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Archivio di aprile 2008

mercoledì, 30 aprile 2008

GIOVANNINO GUARESCHI E IL GIORNALISMO UMORISTICO

È con molto piacere che ospito un intervento di Daniela Marcheschi sul “giornalismo umoristico” e sulla figura di Giovannino Guareschi (padre letterario di Don Camillo).
Si tratta del pezzo introduttivo al Catalogo della mostra Giovannino Guareschi: nascita di un umorista. “Bazar” e la satira a Parma dal 1908 al 1937, a cura di Giorgio Casamatti e Guido Conti, Parma, MUP, 2008, pp.16-23. La mostra, curata da Casamatti e Conti, è a Parma dal 19 aprile al 1 giugno 2008 (assolutamente da vedere, perché molto bella).
Ne approfitto per ringraziare la professoressa Marcheschi e la MUP per la gentile concessione del testo.
Vi invito a leggerlo con attenzione e a dire la vostra.

Inoltre ricordo che proprio il 1° maggio decorre il centenario della nascita di Guareschi (venuto alla luce, appunto, a Roccabianca il 1° maggio del 1908).

Vi consiglio di collegarvi al sito del Comitato Nazionale per le celebrazioni della nascita di Giovannino Guareschi: www.guareschi2008.com

Seguono alcune domande che mi pongo (e vi pongo), come al solito, per favorire il dibattito.

Il giornalismo umoristico, oggi, può avere una funzione? E fino a che punto?

Il giornalismo umoristico può essere considerato letteratura dell’umorismo?

Quello di Beppe Grillo, anche con il suo blog, può essere considerato giornalismo umoristico?

Parliamone (se vi va).

Buon 1° maggio a tutti.

Massimo Maugeri

- – -
Daniela Marcheschi, nota italianista e critica letteraria, è autrice di saggi tradotti in varie lingue, curatrice dei Meridiani Mondadori delle opere di Carlo Collodi e Giuseppe Pontiggia, vincitrice, per il suo lavoro di traduzione e critica in campo scandinavistico, del Tolkningspris dell’Accademia di Svezia
- – -

Tradizione e innovazione del «giornalismo umoristico»: Giovanni Guareschi
di Daniela Marcheschi

Giornalista e scrittore, vignettista e autore di testi satirici, Giovanni Guareschi è uno degli umoristi più completi del nostro Novecento, capace di ridare vita e forma nuova alla tradizione comico-umoristica, così come essa si era codificata in Europa, prima, e in Italia, poi, nell’esaltazione delle passioni risorgimentali.
Guareschi, che era nato nel 1908, aveva avuto modo di conoscere la comicità sia di Sergio Tofano o STO, che si esplicò in svagati toni palazzeschiani ed anche in un segno dai tratti sinuosi e morbidi, sia di Ettore Petrolini, le cui celebri canzonette erano costruite sui non-sense, le cui farse e macchiette giocavano di continuo su esilaranti situazioni surreali. Leggerezza e cinismo, humour e paradosso, satira e ironia si incontrano così da subito nella produzione umoristica di Guareschi, che di scritti e vignette, a partire dal 1929, inondò giornali e numeri unici di Parma: «La Voce di Parma», «La Fiamma. Corriere del Lunedì» ecc.. Nello sfogliare le pagine di simili giornali e periodici – così come quelle del più tardo «Bertoldo» (fondato nel 1936) o del suo celebre almanacco a cui Guareschi collaborò – possiamo scoprire e constatare la capacità di azione nel tempo di modelli umoristici o satirici che vantavano almeno ottanta anni circa di storia: quelli del «giornalismo umoristico» ottocentesco, che il nostro Carlo Lorenzini (1826-1890), alias Collodi – ma già alias L., alias Lampione, alias Scaramuccia, alias ZZTZZ, alias Diavoletto, solo per citare alcuni dei suoi più celebri pseudonimi – aveva contribuito ad inventare e re-inventare gomito a gomito con i caricaturisti Cabrion (Niccola Senesi), Angiolo Tricca o Mata (Adolfo Matarelli) e in una sorta di dialogo a distanza con Honoré de Balzac, la cui opera gli era arcinota.
Intorno al 1830 e nei decenni successivi in Francia erano fioriti periodici che, facendo perno su una scrittura briosa ed ironica, sulle vignette e caricature di Daumier, Grandville, Gavarni ecc., offrivano notizie dei teatri e degli spettacoli, articoli vari, racconti e romanzi spesso a puntate. Da «La Caricature» a «Le Charivari», da «La Mode» a «La Silhouette», a «Le Corsaire Satan» e via discorrendo, una generazione intera di autori, come Balzac, Nodier o la Sand, aveva dato vita a una letteratura pronta ad assumere forti connotazioni critiche, specialmente grazie a Balzac, nei confronti della cultura romantica e della Modernità in genere. Lo stesso Giacomo Leopardi – con un senso vivo della complessità delle tradizioni presenti e passate – nel maggio del 1832 avrebbe voluto pubblicare a Firenze un «Giornale di ogni settimana» con il titolo «Lo Spettatore Fiorentino»: una sede «per ispeculare», con il proponimento di «ridere molto», e per contenere «pareri intorno a libri nuovi», ma anche notizie «di teatri e spettacoli», «traduzioni di cose recenti e poco note da diverse lingue», nonché «articoli nuovi da valenti ingegni italiani o stranieri». Leopardi si proponeva di creare un “anti-giornale” a cui demandare un’esigenza di letteratura e critica militante, e attraverso cui continuare, alla luce del suo totale disincanto, la battaglia contro le verità scoperte dal suo secolo e per una filosofia materialistica contro certo sentimentalismo o mondo ideale romantico, che falsificava il senso stesso del destino dell’essere umano1. Non per nulla, nel preciso intento di fare una satira senza sconti della realtà politica e culturale del proprio tempo, Collodi – dalla «Nazione» al «Fanfulla» – non farà che ironizzare sul cattivo gusto di una borghesia che continua a preferire la poesia di Metastasio a quella di Leopardi2; e nel Novecento, Marcello Marchesi e Alberto Savinio si divertiranno a raccontare la biografia di Leopardi in modo dissacrante e paradossale, mentre Giovanni Guareschi, ispirato dal carattere dello Zibaldone, eterogeneo ed originale, nel 1948 pubblicherà presso la casa editrice milanese Rizzoli lo Zibaldino. Storie assortite vecchie e nuove: un modello di libro aperto, né romanzo né raccolta, dove trovano posto racconti, pezzi stravaganti, riflessioni, pagine di diario all’insegna dell’eteroclito.

Nonostante divergenze politiche ed economiche, le élites più accorte dell’Italia ottocentesca guardavano con attenzione alla Francia, seguendone la letteratura e la stampa periodica. La comparsa in quel paese di una letteratura militante, in posizione “agonistica” verso la società industriale e (per usare un termine caro a Balzac) verso le sue «patologie» culturali, artistiche, letterarie, non poteva non interessare generazioni che avrebbero vissuto il Risorgimento con slancio generoso, nell’amore smisurato verso la nazione e nella volontà di darle una struttura unitaria in grado di rinnovarne profondamente e sistematicamente la società ed ogni aspetto della cultura. Così, quando a causa della crescente protesta popolare, negli anni 1847 e 1848, i diversi regnanti degli stati italiani – da Ferdinando II di Borbone a Carlo Alberto – furono uno dopo l’altro costretti a concedere una Costituzione, in genere ispirata a quella francese orleanista, anche in Italia poté esservi la libera espressione della stampa. Un po’ ovunque fiorirono numerosi giornali umoristici, d’ispirazione liberale e democratica (ma non solo) e di netta satira politica e sociale. Il più importante fu com’è noto «Il Lampione» (13 luglio 1848-11 aprile 1849), animato a Firenze da Carlo Lorenzini che, nel 1860, ne riprese la pubblicazione per sostenere la campagna di annessione al Piemonte. Per rimanere nell’ambito dei giornali liberali e democratici, si ricordino ad esempio, in una Toscana brulicante di tali imprese, periodici quali «Il Birichino», «La Lanterna Magica», «La Voce del Popolo», «Lo Charivari del Popolano», «Belfagor Arcidiavolo», «Calambrone» e «L’Inferno»; ma anche «L’Arlecchino» di Napoli, «Il Fischietto» di Torino, «Lo Spirito Folletto» di Milano. Qualche anno più tardi troviamo «L’Arte», «Lo Scaramuccia», ancora diretto e fondato da Collodi, «La Lente», «La Chiacchiera» ecc., a cui si uniscono ad esempio il napoletano «Verità e Bugie», il torinese «Pasquino», il milanese «Il Pungolo». Gli schemi editoriali imitavano i petits journaux francesi, il cui influsso è evidente nel titolo «Lo Charivari»: a fianco delle caricature, realizzate con la litografia (la cui tecnica non consentiva tirature elevate), i collaboratori facevano satira politica e, con una prosa brillante ed ironica, tratteggiavano «fisiologie» dei tipi sociali più reazionari, pubblicavano romanzi a puntate ecc. Negli anni seguenti la repressione, quando di politica sarà invece impossibile parlare, i collaboratori commenteranno con la solita prosa scherzosa eventi di attualità in campo teatrale, letterario, artistico, poetico, oppure pubblicheranno «divagazioni» e bizzarrie, testi umoristici vari, fra cui buffi aforismi, dialoghetti satirici o parodie in versi. Il punto sarà in breve quello di mantenere un atteggiamento attivo nei confronti della società, di non disgiungere l’esercizio della moralità dal gioco dell’invenzione, mantenendo vivo il ruolo civile della critica. Il «Fanfulla», fondato a Firenze nel 1870, poi trasferito a Roma non appena questa divenne capitale del Regno d’Italia, sarà proprio l’ultimo grande giornale di tale tradizione umoristica.
La definizione «giornalismo umoristico» non deve però sviare: si trattò infatti di letteratura vera e propria (non sempre raccolta in volume), ironica e comica, ricca di notazioni bizzarre e curiosità letterarie, che si alimentavano della cronaca politica, teatrale o musicale, per dar vita a testi e vignette all’insegna della satira, della divagazione scherzosa e della complicità con i lettori. L’uso degli pseudonimi – che era frequentissimo se non costante su quelle pagine e che oggi complica talvolta la ricostruzione del contesto culturale dell’epoca – non era un tentativo di sfuggire ai rigori della censura: la struttura della redazione del giornale umoristico era infatti in genere assai esile ed i gerenti e i pochi compilatori erano facilmente identificabili dalle autorità di polizia. Piuttosto, bisogna pensare che gli pseudonimi consentivano allo scrittore umorista una grande libertà espressiva, la possibilità di saltare senza remore da un argomento all’altro, da un registro all’altro, dall’ironia alla parodia ecc.; e gli permettevano una dilatazione a piacere delle potenzialità stilistiche, in sintonia con la programmatica pluralità dei toni e delle forme che caratterizzavano un simile umorismo. In maniera analoga, come autentico semenzaio dell’immaginazione, andrà considerata la frequenza degli pseudonimi nel giornalismo e nella letteratura satirica del Novecento: Cesare Zavattini, che si firmava Za, insegna!

