da Monica Montanari


Hai ragione, Luciano, era demente, o almeno lo sembrava, ma c’era anche parecchio coraggio nell’editoria di quel periodo e infatti il romanzo andò molto bene e Oreste del Buono ne parlò come del caso letterario dell’anno. Ricevetti complimenti anche da… no, non dico da chi, per pudore. Comunque, quel romanzo uscì in seconda edizione in economica, poi venne ristampato negli anni 90 dagli Oscar Mondadori, ed è stato ristampato tre anni fa da Gargoyle. Il che significa quanto meno che non è invecchiato e lo si può ancora leggere oggi senza che abbia fatto la muffa. Ne è riprova il fatto che l’ultima e recente ristampa è stata recensita come se il libro fosse nuovo di zecca. Tra l’altro lo stile era molto più secco di quanto non sia diventato abituale per me in seguito perchè più sono andato avanti e più mi sono affezionato a uno stile letterario classico, tanto che del nuovo romanzo in uscita, un critico letterario cui l’ho fatto leggere in anteprima ha detto, apprezzandolo, che più che un romanzo storico pare un romanzo d’epoca, una specie di anello mancante ritrovato, talmente è immerso nel SUO tempo… lo considero un grande complimento. Scelgo sempre temi che a me sembrano attualissimi, ma ho cura di trattarli in modo inattuale, nel senso di oppositivo… cioé quando ho trattato temi che letterariamente venivano a mio parere troppo impreziositi (nel caso di Magia Rossa, i richiami culturali alla Scapigliatura milanese o a certo teatro d’avanguardia e di sperimentazione che esibiva raffinatezza a iosa anche quando era teatro di pupazzi o il citazionismo colto quanto rimarcato del post-modern), ho scelto un linguaggio nervoso ed essenziale, quando invece ho trattato temi che venivano scritti “cinematograficamente” o con una prosa essenziale (come certi romanzi storici tipicamente histoire en travesti, cioè con personaggi d’epoca che parlano, si muovono, agiscono, vivono come personaggi contemporanei che di storico hanno solo il costume) allora , li scrivevo e li scrivo con un linguaggio più ricercato e visionario, proprio perché non scadano (in ogni senso, sia come livello, sia come scadenza temporale, in quanto uno stile classico dura sempre di più di uno stile ispirato alle mode del momento e che in genere a distanza di pochi anni risulta davvero povero, datato e illeggibile). Di recente, Romero è stato in Italia per presentare il suo ennesimo film di zombie al Festival di venezia. Il film è stato celebrato sui giornali come film politico, dove gli zombi somigliano a partecipanti a una manifestazione ribelle. Si sono realizzate foto illustrative del film paragonando certi fotogrammi collettivi delle orde di zombi al celebre quadro del Quarto stato di Pelizza da Volpedo. Beh, quel quadro con gli operai rappresentati come zombi, lo avevo già suggerito come copertina della ristampa mondadoriana , che infatti era uscita proprio così. Mi è venuto da ridere vedendo questa rilettura di Romero e dei suoi zombi, perché nel mio piccolo questa cosa l’avevo capita fin dal principio (che cavolo! Non era difficile! Night of the Living Dead era un film del 68!) e l’avevo espressa anche visivamente venti e trent’anni fa. Continuo a ritenere di non essere tanto io quello che precorre i tempi, quanto la nostra letteratura prevalente ad essere terribilmente in ritardo. E per fortuna che ho sempre goduto di ottima salute, altrimenti avrei scritto per i posteri! Adesso il richiamo agli zombi “proletari” è oltre che in ritardo, sviante, perchè gli zombi rappresentano qualcosa di diverso, di terribilmente quotidiano, di globale e di renitente a qualunque metafora “politica”. E’ puro racconto apocalittico, con scenari di guerra civile puramente distruttiva, di crollo sistemico, di rivolte che non sono rivolte perché non hanno alcun obiettivo storicamente conseguibile, neppure quello della vendetta dei vinti. Gli zombi esprimono il disorientamento assoluto di masse senza identità che non sanno dove andare e brancolano tanto disperse quanto proliferanti. L’unico loro orizzonte (ed è questo che ci spaventa dietro l’angolo della crisi attuale), è la violenza pura, unicamente distruttiva e auto-distruttiva, senza nemmeno vincolo sociale, famigliare, umano. Questo è il nostro orizzonte di paura epocale. Dei romanzi che ho citato, uno dei migliori a quanto si dice (io non l’ho ancora letto) è Rising di Brian Keene, tradotto ovunque in Europa, ma a quanto mi risulta ( e vorrei proprio sbagliarmi) inedito in Italia. Di questo romanzo, gli editori di Cemetery Dance hanno scritto: “un’epica apocalittica, piena di violenza e di sangue, dilaniata fa dilemmi morali… Keene ha elevato gli zombi a un nuovo livello.” Noi in Italia non siamo ancora pienamente consapevoli del primo livello, figuriamoci del secondo.

Postato martedì, 20 luglio 2010 alle 18:42 da Gianfranco Manfredi


@ Monica. Una sola cosa: per i protestanti il perdono non c’è? Ma che diavolo stai dicendo? Per i protestanti il perdono c’è già stato, come la salvezza. Noi siamo già salvi perché Cristo si è sacrificato per noi. Questo credono i protestanti. Ecco perché quello che facciamo da salvati, ora ricade totalmente sotto la nostra responsabilità. I protestanti fanno appello alla coscienza civile e individuale. Che poi questo appello appaia oggi anch’esso inascoltato, è un altro discorso, un discorso che si impone in epoca post-cristiana, com’è quella che stiamo vivendo. In Spagna ho letto un’intervista della cantante tedesca ex-punk Nina Hagen che sta facendo là dei concerti e che ha criticato Lady Gaga per aver detto (sinceramente, tra l’altro, e onestamente) che tutto quello che fa è finzione e menzogna. Per Nina Hagen nessun vero artista può stare dalla parte delle menzogna, perché non c’è arte senza ricerca della Verità. Nina Hagen oggi, con un ritorno religioso che stupisce particolarmente trattandosi di lei, ha detto: “Il mio manager è Cristo.” Intende dire che la sua guida non è il mercato, ma la verità. Prima di partire per la spagna avevo letto cose simili dichiarate dal vecchio Iggy Pop. Anche lui rivendicava una radice cristiana e diceva che chi non vive la popolarità e il successo come sofferenza e dolore non ha capito nulla del rock e dunque nemmeno della figura di Cristo. La legge della merce è RIMUOVERE IL DOLORE. L’arte aiuta (quanto meno) a condividerlo. Un’arte inconsapevole, anzi negatrice del dolore (come dell’estasi, mi permetto di aggiungere), è FALSA.

Postato martedì, 20 luglio 2010 alle 18:55 da Gianfranco Manfredi


E se diffido di certe “innocue” offerte commerciali dell’editoria è perché da bambino mi hanno ammonito a non accettare caramelle dagli sconosciuti. Il finto, il colorato, il dolciastro, il gratificante lì per lì, l’amabile ben confezionato sono un inganno per gli ingenui… chi gli dispensa questi piccoli “doni” vuole fare i propri comodi su di lui.

Postato martedì, 20 luglio 2010 alle 19:08 da Gianfranco Manfredi


Altro gigantesco equivoco di Monica (non è colpa sua, ma della vulgata cattolica) è quello secondo cui per i protestanti la ricchezza è segno della benevolenza di Dio. I calvinisti erano frutto di una società artigiana. La famiglia veniva superata nell’unità produttiva che era di tipo cooperativo. I profitti, frutto del lavoro, venivano re-investiti nella comunità, NON ERANO PROFITTI PRIVATI, e la comunità NON ERA LA CHIESA, ma quella produttiva e sociale. Se si legge bene il saggio di Weber sull’etica protestante e quella del capitalismo, si vedrà che intende parlare della libera attività imprenditoriale che nasce dalle società artigiane, cioè una forma di capitalismo che non è quella della Tesaurizzazione , tampoco quella coloniale dei conquistadores che cercavano (e avevano anche trovato) l’Eldorado, cioè oltre all’oro, le materie prime da rapinare con violenza. Dunque lasciamo proprio perdere questo discorso che se no mi incazzo. Voglio proprio vedere quale religioso islamico, ebreo, buddista o protestante, si esibisce con delle mise da faraone come il Papa . Voglio vedere quale altra religione al mondo edifica oggi, qui ed ora, in piena crisi, un altare d’ORO

Postato martedì, 20 luglio 2010 alle 19:24 da Gianfranco Manfredi


(seguito) a Padre Pio! Lasciamo stare, davvero, che qui non solo si offende la coscienza religiosa generale, ma anche la più autentica comunità cattolica dei credenti e dei tanti semplici preti che vivono modestamente e cercano di vivere la loro fede come un servizio per gli umili e per i poveri, per gli immigrati e per le puttane. Altro che Ior! Altro che propaganda Fide fatta con le proprietà immobiliari! Ma quando si sveglieranno i cattolici italiani? Quando si decideranno a dire basta al Vaticano? Quando si renderanno conto che l’unica voce che non è stata toccata dalla recente finanziaria è stata quella per la Chiesa, che è anzi aumentata? Ma non si rendono conto che gli insegnanti sono stati tagliati , ma quelli di religione sono aumentati? Sveglia!

Postato martedì, 20 luglio 2010 alle 19:30 da Gianfranco Manfredi


‘ appena uscito un libro, che ho visto recensito su Repubblica (scusate, ma non ricordo titolo e autore) sul look degli ultimi papi. Il più griffato risulta l’attuale che veste tra l’altro mocassini Prada fatti su misura. Non ha nulla addosso, neppure gli occhiali, che non sia di una marca “glamour”. Bell’esempio per le masse dei fedeli!

Postato martedì, 20 luglio 2010 alle 19:36 da Gianfranco Manfredi


Aveva anche detto di recente, Ratzinger, che il Diavolo si nasconde nella Chiesa. Diavolo di scoperta! Nessuno gli ha fatto vedere “Il Diavolo veste Prada”?

Postato martedì, 20 luglio 2010 alle 19:38 da Gianfranco Manfredi


Vorrei anche che qualcuno mi spiegasse in modo chiaro e semplice per quale capriola teologica il vicario di Cristo dovrebbe vestire meglio di lui? Nel mondo reale Gianni Letta non è più ricco di Berlusconi. Il vice, da che mondo è mondo, non dovrebbe essere, non è da sempre, più modesto del capo? Basta, chiudo lo sfogo… qui si è aperto un rubinetto che era meglio se restava chiuso… o forse no, comunque siamo qui per parlare di orrori, non di ricchezze farlocche, miraggi di benessere identificato in Cose, non in un minimo di felicità collettiva, vuote, vecchie manifestazioni del deserto spirituale in cui siamo caduti.

Postato martedì, 20 luglio 2010 alle 20:01 da Gianfranco Manfredi


ZOMBI TRICOLORE
Stando a quello che si dice i primi zombi italiani dovrebbero essere quelli di “Roma contro Roma” un film del ‘64 noto all’estero come “War of the zombies”.(Il regista era Giuseppe Vari)La trama ricorda molto certi racconti pulp degli anni 30 e vede un legionario scoprire il tentativo di uno stregone di riportare in vita come morti viventi i soldati romani defunti.Più simili però all’iconografia Romeriana sono i vampiri de “L’ultimo uomo della terra”(1965) trasposizione di Ubaldo Ragona e Sidney Salkow del romanzo di Matheson “Io sono leggenda”,si tratta pero di vampiri,non ancora di zombi tout-court. (il film però anticipa incredibilmente il capolavoro di Romero)Nel 1979 compare quindi il primo film zombesco vero e proprio, quel “Zombi 2″ che avrebbe spinto definitivamente Lucio Fulci verso il genere horror,ma che avrebbe fissato le caratteristiche di molti zombi-movie italiani:
-Ambientazione esotica
-Attenzione rivolta verso lo splatter (più esasperato rispetto ai film americani) e il lato avventuroso della storia
-Assenza di tematiche socio-politiche
Seguono pellicole come “Zombi Holocaust” di Girolami, “After death” di Fragrasso e “Virus” di Bruno Mattei che si inseriscono in questo filone.
Vi sono anche pellicole zombesche a se stanti,come il trash di Bianchi “Le notti del terrore” o “Killing birds” di Lattanzi,fiacco filmetto che mischia zombi e case maledette.Nel 1985 esce “Demoni” di Lamberto Bava che parla di indemoniati ma sotto un ottica che strizza molto l’occhio alle pandemie zombesche. L’ultimo film italiano che ricordo sull’argomento è “Dellamorte Dellamore” di Michele Soavi tratto dal bel romanzo di Sclavi,che per inciso su Dylan Dog si è occupato molto degli zombi.
Segnalo inoltre due fumetti zombeschi italiani:
-”Vendetta Macumba”(1979) di Missaglia e Magnus,una cupa storia di morti viventi,magia nera e vendetta.
-”Garrett” di Roberto Recchioni ambientato in un far-west in cui la piaga zombesca è ormai parte della quotidianità (gli zombi sono chiamati pellleossa e usati come schiavi) e in cui Pat Garrett deve braccare e uccidere un Billy the Kid ritornante.

-”Garrett”

Postato martedì, 20 luglio 2010 alle 20:10 da Francesco Moretta


Ho scritto male pelleossa,gli ho aggiunto una l in più,scusate per il refuso e per quel “Garrett” ripetuto due volte.

Postato martedì, 20 luglio 2010 alle 20:16 da Francesco Moretta


Grazie per il contributo, Francesco. E’ vero: il cinema e il fumetto italiano non solo no sono stati in ritardo rispetto al fenomeno zombesco, ma iun sintonia e a volte, come nel caso del bellissimo film “L’ultimo uomo della terra” , anticipatori anche dal punto di vista estetico. Resta da chiedersi: come mai la letteratura è così in ritardo?

Postato martedì, 20 luglio 2010 alle 22:37 da Gianfranco Manfredi


Per carità, non è che io abbia una risposta… altrimenti non farei la domanda. Chi ci capisce qualcosa dell’Italia alzi la mano.

Postato martedì, 20 luglio 2010 alle 22:40 da Gianfranco Manfredi


Lucio Fulci mi è capitato di vederlo due volte: una a un convegno sul Cinema Horror e di Fantascienza, un’altra sul lavoro, nell’ufficio di un produttore. Era un uomo strano che si considerava, ed era, una sorta di paria nell’ambiente di lavoro (il cinema) in cui era vissuto e cresciuto per anni facendo di tutto, collaborando in varie forme sia a film d’autore che più d’autore non si può, che a filmacci di terza categoria. Politicamente, ideologicamente, era comunista, ma non un comunista qualsiasi, uno stalinista, e lo rivendicava. La sua ribellione contro il Partito Comunista era l’opposto di quella delle nuove generazioni dei baby-boomers. Fulci non aveva una visione ottimista, speranzosa, libertaria della società, per lui questo era un inganno “capitalista”. Aveva una visione violenta e crudamente realistica del mondo: una lotta per la sopravvivenza, nella quale il popolo può prevalere soltanto se si dimostra più feroce. Nei suoi film zombeschi c’è un’estetica distruttiva dell’estetica, un gusto splatter sottoproletario da “mostro della Magliana” per intenderci. Nel survival di Fulci, lui sta chiaramente dalla parte degli zombi, non dei giovinastri che cercano di salvarsi e che per lui sono una massa di maschi idioti e di femminucce carine , ma tutte uguali. Il cinema zombesco di Fulci è un cinema eminentemente politico. Volutamente politico. E con un’ironia che non cerca mai di diventare “divertente”, è sempre spiacevole. Quando lo incontrai in quell’ufficio di produzione, stava preparando un film che avrebbe dovuto avere per protagonista un attore messicano, mi pare, ex campione sportivo di nuoto. Lo incontra, poi entra dal produttore che si trova in tutt’altra riunione cui partecipavo anch’io, e dice: “Aò, ma sto messicano non sa fare un cazzo. Dice che nelle scene, nuotare sì, però non vole correre che ci ha i piedi piatti, non vole saltà… insomma come se move vole la controfigura.” Il produttore gli fa notare che i messicani hanno coprodotto, cioé hanno messo i soldi, e senza quell’attore il film non si fa. Fulci ci pensa, ride, e dice: “Vuol dire che la scena dove nuota tra gli squali la gireremo alla fine.” Mica scherzava tanto. Non so se poi il film lo abbia fatto, né che fine abbia fatto il protagonista. Ma per lui (Fulci) può valere quanto si disse di Tinto Brass all’uscita del suo Salon Kitty: “Non si sa se i nazisti abbiano fatto quelle cose, ma Tinto di sicuro sì.” Ecco. Trattasi di registi estremi. E di registi estremi , qualunque siano le nostre opinioni e i nostri gusti estetici, non ce n’è mai abbastanza. Si può essere estremi nel bene e nel male, nel bello e nell’orrido, nel politico e nel totalmente impolitico, ma senza registi/artisti estremi il cinema muore. Senza narratori estremi muore la letteratura.

Postato martedì, 20 luglio 2010 alle 23:31 da Gianfranco Manfredi


Giustamente, Francesco ha sottolineato l’elemento dell’esotico in Fulci. per capirlo bene dobbiamo pensare al cinema degli anni immediatamente precedenti a quelli zombeschi. Lo scenario esotico, era quello favorito dei film tipo Il Dio serpente, con Nadia Cassini. Europei ricchi con donne bellissime, ma anche ragazzotti vagamente hippy, vanno in spiagge esotiche per vivere avventure erotiche. Versione Fulci: andate, andate a fare le vacanze esotiche, cari borghesi di merda, giovani o maturi che siate, e finirete in pasto agli zombi. Ecco il senso politico, semplice, elementare, dell’esotismo di Fulci. E in questo gusto horror c’è qualcosa di letterario. Prendete il Gordon Pym di Poe, certo opera più elevata. Cosa racconta? Una nave che fa le rotte commerciali viaggia verso Paradisi in cui si è sicuri di trovare (oltre a merci preziose) il buon selvaggio e la donna che più facile e disponibile non si può. Trovano orridi cannibali dai denti neri (perché succhiano il betel) che se li pappano. E viene da pensare: se li sono/ce li siamo meritati.

Postato martedì, 20 luglio 2010 alle 23:48 da Gianfranco Manfredi


Riapro il rubinetto Gianfranco. Come tu ben dici Cristo ci ha salvati tutti, e anche i cattolici :-) , poi ciò che viene fatto dopo questa salvazione è piena responsabilità individuale per i protestanti. Ribadisco invece che per i Cattolici c’è la possibilità di sentirsi riperdonati ogni volta che ci si confessa. Che cosa ho detto di diverso? era del tutto evidente dal contesto che parlavo di perdono per i nostri comportamenti quotidiani e non di perdono e riscatto dell’umanità ab origine.
Quanto allo sfarzo della chiesa cattolica: non mi impressiona e non mi indigna. Non sono le scarpe del papa che sbilanciano le sperequazioni sociali, chi dice il contrario non solo fa demagogia ma dà per primo alle vesti che la tignola intaccherà più peso di quello che meritano. La chiesa tridentina ha strategicamente puntato sull’ostentazione barocca, per la comunicazione alle masse del proprio maggior potere. Siamo su un piano che con la spiritualità cattolica non ha molto a che fare, quanto piuttosto sulle strategie di conservazione di una istituzione. L’altare d’oro a padre Pio, giuro non lo conosco. Non esito a crederlo possibile tuttavia. Non so Gianfranco, un’idea personale me la sto facendo sui protestanti: che caratteracci! Mizzica, ma mica io mi indigno per le ostentazioni del mondo greco ortodosso. Ci vuole rispetto per il mistero della religiosità altrui. Ogni uomo genuflesso con il pensiero a Dio, si riscatta e merita la mia attenzione e tutto l’amore. Anche tu becero valdese :-) Non capisco perchè io non ti ispiri la stessa rispettosa curiosità.

Se gli accenni all’arte dolciastra che espunge il dolore si riferiscono alla mia manifesta scelta di fare narrativa di consumo, concordo è arte falsa. Ma se leggerai mai il mio In una gelida rosa, o un altro titolo della saga, scoprirai che nelle caramelle PER gli sconosciuti ci ho messo, a tradimento, dell’acqua santa. :-)

Oh, Fralezza (titolo commerciale Porcaccia un vampiro della De Nicolo) è tutt’altra roba, è arte e nasce dal dolore. Ti farà felice. Ho avuto la debolezza di pubblicare una cosa bella davvero, spero di non pagarla troppo. È inutile che lo cerchi, esce a settembre.

Beh quanto a ricchezza e vulgata cattolica, ribadisco che anche per Weber la teoria della grazia ha avuto un suo peso nello stimolare il capitalismo nei paesi protestanti.

In definitiva, che tu lo voglia o no, siccome Valdo se ne andò dalla chiesa cattolica per poter dire la sua con più libertà nel contrastare i catari, e questo successe ben prima di Lutero, io la chiesa Valdese continuo a sentirla come un gruppo di montanari dalla testa dura e per niente diversi da me, che ti piaccia o no. E se pensi di portare il dibattito tra noi sul piano del Papa sì, Papa no. SBAGLI. Perchè per chi si rivolge a Dio mettendogli nelle mani se stesso, ognuno vive come può, ognuno ha il suo portato salvifico per il prossimo, sia il Papa che i Valdesi, alla faccia di chi vuol fare le crociate per forza.

Postato mercoledì, 21 luglio 2010 alle 00:33 da Monica Montanari


P.S. Quando a 15 anni facevo parte di un gruppo di gestione di uno dei primi consultori e assistevo alle litigate feroci tra femministe del PCI, di Avanguardia Operaia, Movimento Studentesco e Lotta Continua mi ricordo che cadevo dal pero chiedendo perchè si incazzassero tanto tra loro. Io rappresentavo i GGIOVANI, gli SStudenti e il mio gruppo anarchico ma mi davano della “democristiana” lo stesso. Può darsi che avessero ragione, e che in ballo ci fossero delle cruciali questioni di potere che io non capivo. So però che a distanza di 30 anni di quelle idee e speranze è rimasta solo la pratica dell’aborto e della RU (etc). Come dire, bisogna renderci conto che la vera cesura sta tra chi coltiva un senso religioso delle cose e chi ne prescinde completamente. E che le persone religiose, stanno tutte dalla stessa parte. Il laicismo che vuole togliere il velo alle islamiche è lo stesso che vuol togliere i crocifissi e già ora la scelta di farsi suora è avvertita come più antisociale di una scelta omosessuale. Con buona pace degli omosessuali, di questo passo dovremo andare in chiesa di nascosto.

Postato mercoledì, 21 luglio 2010 alle 00:48 da Monica Montanari


Ultima cosa Maugeri è passati di qui due giorni fa ad augurarci buona giornata. Buona giornata a te Maugeri! :-)

Postato mercoledì, 21 luglio 2010 alle 00:56 da Monica Montanari


@ Gianfranco: (scusandomi sempre per il ritardo nelle risposte) . Sì, è vero. Sarà perchè il vampiro patacchino non mi ha mai troppo attirato. In realtà però la differenza sostanziale è che lo zombi (direi) e almeno fino ad ora (fatte salve un paio di eccezioni) è un bruto completamente incapace di ragionare, solo e soltanto ciecamente bramoso di carne umana. il vampiro – anche i “miei” vampiri – è invece in grado – eccome – di ragionare sulla propria condizione che – come appunto quella dello zombie – è quella di un morto che cammina. Entrambi in qualche modo necessitano della vita, come un tossicodipendente della droga, ma il primo (zombie) è inconsapevole di essere trapassato, il secondo (vampiro) lo è fin troppo, e questo condiziona profondamente il suo comportamento. Un vampiro, inoltre, anche nei miei romanzi, è suo malgrado costretto a confrontarsi con ciò che ha lasciato morendo e gli orrori che gli appartengono dopo morto. Lo zombi mi pare abbia meno grilli per la testa (almeno in senso figurato, perchè di insetti vari, dentro e fuori delle cavità, è pieno).
Un abbraccio, Gianfranco.

Postato mercoledì, 21 luglio 2010 alle 07:40 da claudio vergnani


@ Francesco (che ha scritto: @Claudio.Grazie mille per la risposta,spero che la mia curiosità non ti abbia seccato,personalmente un tuo libro non-vampirico lo leggerei,avrei letto anche “Il 18 vampiro” senza non-morti perchè i personaggi mi avevano proprio preso.) Ma ci mancherebbe! Grazie a te. Ciò che dici, tra l’altro, è particolarmente lusinghiero.
In quanto al libro non-vampirico … esiste già. Si tratta di vedere che cosa ne sarà.

Postato mercoledì, 21 luglio 2010 alle 07:46 da claudio vergnani


Gianfranco: spero fosse ovvio che quando davo del “demente” alla pubblicazione (e alla lettura!) di “Magia rossa” nel 1981 lo facevo come complimento. E mi è piaciuta la tua ricostruzione della scrittura di quel bel libro, così trascurato. Posso dir una banalità? Avrebbe meritato una diffusione assai più ampia. Ma (appunto) non era l’epoca giusta: è destino di chi arriva troppo presto, con opere sfasate rispetto ai tempi.
Monica & others: forse la colpa di aver aperto troppo sguaiatamente i rubinetti della discussione sulla fede è mia. A Monica (su perdono, ostentazione delle ricchezze e altre questioni) volevo replicare io ma lo ha già fatto ottimamente Manfredi.
Vorrei solo rispondere a un’osservazione (un po’ stupita, un po’ affettuosa e un pochino puntuta), sempre di Monica: “protestanti: che caratteracci!”
In effetti credo sia vero (anche se non generalizzato): a differenza dei cattolici (anche se non generalizzato) prendiamo la fede molto sul serio, come un qualcosa che coinvolge la nostra vita per intero, dal rapporto col prossimo alla politica, dal denaro all’arte, dal gioco alle risate, dal sesso alle discussioni, fino (ovviamente) alla nostra relazione con Dio. Per certi versi siamo abbastanza sereni (oddio…è una bella cosa sapere di essere “salvi” grazie al dono immeritato di Dio senza l’angoscia di doversi domandare “avrò fatto abbastanza opere per meritarmi il Paradiso?” come devono fare i cattolici) e dunque cerchiamo di goderci gli aspetti piacevoli della vita. Ciò non toglie che alcune cose ci facciano incazzare di brutto (anche se a commetterle siamo noi stessi): le ingiustizie, le cattiverie (soprattutto se perpetrate contro i più deboli), le ipocrisie, le menzogne usate per far male, le bestemmie (non è tirar giù un “porco” perchè ci si è martellati il dito, nostra figlia è stata bocciata o ci è arrivata la pessima risposta degli esami del colesterolo: la bestemmia vera è usare il nome di Dio per sfruttare e opprimere gli altri). Queste cose ci mandano fuori dai gangheri. Perchè cerchiamo (goffamente e del tutto imperfettamente) di imitare Gesù, quando si incazzava pure lui e ribaltava i banconi dei mercanti al tempio.

Postato mercoledì, 21 luglio 2010 alle 09:18 da luciano / idefix


@Gianfranco.Ti devo ringraziare perchè sulll’aspetto politico di Fulci,su quel “andate, andate a fare le vacanze esotiche, cari borghesi di merda, giovani o maturi che siate, e finirete in pasto agli zombi” non ci avevo mai riflettuto.Fulci era e si considerava un paria eppure oggi è insieme a Mario Bava (giustamente) uno dei registi italiani più apprezzati all’estero,perfino più di Dario Argento.Chissà cosa direbbe se fosse ancora vivo.
P.S:L’esotismo e le isole sono una fissa di un po tutto il cinema di genere nostrano del periodo,ma anche di certa letteratura italiana pulp dei primi del novecento.(Come ricordava Foni in “Alla fiera dei mostri”)

Postato mercoledì, 21 luglio 2010 alle 10:21 da Francesco Moretta


Ennesimo refuso,po invece di pò.

Postato mercoledì, 21 luglio 2010 alle 12:53 da Francesco Moretta


cara Monica, insisto che preferirei parlare di vampiri e compagni. La mia suscettibilità è quella delle minoranze. Lo stesso voltastomaco che prende gli ebrei quando vengono accusati di complotti giudaico-massonici, o più prosaicamente di avarizia, sulla base di pregiudizi sballati, ma considerati autentici. Ad esempio si pensa ancora agli ebrei come a “banchieri” (se non usurai) scordandosi bellamente che le Banche le abbiamo inventate noi italiani non ebrei al tempo delle Repubbliche Marinare, per facilitare i commerci e i flussi di denaro. Ma sui protestanti, non c’è neanche bisogno di tornare molto indietro, sono già abbastanza fiero di Martin Luther King per sentire il bisogno di rivendicare altro. La sfilza di fesserie propagandistiche pronunciate contro i protestanti e gli abusi e i malintesi che abbiamo dovuto sopportare fin da piccoli , non solo da parte dei cattolici, ma debbo dirlo, anche da molti “comunisti” ci hanno tutto sommato resi più forti e consapevoli. La conoscenza della Bibbia ci ha molto aiutato. Se ti capitasse di andare all’uscita di una qualsiasi chiesa protestante a chiedere a un qualunque fedele cosa sia, ad esempio, il Deuteronomio, saprebbe risponderti. Poi fai la stessa prova fuori da una chiesa cattolica. Mi sono sempre chiesto quale religione sia quella i cui fedeli ignorano i propri stessi libri sacri e nella quale si sentono persino dei vescovi fare confusione su distinzioni elementari come tra apostoli e discepoli. Credo che la Chiesa Istituzionale abbia grande parte in questa ignoranza (del resto lo stesso Papa attuale ha finalmente riconosciuto il problema e invitato i fedeli a leggere non solo i Vangeli , ma le Sacre Scritture in toto… il che farebbe bene anche ai laici perchè comunque si tratta di un testo bellissimo, pieno di storie avventurose , illuminanti, e persino orrorifiche, uno sterminato repertorio per i narratori). Io rispetto i fedeli cattolici, ma sono e sarò sempre avverso al papismo che giudico scelta sciagurata e che costituisce ancora il primo oggetto di divisione dai cristiani ortodossi come dagli anglicani, oltre che dai protestanti. La Riforma Protestante è stato un passaggio cruciale per la cultura europea verso la modernità. Sono anarchico , come ho detto, ma ciò non significa che io sia disposto a buttare a mare le conquiste delle rivoluzioni borghesi , prime delle quali, la libertà di coscienza, la responsabilità individuale, l’eguaglianza tra uomini e donne (anche nel sacerdozio, che per noi è “universale”) e la democrazia. Senza questa base non sarebbe esistito neppure il socialismo. D’altro canto senza libertà di coscienza e di dissenso si sa come sia finito il cosiddetto “socialismo reale”. Detto questo, basta. (L’altare d’oro a Padre Pio, inaugurato da Ratzinger, non me lo sono inventato, la cerimonia è andata in onda su tutti i telegiornali, e tra l’altro quell’altare smisurato e pacchiano esteticamente è una schifezza).
Segnalo a Claudio che gli zombi di Keene ragionano eccome, ecco perché sono “il gradino superiore”. Detto questo, anch’io preferivo gli zombi “non ragionanti” perché mi sembrano nonostante tutto, più estremi.

Postato mercoledì, 21 luglio 2010 alle 13:53 da Gianfranco Manfredi


Ah, il Deuteronomio è il Quinto Libro di Mosé. Parla tra l’altro dei falsi profeti, degli indovini e delle ricadute idolatriche. Tratta dei poveri e della liberazione degli schiavi. Contiene un capitolo assai inquietante sulle Leggi della Guerra (invita al massacro, ma a rispettare gli alberi!). Prescrive regole per il divorzio e per il matrimonio tra consanguinei. Narra dell’ultimo periodo di vita di Mosé. Insomma, un libro assai complesso che suscita anche dubbi e interrogativi assai “perturbanti”.

Postato mercoledì, 21 luglio 2010 alle 14:16 da Gianfranco Manfredi


Comunque uno dei romanzi di Brian Keene “The conqueror worm” verrà pubblicato l’anno prossimo dalla XII edizioni e con un pò di fortuna potrebbe seguire il dittico zombesco “The rising” “City of dead”.

Postato mercoledì, 21 luglio 2010 alle 15:28 da Francesco Moretta


Bene, ora potremmo chiederci se c’è una differenza tra vampiri d’abito protestante e vampiri di ambito cattolico. :-)
Una domanda: avete notato che in questi world book, come Harry Potter e Twilight non viene mai nominato il Natale?

Postato mercoledì, 21 luglio 2010 alle 16:17 da Monica Montanari


Nei libri di Harry Potter mi sembra che il Natale venisse nominato,mi ricordo che in ognuno c’è sempre la parentesi delle vacanze invernali con tanto di Hogwarts addobbata a festa e scambio dei regali.

Postato mercoledì, 21 luglio 2010 alle 16:23 da Francesco Moretta


Il Natale, già… in Inghilterra ha un posto di rilievo nell’horror, basti pensare allo Scrooge di Dickens che era una favola da raccontare alla vigilia di Natale. Infatti è d’uso (o almeno lo era) raccontarsi storie di fantasmi la notte prima di Natale. In America il Natale arriva a metà ottocento. Si facevano bivacchi natalizi anche nel selvaggio west. Invece i padri pellegrini, cioè i primi colonizzatori puritani, non celebravano il Natale, considerandolo una ricorrenza pagana.

Postato mercoledì, 21 luglio 2010 alle 18:22 da Gianfranco Manfredi


Pesco dalla libreria e cito: “La Vigilia di Natale è la gran nottata di gala dei fantasmi. La Vigilia di Notale, celebrano la loro festa annuale. La Vigilia di Natale, nel Paese dei Fantasmi, tutti coloro che sono qualcuno ( o piuttosto, parlando di fantasmi, si dovrebbe dire tutti coloro che sono nessuno) escono per mostrarsi in pubblico, per vedere ed essere visti, per andare a spasso e sfoggiare ciascuno il proprio sudario e lenzuolo funebre, per criticare l’abbigliamento e sogghignare ognuno della cera dell’altro.” (da Storie di Fantasmi per il dopocena di Jerome Klapka Jerome, Theoria 1991). Da questo passaggio credo sia più chiaro il senso e l’origine del film di Tim Burton Nightmare Before Christmas, una delizia di film, davvero!

Postato mercoledì, 21 luglio 2010 alle 18:35 da Gianfranco Manfredi


Anche il libro che tu citi è una delizia,insieme al “Fantasma di Canterville” è stato uno dei primi libri che ho letto da piccolo,ma è da molto tempo che non lo rileggo.Sarebbe bello organizzarne una lettura collettiva proprio per il periodo natalizio.(Fatto strano:l’edizione del libro di London che lessi da bambino conteneva dei disegni di Dino Battaglia che poi ho scoperto venire da un servizio sul regista Carl Theodore Dreyer pubblivcato su Horror)

Postato mercoledì, 21 luglio 2010 alle 19:03 da Francesco Moretta


non ci si può più fidare nemmeno degli zombie … adesso mi informo su questo Keene … Una volta gli zombie si dividevano in zombie corridori e zombie caracollanti … adesso ragionano pure … In Italia potrebbero fondare un partito …

Postato mercoledì, 21 luglio 2010 alle 19:12 da claudio vergnani


I Partiti italiani sono pieni di zombi, ma del primo genere, cioè di quelli che non sanno neanche di esserlo.

Postato mercoledì, 21 luglio 2010 alle 19:24 da Gianfranco Manfredi


infatti stavo per aggiungere che pensandoci meglio no, se ragionano allora no, sarebbero tagliati fuori …

Postato mercoledì, 21 luglio 2010 alle 19:27 da claudio vergnani


Sul libro di Brian Keene ha scritto Richard Laymon:”Vuoi dormire bene stanotte? Leggiti The Rising. Ti manterrà sveglio oppure popolerà i tuoi sogni di feroci cadaveri ambulanti bramosi di divorarti.”

Postato mercoledì, 21 luglio 2010 alle 19:29 da Gianfranco Manfredi


In realtà non è che gli zombi senzienti siano proprio una novità,”Deadworld” è del 1985,così come degli anni 80 sono anche gli zombi de “Il ritorno dei morti viventi”. (che però sono abbastanza babbei in fin dei conti)La novità in Keene starebbe più che altro nello stile e nel modo di narrare dell’autore.Comunque se volete approfondire l’argomento il blog Malpertuis ha un dossier che tratta di Keene.
P.S. Un tempo avevamo gli zombi in Italia,poi l’attuale e marcescente classe politica se li è pappati tutti.

Postato mercoledì, 21 luglio 2010 alle 20:01 da Francesco Moretta


Ha ragione Gianfranco Manfredi: (anche per responsabilità mia), uno dei rivoli della discussione si stava allontanando troppo dalla strada principale. E così è bene riportare il volante nella direzione del viaggio senza farlo zigzagare eccessivamente, col rischio di imboccare una deviazione che ci porterebbe da un’altra parte (fedi, religione, protestanti e cattolici eccetera).
Anche se, in questo work-post in progress, le tappe e le fermate e le impreviste “gite fuori porta” sono assai interessanti. A patto però di non perdere di vista la STELLA POLARE (l’horror in generale).
Manfredi (a proposito dei politici italiani) ha fatto un’osservazione interessante che mi porta una domanda “horror”. E cioè:
dice Manfredi che i partiti sono pieni di zombi inconsapevoli di esserlo. La domanda è: questo tema è già stato trattato in romanzi o film?
Mi vengono in mente assassini ignari di aver ucciso, morti che non sanno di essere defunti, extraterrestri che pensano di appartenere al genere umano, androidi convinti di essere umani…
Ma zombi che non sanno di esserlo?
Non è un bel tema? Magari scaraventato proprio nel mondo della politica o della finanza?

Postato giovedì, 22 luglio 2010 alle 09:32 da luciano / idefix


Nell’arco narrativo di “Hellblazer” “Le fiamme dell’inferno” troviamo un J.F.Kennedy zombie e idiota,mentre va ricordato “Voodo per il presidente” di Hugo Pratt storia di Corto Maltese in cui voodo e politica si sposano bene.

Postato giovedì, 22 luglio 2010 alle 09:44 da Francesco Morett


Gli zombi nascono inconsapevoli e senza altra passione che non sia il bisogno di squartare e mangiare carne umana. Però il cinema si sa che per sua natura è portato a esplorare tutte le varianti possibili. Una, ad esempio, è quella dello zombie innamorato. In Zombi Lake di Jean Rollin c’è uno zombie nazista ucciso dalla resistenza che torna dalla morte non per vendicarsi, ma per cercare una ragazza in cui si era imbattuto prima di venire ucciso e per cui prova un’inguaribile attrattiva. Insomma: non solo la carne attira, non solo la merce (come nel capolavoro di Romero “Zombi”, quello nel centro commerciale) , non solo l’impulso alla vendetta, ma anche sentimenti più elevati. Ovvio che lo zombie delicato sia rimasto una figura rara, proprio in quanto eccezione. Però negli ultimi tempi ne sono spuntati molti di film che suscitano davvero una grande compassione per gli zombi. Uno si intitola “Fido” (tratta di zombi domestici, messi al guinzaglio a fare la guardia fuori casa come cani) e se non l’avete visto, procuratevelo, perché merita davvero, è anche molto poetico oltre che finemente ironico. Gli zombi intelligenti, che seguono un leader stratega, sono comparsi in Land of the Dead di Romero, ma non si può dire che siano piaciuti molto ai fans. Poi si sono visti zombi con la patente, che se la cavano benissimo al volante, zombi a scuola, neppure troppo ripetenti, fino alla chiusura del cerchio con il film American Zombie, dove gli zombi sono diventati assolutamente normali: per cancellare le tracce di putrefazione usano il make up e profumi, lavorano, sono ben inseriti socialmente, e chiedono diritto di voto e di rappresentanza politica. Il film (molto interessante) è girato come un documentario, nel quale si intervistano dei giovani normalissimi che parlano di sè e dei loro problemi, come giovani qualsiasi, solo che sono zombie. L’interrogativo che il film lascia piano piano affiorare è… ok, sono dei bravi zombie civilizzati, però in segreto sono ancora cannibali? La politica “professionale” quando spunta, è in termini parodistici. Ad esempio nel film americano del 1998: “Sex, Chocolate & Zombie Republicans”, nel quale una specie di maledizione trasforma dei cittadini socievoli, aperti e solidali con il prossimo, in Zombie repubblicani rigidamente moralisti e bacchettoni che oltretutto si divertono a fare dei barbecue di libri! Unica cura contro costoro è… a base di una misteriosa “erba”. Vincerà l’erba o la tirannia reazionaria degli Zombi Repubblicani si impadronirà della casa Bianca e del mondo?

Postato giovedì, 22 luglio 2010 alle 11:24 da Gianfranco Manfredi


Naturalmente non poteva mancare il Grande Fratello Zombi. E’ una serie Tv di un paio d’anni fa che non è arrivata in Italia. Si chiama Dead Set, credo sia stata prodotta in Inghilterra. Cinque puntate che iniziano proprio come il grande Fratello con i soliti babbi che partecipano da reclusi al programma televisivo e pienamente secondo le regole, più qualche “dietro le quinte” che ci mostra come funziona realmente il programma visto dalla cabina di regia. Nel mondo di fuori però comincia a dilagare la piaga zombi e gli zombi assediano la “casa”, entrano, eliminano la regia, e il Grande Fratello risulta così davvero spontaneo e senza filtri… un reciproco gioco al massacro che tanto giocoso non è. Un amico pubblicitario mi ha passato questa serie e insomma… per essere una cosa televisiva è davvero molto, molto “gore”. Al confronto, per dire, Master of Horror è uno spettacolo per signorine di buona famiglia. Secondo voi la vedremo mai in Italia? Ne dubito. Al momento i nostri canali satellitari sono molto “per bene”… si può dire che quello più osée (senza perciò sconfinare nel porno) sia stato RaiCinema di Freccero che ha offerto rassegne di cinema americano di margine e di genere parecchio “spinte” per il gusto medio. Per il resto, anche se True Blood indubbiamente è una serie che contiene scene di sesso e di violenza in misura maggiore della media dei telefilm, la produzione che ci viene servita in tavola è ancora lontana da certe derive provocatorie da cinema indipendente. Da questo punto di vista, Dead Set è un programma molto tosto.

Postato giovedì, 22 luglio 2010 alle 11:49 da Gianfranco Manfredi


Errata corrige:la storia era “Le fiamme della dannazione”,mi è venuto in mente che nella storia di Dylan Dog “Il dittatore” (pubblicata nell’almanacco della paura 2003) compare un politico zombizzato.Si tratta di un dittatore sudamericano che in punto di morte a causa di un attentato viene zombizzato dalla sua amante che è una “bruja” .(ovvero una strega)Inoltre nella storia “Maledizione nera” compare uno zombi in apparenza simile a un comuno uomo tanto da essere perfettamente inserito nella società (è un giovane avvocato di colore) fino a quando chi lo ha rianimato non si riprende la sua anima tramutandolo nel classico zombi antropofago.

Postato giovedì, 22 luglio 2010 alle 11:50 da Francesco Moretta


Altro refuso, comuno uomo invece di comune uomo,scusate.

Postato giovedì, 22 luglio 2010 alle 11:52 da Francesco Moretta


Mi pare che Danilo Arona stia scrivendo un corposo saggio sul cinema degli zombi per Gargoyle. Al momento quello più completo, a me risulta essere The Book of the Dead di Jamie Russell, ma non si finisce mai di aggiornarsi perché escono nel mondo centinaia e centinaia di film di zombi all’anno.

Postato giovedì, 22 luglio 2010 alle 11:56 da Gianfranco Manfredi


Un amico mi ha appena segnalato il miglior titolo zombesco in merito al problema “zombie intelligenti o no”. Si chiama Retardead (c’è anche un trailer su YouTube). La storia è questa: il dottor Stern, direttore di una scuola per Studenti con problemi di apprendimento, inventa e inietta negli allievi un siero di iper-intelligenza che ha però l’effetto di trasformare la tranquilla comunità studentesca in un’orda di zombi affamati.

Postato giovedì, 22 luglio 2010 alle 13:01 da Gianfranco Manfredi


Il suggerimento manfrediano dello zombesco “Fido” mi ha molto stuzzicato: vedrò di procurarmelo.
Intanto con la rilettura di Magico Vento sono arrivato al numero 49…accidenti quant’è bello e quant’è lungo.
A leggerlo un episodio alla volta non ci si rendeva conto a pieno nè della vastità degli orizzonti narrativi nè della fitta trama di rimandi nè della lunghezza. E solo inoltrandosi nella saga giorno dopo giorno, vivendo nel West con Ned e Poe e tutti gli altri ogni sera, ci si accorge PER DAVVERO della densità anche fisica e sentimentale di questa epopea.
Per certi versi, la mia lettura è l’esatto contrario della teoria di Edgar Allan Poe (orpo! Garantisco che non l’ho fatto apposta a tirar fuori l’autentico Poe). Il quale (mi pare in Eureka) sosteneva che un’opera narrativa può essere apprezzata in pieno solo se viene letta in una sola seduta, da cima a fondo.
Con Magico Vento che sto leggendo ogni sera (da protestante sono abituato a letture quotidiane…la Bibbia è acqua giornaliera), accade il contrario.
O forse no: forse questa mia seconda lettura di MV è la lettura che Poe avrebbe voluto. E cioè (un episodio in fila all’altro) è la lettura più vicina possibile alla “sola seduta”.

Postato giovedì, 22 luglio 2010 alle 14:52 da luciano / idefix


@ Luciano. Il vantaggio di un fumetto è che si può leggere in un tempo ridotto, anche meno del tempo necessario a vedere un film. E in quel tempo, si è letta la storia (l’episodio) dal principio alla fine, dunque cosa ben diversa dal leggere un libro a qualche capitolo per sera. In Spagna alla Semana Negra si è discusso molto delle trasformazioni in atto nel mondo del fumetto. La trasformazione più evidente in Italia è il passaggio da fumetti potenzialmente infiniti, a uscita mensile, a fumetti cosiddetti mini-serie, che hanno la fine iscritta nel progetto, cioè fumetti a termine di durata che può variare dai quattro ai diciotto numeri circa, e che dunque somigliano di più a romanzi a puntate che a lunghissime saghe. Ora: in questo passaggio, da un lato ci si guadagna, sia dal punto di vista dell’autore che può scrivere in continuità e a ritmi più umani, scandendo la narrazione dei singoli episodi come tappe di un insieme organico pre-definito, sia dal punto di vista del lettore che può collezionare nel giro di poco più di un anno tutti i numeri, aspettare anche a leggerseli per leggerli poi tutti insieme alla fine, e può godersi una maggiore omogeneità stilistica anche nei disegni. La prospettiva delle mini-serie è in tendenza la libreria perchè di fatto somigliano di più alle graphic novel e si rivolgono a un pubblico affine a quello dei romanzi cioè mediamente più colto, più maturo e anche in grado di pagare un prezzo più elevato rispetto ai pochi soldi che costava un fumetto da edicola. Però… come osservava Pasolini, ogni apparente progresso segnala anche una perdita. Cosa si perde , nel caso? 1. Una serie a fumetti potenzialmente infinita (pensate a Tex, nato nel 1948) accompagna i suoi appassionati lettori per tutta la vita, ogni singolo mese, e si intreccia di fatto (come bene ha spiegato Luciano) con le sue abitudini, con la sua vita quotidiana, ne accompagna la crescita, le riflessioni, i cambiamenti. Ricevo in questi giorno lettere incredibili e commuoventi da parte dei lettori che hanno seguito e collezionato Magico vento fin dal principio e che mi raccontano come sono cambiate le loro vite in questi tredici anni, tanti quanti ne è durata la serie, e anche in quali momenti, di felicità o di sofferenza, la lettura del fumetto , cioè questo loro appuntamento privato, li ha aiutati. Questo rapporto così intimo, duraturo e intenso, non potrà più esistere con le serie brevi; 2. Una seria infinita deve tenere conto, nella sua scrittura, che i suoi lettori possono essere ragazzini quanto adulti e che le generazioni cambiano, dunque deve trovare uno stile che sia accessibile a tutti anche quando si trattano temi complessi e difficili. Una serie a termine può rivolgersi a un target più limitato, accontentare quegli appassionati lì, ma può anche non incontrare mai i lettori trasversali, per usare un termine moderno, o “popolari” , per usare un termine antico: cioè quelli che si avvicinano alla lettura da bambini e poi continuano sino a quando diventano nonni. Queste diverse generazioni comunicano tra loro grazia al fumetto lungo, con il fumetto breve invece si frammentano: la lettura del fumetto non è più un punto di riferimento comune per loro; 3. La diffusione di fumetti-novel in libreria si rivolge al pubblico di chi già legge e moltiplica l’offerta di titoli e la varietà dei generi e delle scelte, però il numero di copie vendute di un singolo fumetto cala in modo verticale. Un fumetto seriale che vende poco in edicola, vende almeno quindicimila copie. Una graphic novel da libreria (se si eccettuano alcuni successi internazionali) se vende mille copie, c’è da leccarsi i baffi. Ne consegue che gli autori sono pagati meno, che il disegno soprattutto è costretto all’estrema semplificazione. Il tempo tecnico medio per realizzare un fumetto da edicola di buona qualità , è per il disegnatore di circa cinque-sei mesi (considerando un albo di 94 pagine). Ma se un disegnatore per realizzare un fumetto-libro di almeno 120 pagine ci mette un anno o più… come fa a vivere con il misero anticipo che si becca? E’ costretto a realizzare la graphic novel in tempi molto più rapidi e dunque con disegni più scarni e semplificati. Per cui graficamente il rischio è notevole e cioè che mentre i testi possono/devono diventare più sofisticati (perché destinati a un pubblico più maturo e più letterario), la grafica questo non può permetterselo : è costretta a usare un codice più semplice ed essenziale, persino elementare, e dunque a sacrificare la qualità dell’immagine.
Per me concludere Magico vento è stata una boccata d’aria che mi ha consentito di dedicarmi ad altro (altre serie a fumetti e altri romanzi) con maggiore agio, però se devo essere sincero, il giorno in cui il fumetto popolare si sarà definitivamente imborghesito in libreria, beh non credo proprio che quel giorno io avrò più voglia di scrivere fumetti, se non altro per il fatto che in libreria ci sto già coi romanzi. Però è triste rinunciare a quel prezioso intreccio tra narrazione continuativa da parte dell’autore, (narrazione che può anche condurre a svolte non programmate in anticipo, erratica e sempre esplorativa), e la vita concreta dei lettori, con le loro esperienze felici e infelici, la loro imprevedibilità come persone (perché possono avere dieci anni o sessanta, fare i muratori o gli ingegneri, vivere in una grande città o in un piccolissimo centro sprovvisto di libreria) . Questo prezioso e unico intreccio (cui neppure la canzone è mai arrivata) sarà un peccato se fosse davvero destinato (come tutto sembra indicare) a finire. E qui non parlo della fine di una serie, parlo della fine del fumetto come l’abbiamo conosciuto fin qui, dal dopoguerra in poi. Parlo della fine di un prodotto culturale davvero popolare perché intrecciato alla vita di tutti i giorni, mese dopo mese, anno dopo anno.

Postato giovedì, 22 luglio 2010 alle 15:44 da Gianfranco Manfredi


Questo mio ultimo contributo alla discussione per la verità (e me ne scuso con Massimo) sarebbe stato più appropriato nel forum fumettistico di questo sito, però, beh mi è venuto… dunque per intrecciare di più al tema, vorrei aggiungere che il passaggio al fumetto breve ha significato, in America, un maggior numero di fumetti horror, e in particolare di fumetti di zombie. E questo è certo positivo per gli appassionati (vedo che Francesco non se ne perde uno). Del resto è molto difficile che una persona si legga un fumetto di zombie da quando ha dieci anni a quando ne compie settanta, per ogni singolo mese… ci sono generi che per definizione sono giovanili e anche più legati a mode (anche grafiche) del momento. Solo il fumetto classico, quello d’avventura, con tutte le sue varianti e sfumature, incluso il fumetto da Super-Eroi, può distendersi su un arco di tempo di decenni. Ma se fate un giro nelle librerie americane, vedrete che di questi fumetti classici si trovano solo raccolte antologiche, cioè ristampe, perché è diventato difficilissimo oggi produrne di nuovi.

Postato giovedì, 22 luglio 2010 alle 16:00 da Gianfranco Manfredi


Segnalo uno dei più interessanti fumetti zombeschi e cioè The Zombie Simon Garth di Kyle Hotz e Mike Raicht, pubblicato anche in italiano (con il titolo: La Morte della Morte) dalla Marvel, in un volume a colori di quasi duecento pagine. Il fumetto riprende un personaggio nato nel lontano 1953, e dunque quanto mai anticipatorio: quel fumetto (che uscì anche in Italiano a fascicoli e che collezionai da ragazzo) raccontava di un losco speculatore che costruisce una fabbrica ai margini di una palude. In seguito a diverse vicende, finisce affogato nella paluda stessa e rinasce come Zombi. Il suo primo impulso è tornare in fabbrica, al suo posto di comando. Per farlo, massacra i guardiani e chiunque altro incontri sul suo cammino, per poi arrivare al compimento del suo sogno: tornare a sedersi, anche se non sa più perché, né per fare cosa, sulla sua poltrona di comando dietro la scrivania. L’attuale ripresa è molto meno piena di questi umori “politici” , è uno scenario più abituale di assedio e di caccia all’uomo, però narrativamente è condotta molto bene, i disegni sono spettacolari e non manca qualche squarcio più intimo e toccante. Da leggere, senz’altro. Il libro è la collezione di una serie breve, durata dal 2006 al 2008.

Postato giovedì, 22 luglio 2010 alle 16:24 da Gianfranco Manfredi


@Gianfranco.La miniserie che citi è in effetti un buon caso di ripresa di un personaggio.Ad essa sono seguite altre miniserie dedicate ai mostri marveliani:una su Licantropus (recentemente edita in Italia,con i disegni di Mike Ploog e Gene Colan),una su l’uomo cosa e una su Devil-Slayer(inedite e la seconda ha i testi di Brian Keene).Hanno pubblicato anche un albo antologico “La legione dei mostri” (edito in Italia) in cui molti dei moderni talenti del fumetto hanno realizzato delle storie per ognuno dei vecchi personaggi horror della casa delle idee,ottenendo ottimi risultati.
In questa parentesi felice purtroppo non rientra “The death of Dracula”,ma ne ho già parlato e non voglio ripetermi.(però so come è andato a livello di vendite e ho letto le impressioni di molti lettori,se la cosa interessasse posso tornarci su)

Postato giovedì, 22 luglio 2010 alle 19:58 da Francesco Moretta


Manfredi lamenta la progressiva scomparsa delle serie a fumetti lunghe. E questo rientra nella velocizzazione consumistica di moltissime cose: tutto va bruciato in fretta per essere sostituito da un altro prodotto che a sua volta è nato per durare poco.
Anche il capitalismo non è più quello di una volta.
Ecco allora che, nel continuo smercio di materiali da “uso e consumo-usa e getta”, anche nei campi letterario-fumettistico-cinematografico-musicale vengono utili i “vecchi” e solidi temi. Che ogni tanto si riciclano.
Tanto…le “nuove generazioni” tirate su a pop-corn di polistirolo, a Youtube e a consolle non sanno che i Green Day vengono dopo i Ramones e i Ramones vennero dopo i Beach Boys nè hanno la minima idea che Twilight non esisterebbe senza Lestat nè Lestat senza Carmilla.
Insomma: la storia, la successione degli eventi, il debito di un artista verso i Maestri del passato, il rapporto causa-effetto, il nesso struttura-sovrastruttura è roba aliena.
Tutto va vampirizzato in un consumo superficiale, senza la possibilità di metabolizzare e sedimentare ciò che si è ingerito. Perchè per farlo ci vuole tempo e silenzio, servono pause e momenti di solitudine, fasi di noia da riempire con la digestione di quanto si è ingurgitato. Se no, tutto uscirà da noi nella stessa inutilizzabile forma in cui è entrato.
Ecco uno dei motivi per cui mi intristisce vedere ragazzini e ragazzine cheascoltano musica in cuffia in autobus o per strada: non solo e non tanto perchè sia (spesso) pop melenso e pseudo-rock di plastica…roba finta prodotta e smerciata only for the money…ma soprattutto perchè di questi ascolti non resterà traccia: a questi adolescenti, una volta diventati adulti, non rimarrà ricco sedimento e fertile humus di ciò che hanno ascoltato.
Forse i veri vampiri del Duemila sono i dirigenti della multinazionali dello spettacolo, che succhiano via dai ragazzini la fantasia, la libertà e la voglia di cambiare il mondo.

Postato venerdì, 23 luglio 2010 alle 09:43 da luciano / idefix


Sì, Luciano, è vero quello che dici, d’altra parte quando citi gli ascolti di musica per auricolare, non possono che venire in mente (e fa ridere al confronto) quei tipi molto anni 80 che giravano con delle radio gigantesche sulla spalla, o le cuffie “isolanti” degli anni successivi… oggi la cuffia è così discreta da risultare invisibile, per cui si incrocia gente che sembra stia parlando da sola e invece chiacchiera al telefonino (e ti viene il dubbio che sia la stessa cosa) oppure, come è capitato a me l’altro ieri in treno, vedere una con lo sguardo perso che dondolava a sinistra a destra proprio come uno zombie giuro e solo a un’osservazione più attenta mi sono reso conto che ascoltava musica e dondolando teneva il ritmo… che è davvero un modo bizzarro di tenere il ritmo (di solito si fanno ballare le ginocchia) e ricorda molto da vicino il movimento degli autistici quando sono un po’ nervosi. Pare , anche a prima vista, che l’isolamento dal mondo sia quasi un fatto di sopravvivenza e che in particolare la musica non venga più concepita come uno strumento di socializzazione (se non in oceanici raduni) ma come un fatto interiore , una scansione meccanica di un tempo artefatto, regolare, quanto fuori dal tempo. A un romanzo che ho letto di recente era premessa una citazione di Margaret Tatcher che diceva, alla lettera: “La società non esiste, esistono solo le singole persone e le loro famiglie.” La svolta politica introdotta dalla Tatcher è stata davvero rivoluzionaria… anzi, reazionaria, ma in senso rivoluzionario, perché non si è trattato di un cambiamento che intendeva restaurare valori passati, ma stabilirne dei nuovi. Quando mai, prima di lei, un politico, di destra o di sinistra, avrebbe detto che “la società non esiste”? che diamine! Un politico non esercita forse una carica “sociale”, non ha un mandato “sociale”? Se la società non esiste, in rappresentanza di chi governa quel politico? Ma la Tatcher era molto lucida ed esprimeva un concetto che divenne dominante dagli anni 80 in avanti: il Sociale è un dis-valore, il Privato è sacro e di questa sacralità sono guardiani l’individuo e la SUA famiglia, cioè non la famiglia in generale, ma la famiglia che gli appartiene e a cui appartiene, dunque una sorta di dépendance del suo privato. Il Politico governa proprio in quanto ogni legame sociale e relazionale viene spezzato e gli individui si concepiscono e vivono da isolati. Il Politico è il referente di un Interesse generale totalmente delegato alla sua persona e ai suoi criteri. Ora… l’infezione ideologica tatcheriana di cui molti scrittori inglesi hanno scritto non se n’è andata con la Signora Tatcher. Certe infezioni ideologiche più che prodotte dall’alto, sembrano espressione di cambiamenti antropologici, parallele a cambiamenti profondi della natura del mercato, del lavoro, della struttura sociale. Questo richiama di nuovo, simbolicamente, la figura dello zombie. Ogni zombi vive rinchiuso in se stesso e nemmeno si rende conto di muoversi in massa, nè che la sua individualità non ha più nulla di individuale perché è comportamento ossessivo e replicante, omologato e identico da individuo a individuo.

Postato venerdì, 23 luglio 2010 alle 10:24 da Gianfranco Manfredi


Rispetto allo zombie tutto passività e isolamento, lo zombie intelligente e stratega segnala un’evoluzione che comincia a spaventarci tanto quanto lo stato subornato precedente. Quella degli zombie senzienti è una rivolta di massa, ma a-sociale, puramente distruttiva, vorace. Chi negli anni 70 ha sognato e praticato la rivolta, può scambiare per benvenuta la ribellione degli zombi proprio in quanto segnala una “presa di coscienza”. Ma si tratta di “coscienza sociale”? Non so se avete fatto caso che sulla Grecia e sui suoi rivolgimenti sociali è calato sulla nostra stampa, persino su quella di estrema sinistra, un inquietante silenzio. Credo abbia pesato quell’assalto insensato contro gli uffici bancari, nel quale è morta una giovane donna per di più incinta, vittima innocente del lancio di una molotov contro l’edificio-simbolo. Questa tragedia, subito rimossa, ha visualizzato un incubo: che la prossima rivolta (che tutti aspettano come fatale, perché non si potrà a lungo reggere così) sia soltanto una distruttiva guerra civile di tutti contro tutti, proprio come mostrato nel film zombesco e britannico 28 Days Later. Nella repressione, lo stesso esercito non agisce più come rappresentante dello Stato, agisce come mera macchina di sterminio: i militari sono ridotti a cecchini assediati, che non hanno più nulla da presidiare, se non i loro distretti. E il finanziere-speculatore-banchiere (vedi Land of the dead) scappa o cerca di scappare in elicottero (nell’alto dei cieli) con una ridicola ventiquattrore piena di certificato bancari, come se ancora servissero a qualcosa. Il risultato della rivolta, non è un nuovo ordine sociale, bensì il totale deserto sociale, l’apocalissi definitiva. Questa nuova paura, da un lato ci appare intimidatoria e reazionaria (“attenti alle rivolte perchè porteranno solo violenza cieca e distruttiva”) , dall’altro è una paura reale in quanto smarrito ogni senso di appartenenza sociale una rivolta non può convertirsi in una Festa di liberazione, ma solo rappresentarsi come una cieca guerra di tutti contro tutti. Nell’ottica del survival, non a caso, a resistere è solo un piccolo gruppo solidale, micro-nucleo di una nuova società che dovrà sopravvivere giorno per giorno in un panorama di macerie.

Postato venerdì, 23 luglio 2010 alle 11:07 da Gianfranco Manfredi


SOCIALITA’ A PAGAMENTO

Un sintomo di quale misura sia stata raggiunta dall’isolamento degli individui, è il nuovo servizio “Rent-a-Friend” che dall’America si va diffondendo in Europa. Una persona sola che vuole andare a teatro, o al cinema, o a un concerto e preferirebbe andarci con un amico, se lo affitta a pagamento da un’agenzia. Niente sesso di mezzo, una relazione puramente amichevole a tassametro, anche solo il tempo di chiedere un consiglio o di sfogarsi un po’. Per iscriversi al servizio, 25 dollari. L’amico affittato costa a seconda del suo carnet di clienti e della sua appetibilità , da 10 a 50 dollari l’ora. Il conto dei biglietti per il concerto o il conto della cena è ovviamente a carico di chi affitta. Risultato: una serata con un amico, costa di più di una serata erotica. Chi più può spendere, più può trovare amici. E fatalmente l’amico gratuito si sentirà un pirla, visto che gli altri si fanno pagare. D’altro canto se ai servizi sociali ormai è considerato normale applicare delle tariffe , perché mai non dovrebbe essere monetizzato il semplice rapporto sociale amicale? Sicuramente, molti che lo sperimenteranno, troveranno che “funziona benissimo”.

Postato venerdì, 23 luglio 2010 alle 11:32 da Gianfranco Manfredi


Due parole:
-In merito alla diatriba fumetto seriale/miniserie,esiste un approccio di mezzo,ovvero rendere un personaggio protagonista fisso di più miniserie.Tale metodo è stato usato con successo dalla Harris negli anni 90 su Vampirella.
-Sul rent a friend,che tristezza!Mi ricorda un film francese in cui un tizio snob per vincere una scommessa paga uno sconosciuto perchè finga di essere il suo migliore amico.La prossima tappa cosa sarà,la famiglia a pagamento?Diventeremo tanto isolati e disemotivi da comprarci anche madri,padri,fratelli e figli?

Postato venerdì, 23 luglio 2010 alle 12:14 da Francesco Moretta


In fondo, da sempre, i temi orrorifici (in senso molto molto lato) erano di due tipi:
o consolatori o allarmanti.
Pensiamo al giallo:
o il meccanismo “un assassino disturba una comunità complessivamente tranquilla ma la sua scoperta e punizione (fuori scena) riporta la calma iniziale” (Agatha Christie)
oppure il meccanismo “il crimine è per davvero tra noi, sempre in agguato nelle nostre vite, nei nostri fati e nella nostra società” (Cornell Woolrich).
Oppure andiamo all’horror vero e proprio:
o lo stilema “il mostro è identificabile, fa brutte cose ma i buoni lo annientano” (in fondo il Dracula di Stoker)
o lo stilema “il mostro non è identificabile/isolabile e i “buoni” ne subiscono il contagio” (in fondo LA COSA di Carpenter).
Io penso che adesso le strade davvero fertissime per l’horror siano non quelle degli effettoni speciali sempre più spezialissimi veghino siore e siori ad ammirare er mostro più orrribbele der monno (dopo un po’, il baraccone stuferà per saturazione) ma spaventose situazione come quella delle feste con amici a pagamento, gli amanti in leasing, i lavori precari, le delocalizzazioni, gente che vende il rene, l’ingegneria genetica, la nutrizione artificiale, l’umanità iper-carnivora, il turismo sessuale pedofilo, i movimenti a scatto delle persone sole, il sesso virtuale, le nuove droghe, le nuove dipendenze (cibo, psico-farmaci, gioco, internet…)…
E non intendo solo un horror di denuncia sociale! Una specie di neo-gotico post-marxiano rigido e dogmatico, puzzolente di ideologismi e di cattivo giornalismo frustrato. Intendo andare a cercare i temi interessanti e i nuovi mostri là dove ci sono. E poi farli correre liberi nelle praterie della fantasia, ad accoppiarsi sotto la luna con le paure e gli incubi delle nostre Ombre più profonde.

Postato venerdì, 23 luglio 2010 alle 12:52 da luciano / idefix


Un romanzo molto interessante sul tema della coscienza degli zombi è quello di Lucius Shepard, “Occhi verdi”, scritto nel 1984 e pubblicato in Italia nei Libri di Urania dieci anni dopo. E’ un romanzo di singolare approfondimento psichiatrico che cita abbondantemente Jung e offre qualche squarcio di interpretazione scientifica e laica della mitologia religiosa del voodoo. In un istituto di ricerca si studiano gli zombie, risorti grazie ai progressi della scienza biologica e batteriologica, che vengono definiti PAIB: Personalità Arificiali Indotte Battericamente. Donnell Harrison (il protagonista) è un PAIB. Ecco un piccolo frammento che ci parla della sua coscienza smarrita: “A volte si rifugiava nei suoi ricordi, e si esaminava sullo sfondo della propria sofferenza, del proprio senso di perdita, allo stesso modo di un archeologo che stendendo su un velluto i frammenti di un antico medaglione, cerca di ritrovare la forma più vasta di cui quei frammenti sono gli unici resti: una vita che aveva uno scopo e un’unità, profonde amarezze e altezze di gioia.” Ecco , ho voluto citarlo, per tutti quelli che al solo parlare di una narrativa sugli zombi storcono il naso pensando a priori che si tratti inevitabilmente di cacate mal scritte e di nessun contenuto.

Postato venerdì, 23 luglio 2010 alle 13:02 da Gianfranco Manfredi


Fai bene: non esistono “temi stupidi” ma solo “scadenti realizzazioni”.
Ti posso fare una proposta pazzariella?
Il 10, 11 e 12 settembre organizziamo a Trieste un Festival letterario.
E’ stato ufficializzato solo ieri e a me mi hanno coinvolto appena ieri sera.
Soldi zero, idee abbastanza, speranze molte, posto splendido (piazza
Unità: la più grande piazza europea che dà sul mare…davvero un luogo bellissimo).
Insomma: ti va di venire uno di quei tre giorni per un incontro?
Avvertenza: non abbiamo denaro nemmeno per le spese.
Ma per una merenda, una cena, un calicetto o due di vino buono e un tetto (compreso di letto senza pulci) ci arrangiamo.

Postato venerdì, 23 luglio 2010 alle 13:17 da luciano / idefix


Caro Luciano, ti ringrazio moltissimo per l’invito. Verrei assai volentieri se non fosse per il fatto che ho promesso di presentare il mio nuovo romanzo in anteprima al Festival di Pordenone il 19 settembre. Tieni conto che , a parte questo impegno che mi sono preso, per me gli spostamenti sono onerosi, in quanto non ho la patente. Parlo di onere in termini di tempo, non di denaro, perché non faccio mai questione di soldi. Il punto è che devo rifornire i miei disegnatori, quindi mi tocca scrivere costantemente, altrimenti restano disoccupati (e a settembre, alla ripresa, tutti chiedono rifornimenti). Nei periodi “intasati” di per sé, in cui si ricomincia, si tirano i fili, si programma il lavoro, e dunque già si perde un sacco di tempo in riunioni peraltro necessarie, non posso fare troppi viaggi, soprattutto quelli lunghi, perché vorrebbe dire stare fuori tre giorni e accumulare ritardi sulle sceneggiature. Mi scusi? Spero non ci faremo mancare un’altra occasione, magari in un circolo, in una birreria o dovunque ti vada.

Postato venerdì, 23 luglio 2010 alle 14:58 da Gianfranco Manfredi


In tema di buona letteratura zombesca mi sono ricordato di due racconti. Il primo è scritto da Douglas E. Winter e s’intitola “Zombie”.
Winter immagina un mondo in cui si è verificata la resurezzione dei morti predetta da Romero e altri,ma in cui il violento intervento dei soldati ha sedato l’evento che è passato alla storia come il nuovo mercoledì nero.Le autorità con la scusa di non turbare i sopravvissuti del mercoledì nero hanno vietato in un supremo atto censorio ogni tipo di materiale perturbante.In questo scenario si muove il protagonista,un dipendente di una rivista sul cinema horror (ora clandestina) che cerca di superare e comprendere la morte della fidanzata con un ossessiva ricerca di quei film ora proibiti dalla legge,finchè non si verifica un altro mercoledì nero…. I titoli dei capitoli del racconto sono frasi tratte da diversi film di genere,tra cui spicca anche Lucio Fulci.
Il secondo racconto “Scelte” di Glen Vasey narra dell’intimistica odissea di un uomo in un modo invaso da torme di zombi.Qui gli zombi quasi non compaiono,sono soprattutto gli effetti della loro presenza a essere descritti,concentrandosi invece sulle riflessioni di un uomo che si ritrova ad essere un estraneo in quella che un tempo era la sua terra.

Postato venerdì, 23 luglio 2010 alle 16:14 da Francesco Moretta


Refuso,resurezzione invece di resurrezione,scusate.

Postato venerdì, 23 luglio 2010 alle 16:27 da Francesco Moretta


Una zeta in più con gli zombi ci sta. Un editore spagnolo di quelli che ho citato usa la Zeta e basta per le sue antologie di racconti zombeschi. A prima vista mi sembravano libri di Zorro…

Postato venerdì, 23 luglio 2010 alle 19:44 da Gianfranco Manfredi


Mi viene in mente che una Storia della Letteratura zombesca non è stata ancora scritta, eppure sarebbe più facile scriverla dei tanti e sterminati repertori di film zombeschi, in quanto il suo sviluppo è relativamente recente. Lo zombi di fatto non nasce, a differenza del vampiro, come figura letteraria, e anche nel cinema ha avuto scarso rilievo fino a Romero. Questa sua origine plebea forse spiega il perché di una certa riluttanza, nell’ambiente letterario a prestare la dovuta attenzione ai romanzi zombeschi. Di fatto lo zombi moderno, da Romero in poi, ha anche tagliato le sue radici dal folklore haitiano, caraibico, brasiliano e africano, il che è reso più che evidente dal fatto che la stragrande maggioranza degli zombi ormai sono di razza bianca. Dunque per intendere simbolicamente la figura dello zombi, dobbiamo partire dal mondo contemporaneo. I primissimi racconti di zombi dell’epoca appena post-Lovecraft raccontano di zombi fluttuanti , che non deambulano perchè hanno i piedi mozzi, ma svolazzano o scivolano sulle nebbie delle paludi (li ho rievocati su Magico vento)… lo zombi contemporaneo ha pochissimo a che vedere con queste tradizioni. E’ per molti versi una figura della Crisi , perché la sua prima diffusione mondiale si è verificata, se ci pensate., all’epoca dell’austerity cioè della Prima Crisi del Petrolio. Si direbbe che ogni ciclo economico negativo lasci dietro di sè uno strascico di zombie e la metafora non è poi così distante dal vero.

Postato venerdì, 23 luglio 2010 alle 19:56 da Gianfranco Manfredi


I vampiri-zombi di Matheson in Io sono una leggenda, e altre consimili città di morti dopo l’Apocalisse , erano ancora visualizzazioni dell’Incubo Nucleare da Guerra Fredda. Poi sono arrivate altre paure: il collasso della Società dei Consumi, la globalizzazione, le crisi finanziarie a ripetizione, il terrore di nuove pesti ed epidemie (dall’Aids alla mucca pazza), l’ingovernabilità delle metropoli, le ronde contro i barboni, gli emarginati e gli stranieri, l’uso dei militari in città, lo schiavismo risorgente, il nuovo nomadismo dei poveri … e fenomeni culturali come il bisogno di fare massa parallelo all’isolamento più totale dei singoli, l’ossessione contro il naturale invecchiamento e conseguente sfascio del corpo (vissuto come putrefazione in vita), il crollo verticale della Memoria storica e della consapevolezza, la rapacità insaziabile considerata virtù necessaria e vincente nei rapporti con gli altri… insomma non c’è nessuno di questi temi che non sia parte integrante di una novella di zombie.

Postato venerdì, 23 luglio 2010 alle 20:11 da Gianfranco Manfredi


L’ombra dello zombi s’incarna anche in film che non parlano necessariamente di morti viventi,pensate ai cultisti di “Distretto 13 Le brigate della morte” o ai barboni de “Il signore del male”.Gli zombi rappresentano le numerose masse umane che abitano nelle città e il conseguente degrado urbano.

Postato venerdì, 23 luglio 2010 alle 20:41 da Francesco Moretta


Gianfranco: la tua risposta è da hombre vertical. Muchas gracias.
Sarà per un’altra volta. E mi darò da fare affinchè ci sia. (E il 19 a Pordenone cercherò di esserci).
Zombi: Carpenter li mette in scena anche in Fantasmi da Marte.
Tra l’altro: l’informe nella Cosa, i fantasmi Fog, i teppisti-zombi in
Distretto 13, il serial killer in Halloween, le macchine possedute in Christine, i demoni in Grosso guaio a Chinatown, il Demonio Quantistico nel Il signore del Male, l’invasione aliena in Essi vivono, Lovecraft nel seme della follia, i bambini “strani” nel Villaggio dei dannati, i Vampires, le creature in Fantasmi da Marte, il film maledetto in Cigarette Burns, le gravidanze demoniache nel Seme del male…
Che altro regista del fantastico ha frequentato così tanti diversi topoi dell’horror (per non parlare della fantascienza) come Carpenter?

Postato venerdì, 23 luglio 2010 alle 20:58 da luciano / idefix


Carpenter si colloca sicuramente a un altro livello rispetto ai suoi coetanei Joe Dante, Wes Craven e, registicamente, anche rispetto a Romero. Il suo è un esempio di quello che è stato definito Cinema-Cinema. Nemmeno è mai apparso ambizioso, intellettualistico e “macerato” come Cronenberg. Fin qui, credo, da Ghezzi in giù, siamo tutti d’accordo. A me però sembra che nella sua cinematografia ogni tanto ci sia qualcosa di irrisolto. Si arriva da pubblico, con grandi aspettative, e a volte si ha l’impressione di restare con un pugno di mosche. Ieri sera ho visto un suo episodio per Masters of Horror . Il soggetto era notevole: il gestore di un cinema viene irretito dentro un piano diabolico, gli viene affidato un seducente e ben pagato incarico: ritrovare un film perduto sul quale corrono fosche leggende, il film maledetto per eccellenza. Alla sua prima proiezione in pubblico, sconvolti dalle immagini, gli spettatori si sono massacrati a vicenda e sono tutti morti. Sono toccati temi da cinefili assoluti (la ricerca del film perduto… non ne avevamo parlato qui, a proposito di London After Midnight?) , il rapporto di fascinazione tra le immagini e lo spettatore, l’influenza sempre discussa del perturbante sulla psiche degli spettatori, ecc. Problema: la fotografia era anni 80, al punto da farlo sembrare un film vecchio, la narrazione sussultoria con una sceneggiatura zoppicante e qualche botta di adrenalina che sembrava spesso messa lì come un pezzo di carne nel brodo, una recitazione e una scelta di attori piuttosto qualunque, un finale drammatico, ma con qualche punta di ridicolo involontario. Tutto sommato , un lavoro deludente e pasticciato, soprattutto paragonando la realizzazione all’idea. Era come se Carpenter avesse girato i suoi appunti per un film, invece del film. Subito dopo è passato l’episodio di un giovane che vedevo per la prima volta (McKenzie? Un nome più o meno così) … davvero bizzarro come soggetto (due giovani lesbiche che si nutrono di insetti e che con gli insetti vivono un rapporto più che intimo), realizzato con stile spiazzante ( per interi minuti una colonna sonora di canzoni francesi e un tono improvvisamente leggero, che sembrava di stare vedendo un altro film, non un horror) , con un happy end tanto liberatorio per le protagoniste quando inquietante per lo spettatore (le due restano incinte insieme e il padre è una specie di scarafaggio kafkiano). Insomma… non c’era da rimpiangere Carpenter.

Postato sabato, 24 luglio 2010 alle 11:26 da Gianfranco Manfredi


Un caro saluto ai miei “amici vampirici”.
Superata quota 2.000 commenti: un nuovo record per questo blog.
Non poteva che esser raggiunto da un post non-morto come questo. ;)
Grazie davvero.

Postato sabato, 24 luglio 2010 alle 13:05 da Massimo Maugeri


Dato che in tutti i sensi siamo ormai post-2000, c’è una questione che vorrei sottoporre a tutti e di cui, mi pare, non si parla mai. Siamo tutti d’accordo sul fatto che al centro dell’horror c’è la creazione (anzitutto letteraria) del Mostro, della Creatura. Ogni grande epoca dell’horror si è caratterizzata dalla comparsa di nuove Creature. Quelle Innominabili di Lovecraft erano, all’epoca, e sono rimaste a lungo, un’innovazione assoluta. Poi abbiamo visto spuntare gli Alieni, dai marziani verdi fino ad Alien, gli androidi (dai primi robot-giocattolo ai Terminator) . Nell’horror, come si è detto, la zombie plaga è sicuramente un fenomeno nuovo (anche se permanente da quasi cinquant’anni) ed espressivo del clima della nostra epoca. I fantasmi tecnologici giapponesi avevano fatto ben sperare, ma l’iperproduzione li ha schiantati in fretta. I vermoni giganti di Tremors sono stati un cult , ma chiuso in sé, non letterario e inquadrabile nel seriale minore. Per il resto, a parte qualche affioramento piuttosto unico e difficilmente replicabile (IT di Stephen King) gli autori horror contemporanei sono rimasti, tutti, sui filoni classici e sulle classiche creature in infinite riproposizioni rimodulate : vampiri, nuovi mostri di frankenstein da biologia avanzata, dottori e/o scrittori schizzati dalla personalità multipla, maniaci seriali alla Psycho sempre più “realistici” e ispirati alla cronaca criminale o sempre più surreali come Jason, Freddy e company, uomini lupo tra il satirico e il fumettistico, e infine streghe da Carrie a Wither… Ora: cosa significa questo? Gli scrittori non sono più capaci di inventare Creature che corrispondano in modo del tutto inedito e nuovo alle paure contemporanee? Sentono il bisogno di rimeditare sulle fonti originali (è il mio caso, lo ammetto)? Oppure preferiscono appoggiarsi sulla tradizione perchè è più comodo, più facile, più abituale anche per il pubblico, e comunque la creazione di una figura di Mostro veramente mostruosa perché Inedita è qualcosa di superiore alle loro forze e alla loro capacità espressiva? Parlando di horror (che editorialmente, da anni, va alla grande) stiamo parlando di una letteratura ancora vitale e creativa, o possiamo considerarlo in qualche misura istituzionalizzato come il Rock Imperiale della nostra epoca , abissalmente lontano ormai, dalle sue origini “wild” e provocatorie? Queste sono tutte domande cui non ci piace rispondere… sia perchè la risposta è difficile, sia perchè ci interrogano sulla nostra reale capacità/volontà (di scrittori e di lettori) di affrontare temi che riescano a turbarci davvero, nel profondo. E non per semplice, quanto apprezzabile, spasso e divertimento.

Postato sabato, 24 luglio 2010 alle 13:49 da Gianfranco Manfredi


A scanso di equivoci e per non disorientare la discussione: non ho nulla contro l’horror divertente. Ritengo che il primo Ghostbusters sia un capolavoro assoluto e in fondo parla proprio del tema che ho qui proposto.
Gli scombinati protagonisti che vanno a caccia di fantasmi come dei normalissimi disinfestatori di ratti, cioè senza porsi nemmeno il problema di crederci o no e sgombrando il terreno da ogni tremore metafisico, sono dei perfetti eroi del tempo. New York è minacciata da misteriosissima entità, divinità primitive dai nomi impronunciabili, mostri mai visti, dai poteri tanto sconfinati quanto impigliati in occulte regole burocratiche, che si impossessano di gente qualunque, persino di “sfigati della porta accanto” . Quando nel finale, materializzano tutta la loro Potenza e siamo in attesa di veder comparire il Mostro Inaudito e Apocalittico finora evocato, ma mai rappresentato… ecco che ci compare come un farsesco King Kong che ha l’aspetto dell’omino della pubblicità dei Mushmallows (dolcetto nazionale americano) . Sono dei geni, Aykroyd e Ramis che hanno scritto quella sceneggiatura. Quella, a mio avviso, è stata l’ultima epoca in cui gli autori horror, con innovativa verve ironica, hanno creato creature davvero nuove, come i Gremlins di Joe Dante e gli imitativi Critters e Ghoulies. Si andava al cinema curiosi di vedere all’opera nuovi e inediti mostriciattoli che spaventavano i bambini e facevano ridere gli adulti, ma poi durante la visione, facevano ridere i bambini proprio quando gli adulti cominciavano a turbarsi e a non considerare il film più tanto “divertente”. Una stagione indubbiamente creativa. Ma dopo?

Postato sabato, 24 luglio 2010 alle 14:46 da Gianfranco Manfredi


E’ mia sensazione che la qualità media dei film horror e della letteratura horror si sia elevata, e che nel cinema indipendente e nella letteratura di margine come in quella più diffusa, continuino ad apparire opere assai interessanti sotto il profilo del contenuto, quanto della ricerca espressiva, però sono funghi isolati di cui andare alla scoperta nella smisurata foresta della produzione insignificante. Sono anche prodotti isolati, ciascuno compiuto in sè, che difficilmente fanno tendenza o “contagiano” altri autori, o creano una scuola o anche solamente una moda. E un autore come Tim Burton che ha indubbiamente squassato l’abitudine e innovato sia in profondità che in superficie, pare essersi avvitato in un rimpianto del classico piuttosto accademico ( Sleepy Hollow, il Barbiere di Fleet Street, Alice…) e avvolto in un formalismo fine a se stesso, di cui si stenta ormai ad avvertire un contenuto forte e contemporaneo.

Postato sabato, 24 luglio 2010 alle 14:59 da Gianfranco Manfredi


Ho aggiornato il post inserendo l’intervento odierno di Gianfranco… quello di oggi, sabato, 24 luglio 2010 alle 1:49 pm.
Andate a vedere!
;)

Postato sabato, 24 luglio 2010 alle 15:46 da Massimo Maugeri


Amici, vengo con questa mia a dirvi… che domani 25 luglio, sarò ad Arezzo ospite del Play Art Festival 2010. Ovviamente di parlerà di Vampiri e io mi sto rileggendo un po’ di questi meravigliosi post.
Il thread di Letteratitudine sulla letteratura horror varca i confini e viaggia out of web. Questo è un vero arricchimento, e perciò ringrazio tutti.
Sarete con me anche a Procida, il 28…
Che meraviglia, incontrarvi è stato fantastico
:)

Postato sabato, 24 luglio 2010 alle 16:50 da Simonetta Santamaria


@Gianfranco.Credo che la continua ripresa di vecchi mostri e la non frequente creazione di nuove figure dipenda anche da un fattore economico,icone già ampliamente collaudate hanno più possibilità di riscuotere successo rispetto a qualcosa di nuovo e spesso in anticipo sui tempi.Il fatto che però nel panorama editoriale non compaiano di frequente,non significa che non vi siano dei casi:penso a Thomas Ligotti,a Danilo Arona o al Ramsey Campbell degli inizi o al Clive Barker dei “Books of Blood”.Inoltre tutti,che ne siamo consci o meno,ogni giorno creiamo e alimentiamo una sfilza di nuove angosce e incubi.Se uno scrittore riesce a sintonnizzarsi sulle paure autentiche della società odierna potrà attingere ad un ricco humus.Inoltre un tempo era il mostro singolo a spaventarci,oggi invece sono le masse o orrori che diventano sempre più sfocati e indefiniti.Quando definisci il mostro,spesso dai avvio ad un processo che lo uccide.
P.S.Sui due episodi che citi di “Masters of horror” ho un opinione rovesciata:”Cigarette burnings” mi era sembrato mellifluo e morboso,con un finale che prospettava una bella diffusione del male,mentre “Sick Girl” pur non essendo affatto brutto,mi è sembrato che avesse un finale ammazzatensione,quasi che fosse solo una bizzarra storielline su due lesbiche bizzarre.(Inoltre non mi convince la spiegazione sulla biologia dell’insetto).Indubbiamente nel mio punto di vista ha anche influito un fattore totalmente irrazionale,Carpenter è riuscito a fare più presa di McKee sulle mie corde interiori.
P.S.S.Stuart Gordon ha diretto un bellissima trasposizione di “The black cat” per “Masters of horror”,lo hai visto?In caso contrario te lo consiglio,perchè vale veramente la visione.Se “Sick Girl” ti è piaciuto di McKee ti consiglio anche “The wood”(tit. it. “Il mistero del bosco”).

Postato sabato, 24 luglio 2010 alle 18:34 da Francesco Moretta


Refuso: storielline invece di storiellina scusate.

Postato sabato, 24 luglio 2010 alle 18:36 da Francesco Moretta


“Icone già ampiamente collaudate hanno più possibilità di riscuotere successo”, scrive Francesco. E come dargli torto? Questa “legge” pare corrispondere alla Maledizione dei Testimonial. I pubblicitari hanno appurato che, soprattutto in Italia, se è un personaggio noto a interpretare uno spot, “l’attenzione del pubblico aumenta del 10%”. (I rischi sono d’altro tipo: vita privata sregolata del testimonial, sue apparizioni per altri prodotti, suo improvviso calo di popolarità, oppure… sua esosità economica). Si possono applicare questi criteri ai libri? Vengono applicati eccome: tra le icone collaudate può rientrare lo scrittore stesso, se la sua faccia è conosciuta in TV, o se il suo nome si imprime nella memoria. Vende Larrson? Si covano tutti gli svedesi giallisti possibili, soprattutto quelli che si chiamano Larrson (cognome diffusissimo in Svezia) e quando si esauriscono i Larrson-cognomi si passa a quelli che che chiamano Lars di nome. E c’è sempre pubblico che imbocca. Vecchie e più innocenti operazioni? Anni 90: Dylan Dog trionfa. Si pubblicano i romanzi e i racconti del suo autore, che nulla hanno a che vedere con Dylan Dog. L’editore fa fare le copertine dei romanzi al disegnatore delle copertine di Dylan Dog e ove la cosa non fosse chiara scrive in copertina “dell’autore di DYLAN DOG” e la grafica del nome del personaggio è identica a quella degli albi a fumetti (e il nome del personaggio , inesistente nel romanzo, più grosso di quello dell’autore del romanzo stesso). Dunque sì: si trattano i libri, gli autori dei libri e i personaggi esattamente come si trattano i normali prodotti non letterari. Nel Regno degli Oggetti di Consumo, il Conosciuto prevale sullo Sconosciuto, il Già popolare sul Non Ancora Popolare, il Noto sull’Ignoto. Ma in campo horror particolarmente: quando il NOTO vince sull’IGNOTO, non vuol dire che l’horror è finito?

Postato domenica, 25 luglio 2010 alle 10:36 da Gianfranco Manfredi


Quante CELEBRAZIONI e TRIONFI sono stati l’anticamera della Fine? Non vengono forse omaggiati tutti, anche gli individui più turpi, quando è giunta l’ora della loro MORTE? E non RISORGONO sul mercato, proprio quando non esistono più come individui attivi e creativi? (C’è del Cristianesimo nelle Leggi del Mercato e della Popolarità, un Cristianesimo piuttosto pervertito, nel quale gli Ultimi non sono e non saranno mai Primi).

Postato domenica, 25 luglio 2010 alle 10:42 da Gianfranco Manfredi


Accostare il nome di un titolo già noto ad uno ignoto per pubblicizarlo è una delle più vecchie,fuorvianti e tutt’ora vigenti strategie del marketing.Spesso è fuorviante poichè l’accostamento è solo di nome e i due titoli sono tra loro diversi.Oppure funziona in senso contrario:si accosta il nome di un titolo già famoso ad un altro per indicare che il nuovo prodotto ne è l’opposto,richiamando così fasce di popolazione che aborrivano il prodotto precedente.(es:un recente manga di tipo vampirico “Dance in the vampire bund” è pubblicizzato come l’anti-twilight).
Per passare a “mostruosità” più piacevoli,sembra che la casa editrice americana TOR da Dicembre ristamperà i romanzi di Fred Saberhagen su Dracula.In Italia fu pubblicato in passato solo il primo titolo della collana,perciò sto facendo un pensierino sul loro acquisto.

Postato domenica, 25 luglio 2010 alle 11:27 da Francesco Moretta


Interessanti questioni ha posto Manfredi.
Una su tutte: “quando il NOTO vince sull’IGNOTO, non vuol dire che l’horror è finito?”
Provo a rispondere (anzi: ad abbozzare un’ipotesi di risposta).
Qualche secolo fa e fino ad alcuni decenni addietro esistevano gli “esploratori” che andavano in giro per il mondo alla scoperta di luoghi ignoti e da rivelare per la prima volta. E attorno a questi viaggi esisteva una ricchissima letteratura (diaristica, atutobiografica o d’invenzione).
Ora non più.
Per una ragione molto semplice: si è arrivati praticamente dappertutto, quasi in ogni luogo del mondo si trovano turisti con videocamere ed è difficile (forse impossibile) fare delle vere scoperte: tutto è stato mostrato, raccontato, fotografato, filmato, descritto, catalogato, sottoposto a mappatura. Anche se non alziamo il culo dalla poltrona possiamo vedere la più remota foresta amazzonica nei film, sulla Google map o da altre immagini del satellite.
Analogamente, è accaduto nel campo dell’horror: un tempo il territorio era ignoto, da esplorare, dietro ogni albero e roccia poteva nascondersi un nuovo mostro o una creatura ignota, una trama mai sentita prima, un colpo di scena che nessuno aveva ancora inventato, uno stilema di là da venir utilizzato, pozzi di paura in cui calarsi, tunnel di abomini da percorrere, orrende caverne dove nessuno era mai entrato…Tutto un Mondo “giovane” e da conoscere.
Ora non più: quasi duecento anni zeppi di milioni e milioni di romanzi, racconti, saggi, fumetti, film, telefilm, convegni, pubblicità, canzoni, copertine, poster e parodie ci hanno condotti ovunque, nel Mondo Horror.
E nulla ci fa più sobbalzare.
Siamo smaliziati, non ci caschiamo più, non ci crediamo più, non ci spaventiamo più, non si sorprendiamo più: non sospendiamo più volontariamente la nostra incredulità.
Ecco perchè l’industria dello spettacolo (cinematografico e letterario) deve ricorrere a dosi sempre più massicce di drogati effetti speciali, a dosaggi progressivamente più alti di efferatezze squartatorie. Oppure all’altra faccia della stessa medaglia: le svenevolezze para-adolescenziali dei vampiri da mandolino e dolci baci e languide carezze.

Postato domenica, 25 luglio 2010 alle 12:13 da luciano / idefix


@ Luciano. Hai assolutamente ragione sotto il profilo storico, ma qui c’è sotto una questione più insidiosa che ha a che fare con il mercato. Un tempo l’aggettivo pubblicitario più usato in assoluto era NUOVO, ma sotto questa parola si nascondeva molto di più e cioè il capitalismo del dopoguerra che per davvero produceva cose insieme Nuove e Sociali (l’elettrodomestico, per dirne una). In campo culturale il Nuovo coincideva con l’inclusione nel mercato di tutto quanto ne era stato escluso prima, a partire dalla cultura degli ultimi (il blues e il rock delle origini cos’erano se non l’espressione diretta dei diseredati e dei “senza voce”?). Su queste basi si è fondato il Sogno Americano, cioè l’idea di una società accogliente e aperta nella quale anche chi viene dal margine può diventare importante (e vincente) sul mercato e attraverso il mercato. Questo sogno di merce “liberale” è oggi andato in frantumi. Siamo in pieno capitalismo della rendita finanziaria e della speculazione, come del tentativo (peraltro grottesco) di controllo del mercato dall’alto. Nel campo culturale, anche in letteratura, ciò significa che chi è già noto, ricco e influente ha a disposizione mezzi di gran lunga superiori di condizionamento del mercato rispetto a chi comincia ed è assai interessato a permanere al vertice ostacolando l’ingresso di nuovi soggetti sul mercato stesso. Dunque rispetto all’idea di NUOVO si è diffusa quella di SICURO E GARANTITO , che poi magari risulta una sòla lo stesso, ma gode di un MARCHIO accreditato. Ecco spuntare l’autore LOGO, il personaggio LOGO, la serie editoriale LOGO (ho appena visto oggi in edicola la nuova serie Mondadori/Harlequin di romanzi al femminile e tutti intonati variamente al thriller e all’horror . Come l’hamnno chiamata questa serie? New Best sellers . Tra i titoli manco uno è un vero bestseller, ma se lo dice l’etichetta…). Si consente al NUOVO di emergere solo se questo NUOVO scoppia in dimensioni tali da non poter essere frenato: bisogna accoglierlo per forza. Il Nuovo discreto, cioè l’affiorante, il tendenziale, non ha più i giusti tempi di crescita e di maturazione: è esordio puro che o si rivela subito grandioso, oppure gode di una popolarità di cinque minuti e viene subito inghiottito nell’anonimato. Jane Fonda in un’intervista ha dedicato un omaggio molto sentito ai giovani attori emergenti, ammettendo che gli attori della sua generazione in genere diventavano famosi dopo almeno una dozzina di film , anche bruttissimi, in cui si facevano le ossa , imparando, mentre oggi un giovane si trova di fronte a un compito durissimo: o diventa star subito, al primo film da protagonista, oppure viene eliminato. Non gli viene più concesso il tempo di imparare anche dai propri errori. Il Sogno Americano si è convertito nel suo contrario: chi è già Super-Eroe o dotatissimo di Talento (o di semplice Culo) è ammesso al paradiso della Merce, chi è marginale, imperfetto, emergente, stimolante, innovativo, ma ancora da dirozzare, viene emarginato ab origine. Scusa la lunga premessa, vengo all’horror nel successivo post.

Postato domenica, 25 luglio 2010 alle 17:35 da Gianfranco Manfredi


Ieri mattina ascolto un critico piuttosto esaltato nella Rubrica Libri di Radio Popolare. Presumo dunque si tratti di un critico cinematografico di sinistra e infatti lo dimostra in certi passaggi del suo intervento. Il punto è che con un collega ha appena scritto un libro su Avatar, di cui sono entrambi entusiasti. Parlano del 3D come della Nuova Rivoluzione del Cinema , rivoluziona a detta loro persino percettiva (“non è più lo spettatore a entrare nello schermo, ma lo schermo a proiettarsi sullo spettatore”). Sento spiegare questa presunta rivoluzione e allibisco. Ripenso alle primissime origini del cinema, quando il pubblico vedendo sullo schermo un treno che arrivava in corsa, scappava dalla sala, temendo di vederselo arrivare addosso (e il 3D non c’era). Penso al pistolero del primissimo film western muto che sparava dallo schermo contro gli spettatori. Penso a quante volte vedendo un horror sono sobbalzato indietro temendo istintivamente che il Mostro si scagliasse contro di me (ve la ricordate la mamma-mummia di Psycho e le sue coltellate verso la macchina da presa?) . Penso alla definizione che si usava in modo abituale in televisione per designare un personaggio di successo: “quello buca lo schermo”. Mi viene una gran tristezza a sentire dei critici sentenziare simili cazzate e a scambiare per nuovo un mezzo antico quanto il cinema. Questi non hanno mai capito un cazzo dell’immagine e dunque non capiscono nulla nemmeno della nuova tecnologia che è in continuità, non in rottura con la tradizione, anzi è l’ultimo tentativo di restaurare la tradizione e di mantenere in vita le vecchie sale cinematografiche che spazio una generazione non esisteranno più. Gli stessi critici esaltavano Cameron e i suoi potenti mezzi, ammettendo dunque che questi grandi mezzi economici sono indispensabili perché il Nuovo (o presunto tale) sia Vincente. Oh porca puttana! Ma il vecchio e nuovo horror da due lire, di pochi mezzi, che ci sorprendeva per la forza delle sue idee e della sua espressività , quell’horror che ha contagiato intere generazioni, ed è persino rispuntato a distanza di decenni come anticipatorio, questo VERO horror lo buttiamo nel cesso? O non è vero il contrario, cioè che oggi soltanto nel cinema indipendente e di pochi mezzi, vediamo RICERCA CREATIVA, mentre nelle produzioni da SUPERPOTENZA c’è solo un riciclaggio di roba vetusta? La società occidentale attuale corre alla riscoperta dell’acqua calda come al proprio suicidio. L’ignoto non la attrae (hai ragione tu: fine delle esplorazioni) ma la inquieta (eppure non si finisce mai di esplorare: la vita, la società, le paure individuali, i misteri del cosmo e della mente sono sempre più vasti, non più ridotti). Lo stesso horror sociale degli zombi, per quanto relativamente nuovo, a me sembra vecchio, perchè riconduce all’apocalittico che somiglia alla notte in cui tutte le vacche diventano nere. Personalmente, l’apocalittico non mi ha mai spaventato: se finisce il mondo … e vabbè , vuol dire che finiremo tutti insieme, per colpa nostra o della natura o del caso, ma chi se ne frega? Quello che mi spaventa, e che spaventa tutti, e cosa ne è e ne sarà del nostro destino personale? La paura, anche quando è collettiva, si insedia nelle singole persone, è un sentimento interiore. Nessuno teme davvero la MORTE del GENERE UMANO , ma tutti temiamo di andare incontro alla NOSTRA, e che sia anche terribilmente angosciante e crudele. Questo è stato sempre il tema al centro del cinema e della letteratura horror, anche su argomenti molto specifici. Ho sentito diverse volte la scrittrice spagnola Rosa Montero (che scrive sul Pais) affermare che Stevenson con il suo dottor Jekyll e Mister Hyde ha dato un nome alla schizofrenia moderna, alla duplicità dell’individuo moderno , a una scissione che tutti sentiamo in noi, ma alla quale prima di Stevenson NON SI ERA DATO UN NOME. Dare un nome, una figura, una rappresentazione alle nostre paure è fondamentale per conoscerle e per crescere superandole. Se la letteratura rinuncia a NOMINARLE , rinuncia al suo ruolo. Tutti noi sentiamo, come ha giustamente rilevato Francesco, che c’è un disagio indefinibile, un male misterioso, un fantasma che resiste alla rappresentazione, ma ciò significa che c’è qualcosa in noi e fuori di noi, nel disagio contemporaneo, cui ABBIAMO PAURA DI DARE UN NOME E UNA FIGURA. Ma se è così, significa che di questa segreta angoscia siamo prigionieri, non riusciamo più a interpretarla e a esprimerla, e dunque preferiamo rifugiarci nei confini del NOTO che anche se ci fa BOOH abbiamo imparato da tempo a esorcizzare. Ufff… ha strologato, come al solito… spero che qualche interrogativo stimolante da questo minestrone sia affiorato.

Postato domenica, 25 luglio 2010 alle 18:02 da Gianfranco Manfredi


Piccola postilla. Non solo non riusciamo a dare un nome alla negatività, ma non riusciamo nemmeno a darlo alla positività. Il successo dei romanzi horror è stato parallelo a quello dei romanzi storici. Ora, nella maggior parte dei romanzi storici, il personaggio storico, c’è già, è già noto (Alessandro, Cesare, Ramses, Messalina, Napoleone, Hitler e chi più ne ha, più ne metta) e dunque possiamo fare a meno di inventarcelo. Ma una letteratura che non sa più inventare personaggi (Eroi o Anti-Eroi) all’altezza del proprio tempo, è una letteratura morente. Di nuovo: non si sa dare un NOME e una FIGURA, né all’angoscia, né alla speranza. E fioriscono autori che questo nome e figura si accontentano di auto-attribuirselo: sono IO . La decadenza contemporanea (molto diversa da quella creativamente ricchissima del cosiddetto decadentismo) sta qui. E’ una decadenza sterile. Che tutto stia finendo lo sappiamo e lo sperimentiamo ogni giorno, cosa sta nascendo e cosa ci attende nel bene o nel male domani, preferiamo non vederlo. Forse perché la palla è passata ad altri, che non stanno in occidente.

Postato domenica, 25 luglio 2010 alle 18:48 da Gianfranco Manfredi


L’horror sicuramente sconvolgente è quello capitato ieri alla Love Parade. C’è da chiedersi cosa significhi oggi per noi “Love”, ma questo lasciamolo ai poeti… però, più prosaicamente, perché ritrovarsi in un milione e mezzo? Tra lo starsene da soli a intristirsi e il bisogno di ammassarsi in dimensioni ingovernabili, ci sono tante possibilità di maggiore soddisfazione. Alla corsa insensata ai Grandi Numeri (La Solitudine dei Grandi Numeri, si potrebbe dire) non sarebbe ora di porre un freno? Mi viene in mente Gaber che una volta mi disse, “sopra 1500 persone di pubblico, si distrugge ogni intimità; sino alle 10.000 persone si fa un’altra cosa; sopra, si fa un altro mestiere.”
Sinceramente, all’epoca, pur condividendo, mi parevano, le sue, considerazioni da teatrante. Però, ripeto, aveva ragione. Assistei in seguito all’ultimo concerto di Bob Marley a san Siro. Lo stadio era strapieno, anche il secondo anello. Il pubblico , eccitatissimo, cominciò a saltare e a ballare sin dalle prime note. Noi non lo sapevamo, lo apprendemmo in seguito, ma rischiammo tutti una spaventosa tragedia, perché andando avanti così, il secondo anello rischiava di crollare e precipitare. La struttura dello Stadio tremava come per un terremoto. La cosa venne riferita per tempo a Bob Marley. Senza che noi pubblico capissimo cosa stesse succedendo, vedemmo Malrely fare una pausa improvvisa e imprevista. Via il gruppo, via il coro, via tutti, luci spente. Dopo congrua attesa, eccolo rientrare in scena, con chitarra acustica. Suonò da solo per mezz’ora. Le danze erano cessate, una diversa e nuova attenzione si era stabilita tra il pubblico. Nel frattempo , con calma, vennero ristabilite condizioni di sicurezza al secondo anello. Solo a quel punto, Marley richiamò il gruppo sulla scena e ripresero, assai meno isteriche e molto più rilassate, le danze fino alla fine. Soltanto il giorno dopo apprendemmo cos’era accaduto. Ripensai alle parole di Gaber. Vero: suonare di fronte a 100.000 persone è un altro mestiere. Marley non era stato un semplice musicista-cantante, era stato leader, sciamano, servizio d’ordine e custode della nostra sicurezza, e il tutto, senza spargere una sola parola d’allarme e di panico dal palco. Questo aneddoto, mi rendo conto, non c’entra molto, però mi è venuto di raccontarvelo. Certo il Rock Imperiale di quest’epoca, rock che esibisce ricchezza e potenza , masse idolatriche e volume a manetta, che celebra lo Smisurato , Rock il cui Papa è Bono… beh, di questo rock (sarà che Marley non c’è più) non me ne frega un cazzo. Dovremmo contribuire tutti a ritrovare, in musica, in letteratura, negli incontri sociali, una misura umana , una dimensione “giusta”, che non si nutra di record, ma di intensità nella comunicazione.

Postato domenica, 25 luglio 2010 alle 19:10 da Gianfranco Manfredi


Hai ragione, Gianfranco… quello della Love Parade è stato davvero un horror (che nessuno di noi avrebbe mai voluto vedere).

Postato lunedì, 26 luglio 2010 alle 02:07 da Massimo Maugeri


Scrivono oggi su Repubblica Assante e Castaldo sulla Love Parade:
“Una festa in cui ci si perde, non si pensa, ci si abbandona: non c’è altro che il suono, non c’é nulla da vincere o perdere, non ci sono sogni o speranze, lacrime o rimpianti, è uno sballo anche senza droghe, una fuga completa, assoluta, da ogni forma di realtà, senza darsi prospettive.”
Nulla a che vedere, continuano, con i mega concerti rock, tradizionali, con il loro palco, il concerto, le star. “Alla Love Parade sono tutti protagonisti, senza un centro, senza un idolo da ammirare, tutti alla pari, per celebrare un pagano rito di condivisione, per perdersi e ritrovarsi insieme, sull’onda di una musica che sembra non finire mai.”
Il risveglio, testimoniato da tanti partecipanti e dj, il giorno dopo, è che la realtà esisteva lo stesso mentre stavi fuori anzi il fuori esisteva mentre stavi dentro la festa. Scoprire che mentre ti divertivi, altri morivano. E commentare: è incredibile… morire così non va bene (!) … è stata una strage, ma la festa è stata comunque bellissima… quello che c’era qui dentro ieri, è molto più bello del mondo che c’è fuori.
Orrore vissuto/non vissuto nel flusso delle energie “positive”, dei buoni sentimenti, del divertimento e dell’evasione. Nessun interrogativo (bando agli interrogativi, sono noiosi) sulla differenza tra una comunità e una massa.

Postato lunedì, 26 luglio 2010 alle 10:47 da Gianfranco Manfredi


In una mini-inchiesta andata in onda la settimana scorsa su RaiNews 24 (canale d’informazione che vogliono chiudere perché è il migliore su piazza e non solo in Italia) alcuni giovani artisti di berlino, facevano il punto sul business nato sfruttando la creatività giovanile. Gruppi di giovani writers e artisti di vario tipo avevano affittato interi palazzi e quartieri degradati, facendone nuovi quartieri per i giovani e per i creativi. Risultato? Li hanno riqualificati. Conclusa la missione, sono stati sloggiati e ora in quei quartieri case che non valevano niente, costano un occhio della testa. E i proprietari non hanno dovuto investire nella ristrutturazione, perché è stata fatta gratis e volontariamente dai veri riqualificatori del quartiere. Lo stesso si potrebbe dire delle iniziative apparentemente illuminate e aperte di molte amministrazioni che concedono spazi a manifestazioni oceaniche: se arrivano qui, da tutta Europa e non solo, milioni di giovani , chi non vede il potenziale business è un cretino. La massa convinta di autogestirsi, dicevano quei giovani artisti ben prima che scoppiasse la tragedia della Love Parade, è gestita dietro le quinte da chi su di loro fa business.

Postato lunedì, 26 luglio 2010 alle 11:02 da Gianfranco Manfredi


A un grande raduno, un sentimentale alza gli occhi al cielo e sospira: “Guarda, i falchi danzano con noi.” Un amante dell’horror risponde: “Guarda che sono avvoltoi.”

Postato lunedì, 26 luglio 2010 alle 11:08 da Gianfranco Manfredi


Immetto un po’ di nuova linfa, ricopiando dal sito ThrillerCafé.it alcune considerazioni di autori horror su alcuni problemi di cui stiamo discutendo.

Danilo Arona sull’apocalittico:
“Avverto nella cronaca di ogni giorno un’avanzante “Apocalisse Subliminale” di cui tutti si rendono istintivamente conto, ma che pochi riescono a “guardare” in faccia, a decodificare.”

Jack Ketchum sulla centralità o meno del Mostro:

” Non devo pensare a demoni, a mostri o divinità, ma solo a quello che io farei a te o tu faresti a me. Non sono uno scrittore che volta la faccia di fronte al male, credo che bisogna raccontarlo per quello che è, senza versioni edulcorate e senza porsi limiti.”

Robert McCammon sulla corsa della nuova editoria all’autocelebrazione bestselleristica:

“Tutti sostengono di essere i migliori, spero che ci sarà uno standard e che tutto questo polverone cesserà.”

Postato lunedì, 26 luglio 2010 alle 12:03 da Gianfranco Manfredi


Gianfranco, se le due righe del tuo ultimo commento sono tue…chapeau.
Anch’io volevo intervenire sulla mattanza di Duisburg: con una di quelle sincronicità alla Jung, tre giorni fa discutevamo proprio degli ORRORI veri su cui l’horror narrativo potrebbe scavare.
E il Destino a braccetto con Stupidità e Incompetenza cosa ci scaraventano addosso? Il massacro alla Love Parade.
Dove questa sequenza (http://tv.repubblica.it/dossier/strage-love-parade/video-amatoriale-ecco-la-calca-dall-alto/50979?video) è una scene delle più spaventose che io abbia mai visto e me la ricorderò finchè campo o finchè l’Alhzhaimer non mi fonderà le sinapsi. Perchè in quella mostruosa calca ai cancelli dell’inferno vedo mia figlia, i vostri figli, gli amici di mio nipote, me stesso e mia moglie, persone sconosciute con una storia e una biografia e un universo che sta per spegnersi per sempre, schiacciato dalle transenne. Ed è questo uno dei macigni soffocanti dell’orrore: scorgere se stessi e i propri cari precipitati in situazioni atroci e (al posto dei personaggi) immaginare noi.
Inutile dire che i servizi sui telegionali italiani (all’estero non saprei dire) sono stati desolanti: il TG1 tutto incentrato sulle immagini della casa in cui abitava la povera ragazza di Brescia e su una vicina che diceva “l’era una brava ragassa”, incompetenti blateramenti sulla musica, le banalità di cordoglio di Ratzinger…
Mentre in questa Love Parade e in mille e mille altre situazioni in giro per il mondo c’è materiale incandescente (e gelido) per l’horror del Duemila.

Postato lunedì, 26 luglio 2010 alle 12:19 da luciano / idefix


Ci sono anche sciacallaggi indecenti, caro Luciano. Come Bertolaso che ha commentato: ecco perché ci vuole la Protezione Civile, se c’ero io non succedeva. David Zard che ha autocelebrato la sua professionalità usata ormai sia per gestire grandi eventi rock che i pellegrini in Piazza San Pietro. I soliti leghisti che hanno chiesto di vietare i rave di qualsiasi tipo ed entità in tutta Italia eccetera eccetera eccetera eccetera eccetera… pur di non voler vedere la realtà di milioni di giovani e non solo abbandonati a sé stessi, sicuri che questa si possa chiamare ancora autogestione, quando è solo indifferenza assoluta e menefreghismo dei senescenti, purché ovviamente nella festa non sia rimasto impigliato qualche figlio loro. Lo so che come nella mia frettolosa metafora chi è abituato per esperienza a riconoscere gli avvoltoi, viene giudicato un guastafeste, ma questo è il vero legame che nonostante la povertà dell’immaginario contemporaneo mi mantiene affezionato all’horror: è ancora il territorio dei guastafeste, che stanno lì non per pessimismo e negatività connaturati, ma perché memori, anche per diretta esperienza, che le strade dell’Inferno sono lastricate d’oro o se vuoi, che quando al maiale mettono un bel fiocco rosso al collo, è perché la Festa stanno per farla a lui.

Postato lunedì, 26 luglio 2010 alle 15:04 da Gianfranco Manfredi


Sono d’accordissimo con la tua visione dell’horror: a grandi linee, dev’essere un qualcosa che turba, che ti cambia le carte in tavola, che fa “terremoto” nel tuo immaginario.

Postato lunedì, 26 luglio 2010 alle 18:08 da luciano / idefix


LE MACCHINE PREDITTIVE

Ogni tanto viene da ridere, leggendo i giornali. Ecco un articolo di oggi (frammento da Repubblica), che dovrebbe essere pane per i narratori e in particolare per i thrilleristi:

Anticipare il male prima che il male avvenga. Prevenire il crimine, bloccarlo invece che reprimerlo. “Pre-crime” potrebbe diventare una realtà: come in “Minority Report”, il film con Tom Cruise, la polizia arriva sulla scena del delitto prima ancora che il delitto ci sia stato. Il sistema esiste già, è stato inventato negli Usa e adesso viene sperimentato anche in Gran Bretagna: si chiama CRUSH (Criminal reduction utilising statistical history), ed è un sofisticato ma concettualmente semplice software, costruito dalla IBM, che i poliziotti di Memphis stanno testando da alcuni anni, e con cui adesso provano a lavorare anche i bobbies britannici.

Commento. 1. Poirot e la Signora in Giallo arrivano sempre sulla scena prima che il delitto sia commesso, molti hanno supposto che portino sfiga. Si potrebbe dire anche della macchina di cui sopra. Come minimo un agente, che so, metti una guardia giurata di sorveglianza a una Banca, al minimo pre-allarme di un crimine virtualmente possibile, entrerebbe in tensione, il che non aiuta a scongiurare l’evento e minaccia anzi di causarne un altro di tipo incidentale. 2. Assistiamo sempre di più a un mondo dove dalla politica, all’economia, dallo sport, alle tragedie ecologiche , nessuno sembra più in grado di predire una mazza , ma per essere più esatti: chi predice viene silenziato, o considerato un mezzo squilibrato (come colui che predisse il terremoto all’Aquila) o un guastafeste perché “senza ottimismo non si combina nulla di buono” come ripete il Nostro Papi. E in questo sfascio generale ci viene promessa una Macchina che farà il Profeta di Sventura al posto nostro. Ci stanno prendendo per il culo o cosa? ; 3. Sono prevedibili, anche senza essere un genio della fantascienza, un’applicazione domestica del software. Attiveremo la macchina la mattina per sapere se la giornata volge al brutto, nel qual caso probabilmente, sarà opportuno , almeno per chi un lavoro ce l’ha, mettersi in malattia e aspettare che passi; 4. L’oracolo casalingo della Sfiga ci indicherà ogni giorno la percentuale della nostra sopravvivenza … più horror di così si muore.

Postato martedì, 27 luglio 2010 alle 12:03 da Gianfranco Manfredi


Prevedibile in Italia un’applicazione famigliare con percentuale quotidiana di cornificazione da parte del partner e attivazione ansiogena correlata. Prevedibile aumento di delitti passionali. Si potrà usare in processo come attenuante “l’aveva predetto la macchina. Lui/lei stava per tradirmi, mi è venuto il raptus”, e dunque avremo la versione tecnologica del delitto d’onore. Il che sarà indubbiamente un bel progresso.
C’è poco da scherzare. Prima che al crimine, queste previsioni sono state già applicate dalle aziende per valutare il livello di rischio (per l’efficienza e la continuità del lavoro) delle abitudini quotidiane di un aspirante all’assunzione. Il potenziale affetto da disordini di vario tipo, primo fra tutti la malattia, non viene assunto. E, come ha mostrato Moore in Sicko, non può manco avere un’assicurazione sanitaria.

Postato martedì, 27 luglio 2010 alle 12:18 da Gianfranco Manfredi


In Italia, è ovvio che alla macchina verrà applicato il pulsante “Chiama Bertolaso”.

Postato martedì, 27 luglio 2010 alle 12:28 da Gianfranco Manfredi


La macchina, in versione digitale, in Italia sarà prodotta da una società del fratello del Presidente del Consiglio. Nell’imminenza delle elezioni prevederà infallibilmente che un virtuale Governo di centro-sinistra produrrà sfasci epocali e alzerà a livelli stellari “La percezione di insicurezza”.

Postato martedì, 27 luglio 2010 alle 12:32 da Gianfranco Manfredi


CRUSH non è un bel soggetto per una storia horror? Voi ve la terreste in casa una macchina così?

Postato martedì, 27 luglio 2010 alle 12:39 da Gianfranco Manfredi


DISNEY’S VAMPIRES
Curiosando tra le vecchie collezioni di “Topolino” e “Zio Paperone”,mi sono imbattutto in tre storie in cui Donald Duck e compagnia si trovano a dover fronteggiare dei particolari (a volte buffi) vampiri.
La prima di queste storie “Zio Paperone e la cassapanca transilvana” (pubblicata nel 1981 su Topolino 1356 sui testi di Chierchini) vede arrivare al deposito di Paperone in seguito all’acquisto di un castello in Transilvania una strana cassapanca.Dentro vi è il conte Papula che sfrattato dalla sua dimora inizia a infestare il deposito di Paperone.A sconfiggerlo sarà inconsapevolmente Paperino,quando Papula commetterà l’errore di morderlo,verrà annichilito dall’alta concentrazione di aglio presente nella dieta del papero.
La seconda storia è del 1991,di due autori olandesi Jan Kruse e Ben Verhagen e s’intitola “Zio Paperone-I prgionieri del Castello Rollingstein”.
Recatosi con il parentado in Transilvania,alla ricerca di un minerale con cui rinforzare le pareti del deposito Paperone se la dovrà invece vedere con il conte Sisferatu,intenzionato a papparsi sia lui che i nipoti.Verrà sconfitto con il più classico rimedio anti-vampiro:la luce del sole.
La terza storia (la mia preferita) scritta da Claudia Salvatori vede Paperino nei panni di un novello Jonathan Harker si reca in Transilvania per incontrare un possibile socio d’affari dello zio,il conte Paperescu.Inizialmente tutto fa pensare che Paperescu sia un vampiro,per poi rivelare che il conte è solo un vecchio gentiluomo afflitto dall’insonnia.La storia fu pubblivata nel 1986 su Topolino n.1603.

Postato martedì, 27 luglio 2010 alle 12:44 da Francesco Moretta


Nel comento sugli zombi-movie italiani mi ero scordato di “Zeder” di Pupi Avati,affascinante mix di horror,giallo e cospirazione in cui le sorti di individui diversi ruotano attorno ai misteriosi terreni K ,zone che hanno la facoltà di riportare in vità i morti.Il film è famoso anche per una somiglianza nel concetto di base con il romanzo di Stephen King “Pet Cemetery” che ha dato vita ad una lunga e streile discussione tra gli appassionati su chi avesse copiato da chi.Sterile perchè spunto a parte si tratta di opere diverse tra loro per stile e tematiche.
Refuso: pubblivata,invece di pubblicata scusate per l’errore.

Postato martedì, 27 luglio 2010 alle 12:51 da Francesco Moretta


L’articolo su Repubblica (http://www.repubblica.it/tecnologia/2010/07/27/news/ibm_minority_report-5852081/?ref=HREC2-5) è una perla di pressapochismo estivo.
Intanto il tema: non occorreva spendere undici miliardi di dollari (solo negli ultimi quattro anni) per scoprire che dopo le partite di calcio sono possibili atti vandacili, che quando piove il rischio dei furti d’auto aumenta, che il sabato notte gli incidenti stradali dovuti all’alcol si moltiplicano…bastava telefonare a me, a Manfredi o a un numero fatto a caso e glielo dicevamo gratis.
Poi la scelta del giornalista Vincenzo Nigro: per infiorettare il proprio pezzo dice che il progetto è “come in Minority Report, il film con Tom Cruise”. Ignorando del tutto due fatti: che il film è tratto da un racconto di Philip Dick e (soprattutto) che l’idea di base, la trama e lo svolgimento non c’entrano niente con questo progetto. L’anticrimine ipotizzato in Minority report non si basa sulle statistiche elaborate dai computer ma sulle premonizioni di pre-cog (persone con facoltà pre-cognitive che, intravvedendo il futuro, scoprono i crimini e i colpevoli PRIMA che i delitti avvengano). Il problema è: giusto condannare qualcuno che non ha ancora commesso nulla? Ma la cosa si complica perchè i pre-cog NON sono certi della loro lettura del futuro (che è solo tendenziale): ecco perchè lavorano in commissione ed ecco perchè a volte si verificano minority report (pre-cog in minoranza rispetto alle indicazioni maggioritarie).
Ma l’articolo è a suo modo terrificante perchè (per l’ennesima volta) dimostra:
quando conoscete un argomento, gli articoli che ne parlano (fatta eccezione per le cronache sportive e per pochi altri pezzi scritti da specialisti) sono quasi sempre desolanti.
Come corollario, ne consegue:
quasi sempre gli articoli che leggete sono desolanti.

Postato martedì, 27 luglio 2010 alle 15:11 da luciano / idefix


Oltre che desolanti, questi articoli sono promozionali. Assicurando (senza fornire dati) che simile servizio è efficace e “funziona” , predispongono il terreno al suo utilizzo aziendale e domestico. I rischi della vita o delle nostre scelte, valutati statisticamente. Le folle paranoiche accorrerebbero entusiaste se Steve Job piazzasse questo servizio sugli Ipad. Il fideismo nella macchina non è più il vecchio “è vero perché l’ha detto la TV” , ma è “è vero perché l’ha detto il PC”, inteso non come mero strumento di comunicazione, ma come macchina che elabora le condizioni stesse per cui una comunicazione sia o meno efficace. Dunque quando parliamo e in modo lusinghiero , ad esempio, di come “far funzionare” un testo, non stiamo parlando di qualcosa di innocente. Quando servizi di questo tipo verranno incorporati e serviti da una macchina, è probabile che al principio saranno affidabili quanto un traduttore automatico che del resto, come si è qui rilevato in passati post, già viene usato da molti traduttori sottopagati con gli esiti nefasti che ben conosciamo. Poi però ci sarà chi li renderà più sofisticati e proporrà costosissimi software che ti correggono il testo e lo rielaborano sulla base di input di mercato, cioé tagliandolo da tutto ciò che potrebbe risultare, a detta della macchina, “statisticamente” poco appetibile al pubblico. Il tutto è una colossale bufala, ovviamente, ma il mercato non fa appello alla Ragione, instilla nuove fedi. Giustissimi tutti i tuoi richiami all’autentico Minority Report. Ma dall’occupazione tecnologica dello spazio della Fede, all’occupazione delle facoltà extrasensoriali il passo è breve. La analisi predittive prenderanno sempre più piede e vere o false che siano condizioneranno gli anni a venire. Occorrerebbe rialzare la vecchia bandiera romantica di Lawrence :”Parlano tutti della macchina, ma la macchina non trionferà!” Del resto, Philip Dick lo aveva perfettamente intuito, qualche sarebbe stata la nuova forma di Resistenza.

Postato martedì, 27 luglio 2010 alle 19:07 da Gianfranco Manfredi


La figura dell’editor statistico, esiste già in America. Gli fai leggere un testo e lui ti dice: se usi questa parola, il 75% dei potenziali lettori non la capirà, e ti sottopone una scelta di sinonimi con diverse percentuali di comprensione. Poi non stupiamoci se certi libri sembrano tutti scritti dalla stessa macchina.

Postato martedì, 27 luglio 2010 alle 19:18 da Gianfranco Manfredi


Oggi su Repubblica un’inchiesta su un’altra stronzata: il test genetico fai da te che dovrebbe prevedere in modo sc-sc-sc-sc-sc-sc-sc-sc-sc-scientifico e infallibbbole tutte le nostre malattie.
Il risultato è che due volte su tre non c’azzecca.
La pubblicità di questa roba costa 3 miliardi di dollàri all’anno.
Anche qui, se le persone per sapere se gli verrà un coccolone entro i prossimi cinque anni (invece di rivolgersi a questi ciarlatani della tecnological-stregoneria…comunque gli stregoni erano più seri…) telefonassero a me, Gianfranco Manfredi, Massimo Maugeri, Francesco Moretta, Franco Pezzini o Simonetta Santamaria oppure osservassero il volo dei pipistrelli il 17 agosto o guardassero la conformazione dei propri stronzi, spenderebbero di meno e l’attendibilità sarebbe quantomeno identica.

Postato mercoledì, 28 luglio 2010 alle 09:27 da luciano / idefix


Tutto questo mi ricorda un osservazione fatta da Michael Moore sulla società capitalistica in “Bowling for Columbine”:la paura è usata come deterrente per spronare all’acquisto.Se non comprerai XXXX diventerai un fallito,se non leggi ZZZZ nessuno vorrà parlare con te ecc,ecc.
La domanda è come possono crescere dei bambini che fin dalla tenera età sono bombardati da roba simile?La risposta si trova su un qualsiasi quotidiano di una qualsiasi nazione:violenza e paranoia serpeggiano dappertutto.Vendere tramite la paura si è quindi rivelata una tecnica funzionale al suo bieco scopo,ma con conseguenze devastanti nel lungo termine sulla psiche umana.Pasolini nell’ultima intervista rilasciata prima della sua morte con un avvertimento sulla società di massa ovvero “Siamo tutti in pericolo!”.Non è nemmeno stato l’unico profeta degli orrori della società di massa,Harlan Hellison,Philip Kindred Dick,James Graham Ballard,David Cronenberg nelle loro opere c’era già tutto l’orrore del presente.Perchè come direbbe Danilo Arona avevano le antenne sintonizzate sui tempi che sarebbero venuti.

Postato mercoledì, 28 luglio 2010 alle 11:18 da Francesco Moretta


Sinceramente mi era venuto il dubbio che ultimamente stessimo un po’ divagando. Per me questa discussione è sempre un appuntamento stimolante, intendiamoci, però cominciavo a pensare che sull’horror ci fossimo detti ormai tutto o quasi. Invece Luciano ha appena toccato il tema della medicina miracolistica, di cui mi sono occupato nel mio prossimo romanzo che parla di un periodo (i primi dell’ottocento) in cui la medicina si riprometteva obiettivi fino ad allora impensabili , il più elevato dei quali era senza dubbio la vittoria contro la Morte. Attraverso le prime applicazioni di macchine alla chirurgia (i macchinari elettro-galvanici dell’italiano Giovanni Aldini) si sviluppavano le tecniche di rianimazione, fino ad allora piuttosto primitive. A un livello più basso, ma assai più diffuso, nasceva la farmacopea di massa. Attraverso inserzioni sui giornali, fabbricanti di medicine (fino ad allora affidate ai farmacisti) pubblicizzavano prodotti portentosi e li vendevano direttamente alla clientela senza ricetta, cioè tagliando fuori i medici curanti. A volta si trattava di semplici placebo anti-depressivi, più spesso di farmaci a base di oppiacei che avevano un qualche effetto sedativo , ma naturalmente causavano dipendenza. Simili farmaci (per esempio il Balsamo di Gilhead) avevano nomi biblici. I fabbricanti sostenevano che gli ingredienti venivano dalla Terra santa. Ora: mentre la medicina veniva così ad assumersi funzioni e fini fino ad allora esclusivamente religiosi, s’andava diffondendo un vero terrore delle malattie, quale non era esistito neppure durante la lunga epoca delle pesti, nella quale le epidemie venivano considerate fatalisticamente come flagelli contro cui ben poco si poteva fare. La rivendicazione e la propaganda del Funzionamento, esige un rovescio della medaglia, per essere efficace, e cioè che la paura di ammalarsi dilaghi socialmente. Da questo clima, nacque un filone horror molto fertile, quello dei Mad Doctors di cui abbiamo già parlato, ad esempio, ma più specificamente l’Orrore Clinico, che Lovecraft spingerà al di là di Frankenstein con il suo personaggio di Herbert West il Rianimatore. In tempi più vicini a noi, l’horror a sfondo medico ha avuto un notevole esempio letterario/cinematografico in Coma Profondo di Chricton. Negli ultimissimi anni, parecchi horror hanno avuto un’ambientazione ospedaliera. Dalla serie TV di Lars von Trier The Kingdom, fino al piuttosto recente “Sublime” , film che se non ricordo male (non vorrei confonderlo con uno simile) narra di un tipo che viene ricoverato per una semplice colonscopia e entra in un incubo infernale, inghiottito da un ospedale dal quale i pazienti non escono più e vengono assoggettati a operazioni allucinanti e sevizie innominabili. Quel film mi ha fatto venire in mente Il Fischio al Naso , film del 1967, tratto da un racconto di Dino Buzzati, molto simile come soggetto (ci si ricovera per una sciocchezza e non si esce più dall’ospedale, mentre l’odissea clinica diventa sempre più delirante). Insomma: rimedio portentoso e angoscia sociale vanno, “devono” andare, di pari passo.

Postato mercoledì, 28 luglio 2010 alle 11:47 da Gianfranco Manfredi


E Francesco tocca un punto cruciale: il rapporto tra paura e vendita. Che ovviamente non significa: quanto vendono i romanzi horror? Ma: quanto rende la paura?

Postato mercoledì, 28 luglio 2010 alle 11:53 da Gianfranco Manfredi


Buzzati andrebbe riesplorato a fondo: è una eccezionale miniera di temi e di invenzioni, con fondi morbosissimi e limacciosi (“Un amore” o “Romanzo a fumetti”), guizzi horror, profezie sulla società di massa, fiabe non nere ma di più…
Insomma, è uno scrittore che continuo a frequentare fin da quando me ne innamorai perdutamente a dodici anni. Attorno a quell’età feci gli “incontri” letterari davvero decisivi: Buzzati, Dick su Urania, Mc Bain, Simenon, Chesterton, Guareschi, Dostoevsky, Carl Barks, Mino Milani, il principe Valiant, l’Orlando furioso, Lovecraft su Urania, Gianburrasca, il triestino Quarantotti Gambini che raccontava l’eros tra adolescenti…
E Buzzati non è ricordato come merita.
GLI ORRORI medici: a me (confesso) angosciano e spaventano oltre il tollerabile quelli “quotidiani” raccontati nelle fiction. E infatti non guardo i vari Er, Doctor House e simili. Come mai? Quando guardo/leggo una narrazione ACCETTO di entrarci perchè “mi piace”.
Oppure me ne vado perchè mi accorgo che non mi convince.
Se ci entro, sospendo volontariamente la mia incredulità e (con i personaggi) stabilisco empatia: vivo al loro posto.
Ecco dunque che l’esperienza (possibilissima anche nella vita reale mia e delle persone che amo) di malattie incidenti infortuni patologie e simili non mi attrae per nulla e non mi va proprio di viverla in un romanzo/film.
(Anche perchè la colonscopia l’ho fatta due volte, quando alcuni anni fa temevo di avere un tumore)

Postato mercoledì, 28 luglio 2010 alle 12:30 da luciano / idefix


LA CITTA’ DEGLI ALBERI MORTI

L’horror quotidiano non cessa di produrre nuovi spunti, molto al di là dell’immaginazione romanzesca. Apprendiamo dai giornali che a Milano si sono piantato cinquemila alberi in un anno, in omaggio a un’operazione propagandistica sul verde pubblico che si vorrebbe crescesse di pari passo con la cementificazione (cioè la quadratura del cerchio). Di tutto ai milanesi è stato promesso: persino i boschi verticali siti in grattacielo (poi se mi dite a quale piano posso far pisciare il cane, vi ringrazio). Ora giunge notizia che la maggioranza degli alberi piantati (tra l’altro nella stagione sbagliata) sono già morti e rinsecchiti, perché i terreni non sono stati irrigati, perché nessuno li ha curati, perché il tipo di alberi scelti non erano giusti e non sopportavano le nuove condizioni dell’aria milanese. Sulla collinetta di Monte Stella (foto di oggi su repubblica Milano) campeggia un cimitero di tubi di plastica bianchi, destinati a proteggere alberi appena nati, e che li hanno invece soffocati in fasce. Sì, a Milano si sono piantati alberi morituri e morti in fretta. Migliaia di piante messe a dimora in primavera, già defunte a luglio. “E’ stata una stagione tremenda”, si giustifica un “tecnico”. Sì, è una stagione di incompetenza, di idiozia, di frode propagandistica, di disprezzo per la qualità della vita e per i soldi (oltre che delle legittime aspirazioni) dei cittadini, davvero tremenda e che continua da troppo tempo. D’altra parte: non è evidente che una città sepolcrale può produrre unicamente alberi morti?

Postato mercoledì, 28 luglio 2010 alle 13:13 da Gianfranco Manfredi


Anche in questo caso, dei narratori-profeti lo avevano annunciato, senza bisogno di ricorrere a macchine predittive. Vi ricordate Marcovaldo di Calvino? Quel delizioso capitolo sulle piante in azienda e sul candido tentativo di Marcovaldo di portare a spasso un ficus per fargli prendere un po’ d’aria?

Postato mercoledì, 28 luglio 2010 alle 13:16 da Gianfranco Manfredi


Delizioso, appunto, e poetico. Ma quel leggero tocco di intelligenza surreale che anima un racconto letterario, nella realtà si manifesta in modo molto più crudamente horror.

Postato mercoledì, 28 luglio 2010 alle 13:21 da Gianfranco Manfredi


Forse una delle piste dell’Horror potrebbe essere cambiare il punto di vista: uscendo da quello strettamente umano per ampliarlo ad altri soggetti (animali ad esempio). Facendo attenzione a non cadere nella mortifera trappola dell’horror didascalico e moralistico (quello che poi ti fa venir voglia di teppistica sovversione…ricordo con grigia tristezza la stagione politically correctissima di Dylan Dog).
Mi pare comunque che, da alcuni giorni stiamo frugando nel corpaccione della “quotidianità” e ne vengono fuori a bizzeffe possibili suggestioni inquietanti e orribili, nuovi mostri e nuove situazioni terificanti.
Forse (senza ripetere stancamente gli stereopiti) basta seguire due linee:
o come fai tu, Gianfranco, da Magico Vento a Ho freddo a Ultimi vampiri a Magia rossa a Cromantica al romanzo in arrivo. E cioè guardare al passato storico e antropologico con intelligenza creativa, ripescando (e reinventando) miti indiani e spezzoni rock, medicina ottocentesca e procedimenti pittorici d’altri tempi, famiglie vampiresche perdute eccetera. La materia (per chi ama sul serio la Storia e le sue innumerevoli sottotrame) è una fonte inesauribile.
Oppure guardare al presente e a cioè che accade ogni giorno su questo pianeta.
Insomma, io penso che il materiale non mancherà mai, per gli scrittori dell’inquietudine.

Postato mercoledì, 28 luglio 2010 alle 13:30 da luciano / idefix


Non c’entra nulla con la discussione sugli orrori moderni,ma volevo segnalare un bell’e-book sui lupi mannari che ho appena letto, “Bella e le bestie”.Si tratta di una robusta vicenda d’ambientazione montana,in cui un gruppo di persone alla ricerca di prove reali sull’esistenza dei licantropi troverà ben più di quello che sperava.Sono presenti anche dei gradevoli agganci al folclore latino,tanto per dimostrare che se ben usato il folclore popolare può dar vita a belle storie anche oggi.Per chi fosse interessato a leggerlo è scaricabile gratuitamente da “Il blog sull’orlo del mondo”.

Postato mercoledì, 28 luglio 2010 alle 15:44 da Francesco Moretta


In merito poi agli orrori ospedalieri,per me rimane indimenticabile la sequenza di “Jacob’s ladder” in cui Tim Robbins si ritrova ospedalizzato in una struttura da incubo che rassomiglia i vecchi ospedali ottocenteschi,con tanto di medici che usano metodi di cura da Santa inquisizione.Non scherzava nemmeno l’incubo virtuale vissuto da Fox Mulder in una puntata di “X-files” sulle intelligenze artificiali.Intrappolato da una di queste in mondo virtuale Mulder si ritrova prigioniero in uno scalcinato ospedale insieme a medici pazzi e sadiche infermiere che lo torturano amputandogli giorno per giorno un pezzo del corpo.