Proprio con il «Fanfulla» iniziò il declino del «giornalismo umoristico», e ciò avvenne per diverse ragioni di carattere socio-economico e culturale. Da un lato, l’industria della carta stampata cambiò strutturazione, finanziamenti e distribuzione, ed i giornali umoristici, diffusi principalmente per abbonamento, non riuscirono più a fronteggiare la concorrenza dei fogli d’informazione varia, meglio accolti sul mercato. Dall’altro, la vittoria del Naturalismo sancì un mutamento radicale del gusto del pubblico, ora tutto teso ad avere una “copia” della realtà. Nella estetica o poetica naturalistica si affermava l’idea misticheggiante dell’oggettività assoluta dello sguardo o, con un altro a priori, dell’oggettività assoluta delle cose: precisamente l’opposto della libertà inventiva propria delle poetiche dell’Umorismo. Così il genere comico-umoristico confluì o fu relegato fra i generi ritenuti a torto minori: la letteratura per l’infanzia, il teatro comico – appunto Petrolini e, più avanti, Totò o Fo…
I giornali umoristici resteranno comunque senza essere più i protagonisti principali della scena culturale: si pensi alla notevole fortuna di fogli come il «Guerin Meschino», fondato nel 1882 a Milano (chiuderà i battenti nel 1943), e il «Capitan Fracassa», nato nel 1886 a Roma. Gli spazi dell’umorismo e della satira, da allora in poi, potranno però subire una modificazione profonda, nel senso di una presenza – talora una prevalenza, in quei periodici – dell’intrattenimento leggero e amabilmente sorridente, dunque anche un po’ casuale e dispersivo. Più spesso vi saranno oscillazioni continue fra divertissement e scherzo ironico: non per nulla l’accostamento fra vignette e versi in rima baciata tipico del «Corriere dei Piccoli», dove furoreggiava dal 1917 il Signor Bonaventura creato da STO, varrà anche per il «Guerin Meschino». In altri casi, o momenti, potrà esservi da subito, oppure tornare attiva, una volontà critica e pugnace nei confronti di una società e una cultura spesso autoritaria, gretta, se non retriva: basta pensare alla carica dirompente di un settimanale socialista come «L’Asino», fondato a Roma nel 1892 e soppresso nel 1925 all’affermarsi del Fascismo, oggetto di tanti suoi strali; ai fogli satirici diffusi sul nostro fronte durante le fasi finali della I Guerra Mondiale; e, in Francia, anche soltanto a «La Feuille» o a «Le Rire», la cui presenza è risaputa nella Biblioteca dell’Archivio Guareschi (Roncole Verdi)3. In quest’ultimo giornale – e in altri periodici satirici francesi della grande tradizione comico-umoristica e parodica dell’Ottocento, ispirata principalmente, ma non solo, alla maniera di Laurence Sterne – Marcel Duchamp (1887-1968) aveva avuto modo di affinare la propria ironia come disegnatore umoristico. Anche questo gli avrebbe permesso di diventare uno degli artisti più capaci d’influire sull’arte del XX secolo, grazie alla forza dell’estro inventivo e alla spregiudicatezza dell’intelligenza. In breve, lo spirito dissacrante, il gioco del rovesciamento paradossale fino all’assurdo, messo in atto dall’artista e caro al movimento Dada, erano non solo una generica disposizione psicologica dell’uomo, ma anche e soprattutto una scelta culturale. Si trattava di un elemento di poetica suggerito dalle teorie estetiche, caratteristiche proprio di quella vasta e ricchissima tradizione europea, nel cui ambito, nell’Ottocento e nel Novecento, transitavano in vario modo, è bene ripeterlo, Daumier e Gavarni, Balzac e il giovane Baudelaire, Collodi e Palazzeschi, Pirandello e Zavattini, Tofano e Novello.
I giornali satirici o numeri unici – da «Straparma» a «Bazar» e su fino al «Bertoldo» e al «Candido», nato nel 1945 – che Guareschi fondò, o che ne ebbero in vario modo la brillante collaborazione di umorista e di vignettista satirico, sono costruiti sui medesimi schemi strutturali messi a punto dalla letteratura umoristica dell’Ottocento. Vignette varie e numerose, dialoghi e «sillogismi» scherzosi, buffi monologhetti e storie o articoli brevi, parodie in versi e via discorrendo, risuonano così allo stesso tempo vecchi e nuovi, ma sempre in maniera vitale: infatti vicende, personaggi, problemi del Novecento, sono messi alla berlina grazie a modelli o contenitori comico-satirici di derivazione ottocentesca. Insieme a tutto questo sono, ancora una volta, un analogo gusto del paradosso e dell’invenzione burlesca, lo stile scorrevole, il gioco linguistico a partire dalle valenze letterali della parola. Tuttavia, come le linee del disegno satirico risentono per essenzialità e tratteggio degli apporti formali delle avanguardie novecentesche o della pittura degli anni Venti-Trenta (non si dimentichi «Il Selvaggio» di Mino Maccari), così i modi del paradosso e del surreale sembrano scaturire da certo Futurismo o dagli esiti formali di Palazzeschi e Pirandello.
Lo statuto della stampa umoristica realizzata da Guareschi o supportata dal suo lavoro è talvolta misto, come lo fu ad esempio anche quello di un «settimanale-umoristico-illustrato» quale «Numero» fondato nel 1913, a cui collaborò STO. Intendiamo «misto» nel senso che vi possiamo trovare sia il puro intrattenimento, che mira a suscitare il sorriso – come l’innocua caricatura di un personaggio conosciuto (magari anche solo nella città di Parma) -, sia la pungente satira politica e sociale in grado di coinvolgere problematiche più ampie e profonde. Da questo punto di vista, nel godimento di una libertà di stampa e di espressione impensabile nell’età fascista, il «Candido» – con la sua caricatura, la parodia, l’ironia finalizzate ad una serrata critica degli eccessi degli ideologismi nel secondo dopoguerra – appare al di là delle contingenze uno degli esempi di «giornalismo umoristico» novecentesco più coerenti ed efficaci nella rappresentazione disincantata di tanti aspetti della società italiana contemporanea.
Daniela Marcheschi

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lunedì, 28 aprile 2008

RECENSIONI INCROCIATE N. 3: Salvo Zappulla, Roberto Mistretta

Nuova puntata delle “recensioni incrociate”.
I due autori/recensori invitati sono entrambi siciliani e – tra le altre cose - si occupano di critica letteraria sulle pagine culturali del quotidiano “La Sicilia”.

Tutti e due sono legati alla piccola casa editrice di Caltanissetta Terzo Millennio (ci spiegheranno loro stessi in che modo).

I libri, oggetto delle recensioni a incrocio, sono “In viaggio con Dante all’Inferno” di Salvo Zappulla e “Il canto dell’upupa” di Roberto Mistretta.

Vi invito a dialogare con entrambi gli autori (che parteciperanno al dibattito).
Massimo Maugeri

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In viaggio con Dante all’Inferno” di Salvo Zappulla – Fermento – 164 pag. – € 12

recensione di Roberto Mistretta

Ci sono libri che hanno la capacità di stemperare nell’ironia gli italici vizi e l’imperante corruttela riprendendo l’antico motto: “Una risata vi seppellirà”. E Salvo Zappulla, prolifico autore di Sortino sostiene questo dono con scrittura elegante e scorrevole che rendono la sua prosa godibile e arguta.
Come abbiamo già scritto in altre occasioni, Zappulla coltiva, con la notte in generale e i sogni in particolare, rapporti privilegiati, appartenendo a quella categoria di scrittori visionari che hanno raccolto, nella normalità dell’assurdo, la lezione di Dino Buzzati e, nell’autocostruzione continua dell’universo, l’insegnamento di Italo Calvino.
In questo esilarante romanzo, leggero nella forma ma corposo nella sostanza, torna il sogno. Dante Alighieri in piena notte si presenta al protagonista, lo sveglia e gli intima di seguirlo all’Inferno: ha necessità di riscrivere alcuni capitoli del suo immortale capolavoro adeguandolo al mutar dei tempi.
Protagonista e insperato compagno di viaggio del Sommo poeta, il gigionesco Salvo Zappulla non si lascia sfuggire l’occasione per ironizzare sul malcostume e incidere con inchiostro avvelenato sulle nequizie di politicanti di professione, corruttori ambiziosi e tutta l’assortita umanità dei potenti di turno che affollano i gironi. Dante ha necessità di trovare posto ai nuovi misfatti e confida a Zappulla: “Giungevano all’Inferno frotte di politici. Nei primi tempi è stata dura. Che fare? mica potevamo rimandarli indietro! Era gente che si era ben guadagnata la dannazione eterna. Ladrocini, intrallazzi, corruzione, clientelismo, associazione a delinquere. Autentici artisti della criminalità. Con quale coraggio avremmo negato loro una sede idonea? E poi siamo onesti, al giorno d’oggi una bolgia non si nega a nessuno”.
Un libro da leggere accanto al presepe, per contrasto e per sorridere amaro.

Roberto Mistretta

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Il canto dell’upupa di Roberto Mistretta – Cairo editore – pagg. 253 – euro 15

recensione di Salvo Zappulla

Con questo romanzo Roberto Mistretta entra da protagonista sulla scena del noir italiano. Lo scrittore di Mussomeli, paesino a due passi dal paese di Camilleri (sarà solo un caso?), imbastisce trame avvincenti, veri dipinti neorealistici, alternando momenti venati di tenera ironia e tinte nere dal violento impatto emotivo. C’è un maresciallo lunatico e sempre ossessionato da diete mai rispettate, ci sono i suoi collaboratori con le loro manie. E c’è tanto orrore infiltrato negli abissi dell’anima, dove si annidano le voglie e i desideri più turpi. I personaggi di Mistretta sono autentici, scolpiti nelle pietre di Villabosco. E sono destinati a rimanere scolpiti anche nella mente dei lettori, perché difficilmente si possono dimenticare. Il pregio maggiore di questo giovane scrittore è la capacità di dare alle sue storie una costruzione così articolata, così certosina che sembrano quasi un lavoro di ricamo, dove nulla è lasciato al caso. Non una svista, non una incongruenza. Mistretta è scrittore impegnato, non scrive per diletto o per il piacere di evadere dalla realtà; ne “Il canto dell’upupa” la realtà, in tutte le sue misere sfaccettature, è sempre presente, diventa materia letteraria, plasma sanguigno da offrire ai lettori. Il romanzo tratta argomenti scabrosi che spesso si preferirebbe far finta di ignorare e voltare il capo colpevolmente dall’altra parte, tratta la pedofilia e l’incesto, ce li pone davanti, ci costringe a respirarne l’odore rancido di uomini andati a male. E lo fa con rabbia e indignazione. E’ sofferenza autentica la sua, un urlo che si leva dal cuore, un cancro che vorrebbe estirpare. Ma Mistretta è scrittore, non un magistrato o un chirurgo, usa la penna al posto del bisturi e incide, scava nei recessi più reconditi delle umani aberrazioni fino a tirarne fuori tutto il marcio. Il suo è uno stile accattivante, da professionista che conosce alla perfezione il proprio mestiere, sa come costruire un giallo che tenga in sospeso il lettore fino all’ultima pagina, con colpi a effetto, pause di studiata meditazione e di profonde riflessioni. Svia, indaga, ci porta lontano con falsi indizi, per poi piazzare il colpo di coda che lascia di stucco. Un libro bello. Bello e coinvolgente. Sicuramente non facile, che vale la pena di leggere.

Salvo Zappulla

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martedì, 22 aprile 2008

NANNI BALESTRINI, IL MERCATO EDITORIALE, IL CINEMA, LA CULTURA DI MASSA

Nanni Balestrini (nella foto) è un poeta e romanziere, nato a Milano il 2 luglio 1935. Vive attualmente tra Parigi e Roma. Agli inizi degli anni ‘60 fa parte dei poeti “Novissimi” e del “Gruppo 63″, che riunisce gli scrittori della neoavanguardia. Nel 1963 compone la prima poesia realizzata con un computer. E’ autore, tra l’altro, del ciclo di poesie della “signorina Richmond” e di romanzi sulle lotte politiche del ‘68 e degli anni di piombo come Vogliamo tutto e Gli invisibili. Ha svolto un ruolo determinante nella nascita delle riviste di cultura “Il Verri”, “Quindici”, “Alfabeta”, “Zoooom”. Attivo anche nel campo delle arti visive, ha esposto in numerose gallerie in Italia e all’estero e nel 1993 alla biennale di Venezia.

Sabato scorso, su Tuttolibri (cfr. Ttl del 19/4/08, pagg. VI-VII), ha rilasciato un’interessante intervista ad Andrea Cortellessa.

Ho estrapolato alcune frasi sulle quali – a mio avviso – si potrebbe discutere (di seguito, però, potrete leggere l’intera intervista). I temi sono mercato editoriale, cinema italiano , cultura di massa. 

- c’è una concorrenza sfrenata, indotta dallo strapotere del mercato. Ha ragione Arbasino, che senso ha sapere qual è il libro più venduto? Allora il ristorante migliore è McDonald’s! 

- una volta pubblicare libri senza mercato era un investimento sul futuro, nelle case editrici avevano gran peso gli intellettuali. 

- una cosa mi colpisce, nel cinema italiano di oggi: che non ci sono più cattivi. Sono tutti buoni! Ma senza cattivi non c’è dramma, non c’è narrazione che tenga. 

- non sopporto la moda della cultura di massa. Una cosa è studiarla, o appropriarsene al quadrato; altro questo godimento snobistico che ha avuto effetti deleteri sul gusto. In fondo è buonismo pure questo. Rassicurare tutti, convincerli che i loro gusti vanno benissimo, che non vanno educati in alcun modo. 

Avete letto? Bene. Cosa ne pensate? 

Di seguito troverete una nota sul Gruppo 63 (fonte Wikipedia Italia), la suddetta intervista, e la successiva punzecchiatura (rivolta a Balestrini) da parte delle Vespe del Domenicale de Il Sole 24Ore (cfr. pag. 33 de Il Sole 24Ore di domenica 20/4/08). 

Massimo Maugeri 

———————- 

Il Gruppo 63, definito di neoavanguardia per differenziarlo dalle avanguardie storiche del Novecento, è un movimento letterario che si costituì a Palermo nell’ottobre del 1963 in seguito a un convegno tenutosi a Solanto da alcuni giovani intellettuali fortemente critici nei confronti delle opere letterarie ancora legate a modelli tradizionali tipici degli anni Cinquanta. Del gruppo facevano parte poeti, scrittori, critici e studiosi animati dal desiderio di sperimentare nuove forme di espressione, rompendo con gli schemi tradizionali.
Il Gruppo 63 si richiamava alle idee del marxismo e alla teoria dello strutturalismo. Senza darsi delle regole definite (il gruppo non ebbe mai un suo manifesto), diede origine a opere di assoluta libertà contenutistica, senza una precisa trama, (ne è un esempio Alberto Arbasino) talvolta improntate all’impegno sociale militante (come gli scritti di Elio Pagliarani), ma che in ogni caso contestavano e respingevano i moduli tipici del romanzo neorealista e della poesia tradizionale, perseguendo una ricerca sperimentale di forme linguistiche e contenuti.Ignorato dal grosso pubblico, il gruppo suscitò interesse negli ambienti critico-letterari anche per le polemiche che destò criticando fortemente autori all’epoca già “consacrati” dalla fama quali Carlo Cassola e Vasco Pratolini, ironicamente definiti “Liale”, con riferimento a Liala, autrice di romanzi rosa.

Il Gruppo 63 ebbe il merito di proporre e tentare un rinnovamento nel panorama piuttosto chiuso della letteratura italiana, ma il suo aristocratico distacco dal sentire comune e la complessità dei codici di comunicazione ne fecero un movimento elitario, accusato di ‘cerebralismo’.

Alcuni autori del Gruppo 63 furono il già citato Arbasino, Luciano Anceschi, Nanni Balestrini, Alfredo Giuliani, Gianni Celati, Giorgio Celli, Corrado Costa, Roberto Di Marco, Umberto Eco, Angelo Guglielmi, Giorgio Manganelli, Giulia Niccolai, Elio Pagliarani, Antonio Porta, Lamberto Pignotti, Edoardo Sanguineti, Adriano Spatola, Patrizia Vicinelli, Alberto Gozzi. Il gruppo, che si sciolse nel 1969, diede vita alle riviste Malebolge, Quindici e Grammatica. 

———————- 

Incontro con la «voce» del Gruppo ’63: ripropone la rivista «Quindici» e fustiga i vizi italiani

“NON CI SONO PIÙ I CATTIVI” 

Da Tuttolibri (cfr. Ttl del 19/4/08, pagg. VI-VII) 

di ANDREA CORTELLESSA

Non se n’è mai stato con le mani in mano, Balestrini. Ma a settantatré anni vive un periodo di straordinario dinamismo. Ora ripropone con Feltrinelli la rivista Quindici, dopo aver pubblicato da DeriveApprodi un altro reperto dei più fulgidi Sixties, il «romanzo multiplo» Tristano, remigato in più di tremila esemplari ciascuno diverso dall’altro. Esperimento sul quale si interrogano filosofi, semiologi, giuristi ed economisti. Poi, sempre forbici alla mano, continua la sua sorprendente attività di artista visivo. L’ho incontrato a Roma nella sua casa di Via Merulana.

Perché di nuovo «Quindici»?

«Avremmo dovuto farlo già da un pezzo. C’è voluta l’occasione dei quarant’anni del Sessantotto: la rivista fu tra le prime a ospitare i documenti delle proteste studentesche, ma fu anche molto altro. Non mi dispiace però che l’antologia venga letta anche come un libro sul Sessantotto, al riguardo sono uscite soprattutto testimonianze soggettive… quando invece fu un’esperienza squisitamente collettiva. Neppure al cinema s’è visto granché. A parte quella terribile Meglio gioventù, anche Bertolucci o Belloccio si sono fermati al privato. Invece bisogna restituire lo spirito pubblico, collettivo, che a quel tempo ci prese tutti».

Di riviste ne hai fatte tante. Ma dalla fine di «Alfabeta» sono passati vent’anni.