Postato mercoledì, 28 luglio 2010 alle 16:20 da Francesco Moretta


Danilo Arona sta lavorando molto sull’orrore contemporaneo, ha precisato anche qui il suo punto di vista. Lo incrocia spesso con il folclore italico, come del resto fa Eraldo Baldini, parecchio bene. Sull’orrore contemporaneo credo che due modelli recenti siano stati Bretton Ellis con “American Psycho” e Chuck Palahniuk con “Fight Club”. Quello che dice Luciano sui miei romanzi è verissimo , io sono più orientato a interrogarmi sulle radici delle ansie contemporanee che dopotutto non mi sembrano così nuove, ma devo anche confessare un mio limite e cioè che mi ritengo più bravo a evocare scenari passati piuttosto che a scrivere del mondo odierno che ci circonda. Quando ho provato a cimentarmi sul contemporaneo, beh… nelle canzoni qualcosa sono riuscito a esprimere, ma nei romanzi non sono riuscito a trovare altrettanta efficacia. E’ soprattutto stilisticamente che la realtà attuale mi dà qualche disturbo…. non sopporto come parla la gente, certi stili di vita non trovo neanche interessante descriverli perché tanto promanano dalla televisione, c’è ben poco di sotterraneo, tutta la merda sale al sole ed è in esposizione … descriverla mi deprime e mi blocca la fantasia. Ma ripeto, sono consapevole che questo è un mio limite. E di fronte a quello che vediamo accadere non riesco a fare a meno di chiedermi: ma quando è cominciato tutto questo?

Postato mercoledì, 28 luglio 2010 alle 17:56 da Gianfranco Manfredi


@Gianfranco.Un fanatico delle cospirazioni ti direbbe negli anni 80,io invece credo che tale processo abbia serpeggiato dai 60 in poi,molto ma molto lentamente.Si tratta dell’altra faccia del progresso,il prezzo da pagare che tuttosomato avremmo preferito non vedere.Il tuo riesplorare il passato,non è affatto un limite.In tempi di ignavia e assenza di memoria storica e culturale come questa,se qualcuno non si occupa seriamente del passato,beh siamo fottuti! (E intanto gli avvoltoi volano sulle nostre teste)
P.S.Poi c’è anche un altro discorso che preme su chi ha favorito per interesse questo schifo,ma il pensarci mi riprovoca una forte incazzatura.
P.P.S.Oltre ad essere uno scrittore con una sua precisa e originale idea di Horror Arona è anche un saggista coi fiocchi.

Postato mercoledì, 28 luglio 2010 alle 18:20 da Francesco Moretta


Ieri sera su Hallmark mi sono visto Nicholas Nickleby , cioè l’ennesima trasposizione del grande romanzo di Dickens. Dickens sapeva guardare a fondo nell’orrore suo contemporaneo ed era un narratore eccelso che riusciva pur raccontando il suo presente ad essere visionario. Conduce il lettore fin dentro le case dei suoi personaggi, abbiamo l’impressione di sentirne il respiro, tanto i caratteri sono autentici pur essendo rappresentati in caricature violente ed estreme, tutte espressive di un tempo, di un mestiere, di una psicologia, di una tipologia sociale definita. Temo che oggi l’impresa sia proibitiva per uno scrittore, in quanto si ha l’impressione che tutto sia da un lato più omologato , dall’altro più conosciuto, evidente, squadernato di continuo davanti ai nostri occhi. Ma rileggendo Dickens, bisognerebbe anche sapersi togliere dalla tradizione che ci ha reso i suoi personaggi e i suoi ambienti come un “quadro”, cioè come se fossero un mondo di personaggi, di ambienti, di storie inventate. Invece erano storie vere. Lo sfruttamento minorile, la prostituzione dilagante, il cinismo dei banchieri, l’ipocrisia degli alto-borghesi, la ferocia degli istituti di detenzione, dalle carceri agli orfanatrofi… beh, finchè abbiamo pensato che questo mondo, del capitalismo industriale e delle mefitiche metropoli degli inizi, era morto per sempre, e che il capitalismo post-bellico ci avesse dischiuso un nuovo benessere modernizzante, consumismo edonistico, Statuti per il lavoro, servizi sociali, welfare… finché ci siamo persi in questa nuova attualità, Dickens ci è diventato inattuale, lontano, persino favolistico. Dagli anni 90, a partire dall’Inghilterra, si è verificata una grande riscoperta di Dickens, autori e autrici poco più che trentenni si sono messi a scrivere romanzi storici neo-dickensiani. Stanco revivalismo? Uno dei tanti ritorni ai classici? No, io credo, che la violenza quotidiana dalla nostra società della Crisi (che diavolo! Il mio primo LP si intitolava La Crisi e l’avevo inciso nel 1974!) ci abbia mostrato che tutte le cose di cui parlava Dickens non erano affatto tramontate, anzi tornavano in una versione ancor più perversa in quanto non più motivate da una corsa allo Sviluppo, ma rappresentative della Fine dello Sviluppo e del suo Mito. E allora rileggendo Dickens, in qualche modo scopriamo chi siamo, da dove siamo venuti , e come la spirale della Storia, su un altro livello, tuttavia sia tornata ad avvolgersi su se stessa. Per citare Henry James, siamo di nuovo al Giro di Vite.

Postato mercoledì, 28 luglio 2010 alle 18:21 da Gianfranco Manfredi


@ Gianfranco, Luciano, Francesco
Grazie sempre per i vostri… “rimbalzi orrorifici”. :-) )

Postato mercoledì, 28 luglio 2010 alle 22:44 da Massimo Maugeri


Concordo con quanto scritto mercoledì da Francesco; e spezzo una lancia a favore di Girola, del suo blog – appunto il Blog sull’orlo del mondo – e dei suoi scritti. Attento, appassionato, preparato, mai banale.E anche spiritoso) Ed è un giovane! Bravo Alex.

Postato giovedì, 29 luglio 2010 alle 07:41 da claudio vergnani


Ah….Giro di vite: che romanzo horror! Ogni tanto (forse ogni spesso) , nella sua narrativa, James esaspera con estenuanti lentezze ma quando trova l’equilibrio tira fuori delle cose strabilianti che rivoltano da cima a fondo le storie “strane” (La bestia nella jungla, Il carteggio Aspern, La figura nel tappeto, Il senso del passato…).
Oggi vi segnalo (ancora su Repubblica) un altro tema tra scienza, potenzialità orrorifiche e giornalismo superficiale: http://www.repubblica.it/scienze/2010/07/29/news/sogni-5909663/?ref=HREC2-6
Il cui argomento (in apparenza) è: controllare i propri sogni e incubi come se fossero una specie di film che ci scriviamo noi stessi con un atto volontaristico.
Dico “in apparenza” perchè (leggendo attentamente) le cose non stanno così:
sia perchè questa attività di “controllo” è post-onirica. Insegna casomai a gestire lo shock provocato da sogni troppo sconvolgenti,
sia (soprattutto) perchè il programma terapeutico americano si rivolge ai reduci traumatizzati delle guerre e alle vittime di stupro, persone tormentate da bruttissimi incubi.
Invece la prima pagina di Repubblica spara un cialtronesco:
“I medici americani insegnano a sceneggiare l’attivirà onirica
BASTA CON GLI INCUBI NOTTURNI
ECCO COME GUIDARE I SOGNI”
Agli appassionati di horror accenno solo rapidamente alle innumerevoli porte e finestre e sottoscale e pertugi e gallerie e sotterranei e passaggi segreti che questa vicenda offre: controllo delle coscienze, manipolazione delle menti, invasione nei sogni altrui, maldestre auto-sceneggiature, incubi che si materializzano, strizzacervelli ciarlatani all’opera, orride metamorfosi tra attività onirica e realtà…

Postato giovedì, 29 luglio 2010 alle 10:21 da luciano / idefix


Aprire le porte dell’inconscio o cercare di manipolarlo crea sempre disastri nell’horror.Mi ricordo di un numero di Dylan Dog intitolato” Belli da morire” in cui un luminare della chirurgia plastica riesce a creare un trattamento miracoloso.Solo che dopo un risultato iniziale ottimo,i pazienti sottoposti all’operazione mutavano in mostri e morivano,Questo perchè il trattamento si basava sull’apertura dei canali dell’inconscio,cosa che in un primo momento permetteva di riplasmare il corpo nella forma desiderata ma di fronte ad una forte emozione faceva riemergere i lati oscuri dell’inconscio,dando vita a spaventose mutazioni.
P.S. Mi riaggancio brevemente al discorso sugli zombi per segnalare una cosa,sul sito “Television Tropes e Idioms” digitando “our zombies are different” si ottiene un elenco di tutte le diverse tipologie di zombi creati dalla fantasia umana in libri,film e fumetti,tutti rigorosamente divisi in base alle loro caratteristiche.

Postato giovedì, 29 luglio 2010 alle 10:34 da Francesco Moretta


Si ottiene lo stesso effetto digitando anche altre categorie di mostri.(es: vampiri-”our vampires are different”)

Postato giovedì, 29 luglio 2010 alle 11:00 da Francesco Moretta


Ognuno di noi (oltre a intervenire a “dire la sua” sui temi proposti e a rilanciarne di altri ancora) suggerisce film, libri, link, blog, a dimostrazione che più si approfondisce qualcosa e più c’è da approfondire.
Afferro l’occasione per ringraziarvi di ogni consiglio e suggerimento fin qui fatto.
E l’intervento di Francesco ha illuminato uno dei temi centrali del’horror: come si affronta l’imperfezione umana?
Tentando di manipolarla per annullarla, in una smania di perfezione? Cercando di confinarla isolandola del tutto dalla parte “buona e bella”? Esorcizzandola?
Convivendoci?
Evocandola?
Alleandosi?
Ammazzandola?

Postato giovedì, 29 luglio 2010 alle 12:00 da luciano / idefix


Raccontare è sempre terapeutico o quanto meno base per una terapia. Freud ha sempre sottolineato che la Lettura dei Sogni non è sull’inattingibile Sogno in Sé, ma sul racconto che ne fa il paziente. Affiora invece nell’articolo citato da Luciano, ma più nel titolo che nell’articolo in sé, uno stravolgimento ideologico, cioè l’abusato invito a “pensare positivo”, come se prevedere sempre un happy end fosse sufficiente a calmare le nostre ansie o addirittura a cambiare la percezione della realtà. Secondo questa versione ideologica il racconto dell’orrore sarebbe di per sè nocivo e diseducativo (perché pensare quelle brutte cose? O come una volta mi rimproverò uno scrittore buonista: c’è del morboso in quello che scrivi, alludendo implicitamente al fatto che se mi vengono in mente certe cose è perché devo avere un qualche disturbo psichico irrisolto. A volte persino gli scrittori si nutrono di luoghi comuni. Alla stessa stregua si potrebbe dire che un comico o uno scrittore satirico usano la battuta per nascondere la polvere sotto il tappeto). Quanto alle classificazioni cui accenna Francesco, beh… non si riescono nemmeno a classificare nelle loro infinite sfumature, neppure le preferenze sessuali, figuriamoci se si può tentare di classificare le caratteristiche delle figure dell’immaginario nelle loro infinite varianti! Di nuovo: in tutti questi discorsi si manifesta un’assoluta ignoranza sul linguaggio in generale e sul linguaggio narrativo in particolare. Le combinazioni tra parole sono infinite, esattamente come le combinazioni tra numeri o quelle tra le note musicali. Esprimere nuove combinazioni e varianti è pensiero in sviluppo, processo continuamente generativo e degenerativo. L’istanza della classificazione invece in genere viene utilizzata presupponendo che esista una fissità originale che il linguaggio non fa che replicare. Ne consegue che scrivere sarebbe una sorta di fissazione, un perpetuo riscrivere ossessivo, quando “tutto è già stato raccontato”. Da questa idea (falsa) sono nate le teorie dei Temi Fondamentali ( sette secondo alcuni, una dozzina secondo altri) sui quali sarebbero costruite TUTTE le storie , dall’origine dell’umanità a oggi. E qui si radica la perversa attitudine a respingere l’idea della scrittura come esplorazione creativa. Viene anche da chiedersi: perché continuare a scrivere se tutto è già stato scritto? E non è contraddittorio pensare che le discipline scientifiche facciano sempre nuove scoperte e rivedano costantemente i propri codici interpretativi, mentre quelle umanistiche sarebbero per loro natura condannate all’immobilità?

Postato giovedì, 29 luglio 2010 alle 12:25 da Gianfranco Manfredi


L’imperfezione umana ? Bel tema … Difficile come prima cosa intendersi e concordare su ciò che intendiamo per perfezione … (o quanto meno sulla sua applicazione su ciò che è umano) . Di solito ognuno ha una sua idea. Spesso prevale la linea del: “Ti renderò perfetto a forza!” , con risultati dubbi …

Postato giovedì, 29 luglio 2010 alle 17:00 da claudio vergnani


@ Gianfranco: credo ci sia ancora molto spazio per continuare a scrivere. E di conseguenza per leggere, e rileggere, e rileggere ancora. Ovvio che scappi la ripetizione. E’ normale, direi. Anche i cibi non sono infiniti, ma le combinazioni e il modo di gustarli sono tantissime. Magari la metafora non è granchè, ma il concetto credo sia corretto. Il libro ci accompagna ormai da secoli e – nonostante la velocità con cui procede la tecnologia – non è cambiato poi tanto dai suoi albori. Tra l’altro il formato (parlo proprio del peso in grammi) di un libro condiziona la lunghezza delle storie.
Cmq, per fare un altro esempio, anche negli scacchi ormai sono state giocate milioni di partite, ma le combinazioni sono – appunto – infinite, per cui si continuerà a giocare ancora molto ,molto a lungo.

Postato giovedì, 29 luglio 2010 alle 17:07 da claudio vergnani


Infatti. Il guaio è che di scrittura straparlano tutti, e soprattutto quelli che non hanno la minima idea di cosa sia. Quelli che mai si sveglierebbero alle due di notte per cambiare una parola in un testo. E con la musica succede la stessa cosa. Una volta un tipo mi vede suonare la chitarra e mi dice: “perchè fai il sol così? Non sarebbe più corretto suonarlo col barrè? ” “Non è un problema di correttezza” gli faccio io, e ripeto il sol col barrè: “Senti ? E’ un suono diverso. L’accordo è quello, ma il problema sono le armonie.” Quello sbarra gli occhi: “Sei un genio!” mi fa. In realtà io sono una pippa con la chitarra, stavo dicendo una cosa elementare. Solo che lui studiava col manuale e pensava che il sol lo si dovesse fare per forza in quel modo lì. Vai a spiegare che un giro di do sarà anche una sequenza abusata, però non sono tutti uguali, perché quella sequenza la si può armonizzare in un sacco di modi ( studiate come esegue la sequenza John Lennon in Imagine , quello sì che è un genio). E a proposito di imperfezione. Ho visto un compositore al lavoro su una sequenza ritmica standard presa da un programma elettronico. A un certo punto ha cominciato ad alterarla con dei piccoli anticipi o ritardi. Errori voluti, mi spiega, se la scansione è troppo perfetta è innaturale all’ascolto, non sembra umana. Appunto: in una canzone, come in uno scritto, a volte delle imperfezioni sono fondamentali per il risultato espressivo. Non si dà estetica senza imperfezioni.

Postato giovedì, 29 luglio 2010 alle 18:26 da Gianfranco Manfredi


L’etologo Daucher nel 1979 ha fatto un interessante esperimento in merito alla percezione estetica. Usando come base gli occhi ha sovrapposto le fotografie di venti volti di ragazze, tra cui le graziose erano davvero poche. Dalla sovrapposizione di tutte le loro imperfezioni, è nato un volto dai contorni sfumati,a ma estremamente attraente. Confrontando il volto finale con quelli delle singole foto, tutti coloro cui è stato sottoposto quel volto (senza dirgli com’era stato ricavato) hanno detto che era il volto più bello, anche se la foto era “mossa”. Quel volto, frutto di soprapposizioni, rimarcava caratteristiche tipiche. La bellezza, che spesso concepiamo come unica e sublime, in realtà è nel profondo di noi un modello medio , una sorta di norma innata e rimarcata attraverso il confronto e il superamento delle imperfezioni che nella nostra memoria accumuliamo. La discussione nata da questo esperimento è stata molto ricca e non mi ci soffermo. Resta il fatto che la bellezza ideale, secondo gli etologi, è “tipica” cioè sfuma i dettagli e le specificazioni, ma questa idea tipica è una somma di modelli imperfetti. Quando descriviamo una bella donna in un romanzo , ne diamo per forza di cose una rappresentazione ideale che poi il lettore adatta al suo immaginario. Un’eccessiva definizione dei dettagli del volto, lo rende brutto (sono i Mostri di cui si rimarcano i dettagli), una medietà che non sia memoria/sintesi di curiose imperfezioni, è inespressiva. Poi certo, uno può sempre cavarsela scrivendo semplicemente: “Era bellissima.” Ma questa è scrittura al risparmio.

Postato giovedì, 29 luglio 2010 alle 18:49 da Gianfranco Manfredi


Quanto m’è piaciuto il piccolo elogio (uso l’aggettivo riferendomi alla quantità) di Manfredi all’imperfezione.
A questo proposito è di ieri (sempre su Repubblica) una notizia agghiacciante. Il termine non è esagerato. Ecco il fatto: negli Usa si sta diffondendo una nuova moda chirurgica. E dunque, per avere un piede “perfetto” e sottile, alcune donne e ragazzine si sottopongono a operazioni eseguite da medici “estetici” che (senza anestesia) andrebbero appesi per i coglioni per due giorni.
Ciò che la fantascienza raccontava già negli anni Cinquanta e Sessanta (Dick!!! Ma quanto ci manchi…E non solo tu) la realtà ce lo sta sbattendo in faccia con il brutale glamour della società dello spettacolo e dell’apparenza.
Questa rincorsa alla presunta perfezione (che poi è il gusto massificato proposto volta per volta dalle Centrali dell’Egemonia) non solo è mostruosa in se e per se dal punto di vista etico e ideologico, ma genera tutto un orrendo pantheon di ulteriori sotto-mostri. Che vanno dalle spaventose maschere di certe donne dal volto rifatto (facce tutte identiche come caricature di barbie venute male, realizzate con uno stampino difettoso) ai concorsi di bellezza per bambine agghindate da mini-prostitute, dalle manie salutiste alle fissazioni sulla genetica che possiederebbe la chiave a stella per aggiustare ogni nostro groviglio emotivo e ogni nostra “anomalia” comportamentale, fino alla folle idea di fondo secondo cui lo scopo delle nostre vite sarebbe rincorrere l’assenza di problemi, il piallamento delle diversità.
Sono così belle le donne vere con i loro volti autentici, dove ogni segno, ogni imperfezione, ogni piccola o grande ruga è una parte della loro vita e racconta chi sono.
Mentre quelle epidermidi di plastica e di silicone, quei lineamenti tutti uguali come in un cartone in/animato di androidi…brrrrr che orrore.

Postato venerdì, 30 luglio 2010 alle 09:45 da luciano / idefix


Vorrei ringraziare di cuore chi ha citato il mio “Bella e le bestie” in questa discussione in cui volano nomi di altissimo valore. Sono un po’ imbarazzato dell’accostamento, ma anche molto onorato di essere piaciuto almeno a qualcuno :)
Chiunque fosse interessato, mi venga a trovare sul blog. Tutti i miei ebook sono in condivisione gratuita: http://mcnab75.livejournal.com/

Postato venerdì, 30 luglio 2010 alle 10:56 da Alessandro McNab Girola


@Luciano.Hai ragione il conformismo e l’artificiosità della chirurgia plastica fanno veramente paura.Mi ricordo una volta di aver visto una signora un pò in la con gli anni che aveva ricorso alla chirurgia estetica,mamma mia!Il suo viso semrava una statua di gesso dipinto,con proporzioni completamente sbagliate.La cosa più agghiacciante è che molti dei modelli di bellezza proposti oggi sono fasulli,anatomicamente sbagliati e sproporzionati,frutto di certe ossessioni maschili.(Prendiamo per esempio le proporzioni di una qualsiasi bambola Barbie,completamente sbagliate con una vita e una cassa toracica simile una donna normale non potrebbe nè respirare,nè partorire)
Purtroppo oggi sono in molti a propagandare simili modelli estetici come giusti,mentre l’atteggiamento più sano non è correggere forzatamente l’imperfezione,ma imparare a conviverci.

Postato venerdì, 30 luglio 2010 alle 11:16 da Francesco Moretta


Comunque gira che ti rigira a proporre come inequivocabilmente giuste certe tendenze sono sempre le solite persone o gruppi,il fine è “educare” la popolazione a non-pensare e ad essere docile,obbediente e “castrata” di ogni aspirazione.

Postato venerdì, 30 luglio 2010 alle 11:20 da Francesco Moretta


Nel mio nuovo romanzo in uscita è presente tra i protagonisti un personaggio storico, il dottor Joseph Constantine Carpue che eseguì la prima rinoplastica della Storia della Chirurgia Inglese. La tecnica chirurgica per questo genere di intervento, l’aveva appresa in India, dove era praticata da secoli. Non si trattava di chirurgia estetica, ma ricostruttiva. Si interveniva su volti consumati dalla lebbra, dal lupus o da altre affezioni del genere. Nessuno avrebbe mai pensato di intervenire su volti normali con la falsa promessa di farli diventare “belli”. Quanto fosse falsa questa promessa lo vediamo oggi, dopo che la chirurgia estetica , dalla fine degli anni 80, è diventata pratica diffusa. Le favole , di questa “piega/piaga” ne avevano parlato ben prima che esistesse una chirurgia specializzata: pensate alla strega di Biancaneve (“Specchio delle mie brame”). Quando ce la prendiamo con la scienza, e con le sue applicazioni di mercato, non dobbiamo dimenticare che essa spesso esegue i nostri sogni, anzi il mercato stesso è largamente costituito da soddisfazione di bisogni irreali, ma sognati. Che poi questi sogni si ribaltino in incubi è un altro discorso. Chi l’incubo non vuole proprio affrontarlo e si sforza di vedere sempre tutto roseo, è il più indifeso quando l’incubo gli si materializza inevitabilmente.

Postato venerdì, 30 luglio 2010 alle 11:48 da Gianfranco Manfredi


Prima ho scritto semrava invece di sembrava,scusate per il refuso.

Postato venerdì, 30 luglio 2010 alle 11:49 da Francesco Moretta


1) Sono andato sul blog di Alessandro e mi è bastato dare un’occhiata per lasciargli questo commento:
“Io li odio, i blog come il tuo: appena ci si entra si perde la testa perchè è come metter piede in una di quelle meravigliose librerie specializzate, in cui non sai da che parte voltarti perchè se guardi a destra vedi uno scaffale zeppo di titoli che cercavi da anni mentre se fai cadere gli occhi a sinistra ti accorgi che c’è un altro corridoio dalle pareti ricoperte di volumi accatastati e in mezzo al guazzabuglio già hai colto uno due quattro nove romanzi attraenti, per non parlare del bancone centrale dedicato alla saggistica o dei poster appesi alle pareti. Io li odio, questi posti: perchè ci devo tornare sempre e sempre”
2) Vorrei riprendere un accordo di Manfredi (“Chi l’incubo non vuole proprio affrontarlo e si sforza di vedere sempre tutto roseo, è il più indifeso quando l’incubo gli si materializza inevitabilmente”). Io scrivo soprattutto romanzi per ragazzi (libri umoristici, un po’ alla Gianburrasca rivisto un secolo dopo), sono una persona complessivamente serena e allegra, non apprezzo le musonerie e le lugubrerie, sono curioso del mondo e dei suoi abitanti, ridere e sorridere fa parte inscindibile di me. Ma mi entusiasma anche scrivere qualche storia horror e inquietante. E allora alcune persone mi chiedono con stupore “ma come?! Dove ti vengono queste idee morbose?”
“Da dove?! Dal mondo e da me, dai miei sotterranei o soffitte o stanze oscure. Voi non le avete?”
Uno dei tanti motivi per cui io sono credente è proprio questo: Gesù Cristo mi sta insegnando sempre più a guardare senza timore nei miei abissi, dove vivono parti di me che non mi piacciono e che un tempo mi angosciavano (o lo facevano ancora di più), creature strane e anche dolorose e pericolose. Ma tanto più dolorose e pericolose quanto più noi fingiamo che non ci siano, che non abitino dentro di noi, che ci siano estranee.
In questa direzione, un film potentissimo (uno degli horror che più mi spaventano per la sua radicale brutalità ideologica e per la impietosa messa in scena) è Brood di David Cronenberg.

Postato venerdì, 30 luglio 2010 alle 12:28 da luciano / idefix


Il ricorso alla Scienza non come Libera Ricerca, ma come Risolutrice dei nostri desideri, lo spostamento della Ricerca da Ricerca dell’ignoto (del non-ancora conosciuto) a strumento predittivo, è (non so se ci avete fatto caso) parallelo (sui giornali) a uno strano e inedito sviluppo degli oroscopi, che non si limitano più a fornire qualche vaticinio in merito a Lavoro, Amore e Salute, ma vengono sempre più accentuatamente compilati con linguaggio metaforico, insieme oracolare e ironico, che mima il letterario, raggiungendo effetti grotteschi. Mi fornisce un esempio la rubrica di Marco Pesatori su D donna, supplemento di Repubblica. Cito alcuni passi:

“Entità ventriloque meno opprimenti, figure zoologiche nel circostante meno presenti. Si va verso una maggiore umanità, il che comporta per voi l’evidente possibilità di aprirvi. Al sorriso. La donna cocciuta, astinente, sacrificata sull’altare della sublimazione, ridiscende la scala mobile posandosi a terra dolcemente. Concretezza di dialoghi. terza decade meno decadente.”

“Abitate mondi intermedi, spazi di fisica pura, le cose senza prestigio, senza design. Turbano, ma che mai vorrà dire?”

“State andando da Franceville a Moanda, lasciandovi alle spalle la repubblica del Congo, dopo aver attraversato il fiume Ogooué, facendo quattro chiacchiere con un obamba o un ragazzo batéké? Con Venere e Marte in quadratura più probabili due passi tra Varazze e Albissola, con l’Aurelia trafficata, senza aver la fidanzata e forse nemmeno un narghilé.”

“Nati in marzo con dimensione di realtà smarrita. Qualcuno fa il passo più lungo della gamba. Qualcun altro sotto l’ombrellone di Bellaria Igea Marina siede perplesso davanti all’orizzonte. Rinascono i nati in febbraio, anche grazie a improvvisa respirazione bocca a bocca.”

Credo possa bastare. Adesso ditemi voi: ma uno così, non viene voglia di picchiarlo a sangue?

Postato venerdì, 30 luglio 2010 alle 13:02 da Gianfranco Manfredi


Sì.
(E senza succhiare il suo sangue)
Ho letto le citazioni da te riportate a bocca spalancata, in apnea mentale: infatti, non sfiorando mai le rubriche di oroscopi, non avevo la benchè minima idea che potessero arrivare a simili deliri, a metà fra il surrealismo dei Canti di Maldoror di Lautreamont, il Renuccio Boscolo che pretendeva di trarre notizie sicure dalle Centurie di Nostradamus e la cialtroneria più sfrenata.
La domanda però è: ma a questa roba qualcuno può crederci (o anche solo credicchiarci un pochettino)?
Vien voglia di replicare a questi imbroglioni (nel West la prima volta gli compravano l’intruglio, ma quando ripassavano nello stesso villaggio li impiccavano) con una frase di Gilbert Keith Chesterton: “da quando gli uomini non credono più a Dio, credono a tutto”

Postato venerdì, 30 luglio 2010 alle 13:30 da luciano / idefix


per tua consolazione, Luciano, se chi cerca di fare lo spiritoso si rivela patetico, ci sono anche casi opposti e cioè di una cronaca noir che diventa esilarante, come il seguente passo da un articolo di Paolo Berizzi (da usare come antidoto agli Oroscopi):

“Un facoltoso erede di una dinastia di imprenditori bergamaschi all’Hollywood (noto locale milanese) lasciò 15 mila euro in una sera. Poi si ritirò con tre escort nel suo appartamento in centro: quando bussarono, si presentò, fatto di coca, vestito da chirurgo. Ora abita lontano.”

Postato venerdì, 30 luglio 2010 alle 13:41 da Gianfranco Manfredi


Fantastica. Peccato che Ambrose Bierce non l’abbia potuta leggere.

Postato venerdì, 30 luglio 2010 alle 14:16 da luciano / idefix


La lettura dei giornali ci fa capire quanto sia diventata inevitabile ormai per chi scrive, la commistione dei generi. Uno si legge un corsivo di Michele Serra, pensando di trovarci dell’intelligente satira e si imbatte in riflessioni malinconiche, tra l’altro più che condivisibili, anche se poi spesso si rischia (tutti rischiamo, non solo Michele) di finire nel “signora mia, non c’è più religione” che obiettivamente non è atteggiamento di cui essere nostalgici e men che meno fieri. Uno si legge un pezzo di cronaca nera e ci vede spuntare un episodio degno di un film di Massimo Boldi. Uno si legge un Oroscopo , tanto per intrattenersi, e si incazza perché il compilatore presume di essere una penna brillante e per prendere in giro le stronzate della vecchia astrologia, le dilata fino all’insopportabile. Uno si legge una delle tante rubriche di commento affidate ormai a singoli pincopallino spuntati da chissà dove, del tutto sconosciuti, e che sentenziano pur non essendo esperti di nulla se non di aria fritta. Uno si legge un articolo scientifico e ci trova valanghe di ciarpame da Conoscenza Zero. Uno si legge un articolo sportivo e ci trova a volte una consapevolezza sociale e una capacità di scrittura e di sarcasmo insospettabili ( vedi gli articoli di Gianni Mura o di Emanuela Audisio). Viene da pensare… ma la regola non era quella di dare al lettore quello che vuole? Eh, no, la regola è cambiata. Tu cerchi una cosa, e io che scrivo DEVO dartene un’altra, se no addio effetto sorpresa. Così un genere confluisce nell’altro, ogni punto di vista da narrativo si ribalta nel suo opposto, la contaminazione è il nuovo Statuto. E indietro non si torna. Il punto è dunque dove si va… e si auspicherebbe in proposito una maggiore umiltà e meno velleitarismo da parte di tutti, ricordando che si scrive per gli altri, non per fare i fighi.

Postato venerdì, 30 luglio 2010 alle 14:55 da Gianfranco Manfredi


E non ho parlato degli articoli di cronaca politico-giudiziaria che ci sommergono di rivelazioni di ogni genere, quelle illuminanti e quelle oscure, come se l’articolista non si fosse preoccupato di farne la cernita, ma le avesse semplicemente ammassate. Questo un titoletto da Repubblica di oggi, a proposito degli affari oscuri di dell’Utri: “L’imprenditore non può raggiungerlo: “Ho un ritardo tecnico”. E lui: “Non ti preoccupare.”
E allora? Sarò scemo, ma non ho capito quale sia la rivelazione , tantomeno perché evidenziare questo frammento di conversazione. C’è sotto un messaggio subliminale?
Fatto salvo che la Legge bavaglio non la vuole nessuno (visto che ormai ci ha rinunciato anche il Cavaliere) , non sarà il caso di considerare criticamente (un minimo, non si pretende troppo) come si parla e si scrive senza bavaglio?

Postato venerdì, 30 luglio 2010 alle 15:10 da Gianfranco Manfredi


Quando ho diretto per quattro anni un mensile a Trieste, la cosa principale che cercavo di ottenere dai collaboratori era: per l’amor di dio o dei lettori, innanzitutto siate chiari.
Poi possiamo discutere di tutto, poi potete sbizzarrirvi nella “bella scrittura”, ma il primo requisito per un giornalista è di farsi capire e di dare delle informazioni il più possibile accurate, verificate e in un qualche modo utili (che può anche voler dire “divertenti”).
Forse si scrive anche per se soltanto, ma quando si decide di pubblicare ciò che si è scritto lo si fa per gli altri. (Ciò non significa affatto uniformarsi piattamente al presunto “volere der popolo”, svendendo la propria personalità al conformismo. Significa però essere consapevoli che il mio scritto è diventato anche un “prodotto”. Tanto più se è un articolo di giornale)
SULL’HORROR
Il mio amato Cortazar (i suoi racconti sono molto molto spesso dentro il reame del perturbante, con incursioni nel cuore dell’orrore) disse in una conferenza più o meno così: “A volte ho delle fortissime ossessioni che mi angosciano e mi fanno star male. Il modo per liberarmene è farle uscire da me, mettendole su carta in un testo narrativo. Il mio dubbio è però: con la potenza del testo narrativo, non rischio di contagiare chi le legge? E dunque di trasmettere a lui le mie ossessioni privatissime, che magari prima il lettore non aveva?”
Mi pare una buona domanda.
E proprio facendomela, ho buttato via due o tre racconti davvero mostruosi che avevo scritto.

Postato venerdì, 30 luglio 2010 alle 16:45 da luciano / idefix


Ma per carità, Luciano! Si deve buttare via solo la roba brutta! Cortazar può dire quello che vuole, ma fa parte della sindrome dello scrittore dirsi , quando butta male “scrivere è irrilevante, non si riesce ad avere la minima influenza su nulla” , e quando butta bene “ho troppa influenza, non finirò per condizionare qualcuno?” . Noi non sappiamo cosa è influente e cosa è ininfluente in quello che scriviamo per il semplice motivo che questo lo sanno solo i lettori. Certe influenze sono lunghe e segrete , le riscopriamo da lettori solo a distanza di anni. Altre ci arrivano in faccia e il vento le trascina via come carta straccia. Ma guardiamola così, la letteratura, da lettori, e chiediamoci piuttosto quanto ha significato per noi nella nostra vita, e non tanto per le parole di questo o quel Maestro, ma per il flusso collettivo di storie da cui ci siamo lasciati trascinare trovandovi sicuramente un’occasione insostituibile per vivere meglio e più consapevolmente. Quando pensiamo all’uomo, si sa, c’è chi lo definisce come “animale politico”, chi come “res cogitans”, chi come un povero guitto che si dibatte sul palcoscenico della vita, ma non si ricorda mai abbastanza che l’uomo è un essere che racconta e ascolta storie e che senza questa fonte si inaridisce.

Postato venerdì, 30 luglio 2010 alle 17:24 da Gianfranco Manfredi


C’è piuttosto un altro punto da considerare, come scrittori. La differenza tra sofisti e filosofi. I sofisti vogliono convincere gli altri con argomenti tanti persuasivi quanto speciosi e falsi. I filosofi non hanno verità da servire in tavola, perché é la ricerca della verità ad appassionarli e questa ricerca comporta la critica delle false verità più o meno consolatorie, quasi sempre oppressive. La letteratura che si pone come suo primo scopo l’efficacia , (politica, di mercato, emotiva, didascalica, educativa) è una letteratura sofistica . Quella che va all’esplorazione di chissà cosa, che rischia l’inefficacia assoluta, che raccoglie, tramanda e crea sempre nuove storie per il puro bisogno di farlo, è letteratura filosofica. Entrambe hanno una visione del “sentimentale” , ma per la prima è uno strumento di potere, per la seconda è un codice ancora tutto da scoprire che la semplice narrazione può dischiudere, senza sforzarsi di convincere nessuno.

Postato venerdì, 30 luglio 2010 alle 17:42 da Gianfranco Manfredi


Il discorso sembra astratto? Eppure era la differenza di cui sopra ad essere espressa nella polemica a distanza tra Lady GaGa e Nina Hagen di cui ho riferito in un ormai lontano post. La prima sosteneva: “Io sono menzogna” e la seconda che un artista non può non essere al servizio della ricerca della Verità. Ora: l’assunto di Lady GaGa è il più tipico assunto sofistico: un cretese dice “tutti i cretesi sono mentitori”. Dice il vero o mente? La sua asserzione è errata alla base, non sta proprio in piedi. Dopodiché venderà anche uno sproposito di dischi , mentre Nina Hagen può anche essere giudicata una fulminata che dopo averne fatte di tutti i colori ha trovato “la fede” e crede di essere una santa. Io però preferisco sempre ascoltare chi dal sentire comune viene giudicato “matto” piuttosto di chi viene considerato “un gran furbacchione”.

Postato venerdì, 30 luglio 2010 alle 17:54 da Gianfranco Manfredi


In tasca ho una ventina di euri, il telefonino e un fazzoletto (pulito): non la Verità. E dunque ci tenevo a sentire la tua opinione sulla domanda di Cortazar.
Io non saprei dare una risposta univoca: da un lato il problema posto mi pare serio. Da un altro lato, soprattutto maneggiando temi “inquietanti” (lo uso in senso molto lato), per un eccesso di zelo si rischia di non far uscire NULLA da noi perchè non possiamo mai sapere con cosa nè come nè quanto nè in che modo nè con quali conseguenze si farà centro nel lettore.
Non lo so…per me è una questione aperta che (forse, ma non ne sono certo) va risolta caso per caso, senza una regola valida per tutti e in ogni circostanza.
Sulla necessità (per noi umani) delle narrazioni, sono totalmente d’accordo. E trovo del tutto ridicoli quelli che, ogni dieci anni circa,, lanciano l’allarme per la MORTE DEL ROMANZO e la FINE DELLA NARRATIVA. E’ gente tristissima, magari colta e intelligente ma emotivamente inappetente e mentalmente anoressica.
Ai ragazzi nelle scuole, cito spesso un detto yiddish: “Forse Dio ha creato l’uomo perchè anche a Dio piace sentirsi raccontare storie”
FESTIVAL DI TRIESTE: è stato spostato a novembre, sempre in piazza Unità (dentro un mega-tendone), le date saranno il 5-11/11 (oppure il 7-11/11). Così abbiamo più tempo per organizzare e trovare qualche sponsor.
Se…forse…non si sa mai…nel caso che…ipotizzando…eventualmente…ne saremmo felici come bambini all’arrivo dello zio d’America.

Postato venerdì, 30 luglio 2010 alle 18:07 da luciano / idefix


Mi spiace che Gianni (sarà in vacanza?) non abbia più postato i suoi messaggi. Avrei voluto chiedergli se ha letto un’intervista su repubblica ad Antonio Franchini, cioè il numero Uno degli editor italiani attuali. A un certo punto Antonio dice che da anni ha con sè un grosso romanzo in attesa pubblicazione. L’inizio, a suo dire, ricorda Moby Dick tanto è folgorante. Poi va tutto in vacca. A un certo punto di riprende con capitoli da brivido (estetico, suppongo) e subito riprecipita ancora nel pastrocchio. Ammette, Franchini, che non sa cosa fare. L’autore, certo, potrebbe dire e sarebbe nel suo diritto farlo: questo romanzo è un tutto, io sono fatto così, prendere o lasciare. Magari, se fosse un autore intelligente, proverebbe a capire come mai non riesce a tenere il livello. Non so chi sia , come giudicare? Mi consola il fatto che un editor si ponga la domanda, e dunque si assuma la responsabilità di una scelta e di un possibile errore. Mi piace che confessi la sua profonda perplessità, quando tutti ormai tendono a considerarlo un guru (magari per il fatto d’aver escogitato un titolo efficace … La solitudine nei numeri primi… peraltro ricavandolo dal testo stesso, non ideandolo sua sponte). Vabbè, anche se Gianni non è in contatto, possiamo chiedercelo da soli cosa ne pensiamo. E in particolare se in questa società spaventata che va in certa di certezze , non sia più sano , come fa Franchini, esprimere dubbi vissuti. ( E chissà come si sentirà l’autore in attesa…)

Postato venerdì, 30 luglio 2010 alle 18:12 da Gianfranco Manfredi


@ Luciano. Scrivevo l’ultimo post, senza aver letto il tuo che non era ancora comparso. Conta pure su di me, se l’invito è ancora valido, e appena avrai una data certa dimmelo, così lo piazzo in calendario e non lo schiodo. Riguardo al tema della responsabilità da usare verso i lettori, questa cresce (ha ragione Cortazar) nella misura in cui cresce il numero dei lettori. Se ne ho una moltitudine, devo tenere in conto che la percentuale dei facilmente influenzabili cresce e mi tocca stare attento. Me ne sono reso conto al primo numero pubblicato (scritto da me) di Dylan Dog. E’ un aneddoto troppo lungo da raccontare, ma per farla breve mi sono reso conto che una lettrice dalla psiche fragile e che viveva un’esperienza piuttosto inquietante, si era identificata troppo nella storia. Non sono purtroppo riuscita ad aiutarla perché appena mi sono dimostrato comprensivo ha chiuso la comunicazione. Riteneva di non essere lei il problema, ma quello che io avevo scritto e che a suo dire, mi esponeva pericolosamente alla vendetta di non so quale setta di cui avrei svelato i segreti (!). Forse ho già citato Agatha Christie, la quale diceva che avendo milioni di lettori, tra i quali eserciti di Casalinghe Disperate, doveva per forza mettere in scena delitti impossibili, altrimenti i suoi gialli sarebbero stati usati come dei Manuali. Questa , certo, è una responsabilità da prendere molto sul serio. Però è difficile quando si scrive (come Cortazar) con una prosa elevata contagiare i deboli. Salman Rusdhie con i suoi Versetti Satanici non sembra aver contagiato affatto le grandi masse islamiche. Era un testo troppo difficile, troppo maturo. Chi lo ha condannato , non lo ha letto. E molti di quelli che lo hanno letto, non l’hanno manco capito (persino Moravia ne ha scritto una recensione assurda, dalla quale era evidente che aveva addirittura capito il contrario!). Insomma, effettivamente, Luciano, il discorso è complesso. In realtà , ripeto, è quasi impossibile prevedere in precedenza cosa influenzerà negativamente e cosa positivamente o cosa, nel bene o nel male, non influenzerà proprio nessuno. A meno che non si conoscano molto bene i propri lettori (vedi Agatha Christie) , che però alla stragrande maggioranza degli scrittori, restano dei perfetti sconosciuti. E dunque… chi li conosce, impara a regolarsi, chi non può, non sa, o non vuole conoscerli si affida al Fato.

Postato venerdì, 30 luglio 2010 alle 18:31 da Gianfranco Manfredi


Ah cacchio, Luciano! Ho controllato il calendario, e nella prima settimana di novembre sarò a Istanbul, alla Fiera del Libro. Magari è meglio se ci sentiamo privatamente per non affliggere gli altri. La mia mail credo che tu ce l’abbia, comunque è pubblica, nel senso che i lettori di MV la conoscono :
gm@gianfrancomanfredi.com

Postato venerdì, 30 luglio 2010 alle 18:40 da Gianfranco Manfredi


Esprimere qualcosa con la scrittura è sempre un bene,(perlomeno quasi sempre) il guaio inizia quando invece lo scrittore anzichè scrivere per comunicare qualcosa lo fa per esprimere un forte narcisismo.Parlo di quegli scrittori che stendono pagine e pagine magari anchè piene di stile,ma di uno stile fine a se stesso,come quei ragazzini che vanno in bici senza tenere il manubrio e gridano “guardami”.Solo per mettersi in mostra.Ecco un tipo di scrittura simile è decisamente insopportabile.
Esistono però scrittori che oltre a esibirsi e a padroneggiare magnificamente la lingua portano con se molti contenuti,significati,allegorie e emozioni.Pensate a William Burroughs e Ballard,al “Pasto Nudo” e “La fiera della atrocità”,ottimo stile ma anche contenuti complessi e decisamente stimolanti.

Postato venerdì, 30 luglio 2010 alle 18:45 da Francesco Moretta


@Gianfranco.Influenzare e ispirare delitti e crimini con i loro libri è una delle più intime paure dei giallisti,tanto che alla prima del film “Rififi” la polizia locale tirò un brutto scherzo ad August Le Breton (autore del libro da cui il film era tratto) che il suo romanzo avesse realmente ispirato una rapina.(Invece era uno scherzo della polizia locale per festeggiare la prima del film).Comunque anche il tema del contagio mediatico è particolarmente presente nell’horror moderno e negli orrori della società moderna,pensate a Cronenberg o a Carpenter o a Danilo Arona.

Postato venerdì, 30 luglio 2010 alle 18:58 da Francesco Moretta


Parentesi politica. le avete viste le facce al telegiornale dopo il redde rationem? Contano più delle parole. Quelle di finiani esprimevano soddisfazione e entusiasmo, quelle dei berluscones livore e frustrazione. Queste cose nella Società dello Spettacolo lasciano il segno. E sono anche un bel contropiede. Quando l’espulso è felice, e chi espelle è torvo, quanto meno il secondo ha sbagliato i conti.

Postato venerdì, 30 luglio 2010 alle 20:02 da Gianfranco Manfredi


Gianfranco: grazie per la gentilezza. Dopo ti scrivo.
Sulla responsabilità dei media nei crimini: Caino non aveva letto nessun horror nè visto alcun film.
Le facce: quando tra qualche anno si farà un buon documentario sull’Italia dei nostri tempi, ci sarano anche queste scene.

Postato venerdì, 30 luglio 2010 alle 20:58 da luciano / idefix


@Luciano.Non intendevo parlare di influenza dei media sui crimini,ma sul comportamento dell’uomo comune all’interno della società,di come generi un alterazione della percezione e delle azioni.Un cambiamento lento e non sempre visibile nella realtà,ma che nell’horror raggiunge proporzioni estreme.(Pensate a “Videodrome” e ha come rappresenta la teledipendenza)
In merito alle facce,basterebbero per la creazione di un bestiario moderno.

Postato venerdì, 30 luglio 2010 alle 21:27 da Francesco Moretta


Mi sono lasciato scappare un refuso nel mio terz’ultimo commento anchè invece di anche scusate.

Postato venerdì, 30 luglio 2010 alle 21:29 da Francesco Moretta


LEMORA O LADY DRACULA

E’ il titolo del film (del 1973) che mi sono visto stasera. Mi aspettavo il peggio, anche perché Leonard Martin nella sua celebra guida ai film che passano in Tv (anche se questo l’ho scaricato da eMule) ne parla così: “orribile film a basso budget su una vampira lesbica”. E lo classifica BOMB D. Come dire Serie Zeta. Il regista era tale Richard Blackburn di cui ignoro tutto. beh, incredibilmente, il film è di una stravaganza assolta. Una favola macabra che ha per protagonista Lyla, una ragazzina tipo Pippi Calzelunghe o Little Orphan Annie che finisce chissà come in mezzo a un bosco abitato da mostri al cui centro c’è una casa la cui padrona è una vampira. Parecchie suggestioni anticipano certe inclinazioni di Tim Burton. Però il film inizia con un gangster anni ‘30 che uccide a mitragliate due amanti a letto, prosegue con un culto in una chiesa battista, ha un pre-finale con pastore battista-pedofilo che viene vampirizzato dalla vampirizzata ragazzina, che però poi rispunta in chiesa a cantare un inno religioso, pura siccome un angelo… insomma un delirio che… chi se ne frega se è un low-budget e se il make-up dei mostri è più patetico che horror, visto oggi… c’è dell’attraente in tanta apparente insensatezza. Qualcuno ne sa di più su questo film e sul suo regista?

Postato venerdì, 30 luglio 2010 alle 23:13 da Gianfranco Manfredi


Ho tratto questa mini-biografia di Blackburn da IMDbmovie, scusate se non la traduco, ma è tardi e sono cotto. Al testo aggiungo piccolo commento in italiano, in coda.

Extremely talented writer and director Richard Blackburn achieved his greatest popularity as the co-screenwriter of the wickedly witty script for Paul Bartel’s hilarious black comedy indie gem “Eating Raoul.” Blackburn also served as associate producer and plays a small part in “Eating Raoul.” However, Blackburn truly deserves to be acknowledged and appraised as the writer and director of the splendidly offbeat, original and atmospheric period horror vampire winner “Lemora: A Child’s Tale of the Supernatural.” In addition to writing and directing, Blackburn also portrayed a strict reverend in this well-regarded 70s cult horror classic. Blackburn directed several episodes of the 80s horror anthology TV series “Tales from the Darkside.” Outside of his regrettably sparse movie and television work, Richard Blackburn has compiled albums for Rhino Records, written articles for such publications as “L.A. Weekly” and “The Village Voice,” and was an associate editor of the book “Too Cool.”

Si decanta la gemma “Eating Raoul” (Mangiando Raul). Mai sentita. Non si finisce mai di scoprire qualcosa in fondo al secchio. Questo è cantante, regista, attore, scrittore, sceneggiatore, giornalista, editore. E non l’avevo mai sentito nominare? Help my friends! Scommetto che Francesco sa tutto! Sputa il rospo, allora!

Postato venerdì, 30 luglio 2010 alle 23:24 da Gianfranco Manfredi


@Gianfranco.Di Blackburn non so nulla,mentre Lemora o “Lemora,le metamorfosi di Satana” lo conoscevo già grazie alla recensione di Danilo Arona apparsa anni fa nel quarto numero di Horror mania nella rubrica Eros e Thanatos.In un blog inglese che seguo da tempo “Taliesin meet the vampires” dovrebbe esserci una recensione del film.Più che altro navigando nel web mi sono reso conto che questa pellicola negli States è di culto,mentre da noi è sconosciuta.Anzi molti la accorpano insieme a “Valerie and her week of wonders” e “In compagnia dei lupi” in una sorta di trilogia sul passaggio dall’infanzia alla pubertà.Comunque grazie al blog che ho citato prima anch’io mi sono imbattuto in film che da noi sono sconosciuti,ma che hanno un certo interesse.In particolare due piccole,che cerchero di procurarmi il prima possibile, “Sveto Mesto” e “Leptirica” di Djordje Kadijevic.La prima è una trasposizione del 1990 de “Il Vij” di Gogol,mentre la seconda risale al 1973 ed una storia di vampiri che mette in scena la concezione folcloristica del non-morto.
Come vedi Gianfranco,anche i cinefili più incalliti trovano sempre qualcosa di nuovo da imparare.

Postato sabato, 31 luglio 2010 alle 10:22 da Francesco Moretta


Segnalo che la Castelvecchi ha dato alle stampe “Il sangue del vampiro” romanzo del 1897 di Florence Marryat.Non conoscevo quest’opera,ma sembra interessante,c’è qualcuno che magari la conosce e può darmi un gentilmente un parere?

Postato sabato, 31 luglio 2010 alle 11:12 da Francesco Moretta


Contraccambio segnalando un telefilm italiano che a me piace molto, Voci notturne scritto da Pupi Avati.
La Rai lo trasmise in cinque puntate nel 1995, fu un micidiale insuccesso di pubblico e poi scomparve del tutto dalla circolazione (mai replicato nemmeno a tardissima notte, mai pubblicato in dvd).
Peccato davvero.
Perchè è una delle cose più affascinanti e più inquietanti mai prodotte dalla televisione italiana: http://www.youtube.com/watch?v=8hhKnoZM1eg
Ambientato all’epoca di Tangentopoli, inizia col ritrovamento di un morto nel Tevere. E’ Giacomo Fiorenza, studente universitario di architettura, appartenente all’alta borghesia ebraica.
Suicida?
Ucciso per vendetta contro il padre che in un processo per corruzione aveva parlato contro alcuni potentissimi politici e industriali? Oppure ammazzato per altri motivi?
Ma subito le indagini prendono una svolta diversa.
Labirinti sinistri: sul cadavere ci sono indizi enigmatici, le ricerche di Giacomo per la propria tesi riguardavano antichi riti romani di origini etrusca, dall’occupazione nazista di Roma emergono orribili segreti, un alchimista è scomparso nel 1943, una vecchia sta morendo in un appartamento solitario dove forse si nasconde qualcun altro, in carcere un senatore condannato per corruzione fa oscure allusioni, negli Stati Uniti un detective fesso cerca una ragazza ebrea scomparsa, il potere economico e politico allunga ombre malsane.
Intanto, con una voce strana, il morto telefona ai genitori per tranquillizzarli.
E siamo solo alla fine della prima puntata.
Fino al termine Voci notturne mantiene tutte le promesse: a suo modo (senza sangue, senza violenza esibita, nè effettacci), un grande e macabro affresco dell’intera Italia anni Novanta.
Che peccato che Pupi Avati non si sia dedicato con più costanza al cinema misterioso.
Se ce la fate, recuperatelo.

Postato sabato, 31 luglio 2010 alle 11:49 da luciano / idefix


Grazie, Francesco. Intanto vedrò di mettermi a cercare Leptirica. A cercare film vecchi si va sul sicuro, perché con quelli nuovi… ho scaricato una copia italiana di Solomon Kane e ci ho trovato un porno con Selen che fa la parte di una mendicante vergine, credibile come Mel Gibson che facesse la parte di un ebreo gay di colore ( ci ricasco sempre… basta con i peer-las italiani!) . Ah, tanto per predispormi bene alla giornata, oggi l’oracolo Marco Pesatori che la settimana scorsa aveva predetto ai nati nel mio segno una vacanza tra Varazze e Albissola, prigionieri del traffico dell’Aurelia e senza fidanzata , oggi ci predice e caldamente raccomanda: “Volate fino a Port Moresby, nella Papua Nuova Guinea, perdetevi sul Tavurvur col vostro amore.” Questo Pesatori ha sbagliato mestiere, dovrebbe scrivere un film per Verdone.

Postato sabato, 31 luglio 2010 alle 12:15 da Gianfranco Manfredi


Un altra segnalazione,ovvero il nuovo numero di “Studi Lovecraftiani” disponibile in formato e-book su “E-book gratis.net“,Ho iniziato a leggerlo e si apre con un saggio sulla sessualità nei racconti di Lovecraft,in particolare di “La cosa sulla soglia” che tra le opere lovecraftiane è particolarmente pregno di sottotesti.
@Luciano.Grazie per la segnalazione,non mi stupisce che una storia simile non abbia avuto il giusto successo,se ti adegui alla banalità imperante in tv sei premiato,se tenti l’originalità ti stangano.
@Gianfranco.Quando si tratta di recuperare film,mi muovo a passo di elefante,quindi mi sa che “Leptirica” lo vedrai prima di me.Il titolo fa riferimento ad una credenza popolare secondo cui i lepidotteri (farfalle e falene) siano spesso l’anima o l’essenza di un non-morto.Stando alla recensione che ho letto di elementi folcloristici il film ne è pieno.(Da qui il mio interesse,il folclore popolare vampirico raramente è stato portato alcinema nella sua totalità)

Postato sabato, 31 luglio 2010 alle 12:53 da Francesco Moretta


L’ORRORE QUOTIDIANO

Ho appena visto un breve documentario sulla ‘ndrangheta a Milano, andato in onda sulla rete Current di Sky, canale di informazione indipendente. Nel caso il servizio era firmato da Il Fatto quotidiano. Be’… sono rimasto orrificato, come di rado mi capita di fronte a un racconto dell’orrore. A parte il fatto che le costrizioni che si stanno edificando in Milano vengono inzeppate di rifiuti tossici (questo è già trapelato sui giornali, c’è un inchiesta e si stanno cercando rottami d’amianto in alcuni cantieri sotto sequestro) nel documentario, un testimone dalla voce mascherata, ci conduce in un posto desolato noto come i Giardini di Quarto Oggiaro, nel quale, sostiene, i gangster conducono chi gli sta sulle palle per farli sbranare da pitbull addestrati allo scopo. Non ne resta un osso. Ora… ve la immaginate questa situazione? L’avete mai vista in un film italiano attuale? Si vede e si ringrazia l’autore dell’inchiesta, ma insieme ci si domanda: perché non se ne è scritto e parlato, mentre si sono riempite colonne sul fatto che la Canalis una volta si è fatta un paio di tiri di coca …. eccheccazoo! A chi non è capitato? Invece non dovrebbe capitare che della gente venga sbranata dai cani in un prato alla periferia di Milano, senza che nemmeno lo si sappia pubblicamente! Come si può raccontare questo orrore quotidiano? E poi mi domando, visto che preferisco scrivere del passato anche lontano, quante efferatezze della Storia ci sono state occultate? A studiare le si scoprono e si resta talmente agghiacciati che la sola idea di metterle su pagina ci inquieta. La letteratura dell’orrore, a volte viene da pensare, non è e non è stato che il pallido riflesso , mediato dalla “riflessione”, di quanto avveniva e avviene realmente nella società . Ecco perché, per riferirmi al dubbio espresso da Luciano, io non ritengo che ci si debba, come autori, autocensurare. La pratica della violenza è SEMPRE più contagiosa della letteratura “violenta”. L’atto stesso di scrivere è una presa di distanza, una mediazione, che nasce da una sostanziale estraneità dello scrittore che a certe situazioni arriva “sentimentalmente” e magari “patendo”. Ma sotto si nasconde una violenza “oscena”, cioè irrappresentabile. Ma su questa i media informativi non possono permettersi di tacere. Come possiamo , tutti, preferire di non sapere?

Postato lunedì, 2 agosto 2010 alle 01:07 da Gianfranco Manfredi


Una risposta alla mia domanda e al mio dubbio la dai proprio tu, Gianfranco, quando (seppur riferendoti alle efferatezze “storiche”) chiedi:
“si resta talmente agghiacciati che la sola idea di metterle su pagina ci inquieta”.
E la mia inquietudine non era (vorrei fosse chiaro) di tipo “giornalistico, storico, documentario o informativo” (in questo caso, credo che vada superata perchè BISOGNA mettere in circolazione le notizie e far sapere, portando i propri mattonicini alla costruzione della cittadinanza attiva).
No: il mio disagio (e conseguente dubbio “provo a pubblicare oppure no?”) riguardava un paio di miei racconti di invenzione. Con quei testi non avevo nulla di PUBBLICO da comunicare agli eventuali lettori se non alcuni miei “incubi” e ossessioni. Incarnandoli in storie con trama e personaggi, avevo “vomitato” fuori da me quelle tossine. Ma (mi domandavo) “adesso c’è proprio il bisogno di buttarle addosso ad altri?”
Ripeto: non ho una risposta certa.

Postato lunedì, 2 agosto 2010 alle 13:02 da luciano / idefix


Sì, certo ho capito, Luciano. Però continuo a ritenere che gli scrittori siano persone miti, e molti sostengono (Ketchum, per esempio) che in questo li facilita il fatto di trasferire i propri incubi sulla carta. L’esperienza diretta, partecipata, dell’orrore, è altra cosa. Per quanto si cerchi di approfondirla, ci sfugge. Gli assassini hanno cominciato a parlare con Landru. Lì è spuntata la figura del serial killer colto, motivato, capace persino di ritorsioni ideologiche (che bello il film di Chaplin Monsieur Verdoux!). Ma nell’abitudine alla violenza estrema e vigliacca c’è qualcosa che sfugge all’ideologizzazione e alla spiegazione”, qualcosa che non può nemmeno essere ricondotto alla categoria dell’ “insania”. Questo qualcosa non lo si trova neppure in The Killer Inside Me di Jim Thompson, peraltro un romanzo straordinario. Non ci interrogheremmo tanto sul Male se non continuasse ad apparirci come insondabile.

Postato lunedì, 2 agosto 2010 alle 16:30 da Gianfranco Manfredi


E’ uscito Lupo nelle tenebre (The Wolfman) di Nicholas Pekearo. Ho cominciato a leggerlo e non è affatto male. E’ uscito per Urania Epix. Siccome si vocifera che la collana Epix purtroppo non avrà lunga vita, meglio procurarsi i numeri finché ci sono. Oltretutto 4.90 euro per trecento pagine…

Postato lunedì, 2 agosto 2010 alle 20:05 da Gianfranco Manfredi


Della collana Epix Gianfranco ti consiglio di recuperare “Malarazza” di Samuel Marolla,un antologia horror che per essere scritta da un esordiente è veramente eccezionale e priva dei difetti di altre opere simili.Purtroppo “Lupo nelle tenebre” è stato veramente l’ultimo numero della collana,peccato perchè insieme alla Gargoyle Books era una delle poche possibilità di vedere dei bei romanzi horror.

Postato martedì, 3 agosto 2010 alle 09:23 da Francesco Moretta


Ieri (su consiglio di un amico appassionato di fantastico e dintorni) ho comprato in edicola il quinto albo del fumetto Walter Buio.
Lo apro a caso e leggo una frase: “incontrarsi con gli ex-compagni di classe e scoprire che non si ha nulla da dirsi. Ecco l’orrore assoluto”.
Davanti a una simile banalità-falsità che non sta nè in cielo nè in terra nè sulle astronavi, ho richiuso e messo via. Forse, chissà, (quando mi sbollirà l ‘attrito del giramento alle balle) riprenderò in mano questo fumetto. Ma affermazioni come quella mi mandano fuori dai gangheri: perchè possono venire in mente (e tramutarsi in testo scritto e pubblicato) solo a chi non la più pallida idea di cosa sia per davvero ciò di cui blatera.
Mi astengo dal fare troppi esempi di “cose tremende quotidiane”. Ne faccio solo uno, tra i tanti: durante il mio lavoro ho a che fare con persone “invalide”. E spesso mi capitano bambini. Giorni fa, è venuto un ragazzino undicenne che un paio di anni fa ha avuto un incidente: adesso è su una carrozzina elettrica che riesce a comandare lui, lui che muove solo le mani e la testa, abbiamo parlato, gli ho regalato un mio romanzo per adolescenti che avevo in borsa) e abbiamo chiacchierato ancora di libri e computer (due sere fa mi ha chiesto l’amicizia su Face Book) e pensavo che nel mio libro c’è una sequenza in cui il protagonista corre in bici con la sua amica e sono pazzamente felici e allora dentro di me sentivo che il ragazzino in carrozzella avrebbe potuto leggere questa e altre cose del genere ma mai farle e quando se n’è andato con la donna che lo accompagnava, mi sono alzato dalla mia scrivania e sono andato in bagno a piangere.
E poi in certi fumetti scrivono certe fesserie sull’ “orrore assoluto”.
Ma andate affanculo!

Postato martedì, 3 agosto 2010 alle 12:11 da luciano / idefix


@Luciano.Hai ragione,certe banalità da “Dylan Dog” di serie B sono veramente penose,se quello fosse l’orrore assoluto allora stapperei una bottiglia di vino e mi ubriacherei,perchè un simile “orrore” è innocuo.Al massimo la riunione coi compagni di scuola è una seccatura.Purtroppo il difetto di molti fumetti italiani sta proprio lì,sono solo cumulì di banalità,figli abortiti di “Dylan Dog” e “Topolino”.Il problema è che l’orrore vero non lo vuole guardare in faccia nessuno.Basta con le menate tipo la vità quotidiana è un insieme di orrori quotidiani,parliamo di altre cose,di orrori veri.Ma come ho detto qui vige l’omertà,su certe cose siamo uno stato mafia.
P.S. In generale gli ultimi fumetti della Star comics sono veramente penosi,cercano di essere originali,senza osare sul serio.Sono al massimo brutte copie di prodotti stranieri.

Postato martedì, 3 agosto 2010 alle 15:01 da Francesco Moretta


Caro Luciano, sì la frase che citi può sembrare un sintomo di superficialità, però ti assicuro che Alessandro Bilotta, l’autore di Valter Buio, è uno sceneggiatore/autore notevole, molto originale e preparato. Tende a certe melanconie tipiche della sua generazione di circa trentenni, e che in genere hanno avuto più spazio nelle graphic novel che nel fumetto da edicola. in Valter Buio cerca di mescolare temi dylandogheschi, con un vissuto più quotidiano. E dunque se Dylan Dog riflette e scherza anche sui massimi sistemi e su grandi questioni esistenziali di Vita/Morte, Valter Buio inclina a riflessioni più minime e quotidiane… piccole nostalgie, rapporti amicali perduti, affetti fragili. Che poi da qui si possa facilmente precipitare in una retorica enfatica … beh, credo sia più che un difetto di Alessandro, una caratteristica tipica di generazioni piuttosto “ombelicali” e poco portate a confrontarsi con grandi temi, grandi speranze, grandi delusioni , grandi eccessi e grandi depressioni… l’epoca degli impulsi ribelli che volevano rivoltare il mondo come un guanto, come quella dell’Importante è Esagerare, sono tramontate. Capisco benissimo che ciò possa deludere e causare anche un moto di ripulsa, perchè sono ben altri gli Orrori di cui è intessuta la nostra vita sociale e privata, però questo rifugiarsi nel piccolo e nel sentimentale esprime un orientamento piuttosto diffuso. Bilotta ha anche mostrato in altri suoi fumetti, come Romano (storia di un pugile di borgata romano nel primo dopoguerra) , anche un consapevolezza “civile” e una cultura non indifferenti. Non tutti i progetti escono col buco, però delle tracce di memoria in Valter Buio restano ed è comunque apprezzabile tentare la strada di un fumetto meno esasperato negli effettacci e alla ricerca di sfumature nella ricognizione del “minimo”.

Postato martedì, 3 agosto 2010 alle 15:02 da Gianfranco Manfredi


CONSIGLI DEGLI EDITORI AGLI SCRITTORI

Parlando d’altro, stavo scrivendo un pezzullo sul mio personaggio di Poe amico di Magico vento, in occasione di una mostra dedicata a Poe Edgar Allan e che sarà inaugurata in concomitanza con il prossimo Lucca Comics.
E così sfruculiando nella biografia di Poe (quello vero) mi sono imbattuto in un paio di consigli che suoi editori dell’epoca gli avevano rivolto. Li riporto qui, perché sono piuttosto divertenti.

Mr. John Pendleton Kennedy, uno dei primi sostenitori e mecenati di Poe, gli chiede: “Non potreste scrivere delle farse alla maniera del Vaudeville Francese? Si potrebbero vendere molto bene agli impresari di New York.” E l’editor James Heath, pur pubblicando i suoi più celebrati racconti, gli consiglia: “Ho molti dubbi sul fatto che racconti del genere bizzarro, improbabile e terrorizzante quali i vostri, possano restare a lungo e constantemente popolari in questo paese (…) Il vostro notevole, indubbio intelletto potrebbe senza dubbio garantirvi una reputazione più solida nel mondo letterario. Specialmente nell’ambito della critica.”

Credo che tutti gli scrittori, in particolari quelli del “perturbante”, abbiano subito entrambe le categorie di suggeritori: 1. Se vuoi essere davvero popolare, allora buttati sul comico e sul leggero; 2. Se vuoi “restare” e accreditare il tuo nome nell’Olimpo Letterario, fai il critico, ma soprattutto smettila di scrivere… cose da pazzi.

Postato martedì, 3 agosto 2010 alle 15:09 da Gianfranco Manfredi


Per chiudere il cerchio. Abbiamo parlato di responsabilità delle scrittore nel valutare il potenziale perturbante di quanto propone ai lettori, e abbiamo parlato della fuga dai veri orrori per limitarsi all’arena dei piccoli disagi, per un atteggiamento non autocensorio, ma consapevole (il limitarsi alle proprie esperienze più o meno auto-biografiche e scegliere una scrittura più “discreta”). Poi c’è la faccenda dei Consiglieri Autorevoli. Oggi molti tentano la via della scrittura e molti anche quella dell’editoria , o via Internet o per strade più tradizionali di editoria indipendente. Per tutti vige l’esigenza di avere di che campare, perché gratis et amore Dei non si può durare. Nella fragilità dei tempi, il Consigliere, sia esso editor, tutor, direttore di collana, critico letterario, giornalista, Agente Letterario, o semplice “amico-che-la-sa-lunga” diventa piuttosto determinante. Gli editor eccellenti sono pochi (e sono quelli che di solito mettono le mani avanti e dichiarano di poter sbagliare, anzi di aver sbagliato parecchie volte ), gli altri meno sanno e più chiacchierano. Non che abbiano sempre torto (per riprendere la metafora di Poe, è certo che a confezionare prodotti leggeri per il mercato di largo consumo ci si guadagna, ed è certo soprattutto oggi dove è usuale fare tanti più quattrini quante più marchette … ed è anche certo che entrando in stretto contatto con l’ambiente strettamente letterario con tutti i suoi riti vecchi e nuovi, possa procurare una certa autorevolezza e stima di categoria, e premi e sostegni di vario tipo, anche se scrivi cose piuttosto mediocri ). Se Poe avesse seguito i consigli che gli davano, per noi lettori sarebbe stata una disgrazia e per la Storia della Letteratura un vero lutto, ma forse la sua vita quotidiana sarebbe un tantino migliorata , magari avrebbe bevuto di meno, avrebbe potuto scrivere più a lungo e persino romanzi ponderosi. Quando sono andato a Providence ho visto la casa di una sua fidanzata, famiglia ricca, colta, prestigiosa, felice di avere rapporti con un Poeta Emergente. Solo che a Poe quella gente stava sulle palle. Si presentava in salotto ubriaco. E quando alla fine venne cacciato, come suo saluto di congedo, gli pisciò nel caminetto. Ora… non tutti sono Poe… e non è detto che l’arte debba sempre e per forza andare a braccetto con l’intemperanza (Balzac era un uomo morigeratissimo). Però carriera e vocazione non sempre coincidono, e questo vale per tutti… seguire la carriera può essere conveniente, ma non appagante, seguire la vocazione può risultare coerente, ma velleitario (soprattutto quando non si è dei geni). E i consigli? Sta al singolo valutarli. E non è una scelta tra “giusto” e “sbagliato”, a volte è una scelta tra fare un tipo di vita oppure un altro. Avere la possibilità di scegliere è già qualcosa. I consigli degli esperti, non sono poi così diversi da quelli dei genitori: non bisogna seguirli sempre e comunque.

Postato martedì, 3 agosto 2010 alle 16:41 da Gianfranco Manfredi


Io penso bene di Manfredi da tantissimo tempo.
Non solo come autore ma proprio come persona.
E basterebbe il suo commento di ieri alle 3.20 per dimostrare tutta la sua profonda umanità e generosità.
Io avevo criticato un pezzo di dialogo di un fumetto italiano. E Gianfranco(distinguendosi dal mondo letterario mediatico, fatto spesso di piragnoni pronti ad azzannarsi lì’uno con l’altro) cosa fa?
Prende le difese di Alessandro Bilotta (autore di Walter Buio), motivandole con delicatezza e intelligenza.
Ripeto la definizione che avevo già usato: hombre vertical.

Postato mercoledì, 4 agosto 2010 alle 09:59 da luciano / idefix


In effetti la difesa di Manfredi di Bilotta mi ha fatto un pò pentire per l’asprezza delle mie parole,fermo restando che il suo fumetto non mi ha colpito granchè almeno Bilotta sa scrivere è il fumetto è il migliore del famigerato trio.Ho esagerato e mi scuso per il mio temperamento.
REMAKE
La casa editrice Viper negli States ha annunciato una miniserie che dovrebbe trasporre “Nosferatu” in epoca moderna.Questo non è un male ,ma la prima immagine mi preocuppa abbastanza sulla resa finale del lavoro:sullo sfondo Orlok mentre in primo piano le classiche bambolone poco svestite a cui tanti,troppi film ci hanno abituato negli ultimi tempi.Che tristezza! Per consolarmi mi rivedro il film originale o andro a rileggermi la versione a fumetti di Castelli e Grugef.

Postato mercoledì, 4 agosto 2010 alle 11:05 da Francesco Moretta


Scusate ho accentato una e dove non serviva,la frase corretta è “e il suo fumetto”.In più ho scritte poco svestite,invece di poco vestite.(Desiderio inconscio?).

Postato mercoledì, 4 agosto 2010 alle 11:08 da Francesco Moretta


Caro Francesco, in effetti se confronti Valter Buio come personaggio e e storie di Bilotta da quelle delle altre serie StarComics recenti, come Pinkerton o V-Factor, sponsorizzata da Sergio Stivaletti e orientata decisamente all’horror a tinte forti, per non parlare di quella povera cosa sponsorizzata ( e davvero non capisco perché ) da Lucarelli, beh… c’è un abisso. Insomma non ho difeso Bilotta perché sono buono, ma perché penso sinceramente che sua bravo (dopodiché a tutti può capitare un balloon infelice, sai quanti ne sono spuntati di francamente imbarazzanti su Dylan Dog!). Tra l’altro la Star Comics produce fumetti a costo minimo, sottopagando gli autori, senza una vera redazione, senza nessuno che si occupi seriamente di editing. I disegnatori sono costretti a lavorare in fretta, per cui i risultati sono sconfortanti, dal punto di vista tecnico ed estetico. Questo scadimento di gusto e di livello editoriale (cui se non altro il lavoro di Bilotta regale un’insolita dignità, vista la compagnia) dovrebbe essere anzitutto punito dai lettori. Purtroppo ce ne sono ancora troppi di bocca buona. Non sono più i lettori “ignoranti” di un tempo , quelli che so, che leggevano Jacula (fumetto comunque almeno provocatorio e politicamente scorretto, questo va riconosciuto) , sono lettori di gusto medio-basso, di profilo medio-basso, di sensibilità estetica vicina allo zero, refrattari agli stimoli, che si fanno andar bene tutto o quasi… non sono sconfinate platee, per fortuna, però senza neanche rendersene conto contribuiscono a uno scadimento del fumetto in generale. Cosa vuoi che pensi un editore? Se c’è pubblico che compra comunque dei fumetti scadenti, perché sforzarsi di aumentare la qualità? Se ci sono editori che pagano pochi soldi ai disegnatori, e riescono a pubblicare lo stesso, perché io dovrei pagare di più? Questo è il problema. Il “brutto” ha un effetto che trascina al peggio. E il fatto che persone note di sicuro valore professionale, come Stivaletti o Lucarelli, in qualche modo “timbrino” queste operazioni, è estremamente nocivo. Loro magari non se ne rendono nemmeno conto perché non capiscono niente di fumetti, però questo atteggiamento di sponsorizzazione fa danni, perchè aiuta dei prodotti di serie Z a trovare una qualche credibilità che altrimenti non avrebbero. Il discorso di Bilotta è completamente diverso, non rientra in questo quadro. Lui cerca di fare una cosa che non corrispondendo agli stilemi bonelliani, non avrebbe potuto fare in Bonelli. Ad esempio in una storia recente di Valter Buio, la trama riconduce al terrorismo politico anni 80. In Bonelli ci si tiene sempre estremamente lontani da questi temi ( e c’è, se vogliamo, anche della saggezza in questo, perché è molto difficile trattarli, e pericoloso affidarli ad autori spesso troppo giovani per averli conosciuti davvero) . Alal Star Comics, siccome non gliene frega niente, gli basta avere un fumetto che in qualche modo strizzi l’occhio a Dylan Dog, poi siccome non ci capiscono molto, danno il via libera a qualsiasi cosa, dunque paradossalmente in mezzo a un mare di porcheria può anche spuntare una cosa strana.

Postato mercoledì, 4 agosto 2010 alle 21:03 da Gianfranco Manfredi


Il brutto-brutto (penso a certi film de Maciste o ad alcuni abominevoli horror ispanici o a fumettacci come Helga che assieme a fumetti/libri/film di alta qualità) negli anni Sessanta divoravo insaziabile contribuiscono a formare il nostro gusto.
Si capisce che una cosa è buona soprattutto se possiamo paragonarla a qualcos’altro che buono non è.
E si apprendono i meccanismi che funzionano principalmente se possiamo confrontarli con queli che NON funzionano.
Un attore bravo lo si vede subito se compare nella stessa scena di un attore scarso, un regista di valore lo si percepisce quando una sequenza analoga la vediamo girata da un regista pessimo, una sceneggiatura a posto la notiamo meglio se la accostiamo a una zoppicante. Una storia dell’orrore che fa paura la distinguiamo meglio se la mettiamo a fianco di una debole. E così avanti. Insomma, sono convintissimo che si impari molto ANCHE vedendo e leggendo roba brutta (oltre al fatto che spesso è roba divertente).
Per questo (negli incontri a scuola) a volte ho dei battibecchi con insegnanti che dicono: “no, i ragazzi devono leggere e vedere solo cose di qualità”
(Cosa sia “qualità” lo decidono loro)
Potrebbe aiutare Mario Soldati che, in una recensione cinematografica, scrisse (parlando di libri e film):
“Esistono quattro categorie:
bello e noioso,
bello e divertente,
brutto e noioso,
brutto e divertente”
Ovviamente il massimo è “bello e divertente”, il peggio è “brutto e noioso”.

Postato giovedì, 5 agosto 2010 alle 09:25 da luciano / idefix


Sono d’accordo con te, Luciano. Il brutto aiuta a capire le differenze, anzi… a volte c’è persino un brutto così brutto da diventare interessante o da apparire addirittura come una scelta estetica estrema. Però nell’abbassamento consapevole del livello qualitativo, pesano oggi valutazioni che non hanno nulla a che vedere con l’estetica, perché sono valutazioni di ordine economico e politico. Il lato economico sta nell’investire il meno possibile, ricorrendo a lavoro precario, sottopagato o non pagato affatto. Nell’editoria si è arrivati al paradosso di pubblicare facendo pagare le spese ai pubblicati, questo una volta era un sottobusiness marginale, truffaldino e squalificante, oggi è diventato un business che rende, sempre più diffuso, e persino di un certo rispetto (se il rapporto è chiaro, c’è chi non ci trova nulla di male). Questo porta alla lunga all’abbassamento dei compensi di chi ha contratti regolari, da un lato, dall’altro a una dilatazione della forbice: cioè chi garantisce alti profitti e/o prestigio viene invece pagato cifre spropositate e del tutto fuori mercato (certi autori internazionali sono pagati cifre tali che se gli editori derivati, cioè quelli che li traducono, vanno in pari è già un successo). Sul piano politico, l’abbassamento della qualità crea una dinamica verso il basso cioè in poche parole alla stabilizzazione e alla diffusione dell’ignoranza, condizione necessaria per governi e lobbies che guardano ai cittadini e ai consumatori come a dei sudditi servili. L’esempio più clamoroso ed evidente di queste dinamiche lo si è visto con la televisione generalista degli ultimi decenni segnata da: la progressiva scomparsa degli autori e dei registi di talento, il minor investimento nei programmi, la fine di ogni sperimentazione-ricerca, la formazione di un ristretto nucleo di star TV dai contratti multimiliardari , punte di una piramide formata da collaborazioni precarie, sottopagate e occasionali. Politicamente: creazione di una massa deprivata di capacità critiche, facilmente influenzabile, e per di più sicura di essere nel giusto e dunque per nulla propensa a migliorare. Questa spinta verso il basso si presenta addirittura sotto veste “democratica”. Lupi del PDL non ha persino tirato in ballo il “servire il popolo”? Ora… il problema è che mentre il capitalismo dei padri creava mercato e sapeva sfruttare bisogni nuovi ed emergenti, questo capitalismo dell’epoca decadente, il mercato lo distrugge, primo perché presume di controllarlo dall’alto, secondo perché uccide le condizioni base della crescita e dello sviluppo. Dal punto di vista politico impedisce il rinnovamento delle classi dirigenti, l’elaborazione di strategie di lungo periodo, la diffidenza profonda rispetto ad ogni genere di cambiamento, sociale e di costume. Certo non si deve essere pessimisti radicali, perché esistono spinte contrarie e nuove energie che alla lunga non potranno restare compresse. Ovvio che questa analisi non può essere applicata a fenomeni piccoli e abbastanza poco rilevanti come ad esempio a case editrici di serie B e di serie Z, ma è anche vero che tanti fenomeni piccoli possono avere tutti insieme un peso e creare guasti non indifferenti. Qui non si tratta di contrapporre a questo mercato autoritario e populista, il mercato di élite (questo lo si fa già, con prodotti d’alto costo, soprattutto prodotti tecnologici, ma anche con la televisione a pagamento nella quale la qualità non è più una norma valida e onesta in sé, ma viene servita in proporzione al prezzo, altrimenti non puoi lamentarti) . Qui si tratta invece di riprendere a investire in particolare sul rinnovamento, sulla ricerca, e ad aprire nuove frontiere di mercato perché fondate su nuove esigenze e bisogni tanto personali quanto sociali. Il web sta facendo e può fare ancora moltissimo in questa direzione. Dovrebbe essere evidente che i giovani sono portatori naturali di queste nuove istanze. Costringerli a vivacchiare e a crescere nell’ignoranza è un autentico suicidio economico e sociale. … faccio una pausetta di riflessione… e poi butto lì una considerazione sull’horror politico qui ed ora in Italia…

Postato giovedì, 5 agosto 2010 alle 11:35 da Gianfranco Manfredi


LA COMUNICAZIONE POLITICA HORROR

Mi riguardavo l’altro giorno mettendo in ordine il mio studio, le copertine di una serie di romanzi da edicola della KKK che mi sono procurato di recente. L’impostazione editoriale, al di là del contenuto dei singoli romanzi, cioè la veste del prodotto presentato al pubblico è molto chiara: in copertina figurano mostri e belle fighe. Questa associazione non era del resto nuovissima. Il cinema l’aveva già proposta anche in esempi eccelsi: la scena simbolo di Psycho (una donna nuda sotto la doccia e il mostro assassino della mamma-mummia).
Mi è capitato poi di pensare ai talk show politici e a un aspetto altrettanto “di copertina” e visibile a tutti, ma che di solito pensiamo come accessorio e poco rilevante. Anche qui, il “nuovo” personale politico, in particolare tra i sodali del Presidente del Consiglio, pare essere stato scelto sulla base di quel criterio horror: uomini-mostri (alcuni con facce davvero inquietanti, da gobbo di Notre Dame, da nano cattivo, da cane ringhioso, da Rasputin, e via dicendo) e belle donne (ex calendar girl, ex programmiste di varietà, finte bionde, peperini arrivisti di vario genere).
Ora: se il potere usa un’estetica da horror popolare, a noi autori di horror compete una riflessione profonda e una totale ridefinizione del modulo. Già l’hanno operata Stephen King e i suoi colleghi degli anni 80. Tutto si può dire dei loro romanzi, ma una cosa è certa: nessuno associava in contrasto mostri e belle fighe, nè nella copertine, né nel contenuto. La sexploitation inerente all’horror si era ormai sparsa per tutti i generi e per l’horror non era più un must, un requisito fondamentale. E anche il Mostro è diventato molto più sfuggente, mutante, non riconducibile alle vecchie categorie “lombrosiane” del Brutto e Cattivo. Successivamente, allo spuntare del nuovo secolo, quella narrativa (va detto) si è un poco isterilita e ha smarrito la sua grande capacità di rinnovamento, avvitandosi un po’ su se stessa. Il modulo Mostro-Belle Fighe è tornato alla grande con gli infiniti film sui mostri killer che uccidono giovani-carini-disoccupati, e con l’altrettanto lunga sequenza dei film torture-porn , anch’essa caratterizzata dalla presenza di pin up seviziate e mostri manipolatori, astutissimi e sadici. Una via rinnovata, al momento, non si vede. Una nuova tendenza che si liberi dell’eredità kinghiana e non receda nel vecchio horror oggi talmente codificato da essere diventato “politico” (nel senso detto prima) a mio avviso stenta ad emergere. Ma forse mi sbaglio…

Postato giovedì, 5 agosto 2010 alle 12:00 da Gianfranco Manfredi


Forse al genere horror sta accadendo ciò che è successo alla fantascienza: viene vampirizzato dalla realtà. O (per scegliere una versione meno passiva) fa da donatore di sangue ad altri generi letterari e cinematografici.
Provo a spiegarmi meglio.
La fantascienza è uscita dal ghetto di un tempo e ha invaso ogni media: la pubblicità, la musica (dalla tecnologie alla struttura dei palchi alla realizzazione dei dischi), la narrativa mainstream, il cinema, l’immaginario comune, l’intera vita quotidiana…
Per certi versi, la science fiction “classica” ha vinto ingravidando tutto con i suoi spermatozoi di inventiva. Ma per fare ciò si è svenata e ha dovuto ritornare nel ghetto di un tempo: successoni mediatici planetari e inter-generazionali come Avatar sono appunto succedanei, avatar, mentre la “vera” fantascienza la leggono e la guardano in pochi.
Analogamente, all’horror sta accadendo qualcosa di simile: la diffusione delle notizie, la facilità con cui si trovano video “veri”, la proliferazione degli effetti speciali, la crescente orrificazione del mondo (o della sua percezione…che forse è lo stesso) tolgono al “genere horror” la propria potenza eversiva:
se l’orrore reale si può reperire ovunque (la Rete ne è zeppa), il “genere” annaspa. O rischia di diventare un qualcosa privo di esteriore e popcornizzato, senza capacità inquietanti.
Come col fumetto o romanzo o giornale o cinema porno: la Rete ne offre talmente tanto che gli altri settori ne risentono.

Postato giovedì, 5 agosto 2010 alle 13:12 da luciano / idefix


“La tana del serpente bianco” di Bram Stoker –
(da “Tuttolibri – La Stampa” di sabato 31 luglio)

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Bizzarro e sconclusionato
eppure assai godibile, “La
tana del serpente bianco”
(trad. di Nello Giugliano, Donzelli,
pp. 184, e 21), scritto da
Bram Stoker nel 1911, una quindicina
di anni dopo Dracula, è un
divertente incrocio tra fantasy e
splatter, in bilico tra i climi cupi
dell’horror grandguignolesco e le
buone maniere dei salotti gentilizi
britannici.
Ambientato nel cuore dei Midlands,
l’antica Mercia satura di
storia, nel 1860, il romanzo (intitolato
in alcune edizioni Il giardino
del Male) sembra inizialmente
ispirarsi all’episodio biblico dell’
Eden. Non a caso il protagonista
è Adam, un giovanotto intraprendente
richiamato dall’Australia
in Inghilterra da un vecchio prozio
per farne il suo erede. Mentre
il territorio nel quale si muove è
dominato da siti il cui nome è tutto
un programma: Castra Regis,
la tenebrosa fortezza di Edgar
Caswall, il signorotto locale, una
sorta di Innominato discendente
degli antichi conquistatori romani;
il Boschetto di Diana, residenza di
lady Arabella, apparente arcadia
nelle cui viscere si cela il pozzo del
serpente; e Villa Misericordia, un
tempo sede del monastero di San
Columba, dove vivono i «buoni»:un
vecchio fattore onesto con le graziose
e pudìche nipoti Lilla e Mimi.
Maquasi tutti i personaggi hanno,
ciascuno a suo modo, misteriosi
talenti se non una doppia anima o
una doppia natura. Edgar Caswall
dispone di maligni poteri ipnotici e
mesmerici, grazie ai quali domina
le persone e persino l’ambientenaturale;
la dolce Mimi possiede in
positivo analoghe doti; Ulanga, il
ripugnante e selvaggio servitore
di Edgar proveniente dall’Africa
Nera, ha fatto carriera cacciando
le streghe, evocando gli spiriti e
praticando il woodoo; mentre la
misteriosa Arabella desta il sospetto
di aver qualcosa a che fare
con l’orrifico Serpente Bianco, metamorfica
via di mezzo tra un gigantesco
verme preistorico e un
drago degno diSan Giorgio.
Per competere con loro,Adam
e Sir Nathaniel de Salis (vecchio
amico del prozio che si propone come
suo mentore, alla maniera di
Van Helsing in Dracula), devono
dunque saperne una più del diavolo.
Impresa non difficile per sirNathaniel,
un tuttologo che conosce
l’intero scibile umano; ma non altrettanto
per Adam, che per difendersi
dai serpenti reali e metaforici
può fare affidamento solo su
qualche aggressiva mangusta,
magari portandosela a spalla, e
sulla forza invincibile dell’amore.

Postato giovedì, 5 agosto 2010 alle 17:24 da "La tana del serpente bianco" di Bram Stoker - (da Tuttolibri di sabato 31 luglio)


Segnalo:

Il 13 e il 14 novembre, al Castello D’Albertis di Genova, si terrà la seconda edizione del Convegno di Studi sul Folklore e il Fantastico – ultimo appuntamento della V edizione del Festival –quest’anno dedicato al tema “Metamorphosis. Miti, Ibridi e Mostri”. Lupi mannari e ibridi femminili, uomini uccello ed esseri mostruosi nascosti nei nomi di luogo, Medusa e Salomé, cinema dei mostri e crimini efferati sono solo alcuni dei temi che verranno affrontati da ricercatori, folkloristi, artisti e scrittori nell’arco delle tre sessioni che comporranno il convegno. Un appuntamento imperdibile per tutti gli appassionati di fantastico e folklore.

Autunnonero Halloween Gothic Fest 2010
30 e 31 ottobre, Dolceacqua (IM)
Apertura cancelli sabato 30 e domenica 31: ore 16,00
Biglietto singolo giorno: 15 euro + diritti di prevendita
Abbonamento per due giorni: 25 euro + diritti di prevendita
I biglietti sono in vendita su http://www.ticketone.it e in tutti i punti vendita Ticket One

Convegno di Studi sul Folklore e il Fantastico
13 e 14 novembre, Genova, Castello D’Albertis
Ingresso gratuito

Per informazioni e dettagli info@autunnonero.com, http://www.autunnonero.com

Postato venerdì, 6 agosto 2010 alle 11:56 da Gianfranco Manfredi


Io invece sarò a Cuneo il 20 novembre per parlare dei “miti” degli adolescenti.
Il biglietto per accedere al mio incontro è di 150 euro.
(Scherzavo)

Postato venerdì, 6 agosto 2010 alle 12:18 da luciano / idefix


Solo per quanto riguarda il prezzo…il resto è vero.

Postato venerdì, 6 agosto 2010 alle 12:19 da luciano / idefix


Il mostro più ridicolo visto ultimamente. Cito (dal sito di repubblica):

L’URLO DEL DIAVOLO Una creatura leggendaria, alata e spaventosa che da secoli terrorizza gli abitanti del New Jersey. Secondo i racconti tramandati si tratterebbe di un essere diventato dannato dopo la maledizione lanciatagli della madre che lo abbandonò nel bosco perché ultimo di tanti figli. Soprannominato per questo “Diavolo del Jersey” viene descritto come una creatura ibrida metà uccello e metà cavallo, con le zampe dotate di zoccoli, una coda da rettile e un urlo penetrante emesso prima di attaccare le sue vittime. Per gli scettici si tratta di una leggenda metropolitana, mentre le presunte vittime sono pronte a giurare che esiste sul serio.

Non mi è chiaro: “le presunte vittime sono pronte a giurare”?

Per la ricostruzione visiva, cfr. il sito (per mia imbranataggine tecnica non riesco a inserirla qui), alla foto n.11 della sezione dedicata. La notizia segnala una prossima serie di documentari di History Channel, dedicata alle creature mostruose. La piega che sta prendendo History channel è purtroppo sempre più farlocca … peccato perché un tempo i suoi documentari di ricostruzione storica erano fatti molto bene.

Postato venerdì, 6 agosto 2010 alle 12:23 da Gianfranco Manfredi


1) Intanto un link a questo mostro di cui History Channel parlerà:
http://mmedia.kataweb.it/foto/25718402/11/tremate-i-mostri-son-tornati
Trovo splendido l’accenno alla testimoniana delle “presunte vittime”. E mi chiedo: ma chi scrive queste cose riflette sulle proprie parole?
2) Con la rilettura integrale di Magico Vento (mammamia…ma quanto è lungo? Leggendolo albo dopo albo, mese dopo mese, anno dopo anno non me ne ero mica reso conto), sono arrivato a tre numeri che mi hanno prima fatto arrampicare su per i muri dall’entusiasmo e poi steso per la soddisfatta sazietà: 61, 62 e 63.
Cioè il dittico Vendetta/Bersaglio e La banda degli innocenti.
Roba da saltar sulle sedie, come quando durante un concerto rock ti vien proprio voglia di balzare sul palco, per partecipare in qualche modo, battendo almeno due legnetti assieme alla band e al cantante.
Cose come la complessità del personaggio di Custer si apprezzano in pieno solo con questa megalettura full time, così come la solidissima continuity cronologica, i rimandi tra episodio ed episodio, il senso di ariosa pienezza. E poi (a differenza di gran parte dei fumetti da edicola, delle saghe lunghe o lunghissime) MV ha una ulteriore caratteristica qualità: quando si apre un albo non si sa mai cosa attendersi. Mentre (per molti cicli a fumetti) gira e volta se non è zuppa è pan bagnato, con Ned e Poe e la loro “commedia indiana” le cose non stanno così: ferme restando le coordinate base, la varietà è grande (western classico, contaminazioni col giallo o con la spy story, irruzione della mitologia precolombiana, trame gotiche, strappi horror, avventura pura, introspezione psicologica, episodi che sarebbero piaciuti a Gramsci, vastissime trame storiche…).
Ecco allora che non capita mai di dire (come invece accade spesso con altre serie): “chepppalle…sempre la stessa sbobba”
No, (anche se qualche rarissimo episodio minore minore c’è, inevitabilmente) con Magico Vento non è mai la stessa sbobba.

Postato venerdì, 6 agosto 2010 alle 19:01 da luciano / idefix


@Gianfranco/Luciano.Grazie delle segnalazioni.In merito al caro vecchio J.D. (Jersey Devil) l’immagine lo raffigura un pò troppo muscoloso,in altri disegni di solito è piuttosto magro,che lo abbiano gonfiato di steroidi nel tentativo (fallito) di renderlo cool? Oltretutto gli ultimi avvistamenti risalgono ai primi del novecento,quindi non è che J.D: negli ultimi anni scalciasse per tornare alla ribalta. Sono entrato in possesso di quattro libri interessanti ieri,le edizioni inglesi di “The vampire his kith and kin” di Summers,”The book of were-wolves” di Sabine Baring-Gould (uno dei primi testi sull’argomento),una copia dell’antologia “Erotic Horror” (in cui figurano nomi come Matheson,Laymon,Hellison e altri) e “Ultimi Vampiri” l’edizione della Gargoyle di cui ho letto e apprezzato molto “I figli del fiume” e “Limpieza”.Mi si prospetta un Agosto pieno di letture.(Ho anche da leggere due e-book “The painted darkness” e “Magic for beginners” di Kelly Link)

Postato venerdì, 6 agosto 2010 alle 20:18 da Francesco Moretta


Sto leggendo parecchio anch’io, quest’agosto. Sono commosso per i commenti di Luciano a MV. Adesso basta per favore, non ce la faccio più. E poi se penso che a settembre proprio in sintonia con la conclusione di MV uscirà il mio nuovo romanzo, è davvero una strana sensazione. Ringrazio anche Francesco perché anche per me Limpieza è il migliore racconto di Ultimi Vampiri. Non è stato facile scriverlo in forma di racconto perché mi cresceva in mano come un romanzo e ho dovuto tagliarlo molto. Però forse spicca proprio per la sua sintesi e i passaggi rapidi tra una situazione e l’altra. Boh… uno scrittore non è mai buon giudice di se stesso. Sono anche stupito della sapienza di Francesco circa J.D. … a me che non l’avevo sentito mai nominare, il J.D. , era sembrata una burla anche abbastanza idiota… Un culturista-cavallo-con ali da da pipistrello gigante… frutto misterioso di un bambino abbandonato da madre snaturata… una roba davvero da pazzi. Non si sa se ridere o piangere. Se ne sai di più , e ne sai visto che parli di avvistamenti primi novecento, racconta please…

Postato sabato, 7 agosto 2010 alle 01:04 da Gianfranco Manfredi


Va bene, Gianfranco: adesso basta con MV.
Anche se l’idea di averti commosso me gusta. Non perchè io goda a far piangere le persone (molto molto meglio farle ridere) ma perchè so che i complimenti davvero sinceri toccano. E quando si viene toccati, a volte gli occhi piovono.
Basta!
Mi hanno passato una serie televisiva di cui mi hanno detto (“tipo Twin Peaks, però tutto diverso”) un gran bene, una specie di horror strano e metafisico: Carnivale.
Su Youtube ho curiosato due sequenze e, effettivamente, m’hanno molto colpito: nulla a che fare con le solite cose.
Anche se…cosa significa “solite cose”?
Il pugile dilettante che ieri a Milano, fuori di testa perchè la ragazza l’ha lasciato, esce di casa e ammazza a pugni la prima donna che incontra, mentre nessuno ha il coraggio di muovere un dito, è l’horror che irrompe nelle nostre vite e nelle nostre televisioni urlando e distruggendo.

Postato sabato, 7 agosto 2010 alle 10:04 da luciano / idefix


Di Carnivale ( la serie completa) c’è un cofanetto. E’ stata a unanime giudizio della critica, la serie più bella prodotta negli ultimi anni. Purtroppo si è deciso di interromperla e non è mai stato chiarissimo il perchè. Si sperava di avere schiere oceaniche di spettatori con una serie ambientata negli anni della Grande Depressione, che mette in scena un povero side-show ambulante, con un cattivo demoniaco che è un predicatore evangelico fondamentalista e reazionario, e che mescola horror sociale (splendida davvero la puntata nel villaggio dei minatori morti) al paranormale più surreale (non lontano da quello di Shamalayan, ma molto più crudo), senza la minima concessione al glamour perché le donne non sono pin-up e gli uomini non sono giovani fighetti più o meno eroici… e tutto questo per un pubblico televisivo pagante ? Beh, era stato già un miracolo che la serie fosse stata prodotta e che avesse fatto sensazione in una fascia di pubblico attento. Di più non si sarebbe potuto francamente pretendere. Dunque come mai la serie è stata interrotta? Alcuni sostengono che costasse troppo. Mah… Fatto sta che si promise un coronamento conclusivo con un film da grande sala. Film che però non risulta essere stato prodotto. Uno degli effetti più stranianti dell’attuale mercato dello spettacolo è che risuona un universale lamento sulla pochezza della produzione media, poi ogni tanto esce qualcosa di rilievo assoluto che ottiene nel contesto ottimi risultati, però lo si lascia morire con motivazioni che alla fine consistono nel… “prodotto troppo unico per essere replicabile”… beh, ma non è proprio di prodotti “unici e non replicabili” che ci sarebbe più bisogno? Che razza di business è quello che butta nel cesso le cose pregevoli e rende eterni i rifiuti? C’è poi un altro fenomeno che emerge dalla storia di serie di qualità come Twin Peaks, X files, Deadwood e Lost (per citarne alcune), che indubbiamente hanno portato molte cose nuove e diverse alla ribalta… c’è un impulso perverso che conduce tutti, produttori e autori, appena raggiunto il massimo apice del successo a sputtanarle, deludendo per primi coloro che tra il pubblico le hanno sostenute e amate, che sono di solito anche i più svelti ad abbandonarle al minimo segno di declino qualitativo e di incasinamento narrativo “di maniera”. Per cercare di allargare sempre di più il pubblico , continuando al contempo a mantenere vivaci le schiera degli appassionati, va a finire che non si ottiene nessuno dei due obiettivi.

Postato sabato, 7 agosto 2010 alle 10:39 da Gianfranco Manfredi


IL DIAVOLO DEL NEW JERSEY
Secondo la leggenda J.D. sarebbe nato una notte del 1735 nei Pine Barrens,una zona boschiva con grandi paludi del New Jersey.La madre una donna conosciuta come Mother Leeds,già logorata da 12 gravidanze disse che il suo tredicesimo figlio sarebbe stato un diavolo,cosa che puntualmente si avverò.Il marito di Mother Leeds nonchè padre del diavolo sconvolto afferro il nascituro e lo gettò negli acquitrini della zona sperando di non sentirne più parlare.Secondo un altra versione invece alla nascita J.D. era inizialmente normale,mutò progressivamente in mostro e scappò terrorizzando i Barrens per essere poi allontanato con un esorcismo che lo tenne a distanza per un secolo.
Il grosso degli avvistamenti di J.D. va dal 1816 al 1909 anno in cui uno zoo locale mise una taglia sulla sua testa.Scartabellando ho trovato anche avistamenti successivi del Diavolo ,che non conoscevo.
-1951 J.D. compare nella città di Gibbstown e terrorizza alcuni ragazzi
-1991 J.D. viene avvistato da un fattorino che consegna delle pizze
-2007 Una donna lo avvista a Freehold,un uomo invece dichiara di averlo visto a Moorestown.
Se si esclude l’uccisione di alcuni capi di bestiame il diavolo non ha provocato particolari danni.Il suo ateggiamento nei confronti dell’uomo senbra più curioso che ostile e anzi rumori o gesti improvvisi sembrebbero spaventarlo.
Come ogni criptide anche J.D. ha avuto il suo momemto di celebrità comparendo in opere di fiction,ecco qualche esempio:
-X-files Stagione 1,qui J.D. viene descritto come un uomo selvatico e non
come una creatura bizzarra.
-The new adventures of Johnny Quest ,serie animata dell’Hanna e
Barbera in cui il diavolo si rivela essere il travestimento usato dagli
appartenenti a una colonia di soldati inglesi sconfitti e abbandonati nei
Barrens dopo la guerra d’indipendenza americana.(Il camuffamento era
usato per rapire indisturbatamente bambini per mantenere in vita la
colonia)
-In tre numeri dei Fantastici Quattro realizzati da Roberto Aguirre
Sacasa in cui J.D. si rivela essere una creatura aliena.
-La leggenda del Jersey Devil ispirò inoltre Kelley Jones per il fumetto
“The 13th Son”.
-J.D. fu anche protagonista di un videogioco stile “Crash Bandicoot”
intitolato semplicemente “Jersey Devil”.
-La squadra di hockey dei “New Jersey Devils” deve il suo nome a J.D.
Sperando di non fare errori ecco un immagine più simile all’originale di J.D.

http://4.bp.blogspot.com/_yS-8hZlaPMQ/SUD0aewcd5I/AAAAAAAAEME/zLGvlqcr6GI/s1600-h/Diavolo_del_Jersey.jpg

Postato sabato, 7 agosto 2010 alle 11:01 da Francesco Moretta


Refuso,ateggiamento invece di atteggiamento.
“Carnivale” non ho ancora avuto modo di vederlo ma anch’io ne ho sentito parlare bene.Un altro telefilm horror piuttosto particolare,non bello come “Carnivale” ma nemmeno privo di interesse era “American Gothic” storia di un ragazzino dotato di poteri taumaturgici e braccato da uno sceriffo in odore di zolfo nell’America rurale.Troppo strano per la televisione dell’epoca e quindi rimasto incompiuto.

Postato sabato, 7 agosto 2010 alle 11:12 da Francesco Moretta


Anche Bruce Springsteen interviene (a suo modo) sul Jersey Devil:
http://www.youtube.com/watch?v=Z0GVMFKvn4U

Postato sabato, 7 agosto 2010 alle 12:33 da luciano / idefix


UNA DI MENO !

-
A proposito dell’orribile caso del “ pugile dilettante che ieri a Milano, fuori di testa perchè la ragazza l’ha lasciato, esce di casa e ammazza a pugni la prima donna che incontra mentre nessuno ha il coraggio di muovere un dito” >
http://www.youtube.com/watch?v=Lb1NmFw16lI
-
Anche nelle Mille e una notte (Lila alfa lila) si racconta di un caso di odio indiscriminato contro le donne : quello del re persiano Shahriyàr, il quale, tradito da una delle sue spose sorpresa con uno schiavo nero, diviene estremamente crudele. Incapace di sopportare ( “elaborare” direbbe una psicologa) l’umilazione e la sofferenza provate, non pensa ad altro che a vendicarsi. Per prima cosa strangola l’adultera e poi pianifica una vendetta che lo porta a punire tutte le donne attraverso le vergini che egli deflora e di cui la mattina ordina la morte. E’ così il sovrano si trasforma in una specie di Barbablu, un serial killer. Come dire « ogni notte, una di meno ! » – il contrario di Don Giovanni che invece di ‘assommarle’ per sottrazione le donne le somma per addizione, circondandosi di ricordi ( un po’ come fa il dottor Katzone, il playboy personaggio di Fellini nel film “La città delle donne”).
-
Il caso della sete distruttiva del califfo Shahriyàr fa da cornice a tutti i racconti delle Mille e una notte. A narrarli è la figlia del visir, Schehrazad. E’ lei che osa sfidare la sorte offrendosi volontariamente di trascorrere la notte nella camera del re impazzito. Chiede però di portare con sé la sorella minore alla quale notte dopo notte racconta una storia. Se l’indomani venisse uccisa il filo della narrazione s’interromperebbe. Come dire: “Raccontami una bella storia o ti uccido”.
Secondo lo psicoanalista franco-tunisino Fethi Benslama ( in « La psychanalyse à l’épreuve de l’Islam », Aubier 2002), il califfo sarebbe il paradigma dell’uomo, in particolare dell’uomo di cultura islamica, reso più e meno folle dall’enigma della sessualità « altra » della donna e l’impossibilità di controllarla. Shéhérazade porrà fine a questa maledizione attraverso il racconto, vale a dire la parola.
-
Un elemento non indifferente del dispositivo o trappola (simbolica) per differire la morte inventata da Sheerazade è rappresentato da Dunyazade, la piccola sorella che la donna farà venire per ascoltare. « Cara sorella – implora Dunyazade – se non dormite vi supplico, in attesa del giorno raccontantemi una storia… » . Il dispositivo funziona tra l’imene, superficie penetrabile della donna, e il timpano della sorellina che non può essere sfiorato che dalle parole. « La piccola entrò, si gettò nelle braccia della sorella, poi si pose ai piedi del letto. Il re si alzò, deflorò Shéhérazade… ». Alla brusca sequenza segue, notte dopo notte, la domanda infantile del racconto : « Vi supplico, aspettando il giorno… ». Nell’edizione Gallad delle « Notti », l’insistente ripetizione della piccola Dunyazade è stata tolta, per non lasciare che un salto di linea. Questa ripulitura – dovuta probabilmente alla preoccupazione di non urtare il lettore francese – è significativa dello scarto tra due civilizzazioni, attraverso la traduzione dei due campi immaginari. Il « bambino pretesto » da cui, ai bordi del sesso e della morte, parte la domanda del racconto resta noondimeno il perno di un dispositivo triangolare messo in atto per differire la morte.
Shéhérazade non dice al re a tu per tu : « Vuoi ascoltare una storia ? », ma introduce ambiguamente questa bambina molto vicina a lei e alla sua identità sessuale per sollecitare l’apertura di un’altra scena, a un tempo supplichevole e supplementare. Nella spaventosa imminenza del godimento assoluto, che non può che sfociare sulla distruzione, il dispositivo di Sheerazade per evitare il disastro, non consiste solo nel racconto come terapia e nell’epos della parola che richiama alla ragione , ma nell’introdurre la giovane sorella nella camera nunziale.
Nel luogo stesso in cui si svolge la violenza della deflorazione, Sheerazade pone la voce che invoca e l’ascolto infantile al servizio del racconto e della vita, poiché il racconto udito dall’infantile scongiura la morte e la notte, placando il furioso desiderio maschile che mira al deserto.
Non sono quindi le storie deliziose delle Mille e una notte a costituire il trattamento della pazzia del re. Ma il fatto che la donna, grazie al suo doppio, la sorella, è diventata a un tempo penetrabile e impenetrabile, ritrovando « la sua doppia superficie che accoglie l’uomo ma lo lascia davanti alla verginità infantile dell’ascolto della parola ».
Il monarca decaduto dalla sua sovranità a causa del tradimento della regina credeva di poter controllare il godimento femminile deflorando imeni e uccidendo una donna dopo l’altra. La storia di Shéhérazade lo « distrae » dalla sua fissazione e propone una soluzione diversa attraverso l’ambiguità del racconto e quindi la parola.
E’ come se il monarca pazzo avesse detto : « raccontami una storia o ti uccido ». E Shéhérazade avesse risposto, indirettamente, per obliquo : « Ti uccido raccontandoti una storia ». Il racconto uccide nell’uomo il monarca fissato, lo riporta alle ragioni del fluire della vita. E allora il califfo non può che tacere, fare il morto. E’ un fatto che non viene notato, ma il re viene liberato perché l’Altro ha parlato.
-
ULTERIORI OSSERVAZIONI. Più in generale, di fronte al profondo dérèglement del reale e delle forme simboliche che affiora negli estremismi, l’analisi conduce verso questioni rimaste impensate, come l’affermazione coranica che Dio non è il padre, secondo uno spirito nato da un esilio che tiene l’Essere lontano da qualsiasi metafora paterna ed idea di procrezione, permettendo così al figlio di incontrare l’Uno e di edificare una religione al di fuori del padre.
Al termine di una ricerca che lo ha condotto ad esplorare i testi e le peculiari costruzioni simboliche della religione islamica, Benslama s’interroga sul rapporto fra il narcisismo maschile e il testo islamico; ed identifica l’alterità femminile come la nervatura centrale della rimozione propria del monoteismo islamico. Posto in un vero e proprio ‘deserto genealogico’, emerge così l’incapacità del soggetto maschile di sopportare l’impossibile della jouissance Autre ( da qui l’imposizione del velo, ecc.).
L’esplorazione conduce l’Autore a illuminare di nuovi significati un testo come “Le Mille e una notte”, che – non a caso oggi proibito nei regimi islamisti oscurantisti – assume il valore di una liberazione da costrizioni estreme.
Nel racconto de “Le mille e una notte”, Sheerazade è costretta a mettere in opera un dispositivo per scongiurare la distruttività nel califfo in preda al fantasma della vergine eterna e reso folle dall’infedeltà della sua donna, ovvero dalla vista della sua donna che si dava a un altro in una scena d’orgia,
All’inverso che nel Don Giovanni, che aggiungendo una donna dopo l’altra alla serie delle sue conquiste cerca di salvare il suo desiderio, il califfo delle “Mille e una notte” mette in scena una follia di onnipotenza maschile che procede per sottrazione: ogni notte, una di meno!
E’ la pulsione di morte che vuole possedere il Tutto e il Niente della donna, il desiderio della fine del desiderio, il cui scopo – tramite l’uccisione di una donna per notte – sarebbe di ritrovare un oggetto originario non intaccato dall’Altro.

Postato sabato, 7 agosto 2010 alle 17:12 da Gianni De Martino


Felice di rileggerti, Gianni. Tra una in più e una di meno, anche l’una soltanto e per sempre suona dopotutto abbastanza inquietante… senza contare che un’amante che continui a raccontare storie volutamente aperte e spesso inconcluse, somiglia sinistramente alla televisione delle serie infinite e delle novelas… viene da pensare che la principale ossessione del maschio (e forse non solo del maschio) sia rivolta contro il vivere e lascia vivere.

Postato sabato, 7 agosto 2010 alle 18:57 da Gianfranco Manfredi


@ Francesco. Vista l’immagine, questo J.D. suscita una certa compassione. E’ il mostro più sfigato che si sia mai visto.

Postato sabato, 7 agosto 2010 alle 18:59 da Gianfranco Manfredi


@Gianfranco.In effetti tutto sommato il povero J.D. non riesce ad essere davvero terrorizzante,ma più che altro appare bizzarro.Forse questo spiega perchè non è molto noto al di fuori dell’America,dove invece gli hanno anche dedicato numerosi saggi e testi.Insomma un perdente famoso solo in patria.

Postato sabato, 7 agosto 2010 alle 19:17 da Francesco Moretta


Non ho seguito tutto il dibattito, è una pletora e non voglio rischiare di tentare il suicidio tagliandomi i polsi. :-D

Dico solamente che non ne posso più di vampiri e pipistrelli. Entro in libreria e ci sono i vampiri, al limite uno zombie o due che circolano tra i gialli con aria annoiata.
E’ una moda, in una società come la nostra che ti dissangua; che ti leva la libertà; che ti ammazza in guerra o per fame; che vede prepotente il ritorno di un oscurantismo clericale; che è in mano al terrorismo nazionale e internazionale; che è sotto il dominio del demonio dell’intolleranza, la narrativa incentrata sui vampiri è tornata a mietere vittime, tra i lettori più giovani purtroppo. C’è un ritorno alle mode vittoriane, d’altro canto le strade sono infestate da criminali e pazzi di ogni sorta. Ci sono davvero un bordello di libri con i vampiri protagonisti, ora crudelissimi ora umanissimi. La realtà è però che il vampiro sotto la luce del sole rimane quello di Le Fanu. Per fortuna si è riscoperto anche Robert E. Howard seppur con un filmaccio come quello in sala. Però ho visto che il ciclo di Solomon Kane è stato ristampato. Mancava dagli scaffali della buona letteratura avventurosa.

Postato sabato, 7 agosto 2010 alle 20:19 da Iannozzi Giuseppe


Gianfranco, vivere e lasciar vivere? Anche se, come in Eclipse, lei vorrebbe stare con Jacob che le ronza attorno? Angosciato, sei contrario e – come farebbe l’onesto Edduccio – glielo proibisci: ““Sai bene che è fuori discussione che tu frequenti un licantropo senza che nessuno ti protegga, Bella… Niente licantropi”. Ma lei non intende obbedire, e insiste: “ Devo vedere Jacob”.
Non ti sentiresti forse costretto a fermarla? “E sentiamo un po’ come pensi di fermarmi?, non mi puoi fermare!, io sono libera!, io faccio come mi pare!”.
Nei romanzi dei vampiri adolescenti alla Meyer , basta sfoderare “un sorriso sghembo” e per Bella è finita, KO, trattiene il respiro, il cervello prosciugato da un delizioso panico, l’inguine che sfrigola e scintilla di energia statica semivampirica contro i jeans di Edduccio – licantropo? quale licantropo? “Nella mia vita non c’era niente di paragonabile alle sue labbra fredde e marmoree, ma sempre così delicate mentre si muovevano assieme alle mie”.
D’altra parte, ci sono momenti in cui lei non sa come interpretare quel “sorriso sghembo”. Gelosia? Nella penombra della camera da letto può capitare, talvolta, di non sapere se i suoi occhi brillano per odio o per amore. In ogni caso, segue il panico… Poi l’alba. E il sole, il grande sole mentitore, i cui raggi ( come in un romanzo Harmony) cancellerrano dai cuscini tante macchie incriminanti.
Forse occorre essere adulti ( ma chi lo è veramente?) per svegliarsi la notte e scoprire con un brivido un corpo alieno, un corpo di donna nel tuo letto. Non occorre essere un pugile suonato e ginecofobo per sapere che, anche senza volerlo, è certo che purtroppo uno dei due vedrà morire l’altro o l’altra.
Di solito, quando non finge di dormire – muta e tutta asserragliata come una specie di fortezza imprendibile – lei ti racconta un sacco di storie, ti dice anche “per sempre” come se niente fosse e insiste, nello stesso tempo, di dover “assolutamente” frequentare un licantropo o qualsiasi altro satiro peloso che le ronza intorno.
Certo, se neanche il “sorriso sghembo” dovesse funzionare, l’ideale per un maschietto sarebbe vivere e lasciar vivere. Se non fosse per questo irrazionale che s’incontra non solo nei romanzi o nelle più stupide e vere canzoni d’amore, ma anche al cuore dei più banali rapporti di coppia e di altri orrori. :-)

Postato sabato, 7 agosto 2010 alle 20:59 da Gianni De Martino


Mi pare evidente che invece della fine del primo decennio del nuovo millennio, stiamo tutti vivendo la prolungata agonia della fine secolo precedente. Non c’è più fatto di cronaca, che non sia percepito come simbolico, come “Segno dei tempi”, come indicatore di catastrofe. Si moltiplicano riflessioni che dal particolarissimo saltano al general generico . Autocritiche indiscriminate che associano ogni orrore attuale (REALE E SPECIFICO) all’umano in quanto tale, da ritrovare nella sua incontaminata purezza (di natura?) stracciandosi le vesti, cospargendosi il capo di cenere e autogiudicandosi responsabili di tutto pur considerandosi responsabili di nulla di specifico. Puro senso di colpa virtuale. Smagliante quanto allucinante il fondo di Adriano Sofri di oggi su Repubblica, dal titolo “Noi uomini vigliacchi rileggiamo Cuore”. Sofri si sa che declinò ogni responsabilità in merito all’uccisione del Commissario Calabresi ed è diritto di ogni innocente difendersi (lo è, come prescrive il nostro costume legale, anche per chi non lo è, dunque a maggior ragione…) , però si assume per via del tutto generica , in quanto maschio (?) una qualche responsabilità sia nella vigliaccheria omicida dell’ucraino pugile suonato, sia e soprattutto nel “non intervento” dei passanti, invitandoci tutti a chiederci: io sarei intervenuto? Non c’era bisogno dell’invito, caro Adriano, perché ce lo siamo chiesti tutti, escogitando risposte di fantasia, più o meno confortanti. Più pertinente la domanda: nel corso della mia vita, quando mi sono ritrovato in condizioni di emergenza analoghe, cosa ho fatto? Sono riuscito a impedire un atto insensato, a interrompere una rissa, a cercare di riportare semplicemente la calma in una situazione di tensione estrema? E come ci sono riuscito? La risposta sta lì, più che nella fantasia. Sta nella biografia. Ecco perchè si dice, giustamente, rispetto alla disinvoltura dei mea culpa generici: ciascuno parli per sé. Di orrori da omicidi gratuiti, la letteratura è strapiena. “I sotterranei del Vaticano” di André Gide. Lo ricordate? Giovanotto narcisista ed esaltato incontra su un treno un vecchio immalinconito, che non conosce minimamente e con il quale non scambia manco due parole. Lo afferra e lo butta dal treno. Segue pippone sui destini del mondo e dell’umanità e sui mea culpa universali? No. Uno scrittore di genio non cade in queste melensaggini. Rileggere Gide, con De Amicis, e confrontare.
Simili doglianze universali risuonano anche nell’intervento di Iannozzi, che peraltro condivido quasi al 100%: è vero, di vampiri non se ne può più, e questo grido di insofferenza è nato anzitutto dagli scrittori di fantastico, che sanno di cosa si parla. Però… di un fatto passeggero di mercato vogliamo fare il simbolo di un’epoca di cervelli all’ammasso? Andiamoci piano. Anzitutto perchè nei fatti di mercato e nelle mode, qualcosa si esprime sempre, e non sempre è facilmente leggibile in superficie. E poi perché si rischia di negare verità elementari, prima fra tutte questa: in ogni epoca della Storia della Letteratura accanto a fiumi di carta semplicemente indicativi del gusto di un’epoca o di un periodo, sono continuati ad uscire Libri Sacri , libri cioè che davvero ci interrogavano in profondo, libri che spesso soltanto nell’epoca successiva sono stati riconosciuti per il loro valore Profetico. Che si pubblichino tante cacate non è una novità, che l’infezione nei tempi dell’editoria di massa dilaghi è certo preoccupante, ma dovrebbe rappresentare uno stimolo in più per andare a caccia di qualche perla sul fondo del nostro mare inquinato… e ce ne sono… più di quanto non si sospetti. Tra queste può rientrare come dice Giuseppe Iannozzi anche qualche opera dimenticata (come il ciclo di Solomon Kane di Howard) però porca miseria occupiamoci anche di quanto si scrive in questi anni, dei molti testi “occulti” perchè occultati sotto montagne di carta, ma che per qualcuno di noi (non dico tutti) potrebbero risultare preziosi e stimolanti e rivelatori. In fondo, tra alti e bassi, tra affermazioni e smentite, tra cose dette scherzando e cose dette serissimamente, tra cose ponderate e cose “dal sen fuggite”, è stato questo il percorso che abbiamo seguito in questo forum (e qualcuno avrebbe mai pensato al principio che dalle idi di Marzo ci avrebbe condotto a questo febbrile agosto?) Un altro punto riguarda lo Smile con cui Gianni conclude il suo ultimo posto. Nota grafica di ottimismo, nonostante tutto. Certamente condivisibile. Anche qui , in merito al vivi e lascia vivere, c’è un però… ho visto l’altra sera il film “Basta che funzioni” di Woody Allen. Lo replicherano diverse volte su Sky e dunque guardatevelo se non l’avete ancora visto. L’inizio del film sembra intervenire in questo dibattito: si parla (giocosamente quanto seriamente) dell’orrore quotidiano e delle vie d’uscita (individuali o neo-sociali?) . Nel finale tutto va a posto , come in una miracolosa armonia riscoperta, dove anche un atto suicida diventa occasione di un nuovo, impensato, imprevisto e pacificato cammino, in direzione della “ricerca della felicità”. Non chiediamoci il perché una signora religiosa e devota di provincia, diventa grande fotografa da galleria d’arte e gioiosa convivente e concubina di due maschioni libertari, non chiediamoci il perché una ragazzina del tutto ignorante si incapricci, ovviamente ricambiata in modo burbero, di un quasi premio Nobel di veneranda età, non chiediamoci perché il marito della signora di cui sopra e madre della ragazzina, si scopra felicemente gay a sessant’anni. Non chiediamoci il perchè di nulla: basta che funzioni. Il problema è che questa illusione newyorkese e borghese è pura menzogna. Il problema è che la nostra illusione/ossessione per il “funzionamento” è vetusta cultura dell’età delle macchine, macchine che tra l’altro si sono già accorte “da sole” e ben prima di noi, di non funzionare più o di funzionare in modo insensato (non ce lo aveva raccontato Terminator qualche decennio fa?). Felicità e Funzionamento, come implicitamente osserva Gianni, non sono partner che possano andare a braccetto. Solo dal loro litigio , solo dall’attrito nascono scintille vitali. Ma se ogni scintilla la percepiamo come pericolo d’incendio universale, è finita. Allora l’unica prospettiva diventa la felicità degli zombi , liberati dal cannibalismo, grazie a un’oculata politica di vaccinazione di massa, di diritti civili, e di “funzionale” amministrazione dell’esistente.

Postato domenica, 8 agosto 2010 alle 12:43 da Gianfranco Manfredi


STORIE CHE NON FUNZIONANO

Tra i tanti fatti e fatterelli di questo agosto stralunante, c’è quello relativo alla faccenda dei diamanti di Naomi Campbell. Ne ho seguito le cronache, con la netta sensazione di non capirci un cazzo. C’è qualcosa che non funziona in questo “racconto popolare”, ma che pure si avverte come oscuramente sintomatico. Dunque: una Top Model in visita a un Tiranno africano, riceve poscia in dono da due emissari un sacchetto , a detta della venere nera, di “pietruzze sporche”. Perplessa, si rivolge alla sua amica Mia Farrow, la quale da brava mamma la mette in guardia dall’accettare regali da un Tiranno. Al che la Top Model gira il dono a un’associazione vicina a Nelson Mandela! Ripulitura delle pietre sporche? Le ha donate perchè tanto erano delle pietre sporche? Ha trovato semplicemente un modo comodo di sbarazzarsi di un imbarazzo? Mah… L’associazione ammette e consegna ai giudice le pietre sporche, che sporche erano e sporche sono rimaste dopo il dono. Si sono aspettati i giudici e gli allarmi di stampa per capire che quelle pietruzze erano anche sporche di sangue? Un narratore la racconterebbe così questa storia? La vera regola per il nuovo racconto è: basta che non funzioni?

Postato domenica, 8 agosto 2010 alle 13:14 da Gianfranco Manfredi


E infine, il racconto della Campbell, è il remake horror di “Diamonds are a girl’s Best Friends?”

Postato domenica, 8 agosto 2010 alle 13:20 da Gianfranco Manfredi


Anche a me ha destato molte perplessità l’articolo di Sofri: la tesi secondo cui “siamo tutti colpevoli” di qualcosa di molto generico rischia di portare, passo dopo passo, al ben diverso “siamo tutti innocenti” davanti a qualcosa di molto specifico.
Io resto convinto che la responsabilità sia e debba restare personale: io non mi sento colpevole per la Shoah, non mi sento colpevole per lo sterminio degli indiani d’America, non mi sento colpevole per gli stupri etnici in Bosnia, non mi sento colpevole per i linciaggi commessi dal Ku Klux Klan, non mi sento colpevole per i roghi dell’Inquisizione, non mi sento colpevole per i gulag staliniani.
E così avanti.
Andiamoci molto cauti con questo bisogno di vago perdonismo per colpe altrettanto vaghe e soprattutto non commesse: dietro l’angolo sta in agguato l’accusa di averle commesse e di esserne responsabili anche se non le abbiamo commesse neanche lontanamente.

Postato domenica, 8 agosto 2010 alle 21:41 da luciano / idefix


neanche lontanamente ?
Forse ( forse) siamo tutti dei mostri, anche se vogliamo dimenticarlo.
:-) D’altra parte è anche vero che, in tanti casi, l’innocenza sembra ( sembra) ancora più antica e criminale della colpa.

Postato domenica, 8 agosto 2010 alle 21:58 da Gianni De Martino


Ripeto: andiamoci cauti.
Un conto è fare un discorso serio, ampio e approfondito. Altra cosa è volgarizzare in una specie di “tutti colpevoli tutti innocenti”.
E alla tua domanda rispondo: no, neanche lontanamente. Sono colpevole di altre cose che ho commesso o che non ho saputo evitare. Ad esempio: con i miei consumi eccessivi sono complice dello sfruttamento dei paesi poveri.
Ma per altre cose no: sono innocente.
E’ di poco fa una notizia che mi ha colpito: a Ciudad Juarez, la città messicana corrottissima, dove sono state ammazzate centinaia di donne. Ne ha scritto anche il grandissimo Roberto Bolano nel romanzo 2666.
Insomma, oggi 300 poliziotti si sono ribellati contro i loro capi corrotti, hanno assalito il commissariato e arrestato i capi, colpevoli.

Postato domenica, 8 agosto 2010 alle 22:39 da luciano / idefix


D’altro canto, il diritto non individua forse diversi gradi di responsabilità , oltre a colpe penalmente irrilevanti? L’insensibilità, anche culturale, per la giustizia (non quella metafisica del Giudizio Universale, ma quella istituzionale, quella dell’equilibrio dei poteri) si esprime anche in questo “saltarla a piè pari” ponendo ogni questione criminale sul piano etico-politico.

Postato lunedì, 9 agosto 2010 alle 11:33 da Gianfranco Manfredi


Il rischio di “buttarla in metafisica”, verso oscure colpe di cui sotto sotto saremmo colpevoli tutti quanti, nessuno escluso, è proprio questo:
perder di vista i fatti reali commessi (o non commessi…spesso la colpa è anche NON agire), comunque direttamente da persone in carne e ossa.
Se invece mi si incolpa (come in alcuni horror “familiari”) per atavici delitti e per remote efferatezze compiute dai miei antenati e la cui ombra continuerebbe a fermentare nel guasto sangue della corrotta discendenza fino a ricadere su di me, beh, non ci sto proprio.
Così come non ci sto a lasciar ricadere su di me i crimini compiuti da altri.
Un conto è dire che tutti noi, in quanto esseri umani, siamo difettosi e carenti e pieni di lati oscuri e zeppi di difetti e piccoli e grandi manchevolezze e che spesso dobbiamo vergognarci per il NOSTRO comportamento e sentirci a disagio (profondo disagio) per quanto ALTRI esseri umani fanno. Perchè ognuno di noi partecipa all’esperienza complessiva dell’intera umanità, almeno empaticamente.
Tutt’altra faccenda è assumersi genericamente le “colpe” di fatti specifici commessi da altri, fatti rispetto ai quali noi non abbiamo nessuna responsabilità. Nè diretta nè indiretta.
Per un cristiano poi ciò è rafforzato da Gesù Cristo (Giovanni 1, 29): “L’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”
Se no (in questa specie di orgia autoflagellatoria dove tutti sarebbero colpevoli di tutto) finiamo per sovradimensionare noi stessi e il nostro ruolo.

Postato lunedì, 9 agosto 2010 alle 12:11 da luciano / idefix


Perfettamente d’accordo, Luciano. Intanto è arrivata una nuova puntata della novela horror: i Diamanti Insanguinati. Mia Farrow ha testimoniato che la Campbell le aveva detto di aver ricevuto dalle mani del Tiranno genocida un enorme diamante (lavorato). Quello evidentemente se lo è tenuto, rifilando a Mandela le pietruzze di contorno. Così il racconto funziona di più. Si può dire quello che si vuole, ma per discutere di responsabilità personali in modo corretto, non c’è altro modo che passare per i magistrati. E questo veniva spiegato anche nelle Mille e Una Notte, nel paradossale racconto in cui un giudice viene chiamato a deliberare su un presunto delitto di cui ci sono molti indiziati colpevoli, alcuni persino rei confessi, per poi scoprire alla fine che sono invece tutti innocenti. Episodio da cui Hitchcock trasse il suo “La congiura degli innocenti”. Nei racconti di Sherazade c’è un elemento indubbiamente libertario. Si traccia un percorso per uscire dalla violenza e dalla colpevolizzazione dell’altro, seguendo regole che sono insieme narrative e prefiguranti di una società giusta perché capace di discriminare , di distinguere vero da falso, creduto da realmente accaduto, soggettivo da oggettivo, e di stabilire criteri per poter giudicare anzitutto i fatti e poi i diversi gradi di responsabilità relativi alla specificità dei fatti stessi. Che le Mille e una Notte sia stato un testo fondamentale per gli Illuministi , così si spiega meglio. E si spoega meglio anche perché in quest’epoca che ha smarrito la consapevolezza di elementi fondanti della moderna democrazia liberale, tornino impetuosi elementi del tutto oscurantisti. Tornando al delitto del pugile, mi è capitato il giorno stesso di andare a prendere il caffè nel bar del paese, il piccolo paese di montagna in cui sono venuto a vivere, e immancabilmente sento risuonare il commento di una signora: “T’ee vist? Oramai non si può neanche uscire di casa.” Cioè la reazione che scatta di fronte a un caso, peraltro raro, è interrogarsi, di fatto, sulla responsabilità della vittima! Tramonta il discorso tradizionale in caso di stupro (“sì, però come andava in giro vestita?”) per un’alba ancor più tragica (“sì, però andava in giro”). Che il fatto sia avvenuto a Milano e non in un paesino dove ancora si può tranquillamente uscire di casa lasciando la porta aperta, non è rilevante per il sentire-emotivo e (questo sì) profondamente irrazionale. L’allarmante ormai coincide con il vivere stesso. Quando dovremo attendere per sentir dire: “Sì, è stata uccisa, però benedetta donna, era viva!” Logica mirabile del senso di colpa (e di paura) universale. Compiuta zombizzazione dell’esistenza.

Postato lunedì, 9 agosto 2010 alle 15:02 da Gianfranco Manfredi


Ambrose Bierce!!
Torna!
Magari per un attimo soltanto.
E goditi questo sublime crescendo manfrediano di umorismo nerissimo:
”sì, è stata stuprata, però come andava in giro vestita”
“sì, è stata uccisa, però andava in giro”
“sì, è stata uccisa, però benedetta donna, era viva”
Ed è di poco fa un’altra demenza analoga: il vescovo ausiliario di Salisburgo Andreas Laun ha scritto che, dato che la Love Parade è un abominio contro Dio e dato che Dio è incazzoso e punisce i peccati mandando catastrofi…
Una pista per l’horror del Duemila? Il mix tra tecnologia sempre più avanzata e cervelli in retromarcia verso il Medioevo.

Postato lunedì, 9 agosto 2010 alle 16:55 da luciano / idefix


Il senso di colpa sembra una questione centrale per l’avvenire della civiltà. E questo a partire dal più banale rapporto interpersonale o di coppia, così come dai racconti e le tante canzoni che se ne fanno. Molte giustificazioni del male fatto da soli o in coppia mi sembrano sospette. Mi ha sempre trovato scettico, per esempio, questa canzone di Caterina Caselli, intitolata PERDONO .
Si sa, o perlomeno si dovrebbe sapere che la verità fa male, ma qui non si capisce bene cosa è successo alla coppia e perché lei ripete PERDONO PERDONO PERDONO. L’unica cosa certa è che lei lo ha tradito e dice di soffrire più di lui. Come fa a sapere di soffrire più di lui ? Quando poi afferma che « Il male l’ho fatto più a me », verrebbe voglia di dirle : guarda che la bua te la sei fatta tu, mica ti ha obbligata il Diavolo ?
O forse sì ? Sono sicuro che non saprebbe rispondere. E che alla sola evocazione della parola « diavolo », qualcuno incomincerebbe ad agitare le mani davanti agli occhi, come per scacciare ( strabico, se non resistendo alla retromarcia dei cervelli verso il Medioevo) l’ombra di qualche insetto fastidioso. Quanto alla zombizzazione dell’esistenza, forse occorrerebbe fare ancora uno sforzo affinché sia compiuta, chissà.
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Qui il link a PERDONO PERDONO PERDONO > http://www.youtube.com/watch?v=qz42OUWxSi4&feature=related

Postato lunedì, 9 agosto 2010 alle 17:42 da Gianni De Martino


A Perdono ho dedicato un passo in un mio saggetto sulla canzone italiana, che è stato ripubblicato insieme ad altri anni fa dall’editore Coniglio col titolo “Quelli che cantano dentro nei dischi”. Intanto va ricordato che oltre a Perdono, Caterina cantò: Nessuno mi può giudicare. Più precisamente, nel libro facevo osservare che i temi dominanti nelle canzoni di Caterina Caselli erano due: Senso di Colpa e Presagi. Il Senso di colpa è espresso oltre che nelle sopracitate canzoni anche in “Puoi farmi piangere”. I Presagi si dividono in Benigni: E’ la pioggia che va (metafora climatica), Un uomo d’oro (metafora ben più concreta), e Funesti, che sono assai più numerosi: Il cammino di ogni speranza (che si ferma un momento e poi se ne va)/ Il carnevale (che finisce male e questa maschera ormai non serve più)/ Il Volto della Vita (io di notte sono qui, ma la mente mia non c’é… sono chiusa in una stanza senza luci, né pareti) / Incubo n.4/ Tutto nero /Sole Spento.
Questa stravagante presenza di temi oscuri (anche nel senso più proprio di dark) nel repertorio di una ragazzona in piena salute, è certamente interessante. All’epoca in cui scrissi il saggio (erano i primi anni 80) non potei fare a meno di proporre una teatralizzazione di “Nessuno mi può giudicare” come se il testo risuonasse in un’aula di tribunale in cui si stava giudicando un “terrorista” pentito. Beh, al di là della parodia, funzionava eccome, senza bisogno di cambiare una sola parola. Ne concludevo: la confusa e spesso drammatizzata condizione personale, vissuta tra allusioni oscure, senso del Fato, bisogno di Presagio, è sempre in rapporto, nelle canzoni della Caselli, con più o meno fosche (ma tendenti al fosco) previsioni che riguardano tutta la propria generazione. In questo senso Caterina Caselli è la rappresentante italiana del movimento beat. E non dell’ala morbida (i figli dei fiori) , ma dell’ala dura (gli apocalittici). Più avanti, non posso certo citare tutto il testo, ne concludevo che la direzione, anche oltre Caterina, era questa: pare che nasca una generazione vittimistica.

Postato lunedì, 9 agosto 2010 alle 19:16 da Gianfranco Manfredi


Certo non potevo prevedere allora che l’Uomo d’Oro e insieme “testimonial” del vittimismo nei confronti della Giustizia, sarebbe presto apparso all’orizzonte.

Postato lunedì, 9 agosto 2010 alle 19:29 da Gianfranco Manfredi


@Gianfranco.Con la lettura di “Ultimi Vampiri” sono arrivato a “Summer of Love” e mi è sembrato di notare che a differenza dei racconti dell’edizione originale in cui i vampiri erano presi dal folclore in “Summer of Love” hai anche integrato suggestioni di natura letteraria. (come le zanne)Si tratta solo di una mia impressione?Comunque ho molto aprezzato da cinefilo “Il metodo Vago”, soprattutto per l’apparizione del povero Tod Browning uno dei migliori registi della prima metà del novecento ingiustamente punito dalla MGM.Mi è venuto una nostalgia improvvisa dei classici della Universal e credo che me li riguardero.
In settimana dovrebbero trasmettere in televisione “Il nido del ragno”,film che se non erro era tratto da una tua sceneggiatura.Non l’ho mai visto,ma sono curioso anche perchè la trama ricorda quella di un vecchio Dylan Dog “Aracne” che è tra i miei preferiti,anche per i disegni di Roi.(Oltrettutto se non mi ricordo male l’autore di quel numero sei tu,quindi in un certo senso quella storia è un remake del film ma con Dylan)Segnalo invece che Venerdi su Fuori Orario danno “Bug” di William Friedkin e “Il cervello dei morti viventi” di Peter Sasdy,con Lee e Cushing.