«Il rinnovamento seguente è quello degli Ottonieri, Voce, Nove, Scarpa…»

.…da un lato il «Gruppo ‘93», dall’altro i «Cannibali». Due gruppi che però si disgregano subito…

«Non è più tempo di gruppi: c’è una concorrenza sfrenata, indotta dallo strapotere del mercato. Ha ragione Arbasino, che senso ha sapere qual è il libro più venduto? Allora il ristorante migliore è McDonald’s!Una volta pubblicare libri senza mercato era un investimento sul futuro, nelle case editrici avevano gran peso gli intellettuali. Questa debolezza dei gruppi si vede meglio nelle arti basate sulla collaborazione. Ai tempi di Quindici quello teatrale era il discorso trainante, oggi invece… ci sono artisti interessanti – Antonio Rezza, Valdoca, l’Accademia degli Artefatti – ma non hanno visibilità. Il cinema, poi… una cosa mi colpisce, nel cinema italiano di oggi: che non ci sono più cattivi. Sono tutti buoni! Ma senza cattivi non c’è dramma, non c’è narrazione che tenga».

Insomma, manca tensione drammatica perché è stata espulsa la dimensione del conflitto. Anche nella campagna elettorale sembrava che di cattivi in Italia improvvisamente non ce ne fossero più.

«Il motto è: Vogliamoci tutti bene. E torniamo alla famiglia, o alla Chiesa. Che sono lì appunto per assolverci. Gli italiani non vogliono fare i conti con loro stessi, con la propria storia. Il fascismo non ha mai fatto niente di male, e anche papà era un buon diavolo.Una cosa che mi piaceva dei Cannibali era che di fronte al negativo non si tiravano indietro. Oggi invece chi si rifà a modelli collaudati non rischia niente. Di nuovo quest’idea del romanzo “ben scritto”, alla Piperno… o al contrario la mania del noir… lo apprezzo in quanto paraletteratura, ottima per passare il tempo in treno. Ma i meccanismi di genere forniscono un’unica chiave di lettura del reale, in questo caso il crimine».

L’opposto dell’eliminazione dei cattivi nella narrativa neoborghese: ci sono solo cattivi. Un altro modo per evadere dal conflitto.

«Non sopporto la moda della cultura di massa. Una cosa è studiarla, o appropriarsene al quadrato; altro questo godimento snobistico che ha avuto effetti deleteri sul gusto. In fondo è buonismo pure questo. Rassicurare tutti, convincerli che i loro gusti vanno benissimo, che non vanno educati in alcun modo».

Cosa sia stato il berlusconismo lo sappiamo; ora è il veltronismo che fa sentire i suoi effetti.

«L’ho anche votato, Veltroni, mala cultura che propone… Berlusconi è simpatico ma esprime la vigliaccheria, la cialtronaggine, l’arroganza, la menzogna, il vittimismo aggressivo che abbiamo tutti dentro. Tutto ciò che l’educazione e la cultura servivano a reprimere».

Ma è quello che dicono i berlusconiani intelligenti: che è democratico aver capito gliitaliani, averli giustificati. Senza reprimerli moralisticamente.

«Ma è un bene, reprimerli! Cos’abbiamo contro la morale?».

Fa l’elogio della morale pubblica?

«C’è chi ha proposto che a scuola gli alunni tornino ad alzarsi quando entra l’insegnante. Mi pare normale, quando entra qualcuno mi alzo e lo saluto. Cos’abbiamo contro l’educazione? Guarda come la gente cammina per strada, come guida l’automobile, come parla al telefono in treno!».

Vivere in società significa assumersi la responsabilità dei propri comportamenti. Mentre berlusconismo e veltronismo concordano in questo: che non si debba mai pagare il conto.

«Il motto di Berlusconi è: Così fan tutti. Ci aveva già provato Craxi ma non funzionò. Alloraci fu una bella reazione contro l’arroganza del potere. Oggi ci restano solo i giudici».

Che proprio lei faccia l’elogio della magistratura è il colmo!

«D’accordo, ai tempi del processo “7 aprile” non usarono mezzi molto corretti. Però nella sostanza non avevano torto: io ero davvero un sovversivo, e dal loro punto di vista andavoperseguito come tale».

Non come un terrorista, però.

«Infatti da quello sono stato assolto. Lo voglio proprio dire: in Italia la cosa migliore sono igiudici. La famiglia ci assolve,
la Chiesa ci assolve, restano solo loro. Non a caso Berlusconi li odia, gli vuole fare l’esame psichiatrico».

Proprio lui ha detto la cosa più stalinista che si sia sentita da decenni! Abbiamo cominciato con «Quindici», vorrei finire con «Tristano».

«Mi piacerebbe applicarne il procedimento anche al cinema, ricombinando a caso frammenti di sequenze. Ogni spettacolo una storia diversa. Per me è una forma di realismo estremo: ogni giorno fai più o meno le stesse cose ma ogni volta c’è qualche variazione a cui non fai caso. Stavolta però, per restituire questo realismo, a differenza che su carta dove prelevavo frammenti da testi altrui, bisognerebbe girare i frammenti ex novo. Altrimenti è un’altra cosa, come La verifica incerta di Baruchello e Grifi alla quale s’è ispirato Grezzi per Blob. Lo scriva: cerco un produttore». 

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Dal Domenicale de Il Sole 24 Ore (pag. 33 de Il Sole 24Ore di domenica 20/4/08)Rubrica Vespe

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Nessun pasto è gratis. Per essere colti bisogna soffrire, digiunare, indossare il cilicio, ingurgitare polpette indigeste, patire coliche epatiche e vomitare quando è il caso. Già lo sapevamo, ma ora il profeta dell’Avanguardia per eccellenza, Nanni Balestrini, ce lo ricorda in un’intervista a Tuttolibri della Stampa. Non è più tempo di gruppi: c’è una concorrenza sfrenata, indotta dallo strapotere del mercato. Ha ragione Alberto Arbasino, che senso ha sapere qual è il libro più venduto? Allora il ristorante miglior è McDonald’s? Come dire, che peso specifico hanno le forchette di un ristorante, o le stelle di un albergo?

Una volta – continua Balestrini – pubblicare libri senza mercato era un investimento sul futuro, nelle case editrici avevano gran peso gli intellettuali. Gli intellettuali? Ormai seguono gli insegnamenti di Haruki Muratami (Kafka sulla spiaggia, Einaudi) secondo cui la fitness muscolare è più importante dello stile di scrittura, e quindi è meglio andare in palestra, o a correre al parco, che compulsare il dizionario della Crusca. Quindi il peso (culturale) degli intellettuali è proporzionale alle ore di jogging o di Pilates. Avendo in mente gli scrittori italiani, la loro stazza e le maniglie dell’amore di cui fanno ampio sfoggio sulla spiaggia di Caparbio, il loro peso è inesorabilmente decrescente. Se questa legge fosse vera, molti giornalisti e intellettuali, a cominciare da Giuliano Ferrara, sarebbero condannati ad almeno sei mesi di totale astinenza, gastronomia e non solo, in nome del rispetto della vita. E il prestigio culturale sarebbe inversamente proporzionale al peso-forma.In realtà non è così. Il Pantheon del sapere non è collegato alla massa muscolare. Spesso è in relazione inversa.

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giovedì, 17 aprile 2008

NON È UN PAESE PER VECCHI: IL LIBRO, IL FILM

Altre volte abbiamo discusso sul binomio libri-film. Lo abbiamo fatto in maniera approfondita in questo post.


Riprendiamo il discorso per analizzare Non è un paese per vecchi (Einaudi, 2006, euro 17), romanzo di Cormac McCarthy (vincitore del nostro gioco: Letteratitudine book award 2008, con La strada) e film dei fratelli Coen.
Discutiamo sia dell’opera narrativa che di quella cinematografica partendo da due recensioni: la prima, relativa al romanzo, è firmata da Giuseppe Genna (e pubblicata su Carmilla online); la seconda, sul film, proposta da Gabriele Montemagno in esclusiva per Letteratitudine.
Vi invito a dire la vostra: sul libro e sul film.
Poi possiamo discutere sui temi generali connessi alle suddette opere.
Secondo Genna il romanzo di McCarthy è “un attacco formidabile al sistema America, al suo sogno putrefatto, alla sua incapacità di radicarsi storicamente nella sua stessa vicenda”. E aggiunge: “Questo romanzo non è un campanello che squilla: è già la campana a morto di un Paese che, allegorizzato a vent’anni dall’attuale situazione, entra nel ventre molle dell’attualità, e lo squarcia senza remore.”
Secondo Montemagno “si potrebbe pensare che ai Coen non prema tanto mostrare la violenza quanto raccontare un mondo (solo gli Stati Uniti? Solo quelli? O solo la dura legge che vige fra i trafficanti di droga?) in cui l’unico linguaggio appare quello della violenza, in cui è divenuto pienamente consueto e legittimo procurarsi le armi nei negozi, in cui gli uomini sono relegati al rango di animali. Un mondo in cui si preferisce delegare le decisioni al caso o al semplice interesse.”
Vi giro, infine, le domande finali del pezzo di Montemagno:
E’ ormai così pienamente diffuso l’uso della violenza, senza il quale sembra non sia più possibile ripristinare la giustizia? E, comunque, si riesce a ripristinare la giustizia? E’ viva l’importanza attribuita alla vita e alla dignità degli uomini?

E aggiungo queste mie:

Le società di oggi sono più violente di quelle di ieri?

E l’Italia, che è un paese di vecchi… non è un paese per vecchi?
Massimo Maugeri
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Non è un paese per vecchi (il libro) recensione di Giuseppe Genna

A volte gli scrittori hanno problemi – o ne creano ai loro lettori. E’ il secondo caso quello di cui qui si scrive. Sono assolutamente sconcertato dalla inaspettata prova di potenza che Cormac McCarthy, autore della memorabile Trilogia della Frontiera (Meridiano di sangue, Cavalli selvaggi e Città della pianura), offre con questo suo nuovo, chirurgico romanzo, Non è un paese per vecchi. Non è un mondo né per vecchi né per giovani, quello in cui McCarthy ambienta il più classico inseguimento a tre dell’hard-boiled anni Cinquanta, pura occasione narrativa per costruire la premessa maggiore alla conclusione di un sillogismo sorprendente, che ha tappe consimili a un’operazione endoscopica: la spietatezza pura, la spietatezza del tempo in generale e di questo tempo in particolare, e di quest’epoca americana ancor più in particolare.
E ciò nonostante il tutto si svolga agli inizi degli anni Ottanta, fatti i debiti calcoli sull’età del più empatico tra i protagonisti, il trentaseienne Moss, reduce dal Vietnam, di professione saldatore, che sarebbe reduce anche da una sfortunata giornata di caccia all’antilope, se non trovasse, immersi in un silenzio assoluto, alcun SUV con a bordo trafficanti di droga, messicani, morti o quasi. C’è stata una sparatoria. Qualcuno è fuggito coi soldi. Quel qualcuno, Moss, lo ritrova: è morto a poca distanza ed è a lui che l’ormai già ex saldatore strappa di mano una borsa contenente due milioni di dollari. E’ l’inizio di una fuga devastante, che ha per protagonista il vecchio sceriffo Bell insieme a un sicario di professione, l’impronunciabile Chigurh, psicopatico, dotato di un’arma allucinante per potenza e modalità di esplosione dei colpi – un aggeggio ad aria compressa che lo rende estraneo a qualunque contesto narrativo, esattamente come il suo sguardo gelido, descrivendo il quale sembra di avvertire tremare il polso perfino al vecchio cuoiato McCarthy, lo scrittore che, con Ellroy, dispone attualmente dell’immaginario più tenebrosamente implacabile del comparto letterario Usa.
A un ritmo che non è frenetico perché viene calmato dai frequenti dialoghi, spesso monosillabici, ma che rimane velocissimo (esattamente come a uno psicotico si dà il Serenase e questo non muta di una virgola la situazione generale), la fuga si snoda in un on the road cupissimo e al calor bianco, sul confine col Messico: stanze di motel affittate e riguardate come tane di serpenti, auto noleggiate o rubate per viaggi che non sono scorribande ma precisi spostamenti che costruiscono la geometria solida di un inseguimento che non lascia respiro, confronti all’arma non bianca che sono freddissime scene di devastazione organica, un profluvio di sangue congelato dallo stile del geniale autore ritiratosi in Texas. Il corredo c’è tutto. Sarebbe già un gran libro a 2/3, ma a 2/3 il giallo ha la sua soluzione più devastantemente impietosa e lascia aperta una porta che nessuno sarà in grado di chiudere.
E’ a questo punto che McCarthy, improvvisamente, al di fuori di ogni logica canonica, inserisce una sorta di secondo romanzo, che è l’esatto opposto del romanzo di formazione: un romanzo di addio, una narrazione di congedo, la profezia enunciata nel momento in cui si avvera e si consuma. La voce fondamentale è quella del vecchio Bell (ma c’è chi è anche più vecchio di lui, che parla e dice cose pesanti), e non resta che assistere, inebetiti come davanti a un miracolo, a questa anticipazione della disgregazione: personale e civile, sociale e morale. Si cammina sul filo di un rasoio: da una parte c’è il rischio del moralismo reazionario tipico degli Stati del sud, mentre dall’altra parte si rischia l’abisso della verità: si cade da questa parte, credo, si affonda in questo abisso. Il romanzo di McCarthy potrà anche sembrare un atto d’accusa alla modernità in genere, ma è uno specchietto per le allodole: si tratta in realtà di un attacco formidabile al sistema America, al suo sogno putrefatto, alla sua incapacità di radicarsi storicamente nella sua stessa vicenda, come dimostra l’apice poetico del libro, nelle pagine finali: uno scolatoio scalpellato in pietra due secoli prima, che, come scrive McCarthy, poteva durare diecimila anni: ma non durerà tanto.
Occhio raggelante che vede tutto, quello dello scrittore di Non è un paese per vecchi: vede la decadenza americana e la descrive, seppure con brachilogismi magistrali, secondo le metriche delle grandi epopee, quelle che noi europei consideriamo minori, vergate dagli antichi quando gli imperi crollavano. Questo romanzo non è un campanello che squilla: è già la campana a morto di un Paese che, allegorizzato a vent’anni dall’attuale situazione, entra nel ventre molle dell’attualità, e lo squarcia senza remore.

Giuseppe Genna
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Non è un paese per vecchi (il film) recensione di Gabriele Montemagno

Bisogna vedere Non è un paese per vecchi, il nuovo ed ultimo film dei fratelli Coen. Bisogna proprio vederlo. Non solamente perché è stato il vincitore all’ultima serata degli Oscar (miglior film, migliore regia, migliore sceneggiatura non originale e attore non protagonista). Anzi, si potrebbe dire che ciò non sia essenzialmente rilevante, poiché è successo che l’attribuzione di premi Oscar non abbia garantito una reale qualità ad una pellicola. Bisogna vederlo, invece, perché questo film si propone come uno sguardo lucido e pienamente disincantato sul nostro presente, a partire proprio dal titolo (che nell’originale inglese suona come quello italiano: No country for old men), che è, come si nota, assertivo. La vicenda, ambientata nel 1980 e che si snoda nei territori al confine fra Texas e Messico, è ispirata all’omonimo romanzo di Cormac McCarthy; ma i Coen sembrano rileggerla attraverso quello stile grottesco ed iperbolico presente nei loro precedenti film. L’inseguimento tra un cacciatore che, giunto su un luogo desertico, teatro di una strage fra trafficanti di droga, trova per caso la valigia piena di due milioni di dollari (vero e proprio bottino del traffico di droga), uno spietato (quanto feroce) killer che insegue detto bottino e vuole uccidere il cacciatore, ed un anziano sceriffo che tenta vanamente di proteggere il cacciatore fuggito con detta valigia, ha momenti di fredda ed implacabile violenza che appare allo spettatore, appunto, iperbolica e quasi non reale. Alcune uccisioni non vengono addirittura raccontate, ma viste nelle loro conseguenze. Si potrebbe pensare che ai Coen non prema tanto mostrare detta violenza quanto raccontare un mondo (solo gli Stati Uniti? Solo quelli? O solo la dura legge che vige fra i trafficanti di droga?) in cui l’unico linguaggio appare quello della violenza, in cui è divenuto pienamente consueto e legittimo procurarsi le armi nei negozi (i frequenti acquisti di armi da parte dei protagonisti), in cui gli uomini sono relegati al rango di animali (nel detto luogo della strage dei trafficanti, giacciono gli uni accanto gli altri i cadaveri degli uomini e quelli dei cani). Un mondo in cui si preferisce delegare le decisioni al caso o al semplice interesse. E tuttavia, un mondo in cui l’essere uomini non pare essere del tutto assente se è vero che il personaggio dello sceriffo (interpretato da un ottimo Tommy Lee Jones) si arrovella nella ricerca del terribile killer per proteggere il cacciatore e la giovane moglie. E si arrovella perché avverte la sua impotenza nel far rispettare la giustizia, il senso dell’importanza della vita degli essere umani, l’assegnazione dei “cattivi” alla legge. Quindi quello che tutti noi pensiamo debba essere “l’ordine” e lo stato delle cose. Ma lui è anziano ed è pervaso da un senso di disincanto circa la possibilità di poter far rispettare tale “ordine”. Appunto, il paese cui appartiene non è più per “vecchi”; non c’è più spazio per quel “vecchio” modo di vedere le cose. Ottimi i Coen che ci fanno riflettere su ciò attraverso una pellicola dura, eccessiva, ma lucida.
E verrebbe da porsi qualche domanda. E’ ormai così pienamente diffuso l’uso della violenza, senza il quale sembra non sia più possibile ripristinare la giustizia? E, comunque, si riesce a ripristinare la giustizia? E’ viva l’importanza attribuita alla vita e alla dignità degli uomini?

Gabriele Montemagno

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Il trailer del film

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lunedì, 14 aprile 2008

MANITUANA. INCONTRO CON WU MING 4

Tempo fa, in questo post, ebbi modo di accennare all’uscita di Manituana (Einaudi, 2007, pagg. 613, euro 17,50), nuovo romanzo collettivo dei Wu Ming.

 

Oggi approfondiamo la conoscenza di questo libro/progetto grazie all’intervista che Wu Ming 4 ha rilasciato a Giulia Gadaleta in esclusiva per Letteratitudine.

Mi piacerebbe discuterne con voi.

Per favorire il dibattito ho estrapolato alcune frasi pronunciate da Wu Ming 4 (vi invito, però, a leggere con attenzione l’intera intervista) precisando, per dirla come gli stessi Wu Ming, che questo non è un romanzo a tesi, e nemmeno un romanzo-manifesto:

-               Basta sbarazzarsi delle storielle edificanti che ci hanno raccontato a scuola e immergersi nelle cronache, nelle testimonianze dirette, per rendersi conto di quanto il mito fondativo degli Stati Uniti d’America sia frutto di una grandiosa operazione ideologica.

-               L’esito del conflitto fu determinato piuttosto dalla discesa in campo al fianco dei ribelli delle grandi potenze avversarie dell’Inghilterra. Molto più delle “buone ragioni storiche”, furono Francia, Spagna e Olanda, con le loro truppe, navi e casse d’oro, a garantire il successo di Washington e compagni.

-               Nel romanzo un ufficiale britannico pronuncia una frase illuminante: “La guerra non è guerra finché il fratello non uccide il fratello”. Molto più che una rivoluzione, la guerra d’indipendenza fu una guerra civile, tra fratelli, cugini, cognati.