Postato lunedì, 9 agosto 2010 alle 20:35 da Francesco Moretta


Scusatemi ho seminato un refuso,aprezzato invece di apprezzato

Postato lunedì, 9 agosto 2010 alle 20:39 da Francesco Moretta


“DOVE SEI?” – AFASIA E SENSO DI COLPA ALLA BREZZA DEL GIORNO
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Sul senso di colpa, centrale per la tenuta e l’avvenire della civiltà, perlomeno di quella cristiana, cioè di quello che ne resta, sono stati versati fiumi d’inchiostro. Scrivere sarebbe allora fare come fa la seppia, quando per sfuggire al predatore diffonde attorno a sé una nuvola d’inchiostro.
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“ Dove sei?”. Fin dal primo giorno, l’invisibile che passeggia in giardino alla brezza del giorno pone una domanda terribile. Se ci nascondiamo nelle tenebre e fra i mostri – in un groviglio di parole così come nel sangue dell’Agnello, il secondo Adamo, o l’inchiostro della seppia – è forse perché la colpa primaria è un atto indicibile.
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Ecco un inizio e, nello stesso tempo, una rottura che suonerà come una mancanza , una colpa e un tentativo di nascondimento.
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“Dove sei?” Anche noi, come Adamo, non sappiamo rispondere. E’ l’afasia che precede ogni atto di linguaggio, specialmente ogni decisione di scrittura… Quello che Adamo provava mentre cercava di parlare a Dio sulla sua linea telefonica speciale era la paralisi di fronte all’invisibile: un pugno che bloccava il petto, proprio sotto il collo…Per la prima volta aveva incontrato l’angoscia. Palpitazioni, un vuoto allo stomaco , malessere che cresceva sordamente… L’angoscia è una “ventosa sull’anima”, avrebbe detto con voce roca, quasi senza voce, Antonin Artaud. Era la ventosa? O forse la spirale? A ondate. Ondate forse simili a quella tipica, sgradevole sensazione kafkiana di un “continuo mal di mare in terra ferma”.
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Certo, noi creature civilizzate & letterate abbiamo tutti, prima o poi, l’impressione che qualcosa, fin dai primordi, debba essere andato storto nell’universo. ( Non per buttarla in metafisica, ma è proprio vero che Adamo ha cominciato il pranzo della vita dalla frutta, dal Frutto Proibito ?).
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“Dove sei?” “Gulp!” faceva Adamo e “gulp! glup!” ripeteva Eva, accavallando la “p” e la “u”, muovendo nervosamente le dita dei piedi e senza sentirsi neanche lontanamente in colpa – la colpa ce l’aveva il Serpente. E però non era un fumetto…Era l’angoscia che precede la colpa, vale a dire – dopo un primo momento di disorientamento – l’angoscia che porta talvolta sulla via obbligata dell’ingresso nella scrittura : un impotere esplorato da Blanchot e Derrida, la vertigine del “come cominciare” evocata da Beckett, “l’esperienza abietta” della psicanalisi secondo Lacan, il pullulare informe dell’essere per Levinas – fiumi d’inchiostro e forse ondate di illusioni al ritmo di “Nessuno mi può giudicare” di Caterina Caselli.
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Adamo era nel mio pensiero degli anni sessanta, ma cos’è il pensiero di Adamo se non una figura dell’angoscia ?
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Eppure l’angoscia provata dai progenitori in quel giardino non aveva nulla di familiare, non somigliava a quelle paure o a quei segreti che diciamo “intimi”: era la terra che diventava deserto, gli alberi del Paradiso che bruciavano eternamente, dolcemente.
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“La colpa in me è qualcosa di così vasto e radicato che il meglio è ancora di imparare a vivere con essa, anche se toglie sapore al cibo e al minimo alimento: tutti al mondo, anche da lontano, esalano un gusto di cenere”. ( Clarice Lispector, 5 luglio 1969).

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Quello che non bisogna dire è quella COSA ardente e come proveniente da molto lontano…
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“Dove sei?”. Mentre la memoria diventava densa, agglutinante – come pare sia la memoria di tutti gli esseri incompiuti – Adamo era in una specie di nevrosi ossessiva ( oh solo una leggera e forse transitoria curvatura di psiche tipica dell’impulso scrittorio). Eppure era proprio un fiore del Paradiso spezzato da lontano ai gomiti e ai ginocchi.
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… Mmm. Spezzato da lontano ai gomiti e ai ginocchi ? Ecco : “ … l’angoscia è appunto qualcosa che si situa altrove, nel nostro corpo, è il sentimento che sorge dal sospetto di essere ridotti al nostro corpo” . ( Lo ha notato Lacan, La terza, in La psicoanalisi, Astrolabio, Roma, 1933, p. 103; citato da Giuliana Kantzà, Il Nome-del-Padre nella Psicoanalisi, Milano, Edizioni Ares, 2008, p. 174).
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Il sospetto di essere ridotti al nostro corpo è, oggi, un’angoscia diffusa…Insomma, non solo si deve morire, ma occorre anche che avvenga “con dignità”, cioè in buona salute. E nascondendo il proprio folle Adamo, in modo da morire senza voce.
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Mancando l’essere e credendo di essere pensando l’essere – cosa di un’illusione totale – il primo degli uomini del “mito” della Genesi non ha risposto e ci ha trasmesso – attraverso il “mito” – la colpa primaria: non saper rispondere dal luogo detto della parola vera. Questo luogo nudo e vero – che a bassa voce, quasi senza voce, diciamo il luogo del peccato originale è quanto abbiamo di più prezioso. Eppure il più delle volte l’angoscia è tale che – a parte la precauzione d’indossare il famoso cache-sex sul reale della fenditura – non vogliamo saperne niente. Come colonna sonora beat : “Ma che colpa abbiamo noi?”.
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Fu forse quando abbandonammo la placida orizzontalità dell’animale? E morsicammo con piccoli denti una mela verde, perduta per sempre da Eva in quel giardino?
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Eccoci con Adamo a dare, tanto per cambiare, la colpa alla piccola Eva e a seppellire in fretta il cadavere di papà e mamma, oltre che dei fratellini, e vertebre di antenato, ossicini e torsoli di mela. L’importante è riempire i buchi proprio come fa la morte. Sarebbero buchi anche di memoria e piccole ferite, anche narcisistiche, volendo- buchini quasi insignificanti… E’ solo il loro accumulo, l’accumulo di tante piccole ferite, che convince Adamo di una gravità. Insomma, forse “Adamo era stato trasformato in ‘peccatore’, cacciato in una gabbia, lo si era rinserrato tra idee semplicemente orrende e lì se ne stava malato, miserabile, maldisposto verso se stesso: colmo d’odio verso gli impulsi vitali, pieno di sospetto contro tutto quanto era ancora forte e felice. Insomma, un ‘cristiano’ “. (Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli).
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Cristiano o non cristiano si può fare una fine balorda comunque. E il risveglio, nonostante i tanti farmaci e i giri senza fine di travestimenti multipli, potrebbe anche essere brusco e provocare disillusioni tremende. Cosa accadrebbe, per esempio, se all’improvviso ci accorgessimo che l’agnello sacrificale sente l’aglio? Magari l’aglio di una fetida ed estranea cucina. Disillusioni improvvise – oppure lente come quelle che si fanno “ancora” nel solco dei sogni e tra le grida, le campane, le ambulanze intasate di miti, di fantasmi, e non solo.
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Imparare a sopportare la vita e a lasciar vivere, tessere il velo protettore di un racconto, della preghiera e del segreto, sono un impossibile in risposta alla nostra libertà e responsabilità inalienabili. La libertà, per esempio, di non sentirsi già tutti delle vittime.
Resta, non sempre, la speranza, tenace, simile a quelle erbacce che chiamiamo tali forse solo perché non ne conosciamo ancora le virtù e che crescono ai bordi dei cimiteri, i campi di sterminio e i giardinetti di un condominio o pianeta cosparso di sangue. – Apocalittico ? Anche se talvolta non so cosa dico veramente: perdono e grazie.

Postato lunedì, 9 agosto 2010 alle 20:39 da Gianni De Martino


Vi segnalo che a Novembre dovrebbe uscire per la Panini l’edizione italiana di “The Collected Dracula” della Dynamite.Si tratta di una delle più fedeli trasposizioni a fumetti del romanzo,tanto da aver entusiasmato perfino lo scrittore Warren Ellis.(Autore di horror e Science Fiction complesso e geniale quanto Alan Moore)

Postato lunedì, 9 agosto 2010 alle 20:50 da Francesco Moretta


Tra le tante suggestioni seminate da Gianni, ne raccolgo una. “Il sospetto di essere ridotti al nostro corpo è, oggi, un’angoscia diffusa…” con quel che segue. Ho letto ieri questa frase di Tolstoi e me la sono segnata: “Tutto dipende da come uno concepisce la propria esistenza. Se uno pensa: tutta la vita é nel mio corpo, cioé il corpo di Ivan, Pietro, Maria, e lo scopo della vita consiste nel procurare la maggior quantità di piacere e soddisfazioni possibili a questo mio io, cioé a Ivan, Pietro, Maria, allora la vita sarà sempre e per tutti infelice e amara.”
Passando a cose più futili, aspetto che Francesco veda “Il nido del ragno” (film del tutto occasionale che ho scritto in una settimana rivedendo da capo a fondo una vecchia sceneggiatura di Tonino Cervi) per poi magari riportargli qualche aneddoto di lavorazione. Ma in sostanza, se ho ripreso in mano la storia per Dylan Dog, è perché di quel film non ero rimasto per nulla soddisfatto, a parte un paio di scene , più erotiche che horror. Come dire… che il vecchio Tolstoi ha ragione, però spesso, in carenza di “racconto” ( o di biografia) il corpo una sua efficacia ce l’ha… e questo è parte del problema.

Postato martedì, 10 agosto 2010 alle 00:55 da Gianfranco Manfredi


Una delle principali angosce contemporanee deriva dalla fissazione che IL NUOVO sia l’ultimo e definitivo criterio di autenticità, creatività e valore. Sia in campo artistico che nelle vite private e relazionali che nel pensiero e in ogni altro ambito.
E così stiamo continuamente e ossessivamente (come scriveva Jean Baudrillard) “accelerando nel vuoto”.
Oppure (ed è l’altra faccia della stessa nevrotica medaglia) c’è la mania opposta: remake, revival, zombismo mediatico, il “come eravamo”, il riciclo delle vecchie idee (non per rivitalizzarle e fertilizzarne il presente ma per raccattare qualcosa da buttare sul mercato adeso e subbbbito).
Adesso in Inghilterra la BBC ha prodotto dei telefilm con Sherlock Holmes ambientato nel 2010, ipertecnologico e munito di pc. Ma si può?
E intanto gli Smartphone permettono di “stare in contatto col cantante preferito” e in più “insegnano a cuocere un uovo bollito”: mai più senza.

Postato martedì, 10 agosto 2010 alle 09:20 da luciano / idefix


Naomi Campbell non doveva diventare la “dittatrice” di Chavez? Si diceva che l’aveva proprio vampirizzato; che era ormai certo che lei sarebbe stata la “carla bruni” venezuelana; che sarebbero stati la coppia pi bella, più di Carla e Sarkozy – non che ci voglia poi molto, stavolta Woody Allen ha preso un granchio, la Carla sul set è impacciata da far paura, nemmeno il buon Woody può far miracoli, poi con Sarkozy che spunta dal dietro le quinte come Il Fantasma dell’Opera lavorare è impossibile. Ma chi è davvero Carla? La Carla che dopo il primo album non se l’è filata più nessuno, nemmeno quando ha tentato maldestramente di fare una cover di Francesco Guccini? E non è Sarkozy – che per il momento è il suo compagno – che sta adoprando la più infame censura pur di tutelare il presunto onore della consorte? Giornalisti defenestrati, minacciati, messi nella lista nera. Chi sono Carla Bruni e Naomi Campbell? Direi che sono proprio quello che sono. La Campbell piange in tv. Attrice discreta. Naomi calva. Naomi con le mani sporche di sangue, di diamanti insanguinati. Donna del più grosso magnate russo e del più discusso anche. Una donna-vampira passata dallo stalinismo censorio di Chavez al più spietato capitalismo russo, quello di Vladimir Doronin. Donna violenta, più volte finita sulle pagine scandalistiche per i suoi feroci attacchi d’ira, che non si sono mai limitati a una tirata di capelli. Una ex modella che oggi sarebbe calva o quasi a seguito del continuo uso di extension, tinte e parrucche. Adesso ha i capelli rasati sulle tempie, là dove pare siano andati persi. Ma anche la fronte è diventata particolarmente alta. Senza parrucca, la Campbell appare calva sulle tempie e con una fronte da far quasi invidia a Nosferatu.
Gli unici e veri vampiri sono tra di noi, capaci di passare da un estremo all’altro, nascondendosi dietro parrucche. Fingendo d’essere gli eterni non invecchiati.

Postato martedì, 10 agosto 2010 alle 12:51 da Iannozzi Giuseppe


Giuseppe: sulle top model ha scritto uno dei suoi romanzi più riusciti Chuck Palahniuk, Invisible monster. Quando era un romanziere potente e originale, con dentro fertile rabbia e nerissima ironia, con incursioni nell’horror e nel fantastico.
Prima che il mercato e il successo lo trasformassero nella parodia di se stesso, in un crescendo di incitamenti a sbracare: “Esaggggera! De più. Ancora de più! Famme er palaniuccke!”
Come quelle band punk che, arricchite e imborghesite, perduta l’autentica furia degli esordi, incapaci di convertirsi nella musica globalizzata e politica alla Clash o di reggere nella fulmicotonica caciara da tre accordi dei Ramones oppure all’intellettualità dei Television, divengono la parodia di se stesse.
“Ahò! me raccomanno! Sul palco tu ce devi fa’ er chitarrista sconvolto. E el cantante che se magni la capoccia der conijjio. E chi s’offre de tajasse co’ a lametta? Che tanto c’vavemo li cerotti. Avete letto l’urmino de Palaniukke? Forte. Er pank è sempre er pank, li mortacci vostri”

Postato martedì, 10 agosto 2010 alle 13:09 da luciano / idefix


Sono d’accordo con te, Luciano. “Invisible Monster” insieme a “Fight Club” è uno dei migliori lavori di Palahniuk. Adesso invece è sol più la parodia di sé stesso e nemmeno. Direi che ha esaurito le idee, che ha perso la mano: anche se potrebbe sempre usarle per una qualche rivista patinata che cerca modelli che mostrino le sole mani. :-D

Si nasce punk e si muore nell’incenso di Ratzi. Così è stato per Lindo Ferretti, tragico caso nostrano che dagli sputi voluti e raccolti sul palco negli anni Ottanta, oggi rinnegando tutto si è dato anima e corpo al clero. Si fosse dato alla religione, niente da dire: purché non sia per fanatismo. Il problema con Ferretti è che non si è dato alla religione, alla spiritualità, bensì al Vaticano, a quello di Ratzi che pulito non lo è affatto. Un vampiro in Vaticano: ritirate tre denunce nel Kentucky. Perché? Che è accaduto a queste vittime? Che pressioni possono aver mai subito? Pressioni che di certo non possono portare all’opinione pubblica. Uno dei grandi paradossi dell’America che già Pete Seeger denunciava negli anni Settanta – subendo la censura dell’America democratica. Ed così che oggi Padre Lombardi si dice soddisfatto: ‘Questo non significa in alcun modo minimizzare l’orrore e la condanna per le vicende degli abusi sessuali e la compassione per le sofferenze delle vittime”. Parole. Perché tre vittime del clero pedofilo hanno rinunciato a portare avanti la causa contro il Vaticano? Quali pressioni, quali minacce? Vittime che per trenta anni hanno denunciato il Vaticano, il suo clero e che oggi di punto in bianco si ritirano; ciò dovrebbe far riflettere, tanto più che Padre Lombardi si esprime in termini a dir poco ambigui: “: “E’ positivo che una causa su un presunto coinvolgimento della Santa Sede in responsabilità di occultamento di abusi si sia dimostrata originata da un’accusa infondata”. Sta forse insinuando che le tre vittime hanno mentito per 30 anni per fare uno sgambetto alla Chiesa, a Ratzinger? I vampiri peggiori sono tra certi personaggi del clero e della politica, della moda, delle majors. I vampiri di oggi non sono dei poveri accattoni. Sono invece dei personaggi chiave del Potere, di quel Potere che governa gli accadimenti storici dell’attuale momento storico. Quello che la letteratura sui vampiri non è riuscita a fare è di diventare strumento di denuncia. Abbiamo invece vampiri belli e buoni e giovani, senza né macchia né peccato, quelli della Mayer, che sono vampiri solo per via del cerone – imposto loro dalla mano della scrittrice -, non per altro.

Postato martedì, 10 agosto 2010 alle 18:36 da Iannozzi Giuseppe


Precisando che l’indignazione di Iannozzi è ampiamente condivisibile, non condivido invece che la letteratura debba farsi “strumento di denuncia”. Il considerare “strumentale” lo scrivere, è proprio della propaganda. E chi strumentalizza i testi è perché considera normale strumentalizzare le persone , anche attraverso i testi stessi. Uno scrittore lavora per metafore e le metafore lavorano sotterraneamente. Se vengono ridotte a didascalie ideologiche con intento persuasivo, si immiseriscono banalizzandosi, perdono ricchezza simbolica, ambiguità, sfumature.

Postato martedì, 10 agosto 2010 alle 19:45 da Gianfranco Manfredi


TRAGICI CASI NOSTRANI ?
-
Forse Iannozzi voleva dire che per uno scrittore il male è la salvezza, mentre il bene cercato “nell’incenso di Ratzi” ( “che pulito non è”) suscita indignazione e vibrata solidarietà con le vittime. Le vittime sotto pressione di “un vampiro in Vaticano”?
Forse non ho capito ambiguità e sfumature, insomma un’oliva, ma – chissà perché – mi viene in mente la signora Fiorella che ci insegna come si fanno le “olive all’ascolana” ascoltando i CCCP Fedeli Alla Linea e commentando con un buon senso ( che potrebbe fare solo orrore ) le opere e la figura di Giovanni Lindo Ferretti*.
Mah! Non saprei cosa pensare… In ogni caso mi pare che la letteratura non sia, o non dovrebbe essere un paletto portato dall’opinione pubblica da conficcare al cuore di questo o quell’esemplare di una generazione confusa >
.
* http://www.youtube.com/watch?v=exW_HfJYLWg
:-)

Postato martedì, 10 agosto 2010 alle 20:46 da Gianni De Martino


CITAZIONE: Per un narratore il male è la salvezza, il bene la perdizione. L’elogio del bene ha inquietato perfino il sonno dei classici ed è stato l’incubo della loro veglia. Manzoni, per farselo perdonare, ricorre all’ironia, Cervantes alla follia, Dickens alla stupidità, Dostoevskij all’idiozia, Melville all’innocenza. Solo Hugo non esita a edificare al bene una cattedrale, ma a lui, ahimè, si perdona tutto. Parlare bene del bene è imperdonabile. Infatti non me lo perdono. Ma dovevo pagare di persona l’impagabile aiuto di parenti, amici, sconosciuti”.
da Giuseppe Pontiggia, Nati due volte, Mondadori 2000, in Opere, a cura di Daniela Marcheschi, Mondadori, 2004.

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Quanto alla signora Fiorella ( la sua rubrica s’intitola “Aspettatevi il peggio”) non so se la vorrei come mamma – né se è da friggere con quel mutante o mutato di Ferretti o da sposare… Non proprio un incubo ma quasi… :-)

Postato martedì, 10 agosto 2010 alle 21:18 da Gianni De Martino


Le conversioni artistiche sono un fenomeno a parte, ma molto caratteristico di un mestiere narcisista esercitato nell’eccesso. Si parla qui di Ferretti, si potrebbe parlare di Claudia Koll, oppure in contesto non italico della recente e ovviamente clamorosa professione di fede induista di Julia Roberts, in miracolosa sintonia con l’uscita del suo ultimo film che allinea anzi soprappone cucina (Italia) , erotismo (Bali) e Religione (India) in una sorta di King Burger del banale, più servizio su Elle (copertina con il bambino del film + servizio con intervista sui SUOI bimbi, della Roberts, scarrozzati per i set come bagagli al seguito, ma senza dubbio alcuno, con tantissimo Love and Devotion). D’altro canto , che se ne parla a fare? Più se ne chiacchiera e più “nessuno mi può giudicare, nemmeno tu.” le clamorose conversioni dello Spettacolo non sono altro che rovesciamenti speculari dall’ovvio all’ovvio, nella riproposizione della stessa identica immagine da un altro punto di vista.

Postato martedì, 10 agosto 2010 alle 22:57 da Gianfranco Manfredi


Mi pare evidente che, in OGNI sua opera, l’autore (volente o nolente) non può prescindere dalla propria visione del mondo.
Ciò non significa fare “propaganda”.
E forse, per capire il corretto rapporto tra “opera d’arte” e “messaggio”, è utile sentire il suggerimento di Marcel Proust.
Cito a memoria perchè non ho il testo sottomano.
“Scrivere un libro e metterci la morale troppo in evidenza è come fare un regalo e lasciarvi attaccato il cartellino del prezzo”

Postato mercoledì, 11 agosto 2010 alle 09:08 da luciano / idefix


@ Luciano: Personalmente, anche se la metafora di Proust suona natuaralmente bene, non ho nulla contro chi in un libro squaderna le proprie idee, morale inclusa. I tempi cambiano, e forse ciò che una volta andava solo suggerito, oggi lo si può anche esplicitare. Al limite non acquisterò suddetto libro.

@ Gianfranco: alla Roberts (come a tanti altri suoi colleghi che guadagnano miliardi con film di finta denuncia ma sempre uguali e superficiali e spot pubblicitari vari) forse farebbero bene sei mesi in una risaia in Laos. Lì ci starebbe un bel servizio su Elle.

Postato mercoledì, 11 agosto 2010 alle 10:28 da claudio vergnani


Intendevo solamente dire che oggi abbiamo vampiri belli e buoni e giovani come quelli delle Meyer. Per denuncia intendo che il vampiro moderno, per poter essere preso sul serio, dovrebbe essere mostrato per quello che oggi è, un mostro, un diavolo, un essere oscuro che miete vittime. Ed invece abbiamo vampiri bellocci e anche di più, che non rappresentano la società in cui viviamo e che sono frutto di un business che ci dipinge un mondo perfetto e patinato. Le Fanu con Carmilla ci ha dato la prma vampira sensuale, ambigua, ritratto fedele del suo tempo; così anche Stoker; per non parlare poi della inquietante perfezione di Lovecraft con i suoi mostri venuti dal passato, per un orrore siderale-cosmico. Questi erano, a mio avviso, autori che divertendo il pubblico non lo prendevano per stupido imbottendolo con vampiri inattuali che non fossero specchio del loro tempo storico.

In ogni caso se c’è anche della denuncia vera e propria in un romanzo, la cosa non mi dispiace affatto. Purtroppo sono pochi oggi coloro che scrivono anche per denunciare: Diego Cugia lo fa e per questo trovo sia una delle migliori penne oggi in circolazione, in Italia e non solo. Perché i suoi romanzi pescano nelle tragedie dell’oggi e le trasformano sì in romanzi ma sempre denunciando i malaffari della società politica e non.

Postato mercoledì, 11 agosto 2010 alle 10:30 da Iannozzi Giuseppe


@Iannozzi.Se sei interessato a vampiri più collegati alla realtà ti consiglio “I vampiri di Ciudad Juarez” di Clanash Farjeon.In questo libro di legami tra vampirismo e interessi di potere (anche politico) se ne parla molto.Oltrettutto descrive una realtà spesso trascurata o taciuta qui da noi,quella del confine Texas-Messico con orrori che fanno impallidire qualsiasi finzione.

Postato mercoledì, 11 agosto 2010 alle 11:30 da Francesco Moretta


Comunque quando si mette la storia al servizio di una qualche denuncia,spesso si ottengono risultati deludenti.Penso ad esempio ad una storia di Dylan Dog letta recentemente,in cui l’unica cosa positiva erano i disegni di Frisenda.Il resto era un banale pistolotto ecologista camuffato da storia,ricca di quegli stereotipi e banalità che hanno rovinato Dylan Dog.(Dylan è sempre quello dalla parte giusta,non sbaglia mai ed è quasi un santo mentre operai e simili devono sempre essere bastardi inclini alla violenza)L’irritazione mi ha quasi portato a scaraventare l’albo in questione fuori dalla finestra,azione che di solito per me sarebbe impensabile.

Postato mercoledì, 11 agosto 2010 alle 11:38 da Francesco Moretta


Alla fin fine ciò che davvero ti fa dire di un romanzo, film musica, fumetto, quadro eccetera “Dio mio, ma che merda” non è la presenza della “morale”, bensì la riuscita o meno dell’opera.
Ricordo ancora con imbarazzo il periodo politically correctissimus di Dylan Dog, storie antirazziste antimaschiliste animaliste libertarie e “dalla paarte dei diversi” ma di una tale melassosa retorica da risultare raccapriccianti e da far venire (per una laida frazione di turpe nano-secondo) la tentazione di iscriversi alla Lega Nord sezione Borghezio.
Questa retorica così invasiva e volgare ha sempre un qualcosa di totalitario, di ur-fascista, di vampiresco. Anche se e quando le intenzioni sono buone e progressiste.

Postato mercoledì, 11 agosto 2010 alle 12:29 da luciano / idefix


@Luciano.Hai ragione,nel leggere storie di questo tipo,come lettore mi sento preso in giro.Nel periodo politically correct di Dylan Dog era anche insopportabile il giudizio morale che inevitabilmente Dylan “MR. Perfettino” Dog faceva sempre cadere sui soliti sospetti:impiegat,ragionieri,poliziotti,operai,macellai,borghesi generici.Oltrettutto la stagione di DyD di cui parli non è finita,ma continua ancora.
P.S.Sembra che in autunno su Mtv trasmetteranno “True Blood”,”Valemont” un telefilm vampirico su cui non so molto e “Dead Set” un ottimo serial britannico sugli zombi.

Postato mercoledì, 11 agosto 2010 alle 13:24 da Francesco Moretta


Sì, per la verità io non intendevo fare un peana della letteratura disimpegnata (i miei romanzi non risparmiano certo ai lettori crudi referti sociali e non solo d’epoca). Invitavo piuttosto ad essere cauti nel considerare la scrittura e in particolare le metafore inerenti alla narrativa di tipo fantastico, come strumentali a un discorso “politico”. Ho già citato il detto di Carmelo bene secondo cui un attore è anche agito. Egualmente penso che lo scrittore sia condotto e debba lasciarsi condurre dalla scrittura stessa ben al di là di uno scopo funzionale. L’inconscio, in letteratura, suggerisce molto di più dei propositi razionali, e non parliamo neanche di quelli morali. Ora sarà anche vero che Victor Hugo era un apologeta del Bene (e chi lo discute questo?) ma pochi scrittori sono riusciti come lui a sprigionare quel “visionario” che ci trascina all’inspiegabile. Ripeto e ripeterò fino alla nausea. Confrontate Gomorra di Saviano a La Pelle di Malaparte. La differenza sostanziale è tra una scrittura giornalistico-letteraria improntata la denuncia, e una scrittura che gli elementi storici e di cronaca li incorpora in metafore assai più ampie che soltanto la letteratura punto e basta può esprimere, e che ci coinvolgono molto più nel profondo. Ecco perché la riduzione del vampiro a figurazione politico-sociale del Potere, mi sembra che rischi di banalizzarne il Mito. Il punto centrale, nella figura del Vampiro e di molte altre figure di reviviscenti, è la Morte e i suoi incerti confini.

Postato mercoledì, 11 agosto 2010 alle 13:38 da Gianfranco Manfredi


Da Dylan Dog, dopo oltre venti anni di “matrimonio fumettistico”, ho divorziato due o tre anni fa, perchè era uno strazio mettermi ogni mese in casa il simulacro del bel fumetto che un tempo fu.
Per cui non ho la più pallida idea delle condizioni in cui esso versi.
Ci sono artisti (per dirne quattro: Brian Wilson, Philip Roth, Alberto Ongaro, Clint Eastwood) e saghe (per dirne una: Magico Vento), oltre che persone che “invecchiano” con grandissima dignità.
Per altri (come DD) il tempo è un’ordalia.

Postato mercoledì, 11 agosto 2010 alle 13:41 da luciano / idefix


Riguardo al buonismo da politically correct che si rimprovera al “nuovo” Dylan Dog, io temo ancor più un surplus di politically correct che potrebbe condurci a un eroe di tipo nuovo, ma i cuoi contorni cominciano a delinearsi su questo deprimente orizzonte agostano in Italia. Essendo ormai dimostrato che il tallone d’Achille nazionale sta nel binomio Casa e Donne , cercasi urgentemente come nuovo eroe dell’opposizione un Homeless Indifferente al Sesso.

Postato mercoledì, 11 agosto 2010 alle 14:18 da Gianfranco Manfredi


A pensarci bene, e al di là degli scherzi, tremano i polsi al pensiero che una simile mitica figura esiste già ed è ben radicata nell’immaginario occidentale. Il suo nome è Gesù Cristo.

Postato mercoledì, 11 agosto 2010 alle 14:24 da Gianfranco Manfredi


E’ peraltro noto come andarono le elezioni quando si trattò di scegliere tra Gesù e Barabba.

Postato mercoledì, 11 agosto 2010 alle 14:38 da Gianfranco Manfredi


Ho appena udito la prolusione di Di Pietro che pone (giustamente) come questioni discriminati : il nucleare e l’acqua. Vuoi vedere che stavolta scende in campo Celentano?

Postato mercoledì, 11 agosto 2010 alle 15:06 da Gianfranco Manfredi


Che tra l’ltro cantò proprio “chi non lavora non fa l’amore”

Postato mercoledì, 11 agosto 2010 alle 16:54 da luciano / idefix


Ah, che disgraziata canzone quella! Di recente Celentano ha ammesso l’errore. Una vera macchia sul suo repertorio. Tra l’altro è ormai cronaca che chi si stressa di lavoro va a travestiti.

Postato mercoledì, 11 agosto 2010 alle 17:07 da Gianfranco Manfredi


Tornando all’horror, il romanzo “Lupo nelle Tenebre” di Pekearo che mi sto leggendo un po’ per volta, è proprio divertente, ed è un ottimo test per la questione del buonismo e del politically correct di cui si stava discutendo. Il protagonista è un uomo piuttosto disgustoso, asociale, che non fa nulla per apparire simpatico, anzi è davvero un buzzurro scostante, che pur lavorando in un locale pubblico, se ne sta in cucina, perché se va al banco gli viene istintivo insultare i clienti e attaccar briga. Inoltre è un uomo lupo, per cui nelle notti di luna piena esce e sbrana, nel modo più cruento e bestiale possibile. Come si fa a scegliere per eroe uno così? Un minimo di buonismo bisogna pur darglielo, per equilibrare. E dunque Marlowe Higgins (così si chiama il protagonista) vive una storia d’amore piuttosto tenera con una prostituta, e vabbè… ma ciò che più conta, ha trovato il modo di orientare i suoi impulsi omicidi verso persone più fetenti di lui, cioè quelli che fanno tanto comodo agli scrittori perché “meritano di morire”. Si imbatte in uno spietato serial killer e così… quel che segue. Insomma, se l’eroe è un assassino, l’antagonista deve essere il Male Assoluto, per forza. Il punto è che oggi chi scrive di orrori e di delitti ha di fronte un bel problema. All’epoca dell’hard boyled e poi del Noir del dopoguerra, il lettore poteva tranquillamente stare dalla parte di loschi figuri perché i suddetti erano degli emarginati ,ridotti allo stremo e alla violenza dalla crisi economica e da una società più marcia di loro. Per loro la violenza era puro istinto di sopravvivenza. Oggi però come si fa a simpatizzare per certi stravolti tipo il pugile suonato da cui abbiamo cominciato la discussione? Il pugile suonato e violento ha molti precedenti come eroe della narrativa popolare… di personaggi così sono pieni i noir d’antan. Era un pugile suonato anche il magnifico personaggio interpretato da Marlon Brando in Fronte del Porto. Combatte contro i boss che si sono impossessati del sindacato dei portuali e di cui lui stesso era stato servitore, ritrovando senso morale attraverso le umiliazioni subite, la vicinanza di una donna e di un prete. Il che rappresenta una bella dose di buonismo d’autore, anche se il racconto resta non esattamente confortante e contiene esplicita “denuncia”. Il punto è, però, che è diventato praticamente impossibile stare anche solo per un attimo dalla parte di chi esce per strada e ammazza la prima che incontra (e non certo una top model reduce da acquisti in Montenapoleone, d’altro canto non è anche questo tipo sociale, al fondo, da compatire?). Per giunta, anch’io che buonista non sono (uno casomai cerca di essere buono, ma buonista che cazzo è se non una caricatura ideologica?) , anch’io, dicevo, trovo assolutamente ripugnante l’operazione che è stata fatta sui ceffi fascisti della Banda della Magliana eretti a Eroi Noir. Simili operazioni, oltre che puzzare, offendono la coscienza civile, per chi ancora ce l’ha. E dunque, la lotta deve restare tra il male e il peggio? Dobbiamo dare ragione a D’Alema quando disse con il suo noto umorismo noir che bisogna rassegnarsi a votare per il meno peggio, cioè per quello che ci fa meno schifo? Insomma, per come la si rigiri, la scelta è difficile e lo è anche in narrativa. Il bravo ragazzo sta sulle palle, su questo siamo d’accordo altrimenti non saremmo lettori di horror, però un po’ di coscienza nel bruto bisogna pur mettercela , altrimenti si rischia l’apologia della bastardaggine universale. Così chiedo a Francesco, perché io I vampiri di Ciutad Juarez non l’ho ancora letto, ma… come se la cava Farjeon in proposito?

Postato mercoledì, 11 agosto 2010 alle 17:51 da Gianfranco Manfredi


Nell’attesa, vi posto una succulenta citazione da “Lupo nelle tenebre” di Pekearo.

“Mentre il prete attaccava la sua tiritera sulla vita eterna, iniziai a pensare a tutta la gente che avevo ammazzato nel corso degli anni. Mi chiesi quanti di loro avessero avuto una sepoltura vera e propria. Per quanto ne sapevo, non è che di loro fosse rimasto un granché da seppellire, e questo pensiero finì per immalinconirmi. Alcuni mi sarebbe piaciuto accompagnarli al cimitero, se non altro per sapere dove andare nel caso mi fosse venuta la voglia di pisciare sopra la loro tomba.”

Postato mercoledì, 11 agosto 2010 alle 18:06 da Gianfranco Manfredi


Il protagonista de “I vampiri di Ciudad Juarez” Michael Davenport è un fotografo dal carattere bizzaro.Ossessionato dai felini e dalle immagini al punto da ficcarsi in una situazione pericolosa solo per recuperare una pellicola.Si tratta di un tipo pieno di atteggiamenti particolari,ma al punto da ispirare simpatia,anche perchè è abbastanza acculturato e spiritoso.
Lo humour (nero) ha una certa importanza per bilanciare la crudezza piuttosto forte di alcune scene,pur senza arrivare alla demenzialità o allo slapstick.Ritengo quindi che Farjeon se la sia cavata molto bene anche con questo libro.

Postato mercoledì, 11 agosto 2010 alle 19:29 da Francesco Moretta


Comunque la palma di personaggio difficile la vince l’occultista della Vertigo John Constantine protagonista del fumetto “Hellblazer”.
Creato da Alan Moore e Rick Veitch sulle pagine di “Swamp Thing” Constantine è un moderno mago,un fumatore incallito,un uomo cinico e manipolatore che spesso agisce per narcisismo.Ma è anche una persona che tiene ai propri amici,che può anche sorprendentemente compiere azioni disinteressate.(Ha umiliato il diavolo in persona per salvare un amico,trovandosi cosi un persecutore)Constantine è una persona ambigua,contraddittoria che camina perennementesul filo del rasoio.Per alcuni è un trickster,per altri un bastardo.In verita è forse uno dei personaggi del fumetto più vicini alle persone reali,non è un infallibile moralista,(non ha mai giudicato nessuno) ma nemmeno un villains spietato.Constantine è un uomo con tutto quello che ne consegue.
Per chi fosse interessato ecco una sua immagine:
http://en.wikipedia.org/wiki/File:HellblazerCVR189.jpg

Postato mercoledì, 11 agosto 2010 alle 19:50 da Francesco Moretta


Io per la verità intendevo come se la cava Farjeon nel confronto tra vampiri e narcos, però forse non tratta il tema. Il suo “Diario di Jack lo Squartatore” era un romanzo notevole, dal punto di vista del lavoro preliminare e anche sotto il profilo stilistico, un romanzo storico-documentario è molto più impegnativo di un romanzo di ambientazione contemporanea, però quando ci si occupa di scenari attuali si trovano difficoltà di altra natura, prima fra tutte, la necessità di scegliere: tratto argomenti che hanno risvolti politici e di cronaca oppure no? In sostanza, con quello che sta succedendo e non da ieri a Ciudad Juarez, la città viene usata come puro sfondo per un’avventura horror, oppure Farjeron l’ha scelta tra tante possibili perché voleva anche parlare di quella specifica situazione di confine ?

Postato mercoledì, 11 agosto 2010 alle 23:04 da Gianfranco Manfredi


Un caro saluto a voi, cari “amici vampirici”.

Postato mercoledì, 11 agosto 2010 alle 23:51 da Massimo Maugeri


@Gianfranco.Farjeon parla di quella realtà,Juarez non è uno sfondo,Juarez è il romanzo.Farjeon parla dell’orrore e della rassegnazione delle persone che vivono a Juarez e di come il resto del mondo faccia finta che non sta succedendo nulla.In merito al confronto vampiri e narcos non posso dirti nulla perchè se no ti faccio un spoiler,ma non pensare a scene d’azione o altro.Non aspettarti niente di convenzionale sui vampiri.Aspettati invece un bel ritratto di Juarez.In quanto alla politica c’è eccome,senza scadere nella denuncia sociale sterile da quotidiano.Quando puoi recuperalo,perchè ne vale la pena.

Postato giovedì, 12 agosto 2010 alle 09:35 da Francesco Moretta


“Il bravo ragazzo sta sulle palle, su questo siamo d’accordo altrimenti non saremmo lettori di horror, però un po’ di coscienza nel bruto bisogna pur mettercela , altrimenti si rischia l’apologia della bastardaggine universale” scrive Manfredi qualche commento fa.
E credo abbia ragionissima.
Nella vita “vera”, il “bravo ragazzo”, la “coppia serena e appagata”, “la famiglia felice e solidale”, “la cittadina tranquilla e laboriosa” e una “esistenza pacifica e amorevole” possono anche essere situazioni bellissime e auspicabili “stati di grazia”.
Ma nelle opere di fantasia sono una jattura: perchè prima annoiano, poi danno ai nervi e ben presto fanno auspicare disgrazie e sciagure.
Non per sadismo ma perchè la narrativa procede grazie a una trama (ed eventuali sottotrame) con tanto di ostacoli e antagonisti eccetera, mentre la “quiete” aborre le complicazioni di uno o più intrecci e di uno o più conflitti.
Ecco allora che su Justine non può che scatenarsi la folgore delle atrocità sadiane, sulla Lucia manzoniana arrivare l’insidia di don Rodrigo e della peste, su Giobbe accumularsi le disgrazie mandategli da Satana (col permesso di Dio, in uno dei libri più scandalosi dell’intera Bibbia).
Insomma: la catastrofe, l’incidente, il “problema”, l’intoppo sono i partner indispensabili di una narrazione.
E dunque, forse, in questo atto criminale dell’autore (che fa irrompere il “male” nella vita dei propri personaggi), il narratore può considerarsi “soddisfatto” dal punto di vista del realismo. A patto che questa irruzione sia credibile e che venga fatta attraverso adeguate metafore.
A questo punto (compiuto il gesto criminale di portare il “male” nel mondo della propria finzione), l’autore può abbastanza serenamente scegliere di stare “dalla parte dei buoni”. Ovviamente consapevole che il termine “buoni” è molto ambiguo e fragile. E che i personaggi non devono essere santini o demonietti ma esseri il più possibile vivi.

Postato giovedì, 12 agosto 2010 alle 11:26 da luciano / idefix


Casca a fagiolo quanto dichiarato da Sly Stallone in occasione dell’uscita del suo nuovo film The expendables. Stallone ci gratifica di un codice della fiction in merito alle regole del conflitto tra duri e cattivissimi. Preliminarmente, va detto che il titolo in italiano sarebbe I Mercenari, e cioè i duri entrano in azione per quattrini, altrimenti perché rischiare la pelle? Questa peraltro non è una novità: si ricollega alla tradizione dei Magnifici sette e del Mucchio selvaggio, con la differenza che un tempo i duri si contentavano di una paga da straccioni e nemmeno tanto sicura, mentre oggi essendo dei superprofessionisti sanno anche valutarsi al giusto prezzo di mercato. Ma veniamo al reparto violenza. “Nei miei film”, dichiara Stallone, “io uccido solo gente che bisogna uccidere” cioè i cosiddetti “meritevoli di morire” . Ma da qui in poi si entra in un campo più sofisticato. “Ci sono quelli che devono essere uccisi in una maniera peggiore di quelli che semplicemente devono essere uccisi. Quelli che lo meritano devono essere uccisi bene, poi ci sono quelli che sono violenti con le donne e vengono uccisi in un altro modo. Non posso pensare che ci sia un uomo che violenta una donna e io lo uccido con un semplice colpo di pistola. sarebbe troppo educato. Deve provare vero dolore.” (Le citazioni sono tratte dall’articolo di Ernesto Assante su Repubblica di oggi). Se ne deduce che più feroci sono i cattivi, più feroce sarà la pena. Il codice della fiction si allinea dunque alla Giustizia che si applica in carcere da parte dei carcerati stessi contro gli autori di delitti riprovevoli, anche per il codice d’onore della malavita, con particolare attenzione verso i reati sessuali. Riepilogando: non più il Giustiziere Western (del tipo “Io sono la Legge” con Burt Lancaster) che uccide per un senso della Giustizia autoritario ma “inevitabile” in un contesto senza legge come quello della Frontiera, Giustiziere che a volte assume le caratteristiche del Cavaliere Solitario che non lo fa neppure per intascare taglie, né per trarne privilegi, ma semplicemente perché della Giustizia, sia pure in forme estreme, qualcuno deve pur farsi carico e se possibile “nobilmente”. Qui, invece, tanto per cominciare i quattrini ci vogliono, se no il pubblico oggi si chiederebbe ma perché l’eroe si fa questo mazzo a gratis? E in film risulterebbe implausibile, stante che è l’impulso etico, anche quello più estremo, a risultare oggi implausibile, in un’umanità in cui dilagano i vigliacchi. Dopodiché , si graduano le punizioni secondo una logica di eredità inquisitoriale che non solo consente la tortura, ma la prescrive, e nemmeno utilitaristicamente, per ottenere confessioni, ma proprio come contrappasso dantesco: il male che hai fatto, te lo restituisco al cubo. Il Buono scolora, e il Duro sconfina nel diabolico (nei senso dei diavoli torturatori per autorizzazione divina oltre che per mestiere) . Fin qui la fiction. In un articolo di tutt’altro genere, sistemato nelle pagine sportive, si apprende qualcosa sui criteri di Giustizia Esemplare realmente applicati in regimi tirannici come quello della Corea del Nord . La Fifa ha aperto un’inchiesta in quanto, dopo il Mondiale, risultano scomparsi i calciatori coreani e il loro allenatore. Si sa che al ritorno sono stati esposti per sei ore al pubblico ludibrio. Dopodiché pare che l’allenatore sia finito in un campo di lavoro. I giocatori non si sa proprio che fine abbiano fatto, e i precedenti (in Corea e in altre dittature) sono piuttosto inquietanti. Però leggetevi l’articolo da soli, perché mentre lo leggevo a mia moglie che stava guidando, lei mi ha pregato di sospendere la lettura altrimenti perdeva il controllo. Basti il fatto che le pene per gli sconfitti sono un elenco di atrocità da lasciare davvero sgomenti. Conclusione: nella fiction e a maggior ragione nella vita reale, si dovrebbe quanto meno ritrovare il senso del diritto a una sconfitta onorevole. Il criterio “o si vince o si muore” e “più ne hai fatte più ne subirai” andrebbero espulsi dalla vita civile, ma se non li si regola nemmeno nella fiction, è davvero un grosso guaio. E spero che ciò non venga confuso con buonismo da politically correct.

Postato giovedì, 12 agosto 2010 alle 13:22 da Gianfranco Manfredi


In sostanza: continuo a ritenere che la letteratura non debba proporsi necessariamente degli scopi morali o edificanti, però ritengo che gli scrittori una coscienza morale e civile debbano averla, altrimenti resta solo l’ideologia del “divertimento” attraverso la quale si rifila il peggio del peggio.

Postato giovedì, 12 agosto 2010 alle 14:03 da Gianfranco Manfredi


@Gianfranco.In questo caso mi sembra che il vero male stia nell’eccedere troppo in un senso o nell’altro,un personaggio non dovrebbe essere nè un eroe perfettissimo,ma neanchè un cinico senza morale di alcuna sorte.Bisognerebbe forse creare dei personaggi più umani,più vicini al sentire delle persone comuni.
Ignoravo della sorte toccata ai calciatori coreani,la cosa (essere puniti per un risultato sportivo) è agghiacciante.Ecco alcuni pezzi de “I vampiri di Ciudad Juarez” ti danno una sensazione simile.

Postato giovedì, 12 agosto 2010 alle 15:42 da Francesco Moretta


Inoltre il tipo di ero descritto da Stallone è solo la versione iperviolenta del classico eroe infallibile.Cambiano il look e la morale che diventa distorta,ma non l’inequivocabile sicurezza di essere sempre dalla parte del giusto e di poter sempre giudicare dall’alto chiunque. (Il che personalmente mi da sui nervi)

Postato giovedì, 12 agosto 2010 alle 15:52 da Francesco Moretta


Inoltre il tipo di eroe descritto da Stallone è solo la versione iperviolenta del classico eroe infallibile.Cambiano il look e la morale che diventa distorta,ma non l’inequivocabile sicurezza di essere sempre dalla parte del giusto e di poter sempre giudicare dall’alto chiunque. (Il che personalmente mi da sui nervi)

Postato giovedì, 12 agosto 2010 alle 15:53 da Francesco Moretta


Scusate per errore ho inviato due volte lo stesso commento.

Postato giovedì, 12 agosto 2010 alle 15:55 da Francesco Moretta


Gli orrori (io continuo a sperare che non siano veri) del regime coreano contro i giocatori rei di aver perso ai Mondiali sono la faccia A (cruenta) della medaglia.
Di cui una società pubblicitaria francese costituisce la faccia B (non cruenta ma speculare).
Cos’hanno fatto? Prima del Mondiale avevano investito denaro sulla Nazionale di calcio francais. Poi (vista la figuraccia e l’immediata elimination) hanno pensato di far causa.
In base alla logica demente e perversa secondo cui lo scommettitore (chi fa una campagna pubblicitaria puntando su un positivo risultato sportivo è uno scommettitore) dovrebbe venir risarcito in denaro se la scommessa gli va buca.
Oppure avrebbe il diritto di rivalersi fisicamente sullo sportivo non rivelatosi all’altezza delle speranze e degli investimenti.
Estendendo questo aberrante criterio al campo letterario, noi autori che percepiamo l’anticipo sui diritti dovremmo restituire la cifra se le vendite dovessero risultare inferiori alle attese dell’editore.
O l’editore dovrebbe avere la licenza di sequestrarci per sottoporci a sevizie davanti a una sanguinaria plebe di analfabeti.
Dall’articolo sul film di/con Silvestro Stallone cito la vera e grande bella notizia: nella sfilza di attori, attorucoli e attorastri che partecipano a The expendables, Kurt Russell è assente (motivo in più per apprezzarlo).

Postato giovedì, 12 agosto 2010 alle 16:19 da luciano / idefix


I VAMPIRI NON DIMENTICANO I VECCHI RANCORI, LI COLTIVANO!” ( La regina dei dannati, film di Michael Rymer, tratto dal romanzo di Anne Rice).
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Come i vampiri che non dimenticano i vecchi rancori, anche gli scrittori mettono in circolazione il risentimento. Con la differenza che negli scrittori decisivi, ovvero nella grande letteratura ( Stendhal, Flaubert, Proust, Svevo, Dostoevskij), esso è trasceso, il più delle volte attingendo alle acque vive della creazione, mentre nella letteratura bassa, detta engagé o di denuncia, sofferenza, rabbia e risentimento sono alimentati fino ad assumere paludose forme perverse e spesso esasperate.
Avere “una coscienza morale e civile” nella vita è importante. Chissà se lo è anche in letteratura. Insomma, mi chiedo se agli scrittori è sufficiente avere “una coscienza morale e civile” per evitare di rifilarci il peggio del peggio o solo l’ideologia del “divertimento”.
In ogni caso – come osserva l’amico Fabio Brotto, al seguito di René Girard – “ la letteratura ha sempre a che fare con la circolazione del risentimento, perché esso è costitutivo dell’umano in quanto tale.” Dell’umano, aggiungerei, con il suo inestricabile garbuglio interiore ( er pasticiaccio, direbbe l’ing. Gadda) e le sue altrettanto famose “ombre”. Da qui, mi pare, i numerosi tragici casi nostrani, anche di non pochi “grandi intellettuali” del passato recente ( Vittorini, Ingrao, Pavese, Dario Fo, Trombadori, Guttuso, Pratolini, Bocca, Scalfari e tanti altri “operatori ideologici”), tutti animati da proclamata “coscienza morale e civile”, e convinti di rappresentare una “cinghia di trasmissione”, un “megafono” per le idee giuste, e – chissà perché, come in “Eros e Priapo” – innamorati sempre dell’uomo sbagliato ( ieri di Stalin, Mao, Castro, Che Guevara, Pol Pot, Arafat, e oggi di Ahamadinedjad, Chavez, Nasrallah ).

Postato giovedì, 12 agosto 2010 alle 16:20 da Gianni De Martino


Avere “una coscienza morale e civile” nella vita è importante. Chissà se lo è anche in letteratura. Insomma, mi chiedo se agli scrittori sia sufficiente avere “una coscienza morale e civile” per evitare di rifilarci il peggio del peggio o solo l’ideologia del “divertimento”.

Postato giovedì, 12 agosto 2010 alle 16:24 da Gianni De Martino


Gianni: non voglio innescare dibattiti politici però almeno una precisazione vorrei farla.
Sugli altri nomi citati mi astengo, ma Bocca e Scalfari (azionista l’uno e liberal-socialista l’altro) non hanno nulla di nulla a che fare con Stalin, Mao, Pol Pot, Ahmadinejad eccetera.

Postato giovedì, 12 agosto 2010 alle 17:33 da luciano / idefix


Sono d’accordo con le tue considerazioni, Gianni. Indubbiamente chi scrive percorre sentieri scivolosi. Spesso ho sentito ripetere dal mio amico non poco guevarista Paco Taibo II che il Conte di Montecristo proclamerebbe il diritto alla vendetta. Io non sarei così categorico e non solo per coscienza civile. Il Conte di Montecristo come romanzo, fa qualcosa di diverso: esplora i sentieri della vendetta e in questo modo da un lato ci aiuta a decifrarne il codice, dall’altro ci permette di esplorarne il lato oscuro e profondamente ingiusto. Lo stesso tema è stato indagato da molti film western… dovrei fare una ricerca per ritrovare certi titoli, e dunque mi limito ad affidarmi alla memoria, ma sia in Sentieri Selvaggi di Ford, sia in altri film che presentano figure di vendicatori, la vicenda stessa conduce l’eroe a prendere coscienza che nel seguire il cammino della “giusta” vendetta, si seminano vittime innocenti, trovando i colpevoli sbagliati, o si incrudelisce al punto da non poter accogliere diverso punto di vista di quello nutrito dalla propria rabbia. Detto questo, non farei neanche di ogni erba un fascio, perché il giudizio critico non è più tale se non si considerano circostanze storiche, contesti, diversità individuali e di obiettivi, climi culturali. Il rischio è affondare in una confusa palude emotiva per cui di volta in volta si riprova e respinge oppure si partecipa e sostiene. Entrambe le opzioni sono presenti in Apocalipse Now… dove il regista Coppola a volte tira da un lato mentre lo sceneggiatore Milius tira dall’altro… Milius ha più volte dichiarato che gli americani hanno perso la guerra del Vietnam perché non hanno capito che dovevano comportarsi come il sanguinario pazzo interpretato da Brando! Ma in altre scene, come la celebre invasione della spiaggia con gli elicotteri, e il conseguente surf … affiora a dir poco una compiaciuta partecipazione e ammettiamolo, piuttosto contagiosa. In cinema non si può mettere in scena senza “punto di vista” , che è poi quello della Macchina da Presa, e dunque l’ambiguo tende a diventare univoco, allo stesso tempo l’immagine per sua natura simbolica non ha bisogno del 3D per uscire dallo schermo e significare molto di più di quanto non si pretenda di raffigurare. Ma uscendo dal dominio del rappresentato, il giudizio storico-politico dovrebbe essere altra cosa. Figuriamoci se non trovo riprovevole l’imbarazzato silenzio anche della sinistra estrema verso un regime come quello nord-coreano che si professa comunista! Si dice, di solito, che è inutile dire cose ovvie, ma questa giustificazione non regge in quanto i primi a doversi sentire offesi e feriti da un regime del genere dovrebbero essere proprio i “sinceri comunisti”. Con tutte le sue contraddizioni, bisogna ammettere che la generazione del 68 fu assai più coraggiosa in proposito , ad esempio nei riguardi dei rigurgiti stalinisti e del presunto “socialismo reale”. Ora, non mi risulta, per tornare all’oggi, che di Kim il Sung o comecazzosichiama perchè sembra sempre lo stesso dato che di nonno a padre e a figlio cambia solo il numero, ci sia in occidente qualcuno che si sia innamorato e tuttavia l’indifferenza di regime e di molti non-regimi , cioè di paesi democratici, desta tanto più scandalo e più d’un sospetto che sia figlia di un razzismo di fatto… chi se ne frega dei coreani, saranno cazzacci loro. e allora… beh, per la miseria, c’è una bella differenza tra un rivoluzionario che capo di stato non è stato mai, come Guevara, un neo-Imperatore (Mao) di un paese complesso e sempre in movimento come la Cina, e l’esponente di una tirannia eterna da coprifuoco perpetuo come Kim Il Sung! Quanto ad Ahamadinedjad non è altro che un burattino qualsiasi in mano a una élite religiosa preistorica e antistorica dai giorni contati. Insomma, a ciascuno il suo. Il “nostro” tra l’altro non ha neppure la statura tragica di un personaggio alla Milius, è solo il testimonial di una tragedia collettiva che ci riguarda tutti , e non lo dico certo per spalmarne le responsabilità sul corpo sociale, ma sul corpo politico e culturale sì … dando per scontato che le eccezioni proprio perchè ci sono confermano la regola o quantomeno l’andazzo generale, senza che si attivino e di spargano anticorpi la cui azione in una decente democrazia dovrebbe sorgere spontanea e automatica. Ma tornando al tema letterario, spero sia chiaro che non sono contrario al divertimento di per sè… al punto che ho appena acquistato un romanzo della serie Arlequin/Mondadori collana Blue Nocturne, aborrita a priori sia dai lettori colti che dagli appassionati del pulp, persino di quello più corrivo, in quanto costituisce una sorta di Harmony a cavallo tra il fantasy romantico e l’horror annacquato , molto più annacquato di quanto non l’abbia reso la Meyer, ebbene, eppure eccheccazzo, questo romanzo lo trovo davvero uno spasso. L’autrice si chiama Gena Showalter e il titolo è Paranormal Love. Non aggiungo altro.
Quando il divertimento è programmatico è una cosa… che si chiama Commedia. Se invece qualcuno pretende di divertirmi con dei film o dei romanzi guerrafondai e intrisi di un fascismo istintivo addirittura pre-ideologico , beh io non mi diverto manco per le balle. Quando ho visto un film di James Bond interpretato da quel peraltro bravo attore che è Pierce Brosnan, nel quale si impossessa di un carro armato in piena Mosca o Pietroburgo, chi si ricorda, e passa per un cunicolo sventrando un magnifico palazzo storico , sono uscito dal cinema. Perché scusate, sarà anche un’avventura, ma dove sta la differenza dai talebani che distruggono i Buddha? La differenza è che i talebani lo fanno per un delirio ideologico, Bond lo fa perché è scemo. E un eroe scemo mi diverte solo in Commedia, non in un film epico. E penso anche che se a quella scena uno si diverte e applaude è scemo due volte. E pericoloso.

Postato giovedì, 12 agosto 2010 alle 18:03 da Gianfranco Manfredi


Lasciami aggiungere solo una cosa, Gianni, e non è per sterile polemica. Ricopio da Wikipedia, per non essere unilaterale.
L’8 ottobre 1967 Ernesto Che Guevara venne ferito e catturato da un reparto anti-guerriglia dell’esercito boliviano – assistito da forze speciali statunitensi costituite da agenti speciali della CIA – a La Higuera, nella provincia di Vallegrande (dipartimento di Santa Cruz). Il giorno successivo venne ucciso e mutilato ai polsi e caviglie nella scuola del villaggio. Il suo cadavere venne esposto al pubblico a Vallegrande.
Il capo del governo boliviano era il generale René Barrientos che aveva preso il potere con un colpo di stato contro il riformista Paz Estenssoro. Soppresse con le armi ogni opposizione. i guerriglieri di Che Guevara, di questa opposizione, erano un’esigua minoranza.
Aggiungo di mio pugno che chi combatte contro un regime militare fascista merita ben più che rispetto, al di là del giudizio politico che si intenda dare di lui. E chi muore per una causa di giustizia non può essere sporcato con accostamenti a regimi di alcun genere fossero pure regimi democratici che finanziano e sostengono dei golpe contro governi democraticamente eletti.

Postato giovedì, 12 agosto 2010 alle 18:39 da Gianfranco Manfredi


E adesso faccio pausa, impugno la chitarra e mi canto per conto mio “Hasta siempre Comandante”!

Postato giovedì, 12 agosto 2010 alle 18:51 da Gianfranco Manfredi


Come avevo detto, sulla politica non insisto.
Complessivamente, condivido abbastanza ciò che dici tu, Gianfranco, e soprattutto ne sottoscrivo il tono “libero”, libertario e non paraocchiato.
Che poi nel 1968 i miei eroi fossero i riformisti radical Bob Kennedy e Martin Luther King e non il comunista Che Guevara (e 42 anni dopo non ho mutato idea), non cambia le cose: dopo tanto tempo io e te ci si ritrova vicini.
Comunque “Paranormal love” me lo segno e domani lo compro.
Da un paio di mesi leggo solo (in autobus) saggistica e (la sera, quando ho più tempo) la rilettura integrale di Magico Vento).
Da anni sono convinto di una cosa (e ci ho pure scritto dei capitolettini di Librobus, nei Millelire di Stampa Alternativa): le letture “divertenti” e di suspense pretendono sedute di lettura più prolungate delle letture “filosofiche” o “impegnate”. Dai libri di Schopenhauer o di Cioran o di Bobbio posso entrare e uscire anche avendo a disposizione pochi minuti: strappo un brandello di riflessione e poi ci rumino su. Ma per immergermi in una narrazione (romanzo, racconto o fumetto) ho bisogno di un tempo più prolungato.

Postato giovedì, 12 agosto 2010 alle 21:10 da luciano / idefix


Notizia per Gianfranco (se non la sai già):
ho letto su un sito che a novembre Mondadori pubblicherà Paranormal game, il seguito del romanzo della Showalter (che pare una trentacinquenne assai carina: http://www.wow-womenonwriting.com/18-FE4-GenaShowalter.html).

Postato giovedì, 12 agosto 2010 alle 21:23 da luciano / idefix


“… Urlerò come un indemoniato, assalirò barricate e trincee, macchierò la mia arma di sangue e, consumato dalla rabbia, scannerò tutti i nemici su cui metterò la mano”. ( Ernesto Guevara nelle sue Notas de viaje: Diarios en motocicleta de la ruta por Latinoamerica – Diari della motocicletta, scritti prima di impugnare il mitra per amore della Rivoluzione).
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Confesso che anch’io da giovane volevo morire per amore, poi ho finito col fare il giornalista e, nelle pause, con l’impugnare una chitarra e consultare, ahimè!, Wikipedia. Come dice anche Wikipedia: Hasta siempre Comandante”! :-)
Mah! Si vede che oggi da noi non ci sono più compagni disposti a morire per amore dell’Ideologia, a differenza di quanto accade invece dalle parti dell’islàm politico, con la sua gioventù verdeggiante e i suoi martiri-assassini, a un tempo esaltanti e oppressivi come il Che.
Si definiscono neo-shaid, con linguaggio religioso. Alcuni esempi , dai filmati di propaganda di Hamas:>
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1) Sete di sangue. Testamento dell’aspirante vampiro Adham Ahmad Abu Jandal.
http://www.youtube.com/watch?v=ywrosNdJZ9k

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2) Bambini aspiranti uomini-bomba che cantano inni al suicidio ( per amore più dell’ideologia che degli “oppressi”)
http://www.youtube.com/watch?v=illF1vt5g1Q&feature=player_embedded

Postato giovedì, 12 agosto 2010 alle 21:28 da Gianni De Martino


@ Gianfranco Manfredi (post dell’11 agosto, ore 2:28 pm)
Non è così scontato che le cose tra Pilato, Gesù e Barabba siano andate come le si raccontano (l’uomo del Potere che si rivolge al popolo, e il popolo bue che sceglie il delinquente piuttosto che quel profeta che aveva osannato sino al giorno precedente): il popolo rispose Barabba, o almeno questo udì Pilato, alla domanda “chi volete che io liberi?”, ma in aramaico “Bar Abbas” significa “il figlio del Padre”…

Postato venerdì, 13 agosto 2010 alle 00:39 da girolamo


Certo: i quattro vangeli canonici prsentano in modo differente la figura di Barabba (chi lo raffigura come un delinquente generico, chi come una specie di ribelle, chi come un assassino, chi come un brigante)
Inoltre, il testo greco di Matteo 27,16 usa il termine “legomenon Barabban” che si dovrebbe tradurre “detto Barabba” oppure “chiamato Barabba” o ancora “soprannominato Barabba”. Il che farebbe supporre che Barabba non fosse il suo nome vero e proprio, ma il suo soprannome.
Però Bar-abba vuol dire (in aramaico) genericamente “figlio del padre” e non “figlio del Padre”. Nel senso che “abba” (più che “padre” equivale all’intimo “papà”) non aveva per nulla un significato religioso (gli ebrei non avevano l’idea del Padre e del Figlio, che gli sarebbe sembrata pagana e politeista).

Postato venerdì, 13 agosto 2010 alle 09:00 da luciano / idefix


@ Gianni. Non voglio insistere, ma la citazione del Che, non rimanda a testi sacri, ma, che tu ci creda a no, al Sandokan di Emilio Salgari. Del resto basta leggere Garibaldi (e Byron) per trovare tonnellate di enfatiche celebrazioni guerriere come quella. I martiri suicidi non c’entrano un beneamato cazzo. Il Che non si è suicidato, è stato ucciso dagli aguzzini boliviani e dalla CIA. Continuo del resto a non capire la tua pronunciata avversione anti-islamica, quando basta leggersi il Deuteronomio per trovare inviti al genocidio di massa molto più furenti ed espliciti di quanti non se ne rinvengano nel Corano. Tanto per dire un’altra cosa che non c’entra niente, in questi giorni , lavorando a un nuovo romanzo, mi sto studiando la sconfitta dell’Invicibile Armata, e in particolare il naufragio di alcune sue navi sulle coste irlandesi. Non mi dilungo sugli orrori che ne seguirono. Voglio solo ricordare qui che l’infuriare della tempesta contro i galeoni spagnoli venne giudicato da Elisabetta I e non solo da lei come God’s Blew, il soffio di Dio, e lo spaventoso massacro come God’s Obvious Design. Chi è senza peccato, scagli la prima pietra.

Postato venerdì, 13 agosto 2010 alle 09:47 da Gianfranco Manfredi


In mezzo a Brosnan che abbatte palazzi storici a colpi di carrarmato, la folla che vuole salvare Gesù e si incasina con inconsapevoli giochi di parole, il Che e Hamas che prometteva (e promettono) fuoco e fiamme, la regina Elisabetta che scomoda addirittura il soffio di Dio (e pare l’allenatore del Paraguay che ai mondiali attribuisce la vittoria della sua squadra al tifo dell’Onnipotente), i giocatori coreani scomparsi nel nulla, e Sly Stallone che pare aver smarrito del tutto la trebisonda … Insomma, in mezzo a cotanto bailamme, anche se è dura, auguro a tutti un buon ferragosto. Piove (se Dio vuole) …

Postato venerdì, 13 agosto 2010 alle 12:34 da claudio vergnani


Per non parlare del vescovo austriaco che (non secoli e secoli fa) ma un paio di giorni fa (nel 2010 d.C.) ha detto:
“La Love parade è una ripugnante ribellione contro la Creazione e contro l’ordine divino…..ha a che fare con il peccato e, di conseguenza, anche con un Dio che giudica e punisce”
Quest’idea del Dio incazzoso che manda folgori, disgrazie, sciagure, malattie, catastrofi, pestilenze, lacrime, sofferenze e via toccando ferro è umanamente orripilante e teologicamente anticristiana.
Anche se (non lo nego) narrativamente fertile.

Postato venerdì, 13 agosto 2010 alle 12:41 da luciano / idefix


VITTIME DEI LIBRI ?
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@ Gianfranco. Mi pare che tra letteratura e vita ci sia la stessa differenza che tra una partita a scacchi e una battaglia in campo aperto. E che se un giovanotto oggi intendesse realizzare la Rivoluzione mettendo in pratica – come pare abbia fatto il Che – le celebrazioni guerriere del Sandokan di Salgari lo tratterebbero come una tigre. Una tigre vittima dei libri?
La crudeltà, osservava Artaud nel mezzo dei massacri della II guerra mondiale, è l’applicazione pratica di un’Idea.
Crudele è anche l’applicazione pratica della lettera dei testi considerati “sacri”, quando, mischiando sacro e profano, religione e politica, vengono considerati come indicazioni sui princìpi del governo. Alimentando così, su base scritturale, espressiva, fondamentalismi e terrorismi di Stato o di gruppi di fedeli ad oltranza.
Quanto al trionfo dell’Inghilterra – quattro secoli fa – sull’Armada Spagnola, è vero che fu considerato dai protestanti, Bibbia alla mano, come una prova del favore divino, come risulta evidente anche da una medaglia commemorativa dove si legge: Flavit Deus et dissipati sunt 1588, cioè “Dio Soffiò e furono dispersi, 1588”.
Il Dio dei monoteismi – come nota anche Luciano – ha non pochi tratti persecutori, astratti e violenti. Il Dio è anche “Signore degli eserciti”, e nella Bibbia numerosi passi descrivono la violenza punitiva di un Dio che ordina esplicitamente di uccidere. Quindi se si abitano case di vetro è meglio non gettare pietre.
Ma è proprio così? Non mi pare che il cristianesimo sia una religione del Libro, ma del mistero dell’Incarnazione e della novità dello spirito e di un reale più largo della Legge o della Sunna.
In ogni caso, oggi – dopo l’Umanesimo, il Rinascimento, l’olio dei Lumi, ecc – la Bibbia è aperta all’interpretazione e quello che si trova scritto nel Libro viene contestualizzato. Non così il Corano, che non può essere interpretato né sottoposto a ermeneutica o a una lettura storica.
Il Corano è essenzialmente una Legge o Sunna espressa in una lingua, l’arabo, che conterrebbe il Verbo divino. Purtroppo l’arabo classico, disperazione degli studenti in ogni parte del mondo arabo, finisce con il costituire una barriera che impedisce di pensare e di comunicare liberamente. E, poiché l’arabo è la lingua del Corano e dei commentatori coranici, diventa una posta di potere politico per poter continuare a monopolizzare il sapere religioso a fini politici e lavare il cervello a giovani senza difese. Ogni minima sciocchezza, purché “scritta” dagli Antichi, viene sacralizzata e presa alla lettera.

Sia nella Bibbia che nel Corano vediamo formarsi comunità attraverso la guerra e la violenza. L’uomo è violento. Ma se in un passo del Deuteronomio o altri libri del Primo Testamento si dice che Dio ordinò un massacro, non si tratta del Verbo divino fattosi suono e scrittura ma della narrazione di fatti storici, o presunti tali, limitati a quella popolazione e a quel periodo, non di una prescrizione teologica.
Questo mi sembra un punto decisivo. Nel Corano, invece, il Verbo si dà in un suono ( al qoran, recitazione) e nell’a-temporalità della lettera ( mektoub, è scritto). Il sole di Allah brilla fisso e immobile per sempre allo Zenith. E non sopporta ombre, perché chiunque la pensi diversamente è un nemico di Allah – come dimostra l’attualità dei tanti orrorri che si vanno moltiplicando “nel nome di Allah”: passando dalla dinamite che fece saltare le statue di Buddha alla recente esecuzione sommaria degli otto medici cristiani, tra i quali tre donne, oltre due collaboratori afghani, uccisi con raffiche di kalashnikov dai talebani perché avevano con sé – lo ha sottolineato un portavoce degli esecutori – delle Bibbie.
Poiché nel Corano è scritto: “ Uccidete questi associatori ovunque li incontriate, catturateli, assediateli e tendete loro agguati. Se poi si pentono, eseguono l’orazione e pagano la decima, lasciateli andare per la loro strada”, o anche: « Combattete coloro che non credono in Allah e nell’Ultimo Giorno, che non vietano quello che Allah e il Suo Messaggero hanno vietato, e quelli, tra la gente della Scrittura, che non scelgono la religione della verità, finché non versino umilmente il tributo, e siano umiliati”, indipendetemente dal contesto storico in cui “scesero” i famosi “versetti della spada”, i talebani credono che si tratti di una prescrizione divina valida sempre e comunque.
Insomma, in mancanza di una teologia della sconfitta ( come nel cristianesimo) realizzare il trionfo (fawz) e il successo (falah) , significherebbe ubbidire alle parole di Allah così come sono scritte ( mektoub) una volta per tutte, oltre il tempo e lo spazio, nel sacro Corano. Cristiani e musulmani hanno fatto numerose guerre, ma solo nell’islam la volontà del Dio si realizza, quando è necessario, attraverso la violenza sacralizzata, fino a quando l’universo mondo non si sottomette ad Allah. Così è scritto.
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“La scrittura – osserva Safouan – è una censura non dichiarata, che abolisce il pensiero dei sudditi; il rifiuto di riconoscere le differenze equivale a negare agli analfabeti la parola sul proprio destino”. Insomma, come ci diciamo da duemila anni, trovando non poche difficoltà a diventare più buoni : “Dobbiamo imparare a vivere insieme come fratelli e sorelle o periremo insieme come folli”.
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A tale proposito suggerirei la lettura di ‘Perché il mondo arabo non è libero. Politica della scrittura e terrorismo religioso’ di Moustapha Safouan (Spirali Edizioni). http://www.spirali.com/libro/9788877708434/perche-il-mondo-arabo-non-e-libero-politica-della-scrittura-e-terrorismo-religioso/

Recensione: >

http://giannidemartino.splinder.com/post/19178699/Perch%C3%A9+il+mondo+arabo+non+%C3%A8+

Postato venerdì, 13 agosto 2010 alle 14:27 da Gianni De Martino


@Gianfranco.Stasera dovrei vedere “Il nido del ragno” domani provero a scrivere le mie impressioni.Stamattina ho ritirato la copia de “Il sangue del vampiro” che avevo ordinato,ma per leggerlo dovrò attendere ancora un pò visto che sto leggendo altro ora.Dato che “Il sangue del vampiro” è un romanzo di vampiri della Londra vittoriana,ma pre-Dracula sono convinto che offrà elementi interessanti e anche qui una volta letto ne parlerò.
Sulla religione,indipendentemente da Islam o da Cristo ho sempre avuto l’impressione che i problemi nascesserò quando da esperienza privata e spirituale dell’individuo essa muta in istituzione,iniziando così a invadere altri ambiti,come quelli del potere temporale.

Postato venerdì, 13 agosto 2010 alle 15:28 da Francesco Moretta


Sai com’è, Gianni, viviamo un periodo confuso sotto tutti i profili, anche quello dell’indagine storica, basti pensare alle polemiche revisioniste sul risorgimento, le accuse di terrorismo a Mazzini, l’apologia (indubbia) del Terrore contro i Tiranni di Carducci, l’elenco delle atrocità dei patrioti ogni santo giorno implementato dai leghisti, o da nostalgici di chissà cosa, riscrittori di dozzina della storia nazionale che fondamenti ne trovano quanti ne vogliono tanto più se la vulgata ufficiale è retorica. La Storia non è un pranzo di gala , né ritengo (pur avendo trovato illuminanti molti scritti di Nietsche) che la violenza sia levatrice della Storia , a meno di non pensare che le ripetute stragi degli innocenti siano servite a propiziare tempi nuovi. Non c’è salvezza fuori dallo spirito critico e da una valutazione non fanatica di fatti e misfatti, anche (perché contano) sulla base dei risultati. Guardare alla NOSTRA Storia è utile, se non altro perché più agevole che fare gli esegeti degli altri. Papa Pio V scomunicò e DEPOSE Elisabetta I , proclamandosi nella bolla Regnans in excelsis in diritto di farlo in quanto Rappresentante di Dio in Terra di fare e disfare, “edificare e distruggere” qualunque eretico, Governo, Regno Terreno, per suo insindacabile giudizio (e ben al di là dell’interpretazione dei testi sacri) . Ma vogliamo continuare a inseguire e a rinfacciarci i deliri? All’apparenza l’opinione pubblica occidentale è diffusamente pacifista e non violenta, temo (lo ha detto anche il buon Pannella) che spesso si confonda la non violenza con la vigliaccheria e con l’indifferenza, in nome di un’idea piccolo borghese del quieto vivere, che preferisce non valutare circostanze, torti e ragioni. Siccome appena si apre il libro della Storia, qualunque epoca si consideri, il suddetto libro gronda sangue, che si fa? Lo si chiude? Ritengo umilmente che al di là e attraverso i conflitti in corso, se c’è una cosa buona che è spuntata negli ultimi due decenni è un atteggiamento criticamente sincretista (sulla linea di quanto, ad esempio, espresso nei suoi libri da Romano Madera) che in sostanza non significa accogliere tutto e il contrario di tutto giustificando l’ingiustificabile, ma nello sforzarsi di comprendere e di arricchirsi con il meglio delle diverse tradizioni culturali e religiose, e il meglio non è sempre quello che ci fa comodo. Ogni atteggiamento aprioristico che tenda a vedere nelle Culture (e in certe culture in particolare) dei Monoliti è errato, se non altro perché non c’è Pensiero né Ideologia che non ospiti in sé una feconda contraddizione. Il lavoro dei letterati, almeno di quelli che non si consegnano mani e piedi a un Verbo ideologico, è recuperare verità anche attraverso il disegno di personaggi , percorsi biografici, e narrazione di storie.Compito tutt’altro che facile. Ricordo quando mi studiavo per una serie televisiva la Storia delle Crociate e in particolare quella degli Assassini (da Hashish secondo alcuni interpreti) del Grande Vecchio, e mi perdevo nei loro neanche tanto occulti rapporti con i Templari che in teoria avrebbero dovuto stare dalla parte opposta… c’era davvero di che farsi fondere il cervello… è la Complessità, credo, a spaventarci, eppure la Complessità è la migliore alleata della ragione (con la erre minuscola, cioè come fallibile strumento interpretativo). Ogni riduzionismo semplificatorio rischia di condurci lungo i percorsi dell’Intolleranza, proprio quella che magari supponiamo di combattere. I bombardamenti indiscriminati, le mini-nuclear weapons di Bush senior, le bombe a grappolo che seminano vittime anche a guerra finita, non sono certo più “civili” (perché tecnologiche) degli attentati. Su questo credo siamo tutti d’accordo. E d’altro canto, non essendo affatto noi migliori dei nostri padri, chi non ha mai pensato… cosa farei in una situazione di guerra di liberazione? Mi chiuderei in casa in attesa che passi? Mi schiererei impugnando il fucile? Spero che arrivi qualcuno a bombardare o magari che un’immane catastrofe naturale riduca tutti a più miti consigli facendo piazza pulita senza che nessuno di noi debba sporcarsi le mani? I momenti delle scelte non li decidiamo noi, ce li ritroviamo serviti in tavola. Possiamo anche metterci a cantare “La Storia siamo Noi”, resta il fatto che noi siamo la Storia tanto quanto siamo la Geografia. Possiamo scegliere, in circostanze date, per noi stessi e ciascuno assumendosene la responsabilità e valutando per quanto si può e si riesce ogni singolo atto, ma non possiamo scegliere i Destini del Mondo perché non ci appartengono, ed è risibile e blasfema (come giustamente dice Luciano) la scappatoia: “E’ Dio che l’ha stabilito”, da qualunque parte risuoni.

Postato venerdì, 13 agosto 2010 alle 15:29 da Gianfranco Manfredi


Appena postato, ho letto l’ultima nota di Francesco. In effetti si può rilevare che ogni grande movimento religioso e di pensiero, alle origini, non solo si presenta, ma è indirizzato alla liberazione, poi per chissà quale misteriosa stortura, contaminandosi al Potere si muta nel suo esatto opposto. Il Pensiero Critico ci aiuta se non altro a dubitare per tempo, e a spargere qualche allarme, senza aspettare il DOPO.

Postato venerdì, 13 agosto 2010 alle 15:34 da Gianfranco Manfredi


Periodo confuso sotto tutti i profili. E, per fortuna o sventura, abbastanza nichilista per tentare la fortuna nel vuoto e – proprio attraverso il nichilismo – incontrare il mistero, più che il solito enigma.
A patto di non fare la fine di Nietzsche. E naturalmente neanche di qualche ex-punk o attricetta neo-convertita a Gesù, con il culo ( l’attricetta, ma forse qui rivelo incidentalmente e senza volerlo il mio maschilismo) ancora fresco di calendario.
Sono d’accordo, Gianfranco: aggiungerei che nel rifiuto della complessità si annida la tirannia.
Da qualsiasi parte risuoni ( cristianesimo, islamismo, buddhismo, induismo, laicismo ed altri ismi ) nel rifiuto della complessità e del lumicino vacillante del cosiddetto pensiero critico ( che non è ancora il soffio o l’alito lieve dello Spirito Santificatore) si annida la tirannia.
E’ anche vero che, nonostante gli allarmi, nella maggior parte dei casi si resta spettatori degli orrori, in una specie di attesa inerte verso l’esterno.
“Non è qui”. Chi può dirlo ? Solo un angelo.
Per noi – creature letterate, nonché tagliate dal “prima” e dal “dopo” – forse non è mai troppo tardi ( o troppo presto) per una buona resurrezione personale e generale.
Non un vampiro uscito dalla tomba vuota tutto occhi e muffa, ma – perché no? – un venticello gentile tra le maglie vuote di tante attese vane ed emozioni negative.
Senza aspettare il dopo, raccontiamoci una bella storia e speriamo che si levi il vento. Con l’augurio di buone “vacanze” a tutti. :-)

Postato venerdì, 13 agosto 2010 alle 17:07 da Gianni De Martino


Eh, già… l’attesa inerte, mai così sentita come in questa straziante agonia di ancien régime vissuta come se fosse roba loro… che se venisse (Dio non voglia) la tentazione di imbracciare il fucile, sarebbe quello di Hemingway. Magari sprofondare in un bel racconto dell’orrore è terapeutico, dopo si potrà sempre esclamare: Gianni! Ma come si fa a non essere ottimisti! (Qui ci dovrebbe stare lo smile, ma come ho già precisato sono incapace di inserirlo). Vado a leggere! Ho “Il lupo delle tenebre” da finire. Stavo scrivendo, per la verità, e anche fluidamente, ma mi sono fermato prima di una scena in cui i miei eroi trovano dodici cadaveri appesi in una chiesa… oggi non mi andava di scriverla.

Postato venerdì, 13 agosto 2010 alle 17:23 da Gianfranco Manfredi


ADDENDUM
Se il Vampiro potesse parlare, forse direbbe: ” E’ il mondo a vivere un periodo confuso, io sono chiaro, bianco per sempre”. In ogni caso, anche se forse non impossibile è difficile capire il punto di vista di un morto non-morto. Secondo me i Vampiri in qualche modo esistono, altrimenti non si spiegherebbe perché quei mostri insistano tanto. In noi, in letteratura e nei blog.

Postato venerdì, 13 agosto 2010 alle 17:36 da Gianni De Martino


I bambini l’azzeccano sempre. A loro piace molto la storia del Lupo delle tenebre. Ancora di più se lo si finisce nel letto ( Uh! Un Lupo nel letto? ).
:-)

Postato venerdì, 13 agosto 2010 alle 17:49 da Gianni De Martino


Ancora di più se LA si finisce nel letto ( Uh! Un Lupo nel letto? ).

Postato venerdì, 13 agosto 2010 alle 17:51 da Gianni De Martino


Eh, già… Le storie, nella maggior parte dei casi, non finiscono imbracciando la spada di Sandokan, il mitra del Che o il fucile di Hemingway, ma in un letto.
Le storie finiscono nel letto? Magari fra lenzuola troppo bianche? Insomma, non nel trionfo, ma in un gemito quasi lupesco ?
-
( Al limite – “al limite”, come direbbero i situazionisti – lascio stare finalmente lo smile, rida chi ancora una casa e un letto per leggere, rida chi può).

Postato venerdì, 13 agosto 2010 alle 18:28 da Gianni De Martino


Molte storie cominciano a letto. Le più interessanti, nella vita.

Postato venerdì, 13 agosto 2010 alle 21:41 da Gianfranco Manfredi


IL NIDO DEL RAGNO
Alan Whitmore un giovane professore universitario di religioni orientali viene inviato a Budapest per contattare il professor Roth.Quest’ultimo in quanto membro di un progetto dedito allo studio di un antica religione era sul punto di fare sorprendenti scoperte,prima di interrompere ogni contatto.Toccherà quindi a Whitmore scoprire cosa gli è accaduto e confrontarsi con un antica setta che adora oscene divinità….
Ho visto questo film ieri sera e l’ho trovato imperfetto,ma godibile.
La regia purtroppo non riesce a creare un completo clima d’angoscia,sembra quasi che il regista non voglia insistere con il lato più morboso della vicenda.Alcune inquadrature sono poco azzecate (si vedano ad esempio quelle usate per i volti degli attori durante un dialogo in auto) e valorizzano poco l’ambientazione a Budapest.(Che anche se non completamente valorizzata rimane però uno dei punti di forza)Nell’esecuzione dei delitti mi è sembrato che il regista si sia un pò rifatto al Dario Argento di “Suspiria” e “Inferno”,anche per un certo uso di luci e colori.(Certe virate al verde o al blu)L’omicidio di una giovane cameriera è una sequenza ben costruita,mentre quello di un antiquario appare costruita in modo goffo.Gli effetti speciali di un giovane Stivaletti sono più che dignitosi e anzi la creatura del finale è abbastanza impressionante.(Anche se un pò ricorda una delle trasformazioni de “La Cosa” di Carpenter)Comunque il film mi è piaciuto,anche per via di un suo carattere Lovecraftiano,la presenza di una setta,i Tessitori volti ad adorare antiche divinità.(Elemento che nel remake “Dylan Dogghiano” do questa storia è approfondito)In sostanza un film non del tutto riuscito,ma che si merita almeno una visione.

Postato sabato, 14 agosto 2010 alle 11:02 da Francesco Moretta


Segnalo che stasera e domani sera su Raitre per Fuori Orario dovrebbero trasmettere solo film dell’orrore.Ecco il programma:
Sabato 14 dalle 00:40
-IL giardino delle torture
-La morte va a bracetto con le vergini
-Il club dei mostri
-Il mostro di Londra
Domenica 15 dalle 01:30
-The last winter
-La cosa da un altro mondo
-Cigarettes burns

Postato sabato, 14 agosto 2010 alle 11:08 da Francesco Moretta


IL PIPISTRELLO NEL LETTO
.
Ho letto che in Perù è stato lanciato un allarme al Ministero della Salute per un’invasione di pipistrelli vampiri che attaccano le persone mentre guardano la televisione, o il più delle volte nel sonno. Al momento ne hanno già morse circa 500, uccidendone 4.Ogni volta che la gente del villaggio di Urquasasi accende la tv o si addormenta, vive nell’incubo che i piccoli animali possano arrivare da un momento all’altro e succhiare il proprio sangue. I pipistrelli affamati sarebbero portatori di “rabbia”, una malattia che li avrebbe appunto indotti ad attaccare anche gli esseri umani. Secondo alcuni osservatori gli stormi di pipistrelli vampiro sarebbero fuori controllo a causa dell’intensa di attività di deforestazione in corso nella zona, che li priva del loro habitat naturale sito in Perù, verso il confine con l’Ecuador.
( video http://www.youtube.com/watch?v=OhOzOrdaq5k ).

Postato sabato, 14 agosto 2010 alle 11:29 da Gianni De Martino


Fantastico! Pipistrelli vampiri all’assalto di vampirizzati dalla TV!
@ Francesco. Troppo buono, nel giudizio su “Il nido del Ragno”. Io per riscrivere di sana pianta la sceneggiatura originale e invecchiata di Tonino Cervi che al tempo in cui era stata scritta intendeva essere un’exploitation de l’Esorcista, avevo completamente cambiato rotta e mi ero ispirato a uno straordinario racconto di Ewers (Il ragno) . Il mio errore, tra gli altri, fu di pretendere troppo da un film che sarebbe stato fatto con pochi soldi. Ad esempio nella lunga sequenza del protagonista che si perde per Budapest, io avevo previsto un effetto speciale che al tempo non si poteva proprio realizzare e che avrebbe richiesto un’ambientazione notturna e inquadrature deliranti e ottiche particolari: volevo dare l’impressione che i vicoli e i palazzi si restringessero sul protagonista, sbarrandogli ogni via di uscita, come in una sorta di labirinto in costante sviluppo. Questo effetto è stato realizzato soltanto dieci anni dopo, ricorrendo alla computer grafica, nel film Dark City del 1998. Purtroppo per chi ama il cinema fantastico, anche se rodato dall’esperienza e dal professionismo, è facile cadere nelle illusioni e dimenticarsi di quale cinema si può fare, al di qua di ciò che si vorrebbe, in Italia. Le cose di pura invenzione che mi sono piaciute perché ben realizzate? La misteriosa pallina che rimbalza sugli scenari dei delitti e che poi si rivela essere un bizzarro “uovo” di ragno. Il rito della setta con penetrazione del ragno in vena, ben realizzato da Stivaletti nei limiti del passo uno. La performance dell’attrice locale, un’artista circense di quelle che si trovano solo all’est, e i cui balzi da ragno sono assolutamente autentici e fisici , anche se sarebbero stati resi più terrorizzanti da tagli di luce ed ombre che avevo indicato, ma che evidentemente non si potevano fare per carenze del reparto luci. E come ho detto, un paio di situazioni erotiche, nelle quali per tradizione, i registi italiani sono più bravi ed espressivi di quelli americani, e cui le attrici italiane si prestano con molti minori impacci delle americane.

Postato sabato, 14 agosto 2010 alle 13:32 da Gianfranco Manfredi


Ah… l’attore americano scelto come protagonista del film e appena uscito da qualche scuola di recitazione, non si è più visto, o se si è visto nessuno se ne è accorto. Era molto motivato. Per guadagnarsi la parte, dopo un provino di non particolare riuscita, si è ripresentato con la barba, avendo notato che il regista , Gianfranco Giagni, la portava. Il che ha non poco contribuito a guadagnarsene la simpatia. Per la serie… uno ci ride, ma poi sceglie proprio il tipo. E qui entra in ballo un altro problema che si nota in molti film italiani di genere quando si sceglie un attore americano giovane per protagonista (scelta, nel caso, giustificata dal fatto che il film comincia e finisce a Dallas). Molti registi italiani imboccano in un’idea stereotipata di americano belloccio e giuggiolone, così come i registi americani se si devono scegliere un attore italiano prendono uno che sembra uscito da una fotografia anni cinquanta, belloccio, latino nel modo più stereotipato possibile, e con una punta di mafioso. Nei film americani dell’orrore in genere i giovanotti pimpanti e tutta salute che sembrano sempre usciti da un Fast Food con la Coca Cola in mano e le scarpe da ginnastica ai piedi, i registi americani li gettano subito in pasto al mostro di turno, mentre come protagonista si scelgono sempre uno con una faccia europea, tratti nervosi, fisico asciutto, del tipo tenebroso, e possibilmente intenso nella recitazione drammatica, cui ovviamente il tipo palestrato e con mascella da Clark Kent non si presta gran che. Il fatto poi che nel “Nido del Ragno” compaia la grande Stéphane Audran, attrice quanto mai intensa e carismatica, rende il confronto davvero impietoso. Però devo ammettere che i difetti stanno anche nella sceneggiatura che parte lenta , accelera piano, e poi si sfoga in un finale furibondo. La sequenza iniziale che doveva essere pre-titoli (e forse così è rimasta, non ricordo, non avendo più rivisto il film) doveva rappresentare il vissuto infantile angoscioso del protagonista che da piccolo era rimasto intrappolato in un armadio e si sentiva minacciato dai vestiti appesi e poi da un ragno che calava su di lui. Essendo quella scena delirante venuta male, sarebbe stato meglio tagliarla, anche perché poi si stacca su un’autostrada soleggiata d’ingresso a Dallas e si ha l’impressione che cominci un altro film. Oltretutto la scena introduttiva , dopo si affida al protagonista una missione molto particolare, poi stacca di nuovo su Budapest. Insomma, è come se il film avesse tre inizi. Questo è un errore da fretta che capita frequentemente quando si deve riscrivere una sceneggiatura da capo e si hanno a disposizione pochi giorni. Qualcosa della vecchia struttura deve pur essere mantenuto, e così si soprappongono racconti diversi che uno sull’altro si incasinano e rallentano. Bisognava avere il tempo di rileggere il tutto a mente fredda e di ristrutturare la prima parte. Se certe situazioni fossero state inserite a FLASH BACK, la lunga preparazione per arrivare al centro della vicenda, sarebbe stata se non altro più mossa e animata. Ovviamente dopo sono capaci tutti, ma il problema del cinema, allora, nei film a basso costo e non solo, era che capitava spesso di dover scrivere e consegnare in una settimana. Ricordo che uno lo scrissi in tre giorni. Non lo firmai per la vergogna e invece fu un successo, però non svelerò mai che film è, perché un po’ mi vergogno ancora… nonostante capiti che grazie alla moda dei ripescaggi trash certe cacate vengano apprezzate, mentre cose quantomeno dignitose e professionali precipitino nell’oblio. Comunque, tutto fa esperienza. Chi ha paura di sporcarsi le mani dimentica che il cinema non si fa coi guanti.

Postato sabato, 14 agosto 2010 alle 17:42 da Gianfranco Manfredi


Un altro problema (e poi concludo augurando a tutti buon ferragosto) è: come si fa quando si lavora con un regista al primo lungometraggio? Suso Cecchi d’Amico disse: “Se non so come un regista gira e qual è il suo stile, non posso scrivere per lui.” Parole sante, perché la sceneggiatura è una scrittura per immagini e di servizio a chi le immagini le dispone,gira, taglia, ritma e organizza. Però se il regista è un debuttante che si fa? Intanto si scrive, in stretto contatto con lui, e poi si resta a vedere i risultati. Altro non si può fare. Del resto, il primo film di molti registi, spesso risulta più bello di quelli che questi registi hanno fatto dopo. In cinema, le regole sono teoriche, il lavoro è qualcosa di estremamente pratico.

Postato sabato, 14 agosto 2010 alle 18:00 da Gianfranco Manfredi


@Gianfranco.Buon ferragosto anche a te e a tutti coloro che seguono il dibattito.In effetti nel parlare del film forse sono stato troppo buono,ma di solito cerco di trovare lati positivi anche in film non riusciti.La scena iniziale sembra proprio posticcia è una delle cose meno riuscite del film,mentre il rituale del ragno è piaciuto molto anche a me.Ti ringrazio per gli aneddoti che hai raccontato,li ho trovati interessanti.(Sono piaciuti anche a mio fratello che è un patito di aneddoti sulla lavorazione dei film)So che il film fu distribuito all’estero con il titolo “Labyrinth” e che in alcuni paesi è diventato di culto.(Il Giappone è uno di questi)Concludo collegandomi alla notizia dei pipistrelli vampiri in Perù,mi sembra che anche in Brasile avessero lamentato problemi simili qualche anno fa.Tutto ciò mi fa venire uno degli articoli di giornale che in “Hanno sete” parlava degli spostamenti dei non-morti segnalando un invasione di pipistrelli nel sud.Che la realtà stia cercando di imitare la fantasia?

Postato sabato, 14 agosto 2010 alle 19:42 da Francesco Moretta


Buon ferragosto a te, Gianfranco… e a tutti i partecipanti alla discussione.

Postato sabato, 14 agosto 2010 alle 20:07 da Massimo Maugeri


Non ho partecipato per un paio di giorni alla discussione perchè sdoppiato in due ruoli (diversi e complementari):
prima, scrittore barbuto che riceve a casa propria la visita di una propria lettrice romana di undici anni (con papà e mamma)
e poi, lettore/amico che va a Venezia a trovare il suo amatissimo Alberto Ongaro per discutere anche dell’intervista con cui apriremo il festival della letteratura di Mantova.
Riprendo un tema lanciato da Gianni e Gianfranco: il rapporto con la complessità e il confronto con gli altri. Dal campo religioso, vorrei spostarlo a quello orrorifico/fantastico.
Con gli anni, mi sono convinto che uno degli antidoti (dico UNO perchè ce ne sono molti altri) al fanatismo e all’intolleranza lo si possa ciucciare e metabolizzare leggendo e guardando storie di fantascienza, fantasy e dell’orrore. Perchè ci costringono a tenere ben aperti gli occhi e a spostare il nostro sguardo in ogni direzione, perchè ci obbligano a pensare (e a vivere) mondi ed esseri da noi lontanissimi. Quanto mi ha insegnato (come apertura mentale) leggere romanzi con gli alieni? Scoprire civiltà extraplanetarie con corpi sessualità usi costumi filosofie etiche radicalmente differenti dai nostri? (E per “nostri” non intendo i triestini o gli italiani oppure gli europei e nemmeno gli occidentali ma gli stessi terrestri in quanto tali)
Ma non solo: alcune volte questa narrativa/cinematografia/fumetteria mi ha permesso un ulteriore passo in avanti. E cioè ha fatto sì che io vedessi “noi” attraverso gli occhi degli “altri”.
E non si può mai conoscere se stessi, la propria fede o ideologia, le proprie usanze o manie finchè non riusciamo a vederci così come ci vedono gli “altri”.
Certe storie e certi autori ci aiutano a farlo. Oltre a raccontarci delle appassionanti “fabule”.

Postato lunedì, 16 agosto 2010 alle 12:16 da luciano / idefix


VAMPIRI CINESI

A proposito di “fabule”, avete visto film di vampiri cinesi? Io me ne sono occupato un po’, per pura curiosità, all’inizio, stimolato da un film affascinate nella sua stranezza, “Storie di fantasmi cinesi” (il primo) che restituiva a mio avviso al fantastico, in occidente sempre più impigliato in un realismo tanto esasperato quanto finto, un clima folclorico e favolistico che qui da noi pare smarrito, un tipo di racconto che, proprio come le favole, sembra non avere un binario e passa di continuo dal poetico all’orrido, passando da infinite sfumature, che ospitano il sentimentale, l’epico e il comico. Questa trasversalità ai generi (ancor più accentuata nei film cinesi che trattano specificamente dei loro vampiri, gli Shang-Chi), da noi è stata battezzata nella confusa fonte del cosiddetto post-modern anni 80, ma in Cina pare invece affondare in una tradizione pre-modern, comunque di lunga data. In letteratura, non saprei. Ho letto anni fa, un romanzo breve su le donne volpi, ma non si è tradotto molto e il repertorio folclorico cinese credo resti per noi ancora inesplorato. Perché dico questo? Beh, riflettevo sulla notizia di oggi, secondo cui la Cina ha superato il Giappone nella gerarchia delle potenze industriali, collocandosi al secondo posto, dopo gli Stati Uniti. Un secondo posto apparente, visto che i prodotti tecnologici americani di punta (Ipod e Ipad inclusi) sono tutti Made in China. Nel campo dei fumetti, che conosco meglio, questo si è visto già da parecchi anni. Il Giappone certo, in campo fumettistico, si è posto all’avanguardia, nel mondo, ma per il momento non è riuscito ad andare al di là di una cultura grafica e narrativa nazionale e ben codificata in parametri piuttosto costrittivi. Degli sforzi si sono fatti e si stanno facendo, però nel frattempo è in Cina che si colorano e si stampano i fumetti creati in America, e questo know how certo consentirà loro, nei prossimi anni, di produrre in proprio fumetti in grado di competere davvero sul mercato occidentale, nel solco del resto del loro cinema, molto più integrato ( e non da ieri) a quello americano, di quanto non sia il cinema giapponese. La Cina è davvero uno strano paese, cui non dedichiamo sufficiente attenzione, per quanto dovremmo. Al di là (anche se non a prescindere) del giudizio che diamo del loro livello di democrazia, chiaramente intaccato alla radice da un sistema che Marx stesso qualificò come “dispotismo asiatico”, e al di là del giudizio politico che ciascuno di noi può dare di Mao Tze tung e dell’eredità che ha lasciato, è indubbio che un paese che passa in meno di un secolo da condizioni feudali, a un’economia totalmente asservita al colonialismo, poi nazionale e pianificata rigidamente, e infine a paese guida dello sviluppo mondiale, senza che nessuno possa facilmente ricondurlo a un modello definito, beh è un paese di una vitalità sorprendente. Il paradosso per noi Italiani, è che la nostra letteratura e la nostra Storia Patria, sono sempre state molto popolari in Cina. Me ne sono reso conto perché sto scrivendo una nuova serie a fumetti, ambientata nella Cina dell’anno 900. Non mi aspettavo di scoprire documentandomi , che al tempo il nostro Risorgimento, come guerra di indipendenza nazionale e come rifondazione-invenzione statutale, era stato un modello di riferimento importantissimo per gli indipendentisti cinesi. Ma il loro interesse culturale per l’Italia andava ben oltre a questo, spaziando dall’Impero Romano a Dante Alighieri. Si può dire che la Cina conoscesse l’Italia, assai più di quanto noi discendenti di Marco Polo, conoscessimo la Cina. Oggi forse le cose sono cambiate, in quanto , da protagonista sullo scenario mondiale, la Cina è meno interessata all’Italia di quanto dovremmo essere noi a conoscere la Cina (anche se l’interscambio spontaneo è assai più intenso di quanto non si sospetti, e il numero degli italiani che lavorano in Cina cresce a livello esponenziale). Inoltre noi tendiamo, anche da non legisti, a considerare con una certa sufficienza il Risorgimento (le recenti celebrazioni garibaldine e quelle previste per l’Unità d’Italia, sembrano non interessare nessuno) e orientarci verso un modello di sviluppo a crescita zero (se va bene) e a destinazione puramente casalinga (se non regionale) . Prefigurazione di nuovi scenari o (come penso) dissoluzione finale da putrefazione? Oddio… putrefazione o meno, sono uscito dal vampirismo, eppure… credo che lasciandoci vampirizzare dai vampiri cinesi, forse rimetteremmo in circolazione sangue nuovo nelle nostre vene. Se loro ci hanno trovato seducenti in passato, non sarebbe ora di ricambiare? Chi ha visto e apprezzato film o storie di vampiri cinesi, alzi la voce. Io me ne sono goduti diversi, ma ammetto di non essere riuscito a cogliere certe sfumature riferite alle loro tradizioni folcloriche, filosofiche e religiose. In particolare: nella sottolineatura di certi tratti comici, i cinesi intendono irridere a certe credenze popolari, oppure l’ironia è parte integrante di queste stesse credenze? Questo, almeno per me, è sempre stato molto difficile da stabilire. Se ci pensate bene, ciò vale anche per le nostre favole… tenderei a escluderlo per la nostra religione nazionale, i cui custodi (inclusi gli atei devoti) sembrano offendersi e sbraitare per un nonnulla.

Postato martedì, 17 agosto 2010 alle 00:32 da Gianfranco Manfredi


Gianfranco: leggo il tuo commento e resto a bocca aperta come un banale pesciolino: perchè nel mio blog ho appena inserito un post proprio sul Pil cinese intitolato “Il Dio PIL cinese ce l’ha più lungo del Dio Pil giapponese (ricordando Bob Kennedy)”
Alla fine di questo commento (se a qualcuno interessa) lo riporto per intero.
Il film cinesi su vampiri e fantasmi? Sì, ne ho visto qualcuno (iniziando da Storia di fantasmi cinesi che era piaciuto un sacco anche a mia moglie, così diverso dai “nostri” schemi, così libero, almeno per i “nostri” parametri). Tanto trovo invedibili certi horror giapponesi (pochi stilemi mi irritano come le bambine coi capelli lunghi davanti al viso a nascondere il volto), tanto mi pare sanamente anarchico certo horror-fiabesco cinese. E purtroppo lo frequento poco (sia nella vallata cinematografica che in quella vallata letteraria). Però uno dei più bravi scrittori “giovani” di fantascienza americana è proprio di origine cinese: Ted Chiang (http://www.cicap.org/new/articolo.php?id=200241 e http://www.fantascienza.com/magazine/notizie/11737/le-storie-della-vita-di-ted-chiang/). Oltre a un altro autore di sf che io amo tanto (Cordwainer Smith) che era intriso di cultura cinese.
Mentre il Giappone è molto molto spesso scenario per la fantascienza “recente” (basti pensare a Wiliam Gibson, a Bruce Sterling, al cyber-punk) ma per certi versi “contamina” di meno la sf. D’altro canto, un autore come Murakami Haruki scrive opere che vanno di frodo da un territorio (realismo) a un altro (fiabesco) ad altri ancora (fantascienza vera e propria od horror).
Ma ecco il mio post sul Dio Pil.
IL DIO PIL CINESE CE L’HA PIU’ LUNGO DEL DIO PIL GIAPPONESE (ricordando Bob Kennedy)
Oggi i quotidiani hanno articoloni e commenti su una notizia:
nel secondo trimestre 2010, la divinità cinese Pil ha pisciato più lontano di quella giapponese Pil e (andando avanti a questo ritmo) nel 2015 o 2030 supererà anche la divinità statunitense Pil per salire sul trono del dio Pil più cazzuto di tutto il Mondo.
Tradotto in linguaggio economico, il Prodotto Interno Lordo cinese (5.430 miliardi di dollari) ha superato quello giapponese (5.156 miliardi di dollari) e sta inseguendo quello americano (14.799 miliardi di dollari).
Quarantadue anni fa, il 18 marzo 1968, Bob Kennedy fece un discorso agli studenti della Kansas University.
Eccone un frammento:
“Non troveremo mai uno scopo per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni.
Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, nè i successi del paese sulla base del Prodotto Interno Lordo.
Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.
Il PIL mette nel conto le porte blindate per le nostre case e le prigioni per chi cerca di scassinarle. Comprende la distruzione dei nostri alberi e la perdita delle nostre meraviglie naturali, dovuta alla sgregolata crescita urbana. Il PIL comprende programmi televisivi che esaltano la violenza per vendere giocattoli ai nostri bambini. Cresce con la produzione del napalm, dei missili e delle testate nucleari. Comprende anche la ricerca per disseminare la peste bubbonica. Si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte e non fa che aumentare quando sulle ceneri delle case si ricostruiscono i bassifondi popolari.
Ma il PIL non tiene conto della salute dei nostri figli, della qualità della loro istruzione e nemmeno del fatto che possano giocare con gioia. Non comprende la bellezza della nostra poesia né la solidità dei nostri matrimoni, l’intelligenza del nostro dibattito collettivo o l’onestà dei funzionari pubblici. Non tiene conto della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità dei rapporti fra di noi.
Il PIL non misura né il nostro humour né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese.
In breve, il PIL misura tutto, salvo ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta.
Sa dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani”
Allcuni mesi fa, ne parlai già sul mio blog:
http://lucianoidefix.typepad.com/nuovo_ringhio_di_idefix_l/2010/02/la-stronzata-del-pil-il-discorso-di-bob-kennedy-del-18-marzo-1968.html

Postato martedì, 17 agosto 2010 alle 09:47 da luciano / idefix


@Luciano.Il tuo commento mi ha riportato alla mente un racconto di Sheckley “I mostri” e un romanzo di DAvid Gerrold/Larry Niven “Pianeta Stregato” due opere di fantascienza in cui il rapporto con il diverso è il tema centrale.Nel primo si assiste ad un contatto tra un gruppo di astronauti e una razza di alieni le cui abitudini sono per i nostri canoni morali sconvolgenti.(Per evitare la sovrapopolazione hanno reso legale l’uccisione delle loro femmine)La vicenda è vista con gli occhi degli alieni,cosa che rende tutto ancora più straniante. Il secondo è un romanzo dal taglio più antropologoco,pubblicato nel 1997 su Urania.Anche qui il punto di vista è di una razza di alieni antropomorfi,la cui vita ricorda le grandi popolazioni semplici della terra.Porpora uno scienziato terrestre giunge su questo mondo per studiarlo e si ritrova a interagire con i nativi,mostrandosi dapprima arrogante e finendo poi con il simpatizzare con quest’ultimi.(Anche a causa di una serie di circostanze che non anticipo,se trovate questo libro ve lo consiglio caldamente)

Postato martedì, 17 agosto 2010 alle 10:42 da Francesco Moretta


@Gianfranco.Io confesso di non aver visto film sui vampiri cinesi,(anche se recentemente ho recuperato due ottimi fumetti giaponesi sui vampiri “The laughing vampire” di Suheiro Maruo e “Lament of the lamb” di Kei Toume,entrambi molto belli e particolari,lontani da certe mode attuali) dato che tu ne hai visti molti quali consiglieresti ad un neofita?
(“A chinese ghost story” però l’ho visto ed è uno miei film preferiti in assoluto proprio per le ragioni che indichi tu)

Postato martedì, 17 agosto 2010 alle 10:55 da Francesco Moretta


Ho scritto male giapponesi,mi sono dimenticato una p,scusate.

Postato martedì, 17 agosto 2010 alle 11:03 da Francesco Moretta


Dunque , a parte il classico della Hammer “The legend of 7 golden vampires”, in cui Dracula incontra i suoi colleghi cinesi, tra i film propriamente cinesi di vampiri consiglio senz’altro Cacciatori di Vampiri (The era of Vampire) scritto e prodotto dal grande Tsui Hark (A Better Tomorrow) e il divertentissimo Mr.Vampire di Ricky Lau (che ha avuto dei sequel fino a Mr.Vampire V) . Segnalo anche Encounters with the Spooky Kind ( I e II ) , Magic Cop e infine Vampire vs. Vampire. Parlo di film di almeno dieci anni fa, non sono stato dietro alle successive produzioni. C’è ad esempio un Vampire Controller (2001) e due Black Belt Theatre: Kung Fu Beyond the grave e Chinese Vampire story (2003). E in tempi più recenti: Mortuary Blues (2007) The vampire Who Admires me; A bite of Love; Doctor Vampire (tutti di Hong Kong e del 2008), e infine Vampire’s Breakfast (2009). Insomma, pare che il genere sia fiorente. All’origine le ambientazioni erano storiche, adesso sono anche moderne.

Postato martedì, 17 agosto 2010 alle 12:27 da Gianfranco Manfredi


Ho scritto Encounters with… ma credo sia of the Spooky Kind.

Postato martedì, 17 agosto 2010 alle 12:31 da Gianfranco Manfredi


Ho fatto un rapido controllo su eMule e gli ultimi della lista si trovano, ma in lingua originale cinese. Vampire’s Breakfast risulterebbe in realtà del 1989, forse il 2009 è la data dell’edizione in lingua inglese. Su Amazon, in inglese, si trovano tutti. Di Cacciatori di Vampiri invece (il primo) è disponibile la versione italiana. Non credo purtroppo che la serie Mr.Vampire (che continua ancora) sia stata doppiata in italiano.

Postato martedì, 17 agosto 2010 alle 12:39 da Gianfranco Manfredi


Recuperato altri titoli anni 80 da Internet. Eccoli:

Pao Dan Fei Che (The Trail, 1983), Curse of the Wicked Wife (1984), Blue Lamp in a Winter Night (1985), Dragon Against Vampire (1985), The Close Encounter of the Vampire (1985), Love Me Vampire (1986), Vampire’s Breakfast (1986), Vampires Live Again (1987), Toothless Vampires (1987), Hello Dracula (1986), Vampires Strike Back (1988), Spooky Family (1989), Crazy Safari (1990), First Vampire in China (1990), Spooky Family II (1991), Robo Vampire (1993). Altri da Taiwan: The Vampire Shows His Teeth I, II, e III (1984-86), New Mr. Vampire (1985), Elusive Song of the Vampire (1987), and Spirit vs. Zombi (1989).

Come si vede, qui si data Vampire’s Breakfast più indietro, al 1986. Che quello del 2009 sia un remake? Aggiungo che la stragrande maggioranza di questi film sono commedie, più o meno riconducibili a quella miscela di horror/fantastico/marziale/comico di Mr.Vampire, serie di film di grande successo che originò ben due serie televisive , una regolare e prodotta in Giappone, e un’altra spuria, cioè un’exploitation.

Di Hello Dracula, la Bibbia Dark Screen di Pezzini-Tintori, dice: “un avventuriero, un prete e una suora anglofoni fronteggiano senza successo un attacco di vampiri a un piccolo villaggio cinese.”

Postato martedì, 17 agosto 2010 alle 12:56 da Gianfranco Manfredi


VAMPIRI BUDDHISTI
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Vorrei segnalare un libro che forse potrebbe interessare Gianfranco e gli altri eminenti vampirologi : « Travels in the Netherworld: Buddhist Popular Narratives of Death and the Afterlife in Tibet » di Bryan J. Cuevas , Oxford University Press, 2008. Nel libro vengono presi in esame i racconti della tradizione popolare tibetana sul « delog », uomini e donne che affermano di essere morti, di aver viaggiato attraverso l’inferno, e poi restituiti alla vita. Alcuni monaci, per esempio, raccontano della « luce chiara » del lampo-istante della morte, e poi dell’incontro con figure terrificanti – tipo Jije Dorje dai capelli ritti o la Vajravetali, una specie di vampira astrale che, come le altre apparizioni nello stadio intermedio del bar-do tra una (ri)nascita e l’altra, non sarebbe altro che l’ intensa visitazione di una specie di energia post-mortem e « riflesso delle tue proprie forme-pensate » (Cfr. http://buddhism-for-vampires.com/). Quanto alla letteratura fantastica cinese e ai suoi rapporti con quella europea, c’è un autore, Pu Song Ling (1640-1715), le cui storie di volpi dai poteri speciali, tradotte in tedesco, destarono l’ammirazione di Franz Kafka, che ne parla in una delle sue lettere.

Postato martedì, 17 agosto 2010 alle 13:10 da Gianni De Martino


Pezzini sostiene anche che gli Shang-Chi non sono propriamente vampiri, e in effetti sono una bizzarra miscela tra vampiri e zombi in quanto agiscono sotto comando di un padrone-stregone, però SONO a mio avviso vampiri, in quanto nella tradizione hanno molti punti di contatto con i nostri vampiri. Ad esempio: i nostri vampiri (quelli cinematografici, almeno) si bloccano di fronte a un crocefisso, e loro si bloccano di fronte a una formula sacra (e scritta) che gli viene appiccicata sulla fronte; i nostri vampiri vengono respinti dall’aglio, i loro dal riso: gli si può scagliare riso bollito in faccia, ma di solito si preferisce spargere riso ai loro piedi, al che loro si mettono a contare i chicchi uno per uno e non possono più muoversi finché non li hanno contati tutti. Alcuni loro vampiri sono ciechi , ma hanno un fiuto sensibilissimo e percepiscono ogni movimento come i pipistrelli. Altri volano. Insomma le analogie, sia pur trasposte in un’altra cultura, si sprecano.

Postato martedì, 17 agosto 2010 alle 13:12 da Gianfranco Manfredi


Sellerio ha pubblicato sotto il titolo “La volpe amorosa” quattro storie cinesi di donne-volpi, tra le quali ce n’è una (Sorelle) proprio di Pu Song Ling (citato da Gianni).

Postato martedì, 17 agosto 2010 alle 13:18 da Gianfranco Manfredi


Una piccola pausa dai vampiri cinesi, perché ogni tanto la cronaca incalza. A Milano, complice l’estate, dove già è tutto chiuso, si sta attuando quartiere per quartiere la politica del coprifuoco. Attualmente tocca al Corvetto, quartiere dove ho vissuto per più di vent’anni. Chiusure imposte a orari variabili a seconda del tipo di ritrovo o di negozio, in nome del diritto alla sicurezza e alla pace, in un quartiere già plumbeo da decenni di per sé, dove ad esempio, nel tratto in cui entra in vigore il coprifuoco, di discoteca ce n’era (ce n’è) solo una e in un vicolo corto e discosto. Se una grande metropoli, europea, statunitense, asiatica, ha un senso è perché vi si può vivere ventiquattrore su ventiquattro. Quale insana idea prescrive che dopo Carosello bisogna andare tutti a nanna? Davvero ci si sente più sicuri in una città ridotta al castello della bella addormentata e abbandonata alla propria desolazione carceraria? E’ così che bisogna prepararsi a questo nuovo millennio che in Italia sembra non sia mai iniziato? E’ tempo che il popolo notturno dei vampiri esca dalle tombe in cui li si vuole costringere e faccia sentire il proprio Ululì-ullulà o è già troppo tardi?

Postato martedì, 17 agosto 2010 alle 14:17 da Gianfranco Manfredi


@Gianfranco.Grazie mille per i titoli che mi hai segnalato.Cercando nella mia videoteca ho scoperto di possedere una copia di “Cacciatori di vampiri” e di averla accantonata in un angolo senza mai guardarla.(Per la serie l’arteriosclerorosi colpisce anche i ventitreenni))Lo recuperero al più presto,facendo qualche ricerca per conto mio mi sono imbattutto in altri due film asiatici sui vampiri e te li segnalo.Il primo s’intitola “God of vampires” di Rob Fitz e mischia mafia orientale e vampirismo (il film è di quest’anno),mentre il secondo è “Patient X” di Yam Laranas del 2009.(Si tratta di un film filippino e verte sulla figura locale di non-morto l’Aswang)
@Gianni.Grazie per la segnalazione,il testo sembra interessante.

Postato martedì, 17 agosto 2010 alle 16:01 da Francesco Moretta


Brevi frammenti dei film vampirici cinesi che ho sopra citato si trovano su YouTube e così volendo uno può farsi il suo blob di scene esemplari senza necessariamente sorbirsi tutto il film.

Postato martedì, 17 agosto 2010 alle 18:25 da Gianfranco Manfredi


UNO ZOMBI COI BAFFI
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Questa mattina è morto, insieme a una parte della nostra vecchia storia, il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga – che i ragazzi degli orribili anni di piombo chiamavano KoSSiga, sibilando e scandendo il suo nome con rabbia durante i giorni delle rivolte di Roma, di Bologna, di Milano che insanguinavano le piazze delle città italiane. Tra le sue frasi di controverso e prestigioso uomo di Stato « finto matto » – come egli stesso si diceva, quasi sdoppiandosi e ridendo di se stesso con ghigno solenne e beffardo – resta memorabile quella su Achille Occhetto, segretario del Pds, definito uno «zombi con i baffi», che fa rivivere «le cose più abbiette e più volgari del paleostalinismo» – 22 gennaio 1992, in risposta al Pds che attaccava su Gladio. Consapevole dell’opacità e della strana conflittualità sottesa, fin dal dopoguerra, alla politica italiana, diceva anche : «Io facevo parte di una formazione di giovani democristiani armati, armati dall’arma dei carabinieri, per difendere le sedi dei partiti e noi stessi nel caso che i comunisti, perdute le elezioni, avessero tentato un colpo di stato». Nel tristissimo aprile 1977, echeggiando una poesia di Pier Paolo Pasolini disse in Parlamento : “Non permetterò che i figli dei contadini meridionali ( i poliziotti) siano uccisi dai figli della borghesia romana ( gli studenti e i manifestanti)”. La repressione fu durissima. Da uomo di Stato preposto alla pubblica sicurezza, KoSSiga la giusticava affermando : « E’ per evitare il peggio », ovvero il dilagare del terrorismo rosso e nero. Negli ultimi tempi ironizzava: « Sono depresso: nessuno intercetta le mie telefonate». E lui, dov’è adesso ? Se non a colloquio con Giorgiana Masi, tra le nebbie e gli ululì ullalà, che riposi in pace.

Postato martedì, 17 agosto 2010 alle 18:47 da Gianni De Martino


la giustificava affermando : « E’ per evitare il peggio ».

Postato martedì, 17 agosto 2010 alle 18:51 da Gianni De Martino


Caro Gianni, non avrei voluto parlarne, ma… quel reiterato parlare di zombie a me, che di zombie cantavo in quegli anni, parve assai significativo. Il richiamo non era casuale. Cossiga era ossessionato dall’Autonomia. movimento peraltro assai confuso e spontaneo e indefinibile nei suoi contorni, di cui facevo parte. Autonomi e radicali (anche coi radicali avevo molto a che fare). Lucidamente aveva percepito che erano fenomeni nuovi e attrattivi e voleva stroncarli sul nascere. Più tardi ammise che la sua furibonda e illegale repressione riuscì a stroncarli sì, ma a procurare adepti a formazioni davvero allucinanti come Prima Linea. Dubbio sorto in ritardo. Intanto Radio Alice era stata invasa, un marzo di ironia ribelle era stato funestato dal sangue. E altrove una militante radicale, Giorgiana Masi, era stata uccisa da agenti in borghese che avevano aperto il fuoco, travestiti come Serpico. Risentimenti? Non si possono avere risentimenti per la Storia. La pagina si era conclusa ben prima di ieri. In quegli anni lontani, Cossiga, eletto Presidente, invitò Stefano Benni al Quirinale. Non so che diavolo avesse in testa, so che Benni rifiutò di andarci e lo ammirai per questo. Si può anche non odiare il nemico, però ciascuno al suo posto. Il chiacchiericcio spiritoso che recupera ” l’umano”, sollecitato , ne sono sicuro, da sincera curiosità, è roba da democristiani. Riposi in pace.

Postato martedì, 17 agosto 2010 alle 22:30 da Gianfranco Manfredi


E’ appena andato in onda un dibattito su Rai Tre che aggiunto ad altre valutazioni, sorprendentemente acute e sfumate in un momento in cui il dibattito politico su altri fronti appare di una rozzezza intollerabile. Alcuni e da diversi fronti, anche moderati, hanno osservato che Cossiga, così determinato nel reprimere “la piazza” dovette poi rendersi amaramente conto di non aver capito un cazzo, quando si trovò di fronte al sequestro Moro, condotto dalle Brigate Rosse (più o meno eterodirette, su questo il dibattito sarò eterno, ma Cossiga riteneva di sì) le quali Brigate Rosse in piazza non stavano mai, per scelta. Chi ha vissuto quegli anni, sa che prima della repressione cossighiana, c’era un abisso tra “Una risata vi seppellirà” e “portare l’attacco al cuore dello Stato”. Nessuno nel movimento alternativo d’allora pensava che lo Stato avesse un cuore , nè che fuori dal sociale ci fosse alternativa possibile. Non il primo slogan, intellettuali come Elvio fachinelli (per dirne uno) avvertivano una sintonia (l’Erba Voglio fece un numero speciale per il marzo Bolognese, Speciale che tra l’altro ospitava un mio articolo di elogio per il ritardo storico e le retroguardie sociali che suonava chiaramente come ripudio dell’avanguardismo delle scorciatoie). Rispetto al secondo Slogan (Il Cuore dello Stato) nessuno espresse simpatia alcuna , perché puramente e semplicemente, un movimento sociale come quello, non nutriva alcuna ambizione di impossessarsi di presunti Centri di Comando. Dopo, le cose cambiarono perché quella violenta repressione, da un lato favorì strategie ben poco pubbliche, tanto professionali quanto sospette e ambigue, dall’altro causò il cosiddetto Riflusso, e il parallelo confluire nella clandestinità armata di frazioni di movimento ormai altrettanto rinunciatarie rispetto a obiettivi di emancipazione sociale e culturale. Però basta… mi fermo qui, per rispetto di tutti quelli , come Francesco che ho da poco appreso essere ventitreenne. Credo ritengano più interessante parlare di vampiri cinesi e non hanno torto, perché di riflessioni sugli anni 70 hanno ben diritto di averne piene le palle, tantopiù dal momento che la memoria del reale andamento delle cose in quegli anni si è offuscata. Cercare di ristabilire un minimo di verità, temo abbia l’unico effetto di rendere assolutamente criptica l’interpretazione dei fatti e dei protagonisti. D’altra parte, non ci siamo rassegnati ormai tutti al carattere criptico non solo della Storia che abbiamo vissuto, ma anche di quella che stiamo attualmente vivendo in Italia?

Postato mercoledì, 18 agosto 2010 alle 00:27 da Gianfranco Manfredi


La passione mi ha condotto a una quantità impressionante di refusi, nel post di cui sopra, che l’hanno reso ancor più misterico. E’ come se continuassimo a parlare di cabala, ma dopotutto è un buon esercizio se vissuto in trasparenza.

Postato mercoledì, 18 agosto 2010 alle 00:35 da Gianfranco Manfredi


Volevo lasciar stare Cossiga su questo blog, però non resisto. E così dico ciò che penso:
Pace all’anima sua ma non mi unisco a nessun ipocrita coro di elogi.
Ricordo ad esempio l’intervista che lui rilasciò il 23.10.08 al Quotidiano
Nazionale in cui suggerì al Ministro dell’Interno Roberto Maroni come contenere il dissenso universitario nei confronti della legge 133/2008:
tenere alla larga la polizia ma infiltrare agenti provocatori nel movimento
studentesco.E a quel punto, dopo gli incidenti e i disordini, “le forze dell’ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale”.
Quella vergognosa intervista è solo uno degli innumerevoli veleni che Cossiga ha iniettato per decenni nel corpo e nell’anima del nostro paese.
Pace all’anima sua ma con la sua vicenda pubblica non sono disposto a fare l’ipocrita.
Sarebbe indecente usare con il Cossiga morto gli stessi infami metodi che lui da vivo usava con i vivi ma anche con i defunti (che non potevano più difendersi).
Quando calunniò il generale Dalla Chiesa, i giudici antimafia definiti “ragazzini”, compreso Rosario Livatino assassinato a 38 anni), i magistrati Colombo e Turone che accusò di aver rubato pezzi dell’elenco degli iscritti alla P2, quando le manifestazioni (spesso finite nel sangue) erano zeppe di agenti provocatori e Cossiga era ministro degli interni, quando per decenni seminò insinuazioni e menzogne e mezze verità e minacce e ricatti e balle e smargiassate e trame ambigue e/o violente, quando per decennni attorno a Cossiga passò il peggio del peggio dello Stato italiano (e cioè i poteri sotterranei che nell’ombra costruiscono trame perverse e sfuggono al controllo delle istituzioni democratiche).
Questo fu Cossiga. Altro che.
Ma queste non sono calunnie sussurrate oggi (18 agosto 2010, a 24 ore dalla sua morte): questi sono fatti che si sanno e si scrivono da anni. Anche se, purtroppo, la vulgata mediatica non li riporta. Perchè è la stessa vulgata mediatica secondo cui Andreotti (a Palermo) sarebbe stato assolto dalle accuse riguardanti la mafia. Mentre la sentenza ha ACCERTATO “la partecipazione nel reato associativo non nei termini riduttivi di una mera disponibilità, ma in quelli più ampi e giuridicamente significativi di una concreta collaborazione”
E questo (quando arriverà il giorno di Andreotti) lo ripeterò per l’ennesima volta. Perchè anche quel giorno dirò “pace all’anima sua ma non mi associo al coro di ipocrisia”. E tornerò a scrivere ancora e ancora la verità dei fatti.
LO SO: MI SONO LASCIATO PRENDERE LA MANO DALLA PASSIONE POLITICA.
E CHIEDO SCUSA A CHI FREQUENTA QUESTO POST IN PROGRESS PER LEGGERE E INTERVENIRE SULL’HORROR (MATERIA ASSAI VASTA).
MA PER MEZZO MINUTO METTETEVI NEI MIEI PANNI DI 56ENNE CHE GLI ANNI SETTANTA LI HA VISSUTI ANCHE FACENDO POLITICA ATTIVA: NON CE LA FACCIO A STAR ZITTO.

Postato mercoledì, 18 agosto 2010 alle 09:14 da luciano / idefix


@Gianfranco.Le riflessioni sugli anni 70 non mi infastidiscono,anzi m’interessano abbastanza proprio perchè si tratta di un periodo della storia italiana che non ho vissuto e sentire invece le riflessioni e i pensieri di chi ha vissuto quel decennio può aiutarmi a comprenderlo.

Postato mercoledì, 18 agosto 2010 alle 11:19 da Francesco Moretta


@ Luciano. Oggi Paolo Guzzanti su Repubblica ha dichiarato cose su Cossiga rispetto alle quale le nostre note storiche sono rose e fiori. In un paese serio si aprirebbe un’inchiesta. Ma forse si sarà costretti a farlo quando e se si verrà a conoscenza del memoriale da lui lasciato e da divulgare post-mortem. Allora state pur certi che riprenderà quota l’altra vulgata su Cossiga e cioè che fosse matto e che simulasse di sapere cose che in realtà non sapeva affatto, millantando. una cosa è comunque già certa: mentre da Ministro dell’Interno si occupava della repressione della piazza, le BR zitte zitte preparavano il sequestro Moro. A molti sono stati chiesti i conti DOPO (come mai la prigione non venne trovata? Come mai la polizia arrivò a bussare alla porta di via Gradoli e poi se ne andò? davvero il nome Gradoli saltò fuori a una seduta spiritica? eccetera eccetera) però nessuno si è interrogato sul PRIMA (se non Franceschini, militante delle BR, che raccontò della assai bizzarra preparazione del sequestro in un suo libro, da nessuno commentato peraltro), cioé come fu possibile che in quel clima di tensione e di allerta potesse essere rapito Moro? E come mai proprio lui, dato che a detta di Franceschini il primo obiettivo era Andreotti che oltretutto usciva la mattina all’alba per andare a messa, a piedi e senza scorta?

Postato mercoledì, 18 agosto 2010 alle 14:26 da Gianfranco Manfredi


Alla nostra età, temo che questi buchi ci resteranno, queste non-risposte al lunghissimo elenco di domande rimaste aperte fin dalla Strage di Piazza Fontana. Quando i nostri figli e nipoti avranno qualche barlume di risposta, ricorderanno ancora i fatti? Le risposte, si sa, servono a poco quando non si ricordano più le domande.

Postato mercoledì, 18 agosto 2010 alle 14:30 da Gianfranco Manfredi


Mah, la vicenda di via Gradoli resta un enigma e la storia della seduta spiritica di Romano Prodi sembra davvero ridicola. Franceschini dice che « ci poteva essere qualcuno al di sopra dei brigatisti che li ha giocati ». Ma non offre alcuna prova ed è difficile capire se lo Stato non li ha saputi fermare o non li ha voluti fermare. In ogni caso, resta un fatto che Cossiga diede le dimissioni da ministro dell’Interno in seguito al ritrovamento del cadavere del presidente della DC nel portabagagli domestico in via Michelangelo Caetani. Al giornalista Paolo Guzzanti disse: «Se ho i capelli bianchi e le macchie sulla pelle è per questo. Perché mentre lasciavamo uccidere Moro, me ne rendevo conto. Perché la nostra sofferenza era in sintonia con quella di Moro». Credo che KoSSiga ( come lo chiamavano non solo quelli delle Br ma anche i ragazzi dell’Autonomia detti auto(no)mi e degli altri gruppi antagonisti mossi da quello che l’amico Elvio Fachinelli chiamava “desiderio dissidente”) abbia sofferto molto il dissidio, tutto moderno, esistente tra la sfera della morale, valida per gli atti e i convincimenti personali, e la sfera politica, valida per atti pubblici del governo. Per sconfiggere le Br all’attacco del « cuore dello Stato » occorreva dimostrare che lo Stato non aveva un « cuore » da attaccare. In tal modo le Br, fallito il ricatto allo Stato democratico, dopo aver ucciso con crudeltà e stupidamente Moro, entrarono in crisi e furono sconfitte. Non è la società dell’amore, della pace e dei fiori che sognavamo da giovani, ma quella della ragion di Stato, nella sua accezione moderna, secondo la quale lo Stato giustifica le sue azioni quando è in gioco l’interesse nazionale e quello del popolo a scapito della morale o di altri imperativi – come per esempio l’imperativo e l’interesse particolare di salvare ad ogni costo la vita di un amico. Quando sono in gioco la sopravvivenza dello Stato democratico ( comunque “mostro freddo”, come nota Nietzsche) e l’interesse generale, i servitori della Patria considerano che si possano sacrificare gli interessi particolari. Francesco Cossiga verrà ricordato soprattutto come un grande uomo di Stato. Non è facile vivere insieme, in Italia o altrove, e il politico ( più che che la politica) è forse la difficile arte di governare il dolore di dover vivere e far vivere insieme. Non a caso l’ultima parola, l’ultimo saluto che ha affidato alle lettere inviate alle alte cariche dello Stato, o perlomeno di quello che oggi ne resta, è stata « Italia » -« Iddio protegga l’Italia ». Forse è stata la sua ultima « picconata », la sua ultima « astuzia » di anarchico liberale cattolico ( più che democristiano). Come si può infatti – nel momento del lutto nazionale e con tante minacce ( economiche, politiche, teo-politiche, ecologiche) incombenti – non unirisi nella preghiera rivolta all’Invisibile di rivelarsi amico e di proteggere il nostro Paese ?

Postato mercoledì, 18 agosto 2010 alle 17:18 da Gianni De Martino


Mah… a me la moral di Stato è sempre parsa un abominio. E le BR, che chiedevano un riconoscimento politico, lo hanno avuto abbondantemente dopo la “sconfitta” e tramite l’uccisione di Moro, altrimenti senza un sacrificio umano sarebbero state sconfitte lo stesso, ma non avrebbero ottenuto riconoscimento alcuno. Tra coloro che ricordano Cossiga adesso, pronunciando retoriche lodi, loro sono i più ferventi, e non è un caso. Nemici combattenti da onorare nella sconfitta, i barbari sanguinari dell’omicidio Peci? Sarà che lo Stato riconosce a fiuto i propri simili… del resto tra l’inneggiare al “popolo sovrano” e i “tribunali del popolo” il passo è breve, soprattutto quando sui tribunali regolari viene schizzata merda ogni giorno che passa… quanto al nostro disastrato Paese sarebbe ora che imparasse a proteggersi da se stesso.

Postato mercoledì, 18 agosto 2010 alle 17:33 da Gianfranco Manfredi


Ricordo, infine, giusto per la memoria, che le BR vennero sbaragliate soltanto nel 1981, dopo il Sequestro Dozier. Oggi Paolo Guzzanti dichiara su Repubblica, che Cossiga nel corso del sequestro Moro passò sottobanco alle BR documenti NATO. Sostiene cioé che un patteggiamento ci fu eccome, irresponsabile e rovinoso. Sono accuse da prendere alla leggera? Fanfaluche di un altro matto? Avete presente i romanzi di Le Carré? Ma potrei dire anche di Grisham… leggere e meditare, su cosa succede quando si mettono in mezzo i servizi segreti. Non c’è nulla di più illogico e irrazionale della Ragion di Stato. Craxi di Moro non era affatto “amico”, eppure le pensava, politicamente e non per “umanitarismo socialista” di cui era notoriamente sprovvisto, assai diversamente su come avrebbe dovuto operare lo Stato nell’occasione.

Postato mercoledì, 18 agosto 2010 alle 17:47 da Gianfranco Manfredi


Dopo l’omicidio di Moro, le BR ne ricavarono una fama mondiale, pari a quella dell’IRA e dell’ETA . Sciagurati e sciamannati gruppi rock come, per dirne uno, i CLASH indossarono sul palco T-Shirt che inneggiavano alle BRIGADE ROSSE (scritto anche sbagliato se no non sarebbero stati dei veri coglioni). Le BR altro che sconfitte! Si sentirono invincibili, altrimenti mai avrebbero progettato il sequestro di un Generale della NATO! E ora le rivelazioni di Guzzanti aiutano a capirci qualcosa… Vorrei anche ricordare che il declino di Bettino Craxi iniziò dopo che nel 1985 salvò il nostro paese da una sciagura devastante, bloccando gli americani a Sigonella. Ah, quanta confusione si fa oggi… come si fatica a mettere ordine tra le date! Com’è facile riassumere a proprio comodo in un unico evento tragico ed esemplare una sanguinaria pagina di storia durata ben più di un decennio, e di cui fece parte anche l’attacco amerikano contro il Palazzo del socialista Allende! E la Russia dall’altra parte che invadeva altre libere democrazie coi carri armati! Tutte Ragioni di Stato, indubbiamente, e tutte celebrate nel sangue dei popoli.

Postato mercoledì, 18 agosto 2010 alle 18:12 da Gianfranco Manfredi


A PROPOSITO DI BUCHI
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Un uomo di Stato è, nella maggior parte dei casi, ligio a un dovere che può a taluni sembrare immaginario, se non illogico e irrazionale, ma che non è altro che un dovere di responsabilità. La ragion di Stato risuona con quello di segreto di Stato e di altri privilegi. Naturalmente come nell’Antigone di Sofocle si può discutere sul posto da assegnare alla morale, e anche dibattere all’infinito fra « etica della convinzione » e « etica della responsabilità » ( come analizzava Weber, all’inizio del XX secolo). Ma un ministro degli Interni non può dibattere e dibattersi all’infinito, deve governare, mettere in azione i piani e prendere decisioni pratiche, necessariamente unilaterali. Nel sacrificare gli interessi particolari ( e qualche giovane manifestante), un uomo di Stato può anche commettere degli errori e finire in tragedia come Creonte, che annientato da una serie di catastrofi («disastri venuti dai miei stessi piani») non aspira che a una morte rapida («Ripulite questo luogo da un buono a nulla»). Meno male, verrebbe voglia di dire, che non abbiamo responsabilità di governo e siamo solo dei poveri intellettuali & letterati, fuori dalle lotte dei poteri. Anche perché di queste storie di potere, quando non si seppellisce in fretta, sembra non restare altro, tra un governo e l’altro, che fare come fa la morte : riempire i buchi.
P.S. Pardon, se parlo così della Storia è forse perché – non so per quale curvatura di psiche, spero provvisoria – mi sono accorto improvvisamente di non avere, in quanto scrivente, alcun potere, se non precario.
«Ripulite questo luogo da un buono a nulla»).
:-)

Postato mercoledì, 18 agosto 2010 alle 18:21 da Gianni De Martino


Riguardo al Potere Shakespeare ha già detto tutto quello che si poteva dire. lasciami solo aggiungere, Gianni, che quel tuo giochetto di parole auto(no)mi non l’ho trovato affatto divertente, anzi mi ha ferito. Autonomia vuol dire essere in grado di darsi una propria legge, e in questo gli autonomi hanno drammaticamente e totalmente fallito. E’ diventata l’Autonomia del Faccio quello che mi pare, tanto che non si capiva più un cazzo di chi faceva cosa e perché. Questa è stata la nostra tragedia vissuta. Ma “automi” no, questa definizione lasciamola a quelli che eseguono comandi meccanicamente. La Ragione Superiore è sempre quella della Macchina. E la Macchina non ci è mai appartenuta, né tanto meno siamo appartenuti noi ad essa.

Postato mercoledì, 18 agosto 2010 alle 18:32 da Gianfranco Manfredi


Cosa ci ha insegnato Shakespeare? Che nella pretesa Ragion di Stato i personalismi non si superano per il Generale Interesse, ma si esaltano fino a diventare deliranti. Finché l’umanità non sarà riconoscere la Mostruosità della corsa al Potere, della ferocia nel mantenimento e nell’esercizio del Potere, non potrà conoscere la bellezza della rinuncia al Potere, unica possibile salvezza, unica responsabile scelta e misura del vivere.

Postato mercoledì, 18 agosto 2010 alle 18:48 da Gianfranco Manfredi


Fatto salvo che per Potere non si intende la responsabile gestione degli interessi comuni, ma il Potere di Vita e di Morte sugli Altri.

Postato mercoledì, 18 agosto 2010 alle 18:58 da Gianfranco Manfredi


E’ facile pensare che queste sono parole da poeti che le mani in pasta non le hanno mai avute perché al fondo non contano e non hanno mai voluto contare niente, se non per le loro parole, parole, parole… senonché le cose non dicono questo. Le cose dicono che di Cossiga venne chiesto l’impeachment perché i suoi comportamenti andarono ben al di là delle regole di una democrazia. E se le accuse di Guzzanti dovessero dimostrarsi vere, cioè se il Presidente Emerito avesse passato a un gruppo terrorista documenti riguardanti la Nato, allora non saremmo di fronte a senso dello stato, ma ad Alto Tradimento. Dopodiché se il Potere dà alla testa, questa ne sarebbe l’ennesima dimostrazione.

Postato mercoledì, 18 agosto 2010 alle 21:10 da Gianfranco Manfredi


Ho insistito sul paragone tra Cossiga e Craxi, perché oggi non ho potuto fare a meno di pensarci, leggendo i giornali. Craxi si alzò in Parlamento e disse: chi non ha goduto di finanziamenti illeciti, alzi la mano. Parve, e lo era, un atteggiamento arrogante. Ma poi Craxi non ricattò nessuno, non fabbricò dossier, non divulgò documenti segreti e scottanti, né minacciò mai di farlo. I giornali hanno invece rimarcato una dichiarazione di Cossiga. Più o meno questa: c’è una differenza tra essere matto e fare il matto, io facevo il matto perché era l’unico modo per potermi difendere. E si trovava sotto minaccia di impeachment. Cacchio! E’ il caso di rifletterci o leggiamo tanto per leggere, lasciando che le parole ci scorrano addosso come fossero puri fiati? Un matto, in quanto irresponsabile, può dire di tutto. Conviene dargli corda, assecondarlo, come prescrive il buon senso comune. Adesso ditemi voi… non si trattava forse di un’aperta minaccia rivolta ai suoi avversari, primo fra tutti Andreotti? Conclusione: stiamoci molto attenti prima di emettere giudizi alla memoria. Essere poeti non vuol dire necessariamente essere pirla. Lui può riposare in pace, noi no. Noi dobbiamo restare molto vigili, e con le menti sveglie, quantomeno continuando a dubitare di verità che sembrano menzogne e di menzogne che sembrano verità.

Postato mercoledì, 18 agosto 2010 alle 21:57 da Gianfranco Manfredi


Siamo andati fuori tema, ma non credo che a Maugeri possa dispiacere. Etra inevitabile. Non c’è in questo momento alcun blog italiano che non discuta di Cossiga. Influsso mediatico o urgenza di riflettere?

Postato mercoledì, 18 agosto 2010 alle 22:02 da Gianfranco Manfredi


Ciao Kossig, temo che senza la tua ironia la politica italiana, oltre che disgustosa e tragica sarà noiosa. Come vedi noia e disgusto per la politica e per lo Stato ( ancorché democratico) è tanta. Il disgusto non sale tanto dal popolo, apparentemente inerte davanti alla tv, quanto dall’artista, dal giornalista, dall’universitario, dallo scrittore al quale i linguisti dicono di non avere a che fare che con forme vuote.
Insomma il disgusto fa « ke ke ke » e sale dall’intellettuale – da una figura contemporanea di chierico sradicato dalle virtù comuni e – per noia. per sazietà o per insoddisfazione – sempre tentato di andare sui limiti, quando non si lascia sedurre dalla barbarie e da altre orribili suggestioni.
In una società globale, fatta di multitudini, l’intellettuale, o quello che oggi ne resta, fa fatica a riconoscersi non solo nelle virtù comuni e la faticosa, democratica ricerca del consenso, ma anche nella pura e semplice “missione del dotto”. Del resto, non è certo lo scrittore o il dotto a parlare oggi alle multitudini, ma è il terrorista in tv a offrire in mondovisione quell’immagine del mondo che un tempo erano gli scrittori e i chierici a offrire al popolo.
Dopo la morte di Dio, inoltre, il Paese dovrebbe proteggersi da solo, ma senza credenza nell’Altro e la speranza in un Invisibile, in un orizzonte ulteriore è come volersi tirare su per i lacci delle proprie scarpe. Aiutati che Dio ti aiuta, diceva la nonna , o forse lo zio prete – ma anche la nonna e lo zio prete sono morti. Caduta l’Unione Sovietica, divenuta la Cina un immenso opificio del Capitalismo Internazionale e un grande agente sui Mercati Finanziari, demistificato il culto del Che e dei Barbudos e dimenticato il Vietnam che si è dato solo all’economia, impresentabile la Corea del Nord, anche la « fase rivoluzionaria » è morta e stramorta, tanto tempo fa.
In rivoluzione contro l’Impero, come previsto da Toni Negri, resterebbero gli Islamisti, venuti a ravvivare con i loro ululalì ululalà la banale società circostante …
Per restaurare il narcisimo, la pietà e l’orgoglio di noi chierici feriti e sdradicati, dopo tante sollecitazioni e invocazioni ai vampiri, non ci resterebbero che gli zombi. Cos’altro c’è di più sfigato di uno zombi ? Forse solo l’ uomo-bomba, aureolato di sacralità arcaica ( « Viva la muerte » !) e con in più il vantaggio di apparire povero e molto molto terzomondista.
Così, in attesa di superare le tanti obbligazioni servili nel campo della letteratura , della critica cinematografica, dell’editoria e dei blog, con i lori piccoli risultati, non resta che sognare la « liberazione dell’uomo » ritornato alla romantica arretratezza della tribù, oltre lo Stato e verso l’esotico tribalismo zombi. Da qui, mi pare, il famoso slogan ( da rinfrescare un po’) dell’amico Gianfranco : « Zombi di tutto il mondo unitevi !). Perlomeno così pare.
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P.S. Caro Gianfranco, lasciami ricordare che fummo detti « auto(no)mi », con un forse troppo facile giochetto intraverbale, allora in voga (Lacan-con-Gramsci , ecc.) in un articolo della rivista L’erba voglio, alla quale entrambi abbiamo collaborato. Mi pare fosse uno degli ultimi numeri del 1977, dovrei verificare giù in cantina… frugare tra la polvere, negli scatoloni… Ad ogni modo, non per versare altro sale sulle ferite ( feritine generazionali o anche narcisistiche, volendo), ma era proprio l’epoca dell’ »Antiedipo » , delle famose « macchine desideranti » (Deleuze & Guattari). Non era ancora giunta l’epoca attuale, quella delle macchine ossessive, e ci si muoveva un po’ tutti, mi pare, tra rivolta e obbedienza – eccetto quelli che davvero sparavano o si facevano in cessi insanguinati, rischiarati d’irrealtà, oppure andavano in India dal guru e ritornavano poi in città in lunghe tuniche arancione, color albicocca suonata… Ad ogni modo, sei tu stesso a spiegare perché « auto(no)mi » ci poteva anche stare : « E’ diventata l’Autonomia del Faccio quello che mi pare, tanto che non si capiva più un cazzo di chi faceva cosa e perché. Questa è stata la nostra tragedia vissuta ».
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P.P.S. Ragazzi, non fidatevi degli scrittori. Non solo, feriti, capita loro di ferire da lontano, con le loro quasi automatiche cerbottane cartacee, ma sono anche per fortuna o sventura dei traditori (oltre che, naturalmente, dei traduttori, quando si tratta di arrotondare e mantenersi – nell’epoca del confort illimitato promesso dalla tecnica – in 20 metri di autonomia individuale, in un condominio rigorosamente sorvegliato dai vicini e tante videocamere). Insomma, il Riflusso ci fu, come si disse con metafora mestruale. E se l’ « inconscio rizomatico e desiderante » si è poi trasformato in inconscio italiano, medio-italiano, meschino e polipesco, forse non è solo “colpa” del Potere e del Politico, anche la famosa Natura umana potrebbe aver giocato una qualche parte o ruolo , o no ?

Postato mercoledì, 18 agosto 2010 alle 22:09 da Gianni De Martino


«Per una ricostruzione della mia vita vedrei bene dialoghi in stile “A cena con il diavolo”» ( Francesco Cossiga). :-)

Postato mercoledì, 18 agosto 2010 alle 22:29 da Gianni De Martino


Chi sono i poeti? Persone che si riparano dietro due schermi: il narcisismo e il candore. Sarebbe ora di abbatterli entrambi, perché sono falsi, e di restituirci a noi stessi e agli altri. Nessun poeta è davvero narcisista perché sa guardare oltre il sé. E nessun poeta è candido perché si è allenato a misurare ogni singola parola, con estrema consapevolezza e supremo abbandono all’intimo sentire. I poeti, si dice, hanno un limite. Non hanno calli sulle mani. Sbagliato. Ne hanno parecchi di calli. Quelli lasciati dalla penna tra l’indice e il pollice, quelli lasciatati dall’accendino, sempre sul pollice, dalle infinite sigarette accese. E per i poeti che suonano la chitarra, così dilaganti dalla nostra generazione in avanti, quelli sui polpastrelli, senza i quali toccare le corde è una sofferenza, non un piacere. E infine, i calli che non si vedono, ma si sa che ci sono, i calli che ci fanno considerare da tutti degli “incalliti”. Non buttiamoci giù, perché le fatiche del lavoro intellettuale serio, non sono minori di quelle del lavoro manuale, tantomeno di quel non-lavoro che è il lavoro politico nelle moderne democrazie rappresentative. Pensiamoci. Chi rappresenta un’epoca ? Qualcuno ricorda il nome del “rappresentante generale politico” all’epoca di Flaubert? E allora… non facciamoci del male, e assumiamoci le nostre responsabilità che non esigono spargimento di sangue, casomai di inchiostro… il che non è certo una colpa. La natura è in evoluzione. Se la cultura in questa evoluzione non sa individuare la sua parte, be’ allora di che cazzo stiamo parlando? La lingua, ripete Chomsky anche se nessuno lo sta a sentire, è evoluzione del cervello, del modo di intendersi e del modo di vivere. E’ con la penna che sono state scritte le Dichiarazioni dei Diritti dell’Uomo e le Moderne Costituzioni, persino quelle antiche. E’ SCRITTO: Non uccidere. E’ SCRITTO: Nessuno tocchi Caino. Regole che valevano all’interno del cerchio tribale? D’accordo. Eppure esistono ancora cerchi tribal-nazionali che non le applicano. Vogliamo convincerli a farlo? E il cerchio oltretutto non si è nel frattempo allargato ? Non dovrebbero valere quelle regole di convivenza SCRITTE per gli esseri umani in quanto tali? E’ la nostra epoca globale che ci ha posto di fronte, a tutti noi, questo interrogativo. La Costituzione italiana un principio l’aveva scritto e sottoscritto: RIPUDIO DELLA GUERRA. Vogliamo dare un senso alla nostra vita, cercando di restituire un senso alle parole scritte ? Ciò che si scrive non è fatuo: verba volant, scripta manent. Vogliamo lottare per questa permanenza? Non esiste Natura senza Cultura. La Natura esistente al di là della Cultura, non prevede come indispensabile e necessaria la presenza del Fattore Umano.

Postato giovedì, 19 agosto 2010 alle 00:04 da Gianfranco Manfredi


Quanto allo zombie, be’ è cosa ben diversa dall’automa. L’automa si è evoluto in Robot , parola che significa all’origine, Operaio. Lo zombi è un cadavere che cammina, che nella sua moderna evoluzione, si è totalmente sganciato da ogni ogni programmazione funzionale. Lo zombie è desueto, putrescente, corpo in esubero, del tutto disfunzionale, che ha invertito il cammino evolutivo, non più dalle vita alla morte, ma dalla morte a una neo-vita che della morte, non della nascita, reca memoria. Lo zombie è anche vendicativo, senza sapere il perché. Il robot può diventare ingovernabile, ma senza alcun senso di vendetta, semplicemente perché il Fattore Umano lo giudica irrilevante. Lo giudica, sì, perché dalle regolazioni umane della robotica si è emancipato sua sponte (vedi Asimov). Lo zombie non potrà mai emanciparsi dalla condizione umana, perché ad essa, nonostante tutto, aspira. Non è forse questo che ci raccontano gli attuali film e romanzi di zombie?

Postato giovedì, 19 agosto 2010 alle 00:41 da Gianfranco Manfredi


Uno dei primi scrittori di racconti di robot fu Eando Binder, che scrisse nel 1939 sulla rivista Amazing stories un racconto dal titolo, poi vampirizzato da Asimov, Io Robot. Il racconto fece un tale clamore che Binder lo sviluppò in romanzo con il titolo Adam Link Robot. Adam= essere originale. Link= pura profezia tecnologica. Lo zombie non è originale e non profetizza altro che l’umano che cannibalizza l’umano, in un devastante tentativo di ritorno a se stesso, che dell’Umanità esprime il totale, apocalittico fallimento. Adam Link rovescia il mito di Frankenstein. Non è un essere riportato in vita. E’ un essere meccanico e del tutto nuovo e artificiale da cui imprevista sorge la coscienza (tema prediletto di Philip Dick) . L’interrogativo non è da poco. Dobbiamo delegare la coscienza alle macchine nella , questa sì piuttosto candida, speranza che la producano col risultato magari di “sognare pecore elettriche”, oppure dobbiamo partecipare della natura di zombie per ritrovare l’umanità perduta rimasticandola? Che la coscienza contemporanea sia scossa da questa estrema contraddizione, è un segno. Non potremmo semplicemente imparare a vivere senza consegnarci alla Macchina e senza cannibalizzarci vicendevolmente? Per poter far questo, bisognerebbe restituire un minimo di senso “illuministico” e “civile” del vivere. Ma questo “minimo” oggi non può che essere vissuto come “massimo” . Un altro mondo non solo è possibile, ma è in atto. Fuori da questo Altro mondo, non c’è altro che Apocalisse.

Postato giovedì, 19 agosto 2010 alle 01:12 da Gianfranco Manfredi


Tutto il resto: Ragion di Stato (Stati Nazionali nel 2010 in condizioni di economia globale?) e Sviluppo Tecnologico (per quale motivo? Per sorbirci le stesse cose in formato diverso o, come suggerisce il buon vecchio Ray Bradbury in un’intervista apparsa oggi, anzi ieri, per deciderci a colonizzare Marte perché qui stiamo troppo stretti e non è dunque un caso se siamo di corte vedute?), be’ tutto il resto sono balle.

Postato giovedì, 19 agosto 2010 alle 01:26 da Gianfranco Manfredi


Ieri pomeriggio non ho partecipato alla discussione perchè, tornando a casa, ho avuto uno scontro tra il mio piede calzato in un sandalo birkenstok e il piede di una ragazzotta demente che indossava degli anfibi (d’estate! in agosto! con trenta gradi!). Risultato: l’alluce s’è aperto, l’unghia s’è rotta, il sangue gocciolava, “Beat on the brat” (“picchia sul marmocchio, picchia sul marmocchio con la mazza da baseball”) cantavano i Ramones nella mia testa.
Alla fine degli anni Settanta io stavo nel PSI ed ero nella sinistra di Riccardo Lombardi. Dunque politicamente ero lontano dall’area dell’Autonomia (anche se ne apprezzavo molto gli aspetti situazionisti e colorati, ironici e iconoclasti, libertari e fuori dagli schemi, alla Andrea Pazienza o Re Nudo, il Male o Gianfranco Manfredi). Perciò nemmeno a me è piaciuta per nulla quella battuta sugli auto(no)mi. Non solo perchè non fa ridere (cosa che, per una battuta, è deleteria) ma perchè è priva di qualsiasi fondamento.
Quella era un’epoca difficile, in cui muoversi non era semplice: trovare un sentiero “autonomo” diventava complicato e pericoloso. Perchè da una parte c’era l’abisso dei killer del terrorismo rosso vero e proprio, da un’altra parte c’era la mefitica palude della violenza di sinistra diffusa (chiavi inglesi in testa, pestaggi, aggressioni), poi esistevano gli squadristi fascisti con la loro brutalità, poi il terrore stragista nero con le sue bombe omicide, ma anche gli agenti provocatori dei servizi segreti deviati o non deviati (italiani e no) che agivano con metodi illegali e comunque seminavano il torbido, e intanto esistevano le mamme e le nonne e le fidanzate che ti dicevano “sta attento, che io la sera non dormo”, e poi la diffidenza della “maggioranza silenziosa”. Ma c’era chi proponeva che la soluzione ai mali fosse l’abbraccio burocratico e normalizzatore (oltre il settanta per cento dei voti) tra Partito Comunista Italiano e Democrazia Cristiana.
Il ministro degli interni KoSSiga era uno dei simboli (zuppo di sangue, il sangue di Pier Francesco Lo Russo e Giorgiana Masi, studenti uccisi durante manifestazioni in cui la polizia sparò ad altezza d’uomo) di quella “normalizzazione” che puntava a schiacciare il dissenso come che fosse, senza distinguere tra i violenti e i non-allineati.
Io (che a Trieste ero segretario della FGSI, la Federazione Giovanile dei Socialisti), pur essendo nettamente e intransigentemente contro la violenza e l’area che simpatizzava per le Brigate Rosse, ero anche nettamente e intransigentemente contro il regime PCI-DC in formazione.

Postato giovedì, 19 agosto 2010 alle 11:19 da luciano / idefix


Gianfranco : « Stati Nazionali nel 2010 in condizioni di economia globale? ».
Mi sembra una questione in qualche modo centrale e attualissima, perché quello dello Stato-Nazione è un paradigma occidentale soggetto a cambiamenti – al pari dei paradigmi scientifici per la fisica, da Aristotele a Newton, e da Newton à Einstein. Il paradigma dello Stato-Nazione – al cui ideale John Stuart Mill, Woodrow Wilson e Alexis de Tocqueville diedero una portata mondiale – fornisce anche dei quadri per la politica che Gianfranco ritiene obsoleti : « Un altro mondo non solo è possibile, ma è in atto. Fuori da questo Altro mondo, non c’è altro che Apocalisse ». Occorre quindi mettere fine allo Stato-nazione.
Il nuovo paradigma potrebbe per esempio richiamare, se non il ritorno al Paleolitico, alle Comuni o alla Tribù ( come tentammo di fare autonomamente nel 1966-67 a Milano con Mondo Beat e il campeggio subito battezzato dal Corriere della Sera « Nuova Barbonia » e « Barbonia City », poi con la comune autonoma di Ovada e altri disastri), ebbene, il nuovo paradigma potrebbe richiamare il Progetto di pace perpetua elaborato nel 1795, alle soglie del trionfo della Rivoluzione francese, da Emmanuel Kant, che propugnava l’abolizione degli Stati-Nazione e l’instaurazione di un governo internazionale.
Se non fosse per l’eccesso di burocratismo, forse istituzioni sovranazionali come l’ONU e la UE potrebbero costituire il modello ideale del paradigma kantiano. Senonché, occorre considerare il fatto che anche i nazisti che volevano mettere fine allo Stato-Nazione , sognavano, al pari di Kant , lo Stato universale.
Probabilmente, nel tentativo di ottenere il meglio e applicare praticamente l’idea kantiana, i nazi avevano completato Kant con Sade e una spruzzatina di Nietzsche.
Attualmente, solo gli Islamisti propugnano l’abolizione degli Stati-Nazione, la restaurazione dell’Umma e l’edificazione del Califfato universale, che porterà pace e giustizia islamica all’universo mondo. Un’idea diversa da quella diffusa dall’antropologia cristiana, che oltre al primato dello Spirito sulla Legge sullo Scritto, ritiene che la perfezione non sia di questo mondo e che tuttavia l’ « Altro Mondo » sia già-e-non-ancora in questo mondo – tramite il mistero dell’Incarnazione.
Ad ogni modo, non solo lo Stato-Nazione non mobilizza più, ma, anche altre numerose personalità del mondo intellettuale lo considerano « come la fonte di mali incalcolabili », un punto di vista che mi pare condiviso da Gianfranco e forse anche Luciano, e che conosce una rapida diffusione. « Un altro mondo non solo è possibile, ma è in atto. Fuori da questo Altro mondo, non c’è altro che Apocalisse ».
Da qui la domanda, se non il desiderio ( il « desiderio dissidente », come osservava Elvio Fachinelli) di un « Altro mondo », che evidentemente non può che essere un mondo perfetto . Da qui, mi pare, anche l’ostilità che numerosi occidentali nutrono verso il loro modo di vita.
Se la democrazia, l’economia di mercato e il primato della legge hanno creato una stabilità e una prosperità senza precedenti, come mai in tanto che beneficiari si prova tanto disagio e anzi taluni, i più sensibili e riflessivi, provano sentimenti apocalittici ? Perché questo dissidio, caratteristico fra numerosi esponenti dell’Autonomia e del Movimento, tra Forma e Vita ? Forse è qualcosa che ha a che fare con il desiderio, compreso il desiderio di perfezione, anche formale, tipico degli artisti ?
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P.S. Sorprese di un lettore avido. Sul settimanale Newsweek di oggi leggo una classifica sui “migliori paesi del mondo” in termini di salute, educazione, qualità della vita, economia e ambiente politico. 1. Finlandia, 2. Svizzera, 3. Svezia, 4. Australia, 5. Lussemburgo, 6. Norvegia, 7. Canada, 8. Olanda, 9.Giappone, 10. Danimarca 11. Stati Uniti, 12. Germania, 13. Nuova Zelanda, 14 Gran Bretagna, 15 Sud Corea, 16. Francia, 17. Irlanda, 18. Austria, 19. Belgio, 20. Singapore. L’Italia è in ventitreesima posizione. Certo, come tutte le classifiche, è discutibile. Ma quello che sembra significativo è che i « migliori paesi del mondo » sono quelli in cui c’è democrazia, economia di mercato e primato della legge.

Postato giovedì, 19 agosto 2010 alle 14:40 da Gianni De Martino


Uuh, quante interessanti questioni! Vado rapido. Tipo dizionario. STATO NAZIONE – Struttura obsoleta e politicamente svuotata dal momento che sono degli organismi transnazionali e non eletti che prendono le decisioni che contano. IMPERO – Ci crede, seppure antagonisticamente, soltanto Toni Negri. Giovanni (Nanni) Arrighi sulla Monthly Revew ha smontato pezzo per pezzo il suo libro, i cui dati economici sono tutti sbagliati. Manco uno giusto. Tra l’altro Negri si scorda della Cina. Quando gliel’hanno fatto notare, ha risposto: “Be’ in effetti… quella è una situazione che non ho ancora approfondito.” Quando la realtà non corrisponde più agli attrezzi ideologici, la si fa corrispondere pur di non dover sostituire gli attrezzi. MONDO PERFETTO – La perfezione non è di questo mondo e questa è anche la nostra fortuna. Ma un Mondo Altro vive SEMPRE nelle pieghe del Mondo (“Ma chi ha detto che non c’é?”). Così come Adamo (Madera docet) è un Uomo Altro. DESIDERIO – Tutte le ciance francesi sul desiderio mi sono sempre state insopportabili come il servizio da tè del Cappellaio Matto. Sadianamente e freudianamente ho sempre preferito interrogarmi sul Principio del Piacere. Quando poi si è passati addirittura al “desiderio desiderante”, allora ho preferito riscoprire la filosofia assai meno sofistica di Walt Disney “I sogni son deeesideri, chiusi in fondo al cuooor” (nella versione italiana la cantava Orietta Berti) e ancora più indietro, il carme di Natalino Otto: “La mia donna si chiama desiderio, desiderio di una donna che non ho”. Appunto. Le pippe al Potere. Il mondo Altro lo si vive (vedi Emergency, per fare un esempio) non lo si desidera. I desideri lasciamoli ad Aladino che sfregava la sua lampada, essendo l’esercizio dello sfregamento il più abituale ai maschietti (e non ho nulla contro, intendiamoci, ma il risultato non è un mondo altro, è il solito). I MIGLIORI ANNI DELLA NOSTRA VITA – Non funestiamoci troppo con la memoria del negativo. Per me è stata una benedizione vivere, da giovane, almeno dieci anni di Mondo Altro (non sognato, ma esistente, non il comunismo di domani, nè tantomeno quello “reale”, ma la comunità liberamente condivisa e sempre mutante con gli altri, il sentirci davvero parte di un “insieme”) . Ho anche il sospetto che ci sia insopportabile, in quanto umani, vivere felici a lungo, e che l’equilibrio generale delle cose, produca poi il fatale collasso nel contrario e cioè la Violenza Infelice. Nostra? Quegli anni di turbolenta trasformazione si intrisero di violenza da ogni parte (come ricorda giustamente Luciano). Violenza stragista, anzitutto. Rapimenti con mutilazioni. Delitti privati di una stupidità e ferocia inedite. La violenza estetica, che non era soltanto quella del Mucchio selvaggio, ma anche quella dei film di Bronson sul Cittadino Giustiziere (ispirati a una figura reale) . La violenza dei cambiamenti sociali (fine della figura dell’operaio massa, fine e chiusura delle fabbriche, Ideologia del terziario avanzato… cioè tutti si chiamavano manager anche se continuavano a fare gli impiegati). La violenza della cocaina e dell’eroina, nuovo business mafioso attivamente sostenuto dalle politiche proibizioniste. La violenza contro le donne. La violenza del denaro esibito e sventolato in faccia. La violenza della volgarità televisiva e pubblicitaria. La violenza dell’egolatria. Tutta quella violenza che non è stata levatrice di alcuna Storia rinnovata, ma di Vecchia Storia rigurgitata in neo-maccartismo, Cattolicesimo Papista e pre-conciliare, fondamentalismi di ogni genere, terrorismi nazionalistici di gruppi autoproclamatisi Padroni in Casa loro, autoritarismi d’ogni tipo da Sindrome del Controllo dell’Incontrollabile, sfruttamento minorile, ripresa dello Schiavismo, dilagare della prostituzione per miseria , con annesso turismo sessuale, corruzione da raschiamento del fondo del barile, disprezzo di ogni regola costituzionale condivisa, collasso dell’etica pubblica, distruzione vorace delle risorse naturali… cosa abbiamo fatto per meritarci questo? Se qualcosa dobbiamo augurarci è che la Legge dell’Equilibrio ci riassegni d’ufficio almeno vent’anni di felicità ritrovata senza soldi , “senza orari e senza bandiera”. Ma la Provvidenza della Storia benefica solo chi un poco di vita sensata, non si limita a desiderarla, nè ad attenderla da altri, ma se la prende e non da solo possibilmente, perché una vita decente non la si vive mai da soli. OTTIMISMO- L’unico che trovo interessante e profetico è quello dei film di Bollywood. Saranno e sono i matrimoni misti a costruire Nuovo Mondo. Il nuovo mondo comincia sempre dai letti. Personalmente ho già dato, ma auguri ai nostri figli. Ufff… sono sfinito. Grazie a tutti per lo stimolante ping pong. E’ bello ribattere gli uni agli altri senza litigare, senza offendere, ma di-spiegandosi.

P.S. Devo un chiarimento sul misterioso nome di Eando (Binder). Erano, caso rarissimo, mi viene in mente solo il precedente delle sorelle Bronte, due fratelli . Eando si legge E&O, dalle iniziali dei due nomi di battesimo. Poi uno dei due si stancò di scrivere, mentre l’altro andò avanti. Scrissero anche di vampiri, non solo di Robot. Devo anche un chiarimento sul mio oscuro riferimento a Bradbury. Ha rilasciato un’intervista davvero da matto, ma a rileggerla, non è poi così folle. Anzitutto ha proibito tassativamente di trasferire i suoi romanzi in formato digitale. Poi ha aggiunto che nel mondo contemporaneo gli umani si scagliano gli uni contro gli altri per mancanza di Spazio, nel doppio senso: 1. qui siamo diventati troppi , abbiamo consumato le risorse naturali e la lotta per contenderci quelle che restano sarà sempre più feroce; 2. La fine degli investimenti nella ricerca spaziale e di mondi nuovi da colonizzare, con la conversione della tecnologia ex-spaziale in Personal Computer sempre più portatili e sempre più In-personal con i quali comunicare ossessivamente il proprio vuoto interiore e mettere in vendita e/o sul mercato ogni singolo istante della propria vita, non è soltanto la Fine di un Sogno, ma la Fine di una Prospettiva, anzi di Prospettiva qualsiasi. Conclusione: Bradbury sarà anche un pessimista senile, però…

Postato giovedì, 19 agosto 2010 alle 19:30 da Gianfranco Manfredi


Complimenti Gianfranco,il tuo ultimo post sembra un nuovo capitolo del “Dizionario del diavolo” di Bierce.In merito ai fratelli Binder,negli anni 40 scrissero anche fumetti,per la precisione “La legione dei supereroi” per la Dc.Le loro storie di robot le conosco (le ho lette e apprezzate),ma non sapevo di quelle vampiriche,per favore Gianfranco potresti indicarmi i titoli?
Capisco bene il dolore di Luciano,qualche anno fa scivolai nella doccia e ci rimisi la metà superiore dell’unghia dell’alluce,invece dei Ramones io ho sentito solo un pietoso coro di ululati,i miei.

Postato giovedì, 19 agosto 2010 alle 22:07 da Francesco Moretta


In italiano, dei Binder, è stato pubblicato da Fanucci nel volume n.6 della serie antologica di Weird Tales, il racconto vampirico “In un cimitero”, ma la notevole produzione letteraria dei Binder è tutta da riscoprire, e quasi del tutto inedita in italiano.
Ho appena finito di rivedere “Il Grande Dittatore” di Chaplin (1940) andato in onda su Sky. L’archivio storico di Chaplin e il restauro dei suoi film, anche di quelli assai malridotti, è stato affidato dalla famiglia (pochi lo sanno) alla Cineteca di Bologna, presso la quale c’è il più notevole laboratorio di restauro d’Europa, ovviamente ora a corto di finanziamenti. Comunque… tutta la discussione che abbiamo fatto sul Potere, tutto quanto si è detto, sta lì, in quel film del 1940, e a un livello davvero spaziale, rispetto a cui la decantata contemporaneità dovrebbe vergognarsi. Ho visto il film con mia figlia sedicenne che è rimasta estasiata dalla scena del mappamondo. Non aveva mai visto una cosa del genere, tantomeno si aspettava di vederla in un film. Questi film andrebbero mostrati a scuola. Ma per fortuna, capita di rivederli lo stesso sui media… certo, in agosto, in tempi di bassa (?) programmazione. D’inverno non farebbero audience. Dal discorso finale di Chaplin agli uomini della terra: “Voi non siete macchine, voi non siete bestie, voi siete uomini!” La forza politica della poesia. Non è necessario aggiungere altro.

Postato giovedì, 19 agosto 2010 alle 23:19 da Gianfranco Manfredi


Vorrei precisare: per chi li visse e ne usciì indenna, gli anni Settanta non furono solo “gli anni di piombo”. Fu un’epoca piena di scoperte e di fantasia. Ne cito solo qualcuna: Corto Maltese, la nascita del punk, il big bang di Andrea Pazienza, i primi film di Brian De Palma, il Toro granata che batteva la Juve della Fiat, la scoperta del reggae, il miglior Springsteen di sempre (quello del tour Darkness del 1978), la rivista di fantascienza Robot e quella satirica il Male, i concerti rock e jazz grandi e piccoli, Io sono un autarchico ed Ecce bombo di Nannimoretti, la rivoluzione pacifica di Franco Basaglia che aprì i manicomi, Rocky horror picture show, la vittoria nel referendum su divorzio, Laura Antonelli nel massimo del suo splendore carnale, tutti i romanzi di Philip Dick in grande quantità, l’esordio dei gialli di Loriano Machiavelli con Sarti Antonio, l’arrivo di Stephen King (con tutto ciò che ne conseguì), il miglior periodo di Dario Argento, Mario Bava ancora vivo, l’Olanda di Cruyff, i vestiti colorati, l’ironia e gli sberleffi, il situazionismo che correva qua e là, l’australiano Picnic a Hanging rock di Peter Weir, Ken Parker di Berardi e lo Sconosciuto di Magnus in edicola, la chitarra elettrica di Neil Young nel pazzo assolo di Like a hurricane, le terribili e fiammeggianti tragedie dei Lynyrd Skynyrd e degli Allman Brothers Band, il rock italiano che diventa adulto…

Postato venerdì, 20 agosto 2010 alle 08:42 da luciano / idefix


A proposito di vampiri orientali voglio segnalare un film d’arti marziali del 1972 intitolato “Finger of doom”. Non ci sono veri vampiri tuttavia, in questo film, viene mostrata un’arte segreta che permette di controllare una persona conficcandogli uno spillone nel collo. Solo che l’uso di una tale tecnica rende chi la pratica simile ad un vampiro. Infatti la villain di questo film deve bere sangue per mantenere il controllo sulle sue vittime
e dormire di giorno per recuperare le forze. Inoltre durante il giorno quest’ultima sceglie di dormire, neanche a farlo apposta, in una bara per difendersi da eventuali attacchi. Per chi volesse saperne di più su questo film sul sito Asianfeast vi è un’ottima recensione.

Postato venerdì, 20 agosto 2010 alle 13:36 da Roberto Moretta


@Gianfranco.Il racconto “In un cimitero”,l’ho letto dimenticandomi che i Binder l’avevano scritto.Per la precisione l’edizione che ho letto era nel volume della Newton e Compton “Storie di vampiri”.

Postato venerdì, 20 agosto 2010 alle 13:52 da Francesco Moretta


Comunque in realtà dittatura e potere,non sono argomenti molto estranei all’horror.”Nosferatu” di Murnau viene incluso insieme ad altri film della prima metà del novecento in una ideale serie di film su tiranni,despoti e dittatori.(Un altro film presente è “Ivan il terribile” di Sergej M. Ejzenstejn)Inoltre un critico defini all’epoca il conte Orlok come “un tiranno gonfio di sangue”.

Postato venerdì, 20 agosto 2010 alle 14:09 da Francesco Moretta


NUDI , IMMATURI E INSANGUINATI
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I vampiri della saga di True blood appaiono nudi e gonfi di sangue sulla copertina di Rolling Stones di settembre. Il creatore della serie, Alan Ball, nel servizio dellla rivista spiega: ”Per me i vampiri sono sesso. Non mi interessa una storia di vampiri che parli di astinenza. Ho 53 anni e non me ne frega nulla degli studenti delle scuole superiori. Li trovo irritanti e impreparati”. La mordace osservazione è rivolta senza ombra di dubbio agli autori e produttori della saga dei vampiri puritani, esangui e ormai “adulti” di Twilight.
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http://www.youtube.com/watch?v=DR9_NifUPtA&feature=related

Postato venerdì, 20 agosto 2010 alle 14:14 da Gianni De Martino


E’ vero sangue? Mah… True Blood si presentò bene, alla prova dei primi episodi, per poi smarrirsi in un polpettone senza indirizzo, ma anch’esso, come il brodo della Meyer, sempre alle prese con gli impicci e gli impacci del politically correct… qui, al contrario che nella Meyer, scopano tutti come mandrilli, con aperta inclinazione sado-maso, il che è una ben strana alternativa: al college non si scopa (ma quando mai?) nelle disastratate periferie provinciali sì, altrimenti non si saprebbe che fare la sera, se non ingurgitare birra. La tolleranza si allarga ai vampiri buoni o buonini, purché convertiti alla merce, cioè consumatori di Coca-Cola al sangue OGM . Per questi ultimi si può anche provare “amore” perché al fondo i vampiri (specie quelli dissidenti) sono (qui come nella Meyer) dei gran sentimentali. Protagonista del pastrocchio è una biondina già protagonista di infiniti filmetti da college , e pienamente allineata al modello Buffy. Da aggiungere che i vampiri “veri” non si ricoprono di sangue, perché non sono spreconi di prezioso nettare. Insomma, un nuovo capitolo dell’infinita decadenza dell’aristocrazia del sangue. E la quantità di merchandising prodotta dalla serie fin dal suo primo apparire é di un tale infantilismo che non potrebbe avere altri acquirenti degli stessi appassionati della Meyer, magari cresciutelli, ma solo nelle dimensioni fisiche.

Postato venerdì, 20 agosto 2010 alle 16:14 da Gianfranco Manfredi


Chi vedesse adesso, senza aver seguito dall’inizio, una singola puntata di True Blood, non ci capirebbe una mazza, non perché sia come Lost una serie densa di misteri, ma perché semplicemente non c’è un cazzo da capire, se non che gli autori non hanno nulla da dire. Gli impulsi sessuali tornano come piatto forte solo quando il pappone si affievolisce, per riattizzare qualche pulsione nel pubblico sconfortato dalla totale mancanza di emozioni narrative. Il declino di Rolling Stone giustifica l’attenzione dedicata alla serie. E ha un profilo ancor più desolante: la rivista da cartacea come il Berkley Barb si è fatta patinata e glamour come Cosmopolitan proprio nell’epoca in cui i dischi non si vendono più, cioé a copertura del totale vuoto creativo e di senso.

Postato venerdì, 20 agosto 2010 alle 16:26 da Gianfranco Manfredi


Walter Scott nel suo possente studio “Demoni e Streghe” (Donzelli Editore) ricorda tra l’altro antichi costumi celtici (in Scozia, nel Galles e in Irlanda) che prescrivevano di lasciare incolte e selvagge vaste porzioni di terra, in modo da mantenere uno spazio agli esseri maligni e non turbarli arando e dissodando. Tradizione che all’epoca di Scott si stava molto affievolendo, tanto da spingerlo a concludere: “L’alto prezzo pagato dalla produzione agricola durante l’ultima guerra, rende dubbia la probabilità che l’ossequio a una vecchia superstizione abbia impedito che una sola di esse rimanesse inviolata” . Il ragionamento si applica anche alla nostra epoca. E’ assai difficile mantenere territori davvero selvaggi, quando di ogni lembo di terra si ha necessità di fare uso economico. E questo spiega perché i territori selvaggi del fantastico siano diventati i più saccheggiati.

Postato venerdì, 20 agosto 2010 alle 16:44 da Gianfranco Manfredi


Dal poema “Addio alle Fate” di Richard Corbett, vescovo di Oxford e di Norwich, citato da Scott:

Piangete, piangete, o vecchi abati;
le fate hanno perduto il comando;
esse cambiavano solamente i vostri fanciulli,
altri ora hanno cambiato i possessori delle vostre terre;
e tutti i vostri fanciulli in esse nati
son divenuti puritani,
che vivono, come in passato i figli sostituiti dalle fate,
a spese dei vostri patrimoni.

Postato venerdì, 20 agosto 2010 alle 16:56 da Gianfranco Manfredi


Gianfranco: “E’ vero sangue?”.
Naturalmente non lo è, si tratta di una finzione e Dracula non comprerebbe mai Rolling Stones. Il vero sangue attrae molto i vampiri, i selvaggi e i primitivi, ma compare raramente nella cronaca e nello spettacolo dell’uomo cosiddetto civilizzato – e quando purtroppo scorre davvero, nella maggior parte dei casi occorre ripulirlo in fretta, farlo sparire dalla scena del crimine. Non a caso, in uno dei luoghi più tristi e violenti del Pianeta, la città messicana di Ciudad Juarez – dove lo Stato stesso rinuncia a castigare perché coinvolto nella violenza, e forse comandano ancora le fate – “alcune imprese di pulizia si sono ormai specializzate nel lavare chiazze di sangue, disinfettare case o auto dove è avvenuto un crimine, rimuovere e raccogliere resti di corpi umani, a volte fatti a pezzi”.
Lo ha riferito qualche giorno fa il Corriere , che spiega: “ Le imprese offrono questi servizi specializzati con un sovrapprezzo, con tariffe equivalenti a 200-300 dollari. I clienti più frequenti sono i proprietari di bar, ristoranti e discoteche, i luoghi più spesso teatro di omicidi, per lo più regolamenti dei conti tra bande rivali di narcotrafficanti che fanno affari con la coacaina per la vicinanza della frontiera con gli Stati Uniti. Ma chiamano per avere un servizio di ripulitura cadaveri anche privati, i cui familiari sono stati assassinati in casa.
I dipendenti di queste imprese assicurano però che la maggiore richiesta avviene per la pulizia di veicoli”. Parafrasando William S. Burroughs: “Pulitore, signora. Le serve il mio lavoro?”.
Evidentemente c’è gente che, avendo un cadavere senza testa nel portabagagli domestico o in garage, si ritrova con problemi che non è attrezzata a risolvere.
Purtroppo quello che accade a Ciudad Juarez non è un film, ma una brutta storia che solo pochi giornalisti hanno avuto lo stomaco di riferire, e forse merita di essere menzionata in un blog di letteratura vampirica e altri orrori. Una brutta storia che somiglia a un film, a Pulp Fiction.
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Qui la scena dell’arrivo dell’addetto alle pulizie speciali: “ Sono il signor Wolf, risolvo problemi”. http://www.youtube.com/watch?v=8TLsYb4kDA0

Postato venerdì, 20 agosto 2010 alle 18:33 da Gianni De Martino


Ormai la maggior parte del materiale vampirico recente è talmente omologato da scoraggiare perfino i più fanatici patiti del genere.
Poi ovvio ci sono anche delle eccezzioni,ma il resto è desolante.Più che altro su internet mi è capitato di imbattermi in alcuni romanzi degli anni 80-90 inediti da noi,ma che sembrano interessanti. Mi riferisco ai romanzi di Nancy Collins e soprattutto a quelli di Mick Farren, un allucinato miscuglio di vampirismo,grandi antichi,congiure e acido lisergico.Oppure sarebbe interessante anche “Less than human” di Gary Raisor cronaca tragicomica delle peripezie di due vampiri texani.Personalmente continuo ancora a sperare in una traduzione in italiano di questi libri,sperare non costa nulla.
P.S. @Gianfranco.Ho visto “Cacciatori di vampiri” e mi è piaciuto,anche se la trama aveva troppa carne al fuoco,non sempre ben gestita.D’altronde di fronte ai vampiri cool alla True blood preferisco quelli silenziosi e putrefatti dell’oriente.

Postato venerdì, 20 agosto 2010 alle 19:08 da Francesco Moretta


Sì, Gianni, come ho riferito in un precedente post, ho passato qualche giorno in Spagna, dove giornali e telegiornali erano pieni di cronache da Ciudad Juarez (da considerare oltretutto che in quei giorni di Luglio avendo la Spagna appena vinto i mondiali, la distrazione era a portata di mano). Sono i NOSTRI giornali che ne parlano poco e male. Gli efferati dettagli di costume fanno senza dubbio più audience della riflessione, stante che di guerre tra bande criminali il nostro stesso paese è pieno, in patriottico silenzio, a meno che qualche generoso quanto intenso testimonial non ne faccia racconto teatrale. “Oh, signora mia, ma davvero?”. Un amico scrittore messicano, presente al convegno, mi ha detto: la situazione italiana è molto simile a quella del Messico. Non ho commentato, giudicandola un’iperbole autoconsolatoria. Resta il fatto che parlare poco e male di certe situazioni le allontana dalla mente, ma ce le avvicina di fatto. Ho anche già riportato la notizia segnalata dal Fatto Quotidiano e documentata da testimonianze raccolte in video, dei presunti(?) scannamenti ai cosiddetti Giardini di Quarto Oggiaro dove pare (?) che chi resista alla ‘ndrangheta venga letteralmente gettato in pasto a mute di pitbull allevati in loco e addestrati allo scopo. “Non ne resta nemmeno un osso”, ha detto un testimone. Senza giungere a tanto, in via preventiva, vengono incendiate le auto di chi resiste alle prime minacce. Il tipo intervistato indica una strada che si perde in un campo… “Cinque o sei lungo questa strada. Incendiate da bande di minorenni che arrivano con gli scooter.” Vero? Falso? Uno si sfoglia le pagine milanesi dei quotidiani e non trova né conferma, né smentita. Più appassionante di certo la vicenda di 45 metri quadrati a Montecarlo arredati con cucina Salvarani “la più amata dagli italiani”.

Postato venerdì, 20 agosto 2010 alle 19:32 da Gianfranco Manfredi


@ Francesco. Ho molto apprezzato i romanzi di Nancy Collins “Sunglasses After Dark ” (1989) e “In the Blood”(1992) e mi sono chiesto anch’io come mai in Italia non fossero stati tradotti. Adesso forse sono un po’ datati, chissà… dovrei rimetterci gli occhi. Anche lei , come Anne Rice, si era trasferita a New Orleans. Il suo erotismo era più moderno di quello della Rice, ma piuttosto in linea, per quanto mi ricordi.

Postato venerdì, 20 agosto 2010 alle 19:40 da Gianfranco Manfredi


Ex oriente lux ? Forse i vampiri dell’oriente, specialmente i vampiri del vajrayana, rappresentano, segretamente, la parte Ombra di psiche con la quale prima o poi è giocoforza scendere a patti. I vampiri provenienti dai rigagnoli d’oriente sembrano pertanto più autentici dei vampiri spettacolari alla True blood – che sulla copertina carnevalesca di Rolling Stones virano alquanto stupidamente verso il manierismo Pulp, mentre nella serie televisiva sollecitano solo gli occhi corporei e, come osserva giustamente Gianfranco, non danno emozioni narrative. In tal senso non è vero sangue.

Postato venerdì, 20 agosto 2010 alle 20:03 da Gianni De Martino


Per la verità anche i vampiri d’oriente sono piuttosto farlocchi e la misura della loro exploitation è pari alla nostra. Ritengo, però, modestamente che recuperando la fiaba e con robuste iniezioni di commedia, siano se non più autentici, più incuriosenti almeno per chi come noi alla commistione di generi (non in letteratura, ma all’interno dello stesso film, inclusi dei totali salti stilistici di recitazione a noi del tutto ignoti) e al favolistico-foklorico non è più molto attrezzato. E poi si sa com’è… quando si è visto di tutto dalla serie a alla Zeta, qualsiasi piccola stranezza è benvenuta!

Postato venerdì, 20 agosto 2010 alle 21:07 da Gianfranco Manfredi


Mi pare il caso di precisare un punto su questa faccenda del codice di recitazione, in questo genere di film cinesi, ma che vediamo applicata in una quantità di film di kung fu, anche non fantastici o vampirici. Non c’è bisogno di aver recitato per sapere che tutte le scuole occidentali di recitazione, da quella classicheggiante britannica a quella dell’Actor Studio, da quelle enfatiche e oratorie a quelle naturalistiche di casa nostra (il passaggio è stato rappresentato alla grande, in modo davvero unico e ineguagliabile, da Vittorio Gassman), hanno comunque un punto in comune: l’aderenza psicologica al Personaggio, che si fonda sulle categorie aristoteliche. Un personaggio tragico, lo si interpreta diversamente da uno comico, e l’epico, che dei due generi è l’incontro, è comunque assai rigoroso e contenuto nella raffigurazone dell’eroe, che può avere risvolti ironici (come Ulisse) o compassionevoli (come Enea) ma Eroe deve restare, e non può permettersi di comportarsi da vigliacco, in nessun istante. Tant’é che quando un eroe cede alla commozione (“Il Corsaro Nero pianse”) o alla follia (l’Orlando furioso) o al dubbio metafisico e irresoluto (Amleto) assume le caratteristiche dell’anti-eroe.
Nel racconto orientale le cose non stanno affatto così. L’attore eroe è così trasparente rispetto alle situazioni concrete da smarrire coerenza psicologica. Per un attore è una grandissima prova passare di scena in scena da un atteggiamento marziale a uno ridicolo, dall’intensità sentimentale ( sedotta e seduttiva) allo smarrimento più che da timido , da totale imbranato. Jackie Chan è l’attore che ha saputo tradurre questi codici per il pubblico occidentale, ma nei film cinesi, specie in quelli di Hong Kong, ci sono sottolineature così estreme da ricordarci la grafica e i codici espressivi del fumetto ( Dylan Dog incontra fantasmi da una vita, eppure ogni volta strabilia, “Giuda ballerino!”) o del cinema muto ( da questo punto di vista Lon Chaney è stato senza ombra di dubbio il più grande). Per noi però, un attore che reciti così, non è grandissimo, è “uno che non sa recitare”, che “fa le facce”, che rende implausibile il personaggio e dunque mina la credibilità del racconto. Ho trovato qualcosa di simile all’epica cinese nell’epica araba, dove ad esempio il Saladino , ad opera dei suoi stessi agiografi, può attraversare momenti di assoluta vigliaccheria, cedere al panico o alle lacrime, insomma diventare preda di quelle emozioni che secondo il nostro punto di vista, l’Eroe dovrebbe quanto meno saper governare e tenere sotto controllo.
Ignoro come abbiano risolto gli indiani dell’India questo problema, che è anche di natura rappresentativa e “recitativa”. Il riferimento fatto da Gianni, vorrei che lui lo spiegasse di più. C’è infatti anche una robusta tradizione di cinematografia indiana vampirica, che da noi non è mai arrivata e ci è più occulta di quella cinese, perché include maschere e figurazioni simboliche (vampiri dalla pelle blu, ad esempio) di cui fatichiamo a comprendere i riferimenti. Dato che senza volere stiamo compilando una sorta di Enciclopedia Vampirica… i vampiri indiani ci mancano ancora. Chi ne sa qualcosa , anche dei loro film in proposito, parli.

Postato venerdì, 20 agosto 2010 alle 22:39 da Gianfranco Manfredi


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Ripenso a Bradbury.

Postato sabato, 21 agosto 2010 alle 12:35 da Gianfranco Manfredi


VAJRAYANA

Criptico per criptico, ho cercato lumi su un riferimento di Gianni a me del tutto ignoto (nessuno nasce imparato). Ecco:

Il Vajrayana (skt.: Veicolo del Fulmine o anche del Diamante) si diffuse soprattutto nel Bengala e nello Swat (attualmente in Pakistan) con forme ormai scomparse ma i suoi principi teorici possono essere desunti da quelli del Lamaismo tibetano, o Mantrayana (skt.: veicolo dei mantra, o meglio via delle invocazioni) o anche Tantrayana (skt.: veicolo dei tantra, o meglio via dei libri), che ne è la continuazione dottrinale.

Dunque, all’ingrosso, la versione hindi del buddismo. E i vampiri?

Postato sabato, 21 agosto 2010 alle 12:43 da Gianfranco Manfredi


@Gianfranco.Ho provato a fare qualche ricerca sui film indiani di vampiri,ma tutto quello che ho ottenuto è stato uno scarno elenco di film,disponibile al sito http://www.cinemedioevo.net sezione vampiria. Eppure tale elenco è troppo scarno.Nel “Dizionario dei film cult” i film indiani sui vampiri vengono addirittura indicati come filone sottovalutato degli anni 70.Quindi com’è che su internet si trova cosi poco?Mi unisco al tuo appello,se c’è qualcuno che sa qualcosa,per favore parli.

Postato sabato, 21 agosto 2010 alle 15:35 da Francesco Moretta


Un tempo avevo letto da qualche parte che il primo film di vampiri della Storia del cinema venne girato proprio in India, film ormai scomparso. Non ne ricordo il titolo, né l’ho trovato citato sul Dark Screen di Pezzini/Tintori. Dubito però si tratti davvero del primo, perchè mi pare di ricordare che fosse dei primi novecento, mentre il primo vampiro riconosciuto (un Mefistofele/pipistrello, per la verità) compare nel corto: Le manoir du Diable (1896) di Georges Meliès. Tornando ai film hinhi, sul Dark Screen ne ho trovati segnalati altri: il pakistano Zinda Laash (The Living Corpse) di Khwaja Sarfraz (1967); l’indiano Bandh Darwaza (1990) di Shyam e Tulsi Ramsay (due fratelli) ; e infine Khooni Dracula (1992) di Harinam Singh. I film hindi di vampiri di cui però avevo sentito parlare io sono molto recenti e si riferiscono più strettamente alla mitologia indiana. Ho visto qualche foto di scena, con esseri zannuti dalle pelli blu, che in effetti parevano raffigurazioni di divinità. L’ho visto su Internet questo materiale o su qualche rivista sfogliata in giro? Buio completo. Ne so pochissimo di cultura indiana e quello che ne ho letto nei romanzi di Rushdie mi ha affascinato proprio perché non ci capivo niente, per cui quei nomi davvero mi sorgevano davanti come le “indicibili” divinità lovecraftiane, di cui meno si sa, meglio è, altrimenti si rischia di smarrirne la misteriosa attrattiva. Però poi, ovviamente, non è detto…

Postato sabato, 21 agosto 2010 alle 18:22 da Gianfranco Manfredi


QUALCHE NOTA SUI VAMPIRI BUDDHISTI
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Nel buddhismo esoterico del Tibet, Mahakala ( o « Grande Nero ») è una forma visionaria della mente-che-ha-realizzato-la-vacuità-dei-fenomeni – sia di quelli esterni sia dei fenomeni interni, permeati di consapevolezza. Ponendo l’attenzione sia nel profondo che nel manifesto, la pratica yogica di Mahakala – proiezione zannuta del buddha della compassione Avalokitesvara – distrugge la credenza in un ego solido e con una piccola idea della relazione con se stesso, gli altri e le energie dell’universo.
Nel tantra indu, per diversi tratti diverso da quello buddhista, il signore dello yoga è Shiva. Il suo aspetto è blu perché, per compassione, ha bevuto il veleno delle emozioni negative ( rabbia, attaccamento, odio, ecc. ) e lo ha trasformato in a-mrita, nettare della non-morte. Però è diventato tutto blu. Una persona ordinaria sarebbe rimasta stecchita come un corvo, in Shiva invece il veleno opera come si creda faccia nel pavone, che sarebbe immune ai veleni, e che anzi più se ne nutre più le sue piume diventano colorate e brillanti.
In ogni tradizione tantrica, sia indu che buddhista, si raccomanda di non accostarsi al tantra senza i requisiti richiesti e l’assistenza di un guru qualificato, in quanto si tratta di una pratica estrema, rapida, fulminea e molto pericolosa. Tantra indica sia i libri che contengono gli esercizi o sadhana tantrici sia l’idea di « continuità » fra samsara e nirvana.
In altri termini, si pratica come se l’illuminazione fosse già stata raggiunta. A tale scopo si usano i mantra, ovvero dei suoni che avrebbero il potere di isolare e proteggere (tra) la mente (man) dalle associazioni ordinarie e di rendere immediatamente presente questo o quell’aspetto della mente risvegliata di un buddha. Pertanto il vajrayana ( che significa veicolo dell’istante- fulmine o anche del diamante, con allusione alla natura adamatina e indistruttibile della verità ultima costituita dalla vacuità) è conosciuto anche come mantrayana, veicolo delle formule o suoni.
Nel buddhismo del Tibet ( alla confluenza con l’induismo, lo sciamanesimo siberiano e il mazdeismo visionario dell’attuale Pakistan) Mahakala assume la forma terrificante di un vampiro, perché succhia energia all’ego e trasforma rabbia, attaccamento e odio in veicolo per realizzare l’uscita, per così dire, fuori di sé. L’estasi così realizzata, attraverso il terrore e l’angoscia (di cui la vera sede è l’ego), viene utilizzata per meditare sulla vacuità di esistenza inerente dei fenomeni.
In un’altra pratica del vajrayana, il conosciuto come « pratica del recidere l’ego » o anche « demoni », viene compiuto un complesso rituale tantrico danzante, detto anche « Pratica del Serpente Nero Che Avanza a Zig-Zag ».
Si tratta di un auto-sacrificio da praticare possibilmente in un cimitero o in luogo di cremazione – oppure, com’è più comune in Tibet, in un luogo dove si fanno a pezzi i cadaveri dei defunti per offrirli agli uccelli.
A un certo punto del rituale tantrico la guida spirituale o guru si trasforma in una dakini, una fata-vampiro, che assume le movenze di un avvoltoio in volo verso la preda. La fata-dakini, provvista di denti aguzzi, taglia con un coltello ricurvo la carcassa del praticante e toglie la pelle sanguinante ( la pelle rappresenta l’ego). Quindi la stende per terra, come un tappeto, e vi pone sopra una pentola che poggia su un trepiedi costituito da tre teste umane : un cranio, una testa putrefatta e un’altra recisa di fresco).
Nella pentola viene versato il cranio del praticante, midollo, seme e cervello. Il tutto viene rimescolato con il coltello ricurvo per tre volte, da sinistra verso destra. A questo punto, magicamente, le sostanze del corpo del praticante si trasformano in un oceano di nettare e di consapevolezza della vacuità ultima di esistenza inerente di tutti i fenomeni.
L’oceano di nettare viene inizialmente offerto alle forze del risveglio e a tutti i maestri del lignaggio iniziatico ; poi, insieme alle ossa, alla carne e al sangue, pure trasformatosi in un oceano di nettare, viene offerto a tutte le creature, visibili e invisibili- affinché tutti possano essere guariti dalla paura della morte e dalla stretta di innumereveli emozioni negative. E’ come se il sacrificio del proprio ego e del proprio corpo, insomma del tutto di sé, si fosse trasformata in una medicina di non-morte.
A questo punto, arrivano, in qualità di invitati, stormi di vampiri, spiriti e mostri zannuti di ogni specie, che deliziati dall’offerta lappano e divorano tutto il contenuto del pentolone e quello che resta delle ossa, della carne e del sangue, come se fosse nettare.
Lo scopo dell’offerta del nettare agli esseri maligni, quasi « “indicibili” divinità lovecraftiane », ha lo scopo di sviluppare la compassione.
Il godimento della moltitudine dei demoni di ogni specie e classe è immenso.
Prima che si congedino, ai demoni viene spiegato come superare, tramite la pratica del dharma del buddha, la tristezza del samsara ( ovvero del continuo venire all’esistenza dei fenomeni condizionati da tanta carne prudente, impaurita e che invecchia ) e i terrori del nirvana. Demoni e vampiri vengono quindi invitati a diventare compassionevoli, più gentili ed amorevoli, e soprattutto a liberarsi dall’abietto desiderio di essere amati e da quella loro tipica tendenza, intessuta di ignoranza, risentimento e odio, di fare del male alle creature.
Questo, grosso modo, una descrizione della pratica detta « del Serpente Nero Che Avanza a Zig-Zag ». Per vincere i demoni e trasformarli in alleati, non basta offrirsi in nutrimento ai demoni e mangiare la parte Ombra di psiche e delle sue varie curvature, ma occorre, in via preliminare e necessaria : consapevolezza del vuoto di esistenza inerente dei fenomeni ; compassione per ogni creatura o forma di vita, comprese forme di vita alquanto disgraziate come le forme di vita vampiriche ; il voto di bodhisattva, vale a dire la promessa di praticare unicamente per essere di beneficio agli altri ; l’iniziazione tantrica e la devozione verso i maestri spirituali del lignaggio attraverso cui passa l’iniziazione alla pratica esoterica ( devozione che si realizza tramite una pratica speciale, nota come « guru-yoga).
Si tratta di pratiche segrete, non per fare i misteriosi, ma a causa della stessa natura segreta della realtà – ovvero di questo impossibile che chiamiamo « realtà ». In genere ai praticanti viene raccomandato di non parlare degli esercizi vajrayana a destra e a sinistra, ma di custodire il tutto « ermeticamente chiuso » – per non farne sfumare l’aroma, insieme alla grazia del guru. D’altra parte è anche vero che, specialmente negli Stati Uniti, numerose pubblicazioni e siti parlano del tantra, spesso a torto e a traverso.
Debbo queste poche nozioni sul Ciod o dCod (bdud kyi gCod yul), al monaco buddhista Elio Guarisco, che ho conosciuto a Milano quando era il traduttore di Lama Geshe Rabten. – Vorrei aggiungere che Elio, prima di viaggiare in India, attraversare esperienze con l’LSD e poi diventare monaco buddhista, ha partecipato attivamente, nel 1972, al Movimento Studentesco di Como e a Potere Operaio dove conobbe Toni Negri, Scalzone, Vesce, Cecco Bellosi e altri esponenti – lo racconta lui stesso in un libro insufficiente edito e credo ormai introvabile: “Quando il Garuda volò ad Occidente: L’esperienza di un discepolo buddhista con un lama tibetano”, Shang Shung Edizioni, Arcidosso, 1994.
In genere, quando riferiscono in uno scritto gli insegnamenti del tantra, commentatori e traduttori avvertono che ” Tutti gli errori che qui dovessero essere contenuti sono miei, quello che vi si potrebbe invece trovare di utile è dovuto unicamente alla compassione e alla grazia del guru”.
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Mantra di Mahakala>
http://www.youtube.com/watch?v=A3ZWsSOp2TQ&feature=fvw
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- Iconografia di Mahakala>
http://www.himalayanart.org/pages/mahakala/index.htm
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Un ritratto e un filmato della venerabile Doljin Kandro Suren, sciamana siberiana detentrice del lignaggio chod in Mongolia e in Russia >
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http://www.siberianshamanism.com/images/Mongolia/Ulan%20Bator/shaman-3.jpg

http://www.youtube.com/watch?v=eKzXY3HNZsU&feature=related

Postato sabato, 21 agosto 2010 alle 20:52 da Gianni De Martino


Appassionante lettura. Senza che me ne fossi mai reso conto, forse cova in me qualcosa di indiano… respinto razionalmente per timore non del vampiro divoratore, bensì di certi luoghi comuni generazionali che hanno fatto stragi di intelligenze (forse dubbie già all’origine). Sarà anche che l’idea occidentale dell’India come Patria della Spiritualità, (quasi che lo Spirito non soffiasse dove vuole) mi ha sempre irritato, al punto da esultare quando riuscii a vedere su Fuori Orario un documentario di Rossellini che cominciava spazzando via subito gli equivoci: l’India per lui (in quegli anni) era soltanto una terra straziata dalla miseria. La miseria era il suo problema, non altro. Simili giudizi, seppure leggermente a contrasto tra loro, vennero poi pronunciati da Pasolini (nel suo “L’odore dell’India”) e da Moravia (nei reportage di viaggio pubblicato sul Corriere della Sera). Tutto ciò, tra critica neo-marxista e infatuazione da tardo beatniks, mescolata a Herman Hesse, a New Age d’accatto e a gurismi vari, mi ha spinto a non considerare poi così urgente un viaggio in India.
Ma torno al tema e in particolare al cinema indiano. Per quanto ne so, l’ha inizia assai precocemente e grazie a un viaggio in India di Meliès. I primi film indiani risalgono alla fine dell’ottocento e sono tutti lavori che in realtà più che a Meliès sembrano guardare ai Lumière, cioè sono più ispirati al documentarismo che al fantastico. Non mancano però alcune versioni filmiche di loro repertori teatrali e qui affiorano richiami mitologici che poi nel primo decennio del novecento diventano prevalenti. Tutto questo materiale è purtroppo andato distrutto in incendi e altre calamità.
Successivamente il cinema indiano , con il sonoro, si indirizzò a modelli occidentali. Ad esempio, tra i film vampirici segnalati da Pezzini, il primo ha al centro la figura di uno scienziato pazzo. La storia moderna e recente del cinema indiano è più nota, ma quello più vicino al loro folklore ci è stato finora precluso dalla distribuzione. Se penso che cinematografie importanti come quella indiana, cui bisognerebbe aggiungere quella pakistana, e sconfinando un poco nell’area, la scuola thailandese, il cinema delle Filippine eccetera … se penso che queste cinematografie di notevole rilievo ci sono state di fatto “vietate”, mi viene un sacro furore. Ritengo che il cinema sia una cartina di tornasole della vivacità insieme culturale e industriale di un paese e misura della sua modernità. Ignorare il cinema di questi paesi, significa né più né meno , non considerare la loro importanza, la loro crescita, la loro capacità di influenza.

Postato domenica, 22 agosto 2010 alle 13:46 da Gianfranco Manfredi


@Gianfranco.Non c’entra con l’attuale discorso,ma ti segnalo che sul buon sito Shroudeater,nella sezione dedicata ai testi italiani sul vampirismo è presente anche “Ho freddo”.L’autore del sito pur non trattando di solito narrativa lo ha inserito per via dell’ottima descrizione delle credenze e pratiche legate ai non-morti di quel periodo.
Sulle cinematografie proibite,hai pienamente ragione!

Postato domenica, 22 agosto 2010 alle 21:24 da Francesco Moretta


Saltando completamente sia il palo che la frasca sopra i non morti buddisti, vi comunico che la mia storia di vampiri, studenti fuorisede a Bari e mafiosi albanesi è riuscita a infiltrarsi tra “I sapori del Giallo” di Langhirano (Pr) il prossimo 12 settembre. Insomma il contagio si espande.
Se a qualcuno di voi venisse voglia di passare a dare un’occhiata, sarebbe bello.

Postato domenica, 22 agosto 2010 alle 22:31 da Giusy De Nicolo


Sul vampirismo locale italiano contemporaneo, genere che si va estendendo e di cui l’ottimo Vergnani è alfiere, segnalo anche un fumetto di prossima uscita. Si tratta di El Brujo di Stefano Fantelli. Gli appassionati lo conosceranno già, comunque questa è un’edizione in libro di storie brevi, ma collegate tra loro, disegnate da Dario Viotti, per citare il principale, ma anche gli altri hanno un segno grafico interessante e dagli stili molto vari, per cui non c’è rischio di annoiarsi nemmeno la vista. El Brujo è un cacciatore di Fate Vampire che opera a Bologna e dintorni. Prima o poi bisognerà fare una cartina che segnali regione per regione i recenti “avvistamenti” vampirici in Italia, con indicazione di autori e gruppi operanti.

Postato lunedì, 23 agosto 2010 alle 12:38 da Gianfranco Manfredi


Parlando però di avvistamenti vampirici veri in Italia (e non narrativi) c’è il piccolo problema che molti sono fasulli.Il vampiro di Venezia si è rivelato essere tutt’altro,mentre due casi citati da Shroudeater (uno a Lerici ed uno a Palermo) si sono rivelati delle truffe.Emilio De Rossignoli aveva citato nell’imprendiscibile “Io credo nei vampiri” alcuni casi italiani di vampirismo,ma altri non me ne vengono in mente.Segnalo un vecchio racconto di Vittorio Curtoni intitolato “Prima del buio”.Pubblicato dalla Stampa Alternativa era un bella storia di vampiri,aids ed eutanasia.(Nonche su come i vampiri possano modernizzarsi nel procurarsi sangue)
Per chi volesse leggerlo il testo è disponibile online sul sito “Vampyres only” nella sezione The eternals:a collection of short original fiction.

Postato lunedì, 23 agosto 2010 alle 13:15 da Francesco Moretta


Per alcuni giorni, non potrò intervenire. E mi mancherete.
Ci risentiamo sabato sera.

Postato lunedì, 23 agosto 2010 alle 17:29 da luciano / idefix


A Sabato sera Luciano,in bocca al lupo per qualsiasi impegno tu debba affrontare.

Postato martedì, 24 agosto 2010 alle 10:38 da Francesco Moretta


Si trascina in questa coda d’estate, la polemica sulla Mondadori e il confusissimo dibattito sulle scelte da fare da parte degli scrittori. Non mi va di parlarne nel dettaglio, per stanchezza e per avvilimento di fronte al risaputo elenco di luoghi comuni che vengo snocciolati: distinzione tra etica e scelte professionali (si sa, pur di lavorare , va bene anche una fabbrica di armi), ipocrita omologazione degli scrittori a categorie di lavoro dipendente (sono i più sfacciati a considerarsi “operai”), esaltazione del ruolo dei “magnifici professionisti” che lavorano nella Real Casa come se quelli che lavorano in altre case fossero tutti dei dilettanti allo sbaraglio (e poi ci avete fatto caso? Ai meriti dei collaboratori editoriali non si fa mai cenno quando si viene insigniti di Premi, lo si fa invece quando si intascano lauti anticipi e non si ha cuore di restituirli rescindendo i contratti) . Una sola cosa, in tanto bailamme, è certa: gli scrittori italiani non hanno mai avuto, non hanno e non avranno probabilmente mai alcuna propensione per la contrattazione collettiva, per una minima unità di intenti e di obiettivi condivisi. Ciascuno ragiona per sé. Dopodiché se negli anni passati gli sceneggiatori, almeno, sono riusciti a ottenere qualche riconoscimento e beneficio economico in merito ai diritti cinematografici e alla royalties per le repliche televisive, cioè lo si è dovuto alla strenua, lunga e compatta lotta dei tanto vituperati sceneggiatori di Hollywood. E se il nostro sindacalismo latita, il livello di coscienza sociale, civile e politica non pare certo brillare. Lasciamo stare,. Limitiamoci a parlare di mercato. Sulle copertine dei libri il nome dell’autore e quello dell’editore compaiono appaiati. Se l’uno si sente insozzato dall’altro, non c’è che da separarsi. Se si stracciano contratti pubblicitari multimiliardari a sportivi che incorrono in disavventure private o semplicemente perdenti, come mai dalla parte opposta si continua a partecipare in allegria a pubblicità di Banche screditate, gestori telefonici truffaldini, aziende che non riconoscono elementari diritti ai propri lavoratori, altre sul perpetuo orlo del fallimento che ripianano i debiti “aggiustando” i bilanci o ricorrendo a prebende di Stato, pagate dai contribuenti, eccetera eccetera? Come mai gli “artisti” sono così poco attenti nell’abbinare il proprio logo oltre che il proprio nome ad aziende chiacchieratissime che non possono che screditarlo? E’ una questione di mancanza di senso etico, o non è anche una questione di stupidità rispetto al mercato e alla tutela del proprio stesso prodotto e dei consumatori cui lo si “garantisce” con la propria firma? Ai posteri…

Postato martedì, 24 agosto 2010 alle 14:46 da Gianfranco Manfredi


L’idea di un sindacato degli scrittori è a mio avviso ottima. Il problema è: ai pochi nomi “grossi” della letteratura italiana, come discrimine diciamo quelli che campano della sola scrittura e hanno già da sé potere contrattuale, conviene associarsi alla folla dei medi, piccoli e piccolissimi operaietti della penna? Perchè la lotta degli sceneggiatori ollivudiani ha funzionato in quanto compatta. Altrimenti le scenggiature se le facevano scrivere dalla zia, per capirci.

Postato martedì, 24 agosto 2010 alle 19:43 da Giusy De Nicolo


Credo che purtroppo un sindacato degli scrittori qui in Italiastan a lungo andare farebbe la fine degli altri sindacati.Se non cambia prima una certa mentalità nel belpaese,tutto il resto rimarrà sempre uguale.(Sta però a noi tentare almeno di cambiare una certa mentalità,niente fatalismi se non ci si prova almeno…)
Segnalo che questo giovedi su Rai4 alle 21.00 trasmetteranno “Nomads” di John Mc Tiernan,mentre venerdi 3 Settembre alle 22.40 “Miriam si sveglia a mezzanotte” di Tony Scott,sempre su Rai4.Su rai2 invece martedi 31 Agosto dovrebbero trasmettere alle 2.50 l’episodio di “Masters of Horror” “Homecoming” .(Quello con gli zombi dei soldati morti in Iraq che chiedono di poter nuovamente votare alle presidenziali ma contro Bush)

Postato mercoledì, 25 agosto 2010 alle 11:23 da Francesco Moretta


Di Pietro oggi invita gli scrittori a scelte etico-compatibili. Mio Dio, dopo lo Stato Etico (che è il contrario dello Stato di Diritto, è lo Stato che a tutti i livelli ci prescrive come dobbiamo vivere, fino a dettare regole sulla frequentazione dei parchi pubblici, riservata ai soli residenti, e sull’uso delle panchine sulle quali si può sedere solo in certi orari), dopo lo Stato Etico, dicevo, siamo alla Case Editrici Etiche? E chi le detta le norme etiche? Il Codacons ? (Trattasi della nota struttura di perditempo che in passato ha anche levato la sua voce per interdire a Tex la facoltà di bere birra e di farsi una cartina ogni tanto).
Dall’altro lato, scrittori critici e oppositivi e intellettuali illustri, invitano alla moderazione e si potrebbe raccogliere l’appello se non si riempissero la bocca di omaggi alla Grande Tradizione (delle Case Editrici stesse). Evidentemente dimenticano (ah, beata ingenuità degli uomini di lettere!) che i loghi non sono persone: Arnoldo Mondadori, Giulio Einaudi, Valentino Bompiani, Giangiacomo Feltrinelli, sono tutti morti. Scrittori viventi che pubblichino per editori morti ? E’ questa la prospettiva indicata?
Così tra Van Helsing e Dracula si spegne questa stanca estate. Saggio chi va in vacanza a settembre.

Postato giovedì, 26 agosto 2010 alle 10:37 da Gianfranco Manfredi


L’unica cosa sensata l’ha scritta Michele Serra: se il mio editore diventasse Presidente del Consiglio, fosse pure di sinistra, cambierei casa editrice senza esitare un attimo, perché tra lavoro intellettuale e Potere in una società decente dovrebbe esserci adeguata distanza di sicurezza, a tutela della conclamata Libertà di tutti e dell’autonomia e indipendenza degli scrittori. Di fronte a ciò, le scelte sarebbero non solo semplici, ma ovvie… però, e non a caso, si preferisce ripararsi dietro le chiacchiere.

Postato giovedì, 26 agosto 2010 alle 11:02 da Gianfranco Manfredi


Ho finalmento letto “Il sangue del vampiro” di Florence Marryat e mi rivolgo con un avvertimento a chi fosse intenzionato a leggerlo:non leggete la quarta di copertina,perchè anticipa parte della trama.
Questo romanzo più che un horror è un romanzo sentimentale,(simile ad altri usciti in quel periodo) con delle venature soprannaturali.Tratta del vampirismo,ma non di quello canonico dei non-morti,ma del vampirismo psichico.Il libro quindi potrebbe deludere chi è più legato all’immagine classica che la fiction ci ha dato del vampiro.Personalmente l’ho apprezzato,soprattutto per un ottima descrizione della vita,del comportamento e dell’etica delle persone nell’età vittoriana.Un romanzo quindi non per tutti e distante da quello che oggi si pretende dalla narrativa vampirica,ma godibile e non privo di spunti interessanti. (La protagonista del libro meriterebbe per le sue caratteristiche uno studio a parte)

Postato giovedì, 26 agosto 2010 alle 13:33 da Francesco Moretta


C’è anche chi propone di non acquistare più i libri del gruppo Mondadori. Personalmente per me significherebbe, tra l’altro, non farmi più di Joe Lansdale, cioè una tragedia.
Vabbè.
Comunque, ho la sensazione che si stia al solito scadendo nella farsa, ora che anche i politici dicono cosa fare per essere bravi e etici.
Arivabbè
Infine, apprezzerei molto di più leggere un “Resto in Mondadori perchè mi danno un pacco di soldi”.
@ Gianfranco. Magari potremmo appellarci al Moige per le direttive etiche…

Postato giovedì, 26 agosto 2010 alle 19:08 da Giusy De Nicolo


In effetti, cara Giusy, la tragedia per Lansdale è stata essere pubblicato anche da Fanucci che ha ripescato di tutto, suoi scritti giovanili d’occasione, roba giustamente giacente nei cassetti, forse persino qualche brogliaccio non scritto da lui, ma da un amico, chissà… è sicuro che di fronte a certi “romanzi”, anche a prescindere dalla pessima traduzione, chiunque apprezzi Lansdale si è ritrovato costretto a chiedersi: ma davvero l’ha scritta lui, sta roba? A Einaudi va riconosciuto d’aver sempre pubblicato le sue cose migliori, curandone la traduzione come si deve ed evitando di inflazionare con uscite a raffica. Per cui se si deve boicottare qualcuno, non credo proprio sia chi sa fare bene il suo lavoro. Si può certo evitare di comprare della robaccia, ma questo vale per tutti gli editori ed è a giudizio dei lettori. E a certe campagne che promuovono delle colossali porcherie si può anche rispondere con controcampagne del tipo “chi compra quel libro o va a vedere quel film è un coglione” (e accollandosi responsabilmente il rischio di prendere abbagli). Altra cosa è invece la scelta che dovrebbe competere agli scrittori, soprattutto quando di alternative a disposizione ne hanno a bizzeffe. Ha senso lavorare in aperta e dichiarata disarmonia con il proprio editore? Non lo staff, ma il capo. E quando questo capo oltre che editore è anche un capo politico che dovrebbe rappresentare l’intero paese, ma si guarda bene dal farlo, anzi usa ogni giorno strumentalmente i media, incluse furenti campagne diffamatorie contro gli avversari di turno, be’… insomma, non scatta un certo pudore nell’associare una propria opera a un tal personaggio? Se invece si resta con lui, proprio perché può regolare e controllare il mercato editoriale più e meglio di altri, allora vuol dire che ci sta bene… o a essere buoni, che si vende la primogenitura per un piatto di lenticchie. Ora può darsi benissimo che la primogenitura nutra di meno, però, per la miseria, un po’ di dignità, che cazzo! Certo, c’è chi è riuscito ad approfittare anche di Napoleone (non George Sand che venne spedita in esilio) e per fare un esempio più fresco, si può pubblicare musica oltraggiosa anche per un’etichetta discografica orientata alla pura plastica, però non tutti i momenti sono buoni per “la Grande Truffa del rock’n'roll” che tra l’altro, considerata la fine dei Sex Pistols, non si può certo dire che abbia fruttato un grande miglioramento di vita, tantomeno un affinamento espressivo. Gli anticipi spesso si scontano coi resi dei posticipi, i quali sì, tagliano le gambe agli scrittori. La cosa che irrita di più, se si ha un minimo di coscienza sociale, è sentire dei Premi Strega paragonarsi agli operai. Quanto reggerebbero a Pomigliano d’Arco questi maestrini?

Postato venerdì, 27 agosto 2010 alle 14:24 da Gianfranco Manfredi


Ritorno un attimo sulla divergenza di “testimonianza” che ho già citato, tra Lady GaGa (“Io sono menzogna”) e Nina Hagen (” Tutti gli artisti cercano la verità. Il mio manager é Dio”). Ho scritto qui che tra le due opzioni , la prima mi sembrava un tipico enunciato sofistico, la seconda una dichiarazione di “Conversione” ben insediata però nella cultura rock che è intrisa di messianicità e di cristianesimo più di quanto non si sospetti. Oggi leggo un’interessante corrispondenza di Gad Lerner, su Repubblica, dal Meeting di Comunione e Liberazione, dedicato a quanto sembra a un’aperta polemica contro il “moralismo”. L’aspetto che mi ha interessato di più è stata la lettura polemica di Umberto Eco (Il nome della Rosa) offerta da Giancarlo Cesana, di CL. Per i ciellini Eco è da sempre la Bestia Nera. Cos’é che li scandalizza tanto di lui? Questa frase, ad esempio: “L’unica verità è imparare a liberarsi dalla morbosa passione per la verità.” La ricerca morbosa della verità, secondo Eco, conduce, detto sbrigativamente, all’intolleranza e al dogmatismo, pasture di ogni tirannia. La consapevole e responsabile ricerca della verità si alimenta con il dubbio e il pensiero critico. Ciò suona bestemmia per i ciellini (che pure non hanno invitato Nina Hagen al Meeting, nonostante essi stessi sembrino considerare Dio come il loro Manager). Il libero esercizio della critica cui richiama Eco, cioè quella consapevolezza del dubbio che è poi alla radice dell’idea laica del Mistero, è il “tertium non datur”, cioè quella soluzione Terza che risulta abominevole sia agli allegri celebranti dei riti farlocchi del mercato, quanto ai devoti alla Verità Rivelata (Rivelata solo a loro, tra l’altro, perché senza esclusiva la Verità diventerebbe così ovvia che non ci sarebbe bisogno di predicarla) ben custodita in Banche dello Spirito (Chiesa) e del Denaro puro e semplice (esso stesso da “convertire” in Opere, perché senza Opere la Fede scolora). Così, insomma, le opzioni sono chiare. Anche se di dimentica che è il Quartum non Datur , cioè la la pura e semplice indifferenza del Bruto, a risultare il Dato più Datur di tutti. E con questo maccherone latino, buon pranzo e buon week end. Ah, dimenticavo (cavolo! Siamo pur sempre in un forum vampirico!) : ieri sera mi sono visto il film “Die You Zombie Bastards” (2005) di Caleb Emerson. Be’… ve lo assicuro… è il film più matto che io abbia mai visto. Conferma che l’attuale cinematografia zombie, è tra tutte, quella più selvaggia, ingovernabile, fuori binario, contaminata e contaminante… è un mare da cui non si sa mai prima cosa si può pescare.

Postato sabato, 28 agosto 2010 alle 11:46 da Gianfranco Manfredi


Buon week-end a tutti!Ieri ho recuperato un racconto nominato all’inizio di questa discussione, “Le Horla” di Guy De Maupassant e ne sono rimasto deliziato.Come diceva Gianfranco il vampiro del racconto è molto simile ai non-morti del folclore e in più si accenna anche al carattere epidemico dei vecchi casi di vampirismo.(All’inizio e alla fine del racconto vi sono accenni ad un epidemia di colera che colpi l’Europa in quel periodo e in Brazile la presenza dei vampiri da luogo ad un autentica pestilenza)
P.S.Mtv dovrebbe trasmettere “Dead set” dal 12 novembre ogni venerdì alle 22.00,non vedo l’ora di vederlo!

Postato sabato, 28 agosto 2010 alle 20:16 da Francesco Moretta


A causa di qualche errore una mia frase si è tramutata in un link inesistente.Nel caso fosse colpa mia scusate.

Postato sabato, 28 agosto 2010 alle 20:21 da Francesco Moretta


Da un paio d’ore sono tornato da una breve vacanza. Di solito ci vado in settembre ma stavolta era impossibile. E così io e mia moglie abbiamo fatto sette giorni in Carinzia-Austria, a Bad-Kleinkirchheim, terme a mille metri.
Premesso che (due anni fa) la morte del leader austriaco xenofobo di estrema destra Jorg Haider non mi gettò certo nello sconforto e che so benissimo come anche l’Austria incubò i germi del nazismo, alcune differenze con l’Italia sono impressionanti:
- nessuno ha il Suv,
- in una settimana abbiamo visto tre persone tre col telefonino (ovviamente italiani),
- nei ristoranti e bar non c’è la musicazza sparata a tutto volume che costringe tutti a parlare ad altissima voce,
- in nessun locale esistono televisori e men che meno televisori accesi mentre si mangia, si beve un caffè o una birra,
- nessuno (a parte un italiano settantenne visto sul battello lacustre) porta le infradito e men che meno le infradito di plastica,
- gli adulti e i bambini sono educati,
- quasi nessuno urla,
- le strade, le case, i negozi, i locali, le toilette sono di una pulizia imbarazzante,
- le gente entra nei ristoranti serena e fiduciosa, senza la convinzione di stare per subire un’estorsione,
- ci sono poche strisce pedonali ma, mentre si sta attraversando la strada, gli automobilisti frenano e ti lasciano passare.
Poi, appena tornati in Italia, nel primo ristorante-pizzeria in cui siamo stati (non un bigoncio ma un luogo più che decoroso): musica dalla radio, bambini urlanti, telefonini con suonerie cacofoniche, tutti che parlano con un volume di voce esagerato.
ADESSO MI SOLO LETTO i vostri interventi di questa settimana e la quantità di spunti è ricchissima. Ne riprendo solo uno, relativo a Joe Lansdale (e non solo). Quando scoprii le sue storie un bel po’ di anni fa (su Urania, in alcune antologie e presso piccole case editrici) ne rimasi entusiasta. Poi sono accadute alcune cose sgradevoli. La prima: come ha notato anche Manfredi, di Lansdale hanno cominciato a pubblicare tutto (mescolando l’ottimo al discreto al fiacco al brutto, sempre presentandolo come “capolavoro”). La seconda: tramite Fanucci, in certi ambienti giornalistico-intellettuali italiani Joe è diventato di moda come la rucola negli anni Ottanta.
Per certi versi gli hanno fatto subire una sorte analoga a quella del mio amatissimo Philip Dick (uno dei dieci scrittori la cui opera omnia mi porterei nell’isola deserta): per decenni stampato da Urania o Galassia in collane per edicola oppure in volumi da editori ghettizzati come Nord o Libra, ignorato dai critici e dai recensori (fatta salva qualche rarissimissimissima eccezione) o al massimo considerato con sufficienza una lettura a livello di minus habens analfabeti, da una quindicina di anni è diventato famoso e dunque cani e porchi di “intellettuali” si cloroformizzano i neuroni citando a sproposito gli androidi e la realtà virtuale, arrivando alle abominevoli fesserie di un mentecatto (purtroppo non ne ricordo il nome) che in un articolo pontificava: “ma quella di Philip Dick non era fantascienza”.
Certo che no, così come Simenon e Hammett non scrivevano gialli, Magico Vento e Corto Maltese non sono fumetti e così avanti. Con uno spocchioso disprezzo verso i “generi”, che sarebbero nobilitati solo quando non sono più tali.

Postato sabato, 28 agosto 2010 alle 22:14 da luciano / idefix


Bentornato Luciano!Non sei l’unico da cui ho sentito storie simili,praticamente tutti quelli che conosco mi hanno raccontato di come all’estero siano in media più educati dell’italiano medio.Mentre invece i turisti italiani si distinguono per cafoneria,sembra quasi che le peggiori maschere di Sordi e Verdone siano diventati l’identikit dell’italiano medio.
P.S.Ti segnalo da patito della fantascienza ad un altro patito di fantascienza che sul blog “Strategie evolutive” c’è un dibattito /sondaggio sulla migliore definizione di Fantascienza.

Postato domenica, 29 agosto 2010 alle 11:43 da Francesco Moretta


… e la patata non è un tubero!
Hai perfettamente ragione Luciano. Certa critica, per sostenere le proprie posizioni di spocchiosa alterigia intellettuale, ha bisogno di trincerarsi dietro posizioni e ragionamenti che sono autentiche assurdità logiche e gioielli di umorismo involontario.
Evidentemente ammettere che un libro di genere è un buon libro può scatenare eventi cosmici catastrofici, aprire il portale delle tenebre, e non va detto e basta.
tze!
Su Lansdale: la Fanucci ha però il merito di aver ripubblicato La ragazza da cuore d’acciaio in un fighissima edizione con copertine rigida, sopracopertina e rilegatura a prova di lettura su cammello a 12 eurini.

Postato domenica, 29 agosto 2010 alle 12:32 da Giusy De Nicolo


Ho fatto anch’io una vacanziella in Austria anni fa e ne sono rimasto altrettanto estasiato di Luciano. Devi trovare un albergo? Lungo la strada ci sono, a distanze regolari, chioschi di informazioni, pubblici e gratuiti che suggeriscono, contattano, e ti fissano la camera nella zona di loro competenza. Anche in grosse città, trovi hotel a prezzi economici, dalle camere spaziose, e con uso di piscina. Una volta ho trovato i ristoranti chiusi, in un paesucolo, perché alla sei e mezzo del pomeriggio la cucina aveva già cessato di funzionare, come da regola. Mi aggiravo affamato con moglie e figlie e non sapevo che fare. Vedo una saracinesca semiabbassata. E’ un negozio di salumeria e formaggi, gestito da una coppia giovane. Ci fanno entrare, ci apparecchiano un tavolo e si mangia. Stop. Siamo agli ultimi scampoli d’estate e presto, per fortuna, non vedremo le pagine culturali piene di consigli di libri da leggere per le vacanze ad opera di vippazzi di ogni genere tra i quali immancabili quelli che consigliano la Divina Commedia e I Promessi Sposi, letture davvero ideali sotto l’ombrellone. Poi subentrano paginoni che annunciano le novità da non perdere a settembre. Si può giurare che sbrigata la pratica con poche righe poi della maggioranza di quei romanzi imperdibili non usciranno recensioni. In nessun paese del mondo d’estate i giornalisti (specie quelli addetti alle pagine culturali) vanno in vacanza, da noi fanno vacanze più lunghe di qualsiasi altra categoria, a parte un pugno di lodevoli stakanovisti tra i quali alcuni paranoici che temono di lasciare vacante la rubrica per poi trovarla a settembre occupata da un altro. Propongo un altro interrogativo che nessuna pagina culturale propone mai. Cosa avete letto quest’estate? Io soltanto degli innocui e divertenti romanzetti che se non li si leggono d’estate, quando? E si può anche scoprire che alcuni, tipo i due che ho già segnalato , cioè ” Lupo nelle tenebre ” e “Paranormal Love” , offrono di più di quello che ci si attende. Poi mi sono letto un saggio storico di novecento pagine, di quelli che all’estero si pubblicano ancora, in Italia nemmeno si traducono più (questo che ho letto io era in una edizione Einaudi del 1972). Inutile citarlo perchè temo sia roba di cui frega solo a me, infatti mi serviva per documentazione. Comunque, anche i saggi , specie se corposi, è meglio leggerli con calma e tranquillità, cioè in periodo di telefoni silenti.

Postato domenica, 29 agosto 2010 alle 12:37 da Gianfranco Manfredi


Accolgo l’invito di Manfredi.
Da tre mesi sto dedicandomi a due tipi di lettura, diversi e complementari.
Uno tutto narrativo, pieno di fatti e personaggi e storie e trame e sottotrame, che dunque soddisfa (almeno volta per volta) la mia insaziabile fame di romanzesco: insomma sto ri/leggendo l’intero ciclo di Magico Vento, assaporandolo quasi d’un fiato come un immenso romanzone in 130 capitoli, cosa che non poteva accadere quando lo leggevo mese dopo mese, albo dopo albo, nell’arco di tredici anni. E mi pare che (nella mia vita) non sono mai stato tanto a lungo tutto di fila con un’unica opera, forse quando lessi da cima a fondo la Recherche di Proust o la saga di Fantomas di Souvestre e Allain.
Le altre letture sono state più o meno saggistiche: un’intervista (Tra Dio e il cosmo, edita da Laterza) col grande teologo Raimon Panikkar (la sua morte di alcuni giorni fa mi addolora molto), La libertà dei servi (di Maurizio Viroli), L’egemonia sottoculturale (di Massimiliano Panarari), qualche capitolo della Storia della guerra civile americana di Raimondo Luraghi, la biografia del Ramones di Jim Bessman, un testo sulla Hollywood criminale che mi serviva per l’horror su Phil Spector, qualche poesia di Emily Dickinson e di Giorgio Baffo, il Vangelo di Matteo, la Lettera ai Romani di Paolo, la Psicologia del male di Piero Bocchiaro, la Lettera a un amico tedesco di Albert Camus, Da Barth a Barth – Per una teologia all’altezza dei Simpson (di Brunetto Salvarani, divertentissimo e serissimo teologo valdese).

Postato domenica, 29 agosto 2010 alle 13:27 da luciano / idefix


Ne post ‘pensieri vacanzieri’ Massimo Maugeri domanda: come trascorrete (o avete trascorso) le vostre vacanze estive? che libri avete letto o avete in programma di leggere?
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/08/12/pensieri-vacanzieri/
Io ho risposto che sto rileggendo tutto Borges.
Il mio romanzo horror preferito è IT di Stephen King. Un vero capolavoro.
Per quanto riguarda i vampiri non sopporto la saga della Meyer. Per me il vampiro rimane quello classico, sul filone di Stoker.

Postato domenica, 29 agosto 2010 alle 13:59 da Manuela


@ Manuela: rileggere Borges è meritorio. Simpatizzo: sono ormai trent’anni che lo leggo e rileggo. Hai letto anche la sua raccolta “Libro dei sogni ?”

Postato domenica, 29 agosto 2010 alle 15:11 da claudio vergnani


Incredibilmente,nonostante gli esami del’università sono riuscito a leggere parecchio questa estate.Da un lato classici che dovevo ancora leggere come “Gli umanoidi”,”Nove principi in Ambra” e “Nostra signora delle tenebre”.Sono seguiti “I vampiri di Ciudad Juarez”,”La ragazza della porta accanto” (forte come un pugno allo stomaco ma molto bello) ,”Bella e le bestie”,”Storie di fantasmi tedeschi” (una vecchia antologia che conteneva racconti di Hoffman e Meyrink),”Ultimi vampiri”,l’antologia “Erotic horror”,”Il sangue del vampiro” e l’altro giorno ho recuperato “Clarimonde” di Téophile Gautier e “Le Horla” di Maupassant.Nel versante fumetti invece “Racconti erotici e dell’orrore” di Magnus accompagnato dalla rilettura di alcuni numeri di “Hellblazer” e “Dampyr”.

Postato domenica, 29 agosto 2010 alle 20:29 da Francesco Moretta


Ho scritto dell con una l in meno,scusate.

Postato domenica, 29 agosto 2010 alle 20:31 da Francesco Moretta


Francesco: il romanzo di Ketchum (“La ragazza”) è notevole ma mi ha fatto star male e leggendolo ho più volte mandato all’inferno l’ignavo protagonista.
Magnus è grande e se ti piace la sua veste “porno-erotica” ti consiglio il delirante e geniale ciclo di Necron (dove Roberto Raviola raggiunge vette ineguagliabili di grottesco-orrore-porno mescolati insieme).
La saga di Zelazny di Ambra m’aveva appassionato, ormai tanti tanti anni fa, nella Libra. E mi andrebbe di rileggerla. Ne ricordo l’inizio, nella clinica, con il bianco dei camici e l’amnesia del protagonista che fugge.
Per Hoffmann ho un debole: è tra i miei dieci autori preferiti. Chi sono gli altri? Devo pensarci. Direi: Hoffmann, Stevenson, Casanova, Dick, Dickinson, Simenon, Ariosto, Cortazar, Schultz, Pirandello.
Domani però potrei modificare l’elenco, aggiungendo James, Fenoglio, Gaiman, Pratt, Carver, Ovidio, Ongaro, Fowles e altri ancora.

Postato domenica, 29 agosto 2010 alle 22:05 da luciano / idefix


Luciano:Anch’io leggendo il libro di Ketchum ho più volte mandato al diavolo il protagonista,ma chi riesce a scrivere una storia simile senza scivolare nel compiacimento o nel torture-porn merita considerazione.
Su Magnus conosco “Necron” ma l’ho sempre trovato troppo hard per i miei gusti,gli preferisco altre opere tipo “Milady”.

Postato lunedì, 30 agosto 2010 alle 09:48 da Francesco Moretta


E’ un romanzo che non lascia indifferenti, ti scaraventa dentro la vicenda che racconta e ti costringe a chiederti “io cos’avrei fatto?”. Mi sono interrogato e ho provato a darmi delle risposte.
Prima guardando dentro i miei abissi e cercando di dar vita non al “me adulto” e grosso modo “formato” bensì al “me adolescente” e “in formazione” (confusissima “formazione”).
Immagino che un’esperienza come quella mi avrebbe sbalestrato in modo sconvolgente, con un orrido misto di fascinazione e raccapriccio, eccitazione sessuale e disgusto erotico, ormoni dilatati e senso della giustizia villipeso, senso di onnipotenza e di impotenza, sottomissione al branco e vaghissimi impulsi alla ribellione solitaria, senso civico e belluinità, terrore della vendetta del gruppo e voglia di gesti eroici, sadica ferocia conformista e romanticismo (“adesso mi trasformo nel cavaliere della valle solitaria e la salvo”).
E penso che la “fine” sarebbe stata iniziare. Perchè quando si comincia a commettere ingiustizie e crudeltà sugli altri è sempre più difficile fermarsi e allora brutto chiama bruttissimo e bruttissimo chiama peggio e peggio chiama pessimo e pessimo chiama orribile e orribile chiama mostruoso e mostruoso chiama inconcepibile e inconcepibile chiama “ciò che all’inizio non era nemmeno pensabile io potessi commettere”.
E allora, sulla strada dell’ingiustizia e della crudeltà, non bisogna mai entrarci. Nemmeno pensando con presunzione “io saprò percorrerla solo per un piccolo tratto”.
Così, la risposta che mi sono dato (ai tremendi interrogativi posti dalla Ragazza della porta accanto) è molto semplice: spero che avrei avuto il coraggio di oppormi al male. Magari non con gesti eroici (non credo proprio che ne avrei avuto il fegato) ma andando a denunciare la situazione a qualche adulto, alla polizia, a un medico, a mio zio, a un prete di cui mi fossi fidato.
Però la risposta è: “spero”.
Perchè non posso dire: “ne sono certo”.

Postato lunedì, 30 agosto 2010 alle 11:09 da luciano / idefix


“Nostra signora delle Tenebre” di Fritz Leiber, è un bellissimo e purtroppo dimenticato romanzo, che mostra come possa l’orrore letterario anticipare di molto i tempi del cinema. La Creatura arcimboldesca fatta di libri, era un tipo di effetto che al tempo di Leiber non si sarebbe potuto fare al cinema. Quel romanzo, parte della storia e alcune citazioni, so per certo che è stato fondamentale per Argento che ci si è ispirato per il Ciclo delle Madri e in particolare per Inferno, anche se a mio avviso non è riuscito nemmeno a sfiorare la potenza surreale e delirante di Leiber. La vita di Fritz Leiber è molto interessante. Veniva da una famiglia di teatranti. Lui stesso aveva fatto l’attore, interpretando ad esempio un piccolo ruolo nel Robin Hood con Erroll Flynn. I suoi romanzi e racconti sono pieni di citazioni teatrali. Straordinario è “Circumluna Chiama Texas” dove inventa l’esoscheletro che poi userà Cameron nel suo Alien. Ma le profezie di Lieiber in questo romanzo si sprecano davvero: i giganti Tex si scontrano con i nani Mex, l’Io trionfa (Leiber lo definisce: “Il campo petrolifero della personalità umana”), l’assassinio diventa metodo abituale di governo, e lo schiavismo metodo di controllo sociale. Il protagonista, Cristoforo Crockett La Cruz (piuttosto multitecnico, come si vede) è un attore che cita volentieri Shakespeare, sfrontato, seduttore e guerrigliero. Chi soffre per la mancanza di romanzi del genere nella narrativa contemporanea, non ha che da consolarsi con la rilettura di questo capolavoro, edito a suo tempo dalla Nord. Molte traduzioni mondadoriane di Leiber, invece, in Urania, non sono state all’altezza. Non è un autore facile da tradurre, tanti sono i rimandi, i giochi di citazioni, e quelli verbali. Facessi l’editore, ne ripubblicherei l’opera omnia, pur sapendo che potrebbe essere un’operazione fallimentare sul piano delle vendite. Difatti ci provarono anche Marco Tropea e Laura Grimaldi al tempo di Interno Giallo pubblicando alcuni suoi racconti e una sua autobiografia con il titolo Luce Fantasma. Non credo che la cosa sia uscita dal cerchio degli addetti ai lavori, ma bisogna essere loro grati ugualmente. L’autobiografia è una vera delizia. Leggendo viene voglia di conoscerlo personalmente l’autore (purtroppo non è più possibile, è nato nel 1910 e morto nel 1992, nel silenzio generale). Gli autori passano, le opere restano… almeno se sono libri. Resteranno anche quelle su non-supporto digitale? Si nutrono parecchi dubbi in proposito. Gente! Non sbarazzatevi dei libri, tanto meno di quelli ricevuti in eredità. Tra pochi anni saranno più ambiti delle collezioni di francobolli rari.

Postato lunedì, 30 agosto 2010 alle 13:12 da Gianfranco Manfredi


Su Leiber concordo: direi che nessuno (forse solo Hoffmann) seppe scintillare come lui in campi così diversi del “fantastico”.
Leiber scrisse horror sia tradizionali che innovativi, fantascienza abbastanza ortodossa e altra del tutto bizzarra, originalissima fantasy come il ciclo di Nehwon che è già un intero universo, storie macabre e altre umoristiche, racconti terrificanti e romanzi divertentissimi.
E le somiglianze con Hoffmann non finiscono nella varietà di generi e di toni: entrambi di origine tedesca e amanti dei gatti, entrambi immersi in ambienti teatrali, entrambi dallo stile multistrato come certe torte viennesi, entrambi sottovalutati rispetto alle loro qualità, entrambi da gustare ancor più nella ri-lettura che nella lettura, entrambi percorsi da un erotismo assai stuzzicante, entrambi al confine tra realismo e fantastico, entrambi scrittori generosissimi.
Di Hoffmann ebbi la fortuna di acquistare (tanti anni fa) l’intera opera narrativa nei tre volumoni dei Millenni Einaudi. E di Leiber penso di aver rastrellato tutto ciò che si trovava sul mercato italiano.
Purtroppo, mai inglisc meik schifo e non mi permette di gustarmelo in originale. Posso solo immaginare cosa mi perdo.
I libri digitali? Ma sì…potranno anche essere utili per qualcosa ma non certo per sostituire i libri di carta. Così come, per cucinare, il microonde può anche servire ma non farei mai e poi mai a meno della padella.

Postato lunedì, 30 agosto 2010 alle 14:15 da luciano / idefix


Mi ricollego brevemente alla parentesi sui vampiri cinesi per segnalare un’articolo che ho trovato. Ecco il link:
http://pamkeesey.com/what-i-know-about-chinese-vampires/

Postato martedì, 31 agosto 2010 alle 14:06 da Francesco Moretta


Ed ecco invece per chi fosse curioso un immagine (tratta da un film) che ritrae un generico chiang-shih.
http://www.monstropedia.org/images/4/4b/Chiang-shih.jpg

Postato martedì, 31 agosto 2010 alle 14:11 da Francesco Moretta


I “vampiri” languono.

Postato giovedì, 2 settembre 2010 alle 08:40 da luciano / idefix


@Luciano.L’ho notato anche io,probabilmente la fine delle vacanze e l’inizio della nuova stagione lavorativa ci hanno riempiti di impegni.O forse abbiamo momentaneamente esaurito gli spunti e dobbiamo solo ricaricare le batterie.

Postato giovedì, 2 settembre 2010 alle 13:20 da Francesco Moretta


O forse è il boom del post sul “BOOK AWARD 2010″. In cui io sto sostenendo la causa di “Sopra eroi e tombe” di Ernesto Sabato. Non solo un capolavoro del Novecento ma anche un romanzo in cui vi è un forte tema vampiresco.

Postato giovedì, 2 settembre 2010 alle 14:37 da luciano / idefix


Segnalo alcuni film che trasmetteranno su rai4,due dei quali sui vampiri:
-”Right at your door” martedi 7 ore 21:10
-”Perfect creature” venerdi 10 ore 23:25
-”Lasciami entrare” venerdi 17 ore 23:15

Postato giovedì, 2 settembre 2010 alle 19:13 da Francesco Moretta


Ho avuto un po da fare questi giorni, per cui mi sono azzittito. Tra l’altro passa un po’ la voglia di discutere quando, non so se capita anche a voi, ti sentono echeggiare quelle cosiddette “voci da buoni informati” che annunciano nuovi scandali politico-sessuali pronti a esplodere, essendo questo il livello raggiunto dall’attuale dibattito politico in Italia, cioè la famosa Fogna cui ha alluso Bersani ieri. Per prendermi una pausa da queste voci (dopo aver udito chiacchierare nell’ordine: di un sadico, di un pedofilo e di un organizzatore di orge private) ho ascoltato Radio Dee Jay, che di politica almeno evita di parlare, e ho tristemente notato che anche lì di qualsiasi argomento si discutesse, dalla raccolta dei funghi alle aste su Internet, si finiva sempre in pesanti quanto festose allusioni sessuali . In nessun paese al mondo come in Italia si vive così ossessionati dal sesso, e viene da domandarsi davvero il perchè, trattandosi oltretutto di un sesso da suburra e non poco tinto di horror. Mi è tornato così alla mente il film Society di Brian Yuzna. Quando l’avevo visto ( è un horror politico-sessuale sui costumi più che depravati della classe dirigente) mi aveva infastidito e lo avevo considerato moralistico, cioè cosa che un buon horror non dovrebbe mai essere. Quando si racconta il sesso come “roba da depravati” si ha sempre il sospetto , spesso fondato, che dietro un simile punto di vista ci sia qualcosa di profondamente reazionario, e infatti quel film lo faceva affiorare unendo alla rappresentazione della sessualità horror delle elite dominanti, una vera e propria peste sociale fatta di spiate, di delazioni, di ricatti, e di mentalità provinciali e di classe degne del maccartismo anni 50. Mai avrei sospettato che q

Postato venerdì, 3 settembre 2010 alle 10:29 da Gianfranco Manfredi


Ho appena letto di una rappresentazione su Dracula che ha avuto luogo in Romania al National Museum of Art.Il titolo era “Dracula:Voievod and Vampire” e fondeva il Dracula storico con il Dracula della fiction.L’autore dell’articolo in cui si parlava di questa rappresentazione faceva notare come questo fenomeno (la confusione dei due Dracula) sia ormai un fenomeno frequente in Romania.Insomma un mito letterario ha finito con l’imporsi su un mito storico. Ecco il link dell’articolo se vi interessa approfondire:http://www.thediplomat.ro/

Postato venerdì, 3 settembre 2010 alle 10:36 da Francesco Moretta


Ho avuto un po da fare questi giorni, per cui mi sono azzittito. Tra l’altro passa un po’ la voglia di discutere quando, non so se capita anche a voi, ti sentono echeggiare quelle cosiddette “voci da buoni informati” che annunciano nuovi scandali politico-sessuali pronti a esplodere, essendo questo il livello raggiunto dall’attuale dibattito politico in Italia, cioè la famosa Fogna cui ha alluso Bersani ieri. Per prendermi una pausa da queste voci (dopo aver udito chiacchierare nell’ordine: di un sadico, di un pedofilo e di un organizzatore di orge private) ho ascoltato Radio Dee Jay, che di politica almeno evita di parlare, e ho tristemente notato che anche lì di qualsiasi argomento si discutesse, dalla raccolta dei funghi alle aste su Internet, si finiva sempre in pesanti quanto festose allusioni sessuali . In nessun paese al mondo come in Italia si vive così ossessionati dal sesso, e viene da domandarsi davvero il perchè, trattandosi oltretutto di un sesso da suburra e non poco tinto di horror. Mi è tornato così alla mente il film Society di Brian Yuzna. Quando l’avevo visto ( è un horror politico-sessuale sui costumi più che depravati della classe dirigente) mi aveva infastidito e lo avevo considerato moralistico, cioè cosa che un buon horror non dovrebbe mai essere. Quando si racconta il sesso come “roba da depravati” si ha sempre il sospetto , spesso fondato, che dietro un simile punto di vista ci sia qualcosa di profondamente reazionario, e infatti quel film lo faceva affiorare unendo alla rappresentazione della sessualità horror delle elite dominanti, una vera e propria peste sociale fatta di spiate, di delazioni, di ricatti, e di mentalità provinciali e di classe degne del maccartismo anni 50. Mai avrei sospettato che questo film contenesse elementi “profetici”, e che in particolare potesse anticipare in qualche modo ” il pozzo e il pendolo” in cui l’Italia pare oggi essere caduta. Siamo infatti sicuri che questo miserevole spettacolo riguardi soltanto “loro”, cioè i politici? Siamo sicuri che il semplice parlare di questi scandali imminenti , al di là del fatto che certe “rivelazioni” siano autentiche oppure puri pettegolezzi o ancora “false verità” costruite ad arte per colpire un avversario politico, siamo sicuri dicevo che tutto questo chiacchierare di sesso disgustoso e orripilante non riveli una vera e propria piaga sociale, non da Society separata e chiusa, ma da Society vera e propria, cioè partecipata e diffusa ? Era un film o era vero, il corso coranico a 500 ragazze appositamente pagate e reclutate da un’agenzia? Quante ragazze affidano i loro indirizzi e trovano lavori occasionali affidandosi a questo genere di agenzie? E … chi paga? E’ un servizio offerto al tiranno ospite dallo stato e pagato dai contribuenti, cioè da noi? Al di là del folclore, non è una cosa che lascia davvero interdetti? C’è poi tanto da stupirsi se la Meyer fa successo con i suoi vampiri vergini? L’attuale delirio sessuale da ancien-regime, non suscita forse come contraltare un’aspirazione alla castità come antidoto?

Postato venerdì, 3 settembre 2010 alle 10:39 da Gianfranco Manfredi


Scusate, prima mi era partito il post da solo mentre lo stavo scrivendo, per cui è comparso una volta e mezzo.

Postato venerdì, 3 settembre 2010 alle 10:42 da Gianfranco Manfredi


C’è anche un effetto allucinatorio da “metafore alla lettera”. Abbiamo sempre detto, durante periodi confusi, “E’ un casino”. Ora però la metafora pare debba essere intesa davvero alla lettera. Il sesso di cui si parla è sesso da casino, e da casino di infimo ordine. Perché l’Italia è precipitata così in basso?

Postato venerdì, 3 settembre 2010 alle 10:46 da Gianfranco Manfredi


Vi segnalo una notizia che ha a che fare con i vampiri veri. Eì di un paio di settimane fa.
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Peru’: allarme pipistrelli vampiri, 500 persone morse, 4 bimbi mortiLima, 13 ago.
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(Adnkronos)
- E’ allarme pipistrelli vampiri nell’Amazzonia peruviana, dove un’epidemia di rabbia a colpito questi animali che succhiano sangue di altri mammiferi. Nella zona, sono state morse 500 persone, che hanno gia’ ricevuto il trattamento antirabbia. Quattro bambini delle tribu’ indigena degli Awajun sono morti dopo esser stati morsi.

L’epidemia si e’ sviluppata nella comunita’ di Urukasa, nel nord-est dell’Amazzonia peruviana, nei pressi del confine con l’Ecuador. Le autorita’ ne sono venuti a conoscenza dopo che la comunita’ indigena cui appartenevano i bambini morti hanno chiesto aiuto per capire la malattia a loro ignota. Le autorita’ hanno quindi vaccinato l’intera popolazione locale.

Secondo alcuni esperti, il fenomeno e’ legato alla deforestazione. I pipistrelli vampiri solitamente attaccano solo animali selvatici o bestiame, ma, in aree in cui il loro habitat e’ stato distrutto, possono anche prendere di mira esseri umani. Altri pero’ ipotizzano che la causa potrebbe anche essere le temperature al di sotto della media registrate negli ultimi anni nell’Amazzonia peruviana.

Postato venerdì, 3 settembre 2010 alle 11:15 da vanessa


Dei corsi coranici di Gheddafi si è appreso dai giornali che prevedevano quattro diversi livelli di partecipazione da parte delle ragazze: 1. semplici uditrici; 2. presunte convertite; 3. invitate in Libia come nuove “spose postali”; 4. Tradizionali escort. Al che viene da rileggere “che la festa cominci” di Ammaniti e viene da concludere che anche gli scrittori dalla fantasia più sbrigliata e grottesca, di fronte alla realtà, paiono degli ingenui. In romanzo, ciò che vediamo accadere sotto i nostri occhi, parrebbe esagerato, implausibile, costruito ad arte per puro gusto da fiction ipertrofica.

Postato venerdì, 3 settembre 2010 alle 11:18 da Gianfranco Manfredi


Manfredi accenna a un tema che io e mia moglie discutiamo da tempo: “L’attuale delirio sessuale da ancien-regime, non suscita forse come contraltare un’aspirazione alla castità come antidoto?”
Perchè un conto è assaporare il sesso e l’erotismo come scelta libera e consapevole, rispettosa e “adulta”, fatta di piacere e conoscenza (la Bibbia non diceva fesserie quando usava proprio questo termine: “conoscersi”). Tutt’altra faccenda è usare i corpi e le esibizioni della sfacciata sessualità come oggetti al mercato della carne, in un meccanismo in cui piacere conoscenza gioco libertà consapevolezza rispetto e crescita reciproca non solo non vengono contemplati ma vengono banditi, perchè ostacoli alla mercificazione.
Io stravedo per le donne, mi piacciono i loro volti, i loro corpi, le loro menti, la loro sensibilità, i loro gesti, il loro respiro, il loro odore, i loro ritmi, i loro tempi, le loro voci, le loro presenze, la loro diversità. Ma sono nauseato dalla invasiva nudificazione mediatica, dallo squallore che le sta ricoprendo e umiliando soprattutto in Italia, paese bigotto e zozzone.
E temo che (dopo la demente e cattiva sborniaccia di velinismo da sporcaccioni baciabanchi e inappetenti) il rinculo sarà tremendo. Spero di sbagliarmi ma ipotizzo uno scenario fatto di gramaglie e musoneria, quaresima mentale e penitenziagite, castità brufolo-gena e preti a ogni angolo di strada.

Postato venerdì, 3 settembre 2010 alle 12:21 da luciano / idefix


Segnalo che la casa editrice Un mondo a parte ha inaugurato questo mese la collana “Quaderni di sangue” dedicata al cinema horror.Ogni volume è dedicato ad una diversa pellicola.Si inizia con “Gli uccelli” scritto da Danilo Arona e si prosegue con “Bram Stoker’s Dracula” e “Suspiria”.
@Gianfranco.Ormai l’Italia inizia veramente a superare in peggio certi libri.Se potessi andrei a vivere all’estero.(E lo stesso vale per molta gente che conosco)

Postato venerdì, 3 settembre 2010 alle 12:30 da Francesco Moretta


Solo certi romanzi pazzeschi (ma adesso non più tanto pazzeschi) di fantascienza satirico-sbracata possono provare (non dico riuscire” ma solo “provare”) ad avvicinarsi all’Italia di adesso. Penso a un autore come Ron Goulart quando sembrava partire per la tangente e inventava trame deliranti e corrosive ma comunque inferiori a quanto accade per davvero qui da noi.
E i nomi poi…la spia Pio Pompa, l’investigatore Gelsomino, il capo della Polizia Manganelli, il generale Coniglio, i capi del partito post-democristiano Casini e Buttiglione, lo pseudo-giornalista che si chiama Fede…cognomi che in un romanzo non si potrebbero inventare perchè nessuno ci potrebbe credere.

Postato venerdì, 3 settembre 2010 alle 13:21 da luciano / idefix


@ Francesco. Se avessi la tua età ci andrei senza esitazioni, all’estero. Quelli della mia generazione hanno conosciuto una sorta di emigrazione interna: dalla provincia alla grande città che poteva riservare migliori opportunità. Ora si assiste a un’emigrazione inversa, perché in molte province si sta meglio che nelle grandi metropoli italiane. Ma il passaggio dalla provincia al grosso centro, per le giovani generazioni, in un mondo globalizzato, si è spostato, appunto, sullo scenario mondiale, e credo sia uno sviluppo inevitabile, stante anche che in Italia non si investe nei giovani.

Postato venerdì, 3 settembre 2010 alle 19:41 da Gianfranco Manfredi


Sì, Francesco: io vivo a Trieste (e a Trieste nemmeno in città ma sull’altipiano del Carso).
Non credo che riuscirei a stare in una grande città, nemmeno a Torino dove c’è il mio Toro granata, dove ho amici e affetti. In provincia, nella piccola provincia (pur con tante limitazioni) si sta meglio: soprattutto in un posto come Trieste, dove alla fin fine non ci sono nè i leghisti nè la mafia o la camorra nè la strapotenza del Vaticano.

Postato venerdì, 3 settembre 2010 alle 23:03 da luciano / idefix


I giapponesi sono affascinati dalle lucciole che come la magia del buio, il mistero della natura e di altri orrori, hanno un posto nel loro immaginario. Lamentando il degrado nostro e della natura, nel 1975 Pier Paolo Pasolini utilizzò l´immagine della scomparsa delle lucciole come metafora del degrado di un mondo religioso e contadino e riteneva le lucciole «un ricordo, abbastanza straziante, del passato». Non a caso per i giapponesi, così come anche per i cinesi, le lucciole rappresentavano le anime dei morti. Nonostante l’ascesa sfolgorante delle luci abbaglianti ed evanescenti dell’omologazione culturale della modernità, al mondo resiste ancora qualche lucciola. Solo che bisogna andarle a cercare lontano dai riflettori e dalla grande città, nella notte, dove ancora sopravvivono e si amano le lucciole – splendide nell’immaginazione.

Postato sabato, 4 settembre 2010 alle 12:13 da Gianni De Martino


Sembra che a novembre la Kappa Edizioni pubblicherà il fumetto di Moto Hagio (storica autrice di fumetti shoujo) “Poe no Ichizoku” (Il clan Poe).
La storia a metà tra dramma e storia segue le peripezie di una famiglia di vampiri.L’edizione italiana dovrebbe intitolarsi “Edgar e Allan Poe” (ma non potevano lasciare il titolo originale?) e contera 3 volumi.

Postato sabato, 4 settembre 2010 alle 13:08 da Francesco Moretta


Ieri sera ho visto Il Pozzo e il Pendolo di Svankmeyer, lo stesso regista sperimentale che mi aveva deluso e irritato con la Casa Usher. Il suo corto sul Pozzo e il Pendolo, quasi tutto in soggettiva del protagonista recluso nel l’infernale sotterraneo, è invece notevole. Muto, senza voce di un narratore fuori campo, fedele alle deliranti descrizioni di Poe. In particolare il momento in cui la stanza delle torture si restringe per far precipitare il condannato nel pozzo , scena quasi mai rappresentata al cinema, è reso a perfezione, con una scenografia meccanica bellissima.
Le lucciole… beh io sto in montagna, ho i boschi intorno a casa. Mai vista una lucciola. Sono anche andato in cerca di quelle della mia infanzia, lungo i fossi e i canneti di Senigallia. Ma i fossi sono asfaltati, i canneti non esistono più. E nemmeno le lucciole . Di cui, è vero ci si poteva beare, ma a patto di tollerare anche moscerini e zanzare, altrimenti è troppo facile. I poeti dimenticano anche che quel luccicare è una cerimonia di morte (e dunque il foklore non inventa, ma esprime, non fantastica, ma conosce) : i maschi attirano l’attenzione per una copula che li condurrà alla morte, del resto l’alternativa è peggiore: è la morte senza neppure la copula. Non possiamo gustarci la bellezza, senza beccarci anche l’orrore.

Postato sabato, 4 settembre 2010 alle 14:26 da Gianfranco Manfredi


Stamattina sono andato (come ogni settimana, il mercoledì o il sabato) a portare della roba (cibo, libri, soldi) a un carcerato che seguo da tempo.
Prosciutto crudo in busta sigillata, frutta secca, due libri, un quotidiano, biscotti, olive, acciughe, tonno in scatola.
Ma i cracker non me li hanno accettati.
Perchè?
Perchè nel foglio del regolamento c’è scritto “fette biscottate” e i “cracker” non sono contemplati.

Postato sabato, 4 settembre 2010 alle 14:46 da luciano / idefix


UNA TOMBA PER LE LUCCIOLE
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A seguito di un bombardamento della seconda guerra mondiale , due bambini lottano per sopravvivere nella campagna giapponese. Tra le rovine della guerra, l’amore dei due fratelli brilla come il chiarore delle lucciole nella notte.
Purtroppo nessuno può volgere lo sguardo verso il loro dolore e queste piccole luci: tutti sono indaffarati in una crudele lotta per la sopravvivenza.
Per Seita e la sorella di quattro anni, l’impotenza, il pessimismo e l’indifferenza dei loro connazionali sono ancora più dolorosi che le incursioni nemiche.
Alla fine, Seita vedrà la sorellina morire lentamente di inedia, per poi seguirne le orme, abbandonandosi alla morte nella stazione ferroviaria di Kobe.
E’ il suo spettro a ripercorrere i momenti della loro vita ( « La sera del 21 settembre 1945 io morii…» ).

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Scene da Una tomba per le lucciole (Hotaru no Haka, 1988)) – Film di Isao Takahata, musiche di Joe Hisaishi >

http://www.veoh.com/collection/miyazakifan/watch/v7031896eSP8bjEw

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http://www.youtube.com/watch?v=RJlPI_mmCsg&feature=related

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Uno dei film più belli contro la guerra mai realizzato.

Postato sabato, 4 settembre 2010 alle 15:55 da Gianni De Martino


Volevo segnalare che sembra che in Malayalam vogliano realizzare una pellicola in 3D su “Dracula”.La trama vede lo spirito di Dracula entrare nel corpo di un chirurgo locale e seminare il panico.La regia sarà Roopesh Paul e il cast tecnico e artistico dovrebbe essere completamente indiano.

Postato domenica, 5 settembre 2010 alle 10:41 da Francesco Moretta


Interrogato sul 3D, il grande regista cinese John Woo, ha risposto: è roba da video-game. Anche lui, come Tarantino, ha reso omaggio al cinema italiano, dichiarandosi in debito, ma con una differenza sostanziale, perchè ha citato Antonioni, Fellini e Bertolucci … invece di Di Leo, Castellari e Sergio Corbucci. Omaggio scontato e rituale, il suo? Non credo proprio. E’ un omaggio a un cinema grandioso che una volta producevamo e sapevamo fare a livelli supremi. Non so se vi è capitato di vedere su Sky , di John Woo, il recente e mai uscito nelle sale italiane, Red Cliff, cioè Scogliere Rosse, chissà perché tradotto in italiano col poco stimolante titolo: La guerra dei Tre Regni. Un film davvero formidabile, testimonianza del fatto che ormai il cinema classico, tanto spettacolare, quanto artistico, lo si fa in Cina. Da noi si ondeggia tra il film-making volenteroso e il giochino stupidotto. Ogni tanto qualche colpo lo si mette a segno, ma a prezzo di inaudite difficoltà produttive, e appena si tenta il film kolossal (vedi Baria di Tornatore) si frana nel polpettone tronfio tutto dolly e carrellate, senza vera forza espressiva ( e il “clima” mica lo si può sempre delegare a Morricone). Mancano nuovi Maestri? Mancano idee? No, manca la produzione, manca la sintonia con quanto di buono si produce al mondo, mancano gli investimenti giusti (che non sono quelli Statali a fondo perduto) e soprattutto manca il pubblico, perché il grande cinema, come la grande letteratura, anche quando ci sono, non vengono apprezzati quanto potrebbero e dovrebbero. Tra le tante chiacchiere sul Futuro Italiano da ricostruire, qualcuno vuole occuparsi di ricostruire le basi anzitutto sociali perché il buon cinema e la buona letteratura possano ritrovare lo spazio di mercato che meritano? Ma certo, se ci si rassegna alle fette biscottate perché persino i crackers sembrano una roba strana…

Postato domenica, 5 settembre 2010 alle 15:01 da Gianfranco Manfredi


Dimenticavo: De Laurentis ha annunciato con gran rullare di tamburi e squilli di trombe, che sta preparando la riedizione di un film con Totò, in 3D.

Postato domenica, 5 settembre 2010 alle 15:03 da Gianfranco Manfredi


Credo che il commento migliore a questa notizia sia una vecchia battuta di Obelix:”Sono pazzi questi italiani!”

Postato domenica, 5 settembre 2010 alle 15:12 da Francesco Moretta


Diomio…avevo letto che vogliono restaurare/sconciare in 3D il povero Kubrick di 2001 ma non sapevo di questa patetica fesseria di Totò in 3D.
E’ un vicolo cieco dovuto alla mancanza di idee, è la stessa direzione dei remake dei remake, delle stesse storie rimasticate e riciclate alla nausea.
Per un pubblico popcorn-lobotomizzato la cui memoria storica risale al massimo a cinque anni addietro, un pubblico a cui bisogna vendere sempre più velocità e frenesia oppure commediole di una stupidità imbarazzante.
Dove sono Billy Wilder e Neil Simon? Blake Edwards e George Cuckor? Sostituiti da abominevoli fesserie per adolescenti peterpanizzati di quarantadue anni che guardano filmucoli pseudo-comico-romantici che io mi vergognerei di scrivere: mentre non avrei problemi a firmare col mio nome e cognome horroracci o comicacci di serie Z fatti con quattro soldi ma col gusto di farli.
E la crisi del cinema western? La crisi di idee? Anche lì: il remake del Treno per Yuma (quando l’originale era abissalmente superiore). attendo con sgomento i rifacimenti del Dollaro d’onore, Shane, Mezzogiorno di fuoco, Soldati a cavallo, Sentieri selvaggi, Notte senza fine…
Crisi di idee? Ma basterebbe prendere un albo di Magico Vento o di Ken Parker ed ecco pronto un film fresco, interessante, caldo, classico ma nello stesso tempo nuovo. Altro che gelidi remake di sterili remake.
JOHN WOO:
tanto l’avevo amato nel periodo di Hong Kong (The killer, A bullet in the head che tiene testa al Cacciatore, Hard boiled…) quanto mi deluse quando fu fagocitato da Hollywood (a parte il notevole Face-Off).
Ma adesso, tornato a casa sua, è di nuovo pazzamente libero ed eccolo con roba da argento vivo come Red Cliff (che si mangia gli esangui kolossalini occidentali, tanti soldi ma stitichezza creativa).

Postato lunedì, 6 settembre 2010 alle 12:06 da luciano / idefix


Ah…Red Cliff ce l’ho in dvd (edizione italiana, due dischi, integrale di quattro ore, sui tredici euro)

Postato lunedì, 6 settembre 2010 alle 12:07 da luciano / idefix


L’appassionato dibattito sulla Mondadori si sta intanto chiudendo, com’era prevedibile attendersi, in un fatuo chiacchiericcio rissoso tra scrittori che si rimproverano a vicenda mancanza di senso dell’onore e/o civico, comunque di spina dorsale. Lasciamo stare. Ma è possibile che scrittori degni di questo nome non si indignino di fronte a un Campiello presentato dall’ineffabile Bruno Vespa che invita la telecamera a zoomare “sullo strepitoso decolleté” (parole sue) di Silvia Avallone? Mah… la ragazza avrà i nervi d’acciaio.

Postato lunedì, 6 settembre 2010 alle 13:01 da Gianfranco Manfredi


Io sono gia terrorizzato all’idea dei remake di “Suspiria” e “Ammazzavampiri”,spero proprio che non si mettano anche a rifare i classici del western.(Altro genere che apprezzo molto)

Postato lunedì, 6 settembre 2010 alle 13:03 da Francesco Moretta


Gianfranco/Luciano.Sempre in tema Mondadori voi cosa ne pensate della recente politica di tagli che Urania ha deciso di effettuare su romanzi troppo lunghi?Il romanzo di Vernon Vinge uscito ad Agosto è stato il primo a essere sforbiciato,ma a quanto pare non sara il solo.(Per inciso l’autore non era a conoscenza dei tagli e quando lo ha saputo non ne è stato felice).Personalmente trovo una simile politica ingiusta e offensiva nei confronti dell’autore e dei lettori.Non è nelle dittature che si decide cosa deve o non deve leggere il pubblico?

Postato lunedì, 6 settembre 2010 alle 13:13 da Francesco Moretta


Non ho visto il Campiello in tv.
E così, della turpitudine vespasiana, ho saputo solo oggi leggendo i giornali (Gad Lerner è tra i migliori nel denunciare certe cose).
Il degrado di una civlità, di una cultura, di un’etica si vede anche da queste frasi: chiedere all’operatore televisivo di zoomare sullo strepitoso decolletè di una scrittrice è davvero il segnale della decadenza. Davanti a questi abissi di spettacolite in cui si agitano stupidità, ignoranza, volgarità, superficialità, maschilismo, guardonismo da sacrestia, mercificazione della donna e disprezzo per la cultura, si comincia perfino a capire alcune delle motivazioni che stanno alla base della scelta integralista del velo islamico.
Dico “capire”. Non “condividere”.
Ma se guardiamo noi, noi italiani, con gli occhi di altri, vediamo un paese che fa schifo, donne ridotte a oggetti di carne (il concorso di bellezza per venir assunte come bariste, la scollatura della Avallone, il velinismo dilagante, le ragazze scosciate in televisione, i crocifissi dorati ballonzolanti in mezzo a tette scoperte da scollaturone, pubblicità sempre più ammiccante, carriere politiche nate nei letti dei potenti), diritti elementari negati ai più deboli, scuola pubblica smantellata (ragazzi costretti a portarsi da casa le sedie e la carta da cesso), gangsters al governo e al sottogoverno, polizia a cui vengono tolti i mezzi per le indagini, bambini che (tra le risate dei propri genitori) picchiano un coetaneo perchè ha la pelle più scura…
Un paese che fa schifo.

Postato lunedì, 6 settembre 2010 alle 13:27 da luciano / idefix


Che occasione mancata! Che meraviglia sarebbe stata se la Avallone avesse reagito tirandogli un bel cartone in faccia.
Quello sì sarebbe stato educativo.
Peccato davvero.

Postato lunedì, 6 settembre 2010 alle 15:42 da Giusy De Nicolo


Ciao amici della notte! Sono rientrata da una settimana di ferie settembrine, bellissime come giustamente dice Giancarlo, e sono passata a salutarvi. Ora si ricomincia a palla; ho terminato il mio secondo romanzo (ancora in cerca di una degna paternità, che pena…) e sto lavorando a un secondo saggio illlustrato sempre per Gremese su, indovinate un po…
I LICANTROPI!
Basta vampiri, è ora di guardare la luna! Se è piena, scappate!!
:)

Postato lunedì, 6 settembre 2010 alle 17:20 da Simonetta Santamaria


Giusy: straconcordo.
Fin da quando facevo politica da giovane-giovane (cioè attorno alla metà dei Settanta) con la sinistra socialista di Riccardo Lombardi, avevo due modelli extra-politici: Gianburrasca e i situazionisti. Perciò credo fortissimamente alla potenza rivoluzionaria del gesto giusto al momento giusto, del “re è nudo” esclamato quando serve, dell’atto pacifico ma eversivo che smaschera il Potere o l’Ipocrisia, dello sberleffo che fa scomparire il finto sorriso dei lacchè per fargli emergere la dentatura da piranha.
Se la Avallone avesse dato una sberla sul muso di Bruno Vespa, da domani girerei con la sua t-shirt.

Postato lunedì, 6 settembre 2010 alle 17:53 da luciano / idefix


@ Giusy. Hai perfettamente ragione nel dire che è stata un’occasione persa. Serve a ben poco indignarsi a posteriori sui giornali. Uno che sta lì, in video,se non altro ben una banalissima legge dello spettacolo, o sfrutta il momento in cui il presentatore è più debole, cioè in piena diretta, oppure ha perso un’occasione. Non che si debbano tirare torte in faccia, come fece Marina Ripa di Meana con Costanzo, ma una replica pepata ci sarebbe stata eccome. I pubblici sputtanatori vanno sputtanati in pubblico, non in separata sede.

Postato lunedì, 6 settembre 2010 alle 19:37 da Gianfranco Manfredi


“Basta vampiri, è ora di guardare la luna! Se è piena, scappate!!”
@Simonetta.Intendi qualcosa come questo:
http://www.darkhorse.com/Comics/16-275/Werewolves-on-the-Moon-Versus-Vampires-1
Forza lupini!

Postato lunedì, 6 settembre 2010 alle 20:51 da Francesco Moretta


Infatti: le repliche a posteriori servono poco.
Come scrisse Manzoni “del senno di poi son piene le fosse”
Ieri sera ho iniziato Drood di David Simmons (io narrante è Wilkie Collins che racconta i misteri tenebrosi degli ultimi cinque anni del suo amico-collega-rivale Charles Dickens, incentrati sul romanzo incompiuto “Il mistero di Edwin Drood”). Dalle prime cinquanta pagine pare assai promettente: ottima ricostruzione d’ambiente, stile credibilmente vittoriano, lusinghe assai “nere”.
Con Simmons ho un rapporto contorto: eccellente il suo ciclo faantascientifico “Hyperion”, ottimi alcuni horror (“Il canto di Kali” lo trovo formidabile) mentre mi sono sembrati fiacchi i tanto celebrati due “L’estate della paura” e il seguito di cui non ricordo il titolo, originale la saga Ilium (sull’Iliade in chiave sf), non mi piace nei violentissimi gialli della serie di Kurz (esplicitamente emula del Parker di Donald Westlake quando si firmava Richard Stark), l’ho detestato negli ultimi anni sul suo sito per prese di posizione omofobe e antifemministe e xenofobe e proprio destrissime. Però gli va dato atto: quando ci si mette è un grande.
E questo Drood mi sembra notevolissimo.

Postato lunedì, 6 settembre 2010 alle 21:09 da luciano / idefix


In effetti le recenti prese di posizione di Simmons, tra la quali alcune poco simpatiche dichiarazioni su Obama quasi che ci fosse da rimpiangere Bush, potevano lasciar pensare che Simmons si mettesse a scrivere romanzi su Sarah Palin, comunque… resta uno scrittore notevole, anche se incostante, quasi che nella sua potente emotività gli esplodesse ogni tanto il barometro. Uno che scrive Gli Uomini Vuoti ( fantascientifica trasposizione, se vogliamo, di L’uomo a una dimensione di Marcuse) e potenti romanzi anti-nazisti, che ci azzecca che diventi una specie di neo-nazista? Fascino dell’abisso? Abuso di farmaci? Astinenza da droghe? O più semplicemente una sua amante di colore gli ha fatto le corna? Fatto sta che mettersi persino a selezionare i suoi traduttori sulla base dell’ideologia politica e al di là della qualità delle traduzioni stesse sono comportamenti che travalicano la scrittura e inducono a pensare a qualche malessere da frustrazione profonda. Cavoli suoi, ma anche dei lettori purtroppo, perchè nel suo caso influiscono sulla scrittura, mentre in genere tra biografia e scritti il rapporto è per fortuna più labile, al punto che ci sono scrittori meravigliosi che nel privato sono persone di merda e viceversa. Con maggiore distacco si può giudicare Wilkie Collins che per me è un vero mistero. Sono tanto entusiasta di Dickens (è uno degli autori che leggo quando sono in pappa, per scuotermi) quanto fiacco per Collins . Ho cercato più volte di leggere il suo decantato capolavoro La Pietra di Luna (da cui sono stati tratti svariati film) e mi addormento sempre dopo poche pagine, non c’è niente da fare. Sono arrivato alla fine de L’Albergo stregato e… aspettate che lo recupero… ecco, ricordavo bene. Le ultime righe sono queste: “E’ tutto? E’ tutto. Non c’è altra spiegazione al mistero dell’Albero stregato? Chiedetevi se c’è una spiegazione al mistero della vostra stessa vita e morte. Addio.”
Vabbé… uno non pretende che un romanzo ti sveli il mistero della vita, ma con quello di un albergo stregato forse si può tentare. O no? Tra l’altro, il mistero Collins lo svela, quello che lascia forse lui stesso in dubbio e bisognoso di giustificarsi con una capriola finale, è l’assoluta incoerenza psicologica dei suoi personaggi trattati come burattini.

Postato martedì, 7 settembre 2010 alle 16:09 da Gianfranco Manfredi


In merito alle recenti posizioni di Simmons forse non c’è nessun mistero,a volte invecchiando si finisce con il peggiorare emotivamente e caratterialmente.
Di Simmons ho letto solo “Gli uomini vuoti”,”I figli della paura” ,”Danza Macabra” e “L’estate della paura” più qualche racconto.Ho apprezzato moltissimo “Gli uomini vuoti” per la forte componente emotiva che lo accompagnava,nonchè per il finale forse uno dei migliori che mi sia capitato di leggere in un libro di fantascienza.”I figli della paura” è un intelligente variazione su Dracula e il vampirismo,ma anche un crudo ritratto della Romania post-Ceasescu mentre “Danza Macabra” per me rappresenta la completa modernizzazione in chiave fantascientifica del vampiro letterario.”L’estate della paura” mi piacque molto da un lato perchè è una versione più matura e realistica delle stesse tematiche di “IT”,dall’altro invece perchè rientra nel solco narrativo nato con il libro di Harper Lee “Il buio oltre la siepe”.(Libro magnifico e nemmeno tanto lontano dall’argomento di questo forum,cioè il perturbante)
Di Wilkie Collins invece non ho mai letto nulla e sinceramente la descrizione di Gianfranco dei suoi lavori non mi invoglia molto.
P.S. Domani sera su rai4 danno alle 21:10 “Frailty” di Bill Paxton,se potete vi consiglio di guardarlo perchè è veramente un buon film su fanatismo religioso,famiglie in crisi e serial killer.(Nonchè uno dei pochi horror decenti degli ultimi 15 anni)

Postato martedì, 7 settembre 2010 alle 18:27 da Francesco Moretta


La questione dei TAGLI posta da Francesco, merita un approfondimento. Va detto che non è una novità, anzi i tagli un tempo erano una prassi assai più abituale di oggi, soprattutto nelle collane da edicola. Quando ciascun libro deve avere lo stesso prezzo, e l’editore ne sforna uno a settimana, un format si impone. Per il Giallo Mondadori e per Urania era fissato grosso modo a centoventi pagine, e ovviamente doveva valere per tutti i titoli e per tutti gli autori. Ciò creava un certo appiattimento, perchè è ovvio che un autore stilisticamente ricco viene semplificato in eccesso, mentre questo effetto è insensibile per un autore dalla prosa semplice ed essenziale in partenza. D’altro canto ci sono autori poco brillanti proprio perché eccedono in divagazioni inutili, e tagliarle fa bene ai loro libri. Prendo ad esempio Paranormal Love che ho già citato positivamente. Non può certo essere definito un grande romanzo, è una cosetta così che non nasconde un intento di puro entertainment. Il punto è che è lungo trecento pagine, e di queste trecento pagine almeno un centinaio le si sarebbero potute tagliare senza perdere niente, anzi guadagnandoci. Ci sono dialoghi di una inutilità assoluta, che sembrano scritti perché la scrittrice stessa si sta interrogando su varie ipotesi, in quanto non ha ancora deciso dove andare a parare, oppure si sta sforzando di rendere plausibili certi sviluppi che potrebbero risultare illogici. Per non rendere questi dialoghi una palla mortale, li guarnisce di qualche rapida battutina di alleggerimento, il che contribuisce ad allungare ancora di più il brodo. Insomma… cosa ce ne frega di queste elucubrazioni leggendo un romanzo i cui protagonisti sono una ragazza dai superpoteri e un uomo pantera? Dovrebbe essere ovvio che della plausibilità non ce ne può fregare di meno. In una versione filmica, tutte queste chiacchiere sarebbero tagliate senza pietà.
E di conseguenza se il romanzo stesso fosse stato sforbiciato, l’editore ci avrebbe fatto un favore. Insomma, quello che voglio dire é che il vero problema non sono i tagli (basterebbe che si ripristinasse il ruolo degli editor e certi autori di penna facile imparerebbero presto a scrivere meglio) , ma il format. Il format oggettualizza il libro. Lo fanno diventare come una lattina di coca cola, la cui quantità è rigidamente prescritta. E dato che oggi molti lettori per sborsare cinque o sei euro esitano di fronte a un romanzo troppo smilzo, il rischio è diventato l’opposto: allungare il brodo, fino ad arrivare alle dimensioni richieste. Imporre un format predefinito a un libro è qualcosa di innaturale per la letteratura, specie quando si tratta di confezionare una collana che pubblica opere diverse, di autori diversi, e di diverso livello. Però il problema esiste anche sul versante del pubblico e delle sue abitudini. Quando scrivevo il mio primo fumetto (Gordon Link) facevo molta fatica a rientrare nel format di 94 pagine. Certe storie esigevano più pagine per essere raccontate bene, ma se le avessi raccontate in due episodi, le pagine sarebbero state troppe. L’editore mi lasciava una certa libertà. Per cui certi numeri uscivano con più pagine del solito e senza aumento di prezzo. Al numero successivo (che rientrava nella normalità) però i lettori protestavano: avete diminuito le pagine e tenuto lo stesso prezzo! Non si rendevano conto che gli avevamo fatto un gentile omaggio col numero precedente, si sentivano invece frodati. Quindi, la questione resta controversa. Sinceramente se dirigessi una collana di questo tipo, mi troverei in seria difficoltà nel decidere.