-               Se proprio dovessimo trarre una qualche morale dal romanzo allora sarebbe che il rimpianto non è mai una buona ragione storica. Il rimpianto non ti porta da nessuna parte, anzi, ti porta dalla parte sbagliata, quella che perde.

-               Salgari ha insegnato a noi scrittori una cosa importante, una cosa che probabilmente ha convinto molti di noi a fare quello che facciamo. E cioè che si possono raccontare storie incisive, propriamente politiche, nel linguaggio della narrativa d’avventura, cioè emozionando, divertendosi e facendo divertire. 

Di seguito potrete leggere la recensione di Ibs, l’intervista di Giulia Gadaleta a Wu Ming 4 e le prime pagine del libro.

Ma prima vi invito a gustarvi il book trailer.

Ne approfitto per invitare i Wu Ming a partecipare alla discussione.

Massimo Maugeri

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La recensione di IBS

Il nuovo romanzo del gruppo di scrittori Wu Ming, autori di 54 e prima, col nome di Luther Blissett, del grande successo Q, segna un altro ambizioso momento di riscrittura dei grandi eventi della storia mondiale, riletti attraverso una luce nuova, mai scontata e assolutamente originale. Manituana, titolo che evoca Manitù, il Grande spirito, dio degli indiani d´America, è un romanzo ambientato a fine Settecento, un tuffo nel passato del nord America, con protagonisti i nativi che vissero la guerra di indipendenza dalla parte sbagliata.
Siamo nel 1775, in una vasta estensione di terra al confine attuale tra gli Stati Uniti e il Canada, dove si trova una delle civiltà più straordinarie fiorite nel continente americano, la tollerante e “meticcia” comunità di indiani, irlandesi e scozzesi, che il suo fondatore, sir William, chiamava “Irochirlanda”. Gli Irochesi, ancora oggi studiati dagli storici come precursori dello spirito di libertà della costituzione Usa e del “melting pot” americano, costituivano una società femminista (il potere nel clan era in mano alle donne) e molto “spirituale”: era gente raffinata che, oltre a saper fare la guerra e cacciare, leggeva Voltaire, suonava il violino e aveva doti di retorica e diplomazia. Sono loro i protagonisti del romanzo, con la loro scelta di essere tra i più leali e fedeli combattenti a sostegno della Corona britannica sia contro i Francesi, nella conquista del Canada, e sia contro i coloni ribelli dalla cui insurrezione sarebbero nati gli Stati Uniti d´America. È la guerra a mandare in frantumi quel mondo di pace. La lega delle Sei nazioni, che riuniva le maggiori tribù degli Irochesi, deve scegliere se combattere, e con chi schierarsi. Il capo di guerra irochese, Thayendanega, sceglierà di condurre il suo popolo lontano, oltre il mondo che ha sempre conosciuto e, qui il romanzo rovescia l’immagine canonica del pellerossa, si alleerà con re Giorgio contro i coloni che gli rubano la terra. Thayendanega diventerà noto come Joseph Brant e molti dei più grandi capi irochesi si chiameranno con nomi europei: non erano affatto “selvaggi”, se non nel senso che in guerra, all’occorrenza, utilizzavano metodi del tipo di quelli che il generale Washington avrebbe poi ordinato nei loro confronti: vale a dire bruciare, scotennare, sterminare.

Un romanzo epico, frutto di un grande lavoro collettivo, ricco di effetti speciali, con molta azione. Otto anni fa i Wu Ming, che si firmavano ancora Luther Blissett, per spiegare come si fa a scrivere in gruppo, usarono questa immagine: “È come per il jazz: grande affiatamento, arrangiamenti collettivi e assoli individuali”.

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Intervista realizzata da Giulia Gadaleta

Nel 1775 nel territorio che va dall’attuale Stato di New York alla Pennsylvania le sei nazioni irochesi -Mohawk, Oneida, Cayuga, Onondagam, Seneca e Tuscarora – convivono prosperosamente con i coloni. Hanno combattuto la guerra franco-inglese al loro fianco e l’alleanza con sua maestà britannica ha favorito scambi commerciali ma anche convivenza e integrazione delle due comunità. Quando questa comunità meticcia resta orfana di Sir William Johnson Warraghiyagey, Commissario per gli Affari Indiani, la situazione precipita: è l’alba della rivoluzione che genererà gli Stati Uniti d’America.

Ho intervistato Wu Ming 4 in occasione della selezione di Manituana nella terzina finalista del Premio di letteratura avventurosa Emilio Salgari .

Come è nato Manituana? Quali suggestioni l’hanno messo in moto? Manituana è costruito intorno ad alcuni eventi e figure storiche realmente esistite, che fonti c’erano a questo proposito?

WM: Il romanzo nasce da una suggestione forte per la storia americana e statunitense in particolare. Gli Stati Uniti sono il paese che più di ogni altro influenza e incarna l’immaginario occidentale. Per capire la crisi attuale del cosiddetto “impero americano” abbiamo deciso di provare a raccontarne l’origine, liberandola dalla mitografia. Per farlo abbiamo scelto un punto di vista inusuale e che non si è soliti associare alla guerra d’Indipendenza, cioè quello dei nativi. In particolare quello delle Sei Nazioni irochesi, che vennero coinvolte e travolte da quel conflitto. Il materiale a disposizione è tanto, grazie al fatto che nel mondo anglosassone esiste una grande tradizione di accessibilità alle fonti primarie. Basta sbarazzarsi delle storielle edificanti che ci hanno raccontato a scuola e immergersi nelle cronache, nelle testimonianze dirette, per rendersi conto di quanto il mito fondativo degli Stati Uniti d’America sia frutto di una grandiosa operazione ideologica. Nel nostro immaginario ci sono indiani che cacciano bisonti e vanno a cavallo: è l’immagine ottocentesca tramandata dai fumetti e dal cinema western e fa riferimento al periodo successivo a Manituana.

 Cinema e fumetti hanno avuto un ruolo nello scrivere Manituana e se sì ci fai dei titoli?

WM: Per quanto riguarda i fumetti direi il Comandante Mark (per i membri del collettivo un po’ più grandicelli); ma soprattutto i volumi “americani” di Hugo Pratt, come Ticonderoga e Wheeling. Il cinema hollywoodiano ha affrontato poco e male la guerra d’Indipendenza e già questo è un fatto curioso, forse anche rivelatore di una certa cattiva coscienza. A fronte di decine di film ambientati durante la guerra di Secessione, se ne possono rintracciare davvero pochi sulla Rivoluzione americana (e quasi nessuno valido). Per quanto riguarda poi la questione nativa, in generale il cinema se n’è occupato in relazione alla conquista del West. Così è facile dimenticarsi che la grande corsa verso ovest è preceduta da due secoli e mezzo di storia condivisa.

In effetti i film che più ci hanno influenzato nella scrittura di Manituana non hanno direttamente a che fare con gli eventi del romanzo. Quello che ci si avvicina di più è L’Ultimo dei Mohicani di Michael Mann, ambientato durante la guerra anglo-francese, precedente di vent’anni la Rivoluzione. Poi direi Manto Nero, un film canadese che si ambienta nel XVII secolo e racconta la storia di un missionario gesuita mandato tra gli irochesi. Infine The New World, di Malick, che addirittura parla dei primi contatti tra coloni inglesi e nativi.

Sono pellicole che riescono a dare un’idea dell’impatto che la colonizzazione ebbe sulle popolazioni native americane e del complesso equilibrio che si sviluppò nei primi secoli della conquista.

Mi sembra che la tesi del romanzo sia che la nascita della nazione americana sia legata all’abbattimento dei confini, sia in senso fisico (la frontiera) sia in senso sociale. E’ così? In questo senso si può considerare Manituana un romanzo morale?

WM: Onestamente non lo so. Noi non scriviamo romanzi a tesi. Manituana racconta l’avventura di un clan famigliare meticcio, composto da europei e nativi, che scelgono di combattere dalla parte del re inglese per salvarguardare se stessi, i propri beni e il proprio potere. Racconta anche di come vennero spazzate via nazioni indiane dalla storia millenaria, tutt’altro che primitive e ingenue, ma che convivevano con gli europei da secoli in un sistema di interscambio reciproco, fatto di commerci, alleanze, matrimoni, viaggi diplomatici. E’ un fatto che una delle cause scatenanti della Rivoluzione fu la pressione dei coloni sui confini stabiliti dalla Corona britannica. Per blandi che fossero, quei confini salvaguardavano ancora le terre indiane. Così come è indubbio che l’Indipendenza abolì la nobiltà di nascita e il potere aristocratico sul suolo americano. Non per questo però fu una rivoluzione di classe, come sarebbe stata quella francese. Soltanto una minoranza dei coloni europei si schierò apertamente per una o per l’altra fazione e i pochi che lo fecero si divisero equamente tra le due parti in lotta. L’esito del conflitto fu determinato piuttosto dalla discesa in campo al fianco dei ribelli delle grandi potenze avversarie dell’Inghilterra. Molto più delle “buone ragioni storiche”, furono Francia, Spagna e Olanda, con le loro truppe, navi e casse d’oro, a garantire il successo di Washington e compagni. Ma questa è un’altra delle cose che non si possono dire se si vuole mantenere intatto il mito originario americano. Nei prossimi romanzi vogliamo occuparci specificamente di questo aspetto “globale” della guerra d’Indipendenza.

Rispetto a vostri precedenti romanzi, questo è un romanzo storico in senso stretto, che segue un arco temporale lineare. Non ci sono salti in avanti e indietro. Avete voluto anche qui illuminare le ombre del passato, i passaggi oscuri? Quanto vi siete affidati all’invenzione?