Postato martedì, 7 settembre 2010 alle 18:29 da Gianfranco Manfredi


FORMAT O NO?

Il problema del format in letteratura, nasce con il feuilleton, che usciva a puntate sui giornali, capitolo per capitolo, e con uno spazio prefissato. Per garantire meglio unità e continuità di lettura si svilupparono presto delle tecniche ad hoc, ad esempio quella del finale di capitolo lasciato in sospeso in un momento particolarmente emozionante. Però nella puntata successiva, non sempre si poteva ricominciare dallo stesso punto. C’erano esigenze riassuntive di quanto avvenuto in precedenza, e comunque un incipit è un incipit, bisogna pur aiutare il lettore a entrare nel clima. Inoltre, scrittori costretti a lavorare indefessamente, giorno dopo giorno, era umano che incontrassero qualche momento di stanchezza o di defaillance, e non avevano tempo né modo di ripensare a quanto avevano scritto, se non altro perché ormai le puntate precedenti erano già uscite. Ecco allora delle contorsioni narrative pazzesche, un procedere tra eventi shock narrati rapidissimamente e lungaggini necessarie a coprire spazi oppure a riassumere situazioni troppo lontane per poter essere ricordate dai lettori. Se si leggono certi romanzi a puntate di Gaston Leroux, per esempio il divertentissimo e mai pubblicato in Italia Chéri Bibi, prototipo di tutte le narrazioni di evasi dalla Cayenna, questi sussulti, a una lettura continuativa, si avvertono. Di certi eventi prodigiosi lo scrittore pare scordarsi. Poi gli tornano in mente (magari perché i lettori hanno scritto al giornale) e allora si mette a spiegarli due o tre capitoli dopo, con una capriola all’indietro. A Ponson Du Terrail, autore di Rocambole, accadde persino di rimettere in scena un personaggio morto, perché si era dimenticato di averlo ammazzato. Quando glielo fecero notare, preferì ammettere l’errore che escogitare una spiegazione, perché avrebbe dovuto tornare troppo indietro e lasciare in sospeso eventi più urgenti. Però il format ha anche insegnato agli scrittori cosa significa “misura” , e il feuilleton è stato infatti l’antenato del fumetto seriale e del telefilm, e ha anche contribuito (come ha rilevato acutamente Fabrizio Foni) a formare il pubblico, e a condizionare le sue abitudini di lettura. Per usare un’efficace metafora di Sergio Bonelli, è come dare il pasto alle galline: non può essere un giorno troppo ricco e il giorno dopo troppo scarso, né tantomeno si può saltare un giorno, la gallina si abitua e una volta che si è abituata la fai sclerare se non rispetti quantità e regolarità. Questa è la Bibbia del Seriale. Certo, ci si può scandalizzare a sentir considerare i lettori come galline, però lo sono, lo siamo diventati tutti: magari ci piacerebbe che quella certa puntata di telefilm durasse qualche minuto in più, e ci incazziamo se termina sul più bello, ma che ne siamo consapevoli o meno, questa incazzatura ci costringe a vedere la successiva. Se poi una settimana capita che siamo fuori casa e non possiamo vedere la puntata, oppure se la puntata salta per un imprevisto della programmazione, oppure se su un altro canale c’è qualcosa di imperdibile, ci troviamo nelle peste… certo si può sempre registrare o vedere una replica, però non è la stessa cosa, restiamo disturbati lo stesso, perché sentiamo come “violenza” non l’essere costretti , sempre nello stesso giorno della settimana, alla stessa ora, a interrompere qualsiasi impegno “perché c’è Lost”, ma quello che ci irrita è il dover cambiare abitudini. Infatti per ovviare a questo problema, molti preferiscono che una stagione finisca, per poi vedersela tutta di seguito su DVD. A quel punto però ci si rende conto di trovarsi di fronte a una narrazione strana, dove certi eventi restano in sospeso troppo a lungo, si inseriscono digressioni o altri eventi che ci fanno smarrire il filo, tutto il racconto sembra procedere a sussulti. E i finali in sospeso non funzionano più, perchè possiamo tranquillamente vederci all’istante la puntata successiva. Oppure bloccarne una a metà , quando ci pare a noi, e riprendere la visione un altro giorno ( ci avete fatto caso che di solito non la si riprende più? Quanti cofanetti abbiamo in casa che ci siamo sempre riproposti di vedere in fila, ma che abbiamo mollato a metà, anche perchè va detto, con questi cazzo di DVD ci sono sempre dei file che si bloccano e certe puntate non ce la fai proprio a vederle. Su un DVD con dodici episodi dei Soprano, mi è capitato di trovarne tre che proprio non linkavano. Altrettanto con Boris e con Deadwood. Sono sfigato io oppure questa grande invenzione del DVD è stata una gran presa per il culo?). Così, in attesa del giorno in cui le galline si ribelleranno, becchiamoci il nostro format quotidiano.

Postato martedì, 7 settembre 2010 alle 19:17 da Gianfranco Manfredi


@Gianfranco.Il format è solo parte del problema in questo caso.
Personalmente in merito a questo caso non trovo giusto:
-che gli autori non siano informati dei tagli delle edizioni italiane delle
loro opere
-che i lettori non siano informati prima dell’acquisto di questi tagli
-che i tagli siano effettuati dai traduttori (così obbligati ad un doppio
lavoro) e non da dei bravi editor
-l’atteggiamento mostrato sul blog di Urania dove utenti che
educatamente esprimevano un opinione contraria a questa politica
sono stati bannati
Consiglio la lettura di un post apparso oggi su “Malpertuis” che tratta di questa faccenda e dei relativi commenti.Ecco il link: http://elvezio-sciallis.blogspot.com/
P.S. Stranamente non ho mai sofferto di nessuno dei comportamenti da te elencati per quel che riguarda la visione dei telefilm.Non ho la fissa della fascia oraria e per me l’importante e guardare la puntata,quando e dove non importa.

Postato mercoledì, 8 settembre 2010 alle 12:57 da Francesco Moretta


“per me l’importante e guardare “,mi sono dimenticato di accentare la e, la versione corretta è “per me l’importante è guardare”.
Scusate per il refuso.

Postato mercoledì, 8 settembre 2010 alle 13:53 da Francesco Moretta


Sia chiaro, i tagli all’insaputa dell’autore non sono cosa da fare. In genere oggi si sta più attenti e si è più scrupolosi, però non sono proprio sicuro che avvengano all’insaputa degli autori e/o dei loro agenti. Per mia pura passione un tempo sono andato a leggermi tutti i romanzi di James Hadley Chase e li ho collezionato anche in edizioni estere, almeno nelle lingue che conosco, sia per confrontare le traduzioni italiane con l’originale, sia perché certi suoi romanzi non erano e non sono stati mai tradotti in italiano. Notai, al tempo, che alle edizioni originali inglesi, mancavano spesso e volentieri dei pezzi, rispetto ad esempio alle edizioni francesi. Come mai? Com’era possibile che risultasse tagliato l’originale invece della traduzione? Le traduzioni francesi erano uniche, a volte pareva davvero di leggere un altro romanzo, ed erano quelle di cui Chase andava più fiero. Le edizioni italiane erano non solo scorciate, ma anche scritte in un modo più piatto, senza metafore, senza sottolineature gergali, in certi punti sembrano più dei riassunti che delle traduzioni. Comunque… propongo alla Feltrinelli di pubblicare alcuni titoli di Chase, tra i quali degli inediti in italiano, e qualche titolo uscito, ma con traduzione farlocca. Mi affidano la cura e la traduzione di un paio di questi romanzi. Il problema non è semplice: quale versione usare, quella francese o quella inglese? Avevo nel frattempo appurato che in Inghilterra i gialli di Chase dovevano stare in un certo format e che uscivano in collane popolari tascabili, con pin up in copertina. Chase odiava quelle edizioni, Le traduzioni Gallimard (Serie Noire) erano più nobili (copertina nere senza immagini) e più letterarie, dunque è pensabile che Chase abbia ricostruito i suoi romanzi recuperando le parti tagliate. Però leggendo le edizioni francesi, trovavavo della parti di gusto così “francese” che non mi sembravano scritte da Chase, ma aggiunte da quale redattore. Si trattava di poche cose… un paragrafo qui, uno là… ma in certi casi, anche mezza pagina in più, con aggiunte che spiegavano certi passaggi oppure il passato di certi personaggi, e a me non sembravano più bella, ma più brutte, perchè a furia di spiegazioni toglievano ritmo alla storia e anche fascino ai personaggi. Così ho cercato un modo di tradurre che fosse fedele alla poetica e allo stile di Chase, recuperando da un lato parti tagliate nell’originale, ma cercando anche di contenere le aggiunte, almeno quelle che parevano a mio giudizio di un’altra mano. Mentre stavo lavorando, mi arriva una lettera da una traduttrice che stava facendo il mio stesso lavoro in tedesco. Apprendo da lei che le versioni tedesche dei romanzi di Chase erano a loro volte diverse, sia da quelle inglesi, che da quelle francesi, e che aveva trovato traduzioni austriache che contenevano brani assenti anche nelle edizioni francesi. Insomma… capito il casino? Spesso gli autori si arrendono, perché non hanno davvero modo di controllare le traduzioni. E dunque nei contratti lasciano liberi gli editori di modificare e/o adattare parti del testo. Non vi dico poi cosa succede con le traduzioni in arabo… in certi loro paesi certe parole non si possono proprio dire, le situazioni sessuali vanno ammorbidite, certi riferimenti culturali risculterebbero incompensibili, certi altri causerebbero scontri religiosi… quando ho conosciuto un traduttore di Damasco che aveva tradoto romanzi di Moravia e Pasolini… be’ non vi dico. Dell’originale non restava davvero quasi nulla. Questo non ha a che vedere, nello specifico, con la situazione riportata da Francesco. Se ci sono lettori che si lamentano delle edizioni tagliate, credo che sarebbe sensato da parte dell’editore starli ad ascoltare, però in generale, la situazione è più complicata di quanto si possa pensare.

Postato mercoledì, 8 settembre 2010 alle 19:27 da Anonimo


Il precedente post risulta anonimo perchè scrivendo da un altro PC, il mio nome non è apparso in automatico . L’autore è il solito Gianfranco Manfredi, cioè io. Questo week end mi prendo una vacanza, Al ritorno, caro Francesco, mi guarderò qualche film di vampiri cinesi che mi sono procurato nel frattempo e Leptirica. A presto.

Postato mercoledì, 8 settembre 2010 alle 19:32 da Gianfranco Manfredi


Aggiungo una piccola cosa. Le traduzioni, che ho cominciato a fare per sbarcare il lunario quando ero studente, sono state davvero fondamentali per me. Ho tradotto a quel tempo autori assai diversi tra loro, per esempio Aldiss e Cronin. Ancora non avevo pubblicato romanzi miei. Tradurre le storie di altri in italiano, cercare di rispettarne lo stile, è stata un’esperienza formidabile, senza la quale non so davvero se avrei scritto i miei romanzi con consapevolezza stilistica. Tra i consigli che si danno agli esordienti, non compare più da anni, quello che un tempo era abituale. Vuoi scrivere un romanzo? Impara prima a tradurre. Traducendo si è costretti a stare attenti ad ogni singola parola, alle forme del discorso, al suono stesso delle parole. E si capisce anche quale fatica sia scrivere un romanzo dal principio alla fine, perché un buon inizio è facile che venga in mente, il problema è lo sviluppo e la conclusione coerente della storia. Oggi per uno che vuole fare lo scrittore, sarebbe ancor più importante di un tempo, tradurre, perché è diventato essenziale per chi fa questo mestiere conoscere bene almeno un paio di lingue oltre alla propria.

Postato mercoledì, 8 settembre 2010 alle 19:53 da Gianfranco Manfredi


Come avevo previsto su “Leptirica” mi hai battuto,io impieghero un pò a procurarmelo perchè il computer che uso di solito si è rotto.(Sto scrivendo da un altro computer che però è sprovvisto di programmi per scaricare i film).Tra una settimana,dopo aver dato qualche esame conto di imbarcarmi in un progetto che avevo da tempo in mente:la rilettura completa e cronologica dei racconti di Robert Erwin Howard su “Conan il barbaro”.Inoltre dovrei riuscire a vedere “Lasciami entrare”,(Anche se devo recuperare il romanzo)A presto Gianfranco e buona vacanza.

Postato mercoledì, 8 settembre 2010 alle 20:42 da Francesco Moretta


Segnalo che il blog “Weirdletter” ha editato la prima parte di un dossier sulla narrativa licantropica.Ecco il link:http://weirdletter.blogspot.com/

Postato giovedì, 9 settembre 2010 alle 11:50 da Francesco Moretta


Manfre, il Porcaccia un vampiro! (fralezza) di Giusy De Nicolo è uscito. Se mi vuoi mandare il tuo indirizzo te lo spedisco come copia saggio. Ti segnalo la manifestazione I Sapori Del Giallo dove il libro verrà presentato domenica e la bella recensione riservata al libro dal ghetto dei lettori in Anobii. Se ti interessa qualche dettaglio sulla manifestazione I Sapori Del Giallo lo puoi trovare in Anobii mettendo in ricerca la libreria de ISaporiDelGiallo. Ho visto che sei a Luna noir a Ravenna a ottobre, sarebbe bello se venissi a fare un giro anche ai Sapori, si svolge a Langhirano.

Postato venerdì, 10 settembre 2010 alle 01:58 da Monica Montanari


I tagli?
A volte sono utilissimi.
Un esempio personale, nella versione originale del mio “Un pacco postale di nome Michele Crismani” (tra l’altro, il mio romanzo per ragazzi che fra ristampe, traduzioni ed edizioni scolastiche è “andato” meglio) avevo scritto un prefinale.
Alla El-Einaudi Ragazzi non piaceva e me lo dissero. Ne discutemmo, mi convinsero che avevano ragione loro.
A distanza di tempo, ogni tanto rileggo ancora quel capitolo “tagliato”: è davvero orribile.
Dove sta scritto, su quali Tavole della Legge è inciso che l’autore debba NECESSARIAMENTE avere sempre ragione?

Postato venerdì, 10 settembre 2010 alle 10:32 da luciano / idefix


@Luciano.Sul fatto che l’editing sia utile concordiamo tutti.Non è quello il problema.Il romanzo di Vinge era già stato sottoposto ad editing,mentre quello che Urania ha fatto è stato un secondo editing,affidato per inciso non ad un editor ma ad un traduttore.In casi come questo il rischio di snaturare l’opera c’è.L’autore non deve sempre avere ragione,ma presumo che sia un suo diritto essere informato sui rimaneggiamenti di un suo testo.(E qui chiudo con la questione dei tagli di Urania,un pò per non andare troppo fuori tema,un pò perchè penso che il mio parere su questa faccenda sia chiaro)

Postato sabato, 11 settembre 2010 alle 10:50 da Francesco Moretta


D’accordissimo: è inaccettabile che i tagli o le manipolazioni di un testo avvengano all’insaputa dell’autore.

Postato sabato, 11 settembre 2010 alle 12:09 da luciano / idefix


Ho finito Drood di David Simmons.
Il godimento delle prime settanta/ottanta pagine è andato pian piano scemando e devo dire che il romanzo non mi ha convinto.
Non voglio svelare nulla della trama e delle sorprese per cui eviterò qualsiasi spoiler. Scrivo solo che (a mio avviso) per certi versi è prevedibile e per altri implausibile, dopo un po’ l’io narrante Wilkie Collins diventa macchinoso e noioso (lo so: lo era pure il VERO Collins ma questa è una contraddizione da cui Simmons non riesce a liberarsi), soprattutto però il libro è troppo lungo.
Insomma, a me non è piaciuto.
Attendo con curiosità le vostre opinioni.

Postato sabato, 11 settembre 2010 alle 21:39 da luciano / idefix


Un caro saluto ai partecipanti di questo splendido forum.

Postato sabato, 11 settembre 2010 alle 21:44 da Massimo Maugeri


Buona domenica a chi c’è.
E anche (medianicamente) a chi non c’è ed è in altre faccende affaccendato/a.

Postato domenica, 12 settembre 2010 alle 08:25 da luciano / idefix


Luciano/Massimo (e tutti gli altri).Buona Domenica!

Postato domenica, 12 settembre 2010 alle 16:43 da Francesco Moretta


Grazie, Francesco. E buon inizio settimana a te e a tutti gli altri amici…

Postato domenica, 12 settembre 2010 alle 18:25 da Massimo Maugeri


Curiosando in fumetteria mi sono imbattuto in fumetto dell’orrore su Ciudad Juarez,antecedente di qualche anno il romanzo di Clanash Farjeon.Si tratta di uno dei volumi di “30 giorni di notte”,per la precisione il quarto e s’intitola “Juarez o Lex Nova e il caso delle 400 messicane morte”.La trama vede questo Lex Nova (un detective da classica scuola hard-boiled ma che in passato ha avuto a che fare con dei vampiri) indagare sulle morti di Juarez perchè convinto che i responsabili siano dei vampiri.Si sbaglia e si ritrova invischiato negli affari di alcuni depravati ricconi.(Anche se poi i vampiri saltano fuori lo stesso e sono vampiri con l’abitudine di tingersi la faccia da clown!)
Purtroppo a parte i disegni di Ben Templesmith l’albo è piuttosto deludente.La storia è confusa e pasticciata ed il protagonista si comporta in modo illogico,quasi allucinato.Inoltre la parte di denuncia sociale è piatta,prevedibile con la solita tirata contro i ricchi corrotti e depravati.Insomma ora come ora (almeno per me) Farjeon rimane l’unico ad aver trasposto in chiave narrattiva con successo gli incubi di Juarez.

Postato lunedì, 13 settembre 2010 alle 11:07 da Francesco Moretta


Buon lunedì a tutti. Leggo i vostri interventi (a Monica risponderò privatamente) e quello di Luciano sui libri che più si va avanti e più deludono, lo accoppio alle piccole riflessioni di Hornby sulle letture
interrotte. Un tempo io trovavo che smettere di leggere un libro, piantarlo a metà o dopo pochi capitoli fosse una specie di “peccato inconfessabile”. Insomma… un romanzo può anche avere una partenza lenta e faticosa, e poi riservare delle sorprese, oppure una partenza brillante e poi diventare faticoso, ma (mi dicevo) va sempre letto fino alla fine. Di fatto però le cose non vanno così: a volte si interrompe la lettura anche di riconosciuti capolavori e classici della letteratura, che però per qualche misterioso motivo, non ci appassionano più di tanto. Queste in genere sono le letture interrotte che davvero non confessiamo a nessuno. E’ la sindrome fantozziana. Come si fa a dire che la Corazzata Potiemkin è una cacata pazzesca? Anzitutto non è affatto vero, e lo sappiamo benissimo, però sappiamo anche che pronunciare un tale giudizio , proprio perché immotivato, è liberatorio. Dichiararsi indifferenti rispetto a un capolavoro riconosciuto, da un lato ci fa sentire limitati, dall’altro confessare questo limite ci fa capire che non siamo soli. Ho udito ad esempio un grande intellettuale italiano (scomparso di recente) confessare “Proust è un bluff. Ha fatto danni devastanti alla letteratura.” Forse un giudizio del genere non lo avrebbe mai scritto in uno dei suoi saggi di critica letteraria , però si sentiva liberato nel pronunciarlo ad alta voce. Questo genere di “liquidazioni” hanno a che fare con motivazioni di tipo filosofico… quel genere di approccio alla materia letteraria (nel caso quello di Proust) lo consideriamo di per sé opposto alle nostre attese e alle nostre idee di come debba essere un romanzo, indipendentemente da qualsiasi giudizio di tipo estetico. E’ come quando ci si ritrova di fronte a una donna (o a un uomo) indubbiamente bellissima, ma per noi del tutto sprovvista di fascino, così bella da non essere sexy. O come quando si ascolta una conferenza di livello notevole, però non ce ne importa assolutamente niente. Ci sono motivi diversi dietro un’interruzione della lettura e non sempre di tipo qualitativo… la cosa non riguarda solo i Grandi Classici (per quanto sarebbe interessante e lo suggerisco a Massimo Maugeri, affiancare alla classifica dei nostri dieci capolavori elettivi, quella dei capolavori indigesti). Però dicevo, facciamo esempi meno illustri. Un esempio recente è Orgoglio e Pregiudizio Zombi. Il romanzo lo leggevo piacevolmente, poi poco dopo la metà l’ho piantato lì. La spiegazione che mi sono data è questa: la storia (quella della Austen) la conoscevo già. Le incursioni zombesche fornivano un altro senso di lettura, indubbiamente divertente, però il modulo si ripeteva sempre nello stesso modo, per cui alla lunga mi ha stancato, non c’era più sorpresa… mi sembrava che leggere un capitolo o leggere per intero il romanzo fosse la stessa cosa. Ecco questo è un caso in cui la lettura viene interrotta, però uno resta convinto (a torto o a ragione) di averlo letto lo stesso, quel romanzo. A un lettore “forte” , cioè che legge molto, questo accade di frequente: si legge come un editor, cioè bastano poche pagine per capire lo stile e gli intenti di un autore, e se la storia non ti trascina particolarmente, molli lì, non necessariamente perché non ti piace, ma perché resti convinto che le poche pagine che hai letto già costituiscano un giudizio esauriente. Del tipo: interessante, ma non urgente. Nel senso che magari un libro che hai lì vicino, in attesa di lettura, già senza neanche averlo aperto, ti stuzzica di più. Credo anche che rispetto a un tempo, le mie letture interrotte siano molto aumentate. Negli ultimi anni è sempre più raro trovare un libro scritto in modo totalmente diverso dagli altri, cioè un unicum che appena lo cominci ti trascina dentro un mondo assolutamente “a parte”, non scambiabile con quello di un altro romanzo. Da un mondo affascinante perché unico, è difficile uscire, ti strega. E’ la sensazione che ho provato leggendo “Le benevole” e “Il mio nome è rosso”. Questi romanzi li ho consigliati a tutti, e a volte ho scoperto che il fascino che avevo provato io, non lo provavano gli altri. Gli stessi motivi che attraevano me, respingevano altri lettori. Certi romanzi “dividono”, e dividere è un bene. Sono i romanzi che piacciono a tutti , quelli che finiscono più in fretta del dimenticatoio. Quando sei di fronte a un’operazione letteraria di tranquillo “entertainment” , di oneste ed esibite intenzioni, pienamente riconducibile a una categoria (ad esempio la categoria Premi Letterari), insomma a un romanzo subito decifrabile, hai l’impressione di averla già letto quella storia, di aver già conosciuto quel tipo di mondo, e dunque l’esplorazione perde senso. Sicuramente in questo modo si rischia di perdere qualcosa… ci sono romanzi assolutamente piatti , totalmente riconducibili a un genere le cui leggi e regole conosci a memoria, ma che però a un certo punto possono avere uno scarto, ospitare qualche momento originale, qualche soluzione non di routine. Come in certi film ripetitivi della serie “maniaco contro giovani, carini e disoccupati” … è terribilmente stancante vedere una storia che è soltanto una collezione di uccisioni efferate, può anche darsi che ce ne sia una più emozionante di un’altra, però a un certo punto ti sembra che non valga neppure la pena di aspettarla e smetti di vedere il film. Non basta la possibilità teorica di un singolo evento riuscito… se la fotografia non è niente di che (“si vede” e basta) , gli attori non ti dicono nulla (non brillano, ma nemmeno sfigurano), la regia è semplicemente professionale, puoi anche smettere di guardare senza sensi di colpa (cioè senza dirti: chissà cosa mi sono perso). Mentre invece può accadere che un film bruttissimo, con una fotografia pessima, attori cani, regia del tutto inconsistente, ti affascini proprio per questa sua orrida stranezza. E’ il cosiddetto “effetto soglia”: si supera la soglia del brutto e dello sbagliato, e a quel punto ti trovi di fronte a qualcosa di davvero mostruoso da cui davvero non riesci a distoglierti. Continui a ripeterti: non è possibile. Una cacata spaziale ha un suo orrido fascino. E’ il prodotto medio, il romanzo “carino” , quello che personalmente faccio più fatica a leggere fino alla fine. In genere i romanzi che prendono un Premio letterario sono quelli che (con rare eccezioni) mi risultano più deludenti. Gli autori mi fanno l’effetto di certi alunni modello , ben preparati, che la Giuria dei Professori paternalisticamente gratifica di ottimi voti, però ti resta il dubbio, la sensazione, che quei Primi della Classe, non combineranno un cazzo nella vita, attaccheranno i Diplomi alla Parete, come certi aristocratici appendevano stemmi nei saloni, ma nessuno si ricorderà di loro, né dei loro illustri avi. Ti resta anche la sensazione che il loro scopo non sia quello di raccontare una storia, ma di ricevere riconoscimenti. “Bene, bravo, sette più” per usare il motto di Cochi e Renato. Lo stesso effetto che mi fanno i libri di Hornby. Lo stile è piacevole, in contenuto intelligente, ma non me ne importa assolutamente niente, e se leggo che lui giudica un romanzetto che ha letto , specificando che ha un’allucinante copertina rosa con scritte in oro, come una sorprendente “fontana di cioccolato nel deserto”, a me non viene voglia di leggerlo quel libro. Il giudizio sintetizza perfettamente un gusto kitsch. Quella definizione brillante, mi suscita il sospetto che Hornby sia un lettore superficiale, che in lui la curiosità onnivora, sostituisca la scelta coerente e motivata, che tutti quegli elenchi di libri dei suoi Diari di Lettura, mettano in fila opere egualmente irrilevanti. Apprezzo certo che suggerisca libri non recensiti, non Premiati, non riconosciuti dalle accademie, ma il modo in cui ne parla resta paternalistico… quel certo libro è consigliabile perché l’ho letto io, non perché vale di per sè, tanto che non faccio nemmeno la fatica di riassumerlo, mi basta citare che l’ho letto. Hornby è un autore vendutissimo anche in Italia, il che è tanto più sorprendente se si considera che i libri che lui consiglia sono all’ottanta per cento NON disponibili in italiano. Questo significa che dei consigli di Hornby non ce ne frega una mazza, leggendo lui ci pare di esserci risparmiata la fatica di leggere i libri che ci consiglia.

Postato lunedì, 13 settembre 2010 alle 12:00 da Gianfranco Manfredi


Un pezzo formidabile, questo tuo, Gianfranco.
Purtroppo i grandi (anzi: grossi) quotidiani non lo pubblicheranno. Ed è un peccato perchè è davvero un articolo eccellente.
tanto che ti propongo: possiamo pubblicarlo su Konrad (il mensile che dirigevo a Trieste)? E a cui ora collaboro?
20.000 copie cartacee (on line a http://www.konradnews.it), diffusione gratuita, area ambientalista (per quel poco che vuol dire), ci scriviamo di politica libri cinema teatro musica satira e molto altro.
Il tuo pezzo sono 8525 battute. Io toglierei (col tuo permesso) i riferimenti al blog.
Se mi autorizzi faccio un minimissimo editing da “rivista”.
Sarei felicissimo di rendere anche cartaceo un articolo così bello.

Postato lunedì, 13 settembre 2010 alle 12:58 da luciano / idefix


Ottima idea, Luciano. Ovviamente dovrai pagare un contributo al gestore del blog pari ad euro 225,72 (tutto incluso).
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Ovviamente scherzo!!!
Davvero ottima idea, Luciano.
E complimenti a Gianfranco.
(Che un Magico Vento soffi sempre dalla tua parte!)

Postato lunedì, 13 settembre 2010 alle 17:22 da Massimo Maugeri


Fai pure, Luciano, mi fido pienamente del tuo editing. Il libro di Hornby cui mi riferivo in particolare era “Shakespeare scriveva per soldi”. Spero si capisca che io considero Hornby come una piacevole lettura, ma sono di piacevole lettura anche i Galatei. I galatei si leggono per imparare le buona maniere, ma dando per scontato che continueremo più o meno a comportarci come ci comportiamo anche perché applicare alla lettera i galatei è da cafoncelli ed entusiasmarsene è da dandy salottieri.

Postato lunedì, 13 settembre 2010 alle 17:50 da Gianfranco Manfredi


@ Monica. Non ho trovato la tua mail sul sito. La mia è gm@gianfrancomanfredi.com , se mi scrivi ti mando il mio indirizzo. Domenica prossima non potrò essere a Sapori perché sono a Pordenonelegge.

Postato lunedì, 13 settembre 2010 alle 17:57 da Gianfranco Manfredi


Gianfranco, grazie.
Tra l’altro, spero di venire a Pordenone domenica (schiena permettendo: ho una sciatica micidiale, colpa del tour nelle scuole in aprile e delle esagerazioni “teatrali” e poi delle tre ore di una settimana fa davanti al palco rock dei Miami & the Groovers che ha riacutizzato i dolori).
Oggi (dopo un paio di giorni di miglioramenti…a Mantova stavo benino) sono di nuovo a pezzi.
SULLA LETTURA
Condivido ampiamente il lungo commento di Gianfranco. Mi capita sempre più spesso di non finire i romanzi che inizio a leggere (anche quelli che mi paiono promettere bene). Perchè (come diceva anche lui) dopo un po’ afferro il meccanismo e comincio a stufarmi, soprattutto quando il “clima complessivo” è carino-gradevole-patinato-omogeneizzato. Appunto alla Hornby.
Oppure (opposto ma complementare) il Palahniuk degli ultimi anni: tanto programmaticamente esagerato da risultare prevedibile come (si dice a Trieste) “struca boton, salta macaco” (che significa: “premi il pulsante e salta fuori la scimmia”).
Mentre (altro esempio) il David Mitchell di cui ho cominciato il nuovo romanzo (“I mille autunni di Jacob De Zoet”) poco fa in autobus è uno che mi ha sempre spiazzato.
Non so…il suo esordio di “Nove gradi di libertà” (dieci racconti a staffetta), si inizia con la storia di un giapponese io narrante che pare vada in una direzione ma poi ti porta in un’altra e il secondo racconto ha per protagonista un comprimario del precedente (e il genere è diverso) e così avanti: dalla ghost story alla commedia al viaggio alla sf al visionario, senza mai perdere di vista l’unitarietà della strutura.
E i romanzi seguenti di Mitchell (che adesso ha 41 anni) hanno continuato a sorprendermi: non sai mai dove ti condurrà.

Postato lunedì, 13 settembre 2010 alle 21:47 da luciano / idefix


Il terreno dell’imprevedibile verrà percorso da tanti? Non resta che augurarsi di sì. Ho appena finito di vedere 2012 su Sky. Mai collezione di luoghi comuni edificanti è stata squadernata a tal punto. Il mondo viene salvato da un geologo di colore e da uno scrittore il cui romanzo ha venduto 450 copie. Le arche della salvezza sono custodite in Cina, in esse trovano accoglienza, oltre ai potenti della terra (in genere occidentali, più qualche emiro che ha acquistato il biglietto per un milione di euro), alcuni poveri operai cinesi clandestini, più dei monaci tibetani superstiti, frotte di bambini, quelli russi fraternizzano con quelli americani, non manca un grazioso pet da salotto, e una coppia di divorziati si riunisce grazie al fatto che il nuovo marito di lei. peraltro una bravissima persona, muore (il triangolo no!). L’arca della salvezza approda in Africa, unico continente che non è stato sommerso dal diluvio, nuova casa comune dell’umanità. Ah, dimenticavo. Le opera d’arte, tra cui l’immancabile Gioconda, sono state messe in salvo in un caveau Svizzero, forse sommerso, ma probabilmente a tenuta stagna. Manca solo la musica di Bono e siamo a posto. Allora, come mai se i sogni son desideri, il film, realizzato benissimo e con effetti speciali mirabolanti, è nondimeno una porcheria di una stupidità imbarazzante?

Postato lunedì, 13 settembre 2010 alle 23:42 da Gianfranco Manfredi


Non si finirà mai di criticare le scuole di “scrittura creativa”, le “ricette per la narrazione riuscita”, i “decaloghi per scrivere il best sellers” e così avanti, compresi i dementi scienziati che hanno studiato la “formula della perfetta bellezza femminile”.
Quando dovrebbe essere evidente (ma pian piano questa evidenza la si sta smarrendo) il contrario: fascino, bellezza, interesse, attrazione, talento, piacere NON sono riassumibili nella rigidità di schemi precostituiti.
Uno dei grandi talenti del calcio mondiale fu il brasiliano Garrincha, poliomelitico da bambino, fisichetto sciagurato, una gamba più corta dell’altra, corsa sghemba. Chi mai degli ottusi preparatori del 2010 lo avrebbe preso in considerazione?
Eppure Garrincha fece dei suoi difetti la sua forza: li trasformò in qualità, perchè la sua gamba infelice gli permise dribbling imprevedibili e tiri pazzeschi.
Alla “Scuola Holden di calcio creativo” (che sforna giocatori carini e precisini tutti riconoscibili dal primo paragrafo-tocco di palla) uno come Garrincha l’avrebbero cacciato a pedate.

Postato martedì, 14 settembre 2010 alle 08:45 da luciano / idefix


Eccomi di ritorno da Langhirano, dove il mio vampiro si è infiltrato tra i duri e puri del giallo. Come disse il mio mito culturale Lupo Alberto: “E’ elettrizzante sentirsi in odore di scomunica”.
Le mie vertebre invece sono in ginocchio e invocano pietà. @ Luciano, ahhhh se ti capisco.
@ Gianfranco. Grazie del pezzo che ci hai regalato.
Comunque, riagganciandoci a 2012 e al tema generale Cazzate Cosmiche, scopro or ora che miglior Film a Venezia è stato Somewhere di Sofia Coppola.
ma dico io???!!!!!!!
ne leggo recensioni entusiastiche ovunque. E mi domando se sono scema io.
L’ho trovato vuoto, inutile e pretenzioso. non ti spiega niente e non ti fa pensare a niente. Attore protagonista con una sola espressione scazzato/depressa. Uso del trucchetto da due lire della figlia adolescente triste perchè papà e mammà non se la filano.
Unico momento significativo: la rappresentazione del modo in cui la star di Hollywood è trattata in Italia, con scorta armata e camera da nababbo. E, soprattutto, la parte in cui l’italica tivvù è mostrata pari pari. Lì mi sono vergognata.
Comunque, a mio avviso, un film inutile.
Per dire: scena iniziale di macchina sportiva che gira in tondo in una pista vuota. E gira. E gira. E gira. E gira. E lì ho pensato: “Prima o poi deve finirgli la benzina!”

Postato martedì, 14 settembre 2010 alle 10:16 da giusy de nicolo


Il festival di Venezia è stata l’ennesima dimostrazione di pochezza cui ha fatto seguito la solita accesa polemica tra italiani, semplicemente perché Salvatores ha osservato, come già aveva fatto Nichetti di recente, che in Italia ormai si fanno film piuttosto criptici per il mercato internazionale, di poca forza espressiva e tutti nostalgici del neorealismo (in sedicesimo). E’ un delitto sostenere queste cose? Casomai andava aggiunto che, come ha giustamente rilevato Giusy, è stato premiato il film della Coppola perché rientra perfettamente in questi parametri, con il vantaggio di avere un protagonista americano. Alla prima proiezione Natalia Aspesi aveva già rilevato come il film fosse una cosuccia da poco e inferiore al precedente della Coppola con Bill Murray. Poi però di fronte al premio tutti si sono rimangiati le critiche e via con gli elogi. E’ dopotutto un cinema che racconta una storia di cinema, scritta da una giovane italo-americana cresciuta a pane e cinema in famiglia e che riflette su certi percorsi biografici. Quando il cinema si mette a raccontare storie di cineasti, in genere vuol dire che è incapace di guardare al mondo e ripiega su se stesso. Lo stesso effetto (ci avete fatto caso?) lo si vede nelle canzoni dove si parla di musica o degli scazzi del cantante in quanto tale. Le canzoni dovrebbero dare voce a chi non ce l’ha, cioè alle persone, magari alle loro storielle d’amore, vissute come tragedie o benedizioni epocali, ma comunque cronache del costume collettivo in cui chiunque possa identificarsi. In canzone, qualsiasi Io è un Noi. Se si perde di vista questo, la canzone si avvita in un solipsismo narcisistico piuttosto sterile. Comunque… a questa tristezza autoriferita di racconto corrisponde sempre la rissa d’occasione, quasi che il film in sè non possa brillare se non gli si appiccica una polemica contro tizio o caio e contro i colleghi. Esaltante in questo contesto ( perfetto esempio di “superamento della soglia”) il commento di Gigi Marzullo non al film, ma al premio: Tarantino ha voluto premiare la sua ex-moglie per onorare un debito e chiudere la pratica? Per far pace e rimettersi con lei? Stuzzicanti anche i pettegolezzi fioriti su Tarantino stesso, secondo alcuni terza scelta di Muller dopo che due nomi più prestigiosi avevano detto no. Si è anche discettato sul fatto che Tarantino avrebbe chiesto, in cambio della sua direzione della Giuria, un aereo privato e un albergo quasi intero per i suoi amici sbafatori al seguito . Nulla di tutto ciò ha ottenuto ed è venuto lo stesso, in quanto soltanto in Italia ci si prostra ancora all’ Amico Americano di turno. Alla cerimonia degli Oscar Tarantino era solo una presenza tra le tante, assai meno celebrato dei popolari interpreti della serie televisiva 30 Rock. Qui viene a darci lezioni di cinema italiano, secondo la massima Jannaccesca di “quelli che ti spiegano le tue idee senza fartele capire”. Intanto i veri stranieri in Patria sono gli italiani che assistono sgomenti a questi tristi riti , rassegnati a subire ogni giorno la loro dose di depressione inflitta dall’alto e mediaticamente diffusa. Io sono sempre stato orgogliosamente contrario al lamento, d’altro canto cascano davvero le braccia se un bravo regista/autore come Martone che affronta un discorso critico sul Risorgimento si mette a far polemiche da cortile su cose che non c’entrano niente con il suo film , quando avrebbe ad esempio potuto parlare dell’agghiacciante Scuola Padana pagata coi soldi pubblici , modello di neo-nazismo localistico che fa davvero accapponare la pelle, ma che per comodità e quieto vivere si preferisce confinare nel folklore. A guardar bene avrebbe anche a che fare con il Risorgimento e l’Unità Nazionale, il fatto che una corvetta militare libica con a bordo consulenti militari italiani, prenda a mitragliate in acque internazionali un peschereccio siciliano. Qui ormai succede davvero di tutto e dove stiamo andando nessuno lo sa, però lo si vede, così che alla fine viene da dire: andateci voi, se vi va bene così, io me ne vado. E se la scelta non fosse isolata e privata, tanto meglio. So che l’andarsene viene considerato da vigliacchi, ma pensiamoci: Mosè che condusse il suo popolo all’Esodo era un vigliacco? E noi di questa scaciata penisola non discendiamo in qualche modo dall’eroe Enea di cui è scritto “grande nell’arte della fuga”? E la nostra più celebrata vittoria epica non è stata quella dell’astuta fuga nello scontro tra Orazi e Curiazi? Scappare è sano, è liberatorio, è anche una scelta obbligata, molto spesso. L’alternativa è continuare ad essere dei clandestini in Patria, posizione assai più triste dell’esserlo all’estero.

Postato martedì, 14 settembre 2010 alle 13:35 da Gianfranco Manfredi


Sì, sarebbe una grande storia epica, una di quelle per cui John Ford e Akira Kurosawa uscirebbero dalla tomba per dirigerne insieme il film: una mattina di ottobre, tre milioni di italiani se ne vanno dall’Italia, pacificamente ma fermamente. Un’immensa colonna di auto e moto, pulmini e roulotte, biciclette e furgoncini, sidecar e autostoppisti, treni pieni e corriere di linea stracariche.
“Perchè?” ci chiederebbero al confine (anzi: all’ ex-confine, visto che siamo in Europa).
“Perchè non se ne può più”
“E qual’è stata la goccia?”
Qu (è vero) dovremmo rifletterci. Dato che in questi anni abbiamo visto e letto e sentito e ingoiato e assorbito e metabolizzato e incassato di tutto.
Già…
Qualè stata la goccia fatale?
La demente scuola nazi-leghista di Andro?
La barzelletta del povero vecchio mona Silvio su Hitler?
I libici che sparano sui pescatori italiani in base agli accordi sottoscritti con i governi italiani?
Fassino che definisce “squadristi” quelli che fischiano Schifani?
Le polemiche sulla miss Italia trans?
Stracquadanio che teorizza la prostituzione per diventare deputatesse (e anche deputati, però!…perchè mai solo le donne hanno l’onere di vendersi?).
I diari falsi di Mussolini?
Il prossimo libro di Bruno Vespa che lui pubblicizzerà (senza tirar fuori una lira) in ogni trasmissione Rai?
Capezzone che fa il moralista?
Veltroni e D’Alema che fanno il remake dei Duellanti di Ridley Scott (tratto da Conrad)?
Non so cosa diremo, alla frontiera (dimentico sempre: la frontiera non c’è più), quale goccia sarà stata quella decisiva.
Il punto è che NON ce ne andremo noi.
Perchè vogliamo che se ne vadano gli altri.

Postato martedì, 14 settembre 2010 alle 13:51 da luciano / idefix


Non c’entra niente con l’attuale discorso ma avrei una richiesta da fare ai partecipanti ed ai lettori di questo dibattito.Leggendo un vecchio numero di “cinema e generi” mio fratello si è imbattuto in una pellicola spagnola sui lupi mannari intitolata “El bosque del lobo” di Pedro Olao del 1970.Secondo l’articolo film avrebbe il pregio di inserire il licantropo nel folclore spagnolo con un piglio realistico,a differenza dei film di Naschy.Sul web però non si trovano informazioni di nessun tipo.Chiedo gentilmente se qualcuno ha delle informazioni su questo film di farsi avanti.

Postato martedì, 14 settembre 2010 alle 14:25 da Francesco Moretta


http://en.wikipedia.org/wiki/El_bosque_del_lobo

Postato martedì, 14 settembre 2010 alle 15:21 da luciano / idefix


Su youtube trovi anche dei frammenti del film.

Postato martedì, 14 settembre 2010 alle 15:24 da luciano / idefix


Grazie mille Luciano.

Postato martedì, 14 settembre 2010 alle 15:43 da Francesco Moretta


@ Francesco. Su eMule lo trovi.
@ Luciano. Non c’entra con l’horror, ma qualcuno ci si raccapezza ancora con Veltroni? Quindici giorni fa si faceva fotografare insieme a Vendola e pareva sostenerne la candidatura, oggi dichiara che è ora di finirla con la subalternità a Vendola. Ora… va bene tutto… ma un’opposizione che mentre la destra al governo va in pezzi ci presenta dei leader che si comportano come i ragazzi della via Pal, sembra irreale se non fosse che invece è, qualunque cosa sia. Pare di capire, al di là delle apparenze, che tra Vendola sì-Vendola no e Casini sì-Casini no, in realtà faccia più paura Chiamparino… ma il perché affonda nel mistero. La ricerca di una faccia nuova che ancora angustia la sinistra, mentre si spara addosso ad ogni faccia qualsiasi che si affacci, comincia a somigliare alla ricerca della mitica Pantera Rosa. Almeno dateci L’Ispettore Clouseau!

Postato martedì, 14 settembre 2010 alle 17:37 da Gianfranco Manfredi


Mistero svelato! Veltroni ha annunciato la presentazione di un documento per domani alla direzione del PD, sottoscritto con Fioroni e Gentiloni. Il titolo sarà ONI. Si capisce così perché non va bene Chiamparino. E’ un diminutivo. Si chiamasse Chiamparoni allora tutto OK. Sull’altro fronte pare che il gruppo di Responsabilità Nazionale appena formato si sia dissolto. Illusi anche loro. Si fossero chiamati Irresponsabilità Nazionale avrebbero radunato un esercito, anche senza mercato degli acquisti.

Postato martedì, 14 settembre 2010 alle 19:29 da Gianfranco Manfredi


Oggi sono andato a comprare il giornale in una cartolibreria di Chiavenna e ho visto esposti sui banchi tre nuovi romanzi sui vampiri, usciti in settimana, libri che continuano ad essere sfornato a getto continuo, e che purtroppo fanno parte di saghe , per cui continueranno a uscire a raffica per chissà quanto tempo. Dato che qui siamo tra appassionati del genere, mi chiedo: c’è qualcuno che li legge questi libri (la Newton Compton da sola ne sforna almeno uno al mese) o non frega più niente a nessuno? A leggere il retro delle copertine pare sia in voga una svolta iper-sessuale , dopo tanta Meyer. A me sembra deprimente… ormai il sesso in versione hard o manifestamente porno ridonda anche nei libri Harmony. Però siccome non sono Hornby, non ho tanto tempo da dedicare a letture di pura curiosità se a partire dalla confezione e dalle note di copertina già mi sembrano delle cacate. Però può darsi benissimo che in questo mare magnum qualcosa di buono ci sia. Qualcuno ha letto libri recenti di tema vampirico di cui valga la pena di parlare?

Postato martedì, 14 settembre 2010 alle 21:15 da Gianfranco Manfredi


No, Gianfranco.
Già non sono un entusiasta (fatte salve alcune eccezioni) del tema vampiresco. Men che meno di questo prolasso editoriale.
Così come provo nausea (l’ho già scritto) per la tracimazione dei gialli: io che li leggo da quand’ero ragazzinino-ino-ino attorno al ‘66 e c’erano solo le collane specializzate, ho assistito alla crescente giallizzazione delle librerie, ormai invase da pile e pile di “Gunnar Sinenonsonn e il suo commissario triste col cane grasso e la figlia lesbica che ama una violoncellista iraniana” e “Lisa Marlouland con la sua giornalista ex-ballerina di lap-dance ora cronista di nera a Calcutta” e “Manolita Conandolinha con il thrilling sul mistero della spugna imbevuta d’aceto che venne data da bere a Gesù sulla croce e che ora è stata ritrovata da una setta di musicisti rap eunuchi, pronti a clonare l’ultima goccia di quell’aceto” e “Antonino De Panza col suo brigadiere in lotta con la banda degli squartatori specializzati in ammazzamenti di trapezisti di circhi ungheresi”.
Basta: ho nausea.
A volte, i generi letterari hanno bisogno di una lunga moratoria, di tornare nelle catacombe, di venir letti da quattro appassionati che si passano le proprie meravigliose scoperte come reliquie.
Per poi uscire dalle catacombe di nuovo in forma.

Postato martedì, 14 settembre 2010 alle 23:17 da luciano / idefix


Già, il racconto insensato sembra la nuova soglia, dopo la Commistione dei Generi. D’altro canto quanto di insensato ci propone la cronaca quotidiana? Le avventure del Pastore Jones alla Ricerca dell’Arca Perduta non fanno impallidire le fiction? Pastore/Pistolero/Truffatore/Crociato , subito raggiunto da “Charlie l’Idraulico” e da altri due imitatori che bruciano Corani in giardino e non sono neanche più pastori, perché da tempo rimasti senza fedeli o cacciati dalle rispettive chiese… e i media che inseguono come mosche questi Allegri Deficienti della Foresta… la Libertà di Pensiero regredita a Libera idiozia in Libero Stato. Da noi pare prevalere l’aspetto farsesco da Commedia dell’Arte: reclutato “a sua insaputa” nel nascendo e abortito (ma annunciato per nato) gruppo della Responsabilità Nazionale, un eletto a sinistra di professione medico, dotato di cravattino a farfalla, recordman di assenze in parlamento (90,9% delle sedute disertate) , proclama che ” mai voterà a destra”, cosa ovvia dato che non ha mai votato punto e basta, e che non intende presentarsi per la prossima legislatura perché ha “altro da fare”, cosa su cui nessuno nutriva dubbi, e chi mancherebbe anche che uno venisse eletto per fare qualcosa di inerente al proprio mandato (mandato da chi poi? E dove?). E’ questa la campagna acquisti del Berlusca? Vendola dice che il suo “racconto” (di Berlusca) volge al termine e propone “un altro racconto”. Questa metafora del Racconto (vedi ieri sera a Ballarò) viene raccolta da tutti ed è già diventata un tormentone. il Racconto di questo, il Racconto di quello. Dunque la politica è oggi Racconto? In questi ultimi vent’anni non abbiamo vissuto una pagina di Storia, ma ci siamo lasciati raccontare una storia? Abbiamo creduto di eleggere dei rappresentanti, e invece abbiamo eletto dei ContaStorie. E quando un racconto viene a noia, ci facciamo raccontare un’altra storia da un altro narratore. I politici non fanno la Storia, ma sono lì per raccontare storie. D’altro canto gli scrittori, che raccontano storie di professione, si guardano bene dal fare politica. Dal che si deduce che tutti fanno ( o vogliono fare) i Narratori e la politica nessuno ha davvero voglia di farla, a meno che non sia quelle del tirare a campare giorno per giorno, sparandola ogni giorno più grossa. Il proliferare di Vampiri e di Giallisti Svedesi ci sta forse segnalando che la narrativa stessa è alla frutta… e forse per ricominciare bisognerebbe ripartire dalle Cronache Marziane, perchè quando la realtà diventa aliena, è tra gli alieni che si può trovare un qualche scampolo di Cronaca degna di essere raccontata.

Postato mercoledì, 15 settembre 2010 alle 08:08 da Gianfranco Manfredi


@Gianfranco.Personalmente i cosidetti Harmony vampirici li evito come la peste.Buoni libri a tema vampirico?Si e pure recenti usciti tutti negli ultimi tre anni.
-”Baltimore” di Mike Mignola e Christopher Golden
-”Per amore del sangue” di Charlie Huston
-”Il sangue di Manitou” di Graham Masterton
-”Il 18 vampiro” di Claudio Vergnani
-”I vampiri di Ciudad Juarez” di Clanash Farjeon
(non conto poi ottimi libri come “Il morso sul collo” e “Gli archivi di Dracula” perchè si tratta di libri di 30-40 anni fa e non di testi recenti)
Quindi di libri buoni in Italia ne escono pochi,ma se cerchi nel mare magnum di scemenze qualcosa lo trovi.

Postato mercoledì, 15 settembre 2010 alle 09:25 da Francesco Moretta


Piccola premessa: questo post in progress è una specie di bellissima osteria di quelle di una volta, dove si trovava gente interessante che parlava di tutto, dall’attualità politica all’ultimo libro letto alle proprie fissazioni agli scavi archeologici realizzati dalla figlia appena laureata.
1) Ieri ho guardato (roba che non faccio mai perchè i talk show sono un mix di noioso e irritante) Ballarò. L’aspetto più divertente erano alcuni vezzi linguistici: in particolare quasi tutti (non Vendola e, mi pare, nemmeno Granata) usavano in continuazione “il teatrino della politica”. L’impressione è che (tolto appunto Vendola e, forse, Granata) gli altri e le altre non leggano un romanzo o un fumetto e non guardino un film e non ascoltino un disco e non abbiano una vita al di fuori della politica partitica: il risultato è desolante perchè, come androidi fatti molto male, ripetono alla nausea le stesse parole sempre incasellate nei medesimi schemi. Tanto che Vendola (dal “mi ribolle il sangue” alla capacità di usare gli artifici retorici e di variare riff e melodia) sembra di una categoria superiore.
Controprova: da qualche mese sta usando il topos “la narrazione politica”. E questi, come pappagalli o come karaoke, la stanno ripetendo piattamente. Perchè (appunto) sono uomini e donne privi di cultura, di passione, di interessi, di curiosità, di finestre mentali ed emotive sul mondo.
Altra controprova (e lo dico da liberal-socialista con radici azioniste): gli unici due che non davano questa desolante impressione erano i due con un’ideologia forte (Vendola e Granata). A dimostrazione che l’idelogia di moda secondo cui “le ideologie sono da buttare” produce ignobili mostriciattoli, succubi (per chi mastica un po’ di mitologia e di fantastico).
Da questo non traggo la meccanicistica conclusione che Vendola o Granata debbano essere IL MODELLO o che sarebbero governanti capaci dell’Italia). Dico solo che non fanno venire il latte alle ginocchia dopo sei secondi da quando hanno aperto bocca.
2) il 24 dicembre 2010 è il centesimo anniversario della nascita di Fritz Leiber. Uno dei più grandissimi (lo so che non corretto dirlo ma per Leiber lo dico lo stesso) scrittori di fantascienza, horror e fantasy del Novecento, colto e ironico, erotico e inquietante. Quando in libreria vedo scaffaloni e scaffaloni pieni di Asimov e nemmeno un testo di Leiber e scorgo adolescenti che si avvicinano per comprare qualcosa e finiranno per cascare sempre là (sulla Fondazione asimoviana o su harrypotter o su christopherpaolini e aragorn e il signoredeglianelli) perchè Fritz Leiber e Gene Wolfe e Philip Josè Farmer e Poul Anderson e E.C.Tubb e Edgar Rice Burroughs e Gianfranco Manfredi e Leigh Brackett e Catherine Moore e Clive Barker e Merwyn Peake e Ambrose Bierce e altri scrittori e scrittrici con le palle (e con le ovaie) non si trovano, mi fa incazzare.

Postato mercoledì, 15 settembre 2010 alle 09:58 da luciano / idefix


Mentre i nostri politici più che una commedia dell’arte fanno, a mio avviso, il ballo del quaquà, pongo una domanda per iniziare la giornata in allegria: quanto ci metteranno i pescatori di Mazzara a organizzarsi, andando a chiedere in prestito al vicino super fornito un bel lanciarazzi? Tanto, fai colare a picco la prima motovedetta libica che ti si avvicina, giusto per lanciare un segnale di diplomazia alternativa, getti l’arma in mare e salutami a soreta.
E se qualcuno dopo te ne chiede conto, basta fare la faccia sorpresa ed esclamare Ma saranno stati i trafficanti di clandestini!!!!!!
Harmony vampirici? Neanche con un AK 47 puntato alla testa. :D

Postato mercoledì, 15 settembre 2010 alle 10:11 da giusy de nicolo


L’Italia di adesso è terreno fertile per romanzieri di ogni tipo: umoristi raffinati, comici sguaiati, horror sinistri, spionaggio planetario, satira politica, pamphlet moralista, pornazzo, giallo hard boiled rivisitato, commedia umana tra Balzac e Tom Wolfe, romanzone sociale, epica dei vinti, pastiche linguistico-culturale sugli immigrati, fantascienza di tutti i sottogeneri…

Postato mercoledì, 15 settembre 2010 alle 10:20 da luciano / idefix


Il mio romanzo Tecniche di resurrezione dovrebbe arrivare in libreria domani. Qualche giorno fa mi è arrivato dalla tipografia, così l’ho preso in mano e ho letto per controllo i primi due capitoli. Mi sono detto: Ma che cazzo ho scritto? Succede quando si scrive di continuo e si è sempre in anticipo di un anno o due sulle uscite. Uno come me che legge molto, si rende benissimo conto di qual è il tipo di prosa usato correntemente, per cui quando trovo la mia, mi sembra una cosa che non corrisponde a nessun modello circolante, e guidata dunque da un istinto commercialmente suicida. Il punto è che pur sapendo benissimo quali sono le attuali regole di scrittura ( e di lettura, ecco perché caro Luciano, Fritz Leiber risulta oggi un autore difficilissimo) io non posso fare a meno di seguire ciò che mi detta l’inconscio oltre che la tecnica appresa su tutt’altro genere di letteratura (la letteratura dei morti). Spero comunque che ritrovarsi piombati anche stilisticamente in un’atmosfera primi ottocento, non lasci i lettori troppo interdetti, in quanto le problematiche che si affrontano sono assai attuali. Si vedrà… è certo che affidare un romanzo all’attuale caos delle librerie è disorientante, per cui se nei prossimi giorni i miei post dovessero apparire poco lucidi, cercate di comprendere il momento emotivo che vivo… ai libri che scriviamo, anche se siamo adulti e vaccinati, affidiamo molte attese. Parlando d’altro, qualcuno di voi ha visto il film Daybreakers, l’Ultimo Vampiro? Ho appreso che verrà proiettato a un convegno dell’AVIS cui sono stato invitato a fine ottobre. Cercherò di procurarmi per tempo il film, che è uscito nel 2009 e il cui tema ha a che fare con la scarsità delle risorse sanguigne , tema sensibile per le associazioni dei donatori.

Postato mercoledì, 15 settembre 2010 alle 10:38 da Gianfranco Manfredi


“Anche stilisticamente in un’atmosfera primi ottocento”!??!!
Mi par una pazzia.
E dunque non vedo l’ora di cercarlo in libreria, vederlo, prenderlo in mano, annusarlo, sfogliarlo, leggere le prime tre righe, portarlo alla cassa, pagarlo e poi a casa cominciare a leggerlo.
Da come lo descrivi mi par davvero una pazzia. Per cui: tanto di cappello.
Comunque, dato che nemmeno io ho le rotelle a posto, in libreria ci passo già oggi: vedi mai che il romanzo arrivi in anticipo.
Così stasera avrei cosa leggere: purtroppo, il libro che tanto attendevo di David Mitchell non mi convince. Mi pare abbia smarrito la sua miglior qualità: passare da un genere all’altro.

Postato mercoledì, 15 settembre 2010 alle 10:57 da luciano / idefix


@Gianfranco.Io “Daybreakers” l’ho visto e pur avendo uno spunto interessante e qualche buona trovata lungo il cammino,risulta essere il classico block buster hollywoodiano (con qualche infarinatura neocon/teocon).La trama vede un mondo in cui un patogeno ha tramutato il 90% della popolazione in vampiri e i pochi umani rimasti vengono braccati e imprigionati per il loro sangue.Per inciso non fa completamente schifo ma in mani migliori se ne sarebbe ricavato di meglio.
P.S.Se non l’hai visto ti consiglio il neo zelandese “Perfect Creature” che narra di vampiri in un ambientazione steampunk.Neanche questo è un film perfetto,ma la costruzione grafica ed estetica di abitazioni,macchine e oggetti steampunk e talmente convincente da superare i difetti.

Postato mercoledì, 15 settembre 2010 alle 11:16 da Francesco Moretta


Orpo: che idea originalissima, questo “Daybreakers”. Mi vien proprio voglia di non vederlo.

Postato mercoledì, 15 settembre 2010 alle 11:45 da luciano / idefix


@Luciano.Se non lo vedi guadagni solo tempo utile per fare altro.
Segnale che a Torino alla Mole Antonelliana dal 30 settembre al 9 gennaio si terrà una mostra su zombi,mimmie e vampiri nel cinema.Il titolo è “Diversamente vivi” e non prendera in considerazione solo le pellicole horror ma anche pellicole di altri generi in cui fa capolino la figura del non-morto.

Postato mercoledì, 15 settembre 2010 alle 11:55 da Francesco Moretta


Ho sbagliato a scrivere mummie,scusate per il refuso.

Postato mercoledì, 15 settembre 2010 alle 12:00 da Francesco Moretta


Intanto, in libreria il romanzo di Manfredi non è ancora arrivato. Però era appena uscito dagli scatoloni il nuovo libro di uno degli autori a cui sono più legato (John Irving), “Ultima notte a Twisted river”. Comprato, sfogliato e notate due piccole curiosità: la canzone citata in apertura è “After the gold rush” (del mio straamatissimo Neil Young) e il romanzo comincia nel 1954 (l’anno della mia nascita).
Ovvio che non vuol dir nulla. Però aiuta a entrare in sintonia con un libro.

Postato mercoledì, 15 settembre 2010 alle 13:00 da luciano / idefix


@ Luciano. Grazie per il sostegno. Il punto è che scrivendo di morti, mi pare coerente usare la lingua dei morti, così che il romanzo stesso, per certi versi, appare come un cadavere vivente. Sì è un po’ da pazzi, e infatti c’è anche Bedlam nel romanzo. La cosa più da pazzi è che gli eventi più assurdi che racconto in Tecniche di Resurrezione sono storici. In nessun romanzo che ho scritto prima ho infilato così tanti personaggi realmente esistiti ed eventi di cronaca assolutamente autentici. Le citazioni di articoli di giornali d’epoca non sono ricostruite fantasticamente, ma tradotte fedelmente.

Postato mercoledì, 15 settembre 2010 alle 13:08 da Gianfranco Manfredi


Dando un’occhiata al link suggeritomi da Luciano per “El bosque del lobo” e al link per la scheda spagnola del film ho appreso che oltre a rifarsi alla storia di Manuel Blanco Romasanta (assasino reale in odore di licantropia) il film riconnette la figura del lupo mannaro a due spauracchi infantili del folclore spagnolo “l’hombre del saco” e il “Sacamantecas”.
Il primo si aggira dopo il tramonto alla ricerca di bambini dispersi che rinchiude in un sacco e porta via con se,mentre il secondo uccide i bambini per ricavare dal loro grasso un rimedio contro la tubercolosi.(in più tale nome è stato appiccicato a dei serial killer reali).L’accostamento licantropo-infanticida-serial killer non è per nulla errato o estraneo al folclore medievale sui licantropi.Rubare i bambini per mangiarli era una delle malefatte compiute con maggiore frequenza dai mannari.Inoltre la triade licantropo-infanticida-serial killer compare perfettamente nella versione originale di una nota fiaba popolare ovvero “Capuccetto Rosso”.
Nella versione originale l’atteggiamento del lupo nei confronti della bambina è terribilmente simile a quello di un serial-killer pedofilo:
-adesca con dolci promesse la bambina nel bosco
-le fa mangiare un pò di carne della nonna rendendola una cannibale
inconsapevole (atteggiamento realmente riscontrato in molti serial-killer
nei confronti delle proprie vittime)
-si spaccia per la sua nonna per dormire con lei e alla fine la uccide e la
divora
Tutto questo oltre a dimostrare come le versioni popolari di certe note fiabe siano ottime storie horror,paragonato con quanto sappiamo oggi sull’omicidio seriale ci permette di riconoscere nel lupo un assassino pedofilo e feticista. E i licantropi di molte narrazioni e cronache del passato aderiscono perfettamente a questo profilo.

Postato mercoledì, 15 settembre 2010 alle 13:48 da Francesco Moretta


Ho scritto assasino invece di assassino e cappuccetto con una p in meno,scusate per l’errore.

Postato mercoledì, 15 settembre 2010 alle 14:04 da Francesco Moretta


Comprato “Tecniche di resurrrezione” di Manfredi.
Elegantissima la copertina (come spesso quelle di Gargoyle):
http://www.gargoylebooks.it/site/content/tecniche-di-resurrezione
E ottime la rilegatura e l’intera veste grafica (con certe fetecchie editoriali in circolazione non è scontato).
Ma l’inizio…
Eccolo:
PARTE PRIMA: LONDRA
I Teatro anatomico
La carrozza procedeva a strappi, imbottigliata nel traffico. Valcour sporse la testa dal finestrino. Il carro dei nettuirbini ostruiva la strada. Sovraccarico di blocchi di neve ghiacciata, a ogni scossone riversava fuori la porcheria appena raccolta dai marciapiedi.
Era il 7 gennaio 1803, lunedì. Valcour de Valmont e il suo amico del cuore, l’attore Francis Archer, si stavano dirigendo alla volta del St. Bartholomew’s Hospital per assistere a un esperimento scientifico. La sera prima, per burla…

DICO…
Come si fa a non farsi catturare dalla voglia di leggere un romanzo che comincia così?
Se non vi viene la fregola adolescenziale di correre avanti, fatevi dare un’occhiata dal medico: forse avete urgentissimo bisogno di una “tecnica di resurrezione”.

A chi non viene la voglia

Postato giovedì, 16 settembre 2010 alle 16:48 da luciano / idefix


Grazie Luciano. Ho passato la giornata a segnalare il mio romanzo ai miei corrispondenti. Col fatto che scrivo fumetti, ne ho un numero notevole e siccome trovo poco carino inoltrare una circolare, è un’occasione per sentirli uno per uno e scambiare messaggi. E’ accaduta infatti una singolare coincidenza , cioè che Tecniche è uscito nello stesso giorno del numero conclusivo di Magico vento. Se resterò un po’ silente è perché nei prossimi giorni dovrò rispondere a parecchie mail. Accade ormai che gli scrittori, che una volta restavano in attesa, adesso devono impegnarsi in prima persona perchè giri la notizia dei propri lavori. Siccome è imbarazzante risolverla in modo puramente promozionale (almeno per me lo è) colgo l’occasione per ristabilire rapporti magari con lettori che mi avevano scritto due anni fa. La fatica è compensata dal fatto che il rapporto è molto bello, vissuto così direttamente, e di questo bisogna ringraziare la rete. Solo pochi anni fa , tra uno scrittore e i lettori c’era una barriera insormontabile.

Postato giovedì, 16 settembre 2010 alle 19:38 da Gianfranco Manfredi


Caro Gianfranco,
credo proprio che in merito al tuo nuovo romanzo dovrò organizzare un dibattito specifico in un post a parte… che risulterà comunque connesso a questo immenso dibattito. ;)

Postato giovedì, 16 settembre 2010 alle 21:53 da Massimo Maugeri


Anche a me la coincidenza è parsa bizzarra, quasi un segno del destino.
(“Er segno de che?”)
Ti confesso una piccola-grande assurdità. Oggi, dopo aver comprato Magico Vento, ho pensato: “e se questo numero e le due precedenti puntate le mettessi via senza leggerle?”
Così in un qualche modo (con un trucco da baraccone) manterrei aperta la saga, sapendo che da parte ho questo strano tesoro. E (quando volessi) potrei tirarli fuori intatti.
Guarda tu dove arriva il mattio dei lettori…

Postato giovedì, 16 settembre 2010 alle 21:56 da luciano / idefix


Questo week end sarò a Pordenonelegge. Magari poi vi racconterò com’è andata, anche se io sarò lì solo all’ultimo giorno… peccato, perchè mi sarebbe piaciuto conoscere Tahar Ben Jelloun che è uno scrittore che mi piace moltissimo. Comunque, stasera di va di aggiungere una postilla alla faccenda del Festival di Venezia che come avete visto ha suscitato persino l’intervento di James Bondi che ha perso un’altra occasione per star zitto. In che mani siamo? Lasciamo stare. Resta accertato che ormai qui uno non può dire quello che pensa, anche in termini generici e gentili (mi riferisco alla dichiarazioni di Salvatores sul cinema italiano) e nemmeno polemizzare con toni eccessivi contro queste dichiarazioni ( vedi gli interventi di Martone e di Bellocchio in sostegno del Cinema Nazionale) e subito interviene la Politica che approfitta del libero e legittimo dibattito degli addetti ai lavori (entrambi gli “schieramenti” secondo me hanno delle buone ragioni) per dire “allora decido io”. Si ha l’impressione che data la piega non si possa discutere più di niente. Tra un po’ la discussione tra chi ama la Meyer e chi la odia ( gentilmente e con toni giustamente sommessi discussa in questo sito) causerà un intervento governativo che si arrogherà il diritto di dire la parola definitiva. Eliminato il campo da queste prospettive allucinanti, io che ho sempre parecchi dubbi… ho deciso di accogliere i suggerimenti di Tarantino e mi sono visto i film di Sergio Corbucci da lui consigliati al festival di Venezia, in particolare Navajo Joe che a dire di Tarantino sarebbe al quinto posto nella lista dei western più belli della storia del cinema, almeno in certe liste di appassionati del genere. Ora. Io l’avevo già visto Navajo Joe e non mi era parso una meraviglia, però ci si può sempre sbagliare, per cui me lo sono rivisto. Protagonista: Burt Reynolds (hai detto niente…) . Sceneggiatore: Ugo Pirro (tanto di cappello). La storia in effetti è intensa, con parecchie belle idee, e la prestazione di Reynolds, la più atletica che lui abbia mai fatto… allora perchè il fim risulta una palla? Perché , davvero, si fa fatica a continuare la visione… la storia è anche più varia e più bella se vogliamo, di quella di Chato… però non c’è dubbio che Chato è un film infinitamente migliore di Navajo Joe. Dunque il problema dev’essere della regia. Sergio Corbucci era un notevole uomo di cinema (mi è anche capitato di conoscerlo, e la sua intelligenza si scorgeva al volo, da un solo sguardo), ma faceva tanti film (come ricorda Tarantino) perché gli piaceva lavorare e dunque non prestava particolare attenzione se un film intimamente lo sentiva meno, lo girava lo stesso. Però sullo schermo si vede quando dietro un film (come il suo capolavoro Django) c’è una visione precisa, d’autore, una regia davvero convinta, o quando il regista lavora per routine, rappresenta la sceneggiatura, però non gliene importa più di tanto di renderla davvero espressiva, ci crede meno. Ora: come mai per Tarantino, un western minore come Navajo Joe (minore rispetto ai tanti film notevoli dell’epoca, anche dello stesso Corbucci) è invece un esempio? Mah… mi sono sorbito anche il Mercenario con Franco Nero, altro “capolavoro” corbucciano esaltato da Tarantino. Boh… a me è sembrata una cacata… cioè, anche qui… la sceneggiatura poteva anche essere interessante, però il ritmo, le riprese, la cifra espressiva del film, stanno a zero. C’è da crollare addormentati. Cosa cazzo ci vede Tarantino in questi film che secondo lui “esprimono perfettamente la mentalità italiana”? Quale Italia si è messo in mente?

Postato venerdì, 17 settembre 2010 alle 22:14 da Gianfranco Manfredi


Bella domanda.
Non li ho rivisti ma (come a scuola) mi riprometto di farlo.
Al di là di questi suoi giudizi, l’impressione che ho su Tarantino è questa: épater le bourgeois. Tradotto in “ahò! Ve devo stupì e scandolizzà. Because I so’ I and voi sete un cazzo”

Postato sabato, 18 settembre 2010 alle 09:46 da luciano / idefix


Mi limitò ad un breve commento sulle scelte di Tarantino (anche perchè di dibattiti su di lui e Venezia ne ho gia sentiti troppi,in più ieri ho avuto una serataccia e oggi ho la testa che scoppia).In generale gli Americani hanno fatto della riscoperta di opere minori (spesso di cattivo gusto) e della loro rivalutazione uno sport nazionale.Basta solo pensare che certe ciofeghe di Lamberto Bava e di idioti come Fragrasso e Mattei,per una volta giustamente dimenticate in America sono di culto.Dato che Tarantino è Americano non vedo perchè dovrebbe sfuggire a certi schemi di comportamento. Per oggi chiudo qui e auguro a tutti buon week-end.

Postato sabato, 18 settembre 2010 alle 11:42 da Francesco Moretta


PERCHE’?

Spero che qualcuno mi aiuti a rispondere a una questione cui non so dare risposta. Oggi è uscita una mia intervista sul mio nuovo romanzo e sui miei fumetti, sul giornale “Libero”. Quando mi è stata fatta, non avevo capito si trattasse di “Libero”, comunque l’avrei rilasciata lo stesso perché le pagine culturali dei giornali sono più affrancate dalla Politica in senso stretto. Resta però il fatto che ai miei romanzi viene sempre dedicato un grande spazio sui giornali della destra italiana (Il Giornale, Il Domenicale di dell’Utri, Il Secolo d’Italia) mentre invece faccio sempre una fatica bestiale perchè dei miei lavori si parli sui quotidiani di sinistra, per quanto sia noto da quale parte sto, anche se da “eretico”. Debbo supporre che la cosa non riguardi me in quanto tale , ma una persistente ostilità della Cultura di Sinistra nei confronti del Gotico, dell’Horror, e più in generale di romanzi non neo-realisti, perchè trattano di epoche lontane, di problematiche insidiose non sempre riconducibili alla modernità, casomai alle sue radici. Certo è che è uno strano destino per me, del tutto anomalo, fatico davvero a spiegarmelo. Da un lato sono contento di avere un pubblico trasversale, dall’altro non posso non essere incazzato per il fatto che il concetto di Cultura che ha la sinistra sia così retrogado e disattento.

Postato sabato, 18 settembre 2010 alle 16:47 da Gianfranco Manfredi


Caro Gianfranco,
ho affidato la recensione del tuo libro (per organizzare un dibattito a parte qui a Letteratitudine) a uno scrittore e critico letterario di sinistra che – in certi casi – sa anche essere feroce (il suddetto scrittore e critico letterario, qualora dovesse leggermi, è pregato di non rivelare la propria identità).
Speriamo che non ti “ammazzi”, altrimenti saremmo costretti a mettere in pratica adeguate… “tecniche di resurrezione”.
;)
-
Buon fine settimana anche a te. E stai sereno: sono certo che di questo tuo nuovo romanzo se ne parlerà ovunque.

Postato sabato, 18 settembre 2010 alle 18:00 da Massimo Maugeri


Gianfranco: ho letto appena adesso di “Libero”. Confesso: lo avrei comprato.
Magari nascondendolo dentro il quotidiano “Anonima Strangolatori”, però lo avrei comprato.
Domani vedo di recuperarlo.
Anche a me manda in bestia (ma di quelle besti brutte e feroci) che a sinistra siamo così idioti e ottusi. E non da oggi: queste spocchie contro fantastico, horror, fantascienza, fumetto, fantasy eccetera vengono da lontano. E (fatto salvo qualche “illuminato” o qualche lobby che sostiene gli amici degli amici) i media a sinistra hanno sempre ignorato o pisciato addosso ai “generi”.
Perchè?
Il mio amico ottantacinquenne venesiàn Alberto Ongaro (anche lui a sinistra, ma di area “azionista”) sostiene questa tesi: perchè in Italia hanno dominato due culture, quella cattolica e quella comunista. E per entrambe il “piacere”, compreso il godimento del testo, sono peccato. Perchè distolgono da Dio o dal partito. Ecco allora che molti critici hanno teorizzato libri e film noiosi ma impegnati, dichiarando fuorilegge la sovversione della fantasia.
Mi pare una tesi assai interessante, tanto più che viene da uno che era amico e collaboratore di Hugo Pratt, dall’uomo che ha scritto “La taverna del doge Loredan” e “Un romanzo d’avventura”, dallo sceneggiatore di Mister No e Nick Raider, da uno che preferisce Robert Mitchum a Michelangelo Antonioni.

Postato sabato, 18 settembre 2010 alle 19:55 da luciano / idefix


La storia che il fantasy e l’horror siano terreno di espressione del pensiero conservatore, mentre il verismo sia roba da progressisti, è un preconcetto vecchio e granitico.
Nasce forse dal fatto che nel Dracula di Stoker i popolani sono tutti degli avidi rimbambiti? Ma intanto qualche altro libro è uscito, mi pare.
L’Ongaro-teoria è interessante. Quanto all’equazione verismo uguale pensiero progressista o rivoluzionario, sto immaginando Verga e Pirandello che si sbellicano dalle risate.
In bocca la lupo alle Tecniche di resurrezione!

Postato domenica, 19 settembre 2010 alle 19:05 da Giusy De Nicolo


“La storia che il fantasy e l’horror siano terreno di espressione del pensiero conservatore, mentre il verismo sia roba da progressisti, è un preconcetto vecchio e granitico.”
Sono completamente daccordo,non è che forse i veri conservatori sono i sostenitori di questo pensiero?
@Gianfranco.Nel comportamento dei critici di sinistra non c’è proprio nulla di nuovo e se snobbano un libro solo perchè gotico,senza nemmeno leggerlo sono veramente stupidi!
P.S.Segnalo che il blog “The horrors of it all” (un blog straniero dedicato ai fumetti horror pre-comics code) parla di un bel adattamento a fumetti di “Rivelazioni in nero” di Carl Jacobi ad opera di Frank Robbins.Ecco il link:http://thehorrorsofitall.blogspot.com/2010/09/revelations-in-black.html

Postato lunedì, 20 settembre 2010 alle 14:38 da Francesco Moretta


Sono appena tornato da Pordenonelegge, avevo pensato di scrivere qualche commento, ma la vera odissea l’ho vissuta a Milano. Scrivo nella mia casa di montagna, per cui a Milano ci vado solo quando non posso farne a meno. Parto per Milano sabato.Piove. Il mio quartiere è allagato. Non riesco a raggiungere casa mia, e neanche quella di mia figlia. Vado dal mio amico scrittore Bruno Arpaia che per fortuna mi aveva invitato a cena . Causa traffico arrivo alle 22.00. MI trattengo da lui fino alle 3 di notte, dopodiché raggiungo finalmente casa mia, vedo pompe al lavoro, e ne deduco che la situazione è sotto controllo. La mattina dopo, l’allagamento ( il settimo in otto mesi!) pare risolto, così parto per Pordenone, anche se nel fango. Lì mi sono trattengo per un giorno e una notte e rientro a Milano sicuro che l’emergenza sia risolta. Peggiorata invece. Nonostante la calda giornata di sole, il disastro si é sparso, contagiando più di tre quartieri, il mio è isolato, niente bus, niente tram, Metro chiusa, certi tratti non possono essere percorsi neanche a piedi, perchè transennati. Scenario apocalittico, non senza conseguenze sul resto della città, perchè il traffico è impazzito. Il governo del fare, l’amministrazione pubblica affidata agli “imprenditori” che avrebbero razionalizzato, risolto, portando finalmente tutto all’efficienza… Gli esperti dicono che il problema esondazioni è praticamente irrisolvibile, ormai. Perchè nessuno ci ha pensato nel tempo, quando era già chiaro dalle rilevazioni che si sarebbe verificato? Il Comune dà la colpa alla Regione e alla Provincia, che possiamo starne sicuri, domani daranno la colpa al Comune. Intanto al di là delle propagande, dalle ideologie e dalle pie illusioni, una metropoli come Milano va in panne per un pomeriggio di pioggia! Scusate lo sfogo, magari non è letterario, ma dell’orrore sì!

Postato martedì, 21 settembre 2010 alle 00:17 da Gianfranco Manfredi


Siamo sempre più fragili: abbiamo abbandonato o saccheggiato il territorio, costruendo casacce dove non bisognava, cementificando ovunque, abbattendo alberi e non curando fiumi e torrenti, senza preoccuparci più delle foreste e dei prati, spostando sabbia e terra, massacrando animali e piante, moltiplicando le coltivazioni che ci comodavano, sovraccaricando le strade e le città di ferraglia semovente, inquinando e avvelenando l’inquinabile e l’avvelenabile, affidando la “cura” del bene pubblico a ladri e incompetenti.
E’ ovvio che poi l’ambiente urbano ed extraurbano non regge, non assorbe, non ammortizza. E se dal cielo la pioggia piscia un po’ troppe goccie tutto si blocca.
A Trieste, ore e ore di acquazzone, sono venuti pezzi del monte dove si stava costruendo. Beh…la giunta di destra (quella che sostiene un Piano regolatore “tutto cemento e via lì”) ha avuto la sfacciataggine di dire che la colpa è di chi edifica troppo e senza regole.
In compenso, contro questo Piano, alcuni di noi cittadini stanno facendo il possibile per mandarlo in vacca.
Forse perchè (avendo fantasia e avendo fatto qualche lettura apocalittica) siamo in grado di guardare un poco nel futuro, immaginando gli esiti orrorifici di questo andazzo predatorio.
I cittadini e i politici dovrebbero leggere anche l’horror.

Postato martedì, 21 settembre 2010 alle 08:49 da luciano / idefix


A proposito di mandare in vacca… dopo la catastrofe milanese, mi è tornato alla mente un saggio scritto nel lontano 1971 da Roberto Vacca “Il medioevo prossimo venturo”. In esso, a dispetto dell’ottimismo spensierato che caratterizzò il decennio successivo, Vacca prevedeva lucidamente quanto sarebbe avvenuto. Uno dei fenomeni da lui annunciati era il collasso strutturale delle grandi città, in quanto fogne, reti idriche, impianti, palazzi, strade, sistemi di controllo idrogeologico, mai sistemati e mai messi a posto da nessuna amministrazione in quanto ritenute spese dagli effetti non visibili e dunque scelte non paganti sul piano elettorale, sarebbero presto giunte a scadenza e in mancanza di interventi, la crisi sarebbe diventata irrisolvibile. Successivamente, Vacca scrisse anche un romanzo fantascientifico intitolato “La morte di megalopoli” (1974). Queste cose, questi scritti, in pochi li ricordano, a testimonianza della verità del detto: “vox clamans in deserto”. Gli scrittori si sa, preferirebbero essere confortanti, perché sanno che il ruolo di Cassandra non è molto popolare, però la verità val sempre la pena di dirla, anche se nessuno ascolta, prende nota e cerca di provvedere. Chi fosse interessato a rileggersi il saggio, sappia che è disponibile in rete un PDF con una versione aggiornata. Il fatto che Vacca lo abbia aggiornato e messo a disposizione in rete (grazie), credo sia sintomatico del fatto che nessun editore ha voluto ripubblicarlo. In esso si leggono previsioni assai più orrorifiche del collasso metropolitano.

Postato martedì, 21 settembre 2010 alle 15:35 da Gianfranco Manfredi


Breve comma al post precedente. Se il disastro dei giorni scorsi a Milano (tra l’altro si è aperta una voragine sotto la linea tranviaria) fosse accaduto a Napoli oggi sarebbe una notizia da prima pagina su tutti i quotidiani, ma siccome è capitata a Milano soltanto i lettori delle pagine milanesi ne troveranno resoconti. Anche questo fa parte della barbarie attuale. Una delle città più inefficienti d’Europa, qual è Milano, viene ancora propagandata come modello di funzionalità in tutta Italia.

Postato martedì, 21 settembre 2010 alle 15:41 da Gianfranco Manfredi


Gianfranco,ti ringrazio per il libro che hai segnalato,l’ho scaricato e mi appresterò a leggerlo nei prossimi giorni perchè l’argomento mi interessa molto.Tanto tempo fa quando coltivavo velleità da scrittore,mi ero messo al lavoro su un racconto catastrofico in cui gran parte del territorio dell’Italia del nord a causa del collasso dell’ambiente e delle strutture artificiali si tramutava in una sorta di immonda foresta acquitrinosa.La storia si concentrava su alcuni abitanti di questa nuova Italia,che abbandonati e ignorati da tutti cercano di continuare a vivere.
Ecco alla luce di quello che avete detto,non è che forse stamo andando in quella direzione?

Postato martedì, 21 settembre 2010 alle 20:09 da Francesco Moretta


Non sapevo che Vacca avesse ripubblicato on line l’aggiornamento di quel grande “Medioevo”. Un testo per me prezioso.
E davvero ho l’impressione che (almeno per quanto riguarda la consapevolezza) il cinema e la musica e le letture fatte negli anni Settanta (compresa la fantascienza, i fumetti, l’horror, i gialli, la saggistica “border line”) contino moltissimo.
Penso (ma è solo uno dei tantissimi esempi) al romanzo d’esordio di Alan Altieri (Città oscura, del 1982 o ‘83, non ricordo), quel thrilling possente e apocalittico ambientato a Los Angeles. Che Dall’Oglio spacciò come scritto da un americano. Ma si capiva (mancava il titolo originale, c’era un riferimento a Tex…) che quell’ “Alan D. Altieri” era lo pseudonimo di un italiano.
NON C’ENTRA: prima ho fatto ascoltare a mia moglie Tatjana un po’ di canzoni di Manfredi da youtube.
(Devo ordinare i cd che si trovano…)
Le piacevano assai.
E io ho avuto la conferma che il mio pezzo manfrediano preferito resta di gran lunga “Ma chi ha detto che non c’è”.
Una canzone con cui ho sempre fatto a cazzotti: perchè dolcissima e ambigua, una melodia tenerissima e un testo che mescola struggimento e violenza, retorica politica e abbandoni intimi. Una song che mi turba e mi affascina.

Postato martedì, 21 settembre 2010 alle 22:29 da luciano / idefix


Recentemente il sito della casa editrice Tor durante un intera settimana dedicata alla figura dello zombi ha riproposto il racconto di Neil Gaiman “Bitter Grounds” .La storia parte da una oscura leggenda Haitiana e presenta degli zombi piuttosto particolari.Oltre al racconto di Gaiman sul sito sono stati messi online altri racconti zombeschi,sempre per la celebrazione della zombie week.

Postato mercoledì, 22 settembre 2010 alle 11:20 da Francesco Moretta


Le cronache del disastro milanese si allargano comunque, stamattina è in onda un microfono aperto su Radio popolare. Si discute se la bicicletta sia un’alternativa. Io avevo pubblicato un romanzo anni fa sulla storia della bicicletta a Milano (Il Piccolo Diavolo nero). E’ ovvio che il movimento ciclistico mi appassiona. Però quello che ho visto nei giorni del disastro, è il dramma della condizione degli anziani, e non dimentichiamo che Milano è una città prevalentemente di anziani. Con il proprio quartiere bloccato, senza mezzi pubblici per chissà quanti mesi, intere strade di negozi transennate (e i negozi prima o poi chiuderanno, se non hanno già chiuso), il supermarket inaccessibile, insomma… a questi anziani mica si può consigliare la bicicletta. Come fanno? Come faranno? E’ mai possibile che in una città di anziani, gli anziani siano costretti anche nella normalità a dei percorsi di guerra? E’ mai possibile che la città si programmi indipendentemente da loro, come se loro non ci fossero proprio? Solo pochi mesi fa un assessore propose addirittura di abolire i marciapiedi , in un tratto di Viale Zara, viale coinvolto nell’attuale disastro, per aumentare lo spazio della carreggiata. Quando una città ostacola la circolazione ciclistica e persino quella pedonale, costringendoti ad andare in macchina anche per fare poche centinaia di metri, beh significa quanto meno che si progetta a prescindere dalle persone, dai bisogni, dalle necessità della popolazione. Da cosa nasce questo delirio? Mi è venuta voglia in questi giorni (ma non posso per motivi di lavoro) di confrontare il libro di Roberto Vacca che ho citato, con il Progetto 80, un librone che fece epoca a suo tempo, e che prospettava le vie di sviluppo, per certi versi auspicato, per altri versi obbligato, del nostro paese. Quel testo fu il manifesto del riformismo. Al di là che si fosse d’accordo o contro, rappresentò una base di confronto, anche per le forze politiche, ma soprattutto per i cittadini, orientando la discussione sul futuro prossimo. Era un testo improntato all’ottimismo, ma segnalava problemi da affrontare subito, pena il caos. Rileggendolo spesso appare un testo comico, oggi che sappiamo come sono finite le cose. Il documento, pubblicato da Feltrinelli nel 1969 (!) era un rapporto scritto dal Ministero del Bilancio e della Programmazione economica, e dunque aveva il crisma dell’ufficialità. Cito il sunto problematico pubblicato sul retro di copertina: “Dieci anni del nostro futuro decisi dai programmatori. Chi dovrà lavorare, come e dove. Chi guadagnerà, e quanto. Chi potrà studiare, cosa e perchè. Quale sarà il nuovo assetto urbano. Con quali mezzi si difenderà la natura e l’arte. E i lavoratori? I poli di sviluppo e le aree di spopolamento. Molti sogni dorati e una dura realtà. ” C’è attualmente in circolazione, non dico da parte di un qualche Ministero, ma nemmeno di una singola forza politica, un Progetto 2020, che ci ponga davanti al che fare dei prossimi dieci anni? L’ondata liberista ha causato un rigetto di qualsiasi discorso di Programmazione. La Programmazione puzzava di statalismo. Sembrava più democratico che ciascuno facesse a modo suo “senza lacci e lacciuoli”, come si diceva e come si continua a ripetere. Il risultato è stato che si è smesso di interrogarsi sulle prospettive e sulle cose da fare. Non si è affatto chiuso il libro dei sogni, però, semplicemente i sogni sono diventati propaganda , non sogni/obiettivi, ma sogni felici di essere irrealistici, pure promesse non garantite da nessun calendario di realizzazione. Alcune delle cose da fare indicate nel progetto 80, sono state fatte, almeno in parte, non in dieci anni, però, ma in trenta/quaranta e quando sono state realizzate non corrispondevano più al bisogno. Sentite cosa prescriveva il piano per il decennio, in riferimento ai problemi delle metropoli: “dovranno essere definite: le nuove aree residenziali, le aree destinate a raccogliere servizi urbani di ordine superiore (istruzione superiore, università, ricerca, centri direzionali); le aree produttive; le aree di salvaguardia naturalistica e artistica; le aree destinate al tempo libero (parchi, aree archeologiche e monumentali, riserve naturalistiche, itinerari panoramici); le aree destinate alla saldatura dei differenti sistemi di trasporto, metropolitani e nazionali.” Dovranno, si diceva. Dovranno. Oppure “sarà necessario”. E anche: “Soltanto un’azione vasta e vigorosa, da intraprendere nei prossimi anni, potrà arrestare le tendenze centripete e porre le premesse per l’attuazione dei nuovi indirizzi, di orientamenti precisi, di predisposizione delle politiche e di interventi urbanistici.” Appunto.

Postato mercoledì, 22 settembre 2010 alle 11:36 da Gianfranco Manfredi


Altre due citazioni dal Progetto 80.
Sulla CULTURA.
“Si tratta di mettere a disposizione della popolazione impianti moderni per tutte le forme della comunicazione culturale: biblioteche, teatri, cinema, sale da concerto, sale di riunione e di lettura, mostre d’arte. Realizzati sulla base del finanziamento pubblico, tali centri dovrebbero essere gestiti attraverso forme che garantiscano l’imparzialità rispetto alle scelte degli utenti, e incoraggino l’autogestione da parte degli utenti stessi.”
Sui GIOVANI.
“Sarà necessario tutelare il libro manifestarsi delle opinioni dei giovani e incoraggiare le forme democratiche di associazionismo giovanile; assicurare la partecipazione dei giovani alla vita della comunità democratica e in particolare alle scelte che li riguardano; favorire un più rapido inserimento dei giovani nella vita sociale politica e professionale. Devono essere eliminati gli ostacoli di carattere giuridico-istituzionale a una rapida assunzione di responsabilità. Deve essere assicurata un’ampia autonomia alle associazioni giovanili nell’esercizio di attività sociali e culturali.”
In quegli anni, Giorgio Gaber scrisse una canzone che diceva: “E allora dai, allora dai, le cose giuste tu le sai, allora dai, allora dai, dimmi perché poi non le fai.”

Postato mercoledì, 22 settembre 2010 alle 12:56 da Gianfranco Manfredi


Stanotte, alle due passate, ho finito “Tecniche di resurrezione”.
Qualcuno vi dirà che è troppo lungo, qualcuno vi dirà che è troppo lento, un altro che ci sono troppi personaggi, Tizio che a volte fa ridere e a volte è orrido, Caio che mescola troppi generi (giallo, gotico, storico, filosofico, epistolare…), Uno che non si capisce dove va a parare, Secondo che a tratti è inverosimile, Sempronio che è troppo realistico, qualcun altro che è troppo fantastico, XY che è troppo collegato al precedente “Ho freddo”, Calpurnia che è troppo poco legato al precedente “Ho freddo”, tutti vi diranno che è un romanzo strano ma nessuno vi dirà che è un “romanzo fatto con lo stampino dei libri tutti uguali”…

Postato giovedì, 23 settembre 2010 alle 09:25 da luciano / idefix


Ieri sera sono andato al bar San Siro di Pavia per partecipare ad una serata di letture dal vivo organizzata dall’onlus “Vivere con lentezza”.A presenziare all’evento c’era Danilo Arona in persona!(che ha letto un brano tratto da “Il popolo dell’autunno” di Bradbury e un capitolo del suo “Ritorno a Bassavilla”)Mi sono divertito moltissimo,oltre a leggere si è anche parlato molto di scrittura e horror (erano presenti anche altri scrittori che hanno detto la loro sull’argomento)In più ho anche conosciuto Daniele Bonfanti l’editore di “XII edizioni” e l’ho trovato molto simpatico e interessato al rapporto con i propri lettori.(Era anche piuttosto giovane rispetto a come lo immaginavo)Insomma è stata veramente una bella serata.

Postato giovedì, 23 settembre 2010 alle 10:38 da Francesco Moretta


@ Francesco. Ieri sera finalmente ho visto Leptirica tra una botta di sonno e l’altra. Tieni presente che l’ho visto in lingua originale e quindi non ho capito una parola. Fotografia del tipo casuale (la luce che c’è, e via andare), ambientazione e scelta degli attori interessanti perché insoliti, trucchi penosi , tensione vicina a zero. Insomma, ci si può anche risparmiare la fatica di vederlo.
@ Luciano. Una domanda che mi è stata fatta su Tecniche è questa: perchè ti interessa il problema dei confini tra la vita e la morte? Ho divagato perché la risposta non ce l’avevo, ma dovrò prepararmela, perchè me lo chiederanno ancora. Solo… perchè non ho la risposta? perchè a me sembra naturale interrogarsi sul confine tra vita e morte… non è forse una questione che ci interessa tutti? Insomma… è diventato davvero così strano per uno scrittore interrogarsi su questa questione che è SEMPRE stata al centro della narrativa horror? Cosa sono i vampiri, gli zombi, i revenant, gli spettri, se non creature di confine? Poi si parla male degli adolescenti e dei loro gusti letterari… però, è mai possibile che siano quasi solo loro a porsi problemi (diciamo così) esistenziali? Noi adulti usiamo parole (Spirito,Corpo) su cui tendiamo a non interrogarci più, quasi fossero consuete, mentre non lo sono affatto. La vita, bene o male, dato che la viviamo, sappiamo cos’è. La morte, come dice Epicuro, sappiamo che arriverà, ma resta indefinibile perché nessuno può raccontare l’oltre, per esperienza diretta. La narrativa ha però posto un problema, che è quello del transito, degli stati intermedi. Le situazioni di passaggio sono quelle che ci spaventano di più. Come ci si trova tra essere e non essere, tra l’al di qua e l’aldilà? Questa domanda è da sempre al centro del gotico e dell’horror, e in essa si nasconde il vero segreto del tanto chiacchierato “perturbante”. Lo strano sarebbe se questa domanda non ci interessasse.

Postato giovedì, 23 settembre 2010 alle 10:45 da Gianfranco Manfredi


@Gianfranco.Ammetto di essere un pò deluso,speravo che fosse qualcosa di interessante e invece….. Se però ti interessa capirci qualcosa dei dialoghi sul blog “Taliesin meet the vampires” c’è una recensione in cui la trama è riportata dettagliatamente.
Personalmente a me sembra strano non interrogarsi sulla morte,insomma prima o poi dovremmo farci i conti.Mi domando se però non sia un atteggiamento nostrano questo rifiuto,perchè altre culture come quella anglo-sassone o quella Haitiana (in cui le tombe spesso sono situate vicino alle case) non hanno tutto questo rifiuto,ma considerano normale un certo rapporto con i trapassati.

Postato giovedì, 23 settembre 2010 alle 11:38 da Francesco Moretta


Bravo Gianfranco!
Dovremmo imparare dai ragazzini a farci (con passione, entusiasmo e smania adolescenziale) quelle domande che ci facevamo quando avevamo la loro età: che senso ha questo, perchè quell’altro, perchè non si può questo, perchè non facciamo quello, come mai fanno così e perchè fanno colà, non potremmo far colì, cosa pensi di questo, secondo te perchè, e quando muoio….
Se no siamo zombie.

Postato giovedì, 23 settembre 2010 alle 12:11 da luciano / idefix


Certo, non si può pretendere che a queste domande risponda la politica, nemmeno la politica migliore, cioè quella che considera importanti le questioni della polis. Da giovani noi eravamo entusiasti di questa politica tutta rivolta al sociale e alla comunità. Eppure , va detto, nemmeno questa politica poteva rispondere a quelle eterne domande da Amleto. Le grandi religioni organizzate si ha l’impressione che nemmeno loro vogliano rispondere: sono tutte concentrate su questioni etico-politiche e non hanno prodotto alcun grande metafisico o mistico da decenni. Stupisce in particolare, per chi studi la Storia, come mai il Cattolicesimo contemporaneo, smentendo se stesso, si stia battendo con tanta virulenza per la conservazione del corpo in quanto tale, come involucro senz’anima. Fino a pochi secoli fa, avrebbero considerato blasfemo il mantenere in vita artificiale un corpo, oggi sostengono invece l’esatto contrario, e in questo primato della Vita sulla Morte è facile riscontrare un primato della Terra sul Paradiso. E allora cosa può fare la Letteratura? Certo se si mette al centro esclusivamente l’elemento sociale (come da prescrizioni neo-neo-realiste) , con la scusa dell’impegno, in realtà si celebra il disimpegno: alle domande sul senso della vita ci piace rispondere scherzando, con ironia, un po’ alla Woody Allen che non si capisce più da anni se sia un autore che si interroga sul senso della vita (continuano a farlo, i personaggi dei suoi film) oppure uno che pone la domanda solo per irriderla, con patetica superficialità. Sembra che chi continua a porsi queste domande sia infantile, soprattutto si fa fatica a pensare che queste domande uno se le possa porre totalmente al di fuori di un’organizzazione religiosa quale che sia, cioè in modo laico. L’horror, in questo contesto, deve ben guardarsi dal risultare troppo rassicurante. Se diventa un padiglione da luna park dove si prova paura per scherzo, allora è un horror evasivo, che ha rinunciato a turbarci nel profondo. L’horror “divertente” , se fate caso ai film, è proprio quello con la dose minima di ironia, è quello che si prende sul serio come genere “de paura”. L’horror davvero inquietante invece (da Hitchcok a Polanski) è pieno di umorismo sottile, di gusto del paradosso, ma non rinuncia mai a turbarci nel profondo persino quando sorridiamo o ridiamo, perchè riesce a sfiorare quella zona inesprimibile, indicibile, quella radice tanto emotiva quanto inafferrabile, che si annida nell’animo di ciascuno di noi.

Postato giovedì, 23 settembre 2010 alle 13:30 da Gianfranco Manfredi


Un’obiezione: il cristianesimo degli ultimi decenni ha “prodotto” almeno un grande teologo che si interrogava sulla metafisica e sulla mistica, cioè Ramon Panikkar (metà spagnolo e metà indiano), contaminato dall’Oriente e dal buddismo, aperto al mondo e al “terzo occhio”, uno che ha sempre cercato di “camminare nei mocassini degli altri”.
Prima (nella pausa pranzo dal lavoro, pausa che dedico sempre a una gita in libreria) ho prelevato un volume che avevo ordinato su tuo consiglio: “La storia stupefacente di Octavian Nothing Traditore della Nazione – La festa del vaiolo”. Così, sfogliandolo, a occhio (anche con i libri, come con le persone, conta molto la primissima impressione), mi sembra assai interessante, dalle pagine volutamente tagliate rozzamente all’ambientazione di fine Settecento, alla miscela di filosofia e romanzo di formazione e thriling.
Comunque, stasera mi rileggo “Magia rossa”. Che non tocco da quasi trenta anni (ventisette per la precisione) e sono curioso di vedere che effetto mi fa, dopo “Tecniche di resurrezione”.

Postato giovedì, 23 settembre 2010 alle 15:26 da luciano / idefix


Si scrivono e si firmano appelli ormai su tutto, fino a sfiorare il ridicolo: è il caso di un appello a Berlusconi perché rinunci allo scudo. Cioé: come appellarsi a McDonald perché si converta alla cucina vegana. Intanto, è di oggi la notizia, l’ennesimo leghista allo sbaraglio propone, qui in Lombardia, che nell’accesso alle Università si dia la prevalenza ai giovani nati e residenti in Lombardia. Universitas… significa “aperta a tutti”, da millenni. Non esiste nemmeno concettualmente un’Università per Residenti. Come se non bastasse, si propongono anche misteriosi Programmi Padani . Cosa significa? C’è, può esserci un insegnamento di Medicina Padana, di Filosofia Padana, di Fisica Padana? Ora: mentre su Repubblica Scalfari e Baricco disquisiscono amabilmente se siano da considerare più barbari gli affezionati del Grande Fratello o Sua Maestà Steve Jobs, contro i barbari DOC, cioè i leghisti, nessun intellettuale propone appelli . Folclore… si dice, come fossero cose senza importanza (di cosa state parlando? Il Folclore è una cosa seria!). Se sono davvero senza importanza, queste cose, seppelliamole, togliamocele di torno una volta per tutte… dovrebbe essere più facile , dovrebbe essere un risultato più a portata di mano… però si tace, o si borbotta, che è lo stesso, e intanto la barbarie (quella vera) avanza.

Postato giovedì, 23 settembre 2010 alle 19:34 da Gianfranco Manfredi


L’appello per la rinuncia allo Scudo Magico l’ho firmato. Anche se (al momento di farlo) ero consapevole non solo della sua totale inutilità ma anche del suo obiettivo aspetto risibile.
Il problema è che, spesso, per muovermi nell’impazzito territorio antropologico-politico-culturale-mediatico italiano non trovo nè la bussola nè la mappa. E a volte nemmeno il territorio.
Firmo o non firmo?
Vado alla manifestazione o non ci vado?
Scrivo a quel politico per protestare e chiedergli spiegazioni per una nefandezza da lui commessa? Oppure lascio perdere?
Segnalo alla mia mailing-list uno sproposito (ad esempio i corsi para-militari a scuola in Lombardia?) o è inutile come cercare di fermare un uragano soffiandogli contro?
Ieri nella libreria Lovat, a due ragazzine che stavano per comprare una stronzatina sui vampiri presa da una invitante pila in enorme evidenza sul bancone, ho fatto bene a porgere una copia del manfrediano “Ultimi vampiri” decantandone la bellezza?
I nostri gesti isolati e situazionisti sono velleitari o servono?
Io ho fede che siano sempre utili. Almeno a poterci dire: “beh, ho fatto il mio”
(Anche se, nove volte su dieci, i miei consigli libreschi e non solo libreschi finiscono abbandonati sulla “invitante pila in enorme evidenza” e sostituiti dal progetto originario della “stronzatina”.
Nove volte su dieci, però.
E ieri non mi sono soffermato a spiare qual’è stata la scelta delle due ragazzine)

Postato venerdì, 24 settembre 2010 alle 08:47 da luciano / idefix


SPIARE LE RAGAZZINE. Ieri mi hanno fatto un’intervista e una delle domande citava un giudizio di Anna Maria Parsi secondo la quale: “Marilyn Manson, Tokio Hotel, Lady GaGa e i romanzi di vampiri, sono tutti clown evocati per esorcizzare la morte.” Ho modestamente rilevato che di Manson non frega più niente a nessun adolescente da almeno dieci anni, i Tokio Hotel sono un gruppo popolare tra i bambini mentre gli adolescenti li considerano patetici, e Lady GaGa ha una platea di quarantenni nostalgici del periodo in cui Madonna era più sbarazzina e più pop. La realtà è che un sacco di esperti parlano di adolescenti senza capirci niente. Per capire “cosa piace agli adolescenti” partono da quello che “non piace” a loro adulti, il che è già una distorsione di ottica, in quanto, ad esempio, tra i libri che piacciono agli adolescenti ce ne sono anche di condivisi con gli adulti. Altro errore è considerare i gusti degli adolescenti come un insieme omogeneo, mentre non è affatto così, anzi c’è un momento in cui la curiosità è onnivora e i cambiamenti radicali: un adolescente-tipo degli anni 80 poteva passare nel giro dello stesso anno da Kiss Me Licia a Michael Jackson ai Sex Pistols e ai Misfits. L’adolescenza è una fase eminentemente di transito, considerarla come una specie di condizione etnica è demenziale. Infine di clown che esorcizzano la morte è piena la televisione, la politica, la moda… NON E’ FENOMENO SPECIFICAMENTE ADOLESCENZIALE. Il clown di It invece non esorcizza affatto: E’ LA MORTE RAPPRESENTATA. Chi non capisce questo non capisce quasi nulla di quel perturbante che è radice e risultato dell’horror. Da cinquant’anni la stampa e gli esperti SPIANO I RAGAZZINI. Il risultato di queste spiate è che essi restano indefinibili e clandestini agli occhi del mondo adulto. Il punto è che si spiano i ragazzi attraverso le loro scelte di consumo, cioè si usa la merceologia come indicatore sociologico. Siamo sicuri che le figure sociali e le persone possano essere comprese attraverso l’analisi della merce? Chiunque abbia figli (e figlie) sa che il loro rapporto con gli oggetti e le loro propensioni all’acquisto, non rivelano che pallidamente la loro evoluzione psicologica, i loro problemi personali e generazionali. Invece di spiare le persone sarebbe più consigliabile conoscerle e avere un colloquio continuativo con loro. Questo lo sappiamo tutti, però, anche se siamo in piena età post-consumistica, continuiamo a interpretare gli altri (non solo gli adolescenti) attraverso la lente del Consumo. E’ come dire che i nostri criteri sociologici sono rimasti agli anni 60. Faccio un esempio di come si muovono invece altri studiosi, più consapevoli. Ricordo il mio stupore, quando lessi uno studio di Etologia Sociale che paragonava un grafico dei movimenti dei giovani durante un ballo in una discoteca di Manchester, con quello di una danza tribale in un villaggio africano. I due grafici erano in larga misura sovrapponibili. Questo significa che i “giovani” si comportano come i “selvaggi”? No, significa che la danza di gruppo tende ad assumere la stessa struttura, al di là delle barriere culturali, etniche e di età.

Postato venerdì, 24 settembre 2010 alle 10:41 da Gianfranco Manfredi


Chiedo scusa, ho scritto Anna Maria Parsi, mentre si trattava di Maria Rita Parsi.

Postato venerdì, 24 settembre 2010 alle 10:45 da Gianfranco Manfredi


Un bel libro sugli adolescenti e il rapporto degli adulti con loro, in questa epoca specifica, è il seguente:

MIGUEL BENASAYAG, GERARD SCHMIT
L’Epoca delle Passioni Tristi
Feltrinelli, 2005

Postato venerdì, 24 settembre 2010 alle 10:58 da Gianfranco Manfredi


Fertile spunto di discussione.
Avevo usato apposta il termine “spiare”. Perchè cosa capita spesso, spessissimo, troppo di frequente quando si parla di “adolescenti”? Che appunto li si intruppa in una CATEGORIA. A cui si appiccicano etichette di comodo.
Perchè è facile, semplice, sbrigativo e perchè queste etichette si trovano pronte per l’uso sui giornali, in televisione, sul web, nei “discorsi da bar” e nelle mercificazioni.
Mentre basta isolare da questa CATEGORIA un adolescente o una adolescente in carne e ossa e anima, parlando con loro per davvero (a me, scrivendo libri per ragazzi, capita spesso di incontrare piccoli gruppi nelle scuole e nelle biblioteche quando gli istituti mi chiamano), e si scopriranno molte cose sorprendenti.
Accenno ad alcune.
La prima: detestano il nome “adolescenti”, per non parlare dell’aborrito “bambini” e (se proprio bisogna ricorrere a un termine generico) preferiscono “ragazzi e ragazze”.
La seconda: se superi la loro barriera di sbruffonaggine musona e aliena, se riesci a sintonizzarti, sono disposti ad ascoltare.
La terza: odiano le prediche ma amano i racconti. Perciò (se volete far passare qualche “messaggio”) non sognatevi nemmeno di salire in cattedra e alzare il ditino con fare saccente. Narrategli delle storie (vere o inventate o mescolate, l’importante è che siano “oneste”) e attraverso questi personaggi potrete contagiarli con i “messaggi”.
La quarta: sono contraddittori. Nei gusti, nelle scelte, nei comportamenti, nei desideri, negli stati d’animo, nelle decisioni…
Ricordano forse gli adulti?
La quinta: sono circondati dai nostri pessimi esempi e dunque non si fidano. Anche se vorrebbero abbandonarsi alla speranza e alla voglia di cambiare il mondo per riempirlo con il loro ego (confuso ma multicolore).
La sesta: accolgono con entusiasmo chi gli racconta (racconta o mette in scena!! Non teorizza noiosamente) i meccanismi perversi della pubblicità e dell’ingiustizia e dell’oppressione e dello sfruttamento.
La settima: ascoltano chi porta entusiasmo e passione, fiducia e umorismo.
L’ottava: diffidano di chi li scimmiotta per compiacerli,
La nona: uno dei compiti dei ragazzi è fare incazzare gli adulti e vedere fin dove si può arrivare.
La decima: uno dei compiti degli adulti è fargli vedere fin dove si può arrivare.
L’undicesima: uno dei compiti degli scrittori è raccontarlo.

Postato venerdì, 24 settembre 2010 alle 11:18 da luciano / idefix


Da ex-adolescente (anche se secondo alcuni l’adolescenza durerebbe fino ai 25 anni) ricordo che ho sempre trovato offensivo il modo in cui molto cinema moderna rappresenta i giovani:deficienti perennemente arrapati o cretinette inzoccolite.Mi è sempre parso che in fin dei conti dalle cosidette commedie adolescenziali trasudasse anche un forte disprezzo per l’adolescente.visto al massimo come oggetto o potenziale consumatore di schifezze,ma sempre privo di una sua dignità.(In realtà però spesso guardando tra corti e indipendenti qualche buona rappresentazione dell’adolescenza si trova,mi ricordo di un corto australiano intitolato “I love Sarah Jane” che parlava di adolescenza e prime cotte durante un epidemia zombesca)

Postato venerdì, 24 settembre 2010 alle 11:51 da Francesco Moretta


bello spunto davvero.
aggiungerei alla lista di Luciano “Chiedere la loro opinione”.
Lavoro nell’istruzione da 10 anni e alla domanda “Questa cosa ti piace? E perché?” più spesso di quanto si immagini ricevo risposte interessanti.
Sul gruppo di ragazzine che acquistavano libri sui vampiri-calippo, io non sarei così pessimista. E’ giusto proporre loro cose diverse, far vedere che almeno esistono, ma che già leggano è in sè un’ottima cosa. Se la passione per la lettura non arriva entro i 12-13 anni, di solito non arriva più. Poi c’è tutto il tempo perché il gusto personale si formi.
In fondo, il mercato editoriale italiano è così pieno di gothic romance perché, tra i più giovani, a leggere sono quasi esclusivamente le ragazze.

Postato venerdì, 24 settembre 2010 alle 17:06 da Giusy De Nicolo


Non invidio chi comincia a leggere oggi. La differenza tra gli adolescenti di un tempo e quelli di oggi , sotto il profilo della lettura, è radicale. Noi, prima di affrontare la lettura di romanzi moderni, venivamo allevati (non solo a scuola) sui classici. C’erano letture, magari non obbligate, ma fatali per tutti noi: L’Isola del tesoro, I Viaggi di Gulliver, Alice nel Paese delle meraviglie, Piccole donne ( di solito riservato alle ragazze… che oggi si offenderebbero già solo per il titolo). Letture anche non specifiche per adolescenti, ma di cui ci abbeveravamo lo stesso: i racconti di Edgar Allan Poe, le avventure di Sherlock Holmes, i feuilleton come Fantomas (rieditati per tutti gli anni 60, ormai introvabili). Oggi per gli adolescenti c’è un mercato costruito ad hoc, che dei classici non ha memoria alcuna: se si è fortunati si comincia a leggere con Harry Potter, senza aver mai letto nulla prima, altrimenti si capita su uno dei tanti prodotti sfornati all’impronto dal mercato, prodotti che non sono e non possono essere esemplari di cosa sia un romanzo, prodotti che possono essere l’inizio di un percorso di lettura, oppure la fine (Ah, un romanzo è questa roba qui? Allora chi se ne frega. Riflessione/esperienza più dei ragazzi che delle ragazze, ma senza ombra di dubbio largamente diffusa). In questa cedola di settembre, sono uscite in Italia, 67.000 novità! Come può un adolescente orientarsi in una iper-produzione di queste dimensioni? Nessuno può farlo, nemmeno i lettori esperti, neppure i critici di mestiere. Quanta roba bella viene massacrata da un’orrida copertina? E viceversa , quanta roba brutta viene esaltata da una veste tanto seducente, quanto “impositiva”? Perché si fascetta una novità, esaltandosi infantilmente per 150.000 copie vendute, mentre un classico che ha avuto milioni e milioni di lettori per secoli e secoli e su tutto il pianeta non lo si fascetta mai in questo modo? Mascherare un periodo di crisi profonda (anche creativa) sotto bollettini di vittoria è una mistificazione terribile da subire per chi comincia a leggere. Il primo insegnamento che dovremmo dare ai figli è la consapevolezza di vivere in un’epoca di crisi. Significa ad esempio che in occidente, i nostri figli devono capire che difficilmente avranno un futuro civilmente migliore ed economicamente più prospero di quello dei padri. Per altro, questo i figli lo sanno benissimo, perché lo vivono sulla loro pelle. Sono gli adulti che continuano a mentire a se stessi e a loro, prospettando orizzonti di possibili Grandi Fortune Individuali, al posto di Fortune Collettive e Sociali in cui nessuno di noi crede più. Se ci credessimo davvero, sentiremmo, anche come scrittori, non solo come lettori, di essere parte di un cammino collettivo, non dei singoli che si propongono al Giudizio di Dio del Mercato. Uno scrittore dovrebbe essere più fiero di aver stimolato le persone a leggere romanzi, che del successo (sempre relativo) del proprio romanzo. Quante volte alle presentazioni nelle Fiere del Libro, il discorso magari non detto, ma implicito di uno scrittore è: il mio romanzo è bellissimo, gli altri sono irrilevanti? Assai raramente, anche se accade, si vedono scrittori che nei convegni o nelle interviste citano altri scrittori, loro contemporanei, altri romanzi che li hanno affascinati non perché simili al proprio, ma perchè assai diversi. Non si tratta di sentirsi parte di una categoria professionale, si tratta di capire che i percorsi della scrittura sono personali solo in quanto consapevoli di essere parte di un narrare collettivo che include il narrare dei morti (cioè i classici), altrimenti i nostri lavori, belli o brutti che siano, restano semplicemente piccole testimonianze individuali perse in un mare di carta da macero.

Postato sabato, 25 settembre 2010 alle 12:52 da Gianfranco Manfredi


Consiglio di leggere su Tuttolibri di oggi (supplemento alla Stampa) l’articolo di Sergio Pent sul libro confessione di Sebastiano Vassalli “Un nulla piena di storie”. Che sarebbe poi la definizione che Vassalli da di se stesso. Quale scrittore oggi si considera “un nulla”? Eppure senza creare il nulla in sé, il racconto, le storie non si liberano. “Io credo”, scrive Vassalli, ” che la grande letteratura continuerà a esistere, anche se l’arte del racconto, in questa epoca dominata dai numeri, sembra completamente inutile.” Pent conclude l’articolo definendo così Vassalli: “Un narratore di storie duro e puro, che forse neppure più ci meritiamo.”

Postato sabato, 25 settembre 2010 alle 13:05 da Gianfranco Manfredi


Vassalli è uno (non “un nulla”…qui non condivido l’autodenigrazione) che seguo da tanti anni: ha scritto libri fortissimi e altri falliti, capolavori e fiaschi, cose da abbracciare con gioia e cose con cui cazzottarsi rabbiosamente, ma sempre puntando alto, sempre strafregandosene delle mode e delle carinerie.
E’ uno dei tantissimi scrittori che invidio (nel senso che ammiro ciò che fanno, vorrei essere capace di scrivere come loro e provo gioia quando il loro talento viene riconosciuto e condiviso da altre persone).
Quando a scuola mi domandano se “altri libri” mi hanno influenzato, io racconto che noi siamo come il gioco del Lego: ogni romanzo e racconto e fumetto letto, ogni film e telefilm visto, ogni disco e canzone e sinfonia e jingle e concerto ascoltato, ogni esperienza vissuta, ogni sogno fatto, è un pezzo di Lego che metto da parte. Quando scrivo un libro, vado nel magazzino della mia mente-anima-fantasia-memoria-inconscio collettivo o quel che è e prendo una carrettata di pezzi del Lego, con essi compongo un libro. Che dunque è costituito da materiali raccolti qua e là, ma la forma che gli do è nuova.
Ecco allora che è vero: ogni storia fa parte dell’intero Oceano di storie.

Postato sabato, 25 settembre 2010 alle 18:04 da luciano / idefix


Sebastiano Vassalli è uno di quelli che mi piacerebbe invitare in radio per farmi una bella chiacchierata. E non è escluso che lo faccia. ;-) )

Postato sabato, 25 settembre 2010 alle 23:17 da Massimo Maugeri


Recuperato Perfect Creature. La storia fa un po’ acqua ma l’ambientazione è molto bella. Morale, non troppo nascosta: la Chiesa è fatta di vampiri e la gente è felicissima di farsi succhiare il sangue. E il celibato è una cosa che manda fuori di testa. :D
Se necessitate di una serata scacciapensieri a tema zombesco, consiglio Benvenuti a Zombieland. Non è quel gioiello di Shaun of the Dead, ma fa ridere.

Postato domenica, 26 settembre 2010 alle 09:29 da Giusy De Nicolo


@ Massimo. A Vassalli andrebbe dedicato un degno spazio. Tanto per dirne una: si è fatto un gran parlare ultimamente del nuovo romanzo storico italiano. C’è anche una sezione di apposito dibattito, qui su Letteratitudine. La cosa che mi ha stupito è che molti autori parlano come se il “nuovo” filone fosse originato dal nulla, se non da loro stessi, oppure per trovare dei precedenti illustri tirano in ballo “I Promessi Sposi”, cioè ricordi scolastici. Sembrano spesso ignorare o trascurare il fatto che attualmente in Europa ci sono scuole nazionali assai diverse in tema di Romanzo Storico: ad esempio la novela historica spagnola designa un genere assai intrecciato al fantastico, il romanzo storico tedesco è invece scrupolosissimo, quasi documentario, quello inglese avventuroso e metaforico perché sotto il ritratto di epoche passate si nascondono evidenti rappresentazioni del presente, quello francese reca più di una traccia di una Storia intesa come Vita Quotidiana. Ma stupisce anche che un romanzo storico scrupoloso e politicissimo come La Chimera di Vassalli, non costituisca per gli italiani, nemmeno per i critici, un precedente obbligato, che non si può non citare. Quel romanzo (che racconta la storia di una “strega”, a cavallo tra cinque e seicento) credo abbia causato imbarazzo nell’establishment culturale italiano, non solo perché mette in causa esplicitamente il ruolo della chiesa cattolica in Italia (tema tabù), ma anche perché “antimanzoniano”, in quanto dà del Seicento un’interpretazione radicalmente opposta a quella del Manzoni: non un’età di devozione religiosa pietistica e caritatevole, ma un’età Senza Dio, in cui la religione è totalmente schiava della necessità e dell’opportunità politica. Credo che l’amarezza di Vassalli, al di là del giudizio che si può dare delle sue singole opere, sia più che comprensibile… l’attuale chiacchiericcio culturale, in Italia, sembra ignorare i veri scrittori, gli scrittori di vocazione, non semplicemente di talento, ma consapevoli dell’Arte del racconto, a vantaggio di scritture abborracciate, senza memoria e senza consapevolezza stilistica, e non più appartenenti ad alcun movimento, ad alcuna vera tendenza, se non all’exploitation di banalissime e fugaci mode mercantili. Quest’Italia pseudo-letteraria in cui emergono e comandano scrittori stilisticamente e filosoficamente poverissimi, sta riducendo alla clandestinità i suoi scrittori migliori. Del resto non è un fenomeno nuovo. L’esempio Malaparte era già indicativo. Analoghi silenzi sono scesi su scrittori “turbolenti” come Bianciardi, Soldati, Sciascia. Chi sconfina dal politically correct di Stato e di Concordato (di cui il manzonismo costituisce ancora il mainstream) va cancellato, soprattutto se è un grande scrittore.

Postato domenica, 26 settembre 2010 alle 10:17 da Gianfranco Manfredi


Oltre al grande trio più Malaparte ricordato da Manfredi, qualche altro nome di irregolari alla Frank Zappa nella narrativa italiana del secondo Novecento? Scrittori affascinanti ma tenuti ai margini?
Stefano D’Arrigo e il suo “Horcynus Orca” (un romanzo mostruoso nel vero senso della parola).
Beppe Fenoglio e Luigi Meneghello, tra Resistenza senza retorica e sperimentazione linguistica.
Alberto Ongaro con libri carichi di argento vivo come “La taverna del doge Loredan” o “Un romanzo d’avventura”.
Sandro De Feo e il suo stupendo “Gli inganni” (una specie di ironica “Dolce vita” attraverso una stralunata ghost story).
Michele Mari, Antonio Moresco, i triestini Stelio Mattioni (morto da anni nel più completo disinteresse) e Mauro Covacich.
Luigi Monteleone con “La bestia controvento”.
Goffredo Parise.
O due giallisti come Scerbanenco e Machiavelli.
Oppure il mezzo italiano e mezzo argentino Juan Rodolfo Wilcock.
O ancora Alberto Savinio.

Postato domenica, 26 settembre 2010 alle 13:25 da luciano / idefix


E l’onesto narratore Piero Chiara? Tra echi di Boccaccio-Casanova, commedia all’italiana e disprezzo per il sempiterno fascismo italico? Era forse un romanzucolo un libro come “La spartizione”?

Postato domenica, 26 settembre 2010 alle 13:28 da luciano / idefix


Sì, la lista sarebbe lunghissima. Molti è diventato di moda citarli (Tommaso Landolfi, ad esempio) e si ha però la sensazione che non siano stati letti, né riletti. Li si cita per fare i fighi. Ma se uno chiedesse: quale opera in particolare? Scena muta. Quando avevo appena esordito come scrittore, spuntava una nuova generazione di giovani scrittori italiani (dal già rodato Benni a Tondelli, per citare solo i più noti) e la rivista letteraria Linea d’Ombra fece un’inchiesta tra questi nuovi scrittori cercando di capire a quali autori si richiamassero, anzi, per essere più precisi, quali autori moderni italiani amassero e ritenessero essere stati fondamentali per la loro formazione. Con grande sorpresa dei redattori della rivista il nome che risultò più citato fu quello di Italo Calvino, scrittore più che riconosciuto, ma considerato “eccentrico” rispetto al cosiddetto mainstream della letteratura italiana. Io penso che i grandi autori siano sempre stati eccentrici, anzi che se un autore non finisce mai , con nessuna sua opera, nell’elenco dei libri proibiti, scandalosi, o semplicemente anomali, non lo si possa definire davvero come un grande autore. La vera Storia della Letteratura Italiana è storia di reietti. Tantissime opere degli anni 60, di autori celeberrimi e divenuti “scolastici”, imprescindibili e istituzionali, rilette oggi sono talmente impigliate nella lingua e nelle consuetudini letterarie della loro epoca da risultare illeggibili. Su Moravia e Pasolini, tanto per non fare nomi, sarebbe il caso di riflettere: come mai oggi il loro linguaggio, i loro riferimenti, le “morali” di certi loro scritti, ci sembrano terribilmente invecchiati, mentre lo stile e le opere di Luciano Bianciardi sono rimasti intatti? Una mia figlia ventenne ha letto “La Vita Agra”, restando strabiliata dal ritratto di Milano contenuto in quell’opera, ritratto che le pareva attualissimo e rivelatore. Gli autori fuori “mainstream”, isolati e solitari, insediati nella società letteraria, ma polemici, irriducibili e mai servili, spesso riescono a cogliere umori e rumori di fondo, essenze e tendenze della propria epoca, che non riescono ad essere espressi da quelli troppo preoccupati di inquadrare il nuovo e l’emergente in uno schema ideologico precostituito e in una gabbia linguistica certificata dalle accademie.

Postato domenica, 26 settembre 2010 alle 16:19 da Gianfranco Manfredi


Qual è l’elemento che contribuisce di più, oltre allo stile, all’invecchiamento di un’opera? Pongo questo tema che può parere improprio in questa sede, visto che qui parliamo di horror, ma che qualche relazione invece ce l’ha. L’elemento che invecchia non è quasi mai il TEMA di un romanzo, cioé il suo argomento. La scelta di temi della contemporaneità italiana operata da Moravia e Pasolini su diversi e anche opposti fronti, non è affatto invecchiata. Quello che è invecchiato è il punto di vista MORALE da cui essi osservano e raccontano quei fenomeni. Il vizio manzoniano di molta letteratura italiana sta qui: si può parlare di sociale, si possono trattare anche temi scandalosi, purché sia chiara la scelta MORALE dello scrittore. Una letteratura moralistica è una letteratura debole. La letteratura dei generi spesso, a distanza di decenni resta attuale perchè descrive a prescindere dalla morale, non pretende di insegnare nulla a nessuno, semplicemente racconta delle storie, confessa i dubbi che nascono da questi stessi racconti, senza presumere di indicare soluzioni o di rimpiangere morali perdute. Non manca la denuncia in questa letteratura, anzi spesso la denuncia dei mali sociali e politici è assolutamente esplicita, ma (come la Scienza) questa letteratura sa che sarebbe terribilmente pericoloso occuparsi di edificazione morale e contenere il narrare all’interno di un controllo morale. La letteratura a scopo morale è una letteratura che muore con la morale che propone. Nulla è incostante, nella Storia Umana, come la Morale. Ora: il fatto che l’horror, l’avventura, il romanzo criminale, il racconto favolistico, quello simbolico e visionario, abbiano sempre sollevato perplessità di natura morale, perché dalla morale prescindono per abitudine, è la migliore testimonianza del loro valore e la migliore spiegazione della loro permanenza.

Postato domenica, 26 settembre 2010 alle 16:39 da Gianfranco Manfredi


Invece nelle scelte dei libri ( e dei film) da Premiare, si casca sempre sulle opere “moralmente lodevoli”. Spesso in queste opere vengono proposte morali progressive, a contrasto con morali “vecchie” , ma poi accade a distanza di pochi anni che quelle stesse morali rinnovate sembrino (giustamente) vecchissime e non più rispondenti alla realtà e agli interrogatici , anche di ordine morale, vissuti dai lettori. E’ patetico, è ingenuo, è degradante, è persino offensivo supporre che un’opera letteraria debba giustificarsi alla luce della morale. E’ tipico dei momenti reazionari questo bisogno di controllo morale, che poi dilaga in exploit risibili, oggi persino nell’arte figurativa: il Comune di Milano si arroga di fatto il diritto di valutazione morale dei manifesti di una mostra (oggi quella di Cattelan, in passato altre) del suo stesso contenuto, prescrivendo la scelta “politicamente corretta” delle opere da esporre. L’assunto Morale che sta dietro questa invadenza della Politica è che l’Arte per essere tale dev’essere edificante, e può esserlo in quanto insignificante, condivisa in quanto ovvia, consigliabile in quanto “non da fastidio a nessuno”, cioè in ultima analisi modesto entertainment da subornati mentali. Questa è la triste fine del manzonismo, che certo aveva conosciuto stagioni migliori, e un tempo coltivava almeno propositi progressivi, riuscendo anche ad esprimere intelligenze critiche e capacità di provocazione, ma quando il mainstream diventa statuto di mercato, allora anche quella carica progressiva e polemica scompare , inghiottita dall’insignificanza. Nel mondo compiuto delle merci il contenuto è irrilevante, perché della merce conta solo il valore di scambio, non il valore d’uso. E il paradosso della Morale è che la Morale si converte in Culto del Quattrino, unica vera morale condivisa.

Postato domenica, 26 settembre 2010 alle 17:02 da Gianfranco Manfredi


Infatti Landolfi non l’avevo citato perchè lo conosco poco e quel poco (eccezion fatta per Racconto d’autunno) mi è sempre stato troppo ostico.
Ma venendo al tema più interessante (cosa rende un autore “vecchio”?) vorrei aggiungere qualche osservazione su Manzoni e i “Promessi sposi”.
A grandi linee condivido l’impostazione di Manfredi (un’opera puzza di naftalina perchè emana troppo odore del moralismo dell’epoca). Io aggiungerei che il “moralismo” è ben diverso all’etica, è l’abito che lo ingabbia e lo riveste di rigide ipocrisie, è la prevalenza dei mezzi sui fini, è il ditino alzato delle saccenti prediche (religiose o atee non importa: sempre prediche sono).
Ecco allora che un’opera squinternata e balenga, scritta male e in fretta only for the money aprendo le cateratte della fantasia più sfrenata e anarchica, senza nessunissimo moralismo (la saga di Fantomas di Souvestre e Allain pubblicata in 32 volumi tra il 1911 e il 1914) resta dopo un secolo una specie di monumento narrativo: riletta adesso nella versione integrale è un tripudio entusiasmante. E (con tutti i suoi immensi difetti e contraddizioni) racconta con impressionante intelligenza e con intuito profetico, utilizzando metafore macabre e pop, la società europea che stava precipitando verso il suicidio della Prima Guerra Mondiale.
Mentre altri autori assai più accademici e stimati di quei due giornalistucoli parigini a-morali non avevano capito niente, Souvestre e Allain azzeccavano tutto: perchè NON guardavano al mondo con gli occhi foderati di moralismo (ma Souvestre era socialista con simpatie per gli anarchici).
E arrivo a Renzo e Lucia.
In sintesi: credo che tanto grande sia il Manzoni che ritrae i difetti di fondo dell’Italia (la legge al servizio dei potenti, i bizantinismi delle norme, il linguaggio usato per non farsi capire e dunque per opprimere, il servilismo di fondo, la chiesa cattolica tra potere e singoli preti onesti, i poveracci che non hanno a chi rivolgersi, le classi subaalterne tra passività e ribellismo, le consorterie di intellettuali e gerarchie ecclesiastiche e delinquenti e signorotti…) quanto sia debole nella seconda parte. Dove arrivano la Provvidenza e il cardinal Borromeo a sistemare tutto.
Dell’Ottocento italiano, io preferisco Ippolito Nievo e le “Confessioni di un italiano”. Dove non c’è la subalternità alla chiesa cattolica, dove pulsa l’erotismo carnale, dove la politica conta per davvero, dove c’è il respiro della vita fisica. E dove (malgrado Ippolito non sia riuscito a rivedere il testo) la lingua lancia una sfida a quella di Manzoni. Ma nel duello Manzoni/Nievo, cioè linguapura/lingua contaminata, lingua unitaria/lingua composita, vinse Alessandro. Anche perchè Ippolito morì giovane, prima di poter esprimere tutto il proprio potenziale artistico e intellettuale. Ma resta quel grande romanzo che sono le Confessioni, in cui confluiscono codici linguistici multiformi e saporosi. Lezione andata purtroppo smarrita per decenni e decenni.

Postato domenica, 26 settembre 2010 alle 18:02 da luciano / idefix


Ragazzi, torno a farmi vivo dopo molto tempo, ma il mio silenzio non significa che non abbia seguitato a seguire con interesse questo forum, giunto ormai al trionfo dei 2500 post… Purtroppo dei motivi personali abbastanza seri limitano il tempo che ho a disposizione e che credo sia giusto riservare alla mia famiglia e a Gargoyle. Ma oggi, dopo la bella recensione che Ranieri Polese dedica al libro di Gianfranco, sento prudere le dita…
In questi mesi avete imparato tutti a conoscere Gianfranco e ad apprezzarne profondità di pensiero e capacità di comunicatore, vorrei dire di affabulatore; adesso voglio deporre ogni pudore di editore e di amico e proclamarlo forte e chiaro: Gianfranco Manfredi è il miglior autore italiano contemporaneo, con buona pace di tutti! Ditemi chi è in grado di affrontare di questi giorni un romanzo di oltre 400 pagine che non ha paura di spaziare tra storia, scienza, deliri, fantasie, cronaca e quant’altro, uscendo dallo spazio “camera da letto e cucina” che sembra caratterizzare, con pochissime eccezioni, la nostra letteratura? Di farlo con una prosa personalissima, ricca e asciutta insieme? Di far precedere il proprio lavoro da una ricerca meticolosa, curando che ogni minimo dettaglio sia realistico e documentabile?
So di avere l’aria dell’oste che proclama che il vino venduto è il migliore sul mercato: non me ne frega niente! Tralasciate di leggere TECNICHE DI RESURREZIONE (oppure HO FREDDO, o ULTIMI VAMPIRI), e avrete perso
delle ottime occasioni di intrattenimento di alto livello e di arricchimento personale.
La verità è che Gianfranco meriterebbe un editore migliore di Gargoyle, capace di valorizzarlo e promuoverlo, portandolo magari a scalare le classifiche fasulle che premiano i “soliti noti”. Lo ringrazio pubblicamente per accontentarsi della scarna minestra che possiamo imbandirgli, e dirgli che sono personalmente orgoglioso di annoverarlo come amico prima ancora che come autore della mia piccola Casa.
Un affettuoso saluto a tutti, con le dovute scuse a Massimo per l’intrusione
atipica e forse inopportuna.

Postato domenica, 26 settembre 2010 alle 18:42 da Paolo De Crescenzo


Seguitato a seguire non è male per chi vende parole… Se rinasco, giuro che cambio mestiere…

Postato domenica, 26 settembre 2010 alle 19:32 da Paolo De Crescenzo


P. S. La recensione è sulle pagine culturali del Corriere della Sera. Perdo colpi a vista!

Postato domenica, 26 settembre 2010 alle 19:34 da Paolo De Crescenzo


Un esempio di come le opere non legate alla morale siano destinate a durare è rappresentato dai pulp writers degli anni 30.Penso ad un ottimo scrittore come Robert Erwin Howard,autore profilico che ha spaziato fra tutti i generi e che oggi (all’estero perlomeno) è oggetto di una riscoperta accompagnata anche dalla pubblicazione di ottimi saggi sulla sua opera.Anche i profani della narrativa fantastica sanno chi è Conan il cimmero o Soloman Kane .(o perlomeno li hanno sentiti nominare)Sarebbe bello se anche in Italia si iniziassero a riscoprire seriamente certi autori.
P.S. ringrazio Gianfranco e Luciano per i libri che hanno segnalato,alcuni mi paiono interessanti e cerchero di recuperarli.
P.P.S. @Gianfranco.Ieri ho acquistato una copia in dvd di “Freaks” di Tod Browning e mi sono ricordato della storia secondo la quale Browning fu obbligato a distruggere alcune parti della pellicola,che mostravano la mutilazione di Cleopatra e Hercules per mano dei Freaks.Per caso sai se è vero ?

Postato domenica, 26 settembre 2010 alle 20:43 da Francesco Moretta


@ Francesco. Infatti. La leggenda racconta che ci fosse una scena in cui i freaks castravano Hercules. Molti sono gli aneddoti fioriti intorno a quel film “maledetto”. In un racconto di Ultimi Vampiri (Il metodo Vago) riferisco uno dei più bizzarri tra gli aneddoti e cioè che Browing ricorse alla consulenza di Lon Chaney per il trucco della donna gallina.
@ Paolo. Dubito assai di essere il miglior scrittore italiano, ma sono sicuro di aver trovato in lui l’editore ideale. Ho ricominciato a scrivere romanzi con entusiasmo grazie alle sue sollecitazioni, altrimenti credo mi sarei accontentato di continuare con i fumetti che mi davano e mi danno grandi soddisfazioni, per il rapporto d’affetto di lunga durata che consentono di mantenere con i lettori. I romanzi hanno un vantaggio rispetto ai fumetti e al cinema: non conoscono format. In altre parole: uno può scrivere quello che gli pare. Certo, però è importante incontrare un editore che questa libertà non solo te la lascia, ma te la ricorda, altrimenti siamo tutti (ma soprattutto gli scrittori professionisti) trascinati per pigrizia, per abitudine e per convenienza a sfornare romanzi-prodotti, confezionati secondo le regole prevalenti in quella data fase del mercato letterario.

Postato lunedì, 27 settembre 2010 alle 08:51 da Gianfranco Manfredi


Paolo: intanto, per la tua situazione personale ti mando augurissimi, anche se generici visto che non ne so nulla.
Su Manfredi, le sue qualità e Tecniche ho una piccola sorpresa (che spero vi farà piacere) ma fino al 1° ottobre non posso svelarla.
Sulla “tua” Gargoyle, mi ha commosso quanto scrivi (“Gianfranco meriterebbe un editore migliore di Gargoyle, capace di valorizzarlo e promuoverlo, portandolo magari a scalare le classifiche fasulle che premiano i “soliti noti”. Lo ringrazio pubblicamente per accontentarsi della scarna minestra che possiamo imbandirgli”). Sono parole che ancor più fanno amare i vostri libri e il vostro progetto editoriale.
E purtroppo è vero: nell’enorme prateria della narrativa (ma anche del cinema, della musica, del fumetto, dei media in genere), non vengono mica valorizzate e conosciute e diffuse e celebrate le opere e gli autori più meritevoli e più interessanti. Manco per idea.
Basta scorrere le classifiche oppure dare un’occhiata ai banconi delle librerie dove stanno impilati mucchi e mucchi di volumi (dimostrazione della profezia che si autorivela: vendo perchè hanno stabilito che venderò).
Anche se poi accade che molti dei veri esplosivi best sellers (Twilight, Harry Potter, i Montalbani, Uomini che odiano le donne e i suoi seguiti…) sfuggono ai controlli delle grosse (non grandi) case editrici.
Ma resta il problema della qualità vera: il lettore appassionato, alla ricerca di testi davvero sorprendenti e affascinanti, deve scavalcare quelle orrende pile e pilone, per inoltrarsi nel territorio ignoto delle piccole o piccolissime (non anoressiche) case editrici e annusare titoli e autori sconosciuti, seguendo le piste dettategli dal proprio istinto di cacciatore di storie. Ovvio: capita di imbattersi in delusioni, di “catturare” qualcosa che non vale. Ma è l’unico modo per essere lettori liberi.
L’alternativa è essere schiavi delle pile e pilone sui banchi delle catene di librerie.

Postato lunedì, 27 settembre 2010 alle 09:29 da luciano / idefix


@ Francesco Moretta: seppure con ritardo, ma sono in pieno caos da ricerca e ho i tempi stretti, ti ringrazio tantissimo per la segnalazione fumettistico-licantropica. Se ne hai altre la cosa è gradita, devo trattare proprio i fumetti tra poco e ahimé, brancolo ancora nel buio… ;)

Postato lunedì, 27 settembre 2010 alle 19:15 da Simonetta Santamaria


Sono appena rientrato da Milano e ho fatto l’ennesimo giro in una mega libreria feltrinelli (quella di Piazza Piemonte dove avevo giurato di non tornare più) per cercare La Chimera di Vassalli, che ero convinto di avere e invece non avevo più ritrovato nella mia biblioteca casalinga. Cerco tra gli autori italiani, ci sono quattro opere di Vassalli, ma non La chimera. Suppongo sia andato esaurito. Dato che ho tempo faccio un giro completo, smarrendomi nella totale confusione dei banchi abbandonati a se stessi e incazzandomi come al solito (perché le novità in lingua straniera sono accanto ai libri dei comici italiani? Boh). Trovo una Novità del mio amico Paco Taibo II, non sul banco delle Novità, ma nascosta in un banco intitolato , pensate un po’, GEOPOLITICA. Due sole copie, anche se i giornali ne hanno straparlato e il libro (Un Hombre Guapo), con la geopolitica non c’entra una mazza. Mi sposto al settore Horror. Capolavori e libracci di infimo ordine tutti ammucchiati insieme. Il nuovo Dan Simmons non c’è, perché era tra le Novità, al piano di sotto, nei pressi del libretto di Bertinotti edito da Mondadori e intitolato “Chi comanda?” . Su una colonnina, di lato alla sezione horror, alcune modestissime fiction sulle streghe, di genere più Fantasy che Horror, e lì in mezzo cosa trovo? Due copie de La Chimera di Vassalli. Occacchio! Come piazzare due bottiglie di whisky di malto nello scaffale dell’acqua minerale: così un normale acquirente di acqua ( di acqua è noto che se ne beve di più che di whisky, non c’è niente di male, è naturale) rischia di comprarsi Vassalli e di andare in coma etilico. In realtà nessuno rischia di sbagliarsi, perché la libreria ( forse complice il lunedì) è vuota… saremo quattro o cinque a muoverci nella desolazione del negozione. Dunque a che serve lamentarsi delle Tecniche Espositive se tanto non entra nessuno? Resta da chiedersi: non entra più nessuno perchè la gente è disinteressata al libro o non entra più nessuno perché le librerie sono gestite coi piedi da manager che di libri non ne capiscono una mazza? Ma già che ci sono, sono curioso di vedere se la strombazzata iniziativa di ospitare sui banchi i libri autopubblicati da ilmiolibro.it ha avuto qualche seguito. Non sembra, perché non ne vedo neanche uno. Però nello spazio destinato (forse, un domani, chissà) ad ospitarli , c’è un sensazionale cartello pubblicitario frutto della mente fulminata di qualche geniale creativo. Lo slogan è questo: “E se il prossimo libro che acquistate lo aveste scritto voi? ” Verrebbe da ridere se non ci fosse da piangere (o viceversa). Dunque qualcuno ha pensato che la soluzione di mercato più brillante, sia questa: uno si pubblica un libro a proprie spese, lo distribuisce a proprie spese, poi va in libreria e se lo compra da solo. Che figata! Che fantastica idea pubblicitaria! Si attende l’apertura di un bordello in cui uno paga, entra, si fa una pippa, ripaga il gestore per il servizio autoprestato ed esce tutto contento.

Postato lunedì, 27 settembre 2010 alle 19:26 da Gianfranco Manfredi


@ Massimo. Dato che Letteratitudine si rivolge anche ai librai, propongo una sezione in cui ciascuno dei frequentatori del sito possa indicare indicare la propria LIBRERIA DEL CUORE. Comincio io indicando la Libreria UTOPIA di via Moscova a Milano. Scelta di titoli eccellente. Percorso chiaro. Per le sòle editoriali rivolgersi altrove. Tessera a sconto senza scadenza temporale e se te la sei dimenticata a casa, te ne fanno una nuova cumulabile con quella che hai già. Nessun libro scontato la settimana dopo l’arrivo in libreria. Nessuna cesta di offerte speciali con libri buttati là come in discarica. Nessuna prevalenza espositiva accordata in misura delle dimensioni aziendali dell’editore. Nessuna classifica farlocca dei più venduti. Nessun libro di Bruno Vespa (non per censura, ma perchè se uno va a cercarsi Bruno Vespa alla libreria Utopia è meglio perderlo che trovarlo).

Postato lunedì, 27 settembre 2010 alle 19:58 da Gianfranco Manfredi


Con il futuribile bordello ipotizzato da Gianfranco due commenti sopra ho riso molto.
Anche perchè la gag arrivava dopo la desolante descrizione delle miserande librerie-catena. A Trieste c’è la Feltrinelli da un paio di anni e io ci vado solo per disperazione qualche rarissima volta o se qualcuno mi ha regalato un libro che ho già e devo cambiarlo. Ma è un luogo orribile, dove non si trova niente, dove i volumi sono messi secondo criteri arbitrari. Esempio: voi come ordinereste le biografie?
Qualsiasi persona dotata di senno direbbe: le persone biografate in ordine alfabetico.
No, non è così. Avete una seconda possibile risposta.
Forse azzardate che sono collocate con l’alfabetico dell’autore?
Nemmeno.
E come?
L’alfabetico dell’editore.
E se Lady XY ha tre biografie pubblicate da tre editori diversi?
Cazzi vostri.

Postato lunedì, 27 settembre 2010 alle 21:33 da luciano / idefix


@ Gianfranco
Sono belli e interessanti gli argomenti di discussione che proponi. Grazie davvero.
Per quanto riguarda Sebastiano Vassalli, il ruolo dei critici e i premi letterari… non va dimenticato che proprio “La chimera” nel 1990 si aggiudicò il Premio Strega.
Vi ricordate chi erano gli altri candidati alla vittoria?
Erano i seguenti (Vassalli incluso):
Paolo Barbaro, Una sola terra (Marsilio)
Luca Canali, Segreti (Editori Riuniti)
Carla Cerati, La cattiva figlia (Frassinelli)
Franco Cuomo, Gunther d’Amalfi, cavaliere templare (Newton Compton)
Vittorio Gassman, Memorie del sottoscala (Longanesi)
Marina Jarre, Ascanio e Margherita (Bollati Boringhieri)
Grytzko Mascioni, La notte di Apollo (Rusconi)
Raffaele Nigro, La baronessa dell’Olivento (Camunia)
Ettore Polito, La grande casa bianca (Schena)
Gianfranco Rossi, L’intreccio (Il Ventaglio)
Gianfranco Rugarli, Andromeda e la notte (Rizzoli)
Sebastiano Vassalli, La Chimera (Einaudi)
Giovanna Vizzari, Medea (Sette)
Guglielmo Zenchi, Carne in piedi (Ellemme)
-
Sarebbe bello poter convincere Sebastiano Vassalli a fare una capatina, qui su Letteratitudine, per farsi una bella discussione on line. Non credo che abbia una buona opinione dei blog letterari… ma potrei provare. ;)

Postato martedì, 28 settembre 2010 alle 00:58 da Massimo Maugeri


Per quanto riguarda “I promessi sposi”, tempo fa proposi questo post (con annessa discussione): http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/04/10/alternative-a-i-promessi-sposi/

Postato martedì, 28 settembre 2010 alle 01:02 da Massimo Maugeri


Con riferimento ai librai, tempo fa aprii questo spazio: http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2006/11/06/voce-di-libraio/
Poi, per mancanza di tempo (purtroppo seguire tutto non è proprio possibile), l’ho un po’ trascurato.
Non sarebbe male riprenderlo, anche alla luce delle discussioni attuali sulla c.d. legge sul libro.
Vedremo!

Postato martedì, 28 settembre 2010 alle 01:06 da Massimo Maugeri


@ Paolo De Crescenzo
Carissimo Paolo, bentrovato!
Ti devo fare tanti complimenti per la distribuzione dei libri Gargoyle. Li vedo anche negli ipermercati, ormai. E questo mi pare il segnale importante (non me ne vogliano gli amici librai) della volontà della casa editrice di raggiungere il cosiddetto “grande pubblico”.
Complimenti a Gianfranco e a te per il riscontro (che sarà di certo crescente) di “Tecniche di resurrezione”.
A proposito, la recensione di Polese (del suddetto nuovo romanzo di Gianfranco) pubblicata sulle pagine culturali del “Corriere della sera” è leggibile qui:
http://archiviostorico.corriere.it/2010/settembre/26/Frankenstein_ora_parla_italiano_co_9_100926072.shtml

Postato martedì, 28 settembre 2010 alle 01:15 da Massimo Maugeri


@Gianfranco.Anche a me capita di trovarmi di fronte a orrori distributivi come quelli che hai trovato tu.Qui confesso però che spesso non resisto alla tentazione e li correggo,senza farmi vedere dai commessi.Mi ricordo di un pomeriggio in cui avevo risistemato il reparto “horror” di una Feltrinelli eliminando le porcate e riordinando per case editrici.(Purtroppo durò poco,dopo neanche due settimane i vandali rimiserò tutto come era in origine).
@Simonetta.Ecco un breve elenco di fumetti sui lincantropi:
-”Werewolf by night” fumetto creato dalla Marvel negli anni 70 con protagonista l’adolescente Jack Russel,che scopre con orrore di aver ereditato dal padre la maledizione licantropica.La serie originale fu pubblicata dall’editoriale Corno ne “Gli albi dei supereroi” con il titolo “Licantropus”.Recentemente la Panini Comics ha stampato nella collana 100% marvel una miniserie nuova dedicata a questo tormentato personaggio.
-Zagor,Martin Mystere,Dylan Dog e Dampyr se la sono vista con dei lupi mannari nelle loro rispettive serie regolari.
Zagor n. 48,49 (“Belve!”,”Luomo lupo”) Qui il licantropo è il professor Stubb un ricercatore infettato dal proprio assistente e alla disperata ricerca di una cura.La storia omaggia a più riprese il classico della Universal “The wolf-man”
Martin Mystere n.50,51 (“La falce del druido”,”La notte dell’uomo lupo”)Il buon vecchio zio Martin se la deve vedere con una mysteriosa comunità del nord della Francia che nasconde un particolare segreto.Tra omaggi a Asterix e Obelix e neo-nazisti Mystere scoprira che tale segreto è la licantropia e che i primi mannari furono creati come supersoldati dal popolo di Atlantide.
Dylan Dog n.3,72 e il Maxi Dylan Dog del 2003(“Le notti della luna piena”,”L’ultimo plenilunio”,”Il capobranco”) costituiscono una trilogia in cui i lupi mannari sono dei lupi mutati dagli esperimenti di una strega e in grado di assumere sembianze umane con la luna piena.Nel secondo speciale di Dylan Dog “Gli orrori di Altroquando” compare una breve e finta storia di lupi mannari intitolata “Plenilunio!”,mentre nell’almanacco della paura del 1994 si trova un omaggio mannaro a Cappuccetto Rosso.Nel sesto Dylan Dog gigante è pubblicato un racconto di lupi mannari a sorpresa intitolato “Sangue di lupo”.
Dampyr n.68 (“Cacciatori di licantropi”) In Argentina Harlan Draka deve confrontarsi sia con il Lobizon la variante locale dell’uomo lupo che con una spietata famiglia di cacciatori di lupi mannari.
-Anche Hellboy il personaggio creato da Mike Mignola ha avuto a che fare con dei lupi mannari in “I lupi di ST.August” racconto contenuto nel volume “La bara in catene e altre storie”.Il racconto si ispira ad un mito irlandese,in cui San Patrizio punì l’idolatria di una tribù con la licantropia.
-Esiste un recente fumetto sui lupi mannari scritto da Robert Kirkman e pubblicato dalla Image “The astounding wolf-man”,una rivisitazione in chiave supereroica del mito.
-Sempre in casa Marvel anche l’Uomo Ragno negli anni 70 se la vide con un uomo lupo:l’astronauta John Jameson,trasformato da una pietra lunare.
Spero di esserti stato d’aiuto.

Postato martedì, 28 settembre 2010 alle 12:56 da Francesco Moretta


Mi sono ricordato dell’esistenza di due manga licantropici, uno vecchiotto e un altro recente.Il primo è “Lycanthrope Leo” di Kaji Kengo e Okamura Kenji,pubblicato (ma non completato) dalla defunta Granata Press su “Zero”.Il secondo invece s’intitola “Wolf guy” di Yoshiaki Tabata ed è tutt’ora pubblicato dalla J-pop.Ci sono altri manga in cui compaiono dei licantropi,ma ricoprono il ruolo di comprimari o avversari,questi due che ho citato invece sono interamente dedicati al mito dell’uomo lupo.
Dylan Dog inoltre si è nuovamente scontrato con un lupo mannaro nel ventesimo albo speciale “Licantropia! e nel numero 277 “Il giorno del licantropo”.
Sperando di aiutarti ti segnalo alcune curiosità mannare:
-Il saggista e scrittore Gianni Pilo scrisse negli anni 80 un suo ciclo di racconti sui lupi mannari,ambientati in diverse epoche dealla storia umana.I lupi mannari sono i superstiti di un antica razza aliena che in epoche remote domino la terra prima di essere sconfitta per mano di un altra razza aliena,più benevola.
-Il numero 90 di Nocturno ospita un dossier sul cinema dei lupi mannari,mentre il sito weirdletter ha pubblicato tre post sulla narrativa dell’uomo lupo.
-Esiste un blog dedicato ai lupi mannari,si chiama “Diario di un licantropo” ed il suo autore ha anche scritto du romanzi sul tema “Lunaris-Dal diario di un licantropo” e “Lunaris-Licantropi alla porta”.
-Anche il blogger Alex McNab ha scritto del buon materiale in tema: “Uomini e lupi” e “Bella e le bestie” entrambi disponibili gratuitamente in pdf sul suo blog “Il blog sull’orlo del mondo”.

Postato martedì, 28 settembre 2010 alle 13:56 da Francesco Moretta


Scusate ragazzi volevo parlare direttamente con MAssimo Maugeri per una proposta di interconnessione con i Sapori del Giallo, dovo lo trovo un suo indirizzo email?

Postato martedì, 28 settembre 2010 alle 16:19 da Monica Montanari


@ Simonetta. Già che ci siamo aggiungo dal mio fumetto Magico vento, l’episodio n.2 Artigli, in cui compare un uomo lupo, e l’episodio n.125 “Skinwalkers” in cui parlo di uomini lupo della tradizione navajo. Poi dovresti esplorare la rivista Creepy (Zio Tibia) dove comparvero molti racconti brevi a fumetti sui licantropi. Ne trovi uno a pag.99 dell’antologia italiana “Zio Tibia Colpisce ancora” (Oscar Mondadori, 1970) , un altro a pag. 187 di “Mezzanotte con Zio Tibia ” (Oscar Mondadori, 1972) . Del film originale The Wolfman (quello con Lon Chaney jr.) uscì un adattamento a fumetti pubblicato nel 1963 dalla Dell Publishing nella serie Movie Classics, ristampato nel 1964. Un classico è il fumetto Werewolf (by night) della Marvel (1971), che uscì per trentasette episodi fino al 1977. Un classico del trash è l’italiano ULULA , protagonista una lupa mannara sexy, 36 numeri più 2 supplementi dal 1981 al 1984 (Edifumetto, direttore Renzo Barbieri). Barbieri dovresti contattarlo (chiedi a quelli di Napoli Comicon) perchè ha editato una quantità impressionante di fumetti horror e potrebbe indicarti dei titoli. Il personaggio Licantropus della Marvel è uscito anche in Italia per parecchi numeri a partire dal 1973. L’Uomo Lupo in varie salse e versioni compare in alcune storie singole su: Il Corriere della Paura , rivista a fumetti della Corno, dal 1974 in avanti, ad esempio sul n.10 (marzo 1975) con un interessante articolo diel compianto Cesare Medail sui licantropi e un fumetto di Steve Skeates e George Tuska. Fatti coraggio e armati di pazienza, perchè ti attende una ricerca sterminata, Simonetta!

Postato martedì, 28 settembre 2010 alle 16:53 da Gianfranco Manfredi


@Simonetta.Ti segnalo altri tre fumetti che mi sono venuti,sperando di non aver esagerato con le segnalazioni:
-”Licantropo!” un racconto di lupi mannari ambientato in Africa e disegnato dal mitico (e compianto ) Frank Frazetta.Venne pubblicato dalla Comic Art su uno dei primi numeri di “All american comics” ma dovrebbe averlo ristampato la Planeta De Agostini nel primo volume della loro ristampa di “Creepy”.
-Nel volume 4 di “Tales from the crypt” (la recenta ristampa della 001 edizioni) compare un bel racconto di lupi mannari.
-Un recente fumetto della Zuda (un etichetta della Dc comics) “High Moon” che parla di lupi mannari nel far west.
Econe un immagine:http://upload.wikimedia.org/wikipedia/en/7/77/High_Moon_Macgregor.jpg
@Gianfranco.Non seguendo regolarmente “Magico Vento” i numeri che citi mi erano sfuggiti.Ora che ci penso i Chiang Shi non avevano fatto una capatina su “Magico Vento”?
P.S.Ultima segnalazione:un fumetto di Richard Corben pubblicato su “L’eternauta” e intitolato “Pellice”,in cui l’uomo lupo che terrorizza una comunità si rivela essere il suo prete.

Postato martedì, 28 settembre 2010 alle 19:05 da Francesco Moretta


Il link che ho messo per l’immagine non funziona,devo aver sbagliato qualcosa e me ne scuso.(Mi scuso anche per un paio di refusi).

Postato martedì, 28 settembre 2010 alle 19:08 da Francesco Moretta


Non mi ricordo se ne abbiamo mai parlato, de “Il figlio della notte” (Darker than you think) di Jack Williamson, il romanzo licantropico che a me piace di più. Uscito in versione per rivista su Unknown nel 1940 e poi ampliato nel 1948, l’ho letto più volte, con un gusto sempre fortissimo. Fin dal lungo inizio in aeroporto, colmo di suspense: la spedizione scientifica che torna dall’Asia con una cassa che contiene qualcosa di misterioso.

Postato martedì, 28 settembre 2010 alle 20:01 da luciano / idefix


@ Monica Montanari
Cara Monica,
scrivimi pure alla mail pubblica del blog: letteratitudine@gmail.com

Postato martedì, 28 settembre 2010 alle 22:37 da Massimo Maugeri


Grazie mille a tutti per le segnalazioni licantropiche. In fondo si tratta pur sempre di figli della notte!
:)
Ripasserò tra uno scoppio neuronale e l’altro ;)

Postato mercoledì, 29 settembre 2010 alle 12:11 da Simonetta Santamaria


Ieri mi arriva il solito pacco libro e fremo , temendo si tratti dell’ennesimo prodotto del New Italian Cepu, invece scarto il pacco ed esplodo in un urlo di meraviglia, manco avessi ricevuto in dono i noti diamanti insanguinati di Naomi Campbell. Mia figlia esce da camera sua. “Cos’è?” Guarda l’oggetto di tanta meraviglia e ammutolisce perplessa. Trattasi dell’autobiografia di Alice Guy, Memorie di una pioniera del cinema, edito dalla Cineteca di Bologna a cura di Monica dell’Asta. Prima donna regista e figura unica nella storia del cinema, Alice Guy iniziò la sua carriera già nel 1896. Alla Gaumont di Parigi e poi a New York , fu responsabile della realizzazione di quasi mille film , la maggior parte da lei stessa diretti. Scusate se è poco. Le stesse date di nascita (1873) e di morte (1968!) sembrano disegnare un percorso da vertigine. Pare impossibile si sia trattato di un’unica vita. Cosa avrà pensato mia figlia di fronte al mio entusiasmo? Forse S.P.Q.R. , cioé Sono Pazzi Questi Romanzieri. Eppure quando vedo che qualcuno pubblica libri così, davvero io “mi illumino d’immenso”. E considerate anche questo: il volume, riccamente illustrato, è di più di 200 pagine e costa solo 10 Euro. Chi non se lo procura subito è un pirla!

Postato giovedì, 30 settembre 2010 alle 16:45 da Gianfranco Manfredi


Ordino subito.

Postato venerdì, 1 ottobre 2010 alle 08:43 da luciano / idefix


Ho appena finito di leggere “Anima nera” un e-book di Enzo Milano,ambientato durante la campagna dei mille.La storia si svolge in un paesino del sud chiamato Teora e riprende inserendola ottimamente nel contesto italiano del periodo una figura classica del genere horror.
Ne consiglio la lettura.(L’e-book può essere scaricato gratuitamente,il link si trova sul blog di Milano “Il blog del wolfman”)
Segnalo poi l’uscita per Rizzoli de “I dodici” di Jasper Kent,romanzo ambientato durante la ca

Postato venerdì, 1 ottobre 2010 alle 11:14 da Francesco Moretta


Scusate,il mio computer per un errore (da me commesso) ha inviato il messaggio prima che finissi di scriverlo.Dicevo “I dodici” è ambientato durante la campagna napoleonica in Russia ed è incentrato sul Wurdalak,il vampiro del folclore russo.Dei conoscenti che lo hanno leto in lingua originale me ne hanno parlato bene,rassicurandomi che anche il lato storico del libro è ben curato.Possiamo quindi aspettarci qualcosa di buono.

Postato venerdì, 1 ottobre 2010 alle 11:21 da Francesco Moretta


Mi scuso per un altro errore,ho scritto letto senza una t.

Postato venerdì, 1 ottobre 2010 alle 11:22 da Francesco Moretta


Quello sui Mille mi stuzzica assai. Anche perchè mi sto documentando per un romanzo per ragazzi ambientato in quegli anni, sui colportori valdesi (che andavano in giro per l’Italia cattolica, coi propri carretti a vendere Bibbie e altra stampa cristiana).

Postato venerdì, 1 ottobre 2010 alle 11:26 da luciano / idefix


Il bello del web: mi mandano il libro di Alice Guy (che non è una novità, voglio precisare, è stato pubblicato nel 2008 e non me n’ero accorto… a quanti libri importanti siamo disattenti perché nessuno ci informa?) e così per curiosità, senza crederci troppo, digito Alice Guy su eMule: trovo dodici film da scaricare, così istantaneamente. La differenza tra la lentezza dell’editoria, e la velocità di Internet è spaziale, e non penso proprio ci sia modo di recuperare lo scarto. Esaminando la filmografia di Alice Guy trovo un solo horror e cioé un incompiuto Il Pozzo e il Pendolo del 1913, film che non risulta repertoriato nello studio di Don G.Smith su The Poe Cinema (McFarland, 1999), dove è invece segnalato un The Pit and The pendulum del 1912. Di questo film, in tre rulli, prodotto dalla Solax viene anche riportata una recensione. Il punto è che Alice Guy lavorava a quel tempo proprio per la Solax. Trattasi dunque dello stesso film? Don Smith lo da per perduto. Ma se è lo stesso film della Guy, perduto non è. Proverò a cercare sul sito American Memory del Congresso degli Stati Uniti dove si trovano moltissimi brevi film muti , visibili gratuitamente, inclusi brevi filmati dal vivo di scene di vaudeville d’epoca. Il sito del Congresso è una struttura pubblica, finanziata con soldi pubblici, e mette in rete a disposizione di tutti, preziosi materiali documentari. Neanche lo promuovono particolarmente, perchè a loro pare ovvio. Anche fondazioni private come il Paul Getty Museum mettono gratuitamente in rete i propri archivi (nel caso, un ricchissimo, meraviglioso archivio fotografico). Da rimarcare il fatto che nulla del genere esiste in Italia, nonostante il nostro smisurato patrimonio. Don Smith scrive anche che il primo Il Pozzo e il Pendolo della Storia del Cinema è stato prodotto in Italia dalla Ambrosio Films nel 1910, insieme a un altro racconto di Poe: Hop Frog. Anche questa informazione è interessante… a proposito di chi sostiene che l’Italia in fatto di gotico e di horror arriva sempre ultima. La questione vera e grave è che arriviamo sempre ultimi nella socializzazione di tutta la ricchezza culturale che c’è da noi. Secondo Don Smith questo originale Il Pozzo e il Pendolo italiano dovrebbe essere scomparso, ma non è sicuro, lo presume. E’ scomparso o no? Ci sarebbe da fare una ricerca al Museo del Cinema di Torino, o alla stessa Cineteca di Bologna. La Ambrosio Films operava a Torino. Tra i suoi film, Il demone (1911), Satana (1912) e un La torre dei vampiri (1913). Ora: qualcuno di voi (Francesco se non ricordo male) ha segnalato la mostra Diversamente Vivi, alla Mole, dedicata a vampiri, zombi e reviviscenti vari, e che si è appena aperta a Torino. Sarebbe stato interessante cogliere l’occasione per recuperare qualcosa o dare notizia di questi materiali italiani che nessuno sa se giacciano in qualche archivio oppure siano davvero andati perduti. Ma scommetterei che nessuno ci ha pensato. Se qualcuno di voi va alla mostra o si procura il catalogo, ne dia informazione please.

Postato venerdì, 1 ottobre 2010 alle 11:54 da Gianfranco Manfredi


Ho ordinato il volume sulla Guy.
E sì…mi sto dicendo pure io la stessa cosa: quanti libri e dilm e dischi affascinanti e interessanti ci sfuggono perchè non ne veniamo a conoscenza?
Compito di una stampa seria sarebbe segnalare QUESTE cose e non altre.
Piccolo esempio: due anni fa è venuto in Italia Neil Young. A gennaio per un concerto all’Arcimboldi di Milano e poi di nuovo in luglio all’Arena di Verona (tra l’altro, su Youtube c’è la formidabile versione scaligera iper-elettrica di “All along the watchtower”…io ero in visibilio, fuori di me, ma mia figlia ventiseienne Francesca che stava al mio fianco non gradiva troppo questi eccessi chitarristici tra Hendrix e Coltrane). Comunque: Repubblica non ha scritto mezza riga mezza sui due concerti younghiani, nè prima nè dopo.
Mentre ogni scroscio di urina di Madonna è stra-descritto in paginoni.
Ecco allora che (per informarci e scambiarci notizie e consigli) Web e vox amici sono vitali.

Postato venerdì, 1 ottobre 2010 alle 12:10 da luciano / idefix


Mi correggo. Alice Guy fece altri due horror: Esmeralda (1905) primo horror cinematografico della Storia, e il successivo Notre Dame de Paris (1911).
Ho fatto una piccola ricerca sull’altro tema. Qual è stato il primo film di vampiri della Storia del Cinema? Pare sia The Secrets of House n.5 (1912) film inglese scomparso. Ma l’Italia arriva subito dopo, con quel La torre dei vampiri (1913) e con il film americano The Vampire (1913) diretto e interpretato dall’italiano Robert Vignola, nato a Trivigno in Basilicata nel 1882. Nel 1915 esce A Fool there was con Theda Bara (si trova anche questo su eMule), nel 1916 il film vampirico tedesco Nachte das Grauens (Notte dell’orrore). Nel 1920, il primo Dracula lo girano in Russia (film scomparso). Come si vede l’Italia è messa bene. Parte per prima. Del resto era già partita per prima in teatro perché l’opera “I Vampiri” di Silvestro De Palma (De Palma, pensate un po’!) viene rappresentata alla Scala di Milano nell’anno 1800!

Postato venerdì, 1 ottobre 2010 alle 12:55 da Gianfranco Manfredi


Petra, la ragazza del figlio di mia moglie, fa l’ingegnera ambientale. Due settimane fa le avevo prestato “Ultimi vampiri”: ieri me l’ha riportato, chiedendomi altri libri di Manfredi.
Guarda come gongolo.

Postato venerdì, 1 ottobre 2010 alle 16:54 da luciano / idefix


Non sapetequanto aiuto mi hanno dato le vostre segnalazioni: su internet c’è davvero poco… di Creepy poi non ne parliamo, neppure sul sito dell’editore c’è nulla.
@ Gianfranco: quei racconti di zio Tibia (Oscar Mondadori): mi sapresti dire se avevano anche dei titoli o c’era solo quello della raccolta?
Grazie millemila! :)

Postato venerdì, 1 ottobre 2010 alle 17:14 da Simonetta Santamaria


I titoli purtroppo posso dirteli solo in italiano, perché non conosco quelli originali: “Un successo strepitoso!” di Angelo Torres (disegni) e Archie Goodwin (testo) in : “Le spiacevoli Notti di Zio Tibia” (Oscar M. 1969). “Al cambiar della luna…” di Jeff Jones e Clark Diamond , in: “Zio Tibia colpisce ancora” (Oscar M.1970). “Lupo delle nevi” di Gary Kaufman , in: “Mezzanotte con Zio Tibia” (Oscar M. 1972).

Postato venerdì, 1 ottobre 2010 alle 18:00 da Gianfranco Manfredi


Sono andato a curiosare sul tema dell’apparizione dei vampiri nel cinema, trovando altri titoli dell’epoca del muto o dei riassunti di alcuni film già citati. Nel Vampire of the coast, film americano del 1909, la vampira è una donna fatale, nessun richiamo soprannaturale. La parola vampiro è usata metaforicamente. Lo stesso nel film The Vampire del 1910 tratto da un racconto di Kipling da cui è stato tratto anche A fool there was con Theda Bara, prima consacrata “Vamp” dello schermo. E’ un cattivo seduttore, che droga le sue vittime, il protagonista di In the grip of the vampire (1912). E’ una “vamp” femme fatale la protagonista di Vampe di gelosia (1912) film italiano di Roberto Danesi, tradotto in inglese come The Vamp’s Jealousy. Questa traduzione è interessante e significativa: il termine “Vamp” proviene certo da “vampira”, però qui si incrocia anche a “vampe”. La Vamp seduce causando accaloramenti istantanei. Non si tratta di amore al primo sguardo, da “colpo di fulmine”, bensì di incontenibile arrapamento, eccitazione rovinosa, primato dei sensi cui non è possibile rispondere razionalmente. Anche l’eroina “buona” ( tra l’altro) de I Vampiri di Feuillade è stata scambiata a torto per una vampira: i vampiri sono, in quella serie, una banda di criminali, e Musidora (l’eroina protagonista) si rende autonoma da loro: veste una calza maglia nera integrale (alla Diabolik, per intenderci) che la rende simile a una silhouette (peraltro piuttosto robusta rispetto ai canoni di bellezza attuali) . Metafora di un corpo nudo, ma reso ombra, cioè inafferrabile nella sua carnalità. Le metafore sessuali del Vampiro (il vero Vampiro) si direbbe dunque nascano in cinema prima del Vampiro vero e proprio. In sostanza: il sesso non è un attributo indispensabile del Vampiro, bensì il Vampiro è un attributo (tra i tanti) della sessualità. Questa mi pare una differenza su cui meditare.

Postato sabato, 2 ottobre 2010 alle 15:50 da Gianfranco Manfredi


Fra i titoli citati da Gianfranco a incuriosirmi maggiormente sono l’italiano “La torre dei vampiri” e il tedesco “Nacht des grauens”.Ma mentre del primo non ho trovato nulla,del secondo ho appreso il nome del regista Arthur Robison e che la trama parla di strane persone simili a vampiri.(“Features strange vampire-like people” si trova scritto sui siti che ne parlano,anzi che lo menzionano data l’introvabilità)
Spostandoci invece al presente,ho saputo di una pellicola australiana di argomento vampirico attualmente in lavorazione.Il titolo è “Pray for dawn” e sorprendemente in un epoca di 3D e computer graphic,questa pellicola sarà girata in bianco e nero.Questo è il bello di certe piccole pellicole straniere,in qualche modo riescono sempre a sorprenderti.

Postato sabato, 2 ottobre 2010 alle 22:13 da Francesco Moretta


Spero di riuscire ad avere qualche notizia de La torre dei vampiri. Come ho detto , ho una pulce nell’orecchio … può anche darsi che non significhi niente perché all’apparenza la questione è banale: la parola Vampiro tutti noi la usiamo sia per qualificare un Vampiro DOC, sia come metafora per designare dei tipi umani, degli atteggiamenti, certi modi di essere in rapporto agli altri. NON usiamo così la parola UOMO LUPO. Non diciamo che quel tipo è “un lupo”, casomai diciamo che è “uno squalo”. Questa schiocchezzuola mi ha instillato il dubbio che il Vampiro ha comunque per noi una valenza morale/comportamentale riconoscibile ed evidente… è dunque una figura simbolica molto più DENTRO il nostro linguaggio quotidiano e dentro le nostre categorie di interpretazione, di quanto non accada con altri mostri. Solo “zombi” ha assunto, nel linguaggio quotidiano degli ultimi decenni, connotazioni così ampie.

Postato sabato, 2 ottobre 2010 alle 22:57 da Gianfranco Manfredi


@Gianfranco.Sono riuscito a trovare il programma delle proiezioni di “Diversamente vivi”.Ecco i film che verranno trasmessi:
-Survival of the dead
-La notte dei morti viventi
-Zombi
-Diary of the dead
-Paura nella città dei morti viventi
-La casa
-Ho camminato con uno zombi
-L’isola degli zombi
-Il serpente e l’arcobaleno
-Il ritorno dei morti viventi
-Scala al paradiso
-Storia di fantasmi cinesi
-Ringu
-The fog
-The others
-Incubi notturni
-I vivi e i morti
-Il sesto senso
-The gift
-Il carretto fantasma
Da notare la totale assenza di film sui vampiri,due intrusi (ovvero “La casa” perchè i deaditi non sono zombi ma indemoniati,mentre in “The gift” la figura del fantasma non è centrale),la presenza dell’ultimo e non esaltante parto di Romero (“Survival of the dead” che purtroppo è una delusione al cubo) e solo due pellicole veramente rare (“Incubi notturni” e “Il carretto fantasma”).Certo le pellicole scelte sono dei gran bei film,ma si tratta di materiale facilmente reperibile in dvd o su internet.
Il libro della mostra dovrebbe essere pubblicato dalla casa editrice “Il castoro” e gli orari dei film si trovano sul sito del museo nazionale del cinema.

Postato domenica, 3 ottobre 2010 alle 10:04 da Francesco Moretta


Caro Francesco, pare che ormai siamo all’ovvio. Romero è onnipresente, a qualsiasi manifestazione italiana. Per certi versi se lo merita, per quanto ha fatto in carriera, ma si sa anche che le celebrazioni sanno di giubilazioni. Possibile che non vengano mai invitati registi e autori sotto i quarant’anni? Tanta “distrazione” sui giovani è pari soltanto alla scarsa ricerca sulle origini, che da un Museo del cinema era più che lecito attendersi. Il carretto fantasma lo si può vedere anche su YouTube. E’ mai possibile che tutti gli studi sullo “schermo demoniaco”, sull’ Hollywood Gothic, e sull’importanza dell’horror nella genesi del cinema non abbiano lasciato traccia? A Torino, tra l’altro, questa è l’ennesima celebrazione degli zombi. Risale al 2003-2004 la mostra “I vivi e i morti” organizzata con ben altro spessore dal circolo torinese Hiroshima Mon Amour. Come mai il Museo del Cinema alla Mole è gestito in modo così baracconesco? Già quando venne inaugurato restai piuttosto sconcertato nel vedere il manifesto de La Dolce Vita di Fellini, affisso accanto a quello di Quel gran pezzo dell’Ubalda… va anche bene mescolare alto e basso secondo vezzo Tarantiniano e Neo-Trash… però un Museo queste stupidaggini non dovrebbe farle. In America i Musei del Cinema sono assai più rispettosi e seri.

Postato domenica, 3 ottobre 2010 alle 11:07 da Gianfranco Manfredi


@Gianfranco.Per curiosità ho provato a cercare su internet il programma della mostra “I vivi e i morti” per fare un confronto.Risultato?Il collettivo Hiroshima Mon Amour batte il Museo nazionale del cinema 1000 a 0.
P.S.Una segnalazione zombesca:sul canale satellitare della Fox,il 1 novembre si dovrebbe vedere la prima puntata di “The Walking Dead”,diretta da Frank Darabont e ispirato al fumetto di Robert Kirkman (forse uno dei migliori fumetti in assoluto degli ultimi anni).

Postato domenica, 3 ottobre 2010 alle 11:49 da Francesco Moretta


Comunque Gianfranco tocca un altro punto dolente,ci si occupa sempre dei soliti titoli,ignorando autori e film recenti e meritevoli di un analisi seria (penso a titoli come “Right at your door”,”I sell the dead”,”The last winter” e altri,film con forti potenzialità ma spesso ignorato o quasi).

Postato domenica, 3 ottobre 2010 alle 11:58 da Francesco Moretta


Purtroppo non ho tempo per approfondire l’argomento, in questo momento, comunque ecco cosa ho trovato in merito all’archeologia cinematografica vampirica italiana.
1. La torre dei vampiri di Gino Zaccaria non è un film di vampiri, ma un romanzo storico ambientato in Inghilterra, con al centro tale Fornarina.
2. Assai più misteriosa la storia di La Vampira indiana (1913) di Roberto Roberti. Secondo alcuni la storia avrebbe al centro una “divoratrice d’uomini” indiana dell’India. Altri lo considerano invece il primo western all’italiana… Roberto Roberti (Vincenzo Leone) era il padre di Sergio Leone e la protagonista del film , l’attrice Bice Waleran, era la madre di Sergio Leone, il quale in un’intervista ne esibì una rara foto di scena tratta proprio d quel film. A questo punto l’interrogativo è : era un’indiana d’America?
3. Nell’archivio informatico dell’ANICA (che funziona malissimo) risulta un film: Il Vampiro, del 1915, senza dati.
4. Un altro film vampirico delle origini pare La carezza del vampiro (1918) di Bacchini.
Non ho trovato indicazioni decisive in merito al problema qui considerato: questi primi vampiri sono metaforici o sono I Vampiri? In particolare la vampira indiana è divoratrice d’uomini in quanto maliarda o alla lettera?

Postato lunedì, 4 ottobre 2010 alle 13:25 da Gianfranco Manfredi


Per mantenere “vivo” il dialetto lombardo in via di estinzione, Lorenzo Banfi ha … tradòtt il Dracula di Bram Stoker in milanes. :-)
Qui il booktrailer ( con musiche metal in sottofondo) >
http://www.youtube.com/watch?v=0gJJoe38ewM&feature=related

Postato lunedì, 4 ottobre 2010 alle 13:58 da Gianni De Martino


Ne avvertivamo tutti la mancanza. Evidentemente avendo Vlad combattuto contro i turchi può essere arruolato anche lui tra i lumbard… peccato fosse rumeno… come la mettiamo? D’altra parte, pare sia stato girato con comparse rumene anche il Barbarossa leghista. E Manzoni che aveva risciacquato la sua prosa in Arno? Un traditore della Padania? E cosa si intende per milanes? Quello del Carletto Porta non esisteva più già nell’ottocento, e alla fine ottocento il milanese era già imbastardito da termini internazionali . Sapevate che la parola BOOM nasce allora e non negli anni 50? La prima volta che venne usata fu su un quotidiano milanese a proposito della diffusione della bicicletta in città. Adesso poi…. come si tradurrà in milanese Happy Hour? Felice Ora, pronuncia corretta Felisura? Certo che ciappà on aperitiv alla felisura è tutta un’altra soddisfazione! Attendo di leggere la traduzione del seguente passo di Dracula, dal Diario di Jonathan Harker: “Per colazione mi hanno servito paprica e una specie di polenta di orzo che qui chiamano mamaliga, con morella imbottita di salame, una pietanza veramente eccellente che chiamano impletata.” Mamaliga e Impletada non sembrano già parole lumbard? Il libro sarà un sicuro successo nei due noti comuni lombardi: Vergate sul Membro e Orinate Sul Serio.

Postato lunedì, 4 ottobre 2010 alle 17:32 da Gianfranco Manfredi


Tornando alla cose serie, voi come la mettete con le Vamp? Sono un’invenzione da maschi sciovinisti come dice la vulgata del politically correct? Che si tratti di figura ideologica non ci piove, però… non è forse vero che certe attrazioni fatali sono reciprocamente predatrici, nelle due direzioni? Mai avuto la netta sensazione del “se mi metto con quella” (o con quello) ci divoriamo a vicenda? E vi è mai capitato che questo fosse un motivo irresistibile per mettersi insieme (e per continuare il rapporto reciprocamente aggressivo anche da divorziati, nei secoli dei secoli amen)? E ci avete fatto caso che l’ideologia maschile corrente pare ben poco interessata alle Vamp , tanto che il termine non si usa più, mentre spuntano legioni di imberbi fanciulle alla ricerca del Vamp macho? La traduzione lumbard di Dracula potrebbe essere provvidenziale a svelare la natura di questo nuovo oggetto del desiderio: Dracula il Vampirla.

Postato lunedì, 4 ottobre 2010 alle 17:48 da Gianfranco Manfredi


E’ inquietante e pericoloso da percorrere, il sentiero che ha da un lato la bellezza dei dialetti (e delle tradizioni vere, delle osterie autentiche, delle storie di provincia, del rapporto profondo con la terra o il mare e gli odori e i colori e i suoni e sapori) ma dall’altro la demenza degli artificiosi campanilismi post-moderni, in cui si mescolano saccheggio del territorio & culto dell’etnia, scempio ambientale e richiamo alla purezza del sangue, fabrichete e simboli zeltizi.
Anche qui da noi, in Friuli-Venezia Giulia, assistiamo a cose che voi europei non avete nè visto nè immaginato.
Piccolo esempio: i tentativi degli udinesi-friulani di annettersi l’intero nome della regione. Come in questi giorni: domenica prossima ci sarà a Trieste (Venezia Giulia) la Barcolana, grandissima regata con migliaia di barche da tutto il mondo. Bene: questi geni come hanno voluto sponsorizzare l’avvenimento?
“Tipicamente friulano”
Ovviamente, a Trieste, apriti cielo. Perchè la stupidità dei campanilisti ha un’aggravante: evoca il campanilismo opposto.

Postato lunedì, 4 ottobre 2010 alle 17:59 da luciano / idefix


@ Gianfranco: grazie infinite, sei stato prezioso come al solito ;)

Postato lunedì, 4 ottobre 2010 alle 18:00 da Simonetta Santamaria


Dracul il Vampirla.

Postato lunedì, 4 ottobre 2010 alle 18:00 da luciano / idefix


Per inciso, l’espressione “sentiss vegnì i vamp a la faccia” in milanese significa “arrossire per la vergogna”. Cosa che ci capita regolarmente ogni volta che apre bocca un leghista.

Postato lunedì, 4 ottobre 2010 alle 18:05 da Gianfranco Manfredi


WILLARD & BEN

Ieri sera mi sono rivisto il film Willard e i topi , un classico horror del 1971. Alcuni critici (Leonard Maltin, ad esempio) lo considerano un film minore. A me è parso, di nuovo, molto bello, e molto più bello del recente remake che ne è stato fatto. E’ bella soprattutto la prima parte che racconta di questo ragazzo che vive con madre invalida e circondato da anziani, trovando i topi come unici amici. Il ragazzo lavora in un ufficio sotto il comando di un turpissimo Enest Borgnine in una delle sue migliori interpretazioni. Un precario di oggi che magari lavori in un call center non ha del resto capi migliori di quello. Ci sarebbe di che addestrare topi. E’ un vero peccato che molto horror contemporaneo abbia perso radicamento nel sociale… senza ingiustizie sociali il tema della vendetta perde senso, diventa puro delirio dell’ego. Quando si vedono questi film horror che ci mostrano dal vivo (cioè con assoluto realismo) fabbriche e posti di lavoro, si sente che il cinema horror attuale ha perso qualcosa, rinunciando a descrivere la società. Nel film c’è anche Sondra Locke, ancora giovanissima e non ancora moglie di Clint Eastwood, nel ruolo di una collega di lavoro attratta da Willard, ma che non lo ha capito molto, tant’é che gli regala un gattino. La cosa curiosa è che nell’edizione che ho visto io, prima del film compare un coming soon con il seguito, il quale annuncia il sequel di cui ci mostra anche delle immagini che sembrano assai più spettacolari di quelle di Willard, con pazzesche invasioni di topi, da horror catastrofico , più che psicologico. Il sequel infatti uscì l’anno seguente, con il titolo Ben (dal nome del Topo cattivo), ma stranamente deluse parecchio gli appassionati, anche perché pare (io non lo ricordo, non so neanche se l’ho visto) che in realtà fosse anche più psicologico del precedente e oltretutto implausibile : non è un ragazzo giovane quello che medita vendette coi topi, ma un bambino, che del sociale non può avere eguale esperienza, ovviamente. Comunque, Ben (1972) si avvalse della colonna sonora di Michael Jackson che mostrò qui per la prima volta il suo amore per l’horror. Il film (Ben) si fa fatica a trovarlo. Se lo avete visto, sarei curioso di sentire i vostri commenti. Il primo (Willard) era tratto da un romanzo che si intitolava The Ratman Diary (o qualcosa del genere). In effetti film che disegnano assai bene i personaggi, nel loro contesto famigliare e sociale, spesso derivano da romanzi. Dubito che il romanzo finisse allo stesso modo del film: nel film infatti Willard viene ucciso dai topi (finale che non funziona, perchè ucciderlo, poverino? Lo spettatore ci resta male) , se il romanzo era un Diario, dunque scritto da Willard in prima persona, è difficile che finisse così, a meno che il Diario non fosse stato concluso con una nota di altri dal narratore… Ignora anche se questo romanzo sia stato mai tradotto in italiano.

Postato lunedì, 4 ottobre 2010 alle 18:47 da Gianfranco Manfredi


Ne ho un ricordo lontano: dovrei rivederlo. Sui topi, rammento con un misto di orrore e disgusto il romanzo L’orrenda tana di James Herbert (uscito su Urania), grezzo ma potente.
Condivido molto l’osservazione di Gianfranco: senza contesto sociale, l’horror perde (a meno di andare volutamente, volutamente però!, nell’astratto e nell’onirico) molta della sua efficacia. Penso (come esempio positivo) a un film come “Essi vivono” di John Carpenter. Nel 1988, pieno di rabbia contro l’America di Reagan che stava producendo povertà e ingiustizia, violenza e consumatori ipnotizzati dalla pubblicità, Carpenter aveva pochi soldi e molte idee. Si mise al lavoro e ne venne fuori They live (Essi vivono), uno dei suoi film più politici. Lo conoscete?
In uno scenario urbano dove disoccupazione e ricchezza si nutrono l’una dell’altra, dove bidonville e mega-appartamenti crescono fianco a fianco, un gruppetto di scalcinati resistenti lancia un messaggio disperato che pochissimi ascoltano e che la polizia reprime nel sangue:
“gli invasori sono tra noi”.
E stavolta (per impadronirsi della Terra) gli alieni hanno preso il volto dei banchieri, dei pubblicitari, dei governanti, degli uomini d’affari, delle bellone, degli avvocati.
L’unico modo per vedere la loro vera faccia (uno schifoso teschio) è mettersi un paio di occhiali speciali. E così apparirà anche cosa si nasconde per davvero sotto la sgargiante pubblicità, nelle pagine patinate dei rotocalchi, dentro i colorati programmi tv: grigi messaggi subliminali che incitano a consumare, obbedire, non discutere, star in riga, rimaner zitti, non contestare, non far domande.
Per scongiurare l’invasione aliena, le soluzioni sono due. La prima è svelare al popolo il vero volto dei mostri.
La seconda è sparargli in testa.
Un film rozzo e forte (l’attacco della polizia alla tendopoli, la lunghissima scazzottata tra i due protagonisti…) che a ventidue anni non ha perso nulla (anzi!) della sua attualità.

Postato lunedì, 4 ottobre 2010 alle 21:13 da luciano / idefix


@ Gianfranco e agli altri
Ricevo per email questo comunicato stampa in tema “vampirico” che ha a che fare con il teatro.
Lo condivido con voi.
_____________

TEATRO DUSE

Via Crema 8 Roma

http://www.duseteatro.it/

8-9 ottobre ore 21

10 ottobre ore 18,30

In collaborazione con

ADRAMELEK THEATER

presenta

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LA COMPAGNIA TEATRALE “GLI SBANDATI”

http://www.glisbandatiteatro.eu/

-
In

CLARIMONDE, LA VAMPIRA DEL PRETE

-

di Gennaro Francione

Con

Clarimonde: Viviana Casadio

Romuald: Renato Pisciella

l’Abate Serapione: Giuseppe Cardone

La morte: Asteria Casadio – Laura Mastropasqua

Luci e fonica Monica D’Alonzo
Costumi Ass.ne “Gli Sbandati”

Grafica: Renato Pisciella

Regia di Asteria Casadio.


Romuald, nel giorno in cui viene ordinato prete s’imbatte nella bella
cortigiana Clarimonde. I due s’innamorano perdutamente e il prete diventa
preda di una metamorfosi, in cui tra sogno e realtà, oscilla tra la funzione
di devozione e la vita da libertino a Venezia. Presto scoprirà che la donna
amata si nutre del suo sangue per poter continuare a vivere ed amarlo
all’infinito.

L’opera viene messa in scena dai giovani del gruppo “Gli Sbandati” di
Teramo, in cartellone in diversi teatri italiani (stagione invernale Teatro
della Forma Roma) ed in collaborazione con alcune Università (D’Annunzio di
Chieti, Tor Vergata, Università degli studi di Macerata).

-

NOTA DELLA REGISTA ASTERIA CASADIO

Un dramma di amore e lacerazioni che si staglia in ambienti da
tregenda. Un sacerdote diviso tra l’amore sacro, immateriale e salvifico e
l’amore terreno e corporale che solo la bella vampira Clarimonde riesce a
suscitargli.

Un dramma che avvia dibattiti ancora aperti (è possibile per un
prete amare di amore concreto?) rievocando saghe dantesche, raccontando la
caduta di un sentire stilnovista che prelude alla Commedia e, oltre, a
Petrarca.

La leggenda e il profumo di mistero non sono altro che un mezzo
per condurre lo spettatore là dove il cuore ambisce ad arrivare per poi
tornare indietro al tradimento e alla morte.

Su tutto si innalza la bellezza eterna di Clarimonde, donna
vampiro di ricordo dannunziano, che forse è morte, forse vita.

L’adattamento scenico è fedele al testo; nei costumi come nelle
musiche e nelle scenografie mira a ricreare il clima cupo del mito.

-

Ingresso euro 10

-

Prenotazioni e informazioni

Email info@duseteatro.it

Per altre informazioni, locandine etc.

http://www.antiarte.it/adramelekteatro/teatro_duse1.htm

Postato lunedì, 4 ottobre 2010 alle 22:17 da Massimo Maugeri


La vampira del prete… cioé, adesso… lasciamo stare…. solita Italia? I preti (ingiustamente) non si possono sposare e la colpa sarebbe delle donne vampire? Non so, magari è un’opera bellissima, a me queste cose fanno davvero ribrezzo… “la leggenda e il profumo di mistero” … beh, sarebbe ora di finirla di considerarle “un mezzo” per parlar d’altro… o sono il contenuto o non sono. Non credete che non se ne possa più di chi dice: per dire questa cosa ne ho detta un’altra? Ma perché? Può darsi sia solo colpa di chi ha scritto il comunicato stampa, ma qui si premette: cosa volete che ce ne freghi dei vampiri? E’ per dare un tocco dark. I vampiri sono ovviamente una stronzata… noi vogliamo parlare del celibato ecclesiastico. Allora perché non parlate del celibato ecclesiastico, santo iddio?

Postato martedì, 5 ottobre 2010 alle 00:58 da Gianfranco Manfredi


Il sociale è il contesto, voglio dire, ed è essenziale perché un racconto sia plausibile, perché le motivazioni dei personaggi siano chiare e anche il punto di vista dell’autore. Fin qui ci siamo. Però è pericolosissimo se il sovrannaturale diventa un mero mascheramento del sociale. Perché nessun “sociale” potrà mai darci risposta al problema della morte. Questo è il punto. L’horror dovrebbe sapientemente muoversi da tra questi poli opposti. Se se ne elimina uno, la scintilla non scatta. Per questo ritengo , e non da ieri, che se l’horror smarrisce la sua natura gotica si rinnega. Ci sono i mostri e c’è il cielo. Senza il cielo, i mostri sono un affliggente scherzo di natura. Senza i mostri, il cielo é pura retorica, un pretesto per non guardaci attorno.

Postato martedì, 5 ottobre 2010 alle 01:06 da Gianfranco Manfredi


Beh, sì, i migliori “horror” di Carpenter (per tornare a lui) mi paiono altri: La cosa, Il seme della follia, The fog, Vampires, Distretto 13.
“Essi vivono” era e resta un film-volantino, una specie di pamphlet fatto a caldo, sulla furia contro l’America reaganiana. dovendo etichettarlo, siamo più sul versante fantascienza che su quello orrorifico.

Postato martedì, 5 ottobre 2010 alle 10:39 da luciano / idefix


Per la verità non mi riferivo a Carpenter. “Essi vivono” è del genere metafora svelata, cioé insegna a vedere il volto della morte nei potenti, come ben ha spiegato Luciano. “Society ” di Yuzna è un po’ sulla stessa linea, anche se con un moralismo più accentuato e, a mio parere, fastidioso. Purtroppo, se il Male fosse solo nel Potere, credo che sarebbe stato più facile sbarazzarsene, anche senza bisogno di occhiali. Nei recenti film di zombie, l’idea dell’infestazione che attraversa ogni gruppo sociale e si sparge attraverso e al di là di “dinamiche di classe”, mi sembra metafora più attuale e meno assolutoria delle “masse”. Ma, come ho detto, mi riferivo all’interpretazione di Clarimonde quale risulta dal post del programma inviato da Gianni. Clarimonde è un personaggio di Teophile Gautier (La morte amoureuse) . In quel racconto il tema del celibato ecclesiastico non esiste proprio, anche se l’ammaliato da Clarimonde è un prete. C’è un gioco di paradossi assai più raffinato: la resurrezione come evento “demoniaco”, e l’acqua santa e l’estrema unzione che invece di consacrare/salvare riducono in polvere. E’ questo che scuote la coscienza del sacerdote: i fondamenti della sua fede , i suoi stessi rituali sacri sembrano funzionare al contrario. C’è poi un aspetto simbolico legato all’Orientalismo. Stranamente in quell’epoca ( Gautier scrisse anche un racconto sulla Mummia) le suggestioni d’Oriente si incarnano (anche in pittura) in ritratti di donne fatali, dagli occhi verdi, le labbra rosse e l’incarnato pallido, effigiate tra rose e tralci di rovi (non c’è rosa senza spine, né amore senza dolore) che di quell’Oriente pagano e rimosso sembrano eredi e testimoni anche in Occidente (tema già accennato da Edgar Allan Poe). L’uomo è contemporaneo e spesato, terribilmente confuso. La donna è antica e sapiente, aliena, né morta, nè viva, al di là di ogni definizione. In particolare le donne sono lo spettro della cedevolezza ai sensi vissuta dalla società maschile come “dacadenza”, e con esse si instaura un rapporto morboso tra sesso e malattia (dell’anima, prima che del corpo). La conclusione moraleggiante del prete è da brivido: é bene non guardare mai una donna se si vuole sfuggire alla sua seduzione. L’orientalismo intacca in profondità il cristianesimo laicizzato e sembra paradossalmente invitare al velo, cioè all’islamismo in occidente! Ridurre tutto questo gioco di contrasti e di specchi deformanti al tema del celibato ecclesiastico è farsesco. Testimonianza di come questo periodo tenda a svilire il paradossale, il simbolico, il gioco degli opposti, il surreale, in vulgate tipiche di un piatto e scadente giornalismo di dozzina.

Postato martedì, 5 ottobre 2010 alle 11:13 da Gianfranco Manfredi


“Spesato” stava per spaesato e “dacadenza” per decadenza. Comunque, ripeto: se si voleva cogliere questioni attuali in Clarimonde, il tema poteva essere una riflessione sull’orientalismo , che avrebbe avuto il merito se non altro di mettere una pulce nell’orecchio rispetto al nostro attuale rapporto con le culture del vicino oriente, rapporto che nello spazio di poco più di un secolo pare essersi capovolto: quell’oriente che veniva allora inteso come ricchezza, civiltà, sapienza millenaria e sensualità, oggi lo leggiamo come primitivismo, povertà, ignoranza e repressione sessuale. Sono cambiati loro, evidentemente, e siamo anche cambiati noi. Come? Perchè? Lo specchio è sempre stato deformante, ma quello ottocentesco e dei primi novecento animava dei paradossi da “fantasmagoria”, quello attuale è di una banalità agghiacciante. Le note di regia di Asteria Casadio ( che nome dannunziano!) ignorano o prescindono da tutto questo, presumendo invece di “condurre lo spettatore là dove il cuore ambisce ad arrivare per poi tornare indietro al tradimento e alla morte.” Che parole prive di senso! Che chiacchiericcio patetico…

Postato martedì, 5 ottobre 2010 alle 11:32 da Gianfranco Manfredi


Nei primi secoli del cristianesimo si incontrano, incrociano e scontrano molte culture e pulsioni.
Ovviamente non è questo il luogo per discuterne a fondo (e d’altro canto io non ho la competenza storico-teologica per esaminarli con cognizione di causa). Almeno un accenno però vorrei farlo, a proposito di un tema cruciale: il sesso.
Gesù Cristo poco si occupò di questioni sessuali, e quelle poche volte sempre con un atteggiamento aperto, fatto di accoglienza verso i “peccatori-peccatrici” e di profondo mutamento rispetto ai rigidi tribalismi precedenti.
Le prime comunità cristiane (come documentato dagli atti degli Apostoli e dalle varie Lettere del Nuovo Testamento) vedono le donne non più ai margini, i “pastori” che si sposano, i beni messi in comune.
Insomma, pare che i cristiani si stiano dirigendo verso una sempre maggiore libertà (anche erotica).
Com’è allora che, nel giro di pochi secoli, sulla chiesa piomba la cappa opprimente della sessuofobia? Il celibato dei preti? L’ossessione della verginità e della castità? L’orrore per il piacere? Le donne relegate a ruoli subalterni? Il sesso come Peccato per antonomasia? Questi continui discorsi sul sesso quasi che la Conferenza Episcopale fosse un congresso di ginecologi?
Nei primi secoli arrivò dall’Oriente un grosso avversario (se posso volgarizzarlo con questo termine) del cristianesimo: lo gnosticismo. Due soprattutto i punti di contrasto. Il primo: per gli gnostici, la salvezza dipende da una conoscenza iniziatica, segreta e superiore, un rapporto privato e nascosto tra Maestro e discepolo. Il secondo: per gli gnostici, la creazione è dovuta a una specie di dio inferiore, un demiurgo che ha creato la materia, che è negativa, compreso il corpo, comprese le sue attività, compreso il sesso. Eccezion fatta (in parte) per quello rituale riservato agli iniziati.
Da qui, da questi influssi, nasce il germe della sessuofobia che poi impestò il cristianesimo. E che portò alle tantissime aberrazioni.
Straordinarie dal punto di vista narrativo, orribili da quello della vita reale delle persone.

Postato martedì, 5 ottobre 2010 alle 11:57 da luciano / idefix


Ultimamente ho letto i saggi di Monica dall’Asta dedicati al cinema del primo decennio del novecento, quello di Alice Guy , e quello di tantissime altre donne, in tutti i paesi occidentali, Italia inclusa (quest’ultimo saggio si intitola “Non solo dive. Pioniere del cinema italiano”, 2008). Si può a buon diritto dire che le donne sono state le principali artefici del cinema. Solo che questa realtà storica è stata rimossa. Stessa cosa è avvenuta per il romanzo, perché sono state le donne a inventare il romanzo nel XVIII secolo. Solo che poi gli uomini le hanno scippate. E ne hanno anche oscurato il ruolo storico, nella genesi di queste due forme narrative. Ora, è mia convinzione (e non solo mia) che dietro il “discorso sulla sessualità”, in epoca moderna, si celi in realtà un conflitto di potere. In diverse circostanze storiche, soprattutto in coincidenza con periodi di dissoluzione sociale e di guerra, le donne si sono emancipate dalla reclusione famigliare, dimostrando di saper svolgere benissimo e autonomamente, ruoli “maschili”. Dopodiché, tante grazie… quando gli uomini sono tornati dal fronte o hanno raddrizzato le loro fortune , hanno ricacciato le donne in condizioni di dipendenza, matrimoniali o ancillari. La donna autonoma è stata allora vissuta come minaccia. La sua sessualità come insidia. La sua cultura, le sue capacità sociali, il suo istinto solidaristico, sono state rivestite di “malvagio” e di “rapace”. Chi (da maschio) di queste donne avvertiva comunque il fascino prepotente, viveva il rapporto con loro come scontro di potere, “fatalmente” distruttivo di entrambi. La mitologia della Donna Vampira e quella della Vamp del film Noir sono due lati della stessa identica medaglia. Nella donna esotica, in particolare (La vampira indiana), si proietta sul femminile anche il colonialismo: la donna VA colonizzata. Niente di più lontano dall’idea illuministica secondo cui la donna era presidio della cultura e della civilizzazione, cioè l’esatto contrario della Donna Selvaggia , compagna dei Lupi, fantasma che riemerge nelle epoche barbariche e incivili, proiezione capovolta di paure maschili, di maschi misogini, e persino di maschi omosessuali . La fobia ecclesiastica contro la sessualità, non è concepibile se non la si considera come caratteristica di una società “per soli uomini” che nella Donna vede il Peccato e mentre la santifica come Madre, la reclude socialmente e la respinge come compagna di vita.

Postato martedì, 5 ottobre 2010 alle 13:28 da Gianfranco Manfredi


IL CASO EDITORIALE/
A novembre uscirà per Rizzoli “I Promessi morsi”, romanzo scritto da “Anonimo Lombardo” (con “seri studi storico-letterari alle spalle”…). Il misterioso autore ha riscritto il capolavoro del Manzoni in versione “gotica”, con tanto di vampiri in “stile Twilight”…
Tullio De Mauro commenta con Affaritaliani.it: “Sono un po’ perplesso sull’operazione, ma non esprimo giudizi se prima non ho letto il romanzo…”. Ed è sfida a distanza con Umberto Eco: anche lui ha appena “modernizzato” “I Promessi Sposi” (senza vampiri, però)…
C’è poi da aggiungere che la Giunti ha già venduto 50mila copie con “Promessi vampiri”…
TUTTI I PARTICOLARI IN ANTEPRIMA
http://www.affaritaliani.it/culturaspettacoli/i_promessi_sposi_vampirizzati_da_scrittore_anonimo051010.html

Postato martedì, 5 ottobre 2010 alle 13:38 da I Promessi Sposi "vampirizzati" dall'Anonimo Lombardo


Un film essenziale, che mi propongo di vedere in questi giorni (appena avrò finito di scaricarlo) è da questo punto di vista “Rapsodia Satanica” di Nino Oxilia (1915) che rivisita la figura di Faust in chiave femminile. Questa è la storia, come la riporta Wikipedia: “La storia è una variazione della vicenda faustiana da un poema di Fausto Maria Martini del 1915. Una anziana dama dell’alta società, Alba d’Oltrevita (Lyda Borelli) stipula un patto con Mefisto (Ugo Bazzini), per riacquistare la giovinezza in cambio della quale però lei ha il divieto di innamorarsi. Alba è corteggiata da due giovani fratelli, Tristano (Andrea Habay) e Sergio (Giovanni Cini). Quest’ultimo minaccia di uccidersi se lei non lo amerà: lei tuttavia non s’interessa a Sergio, il quale dunque si uccide, e si prepara a sposare Tristano. A questo punto però Mefisto torna per riprendersi la giovinezza che aveva concesso e restituendo la vecchiaia ad Alba che non aveva rispettato il patto.” Pensate un po’ al nome della Femme fatale: Alba d’Oltre Vita! Prima del Dracula cinematografico, è la Vampira la vera protagonista del Dark Screen.

Postato martedì, 5 ottobre 2010 alle 13:39 da Gianfranco Manfredi


Di lombardi, anonimi o autonominatisi, non se ne può più. Lo dice uno che vive in Lombardia da quando aveva otto anni e non riconosce più questa disastrata regione. Mi viene da ripensare al mio Magia rossa, che oggi leggo con sguardo diverso: la fine della classe operaia e l’ascesa della nuova borghesia e piccola borghesia degli anni 80, sono stati anche sul piano culturale fenomeni devastanti. Se questo è un modello per l’Italia, siamo davvero rovinati.

Postato martedì, 5 ottobre 2010 alle 13:47 da Gianfranco Manfredi


Questo discorso mi riporta alla mente il fumetto di Pat Mills e Simon Bisley “Il dio cornuto”,opera fantasy che tratta dei miti celti.Il protagonista Slaine MacRoth ad un certo punto si trova di fronte alla dea Danae incarnazione della terra e apprende di come un tempo tutte le società fossero matriarcali.Era l’era del dio cornuto,compagno mortale della dea e simbolo della natura.(Nonchè di un atteggiamento più semplice verso la vita,che includeva anche l’accettazione dei suoi lati meno piacevoli come normali)I druidi però ne demonizzarono la figura,sostituendola con quella del dio sole (arrogante e padrone nei confronti della dea) e abbatterono il matriarcato.Slaine decide di ripristinare quei tempi incontrando l’ostilità dei druidi.Uno di essi ricordando l’era del dio cornuto dice:”Nei tempi in cui le donne regnavano si indugiava in pratiche insolite e innaturali!Tutte le donne di una tribù erano madri di qualche figlio,ma non esisteva padre!Non esisteva nemmeno la parola!Eravamo trattati come oggetti!”
Pur trattandosi di un opera di finzione mi sembra che le parole del druido riassumano molto bene l’atteggiamento di diffidenza del maschile verso il femminile.

Postato martedì, 5 ottobre 2010 alle 13:52 da Francesco Moretta


Già! Ieri si è appreso che il druidismo è stato appena riconosciuto in Inghilterra tra le Religioni riconosciute dallo Stato. Sarà vero o è una delle tante fole che girano? Intanto i druidi lombardi si preparano a sostituire la matriarca Letizia Moratti, la quale non trova di meglio che offrire loro garanzie affermando in conferenza stampa che “I clandestini vanno azzerati” = persone come cifre. Che poi a Milano non funzioni più un cazzo, non costituisce problema. Si continua a prelevare l’acqua del Po con la sacra ampolla, mentre il Seveso esce dai tombini e allaga la città. Ma lo sconforto raggiunge l’apice quando si leggono le dichiarazioni dei redditi dei tre candidati dell’opposizione. Il più povero guadagna circa 500.000 euro l’anno. Gli altri due sono sopra gli 800.000 . Un ceto sociale pari allo 0,01 % della popolazione si arroga il diritto di governare per tutti. Cosa volete possa fare un multimiliardario per i precari? Come volete che possa capire la vita di uno zingaro? Quale senso sociale potrà mai avere? Un consiglio, per chiunque abbia la fortuna di vivere altrove: non ci venite in Lombardia, tantomeno a Milano. Comportatevi come il protagonista del bellissimo romanzo di Tullio Avoledo “L’elenco telefonico di Atlantide” (Einaudi) che “promosso” da Pordenone a Milano dalla sua azienda, rifiuta ostinatamente di essere trasferito/deportato in questa città di arroganti nullità. L’attualità dei Promessi Sposi (quello vero) è che a Milano c’è la peste.

Postato martedì, 5 ottobre 2010 alle 14:21 da Gianfranco Manfredi


“I promessi sposi” co’ li vampiri e li zombi? E allora rifamo li Malavoglia co’ li mustri marini tipo Mobi Diccke che se stanno a magnà li piscatori siculi. E er barone Rampante co’ l’arbori carnivori. E famo puro la Divina Cummedia con la guera tra i tre gironi ‘nfernali tipo fantasy. Sei personaggi in cerca de l’autore loro lo famo co’ li androidi e lo scienziato pazzo. E la Girusalemme Libberata attualizzata a li giorni nostrani co’ i ebbrei e li palestinesi che se stanno a scannà. E riscrivemo er Partiggiano Gioni de Peppino Finoglio co’ li nazzisti zombi e li partiggiani cacciatori de li vampiri ripubblichini.
Ahò! E’ un’dea forte: basta pijà un classico de la litteratura, bello o brutto che cazzo ce ne frega, e lo rifamo tipo orror. Che cce vole?
E quanno er pubblico se sarà scojionato, ne inventamo n’altra, de ’ste fregnacce. Anzi: portamose avanti cor lavoro e pensamo già a la prossima.
Ve va bbene Se questo è un uomo ambientato nel reame de le fate?

Postato martedì, 5 ottobre 2010 alle 14:32 da luciano / idefix


Mi assento per un po’ dal dibattito, causa influenza non vampirica, ma comunque fastidiosa. Non potrò purtroppo nemmeno partecipare a Giallo Luna questo fine settimana perché sono davvero cotto. Mi spiace perché contavo di conoscere personalmente il Vergnani, però ogni tanto anche uno stachanovista deve staccare. A presto.

Postato mercoledì, 6 ottobre 2010 alle 16:50 da Gianfranco Manfredi


Cara Gianfranco,
auguri di pronta guarigione.
Cerca di riprenderti in fretta… che tra qualche giorno dovrai affrontare il dibattito sul post dedicato a “Tecniche di resurrezione”.

Postato mercoledì, 6 ottobre 2010 alle 22:37 da Massimo Maugeri


Oggi sarebbe bello parlare di mostri finti e vampiri e zombies, invece non ci riesco. I mostri veri vanno al lavoro e al supermercato e ai pranzi di famiglia e guardano una bambina infilata nel corpo di una donna e pensano sia roba loro. Una cosa loro.
Scusate, forse sono inopportuna.

Postato giovedì, 7 ottobre 2010 alle 15:09 da Giusy De Nicolo


Cara Giusy, questa storia agghiacciante non l’avevamo commentata finora e abbiamo fatto bene, credo, a non intrappolarci nei soliti gialli di dozzina giornalistici che ci infestano le idee. Credo sia capitato a tutti noi, dopo le prime confuse notizie, infilare subito la pista frettolosa del solito discorso su internet, su FaceBook, sulle adolescenti che scappano di casa perché magari qualche sconosciuto maniaco le ha invischiate nella rete e grazie alla rete… poi arriva il bagno di realtà, che è la solita, agghiacciante, antica perversione nascosta nella tanto decantata famiglia, e questo ci fa anche più male, per la consapevolezza di come i nostri timori siano sempre rivolti al futuro e alle trasformazioni anche tecnologiche, mentre ci rifiutiamo di vedere quanta allucinante, disumana, folle ferocia e stupidità ancestrale stia in questo passato che non vuole sparire, che pare impermeabile ai cambiamenti, e che resiste come piaga nascosta. Un vecchio, un maschio, un parente. E tutti a gettare sempre l’allarme sugli adolescenti. C’è da starci male, davvero.

Postato giovedì, 7 ottobre 2010 alle 19:15 da Gianfranco Manfredi


Appunto: gli adolescenti non c’entravano niente. Se non come vittime. Anzi: come vittima.

Postato giovedì, 7 ottobre 2010 alle 21:45 da luciano / idefix


Scusate se m’intrometto, ma pare che questa storia di ” folle ferocia e stupidità ancestrale” ruoti attorno al desiderio maschile del corpo adolescente e somigli un po’ alla storia di Laura Palmer >
.
http://www.youtube.com/watch?v=-tsIAd5JNQQ&feature=related
.
[Al funerale] Amen! Che c’è da guardare? Cosa state aspettando? Siete rivoltanti. Maledetti ipocriti, siete rivoltanti! Lo sapevate tutti che Laura era nei guai, ma nessuno ha fatto niente. Nessuno di voi brava gente. Volete sapere chi ha ammazzato Laura? Siete stati voi! Siamo stati tutti. E le belle parole non la riporteranno in vita, risparmiate le preghiere. Lei comunque ne avrebbe riso. (Bobby Briggs)- Così in Twin Peaks, nella realtà non vi sono parole per spiegare il Male, che resta un mistero, più che un enigma. Chi saprà scongiurarlo ?

Postato sabato, 9 ottobre 2010 alle 12:07 da Gianni De Martino


Il nuovo contributo di Gianni é molto stuzzicante. Mette in questione, in certo modo, quella distinzione “di quieto vivere” che tutti noi facciamo tra fiction e realtà vissuta. Non si tratta solo di come la fiction paia a volte assumere un tono profetico o di monito, ma anche di come la realtà si esprima in fiction. Restiamo regolarmente stupiti quando dei racconti inventati trovano riscontri in fatti reali, forse anche perché non siamo più abituati a riflettere su quanto la realtà pesi “costitutivamente” sulla fiction. Nell’esame di un romanzo o di un telefilm riusciamo a cogliere più facilmente questo “carico ingombrante” se il romanzo o il telefilm si propone esplicitamente come “racconto sociale”. Questa “facilità” è una trappola, in molti casi. Ciò che resta fuori, dal racconto puramente sociale, è in genere proprio quel “mistero” di cui parla Gianni. Esco dall’argomento del delitto di Sarah, e faccio un esempio che non c’entra nulla con quella vicenda, ma che può illuminare questo rapporto tra fiction e realtà. Cito cioé un frammento di un articolo pubblicato oggi dalla Stampa nella rubrica “cavouriana” di Giorgio dell’Arti, come sempre molto interessante e piena di stimoli. Sentite: La marchesa Giulia di Barolo che aveva ” dedicato la sua vita ai miserabili e ai pezzenti, per scontare i secolari privilegi degli avi, e pareggiare il conto che ognuno deve con la propria coscienza”, pigliava le puttane e le faceva diventar monache, sottoponendole a penitenze indicibili (tipo 70 giorni di digiuno all’anno) ed esortandole a dilaniarsi le carni da sé, se davvero volevano meritare davanti a Dio. Quelle, parecchie volte scappavano, o finivano in manicomio, o s’ammazzavano. Confermando d’essere viziose. Ma certe volte pure, effettivamente, trovavano pace nella clausura. E quindi forse no, non si trattava di vizio.
Non è questa un’incredibile storia dell’orrore? Ma non lo è diventata, in fiction. La storia della Monaca di Monza, narrata dal Manzoni, è tanto “sociale”, quanto depurata dalla ben più cruda realtà (in pieno ottocento, non nel Seicento) di simili iniziative “benefiche” e piene di buone intenzioni . Di fronte a QUESTO orrore sociale, la nostra idea di VIZIO traballa. L’intervento pietoso “civile” pare riprodurre e persino moltiplicare quella “stupidità e ferocia ancestrali” di cui non riusciamo a liberarci, e nelle quali la nostra stessa Morale torna a rinchiuderci, facendoci al contempo dubitare della Morale stessa, così esposta alla contraddizione. E’ sempre in questo spazio traballante che si installa la fiction più coraggiosa, quella che non fa sconti, che non suggerisce scorciatoie, che sa quanto sia esile il confine tra Bene e Male, tra propositi di Cura Sociale e Aggravio di Pena. Questo spazio insidioso del narrare, viene spesso allontanato da chi alla scrittura (e alla lettura) chiede soltanto “conforto” , non “inquieta ricerca”.

Postato sabato, 9 ottobre 2010 alle 14:05 da Gianfranco Manfredi


Anche se o proprio perché non c’entra nulla con quanto discusso finora, mi permetto di consigliare la lettura di un libro davvero godibile, appena uscito presso l’editore milanese “Excelsior 1881″ . Trattasi dell’autobiografia del dandy Boni de Castellane “L’arte di essere povero”. Diventato ricco grazie al matrimonio con un’ereditiera americana, de Castellane dava in quel di Parigi mirabolanti party cui partecipavano tra gli altri, Sarah Barnhardt, Eleonora Duse, D’Annunzio, Cocteau e Oscar Wilde. Un divorzio e una cospirazione parentale, lo ridussero in miseria. La sua biografia è un’ironica , sapientissima invettiva contro il culto borghese del denaro, che fa impallidire il buon Carletto Marx. Unico neo (percepibile a distanza): il suo testo più che istruirci all’arte di essere poveri, ci istruisce a non pagare i conti, continuando a permetterci il meglio di tutto. Ora: solo a distanza di un secolo ci è diventato chiaro che il vero segreto del neo-capitalismo e della neo-borghesia è appunto l’arte di vivere in debito. Tant’è che il mondo occidentale nel suo insieme sta crollando sotto il peso di debiti non onorati. Il testo, in questo con-testo, risulta tanto più esemplare. Certo de Castellane questa prospettiva di sviluppo non se la immaginava neppure lontanamente. Sono certo che Gianni troverà sublime questo libro. Io confesso di non riuscire a interrompere la lettura tanto arguta e trascinante è la prosa. E confesso anche di trovarvi consolazione (sarcastica) nel momento di dissoluzione politica e sociale che stiamo vivendo (soprattutto in Italia). La consolazione, in questo caso, non risulta soltanto dalla incolmabile differenza tra la prosa raffinata e l’ esprit de vie di de Castellane e l’arcigna brutalità di quanto si vede e si legge attualmente, ma sta anche nel misurare quanta ingenuità abbia regnato e regni ancora negli spiriti liberi e libertini, sempre pronti a far carte false pur di non precipitare nello sconfortante abisso che la Storia ci spalanca ritualmente sotto i piedi. Ma dopotutto non si vive di solo orrore e ogni tanto bisogna “ricrearsi”, anche a costo di raccontarsi delle palle . Quanto meno, Boniface Conte di Castellane, che si permetteva ogni vizio “elegante”, era immune dalle rovinose propensioni morali della Marchesa Giulia di Barolo.

Postato sabato, 9 ottobre 2010 alle 18:20 da Gianfranco Manfredi


C’è anche un altro libro, appena uscito, che è più pertinente consigliare: un’antologia di saggi a cura di Gabriele Mina “Elephant Man. L’eroe della diversità. Dal freak show vittoriano al cinema di Lynch” (Le Mani). Vedete cosa succede quando uno non sta molto bene? Con la scusa del letto e della pause obbligate dal lavoro, si legge. Non star tanto bene, fa molto bene. Sarebbe bene sentirsi non troppo bene più spesso.

Postato sabato, 9 ottobre 2010 alle 19:32 da Gianfranco Manfredi


Grazie a Gianfranco rileggo, qua e là, il libro del nostro caro conte de Castellane… Proust lo prese a modello di Robert de Saint-Loup in ” A la recherche du temps perdul”.
Ho ritrovato “Larte di essere povero” in biblioteca, accanto a un altro libro: “Una notte al Majestic” dello storico inglese Richard Davenport-Hines ( edizioni Sylvestre Bonnard, Milano 2009).
Così il piacere di leggere ci porta verso la Belle Époque …
E’ già molto triste vivere in tempi di crisi e non star tanto bene ( ho anch’io l’influenza) , occorre anche resistere resistere resistere alla tentazione di iscriversi al club dei nostalgici di Marcel Proust e di Boni de Castellane ? :-)

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«Les livre ! Ah ! Les livres ! Ils sont comme l’argent : on aimerait pouvoir les jeter par la fenêtre.»
[ Parafrasando Boni de Castellane: «Les femmes ! Ah ! Les femmes ! Elles sont comme l'argent : on aimerait pouvoir les jeter par la fenêtre.»[ Boni de Castellane ]

Postato sabato, 9 ottobre 2010 alle 20:42 da Gianni De Martino


Scrive proprio oggi l’amico Marco Baldino: ” La civiltà, il grande concorso degli spiriti, è una macchina architettonica di potere, non l’atelier dove gli intelletti produco il senso liberamente, gaiamente e con genio. La creatività artistica e il pensiero tendono piuttosto a forzare …il limite, a cercare il senso nella rottura – per questo le opere appaiono oscure. Le opere che risultano oscure, sono quindi tali perché non ancora integrate nella griglia del grande frantoio civilitario (molte le qualità di olive, uno solo l’olio che esce dalla spremitura). In questo senso – concordo – il pensiero (non la cultura, che è appunto la sistemazione tassonomica delle forzature del “senso comune”) ha una funzione non omologante”.
Si potrebbe dire lo stesso di quella puttana di Letteratura, la cui funzione ( oltre alla… “sistemazione tassonomica”) pare proprio quella di tranquillizzare, confortare e affabulare, mostrando il mondo come non è affatto. Altra cosa è, talvolta, la scrittura come “inquieta ricerca” ( Manfredi), senza la consolazione di alcuna… religiosa e confortante sistemazione tassonomica. :-)
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Les livre ! Ah ! Les livres ! Ils sont comme l’argent : on aimerait pouvoir les jeter par la fenêtre.»[ Parafrasando Boni de Castellane ]

Postato sabato, 9 ottobre 2010 alle 20:55 da Gianni De Martino


ERRATA CORRIGE
non l’atelier dove gli intelletti producono il senso liberamente, gaiamente e con genio.
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Ho ritrovato “L’arte di essere povero”

Postato sabato, 9 ottobre 2010 alle 20:59 da Gianni De Martino


Evidentemente, sono giorni in cui non si sta bene: Manfredi con l’influenza, io con una lombosciatalgia che mi fa arrancare come il gobbo di Notre Dame zoppo a una gamba e ferito a quell’altra.
Oggi ho preso in libreria la ristampa (Coniglio Editore) di Cybersix, un fumetto degli anni Noventa che amo tantissimo. Scritto da Carlos Trillo e disegnato da Carlos Meglia, ha anche dei risvolti vampireschi (del tutto originali). Uscì con la Eura, sia in albi mensili che in episodi più brevi inseriti in Lancio Story. Era una saga molto particolare: colma di riferimenti letterari (da Pessoa a Borges a Dick a Chandler, per dirne solo quattro), mescolava fantascienza e parodia, horror ed erotismo, comico e thrilling, politico e poliziesco, supereroine e adolescenti, trame audaci e gag, psicopatici nazisti e giornalisti coraggiosi, clonazione e romanticismo, ironia e sarcasmi, bianco e nero negli episodi lunghi e colori in quelli brevi. Ora Coniglio ristampa l’intera saga con una veste grafica che rende onore alla qualità dell’opera. Finora siamo arrivati al terzo volume.

Postato sabato, 9 ottobre 2010 alle 21:40 da luciano / idefix


Cari amici, una serie di problemi familiari e personali mi hanno reso difficile, in questi ultimi mesi, continuare a prender parte allo scambio. Anche se ho via via occhieggiato, con grande interesse, i temi dibattuti. Molto bello – come al solito – lo spunto di Gianfranco sul capovolgimento di prospettiva tra vampirismo e sessualità predatrice, che meriterà esplorazioni e approfondimenti.

Tra le corse di questa estate mi hanno fatto compagnia un po’ di classici: e proprio nello spirito di un dialogo che continua, vi rinvierei a questo pezzo http://www.carmillaonline.com/archives/2010/10/003643.html messo in linea oggi. E’ il frutto di una ricerca che ha sorpreso me per primo – non perché creda che nessuno vi abbia pensato prima, ma perché la materia è rimasta fuori dai repertori vampirologici. Prova di quanto, in fondo, resti da scavare.

Postato sabato, 9 ottobre 2010 alle 22:06 da Franco Pezzini


Malanni e malesseri vari conducono a vertigini romantiche… la parola “vertigine” compare spesso nel mini-saggio di Franco, a sua volta vertiginoso nel percorso tra i simboli, nel confronto a specchio tra Carmilla e Alice, essere stesse, ciascuna in sè, specchi e “oltre lo specchio”. Una notazione mi ha colpito. La Vampira non è la donna bambina, ma quella cresciuta. La giovane è maschera della vecchia (come non pensare a Ligeia, alla regina cattiva di Biancaneve, a Satanik?). C’è nell’infanzia rappresentata un aspetto sostanziale di infanzia negata e/o rimossa. Similmente andrebbe dunque letta l’immagine demoniaca della bambina felliniana di Toby Dammit, citazione di analoga bambina di Mario Bava, presente anche in un episodio dell’horror vampirico della Hammer “La casa che grondava sangue”. L’episodio ha per protagonista Christopher Lee , in un altro episodio del film figura Peter Cushing, e dato che sta per uscire da Gargoyle un saggio pezziniano su Lee-Cushing, sono impaziente di leggere cosa scriverà Franco di quell’episodio, che in effetti ha per tema il terrore adulto dell’infanzia, il sadismo (paterno) nei confronti dell’infanzia, radicato nell’ orrore per il manifestarsi della sessualità. Tema al centro anche di Carrie di Stephen King. La bimba manifesta la sua natura di strega dopo le mestruazioni. La bimba è PURA finché non diventa adulta. Ma la sua stessa crescita la CONDANNA, agli occhi del maschio terrorizzato dalla sessualità della donna adulta.

Postato sabato, 9 ottobre 2010 alle 23:21 da Gianfranco Manfredi


E proprio con quel tema (la ragazza sotto la doccia con la prima, “contaminante e pericolosa”, mestruazione) si apre il film “Carrie” di Brian De Palma.
E per certi versi cos’è la fissazione modaiola della depilazione femminile del pube e delle ascelle se non una rimozione del fortissimo richiamo sessuale adulto (visivo e odorifero) del pelo? Cos’è se non una specie di simbolico tentativo (rimosso, nascosto, celato, negato, ammantato di altre motivazioni) di bloccare le donne a uno stato pre-segnali di maturità sessuale e pre-adolescenziale “puro” e non “sporcato” dal pelo?
Non so se sia il caso, qui in questo post, di entrare in discorsi così esplicitamente erotici ma (a mio avviso) certi richiami fortissimamente e sfacciatamente sessuali vengono gettati via da una moda assurda, levigata e asettica. Che invece ci spiattella addosso altri feticci del tutto finti che prendono il posto di quelli veri e carnali, quelli che fanno battere il cuore e correre il sangue nelle vene di uomini e donne in carne e ossa. Il “mondo della moda” si presta a trame e sottotrame orrorifiche spaventose. E mi piacerebbe indagare nel passato della moda, agli albori del Novecento, per scoprire come fu che (pian piano) sui corpi veri si impose la raggelante finzione degli “stilisti”-sarti.

Postato domenica, 10 ottobre 2010 alle 09:11 da luciano / idefix


Beh, Luciano, bisognerebbe risalire assai più indietro, quantomeno a quel Settecento dell’apparire, quell’erotismo mortuario di bambole e di automi che Fellini ha rappresentato da par suo nel Casanova.

Postato domenica, 10 ottobre 2010 alle 09:31 da Gianfranco Manfredi


E gira e volta quel secolo (il Settecento) si rivela sempre un’epoca cruciale.

Postato lunedì, 11 ottobre 2010 alle 08:42 da luciano / idefix


Ho visto due film horror dei primissimi anni 70 (“La verità secondo Satana” e “Delirio caldo”) di Renato Polselli, con la sua star di riferimento Rita Calderoni (personaggio misteriosissimo, che si ritirò dal cinema a soli 27 anni , forse meno). Su Polselli avevo letto qualche breve saggio, però non lo conoscevo affatto come autore. Essendo per solito classificato come un regista di sexploitation (più avanti negli anni 70 girò anche dei porno) non trovavo particolarmente urgente vedere i suoi film, che, a quanto risultava dalle critiche, avevano “sceneggiature sconclusionate”. Per cui mi sono visto questi due film come quando si arriva a raschiare il classico fondo del secchio. Invece ho avuto una gran bella sorpresa. Non che i film siano dei capolavori, intendiamoci… la qualità della recitazione è notevolmente sotto la media tollerabile ( a parte Rita Calderoni, che a dispetto di certe critiche, è particolarmente intensa). Gli allucinanti costumi anni ‘70, con quelle sgargianti camicie a fiori e i colletti a punta, nello stile “pettinato” romano, non si reggono proprio. Però l’impianto generale, le sceneggiature, la stravaganza provocatoria, la grande varietà stilistica messa in campo (scene girate al naturale, quasi documentaristicamente, come nello stile dei contemporanei americani Romero, Hooper, Craven , si alternano a situazioni astrattamente pop di scuola Bava/Argento, a deliranti incursioni psichedeliche e a primi piani contro il muro che ricordano Godard) , insomma tutto ciò fa di Polselli l’unico autore italiano davvero underground nel contesto dell’horror del periodo. In “La verità secondo Satana” Polselli mette in bocca al protagonista (uno scrittore inquieto e schizoide, perennemente suicida e reviviscente) una lunga dichiarazione di intenti che esprime come in nessun altro film, una visione coerente di estetica trash. Lo scrittore raccoglie dal cestino tutti i frammenti di carta scritta che ha appallottolato e gettato via, dichiarando che la sua poetica sta negli scarti, che è su quello che si butta via che bisogna lavorare. Il suo stesso film è fatto di frammenti… proprio quelle scene che normalmente si tagliano e si buttano via perché eccessive, e dunque per pudore, o perchè venute male, dunque per imbarazzo. Mettendole tutte insieme però si anima un caleidoscopio davvero frastornante e provocatorio, che mescola alto e basso, delirio intellettuale e messe in scena “plebee”. Insomma, a mio avviso, un regista davvero da riscoprire e da accostare più che a Jess Franco a Jean Rollin, altro regista horror underground genialmente sregolato e autore sott’altro nome di svariati porno. Vedere i film di Polselli aiuta anche a capire, per chi è più giovane, come in quegli anni si producessero film apparentemente indirizzati al sottomercato da “sesso e violenza”, ma in realtà sperimentali e d’avanguardia, negli intenti, nei risultati espressivi, nei temi e nei protagonisti (dei serial killer già devastati da deliri della personalità e sdoppiamenti molto vicini a quelli di certi eroi di King ).

Postato martedì, 12 ottobre 2010 alle 16:00 da Gianfranco Manfredi


C’è anche un punto di “La verità secondo Satana” in cui il protagonista scrittore batte sulla macchina da scrivere sempre la stessa frase… cioè un’anticipazione di Shining. Aggiungo che non deve parere strano se questi film non siano stati citati da Tarantino, perché lui il sesso “nudo” (non so se ci avete fatto caso) nei suoi film non ce lo mette mai… con tutte le sue intenzioni provocatorie, in realtà Tarantino è un neo-puritano. Del resto anche la sua descrizione della violenza è evasiva: confrontate una qualsiasi sequenza di violenza di Martin Scorsese con una di Tarantino. La prima fa balzare sulla poltrona per realismo, la seconda somiglia di più a un cartone animato di Tom e Jerry, tende sempre a sublimarsi nel “divertente”.

Postato martedì, 12 ottobre 2010 alle 16:35 da Gianfranco Manfredi


Non li ricordo per nulla, questi due film. Forse rivedendoli mi tornerebbero in mente.
E sì che in quegli anni andavo a vedere quasi tutto, roba da un film al giorno, capolavori e zozzerie, ero affamatissimo e correvo a guardar ogni cosa, dal cinema d’essai della Cappella Underground alle morenti sale di periferia, bulemico ma anche cercando di documentarmi. E così un piccolo buffo episodio è collegato a un film francese del 1969, “La fiancèe du pirat” di Nelly Kaplan (moglie del regista Abel Gance). Del film (una commedia ironica e bizzarra) avevo letto una bella recensione mi pare sul Corriere ma in Italia lo avevano intitolato con un demente “Alla bella Serafina pieceva fare l’amore sera e mattina”. Tra l’altro la protagonista originale si chiama Marie…
Insomma, entro nel cinemino che proiettava il film: io secicenne (era il ‘70) e una quindicina di uomini. Dopo dieci minuti di proiezione i primi schiamazzi di delusione della pleba turlupinata dal titolo: nessuna scena erotica, nessun simulacro di nudo, nulla di nulla, una truffa, grida e urla.
Indimenticabile.

Postato martedì, 12 ottobre 2010 alle 18:26 da luciano / idefix


Se non ricordo male Polselli negli anni 60 aveva diretto due film sui vampiri, “L’amante del vampiro” e “Il mostro dell’opera”.Purtroppo di Polselli non ho mai visto nulla (nemmeno di Franco e di Rollin).Sarebbe interessante un recupero di quei semisconosciuti registi che animarono la stagione del gotico italiano negli anni 50/60.
P.S.Non mi sono fatto molto sentire negli ultimi giorni a causa di un forte raffreddore che insieme a tosse e insonnia mi ha messo letteralmente KO.Di positivo c’è solo che nella malattia ho potuto intrattenermi con la lettura di un antologia di racconti weird west.
P.P.S.Nella biblioteca del paesino in cui vivo,mi sono imbattuto in alcuni libri di Christopher Pike.Chi è costui? vi domanderete.Pike è un autore di horror per ragazzi (ma anche per adulti)molto attivo negli anni 80-90.Scrisse un ciclo di romanzi sui vampiri per adolescenti,che a quanto mi dicono non sono privi di interesse.Ho preso in prestito i primi titoli della saga e iniziero presto a leggerli.(Speriamo di non restare delusi)

Postato martedì, 12 ottobre 2010 alle 20:53 da Francesco Moretta


“L’amante del vampiro” in inglese è stato ribattezzato: “The vampire and the ballerina”. E’ un Bianco e Nero, castigato rispetto ai successivi, ma già indicativo del sexy-horror di Poleselli. Ho appena visto anche quello, in attesa di guardarmene uno che dal titolo sembrerebbe inguardabile : “Riti, Magie Nere e Segrete Orge del Trecento” , in inglese più sobriamente: The reincarnation of Isabel. Poi dopo un paio di giorni di sana pausa, mi vedrò “Killer Barbies contro Dracula” di Jess Franco. Pensate un po’ come sono messo… dev’essere il post influenza, occhio Francesco!

Postato mercoledì, 13 ottobre 2010 alle 00:21 da Gianfranco Manfredi


Non c’è nessuno di noi che stia bene?
Che è?
La maledisione del post del blog del Vampiro del Web?
Voi tra influenze e affini, io a casa con una lombo-sciatalgia che diole assai.
Ne approfitto per cercar di finire il romanzo per ragazzi (l’ottavo col mio Michele Crismani tredicenne).
E leggo la saga di fantascienza spaziale di Dumarest (autore l’inglese Edwin Charles Tubb, morto un mese fa a novantun anni, grande e prolifico artigiano sottovalutato dalla critica). Il ciclo (in Italia lo pubblica finalmente integrale e cronologico la Elara di Bologna, ex-Libra) è formidabile: su una trama alla Odissea (in un futuro lontanissimo, il vagabondo spaziale Earl Dumarest vuol tornare sulla Terra in cui è nato ma sarà ostacolato…perchè?…da una organizzazione interplanetaria e aiutato…perchè?…da una specie di confraternita cristiana), Tubb imbastisce un gigantesco scenario di space-opera. Trentadue romanzi (con un finale, perchè la saga l’ha conclusa due anni fa) di 160 pagine l’uno, zeppi di idee e di azione, ognuno su un pianeta diverso (le tappe del viaggio di Dumarest), tra società bizzarre e atroci capitalisti futuribili, monache e artiste, mostri alieni e pazzeschi giochi, labirinti e poeti allucinati, in una varietà di temi e di situazione strabiliante, che passa dal tragico al noir, dal comico all’erotico, dal macabro all’avventuroso, dal filosofico al cappa e spada. Pappette come Avatar possono nascondersi, gli effetti speciali del film di Cameron fanno ridere a confronto con gli scenari di Tubb.
Grande e alta letteratura? No.
Grande intrattenimento? No, perchè è intrattenimento GRANDISSIMO.
(La Elara lo pubblica in volumi di 600 pagine con quattro romanzi alla volta, siamo arrivati al quarto tomo. Solo su spedizione. 35 euro al colpo ma ne stravale il costo)

Postato mercoledì, 13 ottobre 2010 alle 09:11 da luciano / idefix


Ho letto in rete un’intervista di Poleselli, nella quale lamenta la fine delle piccole sale di periferia (le terze visioni) che erano un tempo il vero circuito dell’horror. Ricordo d’aver visto in queste sale da “due film due”, da ragazzino, i miei primi film horror, un Freda (“L’orribile segreto del dottor Hickoch”) , parecchi Bava, e film di registi semisconosciuti, ma che sapevano comunque offrire un prodotto completamente diverso da quello delle sale di prima visione. A ripensarci, oggi sembra davvero una strana società, quella degli anni sessanta, che riservava al pubblico popolare non dei prodotti medi e mediamente sconfortanti come le Vacanze di Natale, ma dei prodotti di margine e non per questo ai margini del mercato, perché un mercato ce lo avevano eccome. Nella sua intervista Polselli dà la colpa a Berlusconi, per la scomparsa di questo circuito, ma nel caso il rimprovero sembra ingiusto, perché questo circuito è purtroppo sparito in tutto il mondo. Il primo duro colpo ai “due film due” lo ha assestato il cinema porno, perché la grande maggioranza di quelle sale ha resistito qualche anno in più mutandosi in sale a luci rosse. Il che spiega anche perché certi registi horror (come lo stesso Polselli) si siano buttati nel porno: era l’unico modo per poter ancora avere un circuito. Poi è arrivato il videnoleggio: i porno era più comodo e anche meno imbarazzante vederseli a casa, e dunque le sale a Luci Rosse hanno chiuso, una dopo l’altra. Ora ci sono quasi esclusivamente multisale da circuito pilotato in cui si proiettano un paio di manciate di film , ed è impossibile per un autore di confine trovare distribuzione in sala. Eppure, una riflessione si imporrebbe: i film che milioni di filmaker nel mondo girano e mettono in rete o affidano a una miriade di piccoli Festival, non potrebbero fornire alimento a una rete di piccoli cinema gestiti da appassionati? Vederli insieme non è un modo migliore che vederseli ciascuno a casa propria? Quando Sergio Bonelli negli anni 90 organizzò i Festival di Dylan Dog, migliaia di ragazzi accorrevano per vedersi uno dopo l’altro film horror indipendenti in lingua originale (!). Ha dimostrato che il pubblico c’era, ma è stato costretto a interrompere i Festival per la protesta dei gestori delle sale che sostenevano di vedersi “rubare” pubblico, un pubblico che peraltro si guardavano bene dall’accontentare. Finito il Festival di Dylan Dog, a Milano, per vedersi degli horror nuovi, bisognava passarsi le cassette, perché le sale continuavano a non programmarli. Strano mercato quello in cui c’è una domanda, ma nessuno la soddisfa. Eppure un gestore dovrebbe saperlo che vedere i film in tanti è altra cosa che vederseli da soli, tutto è più festoso. E film creati per “fare effetto” si godono meglio quando l’effetto lo sentiamo funzionare intorno, dilatato dall’audience. A me che capita di vedere gli horror di notte (quando mia moglie che non li sopporta si è addormentata) , capita anche spesso di abbioccarmi anche di fronte alle scene più truculente. E credo capiti a tanti. Gli horror sono fatti per essere visti insieme. Possibile che al di là di qualche fugace rassegna non sia possibile vederli nemmeno nelle sale d’Essai, più che mai riservate al cinema cosiddetto d’autore? Il punto è che se non c’è circuito, non c’è nemmeno finanziamento per questi film. E l’autofinanziamento di molti filmaker (anche non dell’orrore) può andar bene agli esordi, ma poi se non si guadagna come si fa a diventare dei professionisti? Il grande circuito delle Multisale , in questo ha ragione Polselli, ha distrutto gli autori di margine. A volte si ci chiede, ma è possibile che in una cattedrale da sette, otto, dieci sale, non se ne possa riservare nemmeno una alla produzione dei filmaker? Nuovi e giovani autori portano nuovo pubblico. Senza questo nuovo pubblico il cinema non si sviluppa. E la Rete non basta. La Rete è il collettore di tutto. Un circuito “fisico” invece seleziona e sceglie, dunque contribuisce a formare un pubblico e a stabilire un rapporto duraturo e non occasionale tra il pubblico e certi autori anomali.

Postato mercoledì, 13 ottobre 2010 alle 13:19 da Gianfranco Manfredi


E’ una contraddizione enorme, tragica ma a suo modo affascinante: alcuni decenni fa, nei cinema si trovavano moltissimi più film ma una pellicola (una volta scappata) non la si poteva acchiappare più, se non miracolosamente in televisione.
Adesso tra dvd e web si trova quasi tutto ma nei cinema non si vede niente. E la produzione “media” è stata disintegrata, spazzata via: registi come Mario Bava, Lucio Fulci, Sergio Corbucci, Francesco Barilli, Antonio margheriti, Fernando Di Leo e tanti altri non avrebbero un millimetro quadrato di spazio.
Ciò che nell’editoria funziona (le piccole case vivono e lottano insieme a noi), nel cinema non esiste.
E così alcuni horror che pare siano di ottimo livello (penso a Morituris di Raffaele Picchio, in produzione da quasi tre anni) non riescono a comparire. Mentre “Vacanze di Natale scoreggione 169°”sarà sponsorizzato in tutti i telegiornali del Regno.

Postato mercoledì, 13 ottobre 2010 alle 15:46 da luciano / idefix


Quando sento la Gelmini parlare di scuola affidata ai manager, non posso non pensare che anche la discografia è stata negli anni 90 affidata ai manager (e l’hanno distrutta), le grandi catene librarie sono gestite da manager (che stanno ammazzando il libro di qualità), il grande circuito delle sale è stato affidato ai manager (e si punta soltanto sui film a incasso garantito) . I manager passeranno alla Storia come distruttori del prodotto culturale, perché non capiscono proprio di cosa si tratti, per loro è soltanto una merce da imporre a consumatori singoli. La socialità della fruizione viene regolarmente distrutta. Così sparisce ogni possibilità di vivere collettivamente un fatto culturale. La si recupera ai festival , cioè in occasioni del tutto speciali, sempre frequentatissime, ma estemporanee, come se la cultura non avesse più bisogno di sedi permanenti. D’altro canto se non ci sono neanche più sezioni di Partito sul territorio, quale interesse possono avere i politici di professione a biblioteche, librerie, sale cinematografiche di quartiere, circoli , sale concerto , teatri eccetera?Non è così in tutto il mondo. Una volta a Barcellona, avendo letto sul giornale che c’era una rassegna di cinema filippino, ci sono andato e non sono riuscito a entrare perché la sala era strapiena di ragazze e ragazzi che quei film, tra l’altro, se li vedevano in originale e coi sottotitoli. Si dice sempre che da noi queste cose non funzionerebbero, però non ci si prova neanche. Abbiamo parlato dei film horror di una volta, ma a voi sembra possibile vivere in metropoli multietniche e non poter vedere un solo film che ci parli di altre realtà culturali? Sarebbe importantissimo che ci fossero luoghi d’incontro culturali con persone che vivono nella nostra stessa città e della cui cultura non sappiamo niente. Eppure… la socialità è vissuta come un pericolo. Dietro il disprezzo per la cultura si nasconde il disprezzo per la socialità.

Postato mercoledì, 13 ottobre 2010 alle 18:57 da Gianfranco Manfredi


Ignoravo il motivo per cui Bonelli aveva smesso di organizzare gli Horror fest,gira che ti rigira il profitto schiaccia sempre la testa alla cultura.In merito ai luoghi dove vedere certi film,a Pavia tempo fa come protesta per la chiusura di alcuni cinema (al cui posto fù aperto un multisala) un cebtro sociale “Il barattolo” organizzo alcune proiezioni.Proiettarono film di Bava,Jodorowsky,Fulci,Franco,Cronenberg,Rollin e altri.Da quel che mi ricordo andò piuttosto bene,ma purtroppo mi pare che non organizzino più eventi simili ed è un peccato.
P.S.Ho iniziato il libro di Pike, “L’ultimo vampiro” e non è male.Pur trattandosi di un testo modesto,la storia è avvincente.La storia è incentrata sui tentativi di una vampira di scoprire chi le sta dando la caccia,alternati a flashback del suo passato nell’India di 5000 anni fa.(Le parti migliori,ricche di riferimenti al folclore indù e con apparizione di Krishna in persona)Non mancano i continui colpi di scena e per essere uno young adult non mancano scene forti o una protagonista ambigua (a volte feroce,a volte quasi umana un pò ricorda la Miriam Blaylock di “The hunger”)
P.P.S.Ho visto la famigerata copertina di Rolling Stones su True Blood,(quella di cui aveva parlato Gianni post fa)ebbene più che tre vampiri sembrano tre buzzurri tornati biotti e zozzi da una vendemmia andata storta.Se per il mondo questi sono vampiri selvaggi,allora tra un pò anche Winnie the Pooh sarà considerato un duro.

Postato mercoledì, 13 ottobre 2010 alle 19:54 da Francesco Moretta


Winnie the Pooh (quello vero di Milne, non la sdolcinatura disneyana) è un capolavoro zen, un testo a cui torno e ritorno senza mai stancarmi.

Postato mercoledì, 13 ottobre 2010 alle 20:37 da luciano /idefix


Su un post apposito (che si può considerare come “costola” di questo) stiamo discutendo sul nuovo romanzo di Gianfranco Manfredi: Tecniche di resurrezione”
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/10/14/tecniche-di-resurrezione/

Postato sabato, 16 ottobre 2010 alle 00:23 da Massimo Maugeri


Come ha scritto Massimo, sono occupato su un forum parallelo, però a questo resto affezionato. Spero proprio che continui lo stesso. Io ci tornerò perché mi ha stimolato quella questione delle Vamp, precedenti al “Vampiro”, per cui mi sono fatto un programmino di visione di film muti, a cominciare da Rapsodia Satanica. Se ci trovo qualcosa di interessante, non mancherò di segnalarlo.

Postato lunedì, 18 ottobre 2010 alle 18:22 da Gianfranco Manfredi


Ho appena scoperto che sul blog “Teatro dei vampiri” c’è una rubrica intitolata “The vampire guide” dedita alla riscoperta di pellicole meno note sui vampiri,tra perle e irrimediabili trashonate.
P.S.Ieri pomeriggio mi sono visto con mio fratello “Il conte Dracula” di Jess Franco.Si tratta di un film minore,con un Franco che sembra costretto a rifarsi ai film Hammer (che lui odiava).Christopher Lee qui si avvicina abbastanza al Dracula letterario come aspetto fisico,ma manca quella scintilla che avrebbe reso questo film memorabile.

Postato lunedì, 18 ottobre 2010 alle 20:28 da Francesco Moretta


RAPSODIA SATANICA

Come mi ero ripromesso, ho visto ieri sera Rapsodia Satanica (film di Oxilia con Lyda Borelli, del 1915). Quando uno si mette a vedere un film muto, spesso si prepara a una visione distaccata, puramente culturale, e può anche aspettarsi una certa dose di noia, nei lungometraggi. Rapsodia Satanica dura meno di un’ora, ma si vorrebbe vederne di più. E’ un film davvero splendido. Confrontato ad altri film internazionali, anche americani, dello stesso periodo, è incredibilmente più moderno, girato davvero alla grande, con una varietà stilistica notevolissima che va dalla citazione visiva del grande pittore “decadente” Gabriel Rosselli ad annunci di neo-realismo nelle ambientazioni sociali e nella recitazione, e perfino all’anticipazione del realismo visionario di Fellini : la bellissima scena della festa campestre con altalene deve essere entrata di prepotenza nell’immaginario felliniano. L’interpretazione di Lyda Borelli è davvero sconcertante: ondeggia tra realismo assoluto, introspezione psicologica, e pura maschera grottesca nelle situazioni in cui mostra il suo lato “cattivo” e “vampirico”. Insomma, una prova di bravura e di duttilità davvero trascinante. In alcuni momenti anticipa sicuramente la Garbo. Le luci sono favolose e già fanno capire come sul piano della direzione della fotografia il cinema italiano sia decenni avanti, all’epoca, rispetto a quello francese e americano. L’edizione che ho visto, restaurata con un meraviglioso lavoro dalla Cineteca di Bologna, presenta alcune scene a colori, ma non quei coloracci elettronici intrusivi, bensì la colorazione d’epoca, fatta a mano sulla pellicola. Detto questo, nella storia, la protagonista Alba d’Oltrevita non è una vampira in senso proprio, è un’anziana signora che dà ricevimenti pieni di giovani, perchè rimpiange la giovinezza perduta. Accetta lo scambio propostole da Mephisto: barattare la giovinezza con il divieto di amare, persino di provare amore. Il momento in cui si scatena la sessualità vampirica (in un triangolo che anticipa Jules e Jim di Truffaut) è definito appunto come sesso vorace, distruttivo, che si rifiuta all’amore, quanto alla compassione. Dimenticavo la musica (contemporanea) di Mascagni, che calza come un guanto. Lontana mille miglia da quelle fastidiose “pianole” che spesso vengono accozzate sui film muti. Alla fine… chi se lo sarebbe aspettato un capolavoro del genere? Sono davvero rimasto senza fiato.

Postato martedì, 19 ottobre 2010 alle 12:16 da Gianfranco Manfredi


THEDA BARA LA PRIMA VAMPIRA

Dopo Rapsodia Satanica, ho visto A fool there was, film americano dello stesso anno (1915) di Powell con la grande star del muto Theda Bara (anagramma di “Arab Death”), prima vampira dello schermo. Il suo personaggio si chiama infatti La Vampira. E’ una vampira metaforica, non zannuta, è Vampira in quanto Profittatrice, Seduttrice, Rovina Famiglie, Sessualmente predatrice, ladra, dilapidatrice di patrimoni altrui, corruttrice e capace di ridurre i suoi amanti a delle larve, prigioniere del vizio, dell’alcol, della più totale dissoluzione personale, fisica e psicologica. Il film è una tale esposizione di pregiudizi anti-femminili e di sciovinismo maschile a sfondo moralistico, da offendere la nostra sensibilità politically correct. Senonchè, c’è una cosa che lo salva dall’essere un film reazionario. Non si conclude con la punizione della Vampira, ma con il suo Trionfo. Ed è un doppio trionfo, perchè il pubblico idolatrerà il personaggio venefico e crudele di Theda Bara. Che dire? Inquietante. Qualche momento divertente (in modo involontario) c’è. La diabolica vampira conduce un suo amante in una vacanza erotica, dove? In Italia. Vediamo i due amanti morbidamente distesi a sorseggiare vino in un giardino tropicale, di piante grasse, felci esotiche e palmizi. Siamo a Palermo? No, il film specifica che ci troviamo a Sorento (con una erre sola). Di nuovo: nel cinema americano, è senz’altro Parigi la Capitale Mondiale dell’Eros, ma quando l’Eros da libertino si converte in distruttivo, vendicativo, feroce, allora la sua cornice ideale è l’Italia. Questo pensavano gli americani di noi, e in parte ancora lo pensano. I vampiri e le vampire non nasceranno magari in Italia, però è da noi che vengono a fare le vacanze, ci si trovano benissimo, anche alla luce del sole.

Postato martedì, 19 ottobre 2010 alle 12:36 da Gianfranco Manfredi


Volevo segnalare che a Dicembre uscirà in dvd l’horror/western “The killing box” di George Hickenlooper.Il film è ambientato durante la guerra di secessione americana e vede un soldato dell’unione indagare su una serie di brutali aggressioni che sembrano essere compiute da una banda di disertori dell’esercito confederato.Scoprirà che la realtà è infinitamente peggiore e che tutto è legato ad un antica maledizione proveniente dall’Africa.Il titolo italiano di questa pellicola del 1993 sarà “Grey knight-L’esercito delle tenebre” (giusto per continuare la lunga traduzione di pessimi titoli che in Italia affibiamo ai film stranieri)

Postato sabato, 23 ottobre 2010 alle 09:36 da Francesco Moretta


Anch’io seguo la discussione dall’altra parte (quella su “Tecniche di resurrezione”).
Ma sentivo la nostalgia di questo post.
E’ abbastanza buffo e provo a raccontarlo con una metafora:
le due band (Vampiri e Tecniche) hanno più o meno gli stessi musicisti, più o meno lo stesso genere, il medesimo produttore (Massimo Maugeri), gli stessi autori dei testi e delle musiche, lo stesso potenziale pubblico, uguali studi di registrazione ma…
…le jam session che fermentavano con Vampiri stentano a decollare. Forse perchè chi suona sembra incravattato e indoppiopettato?

Postato sabato, 23 ottobre 2010 alle 11:24 da luciano / idefix


Credo che la risposta sia più semplice, Luciano. Molti che hanno postato messaggi su Tecniche hanno confessato di non averlo ancora letto. Dunque forse bisogna lasciar loro un po’ di tregua. Esito molto a intervenire a getto continuo, perché finirei per soffocare la discussione con autodichiarazioni, e si sa, spesso un autore è pessimo giudice di se stesso e del suo lavoro. Solo le testimonianze di lettura dei lettori riescono a dargli il senso di cosa è arrivato di quello che ha scritto. Spesso scopre anche risvolti cui lui stesso non aveva pensato. Una volta al festival di Venezia a Francis Ford Coppola capitò questo: durante un dibattito pubblico sui suoi film, un ragazzo si alzò e propose una sua lettura di certi momenti di Apocalipse Now. Coppola commentò così: “Io le cose che dici non ce le ho messe, ma se tu le hai viste, vuol dire che ci sono.”

Postato sabato, 23 ottobre 2010 alle 15:58 da Gianfranco Manfredi


Segnalo: Europa stregata sulle orme di Dracula
http://viaggi.repubblica.it/articolo/europa-stregata-ecco-halloween/222227?ref=HRERO-1

Postato sabato, 23 ottobre 2010 alle 17:09 da sally


Mi sa che è una risposta sensata.
Intanto, suggerisco a chi capita qua il romanzo che più mi ha entusiasmato in questi ultimi anni: il capolavoro assoluto del Novecento “Sopra eroi e tombe” di Ernesto Sabato, novantanovenne argentino. Un libro che è tante cose insieme: enigmi e omicidi, una storia d’amore romantica (ma di quando romantico è una parola pericolosa) tra giovanissimi, un’immersione nel gotico latino-americano tenebroso con richiami vampireschi e quasi lovecraftiani e hodgsoniani, un affresco politico-sociale della Buenos Aires in preda alla dittatura militare, un romanzo filosofico, una specie di manuale su come salvarsi (o tentare di salvarsi) l’anima, una storia familiare che fa paura perchè mette in scena un personaggio terrificante, una scrittura magistrale.
Un romanzo esaltante.
Così come tutta l’opera di questo maestro della narrativa latino-americana. Ad esempio “Il tunnel”

Postato sabato, 23 ottobre 2010 alle 21:06 da luciano / idefix


@ Gianfranco
Il post su “Tecniche di resurrezione” rimane sempre disponibile e fruibile. Sarebbe bello se i futuri lettori (o coloro che stanno leggendo il libro in questi giorni) potessero lasciare un messaggio, a lettura completata.

Postato sabato, 23 ottobre 2010 alle 23:33 da Massimo Maugeri


Recentemente mi è capitato di effettuare qualche ricerca sui fumetti francesi di argomento vampirico,scoprendo che in tempi recenti sono stati prodotti un certo numero di titoli sull’argomento.Si va dal crossover letterario “Sherlock Holmes e les vampires de Londre” al dark fantasy “Requiem-chevalier vampire”,da opere che hanno un appeal commerciale “Sable Noir” ad altre che invece conservano una loro originalità come “Le manoir des murmures” (paragonabile per immaginazione e creature a certi film di Guillermo del Toro)Non mancano nemmeno le celebrazioni alla versione canonica del vampiro e ne è un buon esempio “Le prince de la nuit” di Yves Swolfs.Scavando nel passato poi si incontrano opere davvero bizzare come “Le bal du rat mort” di Jan Bucquoy e Jean-François Charles,del 1980 e ambientato ad Ostende.”Le bal du rat mort” è un ballo in maschera tipico del carnevale ad Ostende.Durante questa festività l’ispettore di polizia Jean Lamorgue si trovera ad indagare su deli omicidi in cui le vittime sono state dissanguate mentre un esercito di ratti sta invadendo la città.Solo dopo numerose e allucinate peripezie Lamorgue scoprirà di essere l’assassino,un mezzo-vampiro che può controllare i ratti.Un opera bizzara,inclassificabile e purtroppo non facilmente reperibile.
P.S. Stamattina ho scoperto che la Stampa alternativa ha pubblicato “Lord Ruthven il vampiro” di Charles Nodier,seguito apocrifo del racconto di Polidori in cui il vampiro agisce in Italia.Il volume conta introduzione e postfazione ad opera di Fabio Giovannini,il racconto di Polidori è un appendice dedicata alle rappresentazioni teatrali,filmiche e fumettistiche de “Il vampiro”.
P.P.S.Stamattina ho anche recuperato presso una libreria che rivende testi usati i numeri che mi mancavano per completare l’edizione Star comics de “La tomba di Dracula”.Giusto i tempo per Halloween,almeno avrò qualcosa di interessante da leggere!

Postato lunedì, 25 ottobre 2010 alle 18:53 da Francesco Moretta


Buon Halloween a tutti.

Postato domenica, 31 ottobre 2010 alle 09:37 da Francesco Moretta


Festa che detesto per mille motivi.
Comunque, grazie e buona giornata a tutti voi.

Postato domenica, 31 ottobre 2010 alle 17:21 da luciano / idefix


Vi ricordate il corto “The horrible slowly murderer with the extremely inefficient weapon” che Gianfranco aveva segnalato tempo fa?Il regista Richard Gale ne ha girato un seguito “Spoon vs spoon”.Si trova su youtube e fa tremare… dalle risate!

Postato sabato, 6 novembre 2010 alle 14:32 da Francesco Moretta


Che coincidenza: proprio pochi minuti fa ho consigliato “The horrible slowly murderer with the extremely inefficient weapon” a un amico di Facebook.
Non sapevo del seguito.
Grazie: lo guardo domani.

Postato sabato, 6 novembre 2010 alle 22:18 da luciano / idefix


Ho ricevuto oggi e segnalo subito, Lord Ruthven il Vampiro di Charles Nodier, tradotto e curato da Fabio Giovannini per Stampa Alternativa. In appendice Il Vampiro di Polidori e un interessante inserto illustrato e a colori con una galleria di 30 vampiri da Varney fino al cileno Conde Vrolock, eroe di una novela televisiva iniziata alla fine del 2009 e tuttora in onda e che chissà quando arriverà da noi. Si svolge alla fine dell’800 a Santa Barbara in Cile. Vrolock può esporsi al sole ed è “tormentato da amori impossibili”. Giovannini davvero non se ne perde uno di vampiri!

Postato lunedì, 8 novembre 2010 alle 18:32 da Gianfranco Manfredi


Già,oltrettutto si vocifera che Giovannini possieda anche un immensa collezione di materiale dedicato ai vampiri (libri,film,fumetti,manifesti ecc,ecc) situata da qualche parte nel Nord Italia.Di recente ho letto la sua introduzione al secondo tomo di Varney e devo dire di averla trovata veramente interessante,Varney ha avuto sulla narrativa vampirica un influenza più forte di quanto si dice di solito. In merito a Lord Ruthven e Charles Nodier,recentemente il sito “Weirdletter” ha parlato del volume che citi Gianfranco e tra i commenti alla notizia c’è ne uno di Pietro Guarrielo molto interessante su Charles Nodier e Ruthven.

Postato lunedì, 8 novembre 2010 alle 19:49 da Francesco Moretta


Scusate,il nome è Pietro Guarriello,io gli avevo tolto una L.Per chi non lo sapesse Guarriello è il proprietario della Dagon Press,piccola casa editrice di narrativa e saggistica Lovecraftiana e weird.Dovrebbe anche pubblicare una selezione dei titoli migliori de “I racconti di Dracula”.

Postato lunedì, 8 novembre 2010 alle 19:53 da Francesco Moretta


Su Carmilla è stato pubblicato un recente articolo di Franco Pezzini sui penny dreadful e Varney,sull’ambiente e le persone che crearono e diffusero questa tipologia letteraria e sulle influenza che Varney ha avuto su opere successive.
@Gianfranco.Ti segnalo un breve ma ben realizato web-comic su Varney,l’indirizzo è http://www.feast of blood.com.

Postato sabato, 13 novembre 2010 alle 13:47 da Francesco Moretta


Grazie Francesco. Avevo notato il brillante come sempre mini-saggio di Pezzini che si trova qui:
http://www.carmillaonline.com/archives/2010/11/003676.html#003676

Postato sabato, 13 novembre 2010 alle 18:15 da Gianfranco Manfredi


Testo da linkare

Postato sabato, 13 novembre 2010 alle 19:33 da s


Ho visto la pagina segnalata da Francesco. L’intero sito è dedicato a Varney, include il testo originale e l’edizione critica annotata. E’ interessante vedere come gli appassionati abbiano esultato per questa riscoperta letteraria. Gargoyle è stato all’avanguardia nel proporre coraggiosamente Varney in Italia, per la prima volta in versione integrale. L’impegno, anche economico, è stato notevole, se si considera che era scontato che in Italia non c’era una grande attrattiva “popolare” verso quest’opera. Spero però che tutti i cultori di vampiri non vogliano farsi mancare la ghiottoneria. Non è indispensabile divorare d’un fiato i tre volumoni, si possono leggere con calma e un po’ per volta. Ma chi è sempre stato un fan dei vampiri, anche al di là della cerchia degli studiosi, non può davvero fare a meno di collezionare e tenere nella propria libreria questo classico dimenticato, ma come ha giustamente rilevato Pezzini, fondamentale per tutta la narrativa, non solo vampirica, che è venuta dopo. Personalmente sono rimasto fulminato dalla lettura del primo capitolo, che morde subito al collo, piombandoci come un romanzo moderno, subito in una situazione estrema: l’attacco (tra l’altro furente) del vampiro alla vergine dormiente. Certo viene in mente il fumetto, ma viene in mente anche il cinema… tutta la sequenza d’inizio è una carrellata “hitchcockiana” dall’esterno temporalesco al chiuso della camera della dormiente. Mezzanotte. Tuoni e fulmini. Rumori misteriosi e raggelanti. Una preparazione “di clima” così, oggi ci pare codificata , persino eccessivamente stereotipata, vista i mille film, fino alla parodia di Frankenstein jr. , ma non si deve dimenticare che era la prima di questo genere. Era dunque incredibilmente innovativo, all’epoca, questo inizio che ci piomba direttamente nel cuore della vicenda, senza premesse , né preparazione, e con i personaggi che vengono presentati in azione. Un esempio e una scuola per molti, senza dubbio. Se avete amici vampiristi, i tre volumi di Varney possono essere un regalo di Natale coi fiocchi.

Postato lunedì, 15 novembre 2010 alle 14:03 da Gianfranco Manfredi


Lieto che “Feast of blood” ti sia piaciuto Gianfranco.Ti segnalo anche un esaustiva pagina che ho trovato sul web dedicata al vampiro di Croglin Grange,caso reale di vampirismo che presenta molte somiglianze con il primo capitolo di Varney.(Difatti nel suo articolo Pezzini lo cita brevemente) Ecco il link:
http://www.answers.com/library/Vampires-cid-25323745
Ed ecco anche un disegno di Les Edwards ispirato a questi fatti:
http://www.thegenrefiles.com/2006/12/31/art-history-the-croglin-vampire/

Postato lunedì, 15 novembre 2010 alle 20:11 da Francesco Moretta


Uno studio interessante è quello di Iris Gavazzi, “Il vampiresco /Percorsi nel brutto” (Mimesis, 2005). Adesso nessuno si offenda, il “brutto” di cui si parla è l’apparenza anti-estetica del “linguaggio alternativo”. Apparenza, dico, in quanto il Brutto è da sempre parte integrante dell’estetica. Si può far risalire il concetto alla distinzione tra estetica classica greco-romana (celebrazione della bellezza come perfezione formale) ed estetica cartaginese (raffigurazione mirabile e sorprendente della bruttezza e della mostruosità). Queste categorie “nemiche” ( al “cartaginese” subentrò il “barbaro”) precedono di gran lunga la classificazione moderna che ritualmente separa Sublime da Kitsch , Letteratura Alta/Letteratura Bassa, e in termini corrivi Serie A e Serie B.
Nell’interpretazione di Iris Gavazzi, dunque, occuparsi della figura del vampiro è esplorare il territorio del “negativo artistico”. Le stesse difficoltà che abbiamo nel definire il concetto di Bello, le incontriamo nel definire ciò che è Brutto. Nel cosiddetto Brutto, si cela un movimento dinamico intensissimo, non per caso adottato in epoche diverse da movimento culturali “alternativi” e anti-conformisti. In una carrellata che va dal proto-vampiro dell’età pagana, fino agli esempi più recenti (fino al vampiro-cyborg), Iris Gavazzi confronta brillantemente modelli, figure, autori pescando a piene mani da letteratura, arte figurativa, teatro, canzone, cinema con scelte accurate e non casuali e sintesi di giudizio particolarmente acute (ad esempio in un confronto breve , ma efficace tra la poetica vampirica di Anne Rice e quella della Yarbro). Spero che questo saggio uscito anni fa sia ancora reperibile ordinandolo , comunque il sito dell’editore (specializzato in Filosofia) é : http://www.mimesisedizioni.it

Postato martedì, 16 novembre 2010 alle 10:53 da Gianfranco Manfredi


Capisco che possa essere velleitario riaprire qui il dibattito, dopo migliaia di post, ma il saggio di Iris Gavazzi che ho ritrovato ieri per caso rimettendo ordine su uno scaffale, e riesplorato subito dopo la lettura dell’intervento di Pezzini su Carmilla on line, mi ha stuzzicato a riprendere la questione “vampiri e altri orrori” su un piano diverso da quello in cui l’abbiamo finora affrontata e, se volete, anche più radicale. Sarò semplice: se analizziamo il ruolo del “brutto” come proposta estetica anti-estetica nell’arte moderna (pittura e scultura) ci tornano alla mente (ben al di là dei vampiri) una quantità di “opere d’arte” assai discusse nella storia moderna: dai ritratti cubisti di Picasso, figure scomposte e ricomposte da diversi punti di vista, accusate spesso di sindrome da Frankenstein, alla provocatoria ruota di bicicletta di Duchamps, fino ai monumenti impacchettati di Christo, o agli impiccati di Cattelan. Di fronte a queste opere, nessun critico d’arte inorridisce. Si è da tempo ammesso che tutto ciò è parte integrante, anche nelle provocazioni più smaccate, dell’estetica. Di conseguenza nessuno oserebbe affermare per esempio, che la pittura figurativa è Serie A, e quella astratta di Serie B. Lo stesso comune cittadino non-critico, è stato così negli anni spinto da un lato alla conoscenza, dall’altro a una sorta di pudore: dentro di sè magari continua a ritenere incomprensibili (“Non ci si capisce niente”) e “brutte” le opere d’arte che non corrispondono affatto a ideali armonici (classici ) di raffigurazione della Bellezza, però lui stesso non ardirebbe a dirlo per non sembrare ignorante o insensibile, non tanto e non solo al Brutto, ma all’Arte stessa. Questo cambiamento del senso estetico a livello anche di percezione comune, è stato indubbiamente più rapido e insieme più radicato nelle Arti Figurative, mentre in Letteratura stenta ancora ad affermarsi. Ci sono certo plotoni di illustri uomini di cultura e critici che da sempre “si sporcano le mani” con materiali considerati generalmente “bassi”, ma l’atteggiamento prevalente è quello di respingere aprioristicamente tutto ciò che inclini all’orrido, al ripugnante, al paradosso, all’informale, al provocatorio, ai “bassi istinti” e, in una parola, all’estetica del Mostruoso. Molti lettori comuni si rifiutano di leggere romanzi horror senza accampare motivazioni di giusto estetico, ma affermando più semplicemente: “mi fa paura. Perché provare paura, quando di fronte a un libro o a un romanzo si possono provare emozioni e sentimenti positivi?” I lettori comuni, da questo punto di vista, mi sembrano più sinceri di certi accademici, in quanto considerano ciò che preferiscono cercare e trovare personalmente in un’opera, senza con questo e per questo considerare scadente, irrilevante o secondario a priori un certo genere letterario. La critica togata ha un atteggiamento assai più ambiguo: non può non considerare come capolavori i racconti di Poe, il Dottor Jekill di Stevenson, il Giro di Vite di James per citare soltanto alcuni dei titoli/autori più riconosciuti, ma quando lo fa e lo ammette, si perita di aggiungere che la tal opera “va ben al di là del genere”, quasi si trattasse di eccezioni. Il pregiudizio verso l’apparentemente Brutto, è in realtà pregiudizio nei confronti delle istanze controculturali, alternative, oppositive che hanno costruito Letteratura ed Estetica tanto quanto la Ricerca del Bello in senso classico. Il Gotico enfatizza questa contraddizione. Muove dal mostruoso, ma in una prospettiva di elevazione spirituale. Sembra dunque contraddire la visione rozza e schematica che contrappone il Basso, il Mostruoso, il Ripugnante, l’Emotivo, l’Istintivo, il Caotico, all’Alto, all’Armonico, all’Elegante, al Razionale, allo Spirituale, e al Compiuto. Questo è uno dei motivi per cui il Gotico risulta tuttora un genere difficile, meno indagato di quanto potrebbe e dovrebbe. Questo è il motivo per cui scatta nel Critico prima e più che nel Lettore Comune , la diffidenza aprioristica nei confronti più in generale della Letteratura Horror , considerata come la più tipica rappresentazione del Cattivo Gusto, come Serie B condannata ad origine, per peccato originale, a non poter diventare Serie A se non per singole ed eccezionali prove d’artista. Ma un pensiero estetico che non consideri i percorsi del Brutto, che pensiero estetico è?

Postato martedì, 16 novembre 2010 alle 12:42 da Gianfranco Manfredi


gentile Gianfranco Manfredi, la seguo ormai da molto tempo su questo blog, anche se è la prima volta che intervengo. da appassionato del genere gotico e delle storie sui vampiri “tradizionali”, sono d’accordo con la sua disamina. ma come uscirne? quali soluzioni proporre per far sì che il pregiudizio venga superato?

Postato martedì, 16 novembre 2010 alle 13:49 da riccardo lamezia


@ Massimo Maugeri
A proposito della conclusione di Gianfranco Manfredi: “Ma un pensiero estetico che non consideri i percorsi del Brutto, che pensiero estetico è?”, perchè, Massimo, non indici un dibattito-concorso sui libri più “brutti”, richiedendo anche un minimo di motivazione al fatto che siano stati così brutti da leggere?
Fermo restando se non sia già stato indetto, o discusso all’interno di qualche thread.

Postato mercoledì, 17 novembre 2010 alle 07:22 da Antonella Beccari


Una mia amica, dopo aver letto il mio ultimo post, mi ha scritto consigliandomi L’Elogio della Bruttezza di Eco, saggio che purtroppo non ho letto , ma che mi procurerò senz’altro. Avevo letto parecchi scritti si Arbasino sul Kitsch che affrontava un argomento indubbiamente imparentato. Sia certi discorsi di Eco (ad esempio i suoi reiterati richiami ai fumetti, fin dal primo numero del 1968 di Linus) , sia quelli peraltro assai diversi di Arbasino, essendo i due notoriamente diversi tra loro, io temo che per quanto abbiano influenzato positivamente nuove generazioni di critici e di universitari, siamo rimasti lettera morta nel mondo accademico ufficiale italiano. Come uscirne? Beh, ad esempio l’Università e la Biblioteca di Verona stanno da anni facendo un grande lavoro sulla letteratura popolare (considerata “bassa”) , e pubblicano un’interessante rivista “Il Corsaro Nero”, come a Bologna fa da sempre Antonio Faeti e gli allievi che si è tirato su al Dams e con la rivista Hamelin. A Senigallia (mio paese natale) in tre stanzette prese in affitto, si raccolgono amorevolmente e si studiano libri rientranti nella categoria, artefatta, della Serie B. Si recuperano anche autori di Serie A, come la gloria locale Mario Puccini, ingiustamente caduti nel dimenticatoio. Ma la situazione nazionale resta difficile. Fabrizio Foni , che ha partecipato a questo Foni, ha insegnato come assistente per qualche anno a Liegi all’Istituto Italiano presso al locale università, pubblicando molti studi sul “popolare” e sul “brutto” . Una volta finito l’incarico, è tornato precario. Mi ha scritto che, forse, ha trovato asilo a Malta (!) isola nella quale esiste un Istituto di Letteratura Popolare che ha provveduto a tradurre in maltese una quantità sterminata di romanzi gotici classici. Pezzini, lo conoscete già. A Genova e dintorni c’è un gruppo di ricercatori di folklorico e popolare (e vampirico) molto ferrato che organizza ogni anno una manifestazione diffusa in tutta la Liguria e molto seguita. Insomma: le iniziative non mancano. La vecchia critica da puzza sotto il naso, morirà, se non altro per raggiunti limiti di età. A tutti coloro che cominciano adesso a studiare, a tutti gli studenti che fanno la loro tesi, non si può chiedere altro che avere coraggio nell’abbattere barriere ormai anacronistiche, senza per questo “perdere gusto” o cedere alla tentazione di piegare il bastone dall’altra parte , perchè anche l’analisi del Brutto, non può prescindere da quella del Bello, con tutte le inferenze reciproche e complesse tra questi due termini del tutto indicativi . Praltro questi due termini, che hanno a che fare con l’estetica, non li vederete mai usati merceologicamente in Libreria. Troverete reparti di Narrativa, di Saggistica o di Varia. Troverete , in America, distinzioni tra Fiction e Non-Fiction. Ma ovviamente non troverete mai una suddivisione del catalogo tra Belli e Brutti. Non solo perchè non è suddivisione merceologica, ma perchè Bello e Brutto convivono negli stessi libri, come convivono in noi.

Postato mercoledì, 17 novembre 2010 alle 13:11 da Gianfranco Manfredi


Foni che ha partecipato a questo Foni? Che razza di refuso! Volevo dire forum, naturalmente.

Postato mercoledì, 17 novembre 2010 alle 13:15 da Gianfranco Manfredi


Caro Gianfranco,
di “Storia della bruttezza” di Umberto Eco ne avevo parlato in questo vecchio post: http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/10/23/storia-della-bruttezza-di-umberto-eco/
-
Cara Antonella,
a te, invece, segnalo questo post dedicato ai… romanzi “meno terminati”: http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/03/13/i-romanzi-meno-terminati/

Postato mercoledì, 17 novembre 2010 alle 22:29 da Massimo Maugeri


Segnalo l’uscita di un cortometraggio italiano a tema vampirico intitolato “Al crepuscolo”di Matto Macaluso.Per chi fosse interessato a farsi un idea su Vimeo è disponibile il trailer.(Personalmente mi è sembrato potesse avere qualche potenzialità,anche perchè sceglie di puntare sull’atmosfera,ma per ora il corto intero non è disponibile)

Postato venerdì, 19 novembre 2010 alle 10:54 da Francesco Moretta


Ieri sera ho visto due vecchi film, uno russo e muto, l’altro sonoro (in inglese) del 1949 in Bianco e Nero, tratti dal racconto di Puskin “La Dama di Picche” , storia di un giocatore di carte ossessionato da un fantasma (non solo quello del gioco). I film sono qualificati “horror”, sono in realtà dei film d’autore a tema fantastico, nessuno si sognerebbe oggi di definire Puskin un autore horror… il che mi sembra significativo del fatto che mentre un tempo in letteratura era assolutamente consueto sviluppare tematiche fantastiche e visionarie, oggi questo lo si fa abitualmente soltanto dentro una gabbia di genere, il che nuoce non poco alla letteratura e allo stesso cinema. Comunque sia, appare nei romanzi, e nei film, il personaggio settecentesco del Conte Saint-Germain, leggendario alchimista , amico di Voltaire e di Cagliostro, che aveva fama di essere immortale. Chelsea Quinn Yarbro ha fatto di lui il protagonista di una lunga saga vampirica ( più di venti romanzi) iniziata con Hotel Transilvania ( tradotto in Italia da Gargoyle). Nei film sopracitati Saint-Germain è semplicemente un esoterista, raffigurato in un modo piuttosto sinistro, e in possesso di segreti “diabolici”. Facendone un vampiro, ma “buono”, la Yarbro ha dunque mescolato alchimia e secolo dei lumi centrando un nodo che la gran parte della letteratura vampirica ha trascurato, e in qualche modo unisce scienza e leggende vampiriche, nella figura (storica) di un ricercatore dell’occulto. Viene in mente anche il primo marito di Angelica ( la lunga saga letteraria di Golon, divenuta poi serie di film assai popolari) , anche lui un alchimista, accusato di strani patti con il demonio, e avvolto da una fama di reviviscenza ( non si capisce mai se è morto o se è vivo, nella saga).