WM: L’andamento lineare della trama è dovuto alla scelta di riprodurre la dimensione del viaggio. In effetti si tratta di un andamento classico: anabasi e catabasi. La prima e la seconda parte narrano il viaggio dalla periferia alla capitale dell’impero; nella terza c’è il ritorno degli eroi e il dispiegarsi della guerra… per poi affrontare un nuovo esodo. Tra i protagonisti soltanto due sono inventati: Philip Lacroix ed Esther Johnson. Tutti gli altri sono storicamente vissuti, ma ovviamente noi li abbiamo interpretati a modo nostro, secondo il nostro sguardo. Se ci riferiamo agli eventi storici e biografici, quindi, di inventato in senso stretto c’è molto poco.

Alla guerra d’indipendenza americana voi attribuite il ruolo di spartiacque: dove prima c’era un sistema di regole che permetteva la convivenza dopo c’è il caos, dove c’era il meticciato dopo c’è la segregazione e lo sterminio, dove prima c’era una guerra regolamentata dopo c’è una guerra senza regole (a un certo punto uno dei personaggi commenta che tra uomini che diffidano l’uno dell’altro, non può esserci altro che una guerra senza regole). Il lettore può restare disorientato e pensare che siete dei nostalgici del colonialismo inglese…

WM: Qualcuno ha provato a farci passare per tali, in effetti… ma temo che si tratti di lettori distratti, per non dire in malafede. Da un certo punto di vista basterebbe pensare alla parte centrale del romanzo, dove la società londinese dell’epoca viene vivisezionata strato per strato, per togliersi ogni dubbio su quanta simpatia possiamo nutrire per l’impero britannico. Ma la verità è che la faccenda è più complessa. I protagonisti di Manituana, bianchi e indiani, sono lealisti, fedeli al re. Rimpiangono la pace che regnava prima della ribellione delle colonie, rimpiangono la scomparsa di Sir William Johnson, lo scaltro amministratore della Corona che governava la valle del fiume Mohawk come un magnanimo padre-padrone. Insomma rimpiangono ciò che non c’è più, e come spesso accade a chi si lascia prendere dalla nostalgia, lo idealizzano. E’ attraverso i loro occhi che il lettore vede quel passato, questo è vero. Ma a leggere bene, quel passato era tutt’altro che perfetto, dato che portava in sé i germi del presente che i protagonisti si trovano a vivere. Ad esempio portava in grembo l’invidia e il rancore dei piccoli coloni, ultimi arrivati, nei confronti dei grandi latifondisti come i Johnson. Gente che se n’era andata dall’Europa per sfuggire alle vessazioni dei nobili e se li ritrovava anche in America col beneplacito di Sua Maestà. Un aspetto questo che nel romanzo emerge con forza fin dal primo capitolo. Per non parlare della concentrazione del potere politico ed economico nella stessa persona, morta la quale, rimane un vuoto difficilmente colmabile. La concezione dinastica e familista del potere, come insegna Shakespeare, è sempre foriera di faide e guerre fratricide. Nel romanzo un ufficiale britannico pronuncia una frase illuminante: “La guerra non è guerra finché il fratello non uccide il fratello”. Molto più che una rivoluzione, la guerra d’indipendenza fu una guerra civile, tra fratelli, cugini, cognati. Manituana racconta anche questo e non fa sconti a nessuna delle due parti in campo: le efferatezze compiute dai lealisti filo-britannici non hanno niente da invidiare a quelle messe in atto dai ribelli, perché sono le stesse persone, figlie della stessa cultura, e condividono lo stesso odio. In definitiva direi che se proprio dovessimo trarre una qualche morale dal romanzo allora sarebbe che il rimpianto non è mai una buona ragione storica. Il rimpianto non ti porta da nessuna parte, anzi, ti porta dalla parte sbagliata, quella che perde. Perché, come diceva il pistolero di Il mio nome è Nessuno, “i bei tempi non sono mai esistiti”. E’ per questo che i nostri eroi sono destinati alla sconfitta senza possibilità d’appello. Se ritroveranno un principio di speranza sarà solo grazie all’idea tutta femminile, portata in seno dalle matriarche della nazione, che tra uccidere e morire esiste sempre una terza via: vivere.

La sfumatura è sottile, ma, come ho detto, noi non scriviamo romanzi-manifesto. Certo sarebbe stato più facile far vedere un Sir William Johnson cattivo, più simile al corrispettivo James Brooke salgariano, e magari i piccoli laboriosi coloni che chiedono agli amici indiani di insegnare loro le tecniche di guerriglia nei boschi, per combattere le perfide giubbe rosse. Così l’ordine delle cose come ci sono state raccontate sarebbe stato mantenuto e le anime belle avrebbero dormito sonni tranquilli. Purtroppo però le cose sono più complesse di così. E a noi le storie complesse piacciono, sono sfide narrative, mentre ci interessa poco il manicheismo di certe visioni ideologiche.

Siete arrivati in finale al premio di letteratura avventurosa Emilio Salgari. Che rapporto c’è tra la vostra scrittura e l’autore de Le tigri di Mompracem? I personaggi di Salgari come il Corsaro Nero e Sandokan sopravvivono al tempo e fanno parte stabilmente del nostro immaginario: si può ancora scrivere letteratura d’avventura e in che senso? Oppure quello che facciamo oggi è ri-scrivere? Ha un rapporto con lo scrivere in gruppo e con il pubblicare in copyleft?

WM: Parto dall’assonanza particolare, strettamente connessa a Manituana. Salgari è stato il primo narratore popolare a stigmatizzare il colonialismo europeo come nefasto e liberticida. Tuttavia mentre trasformava in eroi i pirati e i fuorilegge che resistevano all’impero britannico o spagnolo, non difendeva né il purismo etnico né – diremmo oggi – il relativismo culturale. Basta pensare al ciclo indo-malese, completamente costellato di unioni miste. Sandokan e Marianna, Tremal-Naik e Ada, Yanez e Surama (unioni queste ultime due dalle quali nascono figli meticci), o ancora Darma e Sir Moreland. Credo che per l’epoca in cui si trovava a vivere, questa sia stata l’intuizione più incredibile di Salgari. E cioè che al di là delle giuste guerre di liberazione dal colonialismo, lo scontro di civiltà sarebbe stato superato dalla creazione di una civiltà ulteriore, meticcia, plurale, comunque basata sulla possibilità di convivenza tra diversi. In secondo luogo Salgari ha insegnato a noi scrittori una cosa importante, una cosa che probabilmente ha convinto molti di noi a fare quello che facciamo. E cioè che si possono raccontare storie incisive, propriamente politiche, nel linguaggio della narrativa d’avventura, cioè emozionando, divertendosi e facendo divertire. Questa consapevolezza gli derivava direttamente dalla tradizione del fouilleton francese e – ancora prima – dal romanzo settecentesco europeo. E’ una lezione fondamentale. E’ ciò che ci fa assimilare Sandokan e il Corsaro Nero a Ho Chi Minh o Che Guevara. Con la differenza che, al contrario dei personaggi storici, la Tigre della Malesia e il conte di Ventimiglia non potranno mai deluderci.

Mi chiedi se si potrà sempre scrivere narrativa d’avventura o se piuttosto non facciamo altro che ri-scrivere. A nostro avviso non si tratta di opzioni contrapposte. In parte non facciamo che rideclinare gli stessi temi narrativi dalla notte dei tempi (anche Salgari lo faceva); in parte, quando siamo bravi, riusciamo a plasmare la stessa materia narrativa in nuove forme, attuali ed efficaci. Alla base di una scelta come quella del copyleft c’è proprio la convinzione che le storie siano un fiume inesauribile, patrimonio inalienabile dell’umanità. La sorgente si trova in una grotta sotto il cielo del paleolitico, la foce è un punto ideale sull’orizzonte. Da questo punto di vista non è corretto che qualcuno raccolga un po’ di quell’acqua in una bottiglia stabilendo che è soltanto “sua”. Le storie sono di tutti e tali devono rimanere. Noi siamo convinti di questo e quindi rendiamo liberi i diritti di riproduzione dei nostri scritti, a condizione che restino tali e nessun altro provi ad appropriarsene o a trarne profitto. In questo modo salvaguardiamo i proventi del nostro lavoro e consentiamo alle storie di circolare liberamente.

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Giulia Gadaleta è nata nel 1972. Vive a Bologna. Fa la bibliotecaria e la giornalista. Collabora con Pulp libri, Il tamburo e carmillaonline.com. E’ ideatrice e conduttrice di Mompracem, settimanale avventuroso di letteratura, un magazine settimanale in onda su Radio Città del Capo.

Da un pò di tempo ha inziato una esperienza di lettura in carcere.

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LE PRIME PAGINE DI “MANITUANA” (in copyletf dal sito Manituana)

Prologo

Lago George, colonia di New York, 8 settembre 1755.