Postato lunedì, 22 novembre 2010 alle 12:40 da Gianfranco Manfredi


Se non ricordo male il vero Conte Saint Germain fece una fine miserabile:solo,imprigionato e con problemi di salute.Fine comune a molte altre figure storiche di avventurieri e personaggi misteriosi.
La Yarbro non è l’unica ad aver ripreso questo personaggio,ma è l’unica ad averlo ripreso come vampiro.(In altri casi è un alchimista che ha conseguito l’immortalita grazie alle proprie ricerche e in uno spin-off a fumetti del telefilm “Buffy” apprendiamo anche di una sua rivalità con il Conte Dracula)Oltrettutto quando lessi per la prima volta di questo personaggio,pensai subito che fosse naturale raffigurarlo come un vampiro,dal momento che stando a quel che si dice non neessitava nè di cibo nè di acqua.(Condizione che spiegava in virtù di un fantomatico elisir di lungavita,ma d’altronde Saint Germain raccontava di essere in circolazione fin dall’antico Egitto)

Postato martedì, 23 novembre 2010 alle 11:31 da Francesco Moretta


Come si esce dalla artificiosa/accademica/pretestuosa contrapposizione BELLO/BRUTTO, ALTO/BASSO, COLTO/POPOLARE, SERIE A/SERIE INFERIORI?
Le strade da percorrere sono tante.
Una può essere questa: prendere un esempio preciso (nome e cognome, molte opere, iniziali pregiudizi critici ma grande successo popolare, poi la consacrazione “ufficiale”). Georges Simenon è perfetto per raccontare come i confini tra BELLO/BRUTTO, ALTO/BASSO, COLTO/POPOLARE, SERIE A/SERIE INFERIORI sono fluttuanti e mobili, frontiere da passare continuamente in qua e in là.
UNA NOTA PERSONALE:
dopo un colpo della strega in maggio dovuto agli eccessi durante alcuni incontri letterari nelle scuole (ahò! Nun c’hai più er fisico, nun c’hai!), trascinavo tutto con cure palliative ma andando al lavoro e facendo altri incontri (meno teatralizzati) nelle scuole e nelle biblioteche. Però ormai la situazione è degenerata: la diagnosi della risonanza magnetica di qualche giorno fa è chiara: ernia al disco, aggravata da un’acutissima lombosciatalgia che dai dolori mi sbrana la gamba e di notte non mi fa dormire, negli ultimi giorni costringendomi ad arrancare (come il Nonno del Gobbo di Notre Dame) col bastone, a farmi iniezioni di Voltaren e Muscoril eccetera. Giovedì comincio le terapie/riabilitazione.

Postato martedì, 23 novembre 2010 alle 11:59 da luciano / idefix


Oh povero Luciano. Ce vo’ pazzienza! Tornando al tema del “brutto” credo valga la pena di citare un passaggio del saggio di Iris Gavazzi secondo la quale la radice letteraria della figura del vampiro è rintracciabile nel quarto libro della Vita di Apollonio di Tiana di Filostrato, dove si narra di Menippo, sedotto da una empusa divoratrice d’uomini (ma prima di divorare si fa sposare). Questa storia conobbe una nuova fama a partire dal settecento e sarà poi ripresa da molti poeti, da Poliziano a Keats. La leggenda viene in qualche modo ribaltata nell’opera in versi Lenora (1774) di Burger, nella quale è un giovane marito prematuramente deceduto che torna dalla tomba per ritrovare la sua sposa. Ventitre anni dopo Goethe in Die Braut von Korinth, sceglie di nuovo una ragazza come rediviva per amore. La giovane torna dal suo sposo per vampirizzarlo, ma è molto corretta con lui… infatti lo avvisa che lui sarà solo il primo, e che dopo aver placato la sua sete con il legittimo coniuge, lei si rivolgerà ad altri giovani. Nella Christabel di Coleridge (1801) analoga storia ha per protagoniste due donne con “forti tinte lesbiche”. Insomma, la radice del vampiro letterario sta nel rapporto di coppia e in una reciproca possessione, rispetto alla quale neppure la morte riesce a fare barriera. Ora provate a considerare quale imbarazzo tutto ciò possa destare in una Critica ormai Codificata e Scolastica. 1. Nessuno di questi testi può essere qualificato di Serie B; 2. La centralità del tema Amore/Morte in epoca pre-romantica, manda in frantumi molti luoghi comuni sulla letteratura romantica stessa come “sorgiva” e rimette al centro (come altri critici più avveduti hanno sempre sostenuto) il rapporto tra Antichi e Moderni come fondante della narrativa moderna.

Postato martedì, 23 novembre 2010 alle 14:13 da Gianfranco Manfredi


Poliziano era un poeta rinascimentale, grande studioso di letteratura greca e latina. Era notoriamente omosessuale, pare fosse stato anche amante di Pico della Mirandola. (Chissà perché a scuola queste cose non ce le spiegano?). Nel suo poema incompiuto “Politian”, Edgar Allan Poe usa il nome di Poliziano consapevolmente, anche se colloca il proprio personaggio nella Roma del secolo successivo. Il Poliziano di Poe è però maschera antica di un contemporaneo di Poe, protagonista di un celebre caso di cronaca nera dell’epoca: un certo Beauchamp che nel Kentucky era stato incaricato da sua moglie di uccidere il di lei precedente amante da cui aveva avuto un figlio non riconosciuto. Alla vigilia dell’impiccagione di Beauchamp, la donna tentò il suicidio con il laudano. Insomma: Poe si trova di fronte a un caso aggrovigliato di Coppia Omicida e la cosa gli rievoca, come “radice” e insieme come ambientazione perfetta, una Roma erede della classicità. Piccola dimostrazione di come le abituali divisioni della Storia della Letteratura per Periodi, non rendono giustizia dell’intreccio dei temi , della ripresa di tradizioni letterarie del passato, della forza di miti che si trasmettono e si trasformano attraverso le opere. Tutto si tiene. Le classificazioni critiche, se da strumenti di sommario orientamento, diventano dogmi, finiscono per nasconderci i flussi carsici che costituiscono l’autentica Storia della Letteratura.

Postato martedì, 23 novembre 2010 alle 14:46 da Gianfranco Manfredi


Con Guillaume Chpaltine , autore del romanzo ” La rinuncia. Tracciato delle frontiere relative” ( Milano, Feltrinelli, 1963), si potrebbe dire che la Letteratura è sempre stata nera, fin dall’Antichità.
Quanto alla bellezza, parola nostalgica, continuo a pensare che in essa ci sia sempre un po’ di buio. Forse perché la bellezza è connessa, perlomeno fin dai tempi di Platone, all’eros e alle strane vicissitudini del desiderio, quindi all’immaginario.
Non a caso, Rimbaud proclamava di non voler più “trascinare care immagini”; e un giorno, all’alba, prese la Bellezza sulle ginocchia e, “con braccio indurito”, le diede tante sculacciate… : -)

Postato mercoledì, 24 novembre 2010 alle 11:21 da Gianni De Martino


Le considerazioni di Gianfranco sugli “amanti vampirici” mi hanno riportato alla mente una storia latina,narrata da Gianni Pilo nella prefazione del volume “Storie di vampiri”.Un patrizio mentre assisteva al funerale della moglie,si rivolse agli dei sostenendo che la moglie sarebbe tornata a loro pura come quando era venuta al mondo.(Per chi è un pò lento leggete vergine,in pratica il loro matrimonio non fù consumato)Improvvisamente dalla tomba della moglie si udi una voce irosa minacciare l’uomo per la pubblica rivelazione di intimi dettagli.L’uomo sconvolto si ammalo e morì.Venne sepolto vicino alla moglie.Il mattino dopo le due tombe furono trovate vuote,i due cadaveri giacevano insieme nella stessa fossa,congiunti in morte come non erano stati in vita.Inoltre in passato nell’Europa dell’est,alcuni al fine di circuire e sedurre delle giovani vedove,si facevano passare per i mariti defunti di quelle donne.Siccome la tradizione popolare consigliava di non interferire con un marito ritornante che ancora desiderava di congiungersi con la moglie tali individui avevevano gioco facile.(Salvo il caso in cui erano scoperti.Tra l’altro i bimbi nati da simili rapporti erano chiamati “Figli del vampiro”.)Mi sembra che simili casi di “falsi ritornanti” siano ancora contemplati come reati previsti e puniti con la prigione dalla legislatura di alcuni paesi dell’est.

Postato mercoledì, 24 novembre 2010 alle 11:48 da Francesco Moretta


Evviva, è tornato Gianni. Stamattina sono stato anche allietato dalla notizia che Mimesis sta per pubblicare i due volumi di Roland Barthes “La preparazione del romanzo. Corsi e seminari”, che segnalo a Massimo, perchè dopo molti spunti qui seminati e la proficua discussione su Shields, questi scritti/lezioni di ben altro spessore di Barthes potrebbero animare un dibattito più che stimolante. Rinvio all’articolo di Repubblica di oggi che pubblica qualche estratto del libro. Ho trovato particolarmente lucida l’analisi di Barthes sul declino del concetto di Opera (letteraria), oggi considerato arcaico, quasi che l’istanza principale degli scrittori sia diventata piuttosto quella di “produrre libri”. Chi si sforza di lavorare a un’Opera la considera “monumento personale, oggetto folle d’investimento totale, pietra costruita dallo scrittore lungo la Storia” e anche “Messa in scena di un Valore, di una Forza attiva, di una connessione a una dottrina, a una fede, a un’etica, a una filosofia, a una cultura”". Limitarsi a “produrre libri” è per Barthes adeguarsi a “un flusso ideologico del mondo che non si ha il coraggio di bloccare.” L’Opera esprime invece questo coraggio di fermare la scrittura “a ruota libera”. Non credo (perchè non lo dice) che Barthes intenda richiamare gli scrittori alla ricerca dell’Opera in quanto Capolavoro. Un’Opera non è , non diventa, necessariamente un Capolavoro. Però indica un’intenzione, da parte dello scrittore: non quella di produrre un altro (l’ennesimo) libro, bensì un libro Altro, Unico, che osi rompere il flusso abitudinario delle mode e delle consuetudini letterarie, che si presenti o ambisca a presentarsi come Punto Fermo, esemplare di una ricerca intellettuale che va ben al di là del libro e che considera la scrittura non come fine a se stessa, ma come strumento per esprimere una Visione del mondo. Il che mi ha fatto anche venire in mente l’intervista a Stephen King di Loredana Lipperini apparsa ieri sempre su Repubblica, nella quale King sottolinea come il suo tentativo vada al di là del “genere” e dei “generi” , in quanto in ogni suo romanzo o racconto , egli cerca anzitutto di cogliere un nucleo significante su particolari aspetti della “condizione umana”. C’è sempre stata in King questa ambizione all’Opera Monumento. It resta da questo punto di vista, un’Opera ineguagliata, anche per lui, però con risultati assai alterni questa Grande Ambizione all’Opera, l’ha sempre coltivata. Ho accennato qui in breve qualche spunto, degli infiniti che si possono ritrovare in Barthes, collegandolo a riflessioni sui temi trattati in questo forum. Ma ovviamente le questioni poste da Barthes richiederebbero altro luogo e altro sviluppo.

Postato giovedì, 25 novembre 2010 alle 12:35 da Gianfranco Manfredi


Segnalo una lunga riflessione tratta dal blog “Book e negative” su “Io sono leggenda”,gli zombi romeriani e i moderni infetti a la “28 giorni dopo”. Eccolo:
http://bookandnegative.altervista.org/blog/underground/dei-morti-viventi-e-di-altri-mostri/

Postato venerdì, 26 novembre 2010 alle 13:20 da Francesco Moretta


Caro Gianfranco,
potrebbe essere interessante organizzare un dibattito sui due volumi di Roland Barthes “La preparazione del romanzo. Corsi e seminari”.
(Magari ne parliamo privatamente)
Ne approfitto per segnalre questo post, dove avevamo avuto modo di discutere anche della figura di Barthes.

Postato venerdì, 26 novembre 2010 alle 22:37 da Massimo Maugeri


Segnalo un interessante articolo apparso oggi sul New York times in supplemento a Repubblica e che riguarda l’inarrestabile onda-orda degli zombi. E’ un breve saggio che considera essenzialmente due aspetti. Il primo aspetto è l’estrema semplificazione del Mostro. Gli zombi si definiscono ormai secondo due tipi fissi: gli zombi lenti e gli zombi svelti.
Il modo di ucciderli è semplicissimo: basta sparargli in testa. Rispetto dunque alla complessità simbolica, alla ricchezza delle diverse figure del Vampiro, lo zombi opera una semplificazione estrema. Il secondo aspetto riguarda l’attualità metaforica delle figura dello zombi, che nell’articolo viene accostata a Internet e in particolare alle junk mail (come gli zombi, più ne elimini, più ne spuntano, e dunque il lavoro di eliminazione non finisce mai). La ripetitività del rito, ci rassicura nella nostra facile capacità di esecutori/killer, ma insieme proprio perchè facile e ripetitiva e perchè potenzialmente infinita, ci condanna ad essere esecutori-zombi che mai potranno godersi una vittoria finale, “di sistema”.

Postato lunedì, 13 dicembre 2010 alle 13:59 da Gianfranco Manfredi


Si può sempre aprire un nuovo account postale ed ecco che il mostro dalle mille teste non esiste più.
Cambiamo abitudini, di proposito, e il nostro cervello “sinistro” sarà così sconcertato da mettere in mano le soluzioni al cervello “destro” (che è un creativo)
D’altronde si sa, l’abitudine uccide :-)
Ciao Gianfranco: stasera Ho Freddo. Tira un vento bestiale dalle nostre parti.

Postato lunedì, 13 dicembre 2010 alle 17:39 da Antonella Beccari


Segnalo che Paolo De Crescenzo ha pubblicato sul sito della Gargoyle Books un elenco parziale delle uscite del 2011.Alcuni dei titoli scelti fanno veramente venire l’acquolina in bocca e c’è perfino un interessante recupero storico.
Per chi fosse interessato:
http://www.gargoylebooks.it/site/content/le-uscite-gargoyle-2011-primo-semestre-0
P.S.

Postato martedì, 14 dicembre 2010 alle 11:27 da Francesco Moretta


Segnalo che Paolo De Crescenzo ha pubblicato sul sito della Gargoyle Books un elenco parziale delle uscite del 2011.Alcuni dei titoli scelti fanno veramente venire l’acquolina in bocca e c’è perfino un interessante recupero storico.
Per chi fosse interessato:
http://www.gargoylebooks.it/site/content/le-uscite-gargoyle-2011-primo-semestre-0

Postato martedì, 14 dicembre 2010 alle 11:27 da Francesco Moretta


Scusatemi per ragioni che non conosco (o un mio errore o del sistema) il mio commento è apparso due volte.

Postato martedì, 14 dicembre 2010 alle 11:31 da Francesco Moretta


Caro Francesco,
lunga vita a Paolo De Crescenzo, alla Gargoyle Books e al suo catalogo (che si arricchisce sempre più).

Postato martedì, 14 dicembre 2010 alle 19:51 da Massimo Maugeri


Concordo in pieno Massimo,il catalogo della Gargoyle Books può soddisfare il più esigente appassionato.E migliora di anno in anno,tra recuperi di classici di valore e la proposta di nuovi nomi.

Postato martedì, 14 dicembre 2010 alle 20:14 da Francesco Moretta


Scrivo per segnalare (nel caso non l’abbiate già letto) l’ultimo intervento di Franco Pezzini su “Carmilla” ovvero “Tecniche di teratologia” in cui Pezzini prende in esame l’antologia “Les mille et un fantòmes” di Dumas,rilevando i debiti e gli omaggi verso Charles Nodier e la sua “Infernaliana” (di cui ho recuperato una copia in e-book,poichè incuriosito dall’analisi di Pezzini) dimostrando come di fatto già in questa antologia siano presenti la maggior parte degli archetipi orrorifici.
http://www.carmillaonline.com/archives/2010/12/003723.html#003723
Inoltre è arrivata la seconda parte del catologo 2011 della Gargoyle che oltre ad un inedito di Richard Laymon,alla pubblicazione di Tom Piccirilli (autore bravo ma ignorato in Italia) pubblicherà “The delicate dependency” di Michael Talbot,un buon romanzo vampirico ambientato ai primi del novecento ,che mescola sapientemente vampirismo e scienza medica del periodo.http://www.gargoylebooks.it/site/content/le-uscite-gargoyle-2011-secondo-semestre
Inoltre volevo augurare a tutti quanti buone feste e felice anno nuovo.
P.S.Nel caso ripassi da queste parti volevo complimentarmi con Claudio Vergnani per “Il 36° giusto” veramente un ottimo romanzo.L’episodio del “Viaggiatore” poi è riuscito a tenermi con il fiato sospeso.La sequenza in cui Claudio e Vergy sono costretti ad osservare le nefandezze del vampiro senza poter intervenire è una riuscitissima sequenza di tensione,descritta in modo impareggiabile.Bravo!
P.P.S.Avrei anche un film da consigliare,il titolo è “Strigoi” di Faye Jackson ed è una pellicola che riprende la versione folclorica del vampiro.Più che un horror è una commedia macabra,ma ben fatta,piuttosto fedele al folclore e molto divertente.
P.P.P.S.In più per gli Stokeriani completi è uscita l’edizione italiana della graphic novel “The complete Dracula” (pubblicata dalla Panini comics come “Dracula” nella collana 100%).Il volume in questione è un adattamento filologico del romanzo,che riprende parti spesso tagliate in altri adattamenti come le indagini di Mina e Van Helsing per individuare il conte oppure i rapporti economici di quest’ultimo.Unica pecca che riguarda l’adattamento italiano,l’eliminazione di alcune pagine ricche di note su Stoker e sulle scelte di adattamento compiute dagli autori del volume (Leah Moore e John Reppion,che tra l’altro hanno compiuto un lavoro simile anche su Sherlock Holmes”.

Postato giovedì, 23 dicembre 2010 alle 11:28 da Francesco Moretta


Segnalo di Pezzini e Tintori il bel saggio “Cris e Peter, I Dioscuri della Notte” di Pezzini Tintori dedicato alla Strana Coppia Christopher Lee / Peter Cushing, libro non solo per gli appassionati di cinema, in quanto confronto tra due figure simboliche piuttosto insolite non solo rispetto alle coppie cinematografiche, ma anche rispetto ai modelli letterari di contrapposizione buono/cattivo. Tornerò a scrivere di questo bel libro quando avrò finito di leggerlo, ma se qualcuno è in ritardo coi regali di Natale, questo sarebbe un dono particolarmente succoso, e a voler esagerare lo si potrebbe accompagnare da qualche DVD della Hammer interpretato dai Dioscuri stessi. Buon Natale a tutti.

Postato giovedì, 23 dicembre 2010 alle 11:54 da Gianfranco Manfredi


Nel confronto tra Lee e Cushing, lo studio di Pezzini-Tintori ha il pregio di sottolineare una contrapposizione di figure che ha anche una radice storico-sociale nello stesso vittorianesimo cui i film Hammer si ispirano pur in un’epoca trasgressiva come gli anni ‘60. Lee appare nelle sue memorie autobiografiche assai meno intimidatorio di quanto non risulti dai personaggi da lui interpretati. E’ un vero intellettuale, capace di riflessioni profonde e di spunti autocritici e sinceri davvero rari in una star. Spesso, a volte addirittura sul set, cade in preda a paure paralizzanti e poco importa che a rischiare sia la sua controfigura. Quando questa cade intrappolata sotto il ghiaccio per il malfunzionamento di un dispositivo e rischia la pelle, Lee ripiomba in una sua adolescenziale paura dell’acqua. Dietro l’uomo consapevole affiora l’insicuro, dietro la forza una fragilità insospettabile. E’ come se il destino lo sospingesse verso Dracula insieme super-eroe e fragilissimo. Cushing d’altro lato, il dottor Frankenstein per eccellenza, nella sua misura, nei suoi valori non branditi come un codice morale, ma vissuti da vero gentleman ( spesso è lui a dirigere il regista, ma non lo ha mai rivendicato, nè fatto in modo indiscreto) coltiva un’altrettanto insospettabile energia che lo spinge ad affrontare, spesso a inserire nel racconto, prove “acrobatiche” sorprendenti per il suo fisico da persona comune e da avveduto borghese . Il che gli conferisce sotto l’apparenza del controllo, un’ambiguità , una schizofrenia alla Jekill, che non a caso può addirittura mettere capo a personaggi nazisti: il massimo controllo è sintomo di sregolatezza interiore. Si intende anche dal testo di Pezzini-Tintori quale sia la forza narrativa del cinema nei confronti di quella della letteratura: in cinema, i personaggi si incarnano. Un progetto estetico, narrativo, non può sprigionare espressività se non trova i suoi interpreti reali, in carne ed ossa. Ben più che “immagine”, persone-maschere condotte dal loro stesso percorso biografico, dal loro intimo vissuto ad aderire ai personaggi che rappresentano. In questa incredibile autenticità dell’inautentico sta molto del fascino della rappresentazione filmica. Se un film preferisce, per scelta registica, limitarsi alla “facce giuste” e non riesce a trovare gli interpreti giusti, gran parte della sua forza emotiva si disperde.

Postato mercoledì, 29 dicembre 2010 alle 11:21 da Gianfranco Manfredi


Commento molto interessante Gianfranco,che accresce il mio interesse per il saggio di Pezzini e della Tintori.Io invece ho terminato la lettura di “Lord Ruthwen il vampiro” e l’ho apprezzato molto,soprattutto per una struttura a cornice grazie alla quale oltre alla trama principale e possibile seguire altre storie in un riuscito gioco di incastri.Inoltre le note e l’introduzione di Giovannini su Polidori e la genesi de “Il vampiro” e sul rapporto tra Charles Nodier e il vampirismo sono ottime.C’è ne fossero di più di libri cosi ben curati.

Postato mercoledì, 29 dicembre 2010 alle 18:23 da Anonimo


Scusate mi ero dimenticato di firmarmi,sono sempre Francesco.

Postato mercoledì, 29 dicembre 2010 alle 18:26 da Francesco Moretta


Mentre scrivo questo commento, caro Gianfranco, ho qui tra le mani l’interessante saggio a quattro mani scritto da Franco Pezzini e Angelica Tintori intitolato “Peter & Chris. I Dioscuri della notte” (Gargoyle, 2010):
http://www.gargoylebooks.it/site/content/peter-chris-i-dioscuri-della-notte
Penso di coinvolgere Franco e Angelica in un grande dibattito sulla scrittura a quattro e più mani che conto di organizzare qui a Letteratitudine al più presto.

Postato giovedì, 30 dicembre 2010 alle 19:02 da Massimo Maugeri


A proposito del saggio di Pezzini e Tintori, c’è un altro aspetto interessante (tra i tanti): i film che vengono passati in rassegna non sono sintetizzati con brevi sinossi, come accade spesso nei testi di critica cinematografica, ma raccontati a scansioni per capitoli, dove al racconto puntuale e minuto del plot fanno riscontro commenti critici, “dietro le quinte”, ricordi personali degli attori, svelamenti di problemi produttivi e di distribuzione, e riferimenti culturali e simbolici a tutto tondo. Ora è noto che di solito, quando un amico ti racconta un film, cala un profondo imbarazzo perché da certe narrazioni orali ci si può attendere solo una noia mortale e una totale incomprensibilità del plot in sè, senza contare i tanti “allora lui…”, “intanto lei…”, con inevitabile confusione di ruoli e personaggi. La narrazione di Pazzini/Tintori, pur mantenendosi su un piano di resoconto, cioè non sovrapponendo al film una riscrittura letteraria, consente di ricostruire la trama del film in modo tale che ci sembra nuovo, come non lo ricordavamo o come (distratti da altri elementi) non lo avevamo visto. In particolare sui film della Hammer, il libro ha il pregio di evidenziare come la scansione del racconto cinematografico, la loro stessa struttura, siano assolutamente diversi dalle abituali “scalette” del cinema di Hollywood. Li americani, soprattutto nei “generi”, ma non solo, tendono a uno schematismo obbligato di confezione che prevede una ripartizione in tre atti distinti (inizio con presentazione dei personaggi e della situazione; sviluppo con complicazioni: scioglimento finale) , l’insistere del racconto su un unico tema fondamentale evitando derive collaterali, riluttanza estrema alle improvvisazioni di scena (vero tabù del cinema americano) e dunque alla libertà inventiva del regista, degli attori e delle maestranze, distribuzione dei tempi del film secondo un minutaggio precostituito che non ha a che fare con “quel film” in particolare, ma con la struttura film in sè, codificata a priori. Nei film Hammer invece le sceneggiature sono insieme più originali e più selvagge, oggetto di revisioni continue, le trame procedono per accumulo, i riferimenti incrociati si susseguono, e spesso da spettatori si ha la sensazione di non riuscire a capire dove diavolo sta andando a parare la storia. E’ lo stesso stile british di cui era maestro Hitchock, con la differenza, non da poco, che i film Hammer pur non essendo sempre tratti da romanzi o racconti, sono assai più letterari e possono essere gustati meglio , se li si intendono come varianti di temi, personaggi e situazioni tipicamente britanniche e sviluppate intorno al nucleo portante del repertorio vittoriano, pre e post. C’è anche un altro elemento che sconcerta il pubblico più propenso al racconto di genere all’americana, e cioé che ciascun film rimanda all’altro, in una dinamica di intrecci vorticosi , così che ogni apparente “sequel” non si limita a riprendere personaggi e situazioni, ma li sviluppa secondo punti di vista diversi e nuovi in cui non si può più distinguere un prima e un dopo: vanno interpretati “a rete”, non “in sequenza”. E infine , ultimo elemento di sconcerto, é l’estrema attenzione nelle ambientazioni e nell’interpretazione ( mentre il reparto in genere più approssimativo è proprio quello “americano” degli effetti speciali). Spesso, di fronte a certi film, viene da dire: ma perché tanto scrupolo e tanta attenzione per trattare una materia che in fondo si rivolge a un pubblico di bocca buona, che chiede qualche brivido e nulla più? C’è una convinzione, molto british, che una storia, qualsiasi storia, debba essere rappresentata bene , e nei film di Lee e Cushing, verso una radice teatrale della recitazione , per la quale l’azione scaturisce improvvisa e non rigidamente predeterminata e non deva mai sacrificare le psicologie dei personaggi, persino nei momenti più insensati del dialogo e delle azioni. Lee a volte (nel Frankenstein come in Dracula) si toglie delle battute, preferendo starsene zitto, o perché non gli piacciono oppure perché trova sbagliato che il suo personaggio si esprima in modo puramente informativo-funzionale, o ancora perché pensa sia più emozionante ed espressivo, mettere in prima linea la recitazione muta. I migliori attori americani (Gene Hackman , per dirne uno) riprendono questa lezione: meglio una smorfia, un grugnito, che una battuta ovvia. Questa lezione, noi italiani non l’abbiamo mai digerita molto. Chi ha fatto lo sceneggiatore qui, sa bene che il principale problema con gli attori, é che allungano le battute, le sfilacciano, ne vogliono sempre di più di quelle assegnate, con il risultato di annegare i film nelle chiacchiere o in coloriture eccessive da commedia dell’Arte, così che quando si gira con certi attori non si sa mai a priori quanto durerà la scena e al montaggio finale ci si trova con problemi infiniti di “dismisura” e di incostanza del ritmo.

Postato lunedì, 3 gennaio 2011 alle 12:35 da Gianfranco Manfredi


Caro Gianfranco,
grazie per questo tuo nuovo pezzo.
Mi piacerebbe che Franco Pezzini e Angelica Tintori partecipassero alla discussione per raccontarci come è nato il volume “Peter & Chris. I Dioscuri della notte” (Gargoyle, 2010).

Postato lunedì, 3 gennaio 2011 alle 20:32 da Massimo Maugeri


Appena possibile aggiornerò la pagina del post con i riferimenti al volume di cui sopra…

Postato lunedì, 3 gennaio 2011 alle 20:37 da Massimo Maugeri


Anzitutto grazie per l’attenzione al nostro lavoro. Come sempre sono illuminanti le articolatissime riflessioni di Gianfranco. Mi pare molto bella e condivido l’idea di una letteratura ‘incarnata’: in effetti molto della risonanza simbolica e mitica dei film dei nostri Dioscuri è dovuto proprio a loro, al loro modo di incarnare i personaggi e la dialettica che intrecciano.
Diciamo che idea e spinta per il libro sono venuti da Paolo De Crescenzo, che come durante la redazione di The Dark Screen ha anche attivamente contribuito con spunti e testimonianze. Particolarmente in questo ruolo (non solo di Direttore editoriale ma) di ideale terzo autore mi piacerebbe che intervenisse. Angelica dirà qualcosa per la sua parte; per quanto mi riguarda, il cinema fantastico inglese – e la Hammer in particolare – hanno tanto nutrito la mia immaginazione, che l’idea di un libro sui due attori-cardine di quell’epopea mi entusiasmava. Per altri versi però mi preoccupava anche: i film del Tandem sono notissimi, alcuni hanno segnato una svolta fondamentale nella storia del cinema fantastico e horror, anche i meno noti sono stati oggetto di analisi critiche, studi… insomma, la scommessa consisteva nel non produrre un semplice doppione di saggi già circolanti, sia pure in inglese. Ci è sembrato che la formula narrativa proposta in The Dark Screen fosse adeguata a dire qualcosa di più “nostro” su storie tanto esemplari, con un forte raccordo alla letteratura. Del resto, più che un libro “di” cinema in senso stretto forse si tratta di un volume di mitologia – anche a fronte dello straordinario impatto di Cushing & Lee sui codici simbolici postmoderni.
Ma soprattutto il progetto interpellava (e preoccupava, se vogliamo) le aspettative che un appassionato – come per esempio il sottoscritto – si pone su un tema tanto amato. Quando un argomento tocca i nostri sogni e miti personali, vogliamo e dobbiamo affrontarlo degnamente. Per noi, vorrei dire, e per quest’unica volta che siamo al mondo; ma anche idealmente per gli interessati, Cushing & Lee. Senza farne santini o cadere nel fandom più becero, il libro era anche un appassionato tributo a loro. Per motivi se volete molto sentimentali su figure-simbolo del mio mondo interiore, tenevo molto a fare qualcosa di degno.

Postato martedì, 4 gennaio 2011 alle 12:45 da Franco Pezzini


Al di là dell’indimenticabile coppia, il libro ha il grande merito di raccontare ai lettori italiani quella grande avventura che è stata la Hammer. Pezzini ricorda che pareva a tutti proibitivo all’epoca che una piccola e sconosciuta produzione dai minuscoli studi di fortuna, fosse in grado di competere con Hollywood, e invece è avvenuto. Certo erano tempi diversi, ma l’esempio ha molto da insegnarci: se si fonda un marchio con un’idea produttiva precisa, se si aggrega il gruppo giusto, se si sanno motivare le persone, se si conduce l’impresa con saggezza e lungimiranza, non c’è traguardo che non si possa raggiungere. E’ quel valore aggiunto della cooperazione che purtroppo si è nel tempo perduto, in direzione di un rapporto tra singolo “artista” e mercato, che è sempre penalizzante per progetti innovativi. Vorrei a questo proposito raccomandare il bellissimo cofanetto “Hammer House of Horror” , che raggruppa quattordici episodi della serie televisiva prodotta dalla Hammer. Episodi che per originalità e accuratezza di messa in scena dovrebbero far vergognare gli americani del progetto Masters of Horror.

Postato mercoledì, 5 gennaio 2011 alle 14:58 da Gianfranco Manfredi


Sì, è impressionante pensare cosa sia partito da un posto come Bray. Per arrivare agli Studios che erano stati della Hammer, dopo la piccola segnalazione lungo la strada, si prende un bugigattolo in mezzo alla campagna. Tra l’altro è curioso notare che, nonostante la dignità mitica del posto per il cinema inglese, e nonostante in Inghilterra ci sia una forte valorizzazione del passato, di quell’epopea non ci sono memorie evidenti all’intorno. Verrebbe da pensare a librerie zeppe di libri sul cinema del periodo, o magari insegne di pub con Dracula che azzanna fanciulle: invece niente. Il vicino villaggio di Bray non ha nulla che richiami la Hammer (o, almeno, noi non l’abbiamo visto) e i centri più grossi intorno sono Windsor – concentrato sulla dignità di sede della monarchia – e dall’altra parte Maidenhead, dove c’è ben poco da vedere, ma girando nel centro commerciale (libreria compresa) nulla ricordava la casa di Cushing e Lee. Questo silenzio – anche fisico, nel cuore della campagna – mi sembra del resto coerente con lo stile di quella squadra. Credo davvero fosse molto bello lavorarci. Sono convinto di quanto dici, Gianfranco: la motivazione di quegli uomini – in anni, oltretutto, difficili – è sicuramente un esempio per quello che potremmo e possiamo fare. Diciamo che si trattava di persone con una fortissima vita interiore – non solo un’estrema curiosità, non solo una buona cultura ma un umanesimo nel senso sostanziale del termine, compresa un’attenzione genuina a chi sta intorno – e forse è questo che ha rappresentato la loro marcia in più. Parliamo di artisti eclettici: i quadri di Cushing sono bellissimi, le sue vignette deliziose, e Lee si divertiva a inventare folli specie di uccelli che riempivano le cartoline per l’amico appassionato ornitologo; Lee a sua volta è narratore vivacissimo, le sue memorie sono straordinarie, una panoramica fitta di incontri ed episodi connessi con tutta la storia del Novecento. Torno a dire, non voglio farne santini: ma queste doti artistiche e la loro fortissima motivazione professionale erano sostenute da un senso della misura e una sobrietà (che Lee, ormai divo, mantiene sostanzialmente ancor oggi) del tutto controcorrente rispetto a modelli che tutti i giorni abbiamo sott’occhio. Tornando al silenzio di Bray, direi che – in modi diversi per i diversi caratteri – Cushing, come Lee, come altri colleghi di quell’epopea eroica del cinema, erano/sono gente capace di fare silenzio. Nell’età del clamore e della visibilità vuota in cui ci troviamo, si tratta di modelli in netta controtendenza.

Postato mercoledì, 5 gennaio 2011 alle 19:43 da Franco Pezzini


Dò il bentornato al caro Franco Pezzini e spero che anche Angelica Tintori riesca a intervenire per raccontarci qualcosa di questo ottimo lavoro a quattro mani realizzato con Franco.

Postato mercoledì, 5 gennaio 2011 alle 21:50 da Massimo Maugeri


Ringrazio Gianfranco Manfredi per il nuovo intervento…
A proposito. In riferimento alla Hammer, Gianfranco sottolinea l’importanza del “valore aggiunto della cooperazione”.
Credo moltissimo in questa “qualità” e sono convinto che il successo di Letteratitudine dipenda proprio dal “valore aggiunto della cooperazione”.
Grazie, Gianfranco.

Postato mercoledì, 5 gennaio 2011 alle 21:55 da Massimo Maugeri


@ Franco Pezzini
Caro Franco, perché non riporti, se possibile (e se l’editore è d’accordo), qui tra i commenti, un brano estratto dal vostro libro?
Magari un brano che ritieni particolarmente “significativo”…

Postato mercoledì, 5 gennaio 2011 alle 21:59 da Massimo Maugeri


Scusate, eccomi. Per rispondere al gentile invito di Massimo, riporterei due brevi brani. Uno, un ricordo personale del lavoro coi nostri Dioscuri, rilasciatoci dall’attrice Yvonne Furneaux, in riferimento a The Mummy – dunque nella primavera del loro lavoro insieme. L’altro sul finale di un film di parecchio successivo e non noto come merita, The Creeping Flesh, dove Cushing e Lee interpretano i due fratelli Emmanuel e James Hildern: il mostro – l’Evil One venuto in apparenza da un passato preistorico – è trasfigurazione di un contesto equivoco di follia e oppressione sessuale giocato con straordinaria abilità dagli interpreti.

Postato venerdì, 7 gennaio 2011 alle 10:12 da Franco Pezzini


“Ricordo che l’atmosfera sul set dei Bray Studios era molto gradevole e professionale. Devo dire in tutta onestà che non avevo preso molto seriamente il mio ruolo o il film fino a quando non mi sono accorta, guardando le riprese giornaliere (insisto sempre per vedere le riprese in cui recito), dell’ottima qualità delle interpretazioni, specialmente quella di Peter Cushing. In quel momento ho deciso che avrei fatto del mio meglio per essere al loro stesso livello, se ne fossi stata in grado.”

Così l’attrice Yvonne Furneaux rammenta per noi (luglio 2009) il clima della produzione Hammer cronologicamente successiva, The Mummy, 1959, diretta nuovamente da Fisher. Nata in Francia (vero nome Élisabeth Yvonne Scarcherd), l’attrice ha già all’epoca un eccellente curriculum: notata al debutto (1952) da Peter Brook, ha lavorato con attori come Laurence Olivier ed Errol Flynn, e con registi come Michelangelo Antonioni. L’anno dopo The Mummy sarà anzi partecipe dell’avventura felliniana de La Dolce Vita (nel ruolo di Emma), e la sua carriera procederà attraverso una serie di film importanti degli anni Sessanta fino al ritiro dalle scene nel ’72. Interrotto solo per una scampagnata (1984) nel curioso Frankenstein’s Great Aunt Tillie, dove interpreta il ruolo del titolo a fianco di Donald Pleasence nelle vesti di un anziano Victor Frankenstein.
Contattiamo Madame Furneaux per corrispondenza, grazie alla cortese mediazione dell’Arch. Nico Marenco, cui va il nostro ringraziamento, e alla disponibilità del figlio dell’attrice Nicholas Natteau (il cui padre è quel Jacques Natteau che ricordiamo come grande direttore della fotografia in molti film di Jules Dassin e Claude Autant-Lara), per una testimonianza di prima mano. E ci colpiscono la modestia e il pragmatismo con cui ricorda il proprio arruolamento nel cast:

“Tutte le attrici che recitavano in quei film erano disoccupate, oppure speravano che sarebbe servito loro per ottenere ruoli più seri. Tutte erano state scelte per l’aspetto fisico e perché libere al momento.”

Lei stessa, in precedenti interviste, ha ammesso che non era troppo contenta di ripiegare su un horror low-budget, ma da qualche mese non lavorava (MMill 121). Rammenta comunque con simpatia i compagni di lavoro Cushing e Lee, arruolati nuovamente nei ruoli canonici dello studioso protagonista e del mostro di turno, la Mummia: “Erano entrambi estremamente professionali e altamente motivati”. In particolare Cushing, con cui la giovane attrice interagisce più a lungo sul set, “si rendeva sempre utile, una persona amabile, e un attore squisito”. Certo, ammette, “dopo una giornata di lavoro, il primo desiderio di ciascuno era andare a casa e rilassarsi”, e in seguito non avrà modo di reincontrarli. Ma ci consegna un ricordo estremamente interessante:

“A essere sinceri, secondo me il vero regista del film è stato Peter Cushing. I suggerimenti che forniva al regista erano eccezionali, e sono certa che è stato il suo contributo a rendere il film un prodotto di qualità.”

Anzi a salvare il film, come si è espressa l’attrice in precedenti interviste, rammentando l’appoggio a Fisher di Cushing, tanto creativo quanto pieno di tatto e discrezione (MMill 118).
In questa fase della sua carriera, Cushing può raccogliere i frutti di tanti sacrifici e godere il proprio idillio di coppia dedicandosi alle passioni di sempre: leggendaria la sua abilità di modellista, con il pellegrinaggio degli amici alla collezione di soldatini che venderà alla morte di Helen, e molto apprezzata la pittura con cui per anni catturerà ad acquarello scorci soprattutto dell’amatissimo Kent. D’altra parte l’attore sta confrontandosi con il rischio di restare prigioniero dello stereotipo horror, come la moglie Helen prospetta lucidamente: ma proprio la compromessa situazione polmonare di quest’ultima lo spinge a non guardare troppo per il sottile e raccogliere i benefici economici che supportino le cure e permettano di metter via qualcosa per il futuro (CA 128-129).
Nel frattempo si è approfondita la conoscenza con Lee, che può raccontare alla sua fidanzata dell’epoca

“[…] quale persona squisita fosse Peter Cushing e quanto fossi fortunato a lavorare insieme a lui, perché era l’unico attore che avessi mai conosciuto in grado di gestire contemporaneamente diciotto oggetti di scena (la disperazione degli attori come me che li odiavano), e contemporaneamente di strappare un foglio di carta, accendersi la pipa, guardare fuori da una finestra e togliersi le scarpe, il tutto mentre recitava le sue battute (LM 221).”

Postato venerdì, 7 gennaio 2011 alle 10:14 da Franco Pezzini


Emmanuel sente fragore e schianti nel laboratorio dove l’essere è penetrato, come a cercare qualcosa; poi il professore, uscito dalla camera-rifugio, raggiunge la balaustra del pianerottolo e vede con orrore la grande ombra stagliarsi sul tappeto dell’atrio sottostante. L’Evil One inizia a salire lentamente le scale (ne scorgiamo soltanto la sagoma) ed Emmanuel, terrorizzato, torna a nascondersi nella camera di Marguerite, chiudendosi dentro. La grande mano prende a battere contro la porta, e l’uomo cerca di contrastare l’invincibile impulso della propria mano ad aprire… finché deve cedere.
Lo vediamo arretrare terrorizzato davanti al gigante che è entrato e incalza verso di lui. Se l’Evil One “sta a metà tra l’iconografia medioevale della Morte e l’uomo di Neanderthal” (Mora/III 67), ora finalmente ne vediamo il volto: un mascherone cereo con le orbite vuote, il cui significato non si riduce però all’effetto speciale cheap. Francis e il direttore della fotografia Norman Warwick presentano l’Evil One

“[…] come uno spaventoso, enorme, blasfemo monaco medievale che dispensa una giustizia rozza e sbrigativa, un titano dell’anarchia. Alle sue spalle, lascia solo follia. E se l’Evil One rappresenta davvero la personificazione del Male, sembra appropriato che Francis e Warwick rivelino che esso è privo di sostanza. Non possedendo un cervello, il male è indiscriminato e amorale, una forza ciecamente impulsiva che non si ferma mai e che è votata alla distruzione. Il male non potrebbe conoscere un’incarnazione più pericolosa e imprevedibile (MMill 313).”

L’Evil One è anzitutto una maschera, così come tutta la storia cui stiamo assistendo è una storia di maschere, travisata a più livelli. Non è dunque un caso se subito dopo ci troviamo a guardare dal punto di vista dell’Evil One come attraverso i fori di una maschera (ricordiamo una scena analoga in The Skull): da un foro-occhio si scorge il terrorizzato Emmanuel, dall’altro la cornice con il ritratto di Marguerite, la sposa-feticcio negata come persona e trattenuta quale ricordo (almeno in apparenza) neutralizzato. Non si tratta di un semplice effetto pulp: se finalmente vediamo attraverso gli occhi dell’alterità, ciò è possibile perché il narratore si sta compenetrando – e nel finale ne avremo la prova – con quell’alterità radicale. D’altra parte l’Evil One è una maschera nel senso di apparenza che rimanda ad altro: noi vediamo attraverso il suo sembiante, ma ci resta inconoscibile cosa vi sia dietro, la vera natura dell’entità che fa irruzione nella vita del protagonista, sconvolgendola. E, ancora, possiamo assumere tale punto di vista perché quella maschera la indossiamo noi, in qualche modo partecipi delle cellule nere dell’infezione del male. Tutte queste suggestioni si fondono in un colpo d’occhio di pochi attimi, che non banalizza la dimensione allusiva e onirica dell’apologo.
Emmanuel domanda all’Evil One cosa voglia da lui, e quello mostra la mano con il dito mozzo: ecco dunque cosa cercava nel laboratorio… Poi l’abbassa a chiudersi sulla mano sinistra di Emmanuel, aggrappata con tanto di vera nuziale al ritratto di Marguerite. L’uomo urla.
Giunge finalmente in carrozza James, trovando Penelope che danza folle nel giardino: l’analoga immagine nel quadro con cui il film si apriva era dunque la sua. Poi il direttore s’imbatte nel cadavere di Waterlow: e, quando raggiunge la stanza di Marguerite, trova il fratello ormai in delirio che piange e ride con in mano la foto della moglie.
Questo è dunque il racconto che Emmanuel ha presentato al giovane medico venuto a fargli visita: adesso, spiega agitato, l’Evil One è in giro per il mondo, e l’umanità non potrà ricavarne che grandi sciagure – “Guerre, delitti, in proporzioni mai viste prima d’ora”. Una prospettiva in fondo corretta, da un ipotetico punto di vista vittoriano, del secolo di orrori che sarebbe seguito, e che induce lo spettatore a chiedersi chi abbia ragione. Ma il dottore mostra di non credergli, e si allontana con un’ultima occhiata al dipinto-sintesi di quella storia. “La peste del male si va diffondendo e io solo so come arrestarla” geme Emmanuel. “Lei se ne va? Non vuole proprio aiutarmi”.
“La stiamo aiutando, professore” risponde il giovane medico. “È per questo che siamo qui”, ed esce dal laboratorio, che si rivela una cella con la porta rinforzata. Poi parla con James, di cui è evidentemente un collaboratore, facendogli rilevare come l’uomo sostenga di essere un suo fratellastro. Il direttore risponde sorridendo che è normale, le persone che i ricoverati vedono più spesso sono sempre presenti nelle loro elucubrazioni. Crede persino che questa sia sua figlia – e vediamo Penelope in un’altra cella, coi capelli scarmigliati e le catene ai polsi. L’uomo comunque è lì da tre anni, da quando il direttore ha vinto il premio Richter – “Un caso disperato, purtroppo”. Ma quando torniamo con lo sguardo a Emmanuel che supplica di aiutarlo, la grande cella-laboratorio è sparita e lui si trova dentro a un bugigattolo come quello di Penelope. Vi è stato condotto in tutta fretta al termine del colloquio con il giovane medico, oppure – com’è più probabile – abbiamo semplicemente visto con gli occhi di un folle non solo gli eventi da lui narrati, ma la situazione e l’ambiente (la cella-laboratorio, tra ossa e scimmie impagliate) in cui a tratti gli pare di trovarsi?
D’altra parte alla mano sinistra di Emmanuel, posata tra le sbarre della porta della cella, notiamo che manca il dito medio: a strapparglielo è stato l’Evil One – che, secondo la narrazione, gli ha arpionato la mano stretta sul ritratto di Marguerite – oppure manca all’uomo per chissà quale altro motivo accidentale o di automutilazione? In ottica di delirio, diviene accettabile la bizzarria della creatura sovrannaturale (cieca e idiota, alla Lovecraft) che si preoccupa di cercare il proprio dito mozzo e, non trovandolo, si rivale sul distruttore del medesimo. Ma a innescarsi è anche qui un complesso gioco di echi simbolici. Anzitutto nel segno del Perturbante: il dito è mozzato a Emmanuel nella camera e sul ritratto della sposa, ed è probabile che lo sceneggiatore pensasse al significato sessuale legato al dito medio, magari in sostituzione simbolica all’anulare con la fede nuziale. In quella dimensione che il sessuofobo Emmanuel avverte come particolarmente delicata, il Male stabilisce una sorta di oscura comunione con la sua vittima, ricostituendo la propria ossatura con quella dell’uomo. D’altra parte la specularità di lesione tra colui che reca il nome cristico di Emmanuel, “Dio-con-noi”, e la creatura anticristica di cui si descrive l’avvento, ha il carattere di un’oscura proiezione – di sicuro nel segno della fantasia patologica del narratore, ma anche delle forti inquietudini simboliche degli anni del film. Così come la follia suscitata dall’Evil One è in rapporto speculare con quella imputata al professore: ma non si tratta in fondo che degli ultimi elementi di un continuo gioco di rifrazioni e confusioni entro un unico quadro di ambiguità. E l’immagine finale di questa epopea di prigionie e continue (e vane) evasioni, come in certe fantasie oniriche in cui la realtà è trasfigurata tra improbabili aperture e abissi d’incubo, non può che essere quella cruda e senza speranza di una porta definitivamente serrata.

Postato venerdì, 7 gennaio 2011 alle 10:16 da Franco Pezzini


Vorrei aggiungere una segnalazione non peregrina. Lo studio di Pezzini-Tintori, costa soltanto 14,40 euro e lo si può ordinare dal sito Gargoyle senza aggravio di spese postali. Per fare un confronto, un analogo studio sulla coppia Karloff-Lugosi lo comprai in America nel 1990 pagandolo cinque volte tanto. Là, la saggistica di ricerca, la si vende a caro prezzo. Qui un saggio se non esce super-scontato, neanche viene distribuito, il che spiega molte delle difficoltà della nostra saggistica seria che viene confusa merceologicamente nella stessa categoria dei libri per fans, compilati in gran fretta e di puro repertorio da intrattenimento. Non voglio dire che non si debbano comprare libri divertenti, anzi… ho appena ricevuto da un amico di Berlino, la segnalazione del libro EVERY ZOMBIE EATS SOMEBODY SOMETIMES ( a book of zombie love songs)
il cui autore (il mio amico non mi ha detto il nome) ha preso canzoni d’amore celebri e le ha riscritte con metrica perfetta come se le cantasse uno zombie, allegandole a un libro molto ben disegnato. Love me tender di Elvis è diventata “you are tender”.

you are tender / you taste sweet / I’ll never let you go/ you have made my death complete / and i’ll eat you so……….

Niente di male a farsi quattro risate. Però un saggio come quello di Pezzini/Tintori offre, oltre a un prezioso approfondimento, ben altre occasioni di divertimento. Io ad esempio ho intervallato la lettura rivendendomi alcuni dei film da loro esaminati, e così ho potuto vederli in modo nuovo, apprezzandoli di più, e spassandomela di più vedendo certe scene dopo aver appreso dal Pezzini/Tintori com’erano state girate. Questi non sono libri d’occasione, ma studi che restano e che si possono consultare quando servono e sempre utilmente perché non invecchiano. Se non si è capito, questo è un invito a non lasciarsi sfuggire Peter & Chris.

Postato venerdì, 7 gennaio 2011 alle 11:59 da Gianfranco Manfredi


pur non essendo un esperto di cinema, sono molto interessato a questo lavoro di Pezzini/Tintori su Peter & Chris. grazie intanto per le gustose anticipazioni e per tutto quello che offre questo sorprendente blog

Postato venerdì, 7 gennaio 2011 alle 19:49 da Valter


Ringrazio Franco Pezzini per i brani inseriti e ne approfitto per salutare Gianfranco e Valter.

Postato sabato, 8 gennaio 2011 alle 11:05 da Massimo Maugeri


Ho da poco iniziato a leggere il saggio di Pezzini e Tintori e volevo complimentarmi con gli autori.Pur essendo esaustivo lo stile non è mai pesante,anzi risulta scorrevole tanto che quando si finisce un capitolo si desidera subito leggerne un altro!
P.S.Ho anche visto per la prima volta “Horror of Dracula” di Terence Fisher e la performance di Lee mi ha colpito.Per tutto il film recita soprattutto con il corpo e le espressioni del viso,esercitando un fascino magnetico non solo sulle sue vittime ma anche su noi spettatori.In particolare nella sequenza in cui Jonathan Harker scende nella cripta per impalettare il Conte e la vampira,Lee riesce a passare da uno stato emotivo all’altro in pochi secondi:paura,sollievo (quando si accorge che il sole sta tramontando e quindi sarà presto libero),gioia maligna e brama di sangue.Veramente eccezzionale.
@Gianfranco:Polselli ho iniziato a guardarmelo anch’io incominciando da “L’amante del vampiro”.Derivativo,ma godibile.C’è na sequenza di sepoltura con la soggettiva della sepolta che richiama “Vampyr” di Dreyer,ma mi ha molto impressionato perchè diretta piuttosto bene.

Postato mercoledì, 19 gennaio 2011 alle 17:44 da Francesco Moretta


Grazie mille, Francesco.
Questo, grazie anche al tuo contributo, rimane un dibattito non-morto. ;)

Postato mercoledì, 19 gennaio 2011 alle 22:58 da Massimo Maugeri


Grazie a te Massimo per la creazione di questo interessante (e non-morto) dibattito.Io invece mi scuso per alcuni refusi seminati nel mio commento di cui non mi ero accorto.
P.S. Vi segnalo che da “Il 18° Vampiro” di Vergnani è in lavorazione un mediometraggio.Il trailer è visionabile qui:http://mcnab75.livejournal.com/381001.html

Postato giovedì, 20 gennaio 2011 alle 09:58 da Francesco Moretta


Segnalo che Fazi editore ha recentemente pubblicato “le memorie del cavaliere di villevert” racconto vampirico del 1929 di Jean Mistler.

Postato sabato, 22 gennaio 2011 alle 20:21 da Francesco Moretta


Saviano a Marina Berlusconi: io orrore?
«mi avrebbe fatto piacere ascoltare nelle parole di un editore l’espressione ‘orrore’ non verso di me per una laurea dedicata ai magistrati» ma «spesa per tutti quegli episodi di corruzione e criminalità che da anni avvengono in questo paese: dalla strage di Castelvolturno sino alla conquista dela ‘ndrine di molti affari in Lombardia. Ma verso questi episodi è stato invece scelto il silenzio».
«Orrore mi fa chi sta colpevolmente e consciamente cercando di isolare coloro che in questi anni hanno contrastato più di altri le mafie», denuncia ancora lo scrittore ricordando curriculum e impegno dei Pm milanesi del caso Ruby Ilda Boccasini, Pietro Forno e Antonio Sangermano.
Insomma, per lo scrittore il vero orrore sarebbe isolare questi magistrati.
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ORRORE, BASTA LA PAROLA !
http://www.youtube.com/watch?v=Zp8lF92MZT8

Postato domenica, 23 gennaio 2011 alle 19:33 da Gianni De Martino


Le attuali tristissime vicende italiane più che all’orrore paiono appartenere a un genere pulp di Serie Zeta, quello delle riviste tipo Cronaca Vera, con la differenza non da poco che gli articoli di quel genere di pulp erano inventati, e si concludevano in un solo pezzo. Qui invece ci vengono ammannite come in una novela incessante, quotidiana, di indicibile squallore. Al di là dei fatti, già in sé deprimenti, è l’uso del linguaggio che sconcerta: sempre apodittico, eccessivo, livoroso, di qualunque cosa si parli, che si tratti di reati allucinanti o di semplici, normalissime divergenze di opinione (se fa orrore che degli scrittori esprimano opinioni, peraltro in sè piuttosto ovvie, su questioni che attengono alla coscienza civile, di fronte agli orrori veri cosa bisognerebbe fare, quali parole usare per definirli?). La parola “orrore” usata invece per definire il tentativo di isolare i magistrati è un tantino più appropriata se non altro perchè evoca il tema dell’assedio dei “buoni”, così connaturato agli zombie movies, però anche qui, diciamocelo… cosa ci si deve aspettare da chi organicamente difende un’opzione di regime? Sarà anche un orrore, ma dell’orrore non ha l’elemento qualificante: la sorpresa. E dunque, dietro questo vociare all’Orrore e contro l’Orrore, non è che si nasconde (e neanche tanto) il luogo comune secondo cui l’Orrore sarebbe qualcosa di fronte alla quale uno fa una smorfia di disgusto e tuttavia NON cambia canale, perché assistere e partecipare a vario titolo è diventata un’addiction? Si è anche parlato molto e a sproposito del Caso Battisti, ma ci avete fatto caso che sono invece state spese soltanto due righe sui giornali, quando si è riferito che il ferocissimo tiranno di Haiti, Doc Duvalier , stava a Parigi fino all’altro ieri come rifugiato politico? Qualcuno si è lamentato che non fosse stata concessa mai, negli anni, la sua estradizione? Gianni ha perfettamente ragione nell’ironizzare: Orrore basta la parola. Di quale orrore si tratta nello specifico? Dell’estetica del disgusto che sposta il centro emotivo dalla paura fisica e metafisica dell’ignoto, allo schifo diffuso e viscerale per l’arci-noto e per l’evidente. Il senso di schifo viene poi composto, razionalizzato e sfogato, nelle cosiddette “liste”: contro gli scrittori a vario titolo dissidenti, contro gli ebrei, contro gli avversari politici i cui nomi vengono contrassegnati da mirini. Qui , in questo blog, si sono espresse critiche all’ultimo romanzo di Umberto Eco, più che legittime e forse anche fondate sul piano stilistico-letterario, ma credo si debba riconoscere che la scelta del tema (nascita, creazione e diffusione propagandistica di pregiudizi) centra un aspetto quanto mai importante in questo momento storico. Al romanzo si può affiancare il saggio illustrato “la Vertigine della Lista” sempre di Eco. Paranoia, sindrome del complotto universale, abitudine invalsa di eccitare il Mob all’assalto del Mostro di turno con forconi e torce o con modernissime armi automatiche di porcellana in libera vendita (pronti a smentire e a prendere le distanze, però, quando ciò si verifica), hanno uno stretto rapporto con l’apparente razionalismo della compilazione ossessiva di liste, spettro di un patetico tentativo di trovare coerenza e completezza nell’accumulo indifferenziato degli elenchi, come “supporto documentato” del delirio ideologico, bisogno di NON vedere il caos rappresentandolo come ORDINATO. In poche parole: l’esatto contrario dell’ Horror.

Postato lunedì, 24 gennaio 2011 alle 11:52 da Gianfranco Manfredi


Ciao Gianfranco. Forse è comprensibile che, pescando…nell’orrido all’italiana,uno scrittore di servizio come Saviano si occupi della sua carriera politica e forse del Nobel. D’altra parte è comprensibile anche che Marina Berlusconi ( di fatto l’editore di Saviano) provi un senso di ripulsa, come davanti a qualcosa di sinistro. L’espressione “mi fa orrore” può infatti significare anche repulsione, ribrezzo, ripugnanza di fronte a una bruttura o una schifezza come quella compiuta da Saviano nel dedicare provocatoriamente la laurea honoris causa agli accaniti inquisitore del padre di Marina Berlusconi. Per Saviano non sarebbero i PM che da anni “perseguitano” Berlusconi, ma i magistrati che contrastano la criminalità organizzata, che combattono la sua stessa battaglia. Insomma, la solita solfa engagè.
E’ importante il contributo dato da Saviano a tenere alta la guardia di fronte alla Camorra, ma approfittare del caso Ruby (peraltro davvero una bella figliola) per esaltare, ancora una volta, l’azione giudiziaria contro Berlusconi e compatire Ilda Boccassini, Pietro Forno e Antonio Sangermano tirando fuori la solita storia della lotta-alla-Camorra suona come una provocazione di basso profilo, brutta e alquanto gratuita.
Se alla Mondadori non lo cacciano via è forse perché oggi è difficile per Franchini e gli altri impiegati della Mondadorona trovare scrittori capaci di fare cassetta come Saviano, in modo da far quadrare i bilanci e garantire la sopravvivenza del grande editore.
Volendo ironizzare sul genere pulp di serie Zeta che attualmente caraterrizza le vicende italiane, medio-italiane, si potrebbe dire che non importa rovinare la Letteratura con l’impegno e i virtuosi spot anti-vampiri governativi o anti-zombi dell’opposizione, purché il Mercato non ne soffra. Non troppo, perlomeno.
Orrore ? Esistono numerose gradazioni dell’orrore, chissà se per salvarsi dallo schifo diffuso, ovvero questa specie di ordinata disperazione di massa, basta cambiare canale con una smorfia di disgusto. Oppure dire – come recentemente mi ha assicurato un amico scrittore che è anche filosofo e collezionista – che in fondo, neanche tanto in fondo, si tratta comunque di figurine.
A tale proposito mi ha anche proposto di scambiare 1 Bersani « sui tetti » con 3 Vendola « vagamente pretesco », e 1 Napolitano « turbato » con 2 Bagnasco che chiede ai politici “più contegno”. “Contegno”? Beh, questa figurina mi avanzava… Naturalmente gli ho risposto di non meritare l’accumulo di tante belle figurine e soprattutto di non venirmi a casa con quelle sue liste spettrali di intellettuale engagé e altre« orribili » suggestioni. :-)

Postato lunedì, 24 gennaio 2011 alle 13:10 da Gianni De Martino


Guarda Gianni, lungi da me ogni volontà di buttarla in politica, anche perchè mi pare che in questo caso siamo di fronte casomai a elementari questioni pre-politiche di minima decenza istituzionale e civile (per chiunque non rimpianga il modello Ceaucescu) , e dall’altro a questioni post-politiche essendo la politica in quanto tale soffocata e rimossa per carenza di progetto qualsiasi e di visione di prospettiva. A ciascuno la scelta della compagnia che preferisce. Personalmente, mai come in questo momento mi sono tuffato nella scrittura , attaccandomici come a un salvagente. Tra l’altro non mi sto occupando di bazzecole, perchè anche se sto scrivendo un semplice fumetto, l’argomento è la Rivolta dei Boxer nella Cina del 1900, pagina non studiata a scuola, e di notevole spessore per chi abbia voglia di approfondire. Certo è che il “mi fa orrore” (“letteralmente” ha aggiunto Marina Berlusconi notoriamente arrivata alla direzione della più grande casa editrice italiana per accertati meriti e competenze culturali ) più che l’Orrore a me richiama quei commenti da sala da té , per cui alla fine fa orrore anche chi si è vestito in modo giudicato poco consono, l’ultima canzone alla moda, o altre amenità. Imparare a usare le parole in modo proprio, non è solo questione da scrittori, riguarda la riconoscibilità stessa delle cose, e la natura dei sentimenti che si provano. Sarà anche questa la cosa più irrilevante da dire nell’attuale contesto, però fa parte del mestiere di scrivere essere sempre attenti al linguaggio e all’uso distorto che se ne fa. Franchini fa il suo lavoro e lo fa bene. Scusate… ma di cosa si dovrebbe occupare un direttore editoriale se non di pubblicare dei bei libri e cercare di fare in modo che vendano? Era forse meglio investire nella rovinosa impresa delle Pagine Blu?

Postato lunedì, 24 gennaio 2011 alle 14:16 da Gianfranco Manfredi


Perfettamente d’accordo con Gianfranco Manfredi.

Postato lunedì, 24 gennaio 2011 alle 15:14 da aurelio


Segnalo che è uscito H , cioè il primo numero dell’almanacco della rivista Horrormagazine, stampato in poche copie e non credo diffuso in edicola, ma a chi interessa, può trovarne segnalazione e credo anche acquistarlo, andando su Delosstore.it . Contiene anche un mio piccolo contributo (Gotico Italiano) dedicato a Malaparte e in particolare a un suo scritto poco conosciuto, resoconto di viaggio nella Scozia del mostro di Lochness, con passaggi letterari di rara bellezza.

Postato lunedì, 24 gennaio 2011 alle 17:42 da Gianfranco Manfredi


« Uh, lavoro per un orrore di editore ! » Sempre più spesso lo scrittore in carriera si vanta pubblicamente di sputare nel piatto in cui mangia. Può anche darsi che si tratti – volendo essere di manica larga – di « elementari questioni pre-politiche di minima decenza istituzionale e civile». In ogni caso, se non letteralmente orrore, sputare nel piatto o nella tazzina da tè – perlomeno dal punto di vista dei parenti dell’editore – fa un po’ schifo. « Ma come, ti pubblico Gomorra e poi vai dicendo in giro che io sarei la figlia analfabeta di Ceaucescu ? ». Rari sono quegli scrittori che sentono il bisogno di andar via dalla città nemica e invece di scambiare figurine pulp passare al reale della scrittura, questa specie di seconda natura. Benché non sia propriamento un idillio, sarebbe bello spegnere il tv color, non fare commenti da sala da té sulla « decenza » di questo o di quella e darsi alla macchia. Potrebbe trattarsi, ahimè, di una fuga nella fantasia. Come in Petrarca che, tuffatosi nella scrittura, può scambiare gli abeti e i faggi della inospitale foresta delle Ardenne con le immagini di donne e donzelle di rara bellezza. Quello che si può considerare il padre degli intellettuali moderni, sente le acque scrosciare e gli sembra addirittura di vedere la morticina Laura, di udirla addirittura : « Raro un silenzio, un solitario orrore / D’ombrosa selva mai tanto mi piacque » (Petrarca, Sonetto 143, citato da Lovecraft con i peli irti sul collo). Rari sono gli scrittori che oggi si tuffano e rituffano davvero nella scrittura, attaccandovicisi come a una natura o a un salvagente. Cos’altro può fare oggi un intellettuale se non volgere intorno quei sui caratteristici occhi da disoccupato o da poeta ? Vi sono anche scrittori affermati che, pur lamentandosi di lavorare per la figlia di Ceaucescu, non hanno più l’età per passare al bosco, con tenda e sacco e pelo, dormendo sui dirupi. Se andassero dove porta la scrittura e il cuore, forse finirebbero come tanti colleghi artisti in ospizio o all’ospedale. In ogni caso, c’è chi continua a pensare che invece di fare politica o pre-politica e darsi da fare per il Nobel, fra mille obbligazioni servili, uno scrittore vero dovrebbe allenarsi a scomparire. Scomparire nella scrittura. E’ proprio quello che talvolta accade scrivendo, non ci si sente forse svanire ? « Presto, il mio quaderno ! ». O « My tablets!…put it down,’” – come esclama con allusione ad Amleto il giovane Harker finito nel castello di Dracula. Per uscire dallo schifo, se non dal « solitario orrore », occorre andare incontro all’orrore e raccontarlo, coprirlo con il pulviscolo dorato di un racconto e un minimo di felicità espressiva ? « A me una delle mie follie ! », scrive Rimbaud in « Una stagione all’inferno ». « A me ! », come quando nei fumetti si grida HELP ! Cosa si vuole di più ? E come non essere d’accordo, perlomeno in parte, con l’amico Gianfranco Manfredi ? Di lui mi sorprende ogni volta che lo leggo un tratto da « orribile lavoratore » – come degli scrittori veri avrebbe detto il povero A. Rimbaud. Più scontato, ancorché divertente, mi pare la sommessa, anzi minima difesa della cosiddetta « decenza istituzionale e civile ». L’appello alla « decenza » non ha mai impedito alla ggente ( con due « g ») di godere, né tantomeno alle persone ricche, potenti e disinvolte come il Cav. Berlusconi. Non a caso e nonostante gli inviti a scomparire, resta molto amato da una maggioranza di Italiani e continua a divertirsi e a provare piacere. Ai difensori del Bene & della Decenza, prima che si suicidano per disperazione, occorre un paletto, uno solo – non le frecciatine di una pletora di moralisti e beccamorti, se non addirittura della Daddario appena scesa in campo insime alla Marcegaglia. Non faranno altro che aggiungere stupidamente orrore ad orrore per quello che credono di vedere. Tipo la favolosa risposta della Daddario alla domanda della giornalista che le chiede se le è mai stato proposto il simpatico rito orgiastico. Con piglio quasi nauseato: «Io non sono rimasta, non mi interessava rimanere e se non l’ho fatto è perchè c’era qualcosa in quello che ho visto che non mi piaceva». Insomma, rieccoci nella sala da tè, fra vecchie signore e signorine che fingono un virtuoso orrore e fanno « per piacere ! per piacere ! », agitando le mani davanti agli occhi come per scacciare un qualche insetto fastidioso. Ceaucescu o Belzebù ? Ma questa sembra una storia di fantasmi, un’altra storia che non saranno certo i PM con i loro mandati di comparizione & di scomparsa a scongiurare. Uh, con questo non voglio dire che ai PM preferisco iscrivermi fra quelli che amano la compagnia di Belzebù. Perlomeno così mi pare…

Postato lunedì, 24 gennaio 2011 alle 20:12 da Gianni De Martino


L’appello alla « decenza » non ha mai impedito alla ggente ( con due « g ») di godere, né tantomeno alle persone ricche, potenti e disinvolte come il Cav. Berlusconi di “divertirsi”. Aggiungerei, a tale proposito, di aver trovato proprio ora un passo riferito alla disinvoltura, leggendo “Il cuore avventuroso” di Ernst Jünger che cita gli “Essays” di Bacone: ” … certi lati del carattere per i quali non esiste alcun nome preciso, generano la fortuna. La parola spagnola ‘desenvoltura’ rende in parte queste caratteristiche, le quali non significano contegno e continuità nel carattere di un uomo, bensì piuttosto un corso parallelo tra il procedere del suo spirito e il procedere della sua fortuna”.
Questo passo, che si trova in un trattato sulla felicità, si distingue anche per altre frasi notevoli, che Jünger sottolinea come se fossero gemme.
Una di queste frasi notevoli è quella ” secondo cui non esistono due qualità meglio apportatrici di fortuna che l’avere in sé qualcosa del pazzo e non troppo dell’uomo d’onore”. Se non temessi di approfittare troppo del diritto di sovranità sul proprio linguaggio dimostrato da un sorprendente Bacone-con-Jünger, direi che l’annotazione potrebbe riferirsi, senza uscire troppo fuori tema, al carattere dell’amatodiato puttaniere che, chissà ancora per quanto tempo ancora governa gli Italiani. A meno naturalmente di non scambiarlo per l’omino del carro dei ciuchini, che tanto incantò il povero Pinocchio quando, complice Lucignolo, si trovò davanti quell’omino con un faccino di melarosa, che sorrideva sempre. In ogni caso, quello che sembra intollerabile ai moralisti e ai beccamorti è che il cosiddetto Potere possa provare piacere. Il Potere sorride. Che orrore ! :-)

Postato lunedì, 24 gennaio 2011 alle 20:49 da Gianni De Martino


Lo dico in generale. Il Potere può anche provare piacere, purché non incorra in crimini. Altrimenti può anche provare il piacere di andare in galera.
Come dire: ma mi faccia il piacere!

Postato lunedì, 24 gennaio 2011 alle 21:36 da aurelio


Insomma… sono d’accordissimo sul fatto che la mission di uno scrittore sia quella di scomparire. Dove? Nelle opere, ovviamente. Tuttavia questa storica mission da lavoratori nell’ombra (non c’è autore che non abbia invidiato i grandi padri anonimi della letteratura, dagli oscuri scrittori della Bibba a quelli delle Mille e Una Notte) è insidiata da due fattori: il primo lo aveva già sottolineato Leonardo da Vinci osservando che il mercato d’autore si regge sul nome stesso dell’autore, la sua firma, il suo marchio anche stilistico, più che sull’opera in sè: il valore dell’opera sul mercato dell’arte dipende dal valore della firma. Il secondo fattore è del tutto politico: se si fa sparire l’opera (come fece Platone con gli scritti dei presocratici) si cancella l’autore, limitandone il ricordo a poche righe salvate e riassunte dallo stesso che li ha eliminati, cioè a suo insindacabile giudizio. Nelle versioni più reazionarie, il rogo dei libri non è sostitutivo dello scrittore stesso spedito al rogo, ma suo complemento. Moltissimi autori sarebbero lieti di sparire nelle loro opere, se ciò non condannasse le opere stesse a sparire. “Esserci” diventa dunque un obbligo, anche se non gradito. Dopodiché nessuno può vivere alla luce o all’ombra delle proprie opere, l’esistenza personale ha leggi (di opportunità o di rifiuto, di decenza e di indecenza, di gestione economica oculata e di spreco ostentato) che l’opera letteraria non ha in quanto soprattutto se degna sopravvive all’autore stesso, ed è comunque distinta dall’autore stesso, ha una sua intrinseca “qualità” che spesso neppure l’autore riesce a riprodurre. Per chiarezza: quando Borges scambiò riconoscimenti con Pinochet, la cosa mi amareggiò, ma non intaccò minimamente il mio trasporto per le opere di Borges. E l’affetto per Borges non è mai stato d’altra parte , per me e per milioni di lettori così acritico da non distinguere tra una sua opera e l’altra. La cosa è ancor più evidente considerando certi autori popolari, come Salgari, ad esempio. Tra le migliaia di pagine e le centinaia di personaggi salgariani, ci sono romanzi e personaggi che spiccano più di altri, e scritti che si leggono con affetto per l’autore, ma che si ha il buonsenso di non giudicare particolarmente riusciti. Dove ci porta questo discorso? Boh… va già bene che ci porti lontano da Berlusconi. Vedete… un conto sono le considerazioni storiche (l’Italia è ancora q

Postato martedì, 25 gennaio 2011 alle 12:32 da Gianfranco Manfredi


(segue) quella dei Borgia?) un altro conto è il che fare o non fare attuale e il senso stesso del “fare” o “non fare” qui e ora. Questo non è un problema letterario. Mettersi a discettare elegantemente in pieno collasso è abitudine da ancien régime. Ricamare centrini da tavolo, quando il tavolo è stato venduto all’asta, non mi pare abbia molto senso. E’ tutto così incredibilmente semplice nella sua insensatezza: tutto deve restare bloccato nel paese, in attesa che i problemi del Principe trovino una soluzione di suo gradimento? Dobbiamo tacere e/o giustificare perché é poco carino “sputare nel piatto in cui si mangia?”. Ohibò, ma chi è che mangia in quel piatto? Dalle vendite di un libro guadagna più l’autore o l’editore? Internet dimostra ancora una volta che si può scrivere e editare senza bisogno di un editore, mentre nessun editore può fare a meno degli autori, a meno che l’editore non sia editore unico e anche autore unico (vedi Corea del Nord) e presumibilmente lettore unico delle proprie opere. Ora: un editore che grazie a un’opera di successo come Gomorra di Saviano prospera e risana i bilanci, come fa a dire pubblicamente (e da Presidente del Consiglio) che quell’opera offende l’Italia e nuoce alla sua immagine internazionale? Coerenza vorrebbe che si dimettesse, in quanto quell’opera l’ha pubblicata lui. Chi sputa nel piatto in cui mangia, nel caso, è Berlusconi, non Saviano. E al di là della letteratura: chi ha mangiato di più negli ultimi decenni dal piatto del paese e continua a sputarci dentro? La risposta è così ovvia che non vale neppure la pena di scriverla.

Postato martedì, 25 gennaio 2011 alle 12:52 da Gianfranco Manfredi


L’ORRORE. « Lo scrittore riappese il ricevitore. Pensò: l’obbligo dell’autore è scomparire ». ( Enrique Vila-Matas, parafrasi). Quali ne sono le ragioni ? Quali i destini ? Intanto, scomparire è molto doloroso. Certo, scomparendo ci si allontana dal pianeta di Berlusconia. Ma per andare dove ? Qui dove non c’è dove e l’Io diventa poroso.
Scomparire. Come per un tuono che faccia saltare in aria le barriere della coscienza. Assetato di non sa cosa, chiuso, solo. Che dire ? a chi ? Asilo di parole, grida, delirio e nemmeno un cuore per implorare.
Ma eccolo sciogliere le emozioni in parole e – accettando la sfida della rappresentabilità – aprirsi e trasformarsi in un racconto di Vampiri…
Da dove proviene l’autorizzazione a scrivere , portando notizie di mostri e vampiri brutti e mangioni, notizie cattive, sensazionali, sconvolgenti. Insomma, da dove proviene la Cattiva Novella ? Da « laggiù ».
A questo punto – punto intenso e feroce in cui la vita va aldilà – ha ancora importanza l’ Io che scrive e quella COSA che è dietro la superficie ? Niente di speciale. La rara occasione di scomparire tocca a tutti, prima o poi. Ecco, occorre – mi pare – allenarsi a scomparire. Nello spazio che estende fra la conoscenza della fine e la fine ? Il vero orrore è scomparire. Al di là della letteratura ? ( Mi fermo qui, provvisoriamente, perché scrivendo ho dimenticato di fare colazione e qualcuno mi chiama di là per… mangiare).

Postato martedì, 25 gennaio 2011 alle 14:57 da Gianni De Martino


Su una cosa concordo al 100% con Gianfranco:questo dibattito può portare dappertutto ma non a Berlusconi.Di lui in un modo o nell’altro si parla fin troppo.Va bene che la politica italiana è orribile,ma cerchiamo di rimanere su orrori più nobili.
P.S.Terminata la lettura de “I dioscuri della notte” e confermo quanto detto nel mio precedente commento,Pezzini e la Tintori hanno scritto un ottimo saggio su due grandi attori.

Postato martedì, 25 gennaio 2011 alle 15:11 da Francesco Moretta


Gianfranco, ti stimo. No, ti amo. :D
Scomparire nell’opera è, credo, il fine di ogni scrittore. Creare qualcosa di più bello e compiuto dell’involucro reumatico che lo ha prodotto è, suppongo, la ragione per cui ci si danna mesi su un PC (o sullo zibaldone) invece di fare cose più divertenti. Bello. Fantastico. Amen.
E intanto? L’Artista non deve esprimere opinioni perchè sennò l’Arte si impolvera le scarpe?
Ciò premesso, questo non salva l’Artista dal poter pronunciare, al pari di qualsiasi altra persona, anche delle gigantesche boiate. Dipende.
Quanto ai comportamenti pratici degli suddetti Artisti, se fossimo realmente integerrimi e coerenti dovremmo passare una mano di calce sul Giudizio Universale, invece di ammirare l’opera di un notorio pedofilo.
Vabbè, si capiva che era una drammatizzazione, vero?
Se il pedofilo e il legislatore coincidono, la faccenda è un filo diversa, ma ogni riferimento a persone è puramente causale. Lo giuro sulla testa di Ghedini.
Infine, riguardo ai piatti e agli sputi, mi viene in mente una battuta di Paolo Rossi: “Sputo nel piatto in cui mangio? Sì! E allora? Devo mangiarmelo io e ci faccio quello che voglio.”

Postato martedì, 25 gennaio 2011 alle 16:29 da Giusy De Nicolo


Anche se è vero che la parola “orrore” può portarci a discutere di un po’ di tutto (forse, in effetti, la parola è un po’ abusata) appoggio l’appello di Francesco Moretta e inviterei gli amici di questo forum a discutere su argomenti orrorifici più propriamente… “mostruosi”. ;)

Postato martedì, 25 gennaio 2011 alle 19:14 da Massimo Maugeri


MOSTRI DALLO SPUTO VELENOSO. “Sput! Sput!” Sputare e sputtanare. Che dire? Sarà anche un’abitudine antigienica, brutta e plebea, ma chi se ne fotte. La nobile difesa delle libertà individuali oggi passa attraverso l’ illuminata rivendicazione del diritto di sputo. In alternativa, si potrebbe provare a prendere a calci il piatto in cui si mangia.
Il pianeta di Berlusconia mi sembrava spietato, finché non ho visto gli altri – come per esempio – e non lo dico per sputare veleno, o forse sì – quello di Paolo Rossi & C. più sopra evocato come esemplare.
D’altra parte, non ho mai sentito di vampiri che sputano – se non, se ricordo bene, in un gioco di ruoli che a partire dal Livello 1 detto SILENZIO DI MORTE giunge fino a Livello 7 detto IL SAPORE DELLA MORTE.
Cito: “Il vampiro può a tutti gli effetti sputare sangue contro i nemici, provocando Ferite Aggravate. L’attacco è quasi silenzioso, ma le ferite che lascia causano cicatrici orribili e permanenti tanto sui mortali quanto sui vampiri”.
Mi sembra strano che per provocare le cosiddette Ferite Aggravate il Vampiro possa sprecare del sangue, realizzando attacchi che arrivano, come quelli di un serpente cobra, ” fino a una distanza di circa 3 metri per ogni punto Forza e/o Potenza posseduto dal personaggio”. Ma tant’è. Il sangue è suo, se lo gestisce lui e ne fa quello che vuole.
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P.S. A proposito di bestiacce dallo sputo velenoso, andrebbe citato anche il piccolo Diego, il vampiro neonato che appare nel nuovo romanzo di Stephenie Meyer, “La breve seconda vita di Bree Tanner”, edito da Fazi. Il piccolo vampiro dall nobile sguardo astioso, se non leggermente strabico sembra dotato di un super-potere: “Diego alzò gli occhi al cielo e sputò veleno oltre il tetto del palazzo.” Insomma, una mega sputazza mostruosa… “oltre il tetto”. Non sono sicuro che comprerò il libro della Meyer. Mi fermo qui, accogliendo l’appello di Francesco di “rimanere su orrori più nobili” e l’invito di Massimo a “discutere su argomenti orrorifici più propriamente… ‘mostruosi’. La pulizia – come diceva anche la nonna di Biancaneve – non è forse infatti la prima cosa ? :-)

Postato martedì, 25 gennaio 2011 alle 21:11 da Gianni De Martino


Segnalo che il blog “Il mondo di Edu” ha pubblicato un intervista a Piernicola Arena,regista del cortometraggio ispirato a “Il 18° Vampiro”.(Con qualche foto di scena).
http://ilmondodiedu.blogspot.com/2011/01/intervista-piernicola-arena-regista-e.html
P.S. In merito allo sputare sangue mi sembra che esista un tipo di lucertola che è in grado di schizzare il sangue dall’occhio in lunghi getti,altro che il neonato sputacchione della Meyer (che raggiunge toni involontariamente comici).

Postato mercoledì, 26 gennaio 2011 alle 10:23 da Francesco Moretta


Ieri sera ho rivisto un film Hammer , anzi l’ho visto per la prima volta, perché all’epoca mi era sfuggito, ma siccome Pezzini e Tintori lo indicavano come un film molto bello… Parlo di The Creeping Flesh, dove uno scheletro millenario rivive , ma la sorpresa è che questo elemento gore non è affatto dominante nel film, intessuto di una rete complessa di elementi e di trame che non si possono definire sotto-trame in quanto si accavallano e si alternano di continuo. La visione di questo notevole film mi ha confermato che i film Hammer (di rado ispirati o tratti da romanzi) si basavano su sceneggiature quasi più letterarie che cinematografiche: racconti scritti per lo schermo, certo, ma disegnati con una struttura molto più ricca rispetto agli schemi obbligati del cinema americano. Il reparto più debole è quello degli effetti speciali e del make-up. Pezzini e Tintori notano che un altro film, altrettanto ricco e intricato narrativamente, cioé The Gorgon, fa un tonfo quando appare la Gorgone stessa . Lo scheletro di The Creeping Flesh è indubbiamente fatto meglio, anzi anticipa per certi versi Alien e per altri Predator, tuttavia non riesce ad allontanare l’impressione generale di un lavoro piuttosto artigianale e deludente nei dettagli. Credo che ciò avvenga perché nonostante tutto, alla Hammer non si prestava grande attenzione a questi elementi, preferendo dare maggior rilievo agli attori, agli ambienti, all’intreccio narrativo. Parlare dei film della Hammer e raccontarne (come fanno Pezzini e Tintori) le trame e gli snodi, non è un semplice discorso di critica cinematografica, ma è una ricostruzione/svelamento della natura intimamente letteraria di questi progetti. A volte per raccontare un film, Pezzini e Tintori, pur sintetizzando, si trovano a dover scrivere parecchi capitoli, tanti e tali sono i riferimenti che portano “oltre” le singole scene, e spesso anche “oltre” il film. Nessuna sinossi di un film americano è confrontabile a impianti narrativi così complessi e condotti su diversi piani. Il cinema americano è da sempre ossessionato dai focus point, sia nella definizione dell’immagine, sia nella disposizione degli eventi. Il “terrore” è che il pubblico perda attenzione e dunque si privilegia una narrazione lineare che rifugge dalle digressioni, tenendosi sempre agganciata al filo principale del racconto. Alla Hammer non hanno questo “terrore” : pur rivolgendosi a un pubblico di target, non rinunciano ad una narrazione aperta, rimodulando quasi all’infinito temi e personaggi , ambienti e situazioni, tutte riconducibili alla tradizione vittoriana, che è tradizione eminentemente letteraria. A volte si ha l’impressione di un eccessivo accumulo, ma non si resta mai con l’impressione di aver visto un “filmetto divertente”, di mero servizio a un pubblico da Drive In. In questa luce acquistano senso i giudizi di Lee sul perchè da un certo punto in poi, quei film sono peggiorati qualitativamente: le sceneggiature non erano più così buone. Il successo commerciale aveva evidenziato degli stereotipi e ci si illudeva che bastasse rimarcarli. Col tempo anche il set, la messa in scena, divennero più poveri. Paradosso, questo, tipico del cinema: quando un tipo di prodotto ha successo, attua una sorta di auto-exploitation, e degrada in routine. Produttivamente si taglia ciò che viene considerato inessenziale o superfluo. Si investe in quantità più che nella qualità dei singoli film e con ciò ci si consegna al declino e alla fine. Ora: l’originalità e il pregio della Hammer del periodo d’oro, erano assai simili a quelli di una serie televisiva americana come Twilight Zone (Ai Confini della realtà). Gli episodi della serie erano affidati a scrittori (il “giro” di Matheson, per semplificare), ciascuno di essi rappresentava un’idea narrativa tipicamente letteraria, erano gli Autori la vera guida della produzione, cioè gli Scrittori, la Regia, e quell’Autore sullo schermo, in piena luce, che è l’Attore (quanti ne lanciò Twilight Zone! da Robert Redford a Charles Bronson). Questo slancio verso un cinema o un racconto televisivo eminentemente narrativi, si è indubbiamente un po’ perso: se tanti film sono oggi tratti da romanzi o da fumetti, è perché il lavoro dello sceneggiatore si è degradato a un lavoro tecnico di supporto alle immagini e agli effetti, perdendo quelle caratteristiche d’autore che lo legavano alla letteratura. La letteratura dev’essere prima, o comunque restare “altrove”, come lontana “fonte” . Lo sceneggiatore viene depauperato dall’idea stessa da cui origina il racconto e dalla libertà di strutturarlo come vuole. Il plot “funziona” non se funzionale al racconto in sè, ma come appoggio per una serie di situazioni di pura resa spettacolare. Tutto deve risultare alla fine chiaro e concluso: e dunque si esclude dalla scrittura come dalla recitazione il non-detto, l’alluso, la sottile inquietudine destata da un racconto su più piani, che mescola eventi surreali e simbolici a morbosità individuali dei personaggi , senza condurre mai a una spiegazione univoca e a metafore inequivocabili e “a una direzione” (ad esempio quelle di tipo sociale o politico, che nei film Hammer sono tenute sempre molto sullo sfondo e mai enfatizzate). Va aggiunto che , dopo il declino, la Hammer cercò comunque con due serie televisive, di tornare al modello originale, cioè a una libertà autoriale di evidente impronta letteraria, ma non “derivata” dalla narrativa. Alcuni di questi episodi sono davvero molto belli. Non siamo di fronte a un riciclo di temi fantastici già codificati, ma a una continua invenzione. Si assiste senza capire subito al volo dove possa condurre il racconto. Ciascun episodio ha una sua personalità, resta distinto dalla serie, eppure l’insieme è egualmente seriale tanti sono i richiami simbolici che da un racconto rimandano all’altro.

Postato mercoledì, 26 gennaio 2011 alle 11:52 da Gianfranco Manfredi


@Gianfranco:Solo un appunto “The creeping flesh” non è un film Hammer,ma di una piccola casa produttrice inglese.Nel periodo in cui esce “The creeping flesh” la Hammer aveva già iniziato ad abbandonare gli stilemmi vittoriani e a innestare codici prelevati da altri generi che in quel periodo stavano avendo successo.Per il resto il tuo discorso sulla caduta qualitativa dei film Hammer e sulla loro natura letteraria è esatto.Un particolare che per esempio mi ha colpito è la cura con cui sono realizzati gli ambienti,con una ricostruzione dell’ambiente vittoriano più precisa e credibile rispetto ai film Universal,che invece filtravano tutto con una mentalità tipicamente americana.In questi giorni ho visto “La lunga notte dell’orrore” (Plague of the zombies) di John Gilling e sarebbe molto interessante confrontarlo con il “White Zombie” di Victor Halperin della Universal,poichè i due film pur avendo uno scheletro simile hanno in realtà un approccio diverso alla stessa materia,che rivela anche le differenza tra le due case cinematografiche.
P.S.Mi sto guardando in questi giorni anche alcuni dei film su Frankenstein e devo dire che le performance di Cushing sono straordinarie.

Postato mercoledì, 26 gennaio 2011 alle 13:20 da Francesco Moretta


Grazie per la correzione, Francesco. In effetti, ho controllato sul Pezzini-Tintori, il film fu prodotto da Michael Redbourn per la Tigon British-World Film Service. (Per inciso, Redbourn aveva all’epoca ventisette anni! Quanti nomi di attuali produttori sotto i trenta vi vengono in mente?). Il regista era Freddie Francis. Gli attori naturalmente Lee e Cushing. La Hammer anche se non c’è, c’è lo stesso. Ma va riconosciuta al film una sua originalità anche di rappresentazione. Ad esempio quasi l’intero racconto è in Flash Back e la cornice è volutamente astratta, un laboratorio tardo-ottocento (per i mobili) ma in un ambiente completamente bianco, dove tutto pare galleggiare nel nulla. Questi film indipendenti o di altre case produttrici nel solco Hammer, come la Amicus, non sempre possono essere considerati “minori”. E’ vero che la struttura a episodi di alcuni toglie un poco di pathos narrativo e non tutti i bozzetti così costruiti sono efficaci (si sa che nei film a episodi , tranne rarissimi casi, almeno la metà degli episodi sono mosci), però anche questi film , proprio per la scelta del “corto”, hanno qualcosa di letterario, cioè una evidente derivazione dalle short stories. Paradossalmente è molto meno letterario un film a episodi come “Tre passi nel Delirio” nonostante si tratti di un omaggio a Poe. Fellini del suo Toby Dammit fa un episodio stralunato della Dolce Vita. E non parliamo neanche del Metzengerstein di Vadim che di poesco non ha assolutamente nulla. E che dire del William Wilson di Louis Malle, che da una storia di college e di intemperanze giovanili, diventa la storia di un ufficialetto dell’esercito? Insomma… perché un film sveli una traccia letteraria non è assolutamente necessario che derivi da un’opera letteraria: è nel modo del racconto che si rivela l’impronta letteraria. Alcuni episodi dei film a episodi dell’epoca Lee-Cushing sono così sedotti dall’idea letteraria da non riuscire a renderla efficace cinematograficamente. Un rampicante che aggredisce una casa di campagna, crescendo a dismisura, ricorda, come tema, Lovecraft, ma la sua efficacia cinematografica fin sulla carta avrebbe dovuto essere messa in dubbio. Le scene horror con le piante finte, ci avete fatto caso?, risultano quasi sempre ridicole. Certe sensazioni sono rese orripilanti dalla vaghezza e allusività, dai pochi tocchi sapiente disposti dalla rappresentazione letteraria e che ci spingono da lettori allo sforzo di immaginare l’inimmaginabile. Il cinema invece mostra ed è costretto per sua natura a essere realistico e in assenza di grandi mezzi questo realismo diventa povero. Nel caso citato, quando la pianta si muove, diverse volte si notano i fili… Tuttavia uno stile cinematografico più letterario può riservare altre sorprese, che non stanno negli effetti speciali, ma nel sotto-testo, in una sensazione di disagio e di aleggiante follia che la conclusione della storia non dissolve e non scarica. Si resta con la sensazione che lo scioglimento, a volte la stessa spiegazione, non sciolgano e non spieghino tutto. La specificità del racconto horror britannico sta proprio nel fatto che al centro sta la rappresentazione del Mistero, non la sua spiegazione (come avviene invece in Sherlock Holmes, dove gli eventi più diabolici e foschi trovano una loro esaustiva spiegazione razionale).

Postato mercoledì, 26 gennaio 2011 alle 19:12 da Gianfranco Manfredi


@francesco. LUCERTOLA SPARASANGUE. Sì, a parte le lingue che – come schizzava Molière – « hanno sempre del veleno da diffondere », a sputare sangue ci sarebbe anche la lucertola cornuta (Phrynosoma cornutum), un rettile dalla forma tozza e schiacciata, simile a un rospo, diffuso specialmente in Texas e presente anche in Messico. Gli schizzi di sangue lanciati da speciali condotti agli angoli degli occhi contengono una sostanza chimica nociva a cani, lupi e coyote. Insomma, volendo trovare una spiegazione razionale, il piccolo rettile schizza sangue velenoso per confondere i predatori.
Mentre cercavo notizie sui « cobra sputatori » – rappresentati dal cobra dal collo nero (Naja nigricollis), il ringhal africano (Hemachatus haemacatus) e il cobra sputatore del Mozambico (Naja mossambica) – ho trovato un documentario di National Geographic, dove vengono illustrate tutte le “motivazioni” della lucertola sparasangue.
http://www.youtube.com/watch?v=gEl6TXrkZnk

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P.S. Si potrebbe ambientare un racconto horror in un rettilario.

Postato mercoledì, 26 gennaio 2011 alle 22:24 da Gianni De Martino


P.P.S. Secondo Crichcton sarebbe esistitito anche un dinosauro sputatore. L’animale in questione viene presentato in « Jurassic Park » come un Dilophosaurus e nel film di Spielberg a un certo momento lo si vede sputare veleno sul volto di un personaggio. Per distinguerlo dai raptors, il regista lo ha dotato di una specie di collare. L’invenzione del dinosauro sputacchione non è necessariamente inverosimile, ma si è ridotti alle speculazioni, come accade spesso con i dinosauri. Più che dei grandi dinosauri, forse bisognerebbe avere più paura – mentre ci si aggrappa a un libro, a un film o all’ultima radiografia – di quelle piccole, strane nuove forme di batteri di cui parlano i giornali di oggi. « Producono delle tossine simili al letale veleno dei serpenti a sonagli e spopolano negli ospedali italiani trovando nuove vittime in cui insediarsi ». Spopolano ? Infezioni croniche ? I malati più deboli ? Nuove vittime ? Proprio perché forme di vita invisibili e quasi impercettibili, questi batteri sembrano reclamare a gran voce una spiegazione. Del resto, ai malati basta poco per provare, se non orrore, almeno una qualche vaga inquietudine e un po’ di paura. In un romanzo horror, orde di malati inferociti potrebbero ribellarsi e mettersi alla ricerca del Direttore sanitario per fargli qualcosa di molto brutto. Batteri –s-simili- al- veleno- di –s-serpenti – s-si –aggirano- qui- in- c-c-orsia ecc.
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P.S. Si potrebbe ambientare un racconto horror in un cronicario.

Postato mercoledì, 26 gennaio 2011 alle 23:08 da Gianni De Martino


@ Gianni De Martino
Di un simil-cronicario ne ha già parlato Michael Crichton in Andromeda, e anche con risultati splendidi dove, oltre all’horror dell’epidemia (leggere per credere), ha aggiunto anche un punto di vista scientifico, tant’è che, per scriverlo, si è avvalso della collaborazione di marina, aviazione, divisione spaziale, esercito, scienziati che collaborarono al Progetto Wildfire, tecnici e docenti universitari. Sembrerebbe cronaca, non frutto di fantasia.
Non ho ancora ben capito che cosa intendiate per horror perchè non leggo questo genere di letteratura (e non per snobismo, forse per immaturità), ma ho trovato “orripilante” quello che trovano a Piedmont, Arizona.

Postato giovedì, 27 gennaio 2011 alle 09:23 da Antonella Beccari


Io credo che l’orrore sia individuale: quello che può essere orrifico per un individuo, può non esserlo per un’altro. E comunque mi pare che l’orrore sia il frutto delle nostre paure più nascoste, quelle che troviamo difficoltà a rivelare a noi stessi.
Quando la stessa paura nascosta è condivisa da più persone, o da molte persone, per motivi differenti che potrebbero essere religiosi, psicologici, etici, … piuttosto che credenze ataviche o fatti remoti non risolti trasformati dall’immaginazione, ecco che compare una simbologia di eventi o di personaggi (Dracula?), o comunque la costruzione di un sistema orrifico che probabilmente ha la funzione di esorcizzare la paura.
Sarebbe comunque preferibile che mi andassi a leggere tutto il dibattito sulla letteratura dell’orrore (non la letteratura).

Postato giovedì, 27 gennaio 2011 alle 09:24 da Antonella Beccari


In ogni caso, qual’è la definizione di letteratura dell’orrore, se non è già stato detto?
Quando la letteratura è veramente di orrore e non thriller?
Ma, soprattutto: CHI e PERCHE’ legge la letteratura dell’orrore?
*
E dal punto di vista dello scrittore: CHE COSA spinge uno scrittore a scrivere della letteratura dell’orrore?

Postato giovedì, 27 gennaio 2011 alle 09:25 da Antonella Beccari


Naturalmente, non sono così ingenua da non aver mai letto niente di letteratura dell’orrore, ma queste domande continuo a farmele.
Mi viene in mente che la storia di Harry Potter, se non fosse stata trasposta nella versione sdolcinata per ragazzi (si poteva fare di meglio per i ragazzi, peccato), e fosse stata trasposta invece per gli adulti, sarebbe stata un’autentica storia dell’orrore, a mio parere.
Dico stupidate?

Postato giovedì, 27 gennaio 2011 alle 09:26 da Antonella Beccari


errata corrige: naturalmente intendevo versione cinematografica sdolcinata e, di riflesso, versione cinematografica per adulti.
Alla Rowling tanto di cappello.

Postato giovedì, 27 gennaio 2011 alle 09:31 da Antonella Beccari


Una comparsa veloce – ho giornate in ufficio da dieci ore in gran parte con gli occhi a video, per cui li sento come uova fritte – per ringraziare delle parole gentili sul nostro lavoro.
Come accennavo però a Gianfranco, durante le vacanze natalizie ho avuto un po’ di tempo e ho colto l’occasione per una piccola ricerca. In qualche modo mi sembra c’entri con la provocazione sul senso dell’orrore di cui parla Antonella. È stata da poco edita in Italia da Castelvecchi una delle edizioni primonovecentesche più diffuse della storia di Robin Hood, quella di McSpadden – un’edizione nata fondamentalmente per un pubblico giovanissimo, perché il tema all’epoca cominciava a non interessare più gli adulti (se non nelle versioni musicali, che però avevano tutto un altro significato). Bene: la morte di Robin, svenato da una suora, è oggettivamente piuttosto orrifica. Ho condotto una piccola mappatura delle diverse letture dell’episodio in testi tra Otto e Novecento, e ci sono variazioni di qualche interesse. Ma l’inquietudine cresce se andiamo alla ricerca del testo-base, una ballata medievale molto enigmatica, che conduce a oscuri sottotesti mitologici. Ripeto, non è una storia dell’orrore in senso tecnico, ma con il mix di sapore onirico, morte, sangue che fiotta e non si riesce a fermarlo, con la sua Sacerdotessa senza faccia e il retrogusto di misterioso paganesimo, lascia veramente spiazzati. Dove certo a turbarci sono i singoli elementi – ma, e forse di più, l’eco sghemba e perturbante che essi rilasciano, e risuona da qualche parte dentro di noi. Nessuna sorpresa che oggi la malefica suora sia stata promossa a vampira nell’ambito di una mitologia postmoderna…
Per chi fosse interessato, la ricerca è pubblicata (in due tranche) alle pagine
http://www.carmillaonline.com/archives/2011/01/003744.html e
http://www.carmillaonline.com/archives/2011/01/003759.html#003759
Un abbraccio!

Postato giovedì, 27 gennaio 2011 alle 22:36 da Franco Pezzini


Ciao Franco, mi riservo di leggere con calma la tua recensione che ho visto molto approfondita. Tra l’altro, attraverso rimandi e vari links, ho avuto anche modo di vedere quello di cui ti occupi.

Postato venerdì, 28 gennaio 2011 alle 13:13 da Antonella Beccari


Nel frattempo stavo riflettendo che, sulle pulsioni che portano a scrivere e a leggere letteratura dell’horror, ci sia anche la volontà di esorcizzare una certa vena nascosta di sadismo, una sorta di aggressività accumulata che trova sfogo nella narrazione – e lettura di narrazione – di situazioni truculente o emozionalmente distruttive, afflittive (se uso termini non appropriati, correggimi, per favore). Questo mi è venuto in mente quando ho leggiucchiato qua e là veri e propri concerti di risate sul sangue. :-)
(Chi non conosce quel punto in cui, dopo una situazione di tensione, si ride come matti?).
Ne consegue che uno degli effetti secondari di “leggere horror” sia pulire il sangue attraverso il riso??

Postato venerdì, 28 gennaio 2011 alle 13:14 da Antonella Beccari


Ma… al di là di grossolane ipotesi psicologiche, mi interessa maggiormente sapere se, secondo te, la letteratura dell’horror deve necessariamente investire la sfera della metapsichica.
E, d’incanto, nel momento in cui mi si è affacciato alla mente questo pensiero, si sono accumulate altre domande:
1) che posizione ha la chiesa cattolica, al momento, sulle questioni vampiresche? E sull’esorcismo?
2) Un ateo o un nichilista possono scrivere e leggere compiutamente di letteratura dell’horror? Che substrato hanno per poter narrare di vampiri ed esseri che appartengono a una fascia cognitiva presumibilmente “sottile”?
4) Qual’è il retroterra culturale e antropologico di uno scrittore dell’horror? E di un lettore?

Postato venerdì, 28 gennaio 2011 alle 13:15 da Antonella Beccari


Naturalmente, continuano a valere sempre le mie domande di un paio di posts fa: Chi, Perchè, Che cosa.
E, naturalmente, continua a valere il fatto che possa aver ripetuto concetti già discussi, perchè non ho ancora avuto modo di leggere tutto il dibattito.
Un abbraccio anche da parte mia.
Ps: perchè tu non ti senta in dovere di rispondermi, la mie domande sono certamente rivolte a tutti coloro che abbiano la voglia, il tempo e l’interesse di parlarne.

Postato venerdì, 28 gennaio 2011 alle 13:15 da Antonella Beccari


ancora @ Franco Pezzini (…provocazione sul senso dell’orrore di cui parla Antonella…)
Provocazione???!
Vengo in pace, ma non sono disposta a farmi succhiare sangue :-)

Postato venerdì, 28 gennaio 2011 alle 13:16 da Antonella Beccari


Mi capita di avere un libro di Stephen King: “Una splendida festa di morte”, un libro del quale, una volta tanto, ho visto la versione cinematografica ma mai letto la stesura letteraria.
E’ lecito chiedere, in un tale sanguinario convegno, se VALE LA PENA di leggerlo, al di là di passione o no per la letteratura dell’orrore?
O mi aspettano fischi?
E che genere di fischi: sulla scelta dell’autore o sul valore letterario del libro?

Postato venerdì, 28 gennaio 2011 alle 13:18 da Antonella Beccari


Cara Antonella, vale sempre la pena di leggere Stephen King, che al di là del giudizio estetico sulla sua narrativa, è stato un faro per la letteratura americana contemporanea, punta di diamante di un vasto movimento di scrittori (della generazione degli anni 80) che hanno rinnovato sensibilmente non solo il panorama di genere, ma il modo stesso di scrivere romanzi. Questo rinnovamento faceva il paio con il richiamo a una tradizione del “romanzone” che fino ad allora il genere horror aveva ben poco coltivato, perché più legato da un lato alla tradizione classica delle short stories , dall’altro a quella del pulp. Non era così facile scommettere all’epoca che un pubblico di target come quello dell’horror avrebbe accolto con entusiasmo volumoni di centinaia e centinaia di pagine che contenevano tra l’altro digressioni folkloriche, di storia americana, spaccati sociali e in particolare riflessioni sull’infanzia e sul passaggio dall’adolescenza all’età adulta. I momenti ironici e anche quelli volutamente cialtroneschi non appaiono come un “buttiamola sul ridere”, ma all’interno di una dinamica emotiva dominata da alti e bassi , che da un lato aveva a che fare con l’esperienza delle droghe, dall’alto con una condizione di “depressione” (giovanile in particolare) e dunque di paure immotivate da un lato e di euforie incontrollate e anche demenziali dall’altro. Sugli stessi fondamenti nacque in Italia la grande eco di massa che ebbe un personaggio come Dylan Dog. Nuove generazioni di lettori si trovavano rispecchiati nella continua alternanza tra “visioni” da incubo e barzellette di dozzina nelle pause tra un’emozione forte e l’altra. Anche i primi film di Dario Argento vivevano di questa continua alternanza. E su questa alternanza, se ci si fa caso, sono anche basati i monologhi dei nuovi comici che non a caso negli anni 80 sono anche stati chiamati “melancomici” (c’era un fondo di amarezza in molti film di Verdone e di Troisi e anche di più nei primi di Benigni: in Berlinguer ti voglio Bene, la madre del protagonista viene dipinta con evidenti connotati Horror… e la fata dai capelli turchini in “Pinocchio”, viene da Benigni raffigurata come una sorta di Regina Dark, che mette paura più che suscitare un bisogno di consolazione “materna”). Il discorso sarebbe lungo, ed è comunque già stato ampiamente svolto in questo blog. Alle tue domande, troverai risposte nei “capitoli precedenti”, anche se mi rendo conto che potrai ritrovarti a disagio per la messe di citazioni incrociate e di riferimenti da “cultori” dell’horror che potrebbero risultare enigmatici a chi non lo ha frequentato da vicino. D’altro canto i riferimenti qui coinvolgono anche il folkore, la psicanalisi, la medicina, la scienza, la letteratura cosiddetta “alta”, e tutti noi partecipanti a questo blog ci siamo trovati spesso di fronte a cose che non sapevamo e che abbiamo appreso gli uni dagli altri. Mi pare che i momenti migliori di questo blog non siano stati quelli (occasionali) in cui abbiamo polemizzato amabilmente tra noi, ma quelli in cui abbiamo condiviso delle ricerche, e dunque delle domande, più che delle risposte.

Postato venerdì, 28 gennaio 2011 alle 14:17 da Gianfranco Manfredi


Molto interessante (come sempre) il tema lanciato da Gianni, dello “sputo”. A me pare che i dinosauri sputino perchè per noi ormai lo sputo in pubblico è un’abitudine preistorica. Nell’ottocento (cioè all’epoca non lontana dei nostri nonni e bisnonni) sputare in luoghi pubblici era una consuetutine. Unica precauzione igienica: le sputacchiere, che venivano collocate anche nei grandi alberghi non soltanto nelle taverne o nei saloon del west. Gradatamente, lo studio delle turbercolosi, suggerisce maggiore prudenza. Alla fine dell’ottocento, gli inglesi in Cina, ormai trovano riprovevole e ripugnante l’abitudine cinese di sputare per terra. Per altro, chiunque abbia visto un film cinese anche d’epoca degli ultimi venti /trenta anni, può facilmente vedere che in quei film non si sputa. Dunque sono cambiati anche i cinesi. Quando io ero ragazzino, a scuola si sputava eccome. L’avvio di una rissa tra maschi era quasi sempre il disonorevole “sputo in faccia”. Fiorivano le barzellette (da vomito) sugli sputi. Era se vogliamo l’unico concerto per scaracchi, perché poi questa pratica è stata bandita dal nostro costume civile. Ecco perchè oggi lo sputacchiare ci pare così distante, da risultare abitudine da dinosauri. E questo indipendentemente dalle sue valenze simboliche.

Postato venerdì, 28 gennaio 2011 alle 14:59 da Gianfranco Manfredi


Unico concerto per scaracchi, va letto come ultimo concerto…

Postato venerdì, 28 gennaio 2011 alle 15:07 da Gianfranco Manfredi


LO SCARACCHIO DELL’ANACONDA. Impressionante è anche lo scaracchio dell’anaconda, mitigato con ironia alla fine della scena del divoramento – quando Paul Sarone (Jon Voight), malgrado il corpo mezzo rosicchiato dai succhi gastrici del serpentone, trova le risorse e la classe necessari per tampinare un’ultima volta la regista Terri (Jennifer Lopez) facendole l’occhiolino. Un guizzo quasi impercettibile, che nello spettatore scioglie l’emozione di orrore in un sorriso.
http://dailymotion.virgilio.it/video/x2856s_anaconda-clin-d-oeil_fun
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Quanto al MORIRE DAL RIDERE o alle “risate sul sangue” come osserva Antonella, esemplare mi pare lo sgignazzo di Fortunato nel racconto di Poe “Il barile di Amontillado.
“Ah! Ah! Ah! Eh! Eh! Eh! Un ottimo scherzo, proprio un eccellente giochetto. Ci faremo un sacco di risate a palazzo – Eh! Eh! Eh! – sul nostro vino – Eh! Eh! Eh!”. Così sghignazza il nobile Fortunato, mentre Montresor – il vendicativo amico che ha come motto di famiglia NEMO ME IMPUNE LACESSIT – allinea mattone su mattone per murarlo vivo in una nicchia.
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Condividere non solo la fame e la sete, ma anche l’orrore di dover sparire prima o poi in una nicchia, non è forse la migliore compagnia ?

Postato venerdì, 28 gennaio 2011 alle 18:24 da Gianni De Martino


Ho solo dieci secondi e, Gianfranco, ci risentiamo con più calma però, leggendo Gianni, …
(“Ci faremo un sacco di risate a palazzo – Eh! Eh! Eh! – sul nostro vino – Eh! Eh! Eh!”.)
… mi è venuto in mente un raccontino che Asimov aveva inserito in una antologica dal titolo “Il delitto è servito “ (tit. orig.: Murder on the Menu;1984 / in Italia per i tipi di Rizzoli, 1989 ) e che, come filo conduttore, aveva il cibo.
Teoricamente dovrebbero essere racconti gialli ma “La specialità della casa” di Stanley Ellin è, a mio parere, un classico del raccappricciante. Altro che giallo, quello è un vero noir. Brrrrr!
Ciao e … buona notte

Postato venerdì, 28 gennaio 2011 alle 22:12 da Antonella Beccari


Per non parlare dello sputo in chiesa che, in una delle novelle in fondo più terribili del Decameron (I, 1), ser Ciappelletto si addossa quale peccato.
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Antonella ha sollevato una serie di questioni enormi, ma le risposte costituirebbero altrettanti saggi. Basti pensare al tema dell’esorcismo, che ha animato una serie di discorsi con il caro Andrea Colombo – colgo l’occasione per richiamare il suo pirotecnico romanzo primo proprio sul tema, Il Diacono, vera festa per gli amanti dell’horror teologico. E d’altra parte, come Antonella stessa premetteva in chiave d’ipotesi, molti spunti (o provocazioni, nel senso di richiami alla riflessione) sono già emersi nel lungo dialogo che grazie a Massimo intrecciamo da mesi. Moltissime delle riflessioni di Gianfranco, che in questi mesi ha intessuto uno straordinario itinerario su significato e contenuti dell’horror, muovono su questo terreno. Mi limito perciò a qualche considerazione-spot su un punto particolare.
No, non penso affatto che l’horror debba necessariamente investire la sfera metapsichica, e neppure che esistano connotazioni (o limiti) di fede o ideologie anche solo “privilegiate” per accostarsi all’horror. Se poi vogliamo usare davvero il termine horror: per esempio un po’ tutti i grandi nomi del cinema che di “orrore” si è occupato – da Cushing e Lee a Vincent Price e, prima, Karloff – non amavano affatto questa etichetta. Credo che l’unico prerequisito di questo linguaggio, se mai uno se ne possa riconoscere, stia nell’accettare il gioco – e il turbamento (in tutte le accezioni possibili) che può derivarne. Anche nel senso, sottolineava sempre Gianfranco, delle domande che ci suscita. Poi è l’esperienza di ciascuno a permettere di cogliere o sviluppare questo o quello spunto. Se Terence Fisher non avesse avuto il suo retroterra vittoriano, non sarebbe riuscito a costruire i gioielli di film di cui parlavamo. Una certa apertura alle chiavi del mito (nel senso di linguaggio esemplare) e del simbolo indubbiamente può aiutare, ma non è esclusiva. D’altra parte per Jean Rollin, che mi piace ricordare a poco tempo dalla scomparsa, ‘fantastico’ e ‘sovrannaturale’ sono concetti opposti. Non so, forse è una formulazione eccessivamente rigida (lui l’articolava soprattutto sul tema del rapporto con la libertà) e del resto un film come L’esorcista sposa idealmente i due linguaggi. Ma si torna al tema delle zone d’ombra improvvisamente rivelate e dello spiazzamento che ce ne deriva alle nostre coordinate, delle domande che si spalancano e mettono in crisi qualcosa di noi.

Postato venerdì, 28 gennaio 2011 alle 22:59 da Franco Pezzini


Non sapevo che Jan Rollin fosse morto… ho avuto una cotta di quelle davvero tremende per i suoi film. In pieno 68, ci fu un periodo in cui le sale cinematografiche di Parigi erano chiuse, per timore di incidenti. Le poche che restavano aperte, del resto, restavano anche deserte, perché “il pubblico” stava in piazza. Una sola sala resisteva, al Quartiere Latino, è proiettò il primo film di Rollin, strano esperimento di corto raddoppiato (primo e secondo tempo erano stati girati indipendentemente l’uno dall’altro) molto vicino al cinema di Bunuel , con il quale Rollin era cresciuto. Il manifesto di quel film (vampirico) venne creato da Philippe Druillet che era ai tempi una star nascente del fumetto francese. Quel film lo vidi soltanto moltissimi anni dopo, quando l’appena nato VHS favoriva scambi tra collezionisti che si inviavano reciprocamente film collezionati e se li scambiavano, insomma l’antenato del peer-to-peer. Recuperai così tutti i film di Rollin , lessi un suo bellissimo saggio su Gaston Leroux, trovai in Francia un paio di romanzi che Rollin aveva tratto dai suoi film, fino all’ultimo (credo sia stato l’ultimo, ma non ci giurerei) “Le due orfanelle vampire”. Rollin é uno di quei casi in cui da spettatori ci si abbandona al flusso delle immagini: il più delle volte della storia non si capisce niente , ma a nessuno importa di seguire “il filo”. Ci si ritrova come di fronte a un quadro astratto: quel po’ di Bertoldo che esiste in ciascuno di noi, ci sussurra la solita perplessa considerazione: “non si capisce niente” e neppure la lettura del titolo del dipinto ci dice molto, però si indugia stregati dalle immagini in sè, belle, brutte, simboliche, raffazzonate, precise, incoerenti , come in un sogno il cui significato sta “altrove”, nella sua lettura a posteriori, non nel flusso onirico in sè. Regista di margine per la sua intera esistenza, Rollin si riteneva comunque (e non a torto) un maestro: sempre circondato da “muse inquietanti”, si faceva chiamare l’Imperatore. Intervistarlo era come avvicinarsi a uno strano guru , strano perché nonostante i riti e i cerimoniali di cui erano pieni i suoi film e che accatastavano folklore reinventato (danze e cacce di uomini cervi) , danza del ventre (c’è una lunghissima sequenza in tempo reale di una danza del ventre, in uno dei film di Rollin, tra un cerimoniale vagamente hippy e un altro tendente al porno), nonostante questo, dicevo, Rollin non è mai stato, né ha mai voluto essere uno “sciamano” alla Jodorowski. Il suo amato feuilleton popolare, lo trasfigurava in surrealismo puro, non governato da architetture di senso, ma da libere associazioni che parevano scaturire dall’occasionale. Molte scene risultano inventate all’atto stesso della ripresa, in quanto i copioni (anche nella trasposizione letteraria) non erano che canovacci . Rollin poteva restare affascinato da un costume di scena, come da un muro o da una cancellata, o da un paesaggio silente. Anche se parlati, i suoi film conservavano la magia dei film muti. Com’è riduttiva la definizione di horror per i film di Rollin! Rollin è stato l’ultimo (forse) esempio di come si possano coniugare temi “bassi” ( per il gusto medio borghese) e sperimentalismo da film-maker d’avanguardia. In molti saggi e rassegne cinematografiche, Rollin viene accostato a Jess Franco, ma non c’è davvero paragone. Rollin non produceva per il mercato, ma usando il mercato come pretesto. Rollin sfruttava l’exploitation , non se ne faceva ricattare. Uno scrittore o un cineasta, specie quelli tendenzialmente orrorifici, e attratti da un’estetica di confine, sempre sul punto di lasciarsi risucchiare dalla Linea d’Ombra, spesso creano e scrivono senza aver deciso prima cosa devono dire o raccontare, e senza nemmeno aver capito DOPO cosa hanno realmente espresso. Consegnano a sè stessi e agli altri un sogno.

Postato sabato, 29 gennaio 2011 alle 13:02 da Gianfranco Manfredi


SPUTARE NEGLI OCCHI DI MEDUSA ? Domande che mettono in crisi qualcosa in noi, e – perché no? – nella struttura. Domande che, come la scrittura, sono angoli che mai si chiudono… Come gli occhi spalancati di Medusa ?
« Sono gli occhi di una morta » – fa dire Goethe a Faust – « che una mano amorosa non ha chiusi ». Chissà perché la morte è una morta. Qualcuno ha dimenticato di chiudere gli occhi alla cara salma ?
La figura di Medusa condensa quello che per tranquillità chiamiamo fantasmi sessuali, di morte, di castrazione, ecc.
Forse l’horror, che non necessariamente deve investire, per essere tale, la sfera della metapsichica, è quello specchio d’inchiostro che, simile allo scudo di Perseo, permette di guardare in faccia l’orrore – questa zona per niente fantastica, ma zona assolutamente reale dell’esperienza – senza restarne medusati. E’ quanto sostiene peraltro anche Jean Clair in « Medusa. L’orrido e il sublime nell’arte », un libro insufficientemente edito a Milano da Leonardo nel 1992, ormai introvabile.
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A differenza del terrore, che è l’inquietante che non si vede, e i cui effetti devastanti fanno tuttavia gridare a gran voce, l’orrore rende muti. C’è un quadro – adesso non ricordo di chi – in cui è rappresentata “La strage degli innocenti”: si vede il piede del carnefice, che brandisce una spada, premere sul collo della vittima, mentre lì accanto una donna in ginocchio, forse la madre della piccola vittima, cerca di trattenerlo per le falde del mantello, e grida. E’ sintomatico che il carnefice prema il piede proprio sul collo, il punto in cui passano il fiato e la parola: la vittima non deve nè respirare nè parlare, neanche sputare…

Sciogliere l’emozione di orrore in parole, in un quadro o in un racconto non è facile. Direi che forse l’horror è, fin dall’Antichità, la scrittura meno gratuita che esista, la più pericolosa. Viene in mente, per esempio, un pensiero orribile, che però è anche una fandonia : a un certo momento, il personaggio di un racconto sputa negli occhi di Medusa.
Brrr ! Non sarà una finzione ? Forse è una finzione, un po’ come quella di Cepparallo da Prato quando, come ricorda Franco Pezzini – invece di riconoscere gli omicidi e gli altri peccati effettivamente compiuti – confessa di aver compiuto la leggerezza di aver sputato una volta nella chiesa di Dio. Al che l’ingenuo frate, sorridendo : « Figliuol mio, cotesta non è cosa da curarsene: noi, che siamo religiosi, tutto il dì vi sputiamo ».
E’ grazie all’ingegnosità e alla menzogna che Cepparello si guadagna l’assoluzione e l’estrema unzione. E, sparsasi la voce della confessione di un sant’uomo, dopo i funerali solenni viene addirittura proclamato santo : san Ciappelletto, alle cui reliquie votarsi per ottenere indulgenze.
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D’altra parte, ingegnosità e menzogne non sono forse all’opera anche nella scrittura ? Travestendosi nei panni della letteratura, si cerca di farsi accettare come non si è affatto. Il che non significa salvarsi davvero, anzi. La letteratura sarebbe un formidabile meccanismo di difesa sociale, che come diceva l’amico Tondelli : « non salva, mai ».
Autore di splendide fandonie, impertubabile buffone, lo scrittore al mattino – dopo il caffè e la doccia – si getta da se stesso in un angolo, un angolo che mai si chiude.
Mettendosi in crisi nella scrittura, simula un lampo – se non uno sputo negli occhi di Medusa.
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In ultima analisi, tutto è tragico, perché la vita è tragica. E la verità è orribile. Tuttavia, con poche eccezioni, tutto è convenzionale e « si traveste con gli abiti della inerme letteratura artistica ». Eppure, scrivendo oltre, sempre oltre, va incontro all’imprevisto…E’ lecito – senza per questo lasciarsi divorare, sputare o dissanguare – fare l’occhiolino e chiedere po’ d’indulgenza al lettore, all’ipocrita lettore, ecc. ?
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P.S. Divertente, a proposito del mito di Medusa, considerata da certo femminismo niente altro che l’espressione della paura del maschietto per l’alterità femminile, la rivisitazione, garbatamente ironica, che ne fa il Vinicio Capossela al ritmo di un mambo cha cha cha stile italiano anni ‘50 ’60 (“Non sono monstra / non sono velenosa / soltanto un po’ nerviosa/… / chiudi gli occhi e vieni qua, proprio qua, fammi un pò di cha cha cha!”).
http://www.youtube.com/watch?v=fNo7z0jvvJk
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Si racconta che l’ispirazione per il testo Medusa cha cha cha sia arrivata Stoccolma, a casa di un amica pittrice, che mentre spiegava un suo quadro raffigurante l’essere mitologico, spiegò in un italiano stentato che :” la Medusa non è una mostra, è soltanto un poco nerviosa”; subito poi alla richiesta di ulteriori chiarimenti aggiunse: “Perchè a lei piace tanto Uomini, ma poi un giorno uomo geloso aveva emesso lei sortilegio per il quale ogni uomo che guarda, lei diventa di pietra, diventa come baccalà, e tu capisce che con baccalà lei non può fare molto”. Insomma: “Mi piacciono i ragazzi ma un tipo un pò geloso mi ha appiccicato in volto questo sguardo odioso, affascinante ma difettoso, chi mi guarda non lo sa ma diventa un baccalà”.
:-)

Postato sabato, 29 gennaio 2011 alle 18:09 da Gianni De Martino


P.S. Rapidamente. “Il massacro degli Innocenti”, in cui il piede del massacratore schiaccia la gola del neonato, bloccando il tragitto del soffio nella piccola vittima, cercando di privarlo di quell’aria che sostiene e porta le parole, mentre il braccio dell massacratore respinge la madre che cerca di contrastarlo, è un quadro dipinto nel 1625 da Nicolas Poussin. Erano brutti tempi, guerre di religione, ecc. Il ricordo di questo quadro di Poussin è citato, a proposito della difficoltà di strappare qualche verità all’estrema immondizia rappresentata dai crimini contro l’umanità – dallo psicoanalista Michel Hirt, in « Vestiges Du Dieu – Athéisme Et Religiosité », Grasset, Parigi, 1998.

Postato sabato, 29 gennaio 2011 alle 18:45 da Gianni De Martino


Caro Goethe, forse non c’è niente di più difficile che tener fermo un morto per chiudergli, con amorosa mano, gli occhi.

Postato sabato, 29 gennaio 2011 alle 18:58 da Gianni De Martino


@ Gianni
(Jean Clair in « Medusa. L’orrido e il sublime nell’arte », un libro insufficientemente edito a Milano da Leonardo nel 1992, ormai introvabile.)
*

In questo momento c’è una copia in italiano al seguente indirizzo: http://www.marelibri.com/

digitare “Clair – Medusa” così come ho scritto. E qualche altra copia in altre lingue.
Ci sentiamo più tardi. Sono ai fornelli.

Postato sabato, 29 gennaio 2011 alle 19:32 da Antonella Beccari


@Antonella
Grazie, era da un po’ di tempo che cercavo una copia del libro di Jean Clair. Intanto “là fuori” , al Cairo, un mondo con frontiere fuori controllo brucia. Nell’assalto furibondo al Museo egizio vengono distrutte un paio di mummie dei faraoni restate finora intatte per millenni; e Mubarak – a torto o a ragione, mentre nelle piazze la polizia spara e lo Stato crolla – non sembra intenzionato a mollare.
Mollerà ? Andrà meglio con l’esercito e quell’ondivago El Baradei al potere oppure saranno i Fratelli musulmani a fare un golpaccio? Ci sentiamo più tardi. Sono, ahimè, davanti al televisore per il tg.

Postato sabato, 29 gennaio 2011 alle 21:45 da Gianni De Martino


ORRORE, TRANCE E RIVOLUZIONE. Intanto “là fuori” , al Cairo, un mondo con frontiere fuori controllo brucia. Nell’assalto al Museo egizio vengono distrutte un paio di mummie dei faraoni restate finora intatte per millenni; e Mubarak – mentre lo Stato crolla – non sembra intenzionato a mollare. Mollerà ? E’ quello che ci si chiede nelle cancellerie del Pianeta. In ogni caso, forse esiste, dal punto di vista di ciò che Marx chiamava transizione e i Fratelli Musulmani chiamano « intifada del popolo », un nesso sotterraneo tra il corpo che inorridisce, i peli irti sul collo, e il corpo sociale in trance.
E’ quando i corpi asserviti all’orrore di Stato si liberano, quando – come ha mostrato Boris Souvarine, nella sua descrizione del primo momento dell’insurrezione in Russia – insospettate riserve di energia giovane, rivoluzionaria, verdeggiante, a un tempo entusiasmanti e oppressive, fanno irruzione su tutti i punti e fin nell’infosfera, senza piano né parole d’ordine.
Quanto accade nei vicini paesi del Nordafrica – ripercuotendosi sui social network dal Tibet al Sudan – pare una trance sociale e planetaria. Energia libera ( per riprendere l’espressione di Freud, trasposta da Y.Stourdzé nell’analisi politica) che inaspettatamente si scarica, parola profetica che risuona e si amplifica. « Lo scuotimento- osserva Stourdzé – si diversifica, e deve la sua potenza alla copia di iniziative diverse che investono tutti i campi sociali, economici, culturali, ingabbiati dalle organizzazioni tradizionali ».
E’ l’effervescenza collettiva per così dire allo stato puro, che rischia di dissolvere lo Stato, la Burocrazia, la Chiesa, il Tempio e la Moschea, rischiando di far saltare in aria i musei, le pergamene, le mummie e i tabernacoli della persuasione.
Polizia e Esercito al servizio del Mercato sono, nella maggioranza dei casi, le ultime istituzioni che si dissolvono.In effetti, quanto accade sembra avere tutte le caratteristiche di una trance collettiva. Irrazionale ? Certo che lo è. Tutte le passioni vengono in qualche modo esorcizzate mettendole sotto l’etichetta dell’irrazionalismo. L’irrazionale tuttavia è là. Assume le forme della disperazione, anche di massa, e corre per le strade, grida come la follia sopra i tetti, spara dagli angoli delle finestre e nelle piazze – con il sangue che sembra dilagare ovunque. Gronda sangue dall televisore e dalle crepe che s’aprono nei muri di casa.
Si potrebbe scrivere un racconto in cui qualcuno si sveglia di soprassalto, va alla finestra, e nell’eco di molte voci ode la frase : « L’estraneo è di nuovo in città ». Naturalmente è già stato scritto.
Ma quello che volevo dire è che la tragedia non cessa di manifestarsi e d’insistere nell’esperienza umana, dietro la maschera dell’horror, se non del discorso specialistico e della cosiddetta « creatività », vale a dire della psicopatologia. Allo stesso modo, della rivolta poi non resta che un confuso ricordo. Anzi, se ne rimuove persino il ricordo quando l’ordine è ristabilito. Tanto è vero che non la si chiama rivoluzione, ma semplicemete rivolta. Insomma, Dracula non è mai veramente sbarcato a Londra.
Resteranno comunque, qua e là, in piazza, nere occhiaie carbonizzate di uomini, donne e bambini : l’assoluto nulla di questa Storia che non ha mai cessato di addentare e uccidere, e nella quale sarebbe assurdo voler identificare la vera vita di veri uomini, donne e bambini.
Insomma, solo vuota cornice di spavento ? Non saprei cosa rispondere, certamente oltre l’horror e l’orribile ci sarà dell’altro. Nel frattempo, lascio aperta la grande questione – anche perché non ho alcun diritto di fare come fanno la morte e la scrittura : riempire i buchi…
… « Là fuori » un mondo con frontiere fuori controllo brucia…. Forse compito della scrittura non è medicare tante ferite aperte, sanguinanti ; né dire che le rivolte dei giovani verdeggianti e oppressivi sono senza speranza. Solo vegliare. Sperando nell’invisibile e porgendo orecchio all’inaudito – se non al Mistero che si fa strada attraverso il nichilismo : talvolta in solitudine, altre volte in compagnia di qualche altro compagno di nicchia, se non dell’imprevisto.
In realtà ( che orribile espressione !) sarei un fifone. E non è vero che abito in una nicchia, in un ossario. Eppure – oscillando tra rivolta e obbedienza , come tanti altri arzilli vecchietti della mia generazione – mi dico che occorre, che è giocofarza sembrare intrepidi. Perlomeno in letteratura o in un blog.
:-)

Postato sabato, 29 gennaio 2011 alle 22:00 da Gianni De Martino


Gianni, è solamente un’occasione pilotata dai re del pianeta per verificare se sia possibile oscurare internet, a piacimento; approfittando di un malcontento latente popolare.
Un’esercitazione.

Postato domenica, 30 gennaio 2011 alle 00:11 da Antonella Beccari


@ Gianfranco
Ciao Gianfranco, tutto bene?
Da quello che mi dici, mi sembra di arguire che non avevo intuito sbagliato nel considerare i vari aspetti evocati che presupponevo fossero alla base della letteratura dell’orrore.
Sì, penso proprio che, a questo punto, leggerò tutto il dibattito, fin dall’inizio. Se non dovessi capire i numerosi riferimenti incrociati (cosa che avverrà sicuramente), mi permetterò di chiedere in merito.

Postato domenica, 30 gennaio 2011 alle 00:14 da Antonella Beccari


Per quanto mi riguarda, al momento non credo che la letteratura dell’orrore sia risolutiva nei confronti dell’aspetto metapsichico. Ho risolto e continuo a risolvere queste mie domande in altri modi, e su altri versanti.
Credo che comunque questo genere di letteratura sia anche sintomatico della volontà di risolvere certi “disagi” interiori; su quello esteriore ho altre idee, e che il fruitore di questa letteratura si aspetti una chiarificazione e magari una soluzione al misterioso orrido che percepisce dentro e fuori di sè, e che gli provoca questa percezione distruttiva.

Postato domenica, 30 gennaio 2011 alle 00:15 da Antonella Beccari


Dico questo perchè conosco una persona con forti problematiche di adattamento. Ora: questa persona è un’accanita appassionata di letteratura dell’orrore.
All’inizio pensavo che leggere orrore fosse controproducente per lei perchè avevo codificato gli effetti che invece produce su di me. Che sono tutt’altro.
Ma, ad un esame più attento e, direttamente dalla sua voce, ho compreso che per lei leggere letteratura di orrore ha un effetto taumaturgico, nel senso che instaura processi calmanti e lenitivi alle pulsioni afflittive che ogni tanto la sovrastano. Cioè, sembrerebbe avere funzione e proprietà di esorcismo su certe depressioni e congestioni mentali che le provocano disagi comportamentali.
Lungi dal pensare che sia la cura, naturalmente, ma siccome la letteratura dell’orrore è una di quelle poche attività a cui la persona in questione riesce a dedicarsi compiutamente, sarebbe interessante per me conoscere quali siano a tuo parere (((((e a vostro parere))))), quei testi per così dire “curativi”.

Postato domenica, 30 gennaio 2011 alle 00:16 da Antonella Beccari


Ho pensato che le passerò senz’altro il tuo “Ho freddo” perchè trovo che sia un libro “ragionevole”. Ragionevole nel senso che dà soluzioni razionali pur avendo quell’elemento di orrifico che dovrebbe appunto avere per essere esorcizzante. Un percorso e una soluzione ragionevoli credo la mettano in grado di mantenere il cervello in linea con una dialettica di consenso comune. Che è quello di cui manca.
Se le piacerà, passerò a darle anche “Tecniche di resurrezione”, il quale mi pare però più un giallo di genere noir che un vero genere di orrore, vuoi anche perchè affronta tematiche multiformi quali potrebbero essere quelle proto-medico-scientifiche, con tutte le credenze e le superstizioni insite. E pur non mancando i temi classici della morte, del cadavere, del cimitero, della riesumazione, il manicomio (che orrore!), e neppure quel famoso vincolo metapsichico su cui chiedevo chiarimenti, come requisito a questo genere letterario (intendo Jan e i suoi presupposti poteri).
Ma di questo se ne può parlare in altra sede sul dibattito che ti riguarda personalmente, non è vero?
Suggerimenti? Credo molto nel potere dei libri.
Grazie. Un abbraccio. (Sì, lo so che cosa stai pensando, Gianfranco, che sono una questuante di titoli, prima di capolavori e adesso di testi curativi…) ma se tu sapessi.. perfino nei miei sogni sono alla ricerca. E quanto leggo mentre sogno!

Postato domenica, 30 gennaio 2011 alle 00:17 da Antonella Beccari


@ Franco
Riguardo la terminologia horror, orrore, noir, ci avrei scommesso che ci sono dissensi ma, non sapendo bene quali sono i termini della disputa o delle dispute, mi sono attenuta a una terminologia d’intuito che, nei dibattiti, spesso trae in inganno.
Soprattutto in dibattiti dove non hai un punto di riferimento paraverbale che ti evidenzia un eventuale errore o un’inesattezza, se non conosci la materia.
D’altro canto mi sembra di capire che Cushing e gli altri rifiutassero l’etichetta – e giustamente -, perchè essere incasellati all’interno di un qualche cosa che ha vaghi contorni, non fa piacere a nessuno. Nel senso che automaticamente perde quel requisito di “vago contorno”. Insomma, perde un po’ di “magia”.

Postato domenica, 30 gennaio 2011 alle 00:18 da Antonella Beccari


Tu dici:
(“Credo che l’unico prerequisito di questo linguaggio, se mai uno se ne possa riconoscere, stia nell’ACCETTARE il gioco – e il TURBAMENTO (in tutte le accezioni possibili) che può derivarne.”)….
(“Una certa apertura alle CHIAVI DEL MITO (nel senso di linguaggio esemplare) e del simbolo indubbiamente può aiutare, ma non è esclusiva.”)…….
(“Ma si torna al tema delle ZONE D’OMBRA improvvisamente rivelate e dello spiazzamento che ce ne deriva alle nostre coordinate, delle DOMANDE che si spalancano e mettono in CRISI qualcosa di noi.”)……
*
Detto così, tutto questo lo potremmo applicare, per esempo, a 1984 di Orwell che, a giudizio unanime, sembrerebbe essere un’opera di letteratura fantascientifica.

Postato domenica, 30 gennaio 2011 alle 00:19 da Antonella Beccari


Eppure, quanto è grande la voragine di orrore in Winston al Ministero dell’Amore, mentre subisce con sorpresa crescente (sta ACCETTANDO il gioco?) l’annullamento sistematico e cordiale della sua mente da parte di O’Brien (quanto TURBAMENTO nell’apprendere che proprio il carnefice è il solo che possa capirlo e con il quale poter parlare perchè è l’unico che sappia conoscerlo).
Quanto alle CHIAVI DEL MITO, l’orrore, in questo caso, sta nella totale volontaria sistematica distruzione di un linguaggio esemplare; ma d’altronde stai dicendo che non è una condizione esclusiva. E quindi non la consideriamo.
E, per finire, quando arrivi alla fine del libro e ti aspetti un ultimo spettacolare – quantomeno con se stesso – atto di eversione da parte di Winston, che l’aveva già pre-visto all’interno del ministero (ZONE D’OMBRA), invece ti chiedi/mi chiedo, letta la parola fine:
“… ma a Winston, il nostro Orwell, con quelle due lacrime silenziose e puzzolenti di gin, alla fine, glieli ha dati i dieci secondi oppure no, secondo voi? (DOMANDE)
Ogni tanto me lo chiedo.” (CRISI)

Postato domenica, 30 gennaio 2011 alle 00:20 da Antonella Beccari


Questa era una cosa che avevo scritto qualche giorno fa nel dibattito sulla televisione che vorreste, ma ero più in coda di qui – il che significa che ero proprio in coda :-) ahahaha… e quindi ne approfitto per rifare la domanda in estemporanea a voi (lo so che non ha nulla a che fare con questo argomento).

Postato domenica, 30 gennaio 2011 alle 00:20 da Antonella Beccari


@ Gianfranco Manfredi
Caro Gianfranco, mi sono accorto solo adesso che un tuo commento (credo quello delle 13:02 di giorno 29/01/2011 era finito in moderazione (per motivi che – aihmè – non comprendo).
In ogni caso l’ho recuperato.
Invito gli altri amici a leggerlo.
-
P.s. questo dibattito non-morto pulsa di nuova-vita. ;)

Postato domenica, 30 gennaio 2011 alle 00:21 da Massimo Maugeri


Ritornando invece all’argomento che interessa qui.
Siamo tutti d’accordo che 1984 di Orwell, per qualche motivo, NON è letteratura di orrore.
Perchè?

Postato domenica, 30 gennaio 2011 alle 00:21 da Antonella Beccari


@ Gianni
Gianni, continuo attraverso il discorso intrapreso con Franco, perchè altrimenti dovrei ripetere le premesse.
*
Winston guarda in faccia alla morte ogni istante. Sa che lo sta aspettando al varco.
Addirittura la presagisce puntuale nel sogno, in modo cronologico, prima attraverso la figura sognata dell’amata Julia (“occhi di una morta”?) che si fa mezzo (questo lo intenderà dopo e in fase non onirica) come il mezzo per raggiungere la morte che inevitabile lo aspetta (nella figura di un O’Brien sognato che lo attende “là dove non ci sono tenebre”).
(“senza restarne medusati.”): Winston è perfettamente consapevole. L’orrore sta nella quantità di certezza che lo avvolge (tanta, troppa, così forte che se penso a 1984, sento odori nauseanti), circa il suo genere di appuntamentto con la morte.
(“l’orrore rende muti”): Winston è un inno all’effetto dell’orrore: non è solo muto, è basito.

Postato domenica, 30 gennaio 2011 alle 00:22 da Antonella Beccari


Scusa Massi l’incrocio..mi manca poco ;.)

Postato domenica, 30 gennaio 2011 alle 00:23 da Antonella Beccari


E qui, invece, mi ripeto:
Siamo tutti d’accordo che 1984 di Orwell, per qualche motivo, NON è letteratura di orrore.
Perchè?

Postato domenica, 30 gennaio 2011 alle 00:24 da Antonella Beccari


Relegando in un angolo – per un momento -, il libro di letteratura di orrore fantastico di fantascienza giallo, di genere contenuto e significato puramente e totalmente rispettivamente di orrore fantastico di fantascienza giallo, etc…, e relegando in un angolo anche quei libri di genere contenuto e significato misti:
che cosa fa di un libro, ALMENO UN PO’, più un libro di orrore, fantastico, di fantascienza, giallo, etc…?

Postato domenica, 30 gennaio 2011 alle 00:25 da Antonella Beccari


Scusate la tripla ripetizione, ma era necessaria per dare un contesto logico alla domanda.
Quanto alla risposta o alle risposte, indico un dibattito anche con me stessa e vediamo che cosa si produce.
In ogni caso, la mia potrebbe sembrare una domanda oziosa ma, risolvendola, si taglierebbe la testa a tanta critica oziosa (quella sì), che scrive volumoni su dei libri che, spesso, non rientrano proprio in nessun genere ma, sembrano essere semplicemente, buona letteratura finalmente.
Buonanotte :-)

Postato domenica, 30 gennaio 2011 alle 00:26 da Antonella Beccari


Ah… mi è tornato in mente un libro di letteratura di orrore (!) che avevo letto qualche anno fa e che mi era piaciuto per la ricostruzione sugli enigmi e le verità del conte Vlad III detto l’Impalatore, principe della Valacchia medioevale, dotto frequentatore di papi e paladino della Cristianità contro gli ottomani, il cui feroce regno ispirò la leggenda (?) di Dracula.
E’: Il discepolo, di Elizabeth Kostova.
Commenti? O è letteratura minore nel genere?

Postato domenica, 30 gennaio 2011 alle 00:26 da Antonella Beccari


Sono assolutamente d’accordo con Gianfranco, anch’io amo il surrealismo spiazzante dei film di Rollin, la sua capacità di riprendere l’eredità dei feuilleton con incredibili derive oniriche. Ho visto solo una parte dei suoi (moltissimi) film, e l’etichetta horror va stretta. Ma è anche vero che una simile etichetta, legata a una definizione anglosassone dei generi, resta inadatta per gran parte del lussureggiante fantastico francese. Il problema dei generi – per venire alle interessanti questioni poste da Antonella – è che non costituiscono etichette “assolute”. L’adattamento a contesti culturali diversi implica un diverso assetto di ingredienti (mi si passi il termine), di sguardo. Anche una distinzione netta dal mainstream in molti casi non è possibile. Storia di avventura con mostri, amori in giro, agnizioni ed eliminazione finale dei cattivi: potrebbe essere genere “puro” ma è l’Odissea… A questo punto, ‘1984’ è horror? A seguire rigorosamente i criteri scolastici no, per tanti motivi: a partire, se vogliamo, dal fatto che né l’Autore né gli editori volevano raccordarlo a un filone di genere. Ma proprio le riflessioni di Cushing – che interpretò ‘1984’ in una memorabile versione TV inglese, che suscitò strascichi polemici di benpensanti fino in Parlamento – permettono di non porre cesure troppo nette. Intendiamoci, la riflessione sui generi è importante, ma personalmente quel che mi interessa davvero è la ricchezza di spunti di un’opera, quale che ne sia l’etichetta ufficiale.
Molto belle, del resto, le riflessioni di Gianni su Medusa. Forse è proprio a quell’icona che possiamo guardare per cogliere il senso dell’orrore. Si è citato giustamente il bellissimo testo di Clair. Ma rimando a qualche titolo recente, con riflessioni estremamente illuminanti. Penso per esempio al bellissimo ‘Orrorismo – ovvero della violenza sull’inerme’ di Adriana Cavarero (Feltrinelli, 2007), che riprende proprio l’icona gorgonica in una riflessione importante sulla violenza nell’oggi. Penso a ‘Le teste’ di Giuseppe Genna (Mondadori Strade Blu, 2009), dove la testa mozza è al cuore di una riflessione simbolica sulla malattia dell’Occidente e sui linguaggi mistificatori del Potere. E penso al saggio di Julia Kristeva, ‘La testa senza il corpo. Il viso e l’invisibile nell’immaginario dell’Occidente’ (Donzelli, 2009), dove uno straordinario repertorio iconografico conduce dai culti preistorici dei crani all’Acefalo di Bataille, finale icona di denuncia contro ogni violenza totalitaria da ideologie, religioni o pulsioni. Quando Cushing e Lee interpretano ‘The Gorgon’, uno tra i loro horror più politici – benchè anche qui l’etichetta horror vada stretta, a fronte di una parabola fantastica soprattutto poetica su infelicità e amore – certo usano i mezzi del genere, ma rimandano a un bacino simbolico di enorme profondità, e che ci tocca tutti. Anche in modo collettivo, con la denuncia di dimensioni di omertà comunitaria e di indicibilità che conducono ad amnesie patologiche, e permettono il sopravvivere di demoni inavvertiti, protetti da una violenza di sistema. Ne consiglio senz’altro la visione, è un film molto bello, in nulla rovinato dalla povertà di un effetto speciale finale – che però rimanda quasi provocatoriamente, in fondo, alla necessità di far dialogare senza cesure le culture cosiddette “alta” e “bassa”.
‘Il discepolo’ a me è piaciuto. Un gioco elegante di incastri in cui il vampiro si annida nel labirinto della scrittura e della memoria: qualcosa che ci insegue nella storia – anche la nostra, personale – e a cui non possiamo pensare di sfuggire. Difficile dire se come romanzo resterà importante – forse no – ma può senz’altro valere la lettura.

Postato domenica, 30 gennaio 2011 alle 13:10 da Franco Pezzini


In questo periodo mi sto occupando di Salgari, dato che ricorre il centenario della morte. Ho promesso (con grande piacere) a Massimo di scrivere un pezzo sul nuovo romanzo di Paco Taibo II a lui dedicato e lo farò presto. Dunque non intendo deviare dal tracciato di QUESTA discussione, ma ho ripensato a Salgari dopo aver letto l’intervento di Gianni sull’Egitto. Ora: quando si parla di Salgari si parla di avventura , cioè di una sorta di territorio a parte, di mondo esotico evocato, di geografie e di zoologie fantastiche, dove i riferimenti storici sono in genere tenuti di sfondo, e i meccanismi narrativi hanno un che di “eterno” nelle loro regole-base. Solo che, se si approfondisce, si vede che molti romanzi salgariani (quelli del ciclo della Tigre della Malesia, più un altro ambientato nelle Filippine, più un romanzo cinese sulla Rivolta dei Boxer pubblicato appena un anno dopo i fatti, più alcuni romanzi del ciclo africano) si ricollegavano direttamente a eventi recenti e recentissimi e alle cronache che venivano pubblicate sui giornali. Dunque non soltanto l’horror classico (quello di Dracula, di Frankenstein, del dottor Jekill) prendeva le mosse dalla realtà contemporanea, ma anche l’Avventura. Oggi, temo, il politically correct unito a un certo comprensibile pudore degli autori, scoraggia una narrativa che dal reale-immediato prenda spunto per una libera elaborazione simbolica e fantastica. Nel caso dell’Egitto: ritenete pensabile che un autore come Wilbur Smith voglia e sia in grado di scrivere un altro suo romanzo di avventure egiziane a partire dagli eventi attuali? Oggi gli scrittori popolari tendono a non correre simili rischi, anche perché comporterebbero uno schierarsi non proprio metaforico e , sinceramente, nessuno ci capisce molto, né sulle origini e la cause, né sul “dove andiamo a parare”, e si temono risposte facilmente ideologiche che ormai ben poco spiegano, anzi in genere confondono e mistificano. Parlando specificamente di horror, in questo dibattito Danilo Arona a suo tempo ci sollecitò tutti ad agganciare le paure al contemporaneo, facendo l’esempio di eventi tipo Torri Gemelle. Non ci trovammo tutti d’accordo, almeno non come “linea”. Se poi un autore per sua inclinazione preferisce muovere dal contemporaneo e dal cronachistico , certo nessuno lo disconosce. Sempre in questo dibattito, molti di noi hanno mostrato di apprezzare parecchio lavori, come “Mary Terror” di Robert McCammon, oppure “La ragazza della porta accanto” di Ketchum che prendono spunto da eventi reali (di storia contemporanea e/o di cronaca) per la loro fiction. Anche Bloch, in Psycho, del resto, aveva fatto altrettanto. Ma certo evocare gli orrori specificamente POLITICI e SOCIALI del contemporaneo, è impresa che fa tremare i polsi. Io, in circolazione, un nuovo Malaparte non lo vedo, e ad essere sincero fino in fondo, nemmeno un nuovo Salgari. Considero anche un dono prezioso l’atteggiamento generalmente umile degli autori horror , come di quelli di Avventura, del tutto alieni dal volersi considerare dei Maitres à penser (se non altro perchè ne abbiamo avuti di pessimi negli ultimi decenni, magari scoprendolo solo dopo che erano pessimi, quando i fatti hanno dimostrato che le loro riflessioni erano campate per aria). E’ sempre consigliabile evitare il famoso “passo più lungo della gamba”, per quanto si resti a disagio, confrontando l’attuale letteratura a quelle dei secoli scorsi, di fronte al fatto che i NOSTRI passi ci paiono troppo piccoli, passi da nani, rispetto ai veri propri Salti che la Storia contemporanea ci pone di fronte tutti i giorni. Questi ci appaiono probabilmente dei Salti, perché non ne abbiamo affatto seguito il decorso e lo sviluppo. Sono i momenti critici, i grandi collassi, a risvegliarci, ma per solito si attende che tutto rientri in chissà quale normalità, e intanto ci si affida all’interpretazione più corriva, più comoda, più confortante. L’intero bacino del Mediterraneo sta esplodendo: al nord africa possiamo aggiungere il disastro sociale greco, la rivolta in Albania… e in Italia (centro del mediterraneo) simili eventi ci trovano quanto meno impreparati. I nostri politologi, i nostri esperti, i nostri intellettuali si sono occupati e si stanno ancora occupando d’altro.
Ora: uno scrittore, per muovere dal contemporaneo verso la fiction, dovrebbe prefigurare gli effetti dell’Attuale, ma se come Coscienza Collettiva siamo troppo indietro rispetto agli eventi, come e cosa si può prefigurare? Non ho risposte. Mi limito a porre il problema.

Postato domenica, 30 gennaio 2011 alle 14:22 da Gianfranco Manfredi


Caro Gianfranco,
io ti confermo l’intenzione di organizzare una discussione on line sulla figura di Salgari.

Postato domenica, 30 gennaio 2011 alle 15:07 da Massimo Maugeri


@ Gianfranco
Occorre prima creare una metafora dell’Attuale – giusto per non incorrere nei rigori polizieschi del contemporaneo -, una metafora che ha lo specifico compito di produrre Coscienza a un livello quasi subliminale, meglio dire inconscio.
Poichè l’inconscio non ha bisogno di retrotrerra culturale, politico, sociale, etc. per comprendere.
E poi ci si può lanciare nella prefigurazione del possibile futuro, determinato da un Attuale che è già stato spiegato nella metafora.
Insomma, ri-velare per svelare.

Postato domenica, 30 gennaio 2011 alle 15:18 da Antonella Beccari


Io invece confesso con un pò di vergogna di aver visto un unico film di Rollin “L’amante di Dracula”.Di questo film ho però ricordi confusi dovuti ad una visione nascosta del film (me lo guardai a tarda notte in camera,poichè all’epoca i miei erano contrari che guardassi film dell’orrore).Di conseguenza se provo a ricordare mi vengono solo in mente:un simil Van Helsing con discepolo che fallisce nel braccare Dracula,un antropofaga,un nano vestito da giullare (e innamorato di una vampira) e delle suore folli che giocano con uno scheletro in abiti talari.
Per il resto niente,qualsiasi tentativo di ricordare una trama o un filo logico approda nel nulla.Mi aveva colpito una sequenza che rappresentava la morte della vampira,legata come una polena ad una nave e bruciata dai raggi del sole,che all’epoca mi parve cruda.Nonostante la mia non-conoscenza di Rollin il commento di Gianfranco mi ha colpito parecchio ed anche incuriosito verso questo autore.Proverò a procurarmi i suoi primi film.
P.S.Ho da poco scoperto che la Keres Edizioni ha pubblicato una nuova edizione de “Il vampiro.Storia vera.” di Franco Mistrali,considerato il primo romanzo italiano sui vampiri.

Postato domenica, 30 gennaio 2011 alle 15:41 da Francesco Moretta


@ Franco
Tu dici:
(“Il problema dei generi è che non costituiscono etichette “assolute”. L’adattamento a contesti culturali diversi implica un diverso assetto di ingredienti (mi si passi il termine), di sguardo. Anche una distinzione netta dal mainstream in molti casi non è possibile…..”)
Sono perfettamente d’accordo. Bellissimo.
*
Ieri sera ho comunque fatto il capriccio di creare una definizione, una conditio sine qua non, o le condizioni senza le quali, un genere letterario si possa dire più X piuttosto che più Y; tralasciando volutamente tutto quello che è dichiaratamente ed esclusivamente di uno specifico genere, riconoscibile intuitivamente.
Mi dai una mano?

L’ho chiamato: Manifesto delle Letterature.
*
Al momento mi sento di dire che:
La letteratura di orrore è ambientata nel passato o proviene dal passato, e va ad investire caratteri enigmatici dell’interiore e dell’esteriore umani, documentati non necessariamente in termini di una realtà rilevata dal senso comune, ma che comunque partono da aspetti cognitivi umani, sia che riscontrino un certo grado di scientificità oppure no.
La letteratura fantascientifica è ambientata nel futuro, a meno che non abbia caratteristiche ucroniche, e parla di possibili aspetti cognitivi umani, non ancora esistenti o latenti, in relazione anche a forme di vita non umane. E dove scientifico assume le connotazioni della techne platonica.
La letteratura fantastica si occupa di tutto quello che è di fantasia da un punto di vista interpretativo che può non essere quello umano ma anche quello di un animale, di una cosa, o di esseri appartenti a una cosmologia non umana vivente sul pianeta Terra ma anche in altri mondi. E può essere ambientata in ogni tempo.
*
*
Questa è solo una bozza e non ho avuto il tempo di creare definizioni anche per altri generi, nè di mettere a punto quelle che ho già scritto.
Utopie e distopie dove le mettiamo? Si crea un genere oppure no?

Postato domenica, 30 gennaio 2011 alle 19:21 da Antonella Beccari


La letteratura dell’orrore proviene dal passato? Non mi pare proprio che si possa dire così, Antonella. Si potrebbero citare infiniti esempi letterari di racconti del Terrore (definizione che per i classici gli americani preferiscono di gran lunga a quella di Horror, categoria relativamente recente) che parlano del presente, del futuro, o di dimensioni al di là o al di qua del tempo. D’altro canto l’anticipazione non è dominio esclusivo della fantascienza, ma è parte integrante della storia delle letteratura di ogni tempo ( i capolavori si tramandano, si ritraducono di continuo e si trasmettono rinnovati agli occhi dello stesso lettore che leggendo li interpreta, perché molto spesso hanno anticipato la loro epoca, e questo non è valido solamente per gli autori scoperti dai posteri e pressocché ignorati o giudicati minori dai contemporanei). Ma in fin dei conti, perché diavolo noi lettori e noi scrittori dovremmo occuparci di classificazioni? Ciò è compito della critica, oppure nasce da categorie merceologiche di mercato, o da definizioni di comodo che se si va bene a vedere, per ogni paese sono diverse anche terminologicamente, oppure che sono cambiate nel corso della Storia. Ha ancora un qualche senso “inquadrare per leggere”? Se compro un prodotto alimentare qualsiasi al supermercato ha una certa importanza saper leggere l’etichetta dei componenti (chi non la sa leggere, si affida alla “fascetta”: quanti prodotti qualificati “eco” non lo sono affatto?), ma per un’opera creativa che senso ha? Puramente indicativo, ma non ci garantisce affatto rispetto alla nostra esperienza di gusto. I lettori tra l’altro, non sono così immobilizzati nei target, a meno che non si considerino i target come categorie razziali (il che fa davvero spavento). I libri sono alimenti per la mente e il cervello (figuriamoci l’anima) mica ragiona per temi… Soprattutto nella nostra epoca (a mio avviso post-classificatoria e post-generi) ciò che attira e seduce i lettori, sono le connessioni , che sono cosa ben diversa dalla linearità dei flussi e delle tradizioni. Chi non si abitua alla ricerca delle connessioni (su cui è fondata la Rete) , chi diffida dei sincretismi, chi cerca separazioni fondanti e fondamentali ( fondamentalismo), chi si affida a dei LOGO che in genere etichettano come diversi prodotti in realtà molto simili tra loro (vedi i medicinali) è un individuo poco evoluto. Diciamocelo francamente e in modo liberato quanto autocritico, in quanto ciascuno di noi spesso ricade nell’abitudine classificatoria ereditata. Si può classificare (come fa ad esempio in testa a questo forum Alan Altieri) come strumento per individuare delle tendenze orientative nel gran mare della produzione, e non a caso queste classificazioni sono ben lontane dall’essere generiche. Alla fine le categorie sono sempre così numerose e così provvisorie nel flusso delle cose e delle produzioni, da provocare l’effetto “Vertigine della Lista”. Per questo ho ritenuto di dover rimandare anche prima a Eco che più di altri ha partecipato all’ossessione classificatoria, da un lato per sua spontanea propensione da collezionista (cioè perché preso da questa ossessione), dall’altro con quello spirito critico che gli consente di vedere e di mostrare quanto ci sia di delirante nell’atteggiamento classificatorio apparentemente così “razionale”. Prima di Eco, e con risultati letterari più notevoli, si può citare Borges. Una Biblioteca è insieme un’ordinata classificazione , quanto un labirinto di reciproche inferenze, che ci dischiude un intero universo di connessioni possibili. E nel piccolo di questo forum, quante volte, magari a partire da un’operina di genere (non necessariamente un capolavoro) la ricerca di connessioni ci ha portato lungo percorsi imprevisti? Questa ricerca dell’imprevisto credo sia fondamentale per un lettore consapevole, rispetto alla ricerca dell’usato sicuro (per dire). Nel campo dell’horror (indicativamente parlando) l’imprevisto non è un accessorio, è basilare, è centro espressivo, è motivazione sia per chi scrive che per chi legge. Il cosiddetto horror , come genere, è portato a trasgredire di continuo le sue stesse regole, in quanto un horror prevedibile non è fedele alla sua stessa ispirazione, né coglie il risultato emotivo che si propone, cioé lo spiazzamento continuo. Questo lo si può vedere più chiaramente con il cinema , dove le classificazioni per generi hanno maggiore importanza, o l’hanno avuta perlomeno finora, per via del suo carattere fortemente industriale e per via della struttura creativa che implica. Un libro uno se lo scrive praticamente da solo, su un set invece collaborano centinaia di persone e non DOPO, ma nel corso stesso del progetto creativo, e questo lavoro non può prescindere da una catena di comando e da un orientamento molto preciso e definito, anche in termini di scelte di mercato precisate a priori (altrimenti il film manco te lo finanziano). Bene: l’horror cinematografico ha avuto diverse stagioni e come un vampiro ha conosciuto i suoi momenti trionfanti e lunghi sonni senza sogni. I risvegli segnano sempre tappe nuove, una nuova estetica, nuovi temi, nuove facce, nuovi protagonisti, nuovo modo di raccontare. Ciò che si conosce molto bene (come certe tecniche o meccanismi narrativi ripetuti) non fa più paura, per il semplice motivo che il pubblico si è abituato e magari dove prima si spaventava poi, a distanza di anni, scoppia a ridere, e dove prima si fremeva sulla sedia, poi ci si addormenta. C’è insomma nella ricerca delle zone oscure un’ovvia attrazione per l’oscuro, che qualsiasi chiarezza di schema uccide alla radice. L’ignoto quando non è più tale (o non è più percepito come tale) essendosi capovolto nel suo contrario, cioè nell’ovvio, richiede una nuova apertura, un nuovo capovolgimento non in direzione di quanto sappiamo già (o presumiamo di sapere) ma di quanto ci sorge di fronte come indefinibile, abnorme, sorprendente (sia nel disgustoso quanto nel meraviglioso).

Postato domenica, 30 gennaio 2011 alle 20:40 da Gianfranco Manfredi


In questa nostra epoca che tu dici
…“epoca (a mio avviso post-classificatoria e post-generi) ciò che attira e seduce i lettori, sono le connessioni , che sono cosa ben diversa dalla linearità dei flussi e delle tradizioni.”) …
c’è invece, a mio avviso, un profondo monolitismo, offuscato da un’apparente miriade di visualizzazioni della realtà. Ma solo apparente.
Che porta appunto a quella mancanza di Coscienza collettiva, di cui ti “lamentavi”.
La collettività cerca appunto le connessioni, e a volte non sa nemmeno di cercarle, perchè il Burattinaio le nasconde.
Ora, la cosa migliore da fare – in un’epoca con queste caratteristiche che io auspico abbia la volontà di dominare il caos incipiente (l’ultimo post di Gianni ?) -, è quella di suddividere (l’occultato) e “ordinare la caotica abbondanza come si sbrogliano singoli fili di seta da una matassa e li si intrecciano a fili forti. Per ritrovarsi nell’infinito, bisogna distinguere e congiungere”.
(Il virgolettato proviene da un libro di filosofia taoista e mi sembrava quanto mai calzante).
Altrimenti ci si ritrova con il problema di dover costruire una metafora (un ulteriore occultamento) dell’Attuale, per far sì che nasca la coscienza dell’Attuale, cioè la verità (realtà?). Da cui partire per ventilare ipotesi e possibilità.

Postato domenica, 30 gennaio 2011 alle 21:25 da Antonella Beccari


Ricalibro la seguente definizione:

La letteratura di orrore è ambientata nel passato o proviene dal passato o da passati traumi umani per lo più non risolti anche se proiettati in momenti futuri al presente, e va ad investire caratteri enigmatici dell’interiore e dell’esteriore umani, documentati non necessariamente in termini di una realtà rilevata dal senso comune, ma che comunque partono da aspetti cognitivi umani, sia che riscontrino un certo grado di scientificità oppure no.

Postato domenica, 30 gennaio 2011 alle 22:22 da Antonella Beccari


errata corrige e/o aggiunta:
passati traumi umani (collettivi)?
*
Domanda: esistono casi di letteratura dell’orrore in cui il trauma è soltanto individuale e non riguarda la sfera della collettività?
Escludendo che nella maggior parte dei casi il trauma viene sempre percepito come individuale. Per forza.
Quindi dico collettivo nel senso che le radici della problematica sono comuni alla collettività, o a una collettività.

Postato domenica, 30 gennaio 2011 alle 22:36 da Antonella Beccari


Fatico davvero a capire il perché per molte persone il fascino per l’oscuro sia considerato come una sindrome dovuta a un trauma subito. A parte il fatto che la stessa identica esperienza, vissuta da due individui diversi, può risultare traumatica per uno e tranquillamente assimilabile per un altro, e a parte il fatto che si può restare traumatizzati anche da un’esperienza felice, da una appassionante storia d’amore, persino da uno spettacolo comico che magari in certe circostanze abbiamo vissuto al contrario, come un episodio grottesco e spaventoso (i clown fanno paura ai bambini, King docet). A parte tutto questo, dicevo, ho conosciuto scrittori e lettori di horror di una serenità interiore sorprendente, come ho conosciuto infiniti comici con disturbi psicologici e comportamentali piuttosto gravi, ho conosciuto scrittrici di romanzi d’amore di una freddezza e di un cinismo bestiali, nella vita privata e professionale e persino una scrittrice di romanzi erotici di una timidezza paralizzante. Dunque dove sta il problema? Rispetto molto le persone che non se la sentono di leggere degli horror e che provano disgusto per certi film, o entrano in ansia di fronte a certi percorsi che non si sa dove possano portare… e di fronte a questi casi, mi è sempre tornato alla mente il consiglio che Carlo Gustav Jung rivolse a un suo paziente in analisi: se hai paura di affrontare la tua ombra, non farlo, perché potresti restarne inghiottito. Strano consiglio per un analista, no? Eppure saggio. Mica bisogna andare a sfruculiare ad ogni costo. Se di fronte a certe esperienze, anche solo simulate, risuona in noi un allarme, nessuno ci obbliga a farle. Può essere invece , per altri, terapeutico (come ha giustamente osservato Antonella) ritrovare su pagina emozioni vissute e poterne seguire il decorso narrativo, cioè il codice. Tutta la letteratura è anche un codice dei sentimenti e delle emozioni. Ciò che nel chiuso della nostra esperienza consideriamo privato è in realtà sempre condiviso, imparare a conoscere il codice di sentimenti e comportamenti, attraverso la poesia e la narrativa, ci aiuta molto a non sentirci prigionieri di un labirinto senza uscita. E certo, confondere la terapia con la malattia, è caratteristico di persone piuttosto insicure anche quando esibiscono certezze. Tuttavia, se la nostra presunta saldezza ci consente di vivere , mentre invece il minimo dissesto minaccia di far crollare tutto, teniamoci la saldezza presunta, sempre meglio che soffrire. Insomma, ciascuno si regoli come crede, ma cerchiamo di evitare di considerare come dei malati o dei morbosi gli esploratori dei territori di limite. Viceversa credo che se si cerca di non prendersi come si è, ma di evolvere, faccia molto bene esplorare sentieri che abbiamo escluso dal nostro cammino. Se uno legge sempre e soltanto libri che si suppone debbano appagarlo a priori, scava sempre lo stesso solco. Ogni tanto proviamo a leggere anche un romanzo che visto sugli scaffali ci fa pensare : oddio, questa schifezza non la leggerò mai. Capita invece di avere delle piacevoli sorprese, di imparare a vedere le cose sotto un altro punto di vista. E’ ovvio che un appassionato di Salgari possa trovare tedioso Proust e viceversa che un lettore di Proust possa trovare Salgari superficiale, ma dato che abbiamo la fortuna di aver avuto entrambi, perché non provare a capire i differenti punti di vista? E’ questa mobilità ad essere terapeutica, in quanto ci avvicina agli altri, anche quando ci sentiamo o siamo isolati (condizione del resto tipica sia di chi scrive che di chi legge).

Postato lunedì, 31 gennaio 2011 alle 13:24 da Gianfranco Manfredi


D’altra parte i generi non nascono a tavolino, dallo sforzo di un Linneo che organizzi una tabella organica di generi e specie: le classificazioni non sono omogenee ma empiriche, da etichetta dell’uomo della strada. E in fondo va bene così: la riflessione sui generi innesca discorsi molto interessanti, ma affrontata con eccessiva rigidità è fuorviante. Per esempio non possiamo appoggiarci a un referente cronologico – vicende ambientate nel passato piuttosto che nel futuro – per distinguere, poniamo, horror da fantascienza. Molto horror è assolutamente contemporaneo, e niente vieta che possiamo ambientare una storia horror tra vent’anni. Ciò che connota l’horror sarebbe semplicemente il tipo di emozione che suscita (e non entro nei sottili distinguo tra ‘orrore’ e ‘terrore’ articolati per la letteratura gotica). L’idea di fantascienza, del resto, non è centrata sul futuro – anche se con estrema frequenza è quello lo scenario – ma sull’uso fantastico di elementi scientifici. Basti dire che sull’appartenenza del ‘Frankenstein’ all’horror piuttosto che alla fantascienza (o ad altre possibili ambiti di genere) c’è dibattito…
Se si vuole trovare una chiave per connotare i generi, forse – la butto lì, stiamo facendo brainstorming – si potrebbe ricorrere per analogia al concetto giuridico di “causa” (intendo quella del contratto) come ragione e funzione oggettiva, sintesi degli effetti essenziali e distinta dai motivi dei singoli. L’horror sarebbe quel genere la cui ragione oggettiva (apprezzabile da autore, editore e pubblico) è di suscitare un certo tipo di emozioni spiazzanti; la SF il genere la cui ragione oggettiva è di proporre usi fantastici della scienza… e così via. La tipizzazione si legherebbe a quel punto con la facilità (anche commerciale, non dimentichiamolo) di identificare una certa “causa” anche attraverso l’indefinito ritorno di certi meccanismi… ma capisci, Antonella, che il tutto resta un po’ arido. E in fondo non offre giustizia a una ricchezza ben maggiore, che è “causa” di qualunque buona scrittura: una forma di libertà e di bellezza. Rammentando, nello specifico, la lezione di Arthur Machen: che l’orrore può aggiungere bellezza alla vita e il terrore, in qualche modo, è la preghiera alla bellezza sconosciuta.
Più interessante è rammentare come i generi conoscano un’evoluzione storica: ciò che oggi per esempio è indicato come fantasy o come noir presenta connotati molto diversi dai fantasy e noir classici. E per contro va considerato come l’ibridazione dei generi sia oggi – tramite una furiosa compenetrazione tra linguaggi e miti di media diversi, dalla letteratura al grande e piccolo schermo, dai giochi di ruolo ai fenomeni web – infinitamente più rapida che in passato. Penso al ‘monsters in action’, come proponevamo di chiamare un sottogenere frutto dell’ibridazione tra mostri dell’horror, elementi fantasy o derivati dal feuilleton, storie d’avventura, magari tutine fetish e un po’ di steampunk: il ‘Van Helsing’ di Summers, per intenderci, o il ciclo di ‘Underworld’ o (tra i romanzi) le storie di Anita Blake. Ma lo stesso ‘Twilight’, che vede in scena vampiri e licantropi del gotico, è classificato fantasy (del resto presenta la struttura classica del ‘meraviglioso’, con una placida compenetrazione tra normalità e realtà ‘altre’) e svela una “causa” tipica del romanzo rosa, è un esempio di quanto in realtà l’ibridazione sia oggi frequente.

Postato lunedì, 31 gennaio 2011 alle 22:16 da Franco Pezzini


@ Gianfranco
Ho letto di tutto, perfino Liala, per entrare nel cervello di alcune fasce femminili, giovani due generazioni fa. E il lavoro che svolgo quotidianamente mi obbliga ad estendere gli interessi personali a una miriade di materie di cui forse ne farei volentieri a meno a volte ma che, a posteriori, mi accorgo che invece mi conducono ad acquisire sensibilità verso buona parte dello scibile umano. Addirittura, il mio problema non è di uscire dagli schemi di interessi personali (vedi preferenze di lettura), ma riuscire a contenerli. Ci sono momenti in cui devo fare una mappa mentale di quello che sto facendo per ridare organizzazione e corpo a quanto ho intrapreso, e non perchè sia disordinata o mentalmente disorganizzata ma, piuttosto, perchè sostenere diversi punti di vista al contempo richiede molta attenzione. Si rischia di disintegrarsi.
*
Quindi, se hai presupposto che, in qualche modo, io ritenessi malati e morbosi gli esploratori dei territori di limite, hai invece trovato una più pazza di te. D’altronde presupporre … è come se tu mi vedessi entrare in una moschea e supporre che sia musulmana: non è vero. E’ come se vedessi un bambino mangiare una mela e supporre che gli piacciano le mele: non è vero, la sta mangiando perchè è l’unica cosa che ha in quel momento e ha fame. La logica, a volte, non porta alla verità. Questo dovrebbe insegnarci il territorio dell’oscuro. O no?
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Non a caso mi porti esempi di frigide che scrivono d’amore e d’erotismo. Ma è questo il punto. Io non stavo analizzando le pulsioni di uno scrittore che scrive di amore piuttosto che fantascienza. Era quanto di più lontano mi proponessi di fare. In realtà il mio voleva essere uno sguardo al di là della tensione dello scrittore e/o del lettore, e delle letterature, e che vorrebbe andare a investire direttamente il campo dell’azione del vissuto e del contesto umani.
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Quella che forse percepisci come una ritrosia ad avvicinarmi a una letteratura fatta da persone morbose e alienate (non è vero, sto scherzando), in realtà è un risvolto sorprendente per quanto mi riguarda perchè questa letteratura è fonte di grande fascino per me ma, come avevo detto all’inizio, risolvo questa attrazione su altre fonti, per il momento. E non è il solo motivo. Sto lavorando a un’altra letteratura e farmi affascinare troppo (medusare, direbbe Gianni?), sarebbe controproducente per la continuazione di quello che mi sono proposta. Ma, ugualmente, non voglio precludermi porte perchè tu sai bene che bisogna sempre avere una strategia alternativa.
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Ricordi quel mio discorso sul dopoguerra? Quello in cui avevo detto che era stata la sinistra che aveva messo sul cadreghino il nostro cavaliere? Dove dicevo che all’origine ci voleva una strategia alternativa nel caso in cui si presentassero le situazioni odierne? Sguardo lungimirante, ci vuole. Conoscere i germi del presente per presagire il futuro. Se si lasciano andare gli indizi iniziali (senti che alternaza di zeta!), poi non ci si può lamentare se non si ha da opporre un’opposizione (alternanza di pi).
*
Quanto alla solitudine, è la condizione umana, e prima ce lo mettiamo in testa, prima succedono i miracoli.

Postato lunedì, 31 gennaio 2011 alle 22:50 da Antonella Beccari


E ora torniamo a noi e alla parola “trauma”. Grazie al tuo intervento, ora potrò cambiarla e usarne una nuova che dovrebbe essere più mirata per la definizione che sto tentando di costruire. Vedremo.
Ma prima devo raccontarti di un fatto che si svolse qualche anno fa.
Nel maggio del 2003, fu pubblicato un libro da The Mind and Life Institute che riportava interventi e soluzioni di un eccezionale convegno tenuto a Dharamsala. A questo intervento parteciparono notevoli personalità delle scienze occidentali, alcuni monaci buddisti tibetani, il Venerabile Kulasacitto che appartiene a una branca di buddismo diversa da quella tibetana e infine il Dalai Lama, del quale è di pubblico dominio lo sviscerato interesse per le scienze occidentali oltre che un’appropriata e sorprendente comprensione per la tecnologia.
Per capire la portata di questo convegno bisogna elencare dettagliatamente i partecipanti del versante occidentale, prima di individuare di che cosa si occuparono. Prima di elencare consiglio, se interessa, di andarsi a vedere su internet i curricula personali e le competenze di questo gruppo di scienziati.
Il coordinatore del convegno fu Daniel Goleman, direttore del Consorzio di ricerca sull’intelligenza emotiva presso la “Scuola di dottorato in psicologia applicata e professionale” della Rutgers University.
I partecipanti furono:
Richard J. Davidson, direttore del Laboratory for Affective Neuroscience e direttore del W. M. Keck Laboratory for Functional Brain Imaging and Behaviour presso la sede Madison della University of Wisconsin.
Paul Eckman, professore di psicologia e direttore dello Human Interaction Laboratory alla University of California Medical School di San Francisco.
Owen Flanagan è James B. Duke Professor di filosofia e direttore di dipartimento, docente di psicologia (sperimentale) e professore di neurobiologia presso la Duke University.
Mark Greenberg è titolare della cattedra Bennett di ricerca sulla prevenzione presso il Dipartimento di sviluppo umano e di studi sulla famiglia della Pennsylvania, dove dirige inoltre il centro di ricerca sulla prevenzione per la promozione dello sviluppo umano.
Francisco J. Varela conseguì il dottorato in biologia ad Harvard; i suoi interessi si incentravano sui meccanismi biologici della cognizione e della coscienza. Uso l’imperfetto perchè andò al convegno sapendo che gli restava poco tempo per vivere, ma ugualmente non volle rinunciare a una così grande occasione.
Jean L. Tsai, insegnante presso il Dipartimento di psicologia della Stanford University.
I partecipanti buddisti del versante orientale furono quattro oltre il Dalai Lama, di cui uno è occidentale e un altro è indiano, e la cui preparazione è indiscutibile, tant’è che uno dei partecipanti, Matthieu Ricard, dopo l’esposizione della sua tesi prese il titolo direttamente dal Dalai Lama di geshe (che è l’equivalente di un dottorato in studi spirituali tibetani) mentre quando era approdato in sala era “solo” gelong, che già basterebbe ampiamente per insegnare nell’equivalente di una nostra università.
Infine il libro a cui mi riferisco e che riporta la stesura del convegno oltre notizie inerenti è: Emozioni distruttive (Mondadori, 2003).
Trovo che la sua lettura possa rivestire un certo interesse anche per scrittori che fanno un lettetratura che investiga o che mira alla pro-vocazione dell’emozione; oltre che essere un modello di come ci si dovrebbe condurre in un dibattito.

Postato lunedì, 31 gennaio 2011 alle 22:51 da Antonella Beccari


Il convegno non ebbe alcuna attinenza con il tema religioso, ma perseguiva l’intento di mettere a confronto la psicologia occidentale e la psicologia buddista, confrontando tecniche, e per lo scopo di individuare soluzioni.
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Mi sono dilungata a descrivere l’attendibiltà delle persone che parteciparono al convegno perchè, dopo un primo ostinato silenzio a livello mondiale e da quando il Dalai Lama è diventato un elemento dell’immaginario collettivo (si sono visti persino impersonati monaci tibetani ballare alla pubblicità televisiva, e quando arriva lì è fatta), lo stereotipo comune a cui ci hanno abituato è un senso di sorridente sufficienza verso una cultura che invece è tutt’altro che da screditare, anzi c’è da imparare.
*
Al convegno, durato diversi giorni e in cui si alternavano le varie specializzazioni, scoprirono come la psicologia occidentale si occupi di guarire il comportamento dopo che l’emozione distruttiva è insorta e di come invece la psicologia buddista si occupi di insegnare tecniche per fare in modo che l’emozione distruttiva non insorga.
*
Scoprirono che la psicologia occidentale fino a poco tempo fa si è da sempre occupata di studiare l’emozione distruttiva e, con sorpresa, scoprirono che studiare invece l’emozione positiva sia fonte di grandi progressi terapeutici e cognitivi. (In verità c’è una branca di psicologia avanzata che studia l’eccellenza dell’essere umano da una trentina d’anni ma sembra che ai governi non interessi molto che le loro popolazioni diventino più intelligenti).
*
“Codificarono” come tre, le maggiori emozioni distruttive: la rabbia, il desiderio e l’illusione; e individuarono “sottocategorie” in cui rientrano il terrore l’orrore la paura, facendo ben attenzione nel trovare o inventare nuove parole per denominare concetti che, a volte non esistevano in inglese, a volte esistevano in italiano e non in francese, meno spesso in tibetano dove a volte occorreva denominare invece concetti occidentali che non rientrano nella concettualizzazione tibetana perchè l’ottica tibetana risale all’origine dell’emozione (anzi, un attimo prima) e i cosiddetti sottoprodotti provenienti dall’esito di una cura volta a guarire il comportamento e non l’origine del comportamento, per così dire, non potevano rientrare.
*
In un certo senso, e per certi versi, si videro eminenti scienziati tornare sui banchi di scuola perchè, per loro stessa e non forzata ammissione, la psicologia buddista si occupa della scienza cognitiva da ben molto più tempo della nostra psicologia. E si videro scienziati strabiliati dagli esiti rinvenuti durante esperimenti fatti sul cervello di un monaco lama (Lama Öser) che si era prestato.
Ma ugualmente il Dalai Lama dava una grande importanza al capire e al comprendere la concettualizzazione occidentale al fine di una condivisione con lo scopo di trovare rimedi; ma questo è un discorso ampio e dovrebbe essere approfondito in altra sede.

Postato lunedì, 31 gennaio 2011 alle 22:53 da Antonella Beccari


Quello su cui, e con questa premessa, volevo porre l’attenzione è l’uso delle due parole: “emozioni distruttive”; che meglio descrivono il senso che avevo dato, erroneamente, alla parola trauma, come giustamente faceva rilevare Gianfranco. E che si innestano su un contesto molto più ampio di quello che indicherebbe il vocabolo “trauma”, poichè comprendono sia l’evento emozionale dovuto a fatti piacevoli oltre che spiacevoli.
*
*
Quindi ricalibro nuovamente la definizione:
*
La letteratura di orrore è ambientata nel passato O proviene dal passato O da passate emozioni distruttive per lo più non risolte anche se ambientate in momenti futuri al presente, e va ad investire caratteri enigmatici dell’interiore e dell’esteriore umani, documentati non necessariamente in termini di una realtà rilevata dal senso comune, ma che comunque partono da aspetti cognitivi umani, sia che riscontrino un certo grado di scientificità oppure no.

Postato lunedì, 31 gennaio 2011 alle 22:54 da Antonella Beccari


Ciao Franco
ho visto il tuo bellissimo post ma ormai è tardi per me, non ce la faccio più.
Sono d’accordo, comunque, sulla commistione. Ne sono una sostenitrice, considerato il cervello che mi ritrovo.
Il mio vuole esser solo un modo di capire, come avevo già detto, che cosa fa un po’ di più orrore piuttosto che fantascienza, o altro. E avevo percepito una “fragilità” di opinioni, così volevo indagare.
Quella con Gianfranco è una puntualizzazione, nient’altro. L’uso delle parole giuste è di fondamentale importanza. E lui è il primo a sostenerlo.
Buona notte. A risentirci. :-)

Postato lunedì, 31 gennaio 2011 alle 22:55 da Antonella Beccari


@ Gianfranco. “ Fatico davvero a capire il perché per molte persone il fascino per l’oscuro sia considerato come una sindrome dovuta a un trauma subito”.
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TORCE UMANE. Forse tutti abbiamo subito un trauma e siamo stati, in qualche modo, abbandonati – ma abbiamo voluto dimenticarlo. Da qui, probabilmente, quella strana impressione di oscurità che si prova, quando ci si si rivolge al passato… Al passato e all’invisibile. Potrebbe trattarsi del cosiddetto “oscuro trauma della nascita”, ovvero del trauma dell’Origine, del passaggio da un dentro al fuori, o viceversa…In noi – abitatori del tempo, creature sessuate e tagliate, per così dire, dal “prima” e dal “dopo” – c’è qualche buco, anche di di memoria, da sempre.
Invece di lasciarlo aperto ( come gli occhi di Medusa?), oppure gettarvi sopra un velo pietoso, è forte la tentazione di riempire il buco con falsi ricordi, affabulazioni e chiacchiere, talvolta con la riflessione su qualche possibile. Del resto, trauma (dal greco troma, foro, perforo; dal sanscrito tarami, passo al di là) è quel che apre a un possibile. Attraverso il trauma ci si apre a un’altra storia possibile, anzi a molte altre storie possibili o anche impossibili. Se l’orrore è nello sguardo del Serpente – del Serpente al quale, come suggeriva Voltaire, Eva non sputò in un occhio, evitandoci un sacco di guai, ebbene il primo orrore è quando l’invisibile – attraverso il colpo di filo di un suo telefono speciale – chiede : « Dove sei, Adamo ? ». Fu questo probabilmente il primo trauma : l’orribile scoperta di avere una coscienza e un buco, o forse numerosi buchi da lavorare o da coprire. . . Meglio la placida orizzontalità dell’animale e il silenzio delle piante ? Certamente in Adamo – e in noi con lui – c’è come una tendenza verso l’immobilità minerale. La vita, presa in una struttura di morte, appare spesso come una maledizione. E’ un fatto ( « fatto », come si dice nel gergo dei drogati). Il rifiuto di questa maledizione, come nel caso del povero Monicelli, sembra del tutto legittima. Anche a costo di un volo dalla finestra verso la durezza del pavimento o l’immolazione di decine di ragazzi che nelle piazze arabe si trasformano in torce e in bombe umane ? Dunque a presto verso la trasformazione del maledetto in ben detto – ammesso che una via d’uscita verso la dignità e la libertà sia nella lingua e la Letteratura sia la salvezza – cosa di cui continuo a dubitare.
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Citazione: “Qui n’a jamais envié les plantes ignore ce que signifie la terreur de la conscience. Lorsqu’on l’a en horreur, on a un faible pour la nature. Lorsqu’on n’est plus attiré par l’esprit, on aime le silence de la plante: pas de questions ni de réponses.” E. M. Cioran, Nihilisme et nature (1937), da Solitude et destin (Solitudine e destino). Traduzione: ”Chi non ha mai invidiato le piante ignora che cosa significhi il terrore della coscienza. Quando l’abbiamo in orrore, abbiamo un debole per la natura. Quando non siamo più attratti dallo spirito, amiamo il silenzio della pianta: niente domande e niente risposte.”)

Postato lunedì, 31 gennaio 2011 alle 22:57 da Gianni De Martino


CREATURE SOLE NEL BUIO. TRauma, TRemore, TRance indicano il passaggio dall’angoscia all’estasi e al ritrovamento di una nuova figura del mondo. Il radicale indo-europeo “TR” sarebbe quello della paura – stridore di denti – e del passaggio ( TaRa è il nome della dèa buddhista del buon passaggio). Il latino TRansire in epoca medievale implicava l’agonia: il TRansitus come passaggio da questo mondo all’altro e, nello stesso tempo, come stato individuale dell’agonizzante. Nella stessa epoca, il termine TRansitus era in rapporto con la passione del Crocifisso-risorto. Transire, in un seguito di micro-morti-resurrezioni continue, come condizione del vivente/mortale: ” Vita, nome dell’arco; morte il frutto. In medesimi fiumi stiamo e non stiamo, siamo e non siamo” ( Eraclito).
Probabilmente per Eraclito vita e morte hanno uguale durata. La questione resta in quella piccola e impercettibile “e” congiunzione o copula: tra vita “e” morte, vale a dire tra i due, che cosa o chi riprende qui tutto quello che è perso? Cosa dice il poeta ? « Lasciami scivolare fuori senza rumore/ con chiavi di tenerezza gira le serrature – con un sussurro / apri le porte, o anima ».

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La strana impressione di oscurità che proviamo quando ci rivolgiamo all’invisibile o al cosiddetto passato, potrebbe anche essere effetto del trauma subito al tempo, altrettanto oscuro, in cui eravamo cacciatori e prede. Ne parlo nel capitolo “Creature sole nel buio” del libro ‘Odori’, immaginando le angosce dei primi mammiferi intenti a fiutare sotto lo strato di foglie cadute al suolo nei boschi.
Per quei nostri lontani antenati forestali con minuscoli occhi semiciechi e il naso prominente, non doveva essere un idillio. I primi mammiferi vissero nella stessa era dei dinosauri, ma non nelle stesse ore del giorno: uscivano al buio e si nascondevano durante le ore diurne, perché la luce del giorno apparteneva ai grandi rettili, padroni di tutta la Terra… Ricordo che quando ero una specie di seminvisibile topo notturno, tutto il mio mondo era nell’odore di terra e di foglie cadute, e nel terrore di essere afferrato e divorato da qualche drago puzzolente.
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… Ecco perché – dico a me stesso – ai bambini piace molto la storia di Cappuccetto rosso e del lupo nel letto. I bambini l’azzeccano sempre, ricordano persino di quando erano topolini… Lo dico passando tra le righe come s’imporpora un viso, insomma arrossendo. Anche le piccole vittime arrossivano allorché si rendevano conto che ormai non c’era scampo. La verità era orribile. Ed è qui, suppongo, quella zona dell’esperienza che fece scrivere a Freud una frase enigmatica e che colpisce nel segno, e cioè che“ vittime e carnefici si ricordano della loro prima infanzia”. Del resto, anche nel campo di Auschwitz , ai tempi dello sterminio degli Ebrei in Europa, i prescelti per andare a morte, nel fare un passo fuori dalla fila arrossivano – forse perché si vergognavano di identificarsi con il godimento dell’Altro.
Dinosauri, Lupi, Dèi, Titàni e Padroni della Terra, condividono uno stesso cattivo godimento: quello di essere i padroni della vita e della morte dei soggetti. Insomma, tutti – uomini cosiddetti civilizzati, primitivi, animali e piante – abbiamo subito un trauma – ma abbiamo voluto dimenticarlo.
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Da quanto tempo – senza per questo appartenere al popolo viola – abbiamo cominciato a sentirci un po’ tutti delle vittime? Probabilmente dal momento in cui, secondo la Scrittura, la luce si trasformò in “giorno” e il buio in “notte”, ma non senza un resto di tenebra. E questa prima caduta, questo resto di tenebra fu chiamato Lucifero. La prima caduta fu il formarsi dell’immaginario nello psichismo umano.
Fu il formarsi dell’immaginario e l’accesso al linguaggio a fare di noi degli animali ragionevoli, ovvero degli animali malriusciti ? Non saprei cosa rispondere, se non che la veglia della ragione non cesserà mai di generare mostri. Non c’è dubbio che in questa virtù infernale, nella lucida veglia della ragione che si sceglie da se stessa come fonte della luce, sia all’opera l’intelligenza del Diavolo, diventato l’idolo di se stesso, chiuso a ogni altra luce che non sia la sua lucidità. L’importante, mi pare, è non scrivere per il Potere, e neanche per il Ribelle.
-
Nello scrivere tra rivolta e obbedienza, capita talvolta di scrivere solo per essere puniti. Non importa: anche a costo di fare come fa la seppia, esistono per fortuna o sventura numerosi “orribili lavoratori” che, scrivendo oltre, sempre oltre, continuano a diffondere attorno a sé nuvole d’inchiostro per non finire i bocca al predatore.
Penso alla “scrittura crudele” di Kafka, per esempio. E a quella sua, e nostra, “strana sensazione di continuo mal di mare in terra ferma”. E tuttavia ancora una volta – dopo il caffè e la doccia – al tavolo da lavoro: in un angolo, vivendo negli interstizi del tempo degli altri.
Come piegati da lontano ai gomiti e ai ginocchi? Eccoti spiare l’arrivo dei fantasmi, trasformato dal tempo in un punto di domanda: ?
… Con gli animali e i mostri condividiamo la paura, i traumi e una certa tendenza al mimetismo – meno, o per niente l’amore e la speranza, che sono dati culturali, portati dal linguaggio. Insomma, natura e cultura non sembrano avere lo stesso destino. In ogni caso, per uno scrittore non dovrebbe essere troppo difficile capire e quindi cercare di riflettere il punto di vista dei mostri. “Ancora una volta, – con le parole di Roger Caillois ( in “L’occhio di Medusa. L’uomo, l’animale, la maschera”) – alla fisiologia e all’automatismo dell’insetto corrispondono nell’uomo comportamenti incerti, esposti all’errore, e in primo luogo ossessioni, fantasmi e tutto il mondo dei sogni persistenti e delle paure irriducibili.”

Postato lunedì, 31 gennaio 2011 alle 23:05 da Gianni De Martino


NUOVI MOSTRI IN ARRIVO? Il vicino Medio Oriente flagellato da 60 anni di guerre, pervaso da fanatisimi di ogni tipo, abitato da una gioventù verdeggiante, a un tempo entusiasmante, oppressiva ed esplosiva, è oggi agitato da orribili convulsioni, simili alle doglie di un parto. V. “Egyptian Revolution” >
http://www.youtube.com/watch?v=ncO5qSWINqI&feature=fvwk

Postato martedì, 1 febbraio 2011 alle 14:13 da Gianni De Martino


Ieri giornata di emergenza: il figliolo aveva febbre quasi a 40 e non riuscivo a tiragliela giù. Nemmeno l’antipiretico funzionava. Alla fine ore di pezze bagnate hanno abbassato il livello di guardia. Delirava: parlava di passaggi segreti. Ora sta un po’ meglio.
Vorrei fare un post veloce a Gianni che, più di una volta, ha affrontato argomenti a cui non mi sembra sia stato replicato.
Non appena gli eventi contingenti me lo permettono, vorrei fare alcune ultime considerazioni sul discorso delle emozioni.

Postato mercoledì, 2 febbraio 2011 alle 09:55 da Antonella Beccari


@ Gianni
Quanto al discorso della nicchia c’è una massima di profonda verità nel Libro dei Mutamenti che dice: “Non serve re nè principi. / Si pone mete più elevate” (e nel commento si aggiunge: “Solo un lavoro fatto sulla propria persona in vista delle mete superiori dell’umanità dà il diritto di isolarsi a tal punto. Poichè il saggio, anche stando lontano dal trambusto del mondo, crea ugualmente degli incomparabili valori umani per il futuro”)
Goethe scelse questa posizione.
Renato Serra preferì andare in guerra, anzi fece di più perchè mentre stava andando in guerra, fra uno spostamento e l’altro, scrisse di fretta l’ “Esame di coscienza di un letterato” – che è considerato all’unanimità uno dei capolavori del primo Novecento italiano -, scusandosi con Papini per non riuscire a scrivere di più, e con Papini che si sentì in colpa per aver detto bugie riguardo un’immaginaria malattia di De Robertis che gli impediva di sostituirlo perchè Serra si sentisse in colpa e ancora più invogliato a scrivere. Serra ci morì in guerra, e forse scrisse di fretta perchè lo presentiva. Addirittura scrisse le “Ultime lettere dal campo”.
*
*
Io credo che andare o non andare, restare o partire, fare o non fare, sia da farsi dopo essersi guardati dentro o allo specchio, come preferisci tu, e poi agire secondo quello che detta la strada del proprio cuore. Prova a leggere i movimenti del cuore di Serra, e raffrontali con i tuoi. Che cosa ti dice? E’ superato? E’ moderno? Ti lascia freddo? Ti riscalda il suo senso di solitudine di fronte alla scelta?
*
Scrivere è una responsabilità gravissima perchè crea opinioni e con le opinioni la gente si muove, nel bene e nel male.
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Quanto al lettore, sarebbe encomiabile che sapesse individuare e riconoscere la parola scritta con il cuore, quella sofferta e dedicata, fatta non in vista di un guadagno di qualsiasi genere – anche spirituale -, non interessata (perchè dire disinteressata implica nel senso odierno una forma di negatività), e premiarla. Per dire di più si dovrebbe entrare in poesia, ma di far questo mi sembra proprio che tu sia buono di farlo.
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Ho abitato in Egitto per qualche tempo, anni fa. E non sono digiuna delle loro problematiche, comuni ad altri paesi, come si è reso evidente dai vari malcontenti extra-egiziani, dall’ultima cronaca. E’ da molto tempo che tutto questo si preparava. Nota come i cristiani si appellino a Mubarak, “la grande vacca” come benignamente allora veniva soprannominata dal popolo. Tu credi veramente alle promesse che i cristiani verranno protetti dal governo che subentrerà? E quale sarà il governo ch subentrerà, quello che porterà il popolo supposte condizioni migliori? (mi vien da ridere, se non fosse tragico.. condizioni migliori!)
Ma soprattutto, chi sta sobillando un popolo che altrimenti non si muoverebbe mai? Basta vedere chi subentrerà: è matematico! Chi subentrerà avrà creato questo casino. E sappiamo tutti perfettamente chi lo sta sobillando: sobillando al di là delle vere esigenze di un popolo che vive veramente nella miseria all’ombra di una minoranza che si fa il bagno nello champagne alla faccia di Allah – e questa minoranza l’ho conosciuta bene -, e di cui questo “ipotetico” governo subentrante se ne fregherà altamente; per altro ipotetico governo di rappresentanza di interessi molto più sommersi a cui fa comodo l’orrore piuttosto del terrore, e che non si possono dire, perchè si romperebbe l’equilibrio di quei re della Terra di cui avevo accennato.
Forse, in tutto questo pasticcio (io sono una buona, a usare una parola così dolce), si salverà il Marocco, che è una monarchia. Ma tutti conosciamo le traversie dello scià di Persia e mi sembra che ultimamente un figlio di Farah Diba si sia suicidato. Ma si è suicidato veramente?
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Non è una storia dell’orrore, questa?
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Allora raccontala, per favore, usando una metafora magari, perchè vorremmo leggere ancora qualcos’altro, dopo.
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E un consiglio spassionato: evita di lasciare in giro supposti documenti (soprattutto in formato digitale magari memory cards), per favore, perchè non vorremmo sentire che sei stato perquisito corporalmente (che goduria per O’Brien!); ma se scrivi per il Corriere della Sera, per Repubblica, per L’Unità, per L’Osservatore Romano, per Libero, insomma per i media a hiv conclamato, non preoccuparti. Non ho mai sentito di perquisizioni corporali ai loro giornalisti, ultimamente. O forse le guardie di Pinocchio si infilano preservativi al dito, con loro. Non saprei.
Scusa le parole sboccate perchè, oltretutto, provengono dalla bocca di una donna ma, ogni tanto, un po’ di bassezza di linguaggio dà quel pizzico di sapore a una minestra insipida che nessuno vuole.
Ora ci manca solo che venga fuori a Striscia la Notizia / quel tale con quel (tubo?) in testa a intervistare / la giornalista de Il Giornale. (Senti la rima?).
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No, la gente non legge più poesia. E’ vero. Sorride della poesia. La considera un po’ come un’eccentricità per vanesi colti: esseri fuori dal tempo, a inseguire visioni inattuali.
La gente disprezza ciò che ama. E quel sorriso timido di fronte a chi declama è la Coscienza che affiora di quando si ricordava.
Io dico che che il terreno è buono per seminare, ora. Ma i semi devono essere buoni semi.

Postato mercoledì, 2 febbraio 2011 alle 09:56 da Antonella Beccari


@Antonella, “Tu credi veramente alle promesse che i cristiani verranno protetti dal governo che subentrerà?”.
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In Medio Oriente e nel vicino Nord Africa, dove anch’io ho abitato anni fa e ritorno spesso perché ho degli amici “laggiù”, è in questione il “risveglio” di un mostro, ovvero di un Islam interventista e rivoluzionario, che raccoglie un gran numero di seguaci militanti disposti a sacrificare la propria vita e quella degli altri “in nome dell’Islam” dell’azione, del jihad, della sharia, del diritto e della giustizia islamica, più che della religione dei semplici devoti.
Si tratta dell’arrivo di un mix esplosivo di religione, politica e ideologia totalitaria, in cui è difficile riconoscere l’islam spirituale o quello della pratica religiosa dei semplici devoti. Come spiegava nel suo “Frahang-e Loghat” (Il dizionario politico) il “padre degli intellettuali islamici dell’Iran”, Mehdi Bazargan: “Esso è un governo ideologico con una dottrina politica ben definita e un piano preciso che mira, sulla base di un programma rivoluzionario, a cambiare la visione del mondo, le relazioni sociali e il livello di vita degli individui. Il suo scopo non è quello di rappresentare ogni cittadino attraverso il suo voto e il suo partito, ma quello di realizzare una società che possa essere in grado di praticare la dottrina islamica, realizzando così i suoi obiettivi rivoluzionari”.
L’idea degli intellettuali che fanno da ponte, in Iran con il clero e in Egitto e in Nordafrica con i Fratelli musulmani, è che l’islam debba rinascere, ripassando per l’Origine, di cui loro sarebbero i guardiani. Secondo i guardiani puri e duri, anche i cosiddetti “musulmani tiepidi” dovrebbero ripassare per l’Origine e reislamizzarsi per non essere considerati “apostati” e puniti dalle leggi dettate dai barbuti.
Il timore, anzi l’incubo è che si tratti del “risveglio” di un dio oscuro, proveniente dal deserto e, ancora una volta, di umore massacrante. Altro che solo Ebrei e Cristiani: il movimento dei fratelli barbuti e delle sorelle che si rivelano sembra intenzionato a ripulare l’aria ( anche con l’atomica islamica in preparazione) da ogni forma di vita “difettosa” e “impura”. Insomma, la crudeltà praticata in nome del Bene, della Giustizia e della Verità, ovvero l’applicazione pratica dell’idea dell’Uno. D’altra parte, come potrebbe il “risveglio” dell’Onnipotente essere moderato? E da chi ? Da Baradei, pronto a fare da ponte agli islamisti? Oppure da noi qui, imbambolati da Ruby e dai cosiddetti problemi interni? Un incubo che condivido con pochi amici sensibili e riflessivi : la “democrazia” fa vincere i Fratelli musulmani, l’Egitto e i suoi arsenali in mano agli islamisti, l’odio per Israele e il cosiddetto “Satana” occidentale ricompatta il mondo arabo e islamico, la guerra.
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P.S. In Egitto e in Nord-Africa, i bambini sono abituati fin da piccoli ad aver paura dell’islàm, a recitare il Corano in un arabo arcaico considerato lingua sacra, e a odiare gli Ebrei. Forse potrebbe essere di una qualche utilità riflettere sull’invito a uscire dalla preistoria espresso, poco prima della morte, dal sacerdote cattolico e filosofo Panikkar – un “trauma” o varco tra la cultura occidentale cristiana e quella indiana induista e buddhista. Ce l’avete sotto gli occhi:
“ [...] Il grande pericolo, e qui non vorrei scandalizzare nessuno, è il monoteismo. Il monoteismo pensa che Dio è la Verità, perché il monoteismo pensa un Dio isolato, un Dio solo. Non è così in tutti i monoteismi, la questione è molto complessa, ma vi è questo costante pericolo: benché io non possieda la Verità, c’è un Dio che la possiede e questo Dio ce l’ha rivelata. Non mi convince il monoteismo. Penso che il monoteismo non sia cristiano, perché il cristianesimo crede nella Trinità”. Poveri vampiri cristiani, a cosa servirà aver appreso a contare fino a tre, allorché arriveranno i monoteisti puri e duri, con le preistoriche bandiere verdi e quelle rosse di Troskji al vento, pronti a conficcare al cuore di tante anime belle & letterate il loro puntuto paletto dell’Uno ?
D’altra parte, non vorrei – dico a me stesso – far figura di uno zombi che, scrivendo brancolando oltre, sempre oltre, si riduca a farsi portatore della cattiva novella. Perché l’horror, se non dignitoso come un’eutanasia deve essere perlomeno “nobile” ( il conte Dracula docet). Non da oggi la letteratura intrattiene ambigui rapporti con la vergogna di scrivere e con il Male. Si teme sempre che sia “troppo”… Un contagio semi-magico?
Temendo di restare “contaminati” dal Male, saresti tentato di tagliare nel vivo. E tuttavia occorre scrivere, cioè elaborare e “passare” il tempo. Erano i tempi in cui le frontiere diventavano relative, gli scarti dello scrittore si agitavano nel cestino dei rifiuti come tentacoli appena recisi. Intanto, il Mediterraneo bruciava… Forse un tentativo d’amore, se non di “democrazia”. Forse solo nuove guerre, nuovi dolori e qualche orribile e dura questione in prospettiva – fra sogni persistenti, qualche lampo di risveglio e paure irriducibili.

Postato mercoledì, 2 febbraio 2011 alle 12:10 da Gianni De Martino


E SULLA COLLINA DEI CONIGLI NESSUNO SI SPAVENTA. Dicevo più sopra che il vicino Medio Oriente flagellato da 60 anni di guerre, pervaso da fanatisimi di ogni tipo, abitato da una gioventù verdeggiante, a un tempo entusiasmante, oppressiva ed esplosiva, è oggi agitato da orribili convulsioni, simili alle doglie di un parto. Non si sa come sarà il bambino che nascerà. Potrebbe anche essere un nuovo mostro: “ un Medio-Oriente islamico e potente capace di opporsi a Israele”. E’ quello per cui lavorano i fautori di una svolta islamica. “ I grandi movimenti di popolo ai quali assistiamo in questi giorni in Medio Oriente e nel Nord Africa – ha affermato il pio Mehman-Parast portavoce del ministero degli Esteri di Teheran, – mirano a mettere fine alla dipendenza dalle grandi potenze. Si tratta di un risveglio islamico e come andrà a finire dipenderà dalla situazione nella regione e dai popoli”.
Vediamo. Secondo i dati dell’ultimo sondaggio del Pew Research Center: “al 30 per cento delle persone che si “risvegliano” piace Hezbollah ( il partito del dio Allah) , il 49 per cento ha un’opinione positiva di Hamas e il 20 per cento vede con favore al Qaida. In Egitto, l’82 per cento degli intervistati vorrebbe la lapidazione contro chi commette adulterio, il 77 per cento sarebbe favorevole a fustigazione e taglio delle mani per i colpevoli di furto e l’84 per cento alla pena di morte contro un musulmano che si converta ad altra religione”.
Cosa accadrebbe se i Fratelli musulmani sventolassero la propria bandiera al Cairo? “Se prendessero il potere – osserva l’analista del Pew Research Center – sarebbe un pericolo enorme: un nuovo stato di conflitto nella regione, un rinnovato antiamericanismo, tentativi di espandere la rivoluzione nei paesi vicini, un potenziale avvicinamento a Siria e Iran, danni immensi agli interessi occidentali. In breve, sarebbe un disastro. Ciò che è scioccante è il comportamento dei media e degli esperti occidentali. Mi spavento quando nessuno si spaventa”.
E’ un po’ quello che diceva anche Cassandra, l’inascoltata febbricitante sacerdotessa di Apollo, quando – nell’imminenza della distruzione di Troia e la caduta della stirpe – storceva il naso, sembrandole di aver sentito in casa odore di bruciato ( “Manda lezzo di morte la casa, e il sangue cola” – “ Ma che dici? E’ solo l’odore che proviene dall’altare dei sacrifici”).
Allo stesso modo, nel romanzo “La collina dei conigli” di Richard Adams, un coniglietto sensibile e riflessivo chiamato Quintilio, sentiva a naso il pericolo incombente ; e, oltre a profetizzare l’arrivo di cose “molto brutte” sulla collina dove fino ad allora avevano vissuto felici e contenti, riesce a persuadere pochi compagni – con i quali si mette in moto verso l’avventura dell’ignoto, per salvare la propria pelle e quella degli altri coniglietti.
Più che un ragionevole analista , il coniglietto Quintilio era un “analizzatore” sociale: una specie di cartina di tornasole che, mettendosi involontariamente “in crisi”, attraverso il suo inquieto comportamento rivelava al gruppo o società dei conigli quello che altri non avevano il coraggio di dire.
Ecco, volevi dare qualche contributo all’ansia che attraversa un mondo, il cui tempo sembra davvero, con Amleto, “uscito fuori dai cardini” (“time out of joint”). E dire, anzi bisbigliare, ancora una volta, che se non fossimo mostri, conigli in trance, creature imperfette e quasi animali falliti, esposti all’errore e al terrore che è nella coscienza, non vi sarebbero varchi e porte, brecce e aperture verso nuove creazioni – tra vortici di “emozioni distruttive” ( come osserva il Dalai lama, evocato da Antonella), perdite infinite, senza rimedio, e doglie simili alle convulsioni, alla febbre alta e ai dolori di un parto. Non si sa come sarà il bambino che nascerà. Potrebbe anche essere un mostro.
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P.S. Naturalmente sono contento che il bambino di Antonella non abbia più la febbre e che ora stia un po’ meglio.

Postato mercoledì, 2 febbraio 2011 alle 13:24 da Gianni De Martino


Il dibattito è alto, ma già troppo vasto per poter aggiungere qualcosa o se volete, ” mettere altra carne al fuoco”. La spiegazione di Obama, al confronto può apparire semplificata, ma centra un nodo che non è solo “là”, ma anche “qua”. Cosa significa oggi la parola “democrazia”? Basta votare perché essa sia garantita? Ci sta bene se produce il risultato da noi (chi?) auspicato? D’altro canto, milioni di persone in piazza, provenienti da vissuti diversi, di diverso credo, che si riscoprono popolo, non credete che restino segnati da questa esperienza di condivisione? Poi si sa, la condivisione dura poco… girondini contro giacobini, bolscevichi contro menscevichi, fondamentalisti contro riformisti, e sangue che scorre. Certo, la democrazia era idea di cambiamento senza spargimento di sangue. Ma quando è la Storia stessa a produrre cambiamento, il fiume rompe gli argini. Una cosa pare purtroppo certa: la Vecchia Europa non è più in grado di proporre modello di sviluppo alcuno, le ricorrenti elezioni riproducono la stessa scena, e si decidono su margini esigui ( al punto che i plebisciti ci appaiono come smaglianti testimonianze anti-democratiche). Tra traumi ripetuti e insensibilità da istinto di sopravvivenza, cosa ne è dell’Europa? Come mai eleggiamo in Italia persone che considerano il Darfur come il Fast Food? Come mai tolleriamo che si possa scambiare disinvoltamente (e da parte di un Capo del Governo) una marocchina per un’egiziana? E’ come scambiare una svedese per una spagnola, o sbaglio? Cosa ce ne facciamo di questa Europa allo sbando che al cospetto della globalità rincorre localismi di ogni genere e propagande tanto populiste quanto inconsistenti? La letteratura, per fortuna, segue altri percorsi, anche se dei percorsi collettivi deve per forza curarsi. Dell’orrore, per fortuna (?), si può almeno dire che va ben al di là di sommarie definizioni di schieramento. Dei suoi autori e lettori si può dire che formino una bizzarra comunità di gusto, se non altro. Sarà una zattera, ma è una zattera in viaggio. Del resto siamo responsabili in quanto esseri umani, non in quanto scrittori, né in quanto lettori.

Postato mercoledì, 2 febbraio 2011 alle 13:36 da Gianfranco Manfredi


Caro Gianfranco. SI FOSSE ALMENO ZOMBI, pronti ad uscire dalla nicchia solo con occhi e muffa… Salve! siamo impresentabili e pieni di buchi, con i nostri piatti ricercati, le nostre zattere e i vecchi sogni di Pace, Amore & Fiori marciti… Per non dire delle molotov imbottigliate in pensieri finto-trasgressivi; o di quello strano senso di noia e di sazietà che sembra pervadere le università, le arti, il mondo librario, insomma la civiltà letterata, predisponendola alle tentazioni del disumano e alla celebrazione dell’epica rivoluzionaria, se non allo sfogo della barbarie.
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Il Termidoro è di là da venire, intanto occorre attraversare quello che poi chiameranno il Terrore… Sangue ? Oh, non sono che buchini quasi insignificanti e piccole ferite; è solo il loro accumulo, l’accumulo di tante piccole ferite, anche storiche, se non narcisistiche, volendo, che forse potrebbe convincerci di una gravità. Insomma, convincerci della serietà della vita e della morte.
D’altra parte, se non fosse per questo strabismo, questa deformità ed altre splendide rovine, la letteratura sarebbe qualcosa di edificante . E’ per edificare il Castello di Dracula che sulla terra hanno transitato angeli come Rimbaud, Kafka, Céline e Stephen King ? per finire nelle collane di saggistica di nicchia suddivise per generi e dirette da Lupi mannari su poltroncine girevoli, acquattati dietro scrivanie simili a trincee duramente conquistate? E la Poesia? A certi signori, osservava garbatamente zio William Burroughs, tu gliela puoi ficcare in kulo, la Poesia, sta’ sicuro che non la riconoscerebbero… Ma forse l’hombre invisible, il nostro collega era traumatizzato dai tanti rifiuti, sputi e abbandoni che aveva dovuto subire in gioventù.
In ogni caso, non è dell’angoscia di zio Bill che volevamo parlare; e neanche del passaggio, più generale, tra il lavoro mentale di noi zombi e l’industria culturale. Ecco, volevamo parlare un po’ della notte della scrittura.
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La notte della scrittura non è come le altre notti, ma La Notte – sempre la stessa Notte color d’inchiostro, di vento, di selva e d’imboscata. Mostri che durante il giorno sono separati, “cominciano a spogliarsi della loro unicità e tratti distintivi, fondendosi in una ovattata e flessuosa comunità mentale”… “Dove sei ?” – E’ questo che attraverso un filo speciale chiede l’invisibile.
… Era quando l’aria diventava più luminosa, trasparente e più densa, intensa e viva al tempo stesso; o quando scrivevi sul tuo taccuino di etnologo part-time poggiato sulle ginocchia nude, accovacciato sulla sabbia, in un angolo tranquillo fuori del villaggio, sotto le stelle di Dio e fra i dirupi.
Oscillando come l’ago di una bilancia, a un passo dal famoso abisso dell’Accusatore, ripetevi a te stesso “dove sei ?”, e indietreggiavi davanti alla confessione di considerarti posseduto dagli zombi.
Eri prossimo e distante. Quasi dimentico di te stesso, perché preso e trasportato sul piano dell’impercettibile. Qui dove non c’è dove, nel paese immensamente distante della lingua, temendo per la lucidità della tua mente e per la salvezza della tua anima.
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Insomma tra i fantasmi, le “emozioni distruttive” o “gli inevitabili riflessi della colpa o dell’innocenza” – come dicevi per tranquillità.
Un po’ come accade al giovane impiegato Jonathan Harker, costretto – per amore, per dovere o per forza – a permanere in un luogo dal quale non può uscire, forse semplicemente perché non vi è mai entrato.
Eccolo ridotto a tenere sempre accesa la TV ( nel perdurare del black out di Internet imposto da Dracula) e a impugnare una sudicia penna, sottratta per un attimo alla castrazione: “ Non resterò solo con loro; tenterò di calarmi lungo il muro del castello, spingendomi più in là di quanto non abbia fatto finora. Prenderò con me dell’oro, forse ne avrò bisogno. Può darsi che riesca a trovare la via che conduce lontano da questo luogo spaventevole. E poi, a casa! Verso il treno più vicino e più rapido! Via da questo posto maledetto, da questa terra dannata, dove il diavolo e i suoi rampolli ancora camminano con piedi umani! Meglio comunque affidarsi alla misericordia di Dio che a quella di codesti mostri, e il precipizio è erto e profondo. Ai suoi piedi, un uomo può dormire – ed essere ancora un uomo. Addio tutti! Mina! ecc.”
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Riportate il giovane Jonathan Harker a casa, per piacere, prima che lo rapiscano gli zingari o faccia qualche scivolone nel dirupo… come nei giorni scorsi è capitato alla piccola Elsa.
D’altra parte, se le frontiere sono relative, come farà il nostro eroe a ritrovare l’amata Mina e a ritornare sano e salvo a casa?
“Ritornare a casa sano e salvo”, ecco finalmente delle parole chiare!
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Parole chiare e idee che brillano su sfondo oscuro, naturalmente. Finché non spunta tra le fessure della nicchia, il sole – il grande sole mentitore del Mediterraneo che fa evaporare sul cuscino sputi, sangue, lacrime e le tante altre macchie incriminanti lasciate dal passaggio degli zombi. Per non dire delle neve, bianca, immacolata, che ora cade sulla vecchia Europa ( e gli Usa,) cancellando tracce, passi, impronte.
Si fosse almeno zombi, potremmo allora almeno lasciare qualche macchia del nostro passaggio fuori dalla nicchia.
D’altra parte, è anche vero – come diceva quello scrittore – che “quaggiù” tutti alla fine lasciamo una macchia.
Noi zombi vi lasciamo un incubo ricorrente, ascoltato quest’oggi tra le fiamme di un mondo che brucia e innumerevoli tombe.
Ai bordi crescono ciuffi d’erba – erbacce tenaci, come del resto noi zombi diciamo della Speranza, un ‘ “erbaccia” di cui – in quanto semi-dannati – non conosciamo ancora le virtù.
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P. S. Certo, tutti, anche noi zombi vorremmo essere lasciati a riposare un poco in pace. Ma raccontare un incubo – l’incubo di non essere mai i padroni, neanche a casa propria, nella nicchia o sulla zattera – non significa che non si possa entrare in giardino e sognare la pace: la pace perpetua nell’antico giardino, piantato in noi zombi, vampiri e affini da prima che cominciasse la storia e più niente trascina, possiede, morde, sputa o spinge.
Entrare finalmente in giardino? Non avevamo ancora fatto i conti con l’Angelo con la spada fiammeggiante. Il suo “altolà” agghiaccia il sangue nelle vene e risuona come fosse lo strepito di un animale tropicale. Insomma, non serve a niente continuare ad agitare le mani davanti agli occhi per scacciare i fantasmi irriducibili. Forse sarà meglio tendere le mani per ben altro che per prendere o per afferrare quei dèmoni, e pregare – come faceva anche un nostro amico poeta con tipici occhi da esubero o da disoccupato – affinchè l’eterno riposo riposi. Quanto a noi zombi, ebbene, scusate, non facciamo altro che passare.

Postato mercoledì, 2 febbraio 2011 alle 19:49 da Gianni De Martino


Eppure qualche tempo fa Gianfranco invitò gli zombi di tutto il mondo a unirsi,se l’avessero fatto chissà cosa ne sarebbe venuto fuori.Ma oggi un simile appello otterrebbe successo?Oppure anche gli zombi oggi sono cambiati e da consumatori che erano sono stati consumati da quel gigantesco pac-man che è la società di massa?
P.S.Lasciate che il giovane Harker faccia ancora il turista nella tetra Transilvania,cambiare aria e incontrare culture diverse non può fargli poi così male.Oppure no?

Postato mercoledì, 2 febbraio 2011 alle 21:19 da Francesco Moretta


“SE VOLETE VI MANDO UN BRACCIO”. La stampa americana, meno quella europea, si è ricordata del “passato nero” del generale Omar Soleiman, l’ex capo dell’intelligence detto «l’aggiustatore», diventato vice presidente egiziano. Repressore di estremisti islamici e del dissenso, ora adotta toni nazionalisti e anti-americani in pubblico e tende una mano ai Fratelli musulmani rappresentati dall’uomo di paglia El Baradei.
Omar Soleiman si è sempre mostrato scaltro e spietato – secondo una logica che sembra tipica in Medio-Oriente, dove vince, non perde la faccia e merita rispetto solo chi ha il bastone più grosso, insomma il più forte. Si tratta naturalmente di una cultura diversa. I giornali americani riportano un episodio paradigmatico, che svela i metodi dell’ “aggiustatore”: “Gli americani uccidono un terrorista in Afghanistan e sospettano che possa trattarsi di Ayman Al Zawahiri, il collega egiziano di Osama Bin Laden. Chiedono allora all’Egitto di confrontare il Dna del cadavere con quello del fratello detenuto dopo una rendition. Soleiman risponde: se volete, vi mando un braccio”.
Peggio o meglio della tetra Transilvania ? Chi può dirlo? Forse solo il giovane Harker, ammesso che l’incontro con culture diverse non gli abbia poi fatto così male. ( “ Due buchi grossi così sul collo ? Oh, niente di speciale, forse ho solo un po’ di torcicollo!”).
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Per scongiurare la guerra civile tra Egiziani, una soluzione islamista – orribile e dalle conseguenze disastrose per i vicini – sarebbe quella di continuare a predicare che la Nazione è in pericolo, che l’Islam e la Umma vengono umiliate dagli “stranieri” – e mandare in guerra il maggior numero possibile di giovani entusiasti e verdeggianti, come fece l ‘ayatollah Khomeini in Iran dopo la vittoria della rivoluzione islamica.
Se volete vi mando un “pezzo” scritto dalla nuova guida suprema della Fratellanza, il dottor Muhammed Badi – considerato da D’Alema e da Al Baradei un valido interlocutore “moderato” e pronto a “elezioni democratiche”. Il vecchio Muhammed Badi, nuovo leader della Fratellanza, con un passato in carcere nel 1965 assieme a Sayyid Qutb, il più radicale degli intellettuali islamisti ( incarcerato nel 1954 dopo l’attentato a Nasser, rilasciato su pressione internazionale, di nuovo incarcerato nel 1965 e infine giustiziato nel 1966 tramite impiccagione ) considera “assurdi” i negoziati di pace diretti e indiretti con i “nemici sionisti”. Giura che il jihad è un obbligo individuale per ogni musulmano del pianeta, e invoca il Corano: «Prima del giorno del giudizio, i musulmani combatteranno gli ebrei e li uccideranno, fino a quando gli ebrei non si nasconderanno dietro le rocce e gli alberi. Le rocce e gli alberi diranno: “Oh, musulmano! Oh, servo di Allah! C’è un ebreo dietro di me, vieni e uccidilo”».
Dopo aver bandito dalle poche librerie esistenti in Egitto “Le mille e una notte”, opera condiderata “impura”, i libri più letti sono il Corano e il “Mein Kampf”- oltre che “I protocolli dei saggi di Sion” ( di cui parla Eco nel suo ultimo romanzo), e i lbri di Sayyid Qutb.
Tra la pragmatica dittatura militare e l’incombere dei Fratelli musulmani, che vogliono instaurare la legge coranica ovunque possibile, più di quanto non ve ne sia già nell’attuale Costituzione, la realtà dei giovani egiziani è molto dura, se non orribile. Il dottor Badi ha peraltro tre figli, poco più che trentenni e che forse, con qualche buona raccomandazione potrebbero essere esentati dal partire in guerra, se mai dovesse prevalere la soluzione islamista: Ammar (ingegnere Informatico), Bilal (radiologo) e Doha (farmacista). Nella maggior parte dei casi, durante le guerre i ricchi e i potenti s’imboscano. A pagare e a soffrire durante le guerre è sempre la povera gente.

Postato mercoledì, 2 febbraio 2011 alle 22:33 da Gianni De Martino


Il giovane Harker: ” Francesco, non sono in Transilvania per turismo, non s-sono un t-turista… ma – forse a Mina non piacerebbe – impiegato, impiegato di uno studio legale”.
:-)

Postato mercoledì, 2 febbraio 2011 alle 22:36 da Gianni De Martino


Il professor Abraham Van Helsing: ” Laggiù la cultura è diversa, d’accordo, ma in cosa è diversa..? “

Postato mercoledì, 2 febbraio 2011 alle 22:48 da Gianni De Martino


Caro Professor Van Helsing probabilmente ha ragione,qui si sta sotto tanti vampiri del potere (mediatici e non) in Transilvania il popolo ha il Conte.(Perlomeno fino a quando quest’ultimo non deciderà di fare il turista a Londra)In quanto ad Harker mi scuso per lo spiacevole equivoco,credo che a suggerirmi certe battute sia stato un certo Conte.
P.S.Uno dei siti che seguo regolarmente oggi fornisce i link per visionare una versione teatrale di Dracula realizzata dalla Virginia Commonwealth University.Per chi fosse interessato:http://taliesinttlg.blogspot.com/2011/02/honourable-mention-dracula-vcu-theatre.htm

Postato giovedì, 3 febbraio 2011 alle 11:43 da Francesco Moretta


Come avevo accennato in un post in questo periodo sto rileggendo Salgari o leggendolo per la prima volta (romanzi che avevo trascurato nel gran mare della sua produzione) . Certi autori diamo per scontato di averli letti, per come ci appaiono ormai codificati nel gusto, e nel nostro giudizio, e non ci torniamo sopra. Il risultato é che non rileggendoli non possono più sorprenderci, perché la rilettura è sempre un nuovo punto di vista. Spesso ciò che è più evidente alla prima lettura è la cosa che ricordiamo di meno: il ricordo, riassumendo la Cosa in un giudizio, in qualche immagine evocata, in qualche passaggio, in realtà censura e rimuove. In riferimento a quanto postato da Gianni: beh, rileggendo Salgari mi sono reso conto di quanto fosse diverso dal nostro lo sguardo degli italiani post-risorgimentali nel suo posarsi sulle cose del mondo. I Giornali “dei viaggi e delle avventure” sui quali Salgari si documentava e che gli suggerivano infiniti spunti insieme storici, cronachistici, geografici, esotici e “inauditi” dunque fantastici, anche quando erano ingenui, inventati, pieni di pregiudizi e di semplificazioni, rivelavano comunque un aspetto di divorante curiosità per il mondo, per la sua varietà, per un universo già multietnico e sovranazionale in cui il nostro provincialismo si rispecchiava, ma insieme si apriva a orizzonti e scenari vasti , fecondi per la fantasia: una vera passione per le diversità, per usi e costumi dei più strampalati, e dunque per orizzonti esplorativi di esperienze di vita multiple , diverse, ma concomitanti . La letteratura era un modo di condividere questo punto di vista, mostrando come un cannibale e un cacciatore di squali condividessero se non altro la stessa nostra Terra, e come la loro esperienza potesse essere confrontata alla nostra, come parzialità a parzialità. Questo SGUARDO sul mondo illuminava al contempo e in vivace contrasto i due elementi del Meraviglioso e dell’Orrido, dell’Estasi e della Violenza, della Ricchezza Nascosta e della Cieca Rapina ( tratti distintivi del colonialismo) . Botaniche re-inventate dove la bellezza sontuosa, lussureggiante , poteva capovolgersi in carnivora o velenosa. E ciò che valeva per le piante, valeva per gli animali e per gli uomini stessi. Eguale attrattiva per le albe dorate e per i tramonti insanguinati. Nessun proposito di distinguere gli aspetti contrapposti. Perché nella curiosità vera non può non esserci apertura alla contraddizione perpetua delle cose. Dobbiamo ammettere che oggi l’atteggiamento prevalente è l’opposto, nutrito dalla miserabile propensione a discriminare il “questo da quello”, a prendere dal mondo, ciò che ci fa comodo e che rafforza i nostri pre-giudizi o le nostre inclinazioni intime, persino caratteriali e dunque pre-politiche, pre-scientifiche, a-razionali , e respingere ciò che non ci fa affatto comodo perchè giudicato barbaro, lontano dal nostro sentire, dunque cancellabile, rimuovibile. E’ la stessa convinzione e ipotesi di ricerca del dottor Jekyll che mirando alla perfettibilità degli esseri umani, presume di poter estrarre il Male dal nostro stesso essere, rendercelo Esterno, per farlo divenire innocuo, rimosso ed espulso per sempre. Atteggiamento tanto Buonista all’apparenza (e Progressivo) quanto alla radice Totalitario (e Regressivo). Ogni Olocausto presume l’ipotesi che cancellato il Nemico (o presunto tale), si possa trovare Purezza, mentre se ne ricava soltanto Scissione e Schizofrenia. Di contro, gli umori neo-decadenti inclinano all’orrido cullandovisi melanconicamente, perchè questa è, alla lettera, Melanconia: la prevalenza dell’Umor Nero. A volte ciò è fortemente voluto per contrastare polemicamente l’Edificante, il Retorico, il Falsamente Confortante, il Facilmente Sentimentale, il Celebrativo, l’Istituzionale , l’Accademico, cioè come Controcultura, ma va ammesso che spesso il carattere “oppositivo” sfuma nell’autoconsolatorio ( del tipo: siamo tutti nella merda, io per primo, ma dopotutto la merda ci tiene al caldo). E dunque, di nuovo, nei confronti del Mondo esterno: perchè cogliere sempre e soltanto gli elementi di distanza e non quelli di concomitanza, e perché diffidare dei cambiamenti pur giudicando la situazione , lo status quo, la stabilità come insopportabili? Come mai il nostro sguardo si è così ristretto da rimuovere la contraddizione, unico vero motore di ogni possibile cambiamento e movimento della Storia? Da quando e perché abbiamo rinunciato ad aprire il nostro animo, il nostro sentire, il nostro sguardo, a quel Totalmente Altro da noi, che invece appena conosciuto si rivela parte integrante ( e arricchente) di noi e non soltanto di chi siamo stati e di chi siamo, ma soprattutto di chi stiamo diventando e di chi saremo? Ho accennato a Salgari, ma avrei potuto citare anche un’autrice assai più distante da noi e dalla contemporaneità, come Ann Radcliffe, che ci appare oggi quasi illeggibile e improponibile (sempre in riferimento al nostro giudizio a-prioristico) la quale dissemina ovunque nei suoi romanzi Pittoresco e Sublime in continua e feconda alternanza e opposizione con l’Oscuro, al Feroce, al Pauroso, all’Atavico. Senza Insieme, non ci sono Parti. Ricordo anche ( e scusate se apparentemente divago) appassionate discussioni coi discografici, all’epoca in cui facevo il cantante. Giudizi del tipo: le canzoni in minore non funzionano , almeno al “ritornello” bisogna sfogare in maggiore, perché gli accordi in maggiore sono allegri, popolari, commerciali, quelli in minore … c’è da toccarsi le palle. Ma che musica è quella che si riduce agli accordi in maggiore? E viceversa perché ridurre a melanconia totalizzante gli accordi in minore? Quale rozzezza musicale e stilistica è mai questa? Perchè negarsi la vitalità dei contrasti? Si muore sia di Mal Riposte Speranze (Superficiali Ottimismi) che di Rinuncia ad ogni orizzonte di Cambiamento (il cosiddetto Pessimismo della Ragione, contrapposto anzi giustapposto all’Ottimismo di una Volontà velleitaria e infantile… difatti è ai bambini che per solito si spiega che quello che si vuole e desidera, non sempre lo si può ottenere, e poi… sei davvero sicuro di volerlo, o già pronto a volere un’altra cosa?). Senza gusto e senza esperienza vissuta del contrasto si muore, soprattutto Spiritualmente, perché i cambiamenti che ci piacciano o meno, li produce la Storia e li produce lo stesso, fottendosene bellamente della nostra capacità di interpretazione, del nostro sapere o non sapere vederli, volere o non volere parteciparvi, desiderarli o respingerli. Ci siamo dentro lo stesso. E’ la Storia bellezza!
E la Storia si lascia fermare assai meno della Stampa. Vogliamo farne parte di questa Storia o limitarsi a vederla come uno Spettacolo che non ci riguarda se non come Pubblico? Vogliamo trarne umori per il nostro narrare o preferiamo scrivere per cantarci una ninna nanna, in sintonia con chi legge un capitolo prima di dormire o più esattamente PER dormire? A scanso equivoci: queste riflessioni non le ho scritte in polemica con nessuno di coloro qui intervenuti. Sui libri più letti in Egitto, mi inchino alle conoscenze di Gianni, su quelli più letti da noi, qui ed ora, in Italia, stendo un velo pietoso.

Postato sabato, 5 febbraio 2011 alle 17:29 da Gianfranco Manfredi


Piccola appendice. Mia figlia è appena tornata da un periodo di permanenza a Berlino e mi ha detto che in Germania i colori della bandiera nazionale non si espongono, non si mettono sulle felpe, sulle sciarpe, se non durante la partite della Nazionale di Calcio. Memori dei guasti del Nazionalismo, i tedeschi limitano l’uso della bandiera. Persino le divise militari in vendita nei negozietti dell’usato vengono ripulite da stemmi o indicazioni di tipo nazionale, in quanto temuti vettori di spirito nazionalistico. Allo stesso tempo, quando i tedeschi parlano di nazismo, non usano questa parola se non in riferimento ai nazi-skin, mentre in riferimento alla Germania di Hitler preferiscono usare il termine fascismo, insinuando che il virus è nato in Italia, il che non è del tutto privo di fondamento storico, tuttavia costituisce segnale indubbio di una certa rimozione della specifica esperienza nazional-socialista. Perché ho citato questo aneddoto? Perché riterrei fondamentale (soprattutto in questa stagione di Libri all’Indice) che tutti leggessimo il “Mein Kampf”, a cominciare dalla Scuola dell’Obbligo, anzitutto per renderci conto, e confidando di più nello spirito critico (se ce l’abbiamo) invece di spaventarci per la Malefica capacità Persuasiva del Testo, perché così facendo, questa Persuasività noi, senza volere, la alimentiamo. Contro l’uso ideologico non c’è altra difesa che lo sviluppo di lettura critica. Il non leggere non educa nessuno. Spero che almeno questa piccola verità potremmo serenamente condividerla. Ho anche letto in un recente articolo delle letture preferite di Berlusconi: Erasmo, Tommaso Moro… c’è da trasecolare… quale lettura è stata la sua? Se questi testi lo hanno formato e orientato, che diavolo ci avrà mai letto? Nulla mi sembra più lontano dalla sua filosofia di vita, degli scritti di Erasmo e di Tommaso Moro… per inciso, Engels chiamava Marx amichevolmente “Moro” perchè lo considerava con affettuosa ironia, suo degno erede. Come li leggiamo i libri, quando li leggiamo? Ecco… anche questo dovremmo chiederci.

Postato sabato, 5 febbraio 2011 alle 17:53 da Gianfranco Manfredi


Scusate i tempi dilatati di reazione :-) ma sono in un periodo di emergenza: quando mi alzo la mattina, rivedo in metacinema la giornata che mi si prepara. E mi vien voglia di riaccasciarmi sul letto.
A postilla e conclusione (spero o vedremo) del mio discorso sulle emozioni di qualche giorno fa, aggiungo quanto segue.

Postato domenica, 6 febbraio 2011 alle 20:56 da Antonella Beccari


Ancora sul convegno di Dharamsala (vedi post 31 gennaio 2011).
Sempre al convegno, si scoprì che la parola “emozione” in tibetano non esiste.
Francisco Varela fu molto stupito e si chiedeva come sia possibile che in tibetano, la cui cultura ha un’enorme capacità di discriminare gli eventi mentali, non esistesse una distinzione così rozza.
Al riguardo, inizialmente il Dalai Lama espresse la volontà di indire una ricerca presso i suoi, per trovare un corrispondente in sanscrito del termine “emozione” in fonti non buddiste o che comunque non avessero raggiunto il Tibet. Anche se in privato aggiunse che – citando lo studioso Tsongkhapa -, “se anche un’idea non è stata tradotta in tibetano, ciò non significa che non la si possa trovare da qualche parte nel buddismo”.
Quando spunta dell’ironia nel Dalai Lama, quello che segue dopo è un simbolico pugno nello stomaco, con un’inclinazione leggermente impostata dal basso verso l’alto, per penetrare in modo più efficace, come tutti i veri maestri di Arte Marziale sanno e insegnano.
Chi viene colpito si ritrova boccheggiante ma in piedi: non è forza bruta ma estrema precisione, sapienza di movimenti fatti al momento giusto nello spazio ideale. In piedi, pronto a ricevere dell’altro.
Riprese considerando altri aspetti, più vicini all’ottica occidentale.
*
In realtà, aggiunse il Dalai Lama, l’obiettivo fondamentale della pratica buddista è il conseguimento del nirvana; cioè, è l’interesse dello studio della mente per comprendere quali sono gli stati mentali che impediscono di raggiungere quel fine. Alcuni sono emozioni, altri no, ma in realtà non è importante. “L’aspetto rilevante è che tutti possiedono una qualità comune: sono degli ostacoli”.
Continuò: “La mia ipotesi, nel tentare di capire perchè l’Occidente dia un’importanza così centrale all’identificazione delle emozioni, è che risalendo all’illuminismo, e addirittura fino a san Tommaso d’Aquino, viene data grande priorità alla ragione e all’intelligenza. Che cosa può ostacolare la ragione? L’emozione”.
E ancora: “Ci sono due categorie opposte. Il fatto che nel pensiero occidentale esista un termine specifico per definire l’emozione non implica necessariamente che venisse data particolare importanza alla comprensione della natura delle emozioni. Inizialmente, forse, il motivo per etichettare qualcosa come emozione era di mettere in primo piano la ragione identificando qualcosa di irragionevole, di irrazionale”.
Oggi, la critica che il Dalai Lama rivolge alla separazione occidentale tra emozione e cognizione, è ampiamente supportata dalle scoperte che si sono avute nel settore della neuroscienza.
E cioè: il cervello non distingue chiaramente tra pensiero ed emozione, perchè le zone del cervello che risultano svolgere un qualche tipo di ruolo in ambito emotivo, sono allo stesso tempo in rapporto a qualche tipo di aspetto cognitivo.
E cioè: i circuiti dell’emozione e della cognizione si intrecciano. Esattamente nel senso in cui il buddismo definisce questi due elementi inseparabili.
*
Paul Ekman convenne con l’analisi storica del Dalai Lama e sui motivi per cui in Occidente fosse stato data una posizione di primo rilievo all’emozione.

Postato domenica, 6 febbraio 2011 alle 20:58 da Antonella Beccari


Le implicazioni dell’ammissione di Paul Ekman sono così tante e di così vasta portata, da farmi riporre la penna.
Come diceva Gianni, di fronte all’orrore si resta muti.
*
Ma se si ritrova la parola, e si considera che, ad ogni fine segue un nuovo inizio, io credo che ci possano essere dei buoni numeri per farcela.
*
L’ammissione di Ekman include l’esistenza di un territorio inesplorato, una sorta di mondo parallelo, che va scritto.
Un mondo parallelo in cui uno scrittore potrebbe trovare, per esempio, quei fattori di Coscienza collettiva dell’Attuale – che non riesce a trovare – sui cui costruire possibilità (vedi Gianfranco) che sono rimasti pietrificati dal 1274, anno di morte di Tommaso d’Aquino; e perchè non spingerci anche un po’ più indietro?
Il Dalai Lama mi è sembrato molto compassionevole.
Un mondo parallelo in cui un Politico troverebbe le ragioni dei fischi e fiaschi dell’attuale democrazia, la cui idea originaria non era poi tanto male, e saprebbe ridare un senso alla Politica.
Un mondo parallelo occidentale alle prese con le arti, la scienza, lo scibile umano.
*
L’anomalia di una possibilità ucronica… e ce l’abbiamo a portata di mano, già studiata e sperimentata, con formidabili interpreti che non aspettano altro che di Scambiare.
*
Avrei potuto dire di più e meglio ma, in qualche modo, un minimo di estremi per quello che sento essere una nuova indagine dell’uomo (e perchè no, del mondo che ci circonda), mi sento di averli dati.
Male e di fretta, lo so.
Ma il metacinema di questa giornata è quasi alla conclusione e ho da scrivere ancora una lettera a un amico che sta cercando una possibilità ucronica di sopravvivenza, che abbraccio e che stimo.

Postato domenica, 6 febbraio 2011 alle 21:00 da Antonella Beccari


Ah… dimenticavo :-)
Se emozione e cognizione sono due elementi inseparabili, che sviluppi ci saranno nella letteratura dell’orrore?

Postato domenica, 6 febbraio 2011 alle 21:01 da Antonella Beccari


@ Gianfranco
(“Allo stesso tempo, quando i tedeschi parlano di nazismo, non usano questa parola se non in riferimento ai nazi-skin, mentre in riferimento alla Germania di Hitler preferiscono usare il termine fascismo, insinuando che il virus è nato in Italia, il che non è del tutto privo di fondamento storico, tuttavia costituisce segnale indubbio di una certa rimozione della specifica esperienza nazional-socialista.”)
*
Nel simbolismo politico-satirico post-risorgimentale l’Italia è sempre stata rappresentata, sia in Italia che all’estero (in Europa), come una donna, mentre gli altri grossi paesi europei come uomini.
Che la malia del femminino renda ciechi e abbia colpito a tal punto fino a includere un virus letale?
Ah l’Italia questa vezzosa che, così debole, è in verità tentatrice del mitico Adamo! E il povero Adamo, una vittima circostanziale.

Postato lunedì, 7 febbraio 2011 alle 08:14 da Antonella Beccari


@ Franco (vedi tuo post del 31 gennaio)
A proposito di ibridazione.
Sono d’accordo con te: è difficile delineare un genere all’interno di un’opera. Molti dei libri migliori che ho letto (e tra quelli che preferisco) rappresentano ibridazioni di conoscenze antitetiche da parte dell’autore, o complementari.
Tra l’altro mi accorgo che, in virtù di questa commistione, ho letto molto più orrore di quanto non credessi prima di fare questa scorribanda nel dibattito.
*
*
Le motivazioni che mi hanno spinto ad entrare in questo dibattito.
Sto sperimentando su me stessa – alla stregua di un erborista che, messo a punto un farmaco, lo prova prima su di sè per metterlo a punto e verificarne l’efficacia -, quanto si può parlare e dibattere di un argomento che in realtà non si conosce più di tanto, attingendo alle risorse che si hanno a disposizione. Questo per sperimentare alcune asserzioni di scienza cognitiva e di psicologia di apprendimento, che sembrerebbero dare come un fatto che la cosa possa ampiamente e compiutamente sussistere; argomento di cui mi sono occupata e che continua oltre modo ad affascinarmi.
Quale occasione migliore se non quella di un dibattito tra “addetti ai lavori” di un qualche cosa che si è sempre “silurato”?
Naturalmente il fine non è un gioco di dialettica o fine a stesso tanto per occupare il tempo ma, piuttosto, verificare a dibattito concluso da parte mia, quante, quali e di quale livello sono le informazioni acquisite.
Diciamo che mi sono auto-esaminata; e che per farlo avevo bisogno di un feed-back di alto livello, quale ritengo siate voi. Ho anche letto gli ultimi due libri di Gianfranco, alcuni mesi fa, per darmi un minimo di input.
Perciò mi scuso con Gianfranco, che ha profonde motivazioni per arrabbiarsi con me perchè, dal suo punto di vista, presumo sia estremamente logico che non si possa parlare di quello che non si sa. Eppure, il fatto stesso che lui sia entrato in dialogo con me nel dibattito, dimostra che per qualche motivo io ho detto qualcosa che entrava in merito. Altrimenti non avrebbe corrisposto.
E non avrebbero corrisposto in qualche modo Gianni e Franco che, con tanta tolleranza, lo hanno invece fatto, il primo rispondendo in modo miratissimo (terrore / urlo – orrore / mutismo), il secondo dicendo addirittura che sollevavo questioni interessanti. Non si può fare una domanda interessante se non si è capito il nocciolo della questione.
Per una volta tanto, l’ignoranza dà qualche frutto. Ed è per questo che per me era una priorità sostenere una qualunque tesi nella quale per prima non ci credevo. D’altronde, qualche questione l’ho sollevata, no? E d’altronde, se fossi entrata in merito all’argomento dei sistemi di apprendimento, sarei andata fuori tema.
Se avessi fatto l’esperimento con amici che già conoscono le mie fissazioni questi, forse, per un malinteso senso di bontà, sarebbero stati condiscendenti. Spero che voi non lo siate stati. Sono perdonata?
Perdonata e certo ancora ignorante ma, a livello subliminale, riccamente dotata.
Grazie.

Postato lunedì, 7 febbraio 2011 alle 08:36 da Antonella Beccari


Cara Antonella, mica devi sentirti in colpa e non mi pare affatto di aver mostrato arrabbiature di sorta… si stava semplicemente discutendo e sai com’è… ho fatto per tanti anni lo sceneggiatore cinematografico e in cinema la regola è , nei dialoghi, che chi parla sostenga punti di vista diversi, a vantaggio di una maggiore vivacità dell’insieme. (A Tex danno sempre ragione tutti appena apre la bocca e la cosa alla lunga diventa assai fastidiosa, e oltretutto viene il dubbio che gli diano tutti ragione perchè sta rompendo le palle…). Su certe questioni filosofiche non mi pronuncio in quanto richiederebbero approfondimenti complessi (ad esempio nel pre-illuminismo e nell’illuminismo dei philosophes non si parlava affatto di “emozioni”, ma di “passioni” che è cosa ben diversa, e se non altro non ci fa venire in mente Lucio Battisti– hi hi—). Sui temi sollevati da Gianni, ho sentito oggi su Sky un interessante intervento di una intellettuale egiziana sugli attuali moti e sulla profonda differenza, a suo dire, rispetto a quelli tunisini. Tutto quanto serve a smuovere la conoscenza è benvenuto, purché non assuma un tono apodittico. I pamphlet mi stancano. Anche da scrittore cerco di esporre le cose, i fatti e i documenti, e di offrire attraverso i personaggi un ventaglio ampio di opinioni e giudizi, lasciando al lettore le conclusioni, a seconda del livello di ciascuno e del grado di sensibilità individuale. Ringrazio Antonella di aver letto i miei due romanzi che ha citato e mi auguro che l’abbiano stimolata. Per il resto non pretendo mai che qualcuno sia d’accordo con me, anche perchè spesso non sono pienamente d’accordo con me nemmeno io, motivo (forse) per cui ho preferito lasciare gli studi filosofici e fare il narratore.

Postato lunedì, 7 febbraio 2011 alle 19:05 da Gianfranco Manfredi


ahahah    Gianfranco, mi hai fatto ridere… hai un buon senso dell’umorismo..
cmq per fare il faccino …hihhihihhi… devi scrivere: due punti-trattino alto-parentesi conclusiva … a meno che tu non voglia esprimere disappunto o tristezza e, in quel caso, la parentesi e di apertura..
se va avanti così insceniamo don Camillo e Peppone : naturalmente tu fai Peppone e io don Camillo (ricordi ?)… ahahhaha.. ma non c’è nemmeno da dirlo…
*
*
Dei tuoi libri sarebbe meglio parlarne in loco, cioè sul tuo dibattito, però vorrei dire che sotto la tua immagine accademica si nasconde veramente una vena creativa. Hai fatto bene a mollare gli studi.
Sono rimasta piacevolmente sorpresa nel leggere Ho freddo, vuoi per le emozioni(!) in salire, vuoi per le soluzioni che hai dato; sulle quali non sono d’accordo ma è il tuo libro. E rispecchia te.
Augh, Antonella ha parlato
*
*
Per emozioni, nel senso ampio in cui si dava al convegno, si intesero anche le cosiddette passioni, cioè ogni movimento che produce un’increspatura nel mare tranquillo della mente.
Non è il mio braccio che tira la freccia al bersaglio, ma io divento lo stesso bersaglio per raggiungerlo. Se lo raggiungo, in una tale condizione si può cominciare a parlare di mente tranquilla. Di mare calmo.
Anche se non sembra, il convegno fu molto pragmatico. Il fine era infatti di trovare soluzioni perché la gente, l’essere umano, stia meglio.

Postato lunedì, 7 febbraio 2011 alle 22:29 da Antonella Beccari


@ Antonella. Il convegno di cui ha parlato doveva essere sicuramente di notevole interesse. Per quanto mi riguarda , quando sento parlare di come raggiungere il Nirvana, mi viene istintivo chiedermi: ma chi ci vuole andare nel Nirvana? Sinceramente , essendo nato in una città di mare, io preferisco il mare mosso, anche perché nella calma piatta non si avanza di un solo nodo. In un romanzo marinaresco (e scusa la fissa salgariana, ma in questo momento sto con la testa lì) DEVE esserci almeno un TIFONE, altrimenti diventa una rottura di palle.

Postato martedì, 8 febbraio 2011 alle 13:42 da Gianfranco Manfredi


Gianfranco, non ti rispondo nemmeno.
Questa non era nemmeno da umorismo noir, invece.
Avevo detto chiaramente che al convegno non si parlava di religione nè di nirvana. E’ un punto cruciale della cosa. Applicazione secolare.
*
Piuttosto, torno dalla biblioteca dove avevo prenotato dei titoli e c’erano in bella mostra della graphic novels di Stephen King: La torre nera.
Le ho prese. Vorrà dire che mi inizierò all’orrore con dei parametri visivi.
Magari tu invece pensa a portarci in viaggio su meravigliosi tifoni; a cavallo di antropomorfiche onde e magari in lidi a lieto fine. Ce n’è bisogno.

Postato martedì, 8 febbraio 2011 alle 18:02 da Antonella Beccari


In passato su questo dibattito si è accenato ad un rapporto tra lo sviluppo della scienza medica e i ritornanti,di come lo studio degli uni avesse compartecipato alla formazione dell’altra.A Giugno dovrebbe uscire per la casa editrice Routledge un saggio sull’argomento “Mummies, Cannibals and Vampires: The History of Corpse Medicine from the Renaissance to the Victorians” di Richard Sugg.
Se volete saperne di più:http://magiaposthuma.blogspot.com/2011/02/to-be-published-this-june-by-routledge.html

Postato martedì, 8 febbraio 2011 alle 21:57 da Francesco Moretta


Se il terrore è nell’aria e l’orrore è nell’occhio, cosa ci sarà mai nella testa ? Credo che Antonella accennasse all’interesse del Dalai Lama per le scoperte degli ultimi anni sulla biochimica del sistema nervoso e la neurofisiologia dell’estasi e del controllo del dolore. Nella psicologia o fenomenologia buddhista ( abhidharma) si tratta di “fattori mentali” negativi, positivi e neutri. Il principale “fattore mentale negativo” è l’illusione circa la stabile sostanzialità delle cose e la credenza in un essere autonomo, autoesistente, ridotto a una piccola idea della relazione con se stesso, con gli altri e con l’universo.
Grosso modo, i “fattori mentali” sono le qualità della mente che combinandosi tra di loro “colorano” i nostri stati mentali di momento in momento. In un continuo processo di attrazione e/o repulsione, un momento ci sentiamo su da dio, un altro momento giù da bestia. Senza mai sapere con certezza se “questa scala” – come cantava anche san Jim Morrison – “porta in Paradiso o diritto giù all’Inferno”.
Insomma, su e giù nella routine, se non nella spirale; e comunque in una struttura condizionata, una struttura di morte conosciuta come samsara. Qui niente è davvero solido e stabile. Ed è forse a questo che alludeva Kafka, quando scriveva di quella sua strana “sensazione di continuo mal di mare in terra ferma”.
Dove anche le montagne scorrono, quello che si è eretto finalmente crolla come la casa degli Usher, quelli che si sono incontrati finalmente si separano e tutto ciò che nasce finalmente muore: tale è l’impermanenza.
I “fattori mentali” determinano la realtà dell’osservatore , nel continuo scorrere dell’esistenza condizionata. Come dice un proverbio zen: “Per l’amante, una donna bellissima è un piacere; per un monaco, una distrazione; per un lupo, un pasto”.
Un fattore mentale di tipo lupesco, potrebbe per esempio portare un onesto buon uomo a fare qualcosa di orribile alla propria compagna, ecc. Lo psicologo delle ASL dirà che il poveretto ha agito in preda alla solitudine , al terrore di essere abbandonato. E, per tranquillità, dirà che ha agito in preda ai fantasmi. Ma se consideriamo l’estensione delle devastazioni interne ed esterno che avidità, odio ed egoismo possono produrre, sarebbe più adeguato definirli demoni. Non a caso, nell’ iconografia buddhista i “fattori mentali negativi” vengono talvolta raffigurati come veri e propri dèmoni distruttori con denti di vampiro.
Questo sistema distingue – con passione analitica tipica dei pensatori buddhisti – le qualità mentali “positive” e sane da quelle nocive, distruttive o “afflittive” ( klesha, in termine tecnico) . La regola pratica fondamentale alla base di questa lista è se una qualità della mente è di aiuto o di ostacolo alla meditazione e alla relazione sana e produttiva con se stessi e con gli altri.
Attraverso la pratica – il cui punto focale è il modo di funzionare della mente qui e ora ( più che i contenuti mentali, come in psicoanalisi) – i fattori mentali negativi decrescono e quelli positivi aumentano, fino al ritrovamento – sempre singolare – dell’essenza dell’esperienza umana, ovvero della gioia, insieme all’estinzione del dolore comune alla mia e all’altrui vita.
In tal senso, Nirvana non è un Paradiso o un luogo oltre la vita, ma lo stato mentale degli “arhat”, i santi del buddhismo, coloro che hanno realizzato la non-sostanzialità ultima delle cose . Svegliandosi dall’interno del loro sogno e dei loro incubi, hanno ritrovato la natura adamantina e aperta della mente ed estinto e come soffiato via ( nir-vana) ogni “afflizione”.
Gli arhat – e ancora di più i bodhisattva, che rinunciano a inabissarsi nello stato nirvanico per essere di aiuto agli altri trasmigranti – non vanno confusi con gli gnostici dell’Adelphi, che dal loro isolamento si rallegrano di veder passare il mondo. E neanche con Pietro Citati, teorico del sublime, quando ci propone “un mondo stellare dove non esiste colpa, non esiste sesso, non esiste storia, esiste solo una beatitudine infinita”.
L’infinito? Gli arhat non corrono all’infinito e non vanno a rottadicolo dove porta il cuore (all’ospedale, nella maggior parte dei casi). Si tengono piuttosto al centro del ciclone. E tra gli orrori del samsara e i terrori del nirvana, conservano una strana forma di equilibrio tra illuminazione e abbaglio.
Il canone Pali, i testi classici del buddismo Theravada, descrivono gli arhat come persone capaci di piangere alla morte delle persone care e versare lacrime per la sorte degli altri e del mondo, ma la loro compassione, il loro andare insieme è privo di rabbia, ira o avversione. Non avendo rinunciato alle cosiddette pulsioni di vita ( eros) i loro cuori possono ancora spezzarsi alla vista delle sofferenze degli altri, ma le loro lacrime sono prive di attaccamento. Insomma, provano dolore senza addolorarsi; e gioia senza esaltazione.
« Questi sereni santi buddisti – osserva Daniel Goleman – sono un modello prezioso, fonte di ispirazione per il meditatore comune. Ma, in un certo senso, sono problematici. Il loro aspetto sereno rappresenta un tipo ideale, la pace alla fine del cammino… Che però sembra qualcosa di remoto e irraggiungibile dalla limacciosa realtà dei praticanti. (…) Per noi, meditatori comuni, la distanza tra la squallida realtà delle nostre emozioni e i luminosi standard dell’arhat sembra insormontabile. È come se questi ultimi fossero caduti da qualche galassia vicina, forse da Alpha Centauri ». In effetti, siamo passati, storicamente, dal bellissimo inconscio ritenuto “rizomatico & desiderante” degli anni ‘60, ‘70, alle macchine ossessive dei ‘90 e infine dei 2000, passando come improvvisa amnesia attraverso gli stupidi anni ‘80, per ritrovarci agglutinati in un inconscio italiano, medio-italiano, piuttosto meschino & polipesco. Pare di stare nelle sabbie immobili. La caduta della casa Usher ? Ecco, uno dei fattori mentali negativi è la malinconia, che potrebbe facilmente trasformarsi in accidia…
Per fortuna o sventura esistono certamente molte altre storie possibili, o anche impossibili – come quella degli arhat e dei bodhisattva che scendono da Alpha Centauri e… sorridono.
Gli arhat e i bodhisattva sorridono. Il sorriso della mente, se non quello del teschio che sotto sotto se la ride in eterno, malgrado i tifoni e gli uragani, non è forse questa la sola libertà possibile ?
:-)

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Bibliografia
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Daniel Goleman, Dalai Lama. Emozioni distruttive. Liberarsi dai tre veleni della mente: rabbia, desiderio e illusione., Mondadori. 2003; Daniel Goleman., Intelligenza emotiva, Rizzoli. 1996; La forza della meditazione. Rizzoli. 2003; Menzogna, autoinganno, illusione. Rizzoli. 1998. Vedi anche: Lama Yeshe, Buddhismo in Occidente : Una via per una nuova ecologia della mente, trad. it. di Lorenzo Vassallo, prefazione di Gianni De Martino, Chiara Luce Edizioni 1990; Il Suono del Silenzio Cristianesimo e Buddhismo, trad.it. Silvia Mori, prefazione di Gianni De Martino, Chiara Luce Edizioni 1985.

Postato mercoledì, 9 febbraio 2011 alle 20:19 da Gianni De Martino


ERRATA CORRIGE
“Ma se consideriamo l’estensione delle devastazioni interne ed esterne che avidità, odio ed egoismo possono produrre, sarebbe più adeguato definirli demoni”.
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IN LUOGO DI:

“Ma se consideriamo l’estensione delle devastazioni interne ed esterno che avidità, odio ed egoismo possono produrre, sarebbe più adeguato definirli demoni”.

Postato mercoledì, 9 febbraio 2011 alle 20:26 da Gianni De Martino


… Ecco, uno dei fattori mentali negativi è la malinconia, che potrebbe facilmente trasformarsi in accidia…o anche in rabbia. Come quella cantata dal bambino Alberto :
http://www.youtube.com/watch?v=FM28AIrDQWY&feature=player_embedded

:-)

Postato mercoledì, 9 febbraio 2011 alle 21:06 da Gianni De Martino


Insomma, signori, vi avevo trovato ricoperti di sputi e sputacchi, al limite di una nuotata scivolosa, e vi ritrovo a parlare di menti pulite e terse… che siano gli effetti degli sputi?! Essi lavano via ogni onta e lasciano i presenti come il bambino Alberto, pronti a una presa di coscienza da cui sicuramente scaturirà l’alternativa che tutti aspettiamo, quel treno che non arriva mai ma che un giorno di certo arriverà:
“Compagni, e anche tu, piccola perla di cui ancora non conosciamo i Fini, sicuramente buoni, diamoci la mano e intoniamo un inno perchè il figliol prodigo ritorni e ancor non gli accada quel destino che il Leopardi raccontò di Silvia. Chè, se accadesse, che cosa mai più ci resterebbe se non stringerci attorno al papa? Ahimè, magra consolazione, giacchè anche lui c’ha i suoi Casini. Non basta il menestrello veggente, il nostro savonarola ruggente, che ha lanciato la sua ultima Pietra infuocata, ma fatta di material ancor da identificar; ora dal bosco bruciato si alzano legni di Bosso. Che cosa ne verrà? La distruzione c’è già stata. Eppur, ci sovvien che la storia insegna il deus ex machina: uniamoci allo stranier che incalza, tiriamo le alleanze. Quando sarà il momento, gli faremo il voltafaccia.”
**
Ma questo è orrore di ultima categoria: splatter… splash!
Mi ricorda il realismo-ismo-ismo-ismo di alcuni cartelloni cinesi di propaganda, più che le marcette su Roma. O ad Arcore.

Postato giovedì, 10 febbraio 2011 alle 10:42 da Antonella Beccari


Meglio ritornare in tema, cioè alla letteratura dell’orrore, che è argomento più istruttivo, et humile, et chiaro, et Politico.
BOCCIATA! La Torre Nera è bocciata!
Stephen King o chi l’ha scritto per lui ha dato il meglio della mediocrità che è lo standard odierno.
La solita storia trita di uomini buoni e di uomini cattivi il cui capo è l’intermediario di Lucifero, e dove c’è il solito triangolo di sentimenti: Romeo e Giulietta contrastati da Ka, (il karma); pure l’orientale ci ha messo Stephen.. ahahahaha…. ah, naturalmente gli interpreti femminili o sono megere o sono puttanelle o sono pulzelle indifese, niente di eroico, per carità…
Soffocata dalla noia dopo 150 pagine (sì, è vero, sono riuscita ad arrivare fin lì perchè riesco anche ad essere caparbia), ho considerato almeno la grafica. Computer, computer, computer… e dopo il computer ancora computer.
*
Se qualcuno ha voglia di leggere e vedere qualcosa di buono (non so se sia già stato citato), consiglio Jodorowsky in collaborazione con Moebius.

Postato giovedì, 10 febbraio 2011 alle 10:43 da Antonella Beccari


Confermo quanto ha detto Gianni nel suo post precedente.
All’inizio della mia conversazione avevo dato le estremità del libro di cui parlavo e che Gianni ha riconfermato nella bibliografia a proposito della serie di convegni fatti.
Insisto, però, a voler individuare i fini pragmatici e secolari su cui si basavano gli argomenti e gli scopi, in cui nirvana samsara e “bella compagnia” non furono nemmeno nominati e, se nominati, su gentile richiesta dello stesso Dalai Lama, declinati.
Fini ed elaborazioni da cui, in tempo posteriore, sono stati tratti laboratori e nuove modalità di supporto allo studio dell’intelligenza emotiva. Cosa di cui avrebbe un capitale ed urgentissimo bisogno chi ci governa.
D’altronde, è sempre fonte di sorpresa come, non solo individui di bassa e media cultura, ma anche e soprattutto di cultura superiore e non necessariamente religiosa, siano ciechi di fronte al vero contenuto di altre culture.
Vedo che la mentalità occidentale, che pure si trova ad esempio a lamentarsi che la democrazia ha fallito, continua a credere negli stessi sistemi di pensiero che hanno portato al fallimento della democrazia. Non c’è una vera volontà di comprendere. Esistono una radicata arroganza e un sorriso di sufficienza che portano a supporre che la cultura occidentale sia superiore a tutte le altre. E nel migliore dei casi, la maggior parte di queste eccelse menti occidentali che si addentrano in altre culture, lo fanno da un punto di vista occidentale, non certo sperimentandole dall’interno, il che equivale a dire che il Sole gira intorno alla Terra, perchè così sembra.
Naturalmente – e sottolineo – quando parlo di altre culture, escludo tutti i regimi totalitari laici o religiosi (chi se ne frega!, sono la stessa cosa ahahaha alla faccia di Mao-miao e I figli di Mao-miao, o I Fratelli musulmani, e perchè non il sanguinario San Cirillo che viene ancora oggi celebrato?), perchè sono aberrazioni mentali basate sulla violenza, sulle cosiddette emozioni distruttive. Cioè non sono culture, ne sono la caricatura.
*
Eh sì, ci vorrà del tempo.
Lui diceva: “Lasciate che vengano a me, perchè essi sono innocenti”.
Ai convegni fu data un’attenzione particolare ai bambini, per gli adulti si convenne che si poteva solo arginare. Almeno per ora.
La mia considerazione è che siamo ancora all’Età della Pietra Emotiva, tutto lì.
Ci occorrono ancora vampiri, fantasmi, sangue e sputi per velare la verità quando la verità, in realtà, sarebbe molto più emozionante, a volerla guardare.
Ma i veri orrornauti dovrebbero saperlo.

Postato giovedì, 10 febbraio 2011 alle 10:45 da Antonella Beccari


Gianni, qual’è la differenza tra la “errata corrige” e “in luogo di”?
devo essermi persa qualcosa.”

Postato giovedì, 10 febbraio 2011 alle 10:46 da Antonella Beccari


Una curiosità.
Ieri mi viene presentato un uomo che insegna in un istituto tecnico vicino a dove abito. Dice di essere cattolico.
Mi racconta che insegna religione. “Ah – gli dico – insegna religione o storia della religione?”
MI risponde: Insegno religione, ma anche qualcosa di storia della religione.” E poi si profonde in lamentele sui giovani, sulla loro mancanza di interessi, sulle famiglie che a monte non danno stimolo, insomma le solite menatine con cui la società di oggi si profonde in scuse e accuse.
Riprendo da prima dell’inizio delle lamentele, e chiedo: “E attraverso quali religioni estende la storia delel religioni?”
“Ah.. le maggiori religioni: islamismo, ebraismo, induismo!”
“Ah – replico io – buddismo no?”
“Ah – risponde lui – ma il buddismo non è una religione!”
*
Si lamentava che, su una classe di 28 studenti, seguono le sue lezioni solo in due. Che mancanza di senso religioso nei giovani d’oggi!

Postato giovedì, 10 febbraio 2011 alle 11:14 da Antonella Beccari


Ergo:
se ne deduce un incrocio singolare della mentalità occidentale.
Da una parte c’è il non-credente che taccia il buddismo di misticismo e gli toglie ogni probabilità di incidenza a livello secolare; dall’altra c’è il credente che, invece, siccome ha intuito la sorprendente capacità del buddismo di regolarsi sul secolare e di interagire con esso al di fuori della sfera mistica, lo taccia di non essere una religione.
Sembra il ritratto dell’Italia del dopoguerra.
Alla fine, però, si trovano d’accordo. Che sia un’illusione, non ha importanza. L’importante è avere Ragione.

Postato giovedì, 10 febbraio 2011 alle 11:39 da Antonella Beccari


Non so se sia più importante avere ragione o avere torto. Forse è più importante “sapere di non sapere”. Ringrazio Gianni per l’approfondita e chiara lezione. Non vi dico che mazzo mi sto facendo adesso che scrivo una storia sulla Cina del 1900, con certi testi cinesi. Ad esempio ZHUANGZI (Bur, 2008) che il retro copertina definisce: “uno dei libri più misteriosi e affascinanti della letteratura mondiale”. Tra le tante, mi sono segnato questa frase: “E’ facile dimenticarsi del mondo, ma è difficile indurre il mondo a dimenticarsi di noi.” Come ho detto, diffido degli aforismi, però ripetuta nell’ora attuale, questa sentenza pare pregnante. Nessuno pare voglia essere dimenticato, anche a costo di offrire il peggio di sè. “Bene o male non importa, basta che se ne parli” recita la Bibbia dello Spettacolo. Ma uno scrittore sa che quando scrive, e sente di stare scrivendo una cosa bella, anche se ancora nessuno l’ha letta, e nessuno dunque ne parla, è felice e tutto il resto gli scivola addosso, persino gli sputi che ormai in Italia schizzano a raffica su tutto e su tutti, anche su quelli che non disturbano affatto e dunque stanno tanto più sulle palle. Ah, l’uomo invisibile, che mito! E non è paradossale che ci abbiano fatto dei film? Sulla Torre Nera: condivido il giudizio di Antonella. E’ una palla malriuscita. Il fantasy non è nelle corde di King. Non è male, per la verità, che il cavaliere condottiero sia un pistolero del west, però si ha l’impressione di un giochino piuttosto sterile . Anche in questo Salgari è superiore: i suoi eroi combattono per qualcosa di riconoscibile (la vendetta personale e/o il riscatto sociale) , tutto il resto è fuffa.

Postato giovedì, 10 febbraio 2011 alle 13:10 da Gianfranco Manfredi


Una domanda: a parte vampiri, zombies e universi trucidamente sottili, quali aspetti del subumano sono stati investigati nell’ambito della letteratura di orrore?
Faccio un esempio.
In ambito giuridico, il famoso avvocato Jacques Mansour Vergès parlò nel suo “Strategia del processo politico” dei motivi che lo condussero a difendere autentici mostri. Questo implica un doversi mettere nel punto di vista del mostro.
In ambito letterario è stato investigata la testa di un nazista che sta torturando un povero ebreo? Le motivazioni, le emozioni, gli scarti emotivi del dopo tortura. La sua intima soddisfazione?
O il cinese che sta violentando con un paletto elettrico una monaca tibetana? Che cosa sta provando, e perchè sta provando così invece di cosà? Che cosa gli fa muovere il braccio eloquentemente?
E per non sembrare di parte tirar fuori la monaca tibetana, è stato investigato che cosa avviene mentre una ragazzina viene uccisa da 80 frustate perchè ha avuto la sacrilega idea di innamorarsi di un cugino? E soprattutto di entrare nella testa addirittura non di un singolo, ma di un’intera collettività riunita di fronte alla tortura, e che ha bisogno della stessa emozione collettiva per sentirsi comunità? Vista la faccia del padre che assisteva? Che genere di sentimenti possiedono, anzi, che genere di intelligenza emotiva possiede questo “uomo”?
Dracula ha mai spiegato perchè godeva di vedere impalati i propri nemici?
Esiste inoltre un’indagine letteraria nell’ambito dell’orrore dove la voce narrante sia quella dell’aguzzino, del carnefice, e non quella della vittima o di un ideale spettatore; escludendo de Sade, Le Fanu e vampirizzati che a loro volta vampirizzano?

Postato giovedì, 10 febbraio 2011 alle 16:00 da Antonella Beccari


@Antonella.C’è un episodio del fumetto “Hellblazer” intitolato “Sole calante” in cui ascoltiamo le confessioni di un vecchio giapponese che da giovane aveva partecipato alle atrocità commesse durante l’invasione della Cina.Si tratta di una narrazione dai toni crudi,quasi uno sputo in faccia alla morale.Il vecchio parla del suo rapporto con le crudeltà commesse come di un rapporto amoroso non corrisposto:la violenza era ed è ai suoi occhi come una bellissima donna che non avrebbe mai potuto toccare.La storia è reperibile nel volume “Hellblazer:Raccontare storie” della Magic Press (ma è stata ristampata dalla Planeta De Agostini nell’omnibus “Hellblazer di Warren Ellis”) se ti interessa.
Sulla Torre Nera o meglio sul fumetto a disegnarlo non è stato un anonimo computer,ma Jae Lee disegnatore piuttosto bravo e che non adopera il computer.(La colorazione al computer è invece una prassi comune nei fumetti americani dalla fine degli anni 90)Qui è reperibile una parte della sua produzione (in bianco e nero):http://www.comicartfans.com/SearchResult.asp
P.S.I Jet Black Berries hanno realizzato per la loro nuova canzone “They walk among you” un videoclip che omaggia la figura del non-morto.
http://www.youtube.com/watch?v=I73l5E1BdII
Nel video sono presenti spezzoni di diversi film,li riconoscete?

Postato giovedì, 10 febbraio 2011 alle 16:41 da Francesco Moretta


Eh, l’ho visto che “la colorazione al computer è invece una prassi comune nei fumetti americani dalla fine degli anni 90″; l’ho visto bene. Ma quello che intendo: vuoi mettere a confronto la resa di una tavola colorata a mano? L’eleganza delle sfumature? Questo intendevo per computer. Che ci fosse un bravo disegnatore dietro La torre nera, è indubbio. Sono i prodotti finiti a computer che mi esauriscono gli occhi alla fine. Diventano piatti, anche se poi ci sono degli accorgimenti che modificano questa impressione. Su una copertina, per esempio, era stato modificato il sangue, da rosso a nero, proprio per evitare un impatto troppo forte.
Comunque non sono un’esperta, mi fido del mio gusto.
Sono dell’idea che la qualità abbia un linguaggio universale.
Grazie Francesco per l’indicazione di Hellblazer.
Ciao, sei stato veramente carino.

Postato giovedì, 10 febbraio 2011 alle 17:24 da Antonella Beccari


Nel suo “Cavalieri Templari 2083″, Anders Behring Breivik, l’autore della strage di venerdì scorso in Norvegia, scrive di essersi ispirato, tra l’altro, a Vlad Tepes detto Dracula. ” l’Impalatore – afferma, non senza logica, il giovane demente – fu un genio della guerra psicologica. Come ogni altro governante, aveva due nemici: disordini interni o esterni, tradimento e aggressori islamici minacciavano il suo paese. Era un vero maestro di messa in scena della crudeltà per ottenere il massimo effetto.” Dracula, ancora una volta, appare come un mito da manipolare con cautela.

v. http://www.dailymail.co.uk/news/article-2018206/Vlad-Impaler-genius-The-crazed-hate-filled-manifesto-mass-murderer.html#ixzz1T5qRCouP

P.S. Ciao Massimo, hai notizie di quel libro sui vampiri di cui avevamo parlato più sopra?

Postato martedì, 26 luglio 2011 alle 13:09 da Gianni De Martino


Viene in mente il film crudele e quasi profetico di Uwe Boll (Rampage, 2009). Un giovane perdente radicale si confeziona un’armatura e, uscito fuori di testa o di melone, si aggira con furia per strada uccidendo come una macchina gli innocenti che gli capitano a tiro. “Rampage” è una parola inglese riferita originariamente al muoversi eccitato e ingovernabile degli animali, poi passata a designare la follia dei terroristi solitari e fai-da-te – più simili ad automi che a belve in preda a insaziata fame di carne. Il mondo non è un film del genere horror o catastrofico, anche se talvolta gli assomiglia.

http://www.youtube.com/watch?v=G28XHNtWjdU

Postato martedì, 26 luglio 2011 alle 13:13 da Gianni De Martino


Grazie per aver riportato in vita il non-morto, caro Gianni. :-)
-
La pubblicazione del “nostro” libro è solo stata rinviata di qualche mese.
Un caro saluto.

Postato martedì, 26 luglio 2011 alle 23:06 da Massimo Maugeri


Grazie Massimo. Intanto ti segnalo questa draculata, LA SCRITTURA DI DRACULA, in uscita per OV. Spero cmq che il “nostro” libro si possa fare, sarebbe un peccato rinunciarvi. Un saluto cordiale

http://www.olandesevolante.com/EBOOK_98/GIANNI_DE_MARTINO_489/

Allego un augurio di Carmelo Bene dall’aldilà:
Carmelo Bene – Salomé – GLI PROIBISCO DI RESUSCITARE I MORTI!
http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=M_XvlCF5-UE

Postato domenica, 22 gennaio 2012 alle 21:54 da Gianni de Martino


Caro Massimo, ho segnalato più sopra sul “nostro” forum il ritorno del non-morto, o meglio di una costoletta del non-morto, dalle parti dell’Olandese Volante.
Inevitabilmente il pensiero va al “non-libro”, che quaggiù, nel forum, ancora si agita come un nosferatu fra splendide rovine.
Rileggendo gli eccellenti interventi di Altieri, Comida, De Crescenzo, Manfredi, Pezzini, Santamaria, Foni e degli altri amici vampirici protagonisti di quel memorabile post, continuo a pensare che sarebbe un peccato seppellirli in fretta e che forse si potrebbero far rivivere in forma cartacea…
A patto, naturalmente, di trovare un editore all’altezza di un libro di 200 pp circa, che potrebbe intitolarsi: FUORI COME VA ? – FORUM SULLA LETTERATURA DEI VAMPIRI E DI ALTRI ORRORI. A cura di Massimo Maugeri – con scritti di: (elenco degli Autori vampirici).
Antenne ruotanti in molteplici direzioni dibattono sulla letteratura dei vampiri. Il testo collettivo si produce per andamento a spirale, fino a diventare una specie di fiore carnivoro, che si potrebbe giovare di un editing che lo snellisca un po’, suddividendo il testo per aree tematiche – molti temi infatti ritornano , ripassando per gli stessi punti per esplicitare e sviluppare un’intuizione iniziale. Ne viene fuori un percorso ricco e affascinante, oltre che un’idea imprevedibilmente alta della letteratura vampirica.
Come notava Gianfranco Manfrendi: ” Ehm… in quale altro forum si passerebbe così disinvoltamente e naturalmente dal porno a Dio? Eppure non è un caso perché è in questo crocicchio che si installa (anche) la figura del Vampiro. Mordendo il vuoto qualcosa di nutriente resta”. Eh,sì: se la fame dei lettori è tanta, cosa dire allora della sete dei vampiri ? Vorrebbero trasformarsi in libro per addentare e trasportare gli incauti lettori… fuori, verso un reale più largo, lungo percorsi imprevisti…
Con l’augurio a te, a me e a tutti gli amici di Letteratitudine di essere sempre, o quasi sempre… fuori. :-)

Postato mercoledì, 25 gennaio 2012 alle 13:49 da Gianni de Martino


http://www.youtube.com/watch?v=Uew3kYk0LNY

hahahah ;)

Postato mercoledì, 25 gennaio 2012 alle 13:52 da Gianni de Martino


http://www.youtube.com/watch?v=oXcJTbgt1N8&feature=related

.. “oh my God! What are you doing to the furniture?” …
ahahahahaha:-)

Postato mercoledì, 25 gennaio 2012 alle 16:56 da Antonella Beccari


Carissimo Gianni,
complimenti per “La scrittura di Dracula”.
E grazie per i tuoi interventi.
Per quanto riguarda la possibilità di pubblicare il “non-libro” attingendo alla discussione di questo forum ti dico che… la speranza è l’ultima a “non-morire”. ;)
Un caro saluto anche ad Antonella.

Postato mercoledì, 25 gennaio 2012 alle 23:01 da Massimo Maugeri


[...] gran lunga i 1.000 commenti. Il record si è registrato con il post sulla cosiddetta “letteratura dei vampiri“, che ha registrato circa 2.800 commenti. In questi ultimi mesi ho cercato di intensificare [...]

Postato giovedì, 8 novembre 2012 alle 01:17 da In uscita “Letteratitudine, Il Libro – Vol II”. Intervista a Massimo Maugeri | ScrivendoVolo


Rubber Mat…

Kataweb.it – Blog – LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » Blog Archive » DIBATTITO SULLA LETTERATURA DEI VAMPIRI… E DI ALTRI ORRORI…

Postato lunedì, 6 ottobre 2014 alle 12:26 da Rubber Mat



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