I raggi del sole incalzavano il drappello, luce di sangue filtrava nel bosco.
L’uomo sulla barella strinse i denti, il fianco bruciava. Guardò in basso, gocce scarlatte stillavano dalla ferita.
Hendrick era morto e con lui molti guerrieri.
Rivide il vecchio capo bloccato sotto la mole del cavallo, i Caughnawaga che si avventavano su di lui.
Gli indiani non combattevano mai a cavallo, ma Hendrick non poteva più correre né saltare. Avevano dovuto issarlo sull’arcione. Quanti anni aveva? Gesù santo, aveva incontrato la regina Anna. Era Noè, Matusalemme.
Era morto combattendo il nemico. Una fine nobile, persino invidiabile, se solo si fosse trovato il cadavere per dargli sepoltura cristiana.
William Johnson lasciava andare i pensieri, un volare di rondini, mentre i portatori marciavano lungo il sentiero. Non voleva chiudere gli occhi, il dolore lo aiutava a stare sveglio. Pensò a John, il primogenito, ancora troppo giovane per la guerra. Suo figlio avrebbe ereditato la pace.
Voci e schiamazzi segnalarono l’accampamento. Le donne strillavano e inveivano, domandavano di figli e mariti.
Lo deposero dentro la tenda.
– Come vi sentite?
Riconobbe il viso arcigno e gli occhi grigi del capitano Butler. Tentò di sorridere, ottenne solo una smorfia.
– Ho l’inferno nel fianco destro.
– Segno che siete vivo. Il dottore sarà qui a momenti.
– I guerrieri di Hendrick?
– Li ho incontrati mentre tornavo qui. Scalpavano cadaveri e feriti, senza distinzione.
William reclinò il capo sul giaciglio e prese fiato. Aveva dato la sua parola a Dieskau: nessuno avrebbe infierito sui prigionieri francesi. Hendrick aveva strappato la promessa ai guerrieri, ma Hendrick era morto.
Un uomo basso entrò nella tenda, paonazzo, chiazze di sudore sulla giacca.
William Johnson sollevò la testa.
– Dottore. Ho qui una rogna per voi.
Il medico gli sfilò la giubba, aiutato dal capitano Butler. Tagliò le brache con le forbici e prese a lavare e tamponare la ferita.
– Siete fortunato. La pallottola ha toccato l’osso ed è rimbalzata via.
– Sentito, Butler? Respingo i proiettili.
Il capitano borbottò un ringraziamento a Dio e offrì uno straccio a William, perché potesse morderlo mentre il medico cauterizzava la ferita.
– Non alzatevi. Avete perso molto sangue.
– Dottore… – William aveva il volto teso e slavato, la voce era un rantolo. – I nostri uomini stanno conducendo al campo i prigionieri francesi. Tra loro c’è un ufficiale, il generale Dieskau. È ferito, forse privo di sensi. Vorrei che gli prestaste le vostre cure. Capitano, accompagnate il dottore.
Butler e il medico fecero per dire qualcosa, ma William li anticipò: – Posso restare da solo. Non morirò, ve l’assicuro.
Butler annuì senza dire nulla. I due si congedarono. Per impedirsi di svenire, William tese le orecchie e concentrò il pensiero sui rumori.
Vento a scrollare i rami.
Richiami di corvi.
Grida lontane.
Grida più vicine.
Grida di donne.
Un trambusto improvviso attraversò il campo. William pensò fosse Butler di ritorno con i prigionieri.
Guardò fuori dalla tenda. Un gruppo di guerrieri Mohawk: urlavano e piangevano, i tomahawk alti sopra le teste. Trascinavano i Caughnawaga con una corda al collo, le mani legate dietro la schiena. Le donne del campo li vessavano con calci, pugni e lanci di pietre.
Il drappello si fermò a non più di trenta iarde. Nessuno dei guerrieri guardò verso la tenda: erano dimentichi di tutto, ogni senso teso alla vendetta. Il più agitato si muoveva avanti e indietro.
– Non siete uomini. Siete cani, amici dei Francesi! Hendrick vi aveva detto di non alzare le armi contro i vostri fratelli! Vi aveva avvertiti!
Afferrò un prigioniero per i capelli, lo trascinò in ginocchio e recise lo scalpo. Quello cadde nella polvere, prese a urlare e contorcersi. Le donne lo finirono a bastonate.
William sentì il sudore gelare la pelle.
Un secondo prigioniero venne scotennato, le donne lo presero a calci prima di pugnalarlo a morte.
William pregò che tra i morituri non vi fossero bianchi. Finché rimaneva una questione tra indiani, poteva risparmiarsi di intervenire.
Hendrick era morto. Figli e fratelli erano morti. I Mohawk avevano diritto alla vendetta, purché non toccassero i Francesi: servivano per gli scambi di ostaggi.
Il terzo Caughnawaga crollò a terra con il cranio sfondato.
Al quartier generale di Albany i caporioni mandati dall’Inghilterra non volevano capire. Non si poteva combattere come in Europa. I Francesi scatenavano le tribù contro i coloni inglesi. Incursioni, incendi e saccheggi. Petite guerre, la chiamavano. I Francesi avevano un nome per ogni cosa. All’alto comando britannico serviva lo stomaco di reagire con la stessa moneta. Era in gioco il dominio su un intero continente.
L’arrivo di nuovi prigionieri interruppe le riflessioni. Civili bianchi, furieri, maniscalchi e soldati con la divisa lacera. Uno dei guerrieri trascinò fuori dal gruppo un ragazzo. Indossava l’uniforme da tamburino del reggimento.
William era spossato. Coglieva a fatica le parole, ma la sorte del ragazzino era chiara. Un altro guerriero affrontò il primo, che già mostrava il coltello.
Con le penne sul capo e il corpo dipinto, ricordavano due galli in un’arena.

– Porta la divisa dei francesi. Non puoi prendere il suo scalpo!
– L’ho sentito parlare caughnawaga.
– Hendrick ha detto che i prigionieri bianchi spettano ai padri inglesi.
– Guardalo in faccia, ti sembra un bianco?
– Se Hendrick fosse qui ti scaccerebbe.
– Io voglio vendicarlo.
– Tu lo disonori.
– Vuoi aspettare che cresca e diventi un guerriero? Meglio ucciderlo subito, ora che i traditori Caughnawaga sono in fuga e ci temono.
– Stupido! Warraghiyagey si infurierà con te.

William Johnson sentì scandire il proprio nome indiano. Warraghiyagey, «Conduce Grandi Affari». Fece leva sui gomiti, doveva intervenire.
Vide il coltello calare sulla chioma del tamburino. Riempì i polmoni per gridare.
Qualcosa colpì il guerriero al volto.
La pietra rimbalzò per terra. L’uomo lasciò la presa, portò la mano alla bocca, tossì, sputò sangue. Una sagoma piccola e veloce gli fu addosso e lo spinse via.
Un guizzo di pelle di cervo e capelli corvini. Ruggiva contro i guerrieri, che arretravano interdetti.
– Siete senza onore, – gridò la giovane donna. – Dite di voler vendicare Hendrick, ma è il denaro degli Inglesi che volete, dieci scellini per ogni scalpo indiano!
Si avvicinò al guerriero che ancora stringeva il pugnale e gli sputò addosso. L’uomo avrebbe voluto colpirla, ma lei lo incalzò.
– È poco più di un bambino. Non ha sparato un colpo. Potrebbe avere l’età di mio fratello –. Indicò un ragazzo dall’aria attenta, al margine del cerchio di donne che si era radunato intorno alla scena. – Quando avrete incassato la paga, la spenderete per comprarvi il rum. Quelli che oggi si dànno arie da grandi guerrieri, domani rotoleranno nel fango come porci.
Il guerriero le indirizzò un gesto di sdegno prima di ritirarsi.
La donna si rivolse agli altri. – Non pensate che agli scalpi, ma gli scalpi non vanno a caccia, non portano a casa il cibo, non coltivano gli orti. Siete tanto ubriachi di sangue da calpestare le nostre usanze? Oggi molte donne hanno perso figli e mariti. Vanno risarcite con nuove braccia –. Guardò il giovane tamburino dall’alto in basso. – Dobbiamo adottare i prigionieri come nuovi figli e fratelli, secondo la tradizione. La madre di mia madre fu adottata, veniva dai Grandi Laghi. Lo stesso Hendrick divenne un Mohawk in questo modo. Voi lo avreste ucciso!
Le donne si spostarono alle spalle della giovane. Insieme fronteggiarono i guerrieri. Gli uomini scambiarono occhiate incerte, poi si allontanarono con finta indifferenza e molti borbottii.

William Johnson si abbandonò sulla branda.
Conosceva quella furia, l’aveva vista bambina.
Molly, figlia del sachem Brant Canagaraduncka.
Da sola teneva testa ai guerrieri.
Decideva la sorte di un prigioniero.
Parlava come avrebbe fatto Hendrick.

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Prima parte

Irochirlanda
1775

1.

Avevano portato anche i bambini, perché un giorno lo raccontassero a figli e nipoti. Dopo molti tentativi, l’asta finì per mettersi dritta. Il Palo della Libertà.
Un tronco di betulla, pulito e levigato alla buona. Un groviglio di corda. Un rettangolo di stoffa rossa tagliato da una coperta. La bandiera del Congresso continentale.
Il comitato di sicurezza di German Flatts approvava il suo primo documento: l’adesione alle rimostranze che l’Assemblea di Albany aveva inviato al Parlamento inglese. Il pastore Bauer ne diede lettura. Il testo si concludeva con l’impegno solenne a «stare uniti, nei valori della religione, dell’onore, della giustizia e dell’amore per la Patria, allo scopo di non essere mai schiavi e difendere la propria libertà a costo della vita».
Il vessillo si preparava a salire, salutato da canti e preghiere, quando un rumore di zoccoli interruppe la cerimonia.
Una squadra di cavalieri apparve sul sagrato. Brandivano sciabole, fucili e pistole. Qualcuno sparò in aria, mentre la piccola folla cercava riparo tra le case. Restarono sullo spiazzo pochi coraggiosi. Teste impaurite facevano capolino da dietro i muri, negli spiragli delle porte e alle finestre della taverna. Un nome volò da una bocca all’altra, in un girotondo di voci.
Il nome dell’uomo che aveva fatto fuoco contro il cielo.
Sir John Johnson.
Intorno a lui, gli uomini del Dipartimento per gli Affari indiani. I suoi cognati Guy Johnson e Daniel Claus. Subito dietro, il capitano John Butler e Cormac McLeod, scherano dei Johnson e capo dei fittavoli scozzesi che lavoravano la terra del baronetto.
Mancava soltanto il vecchio patriarca del clan, Sir William, eroe della guerra contro i Francesi, signore della valle del Mohawk, morto l’anno prima.
Sir John montava un purosangue baio dal pelo lucido, fremente sotto la stretta del morso. Si sfilò dal gruppo e prese a cavalcare lungo il perimetro dello spiazzo, mentre fissava i membri del comitato con aria sprezzante, uno dopo l’altro.
Guy Johnson portò il cavallo a ridosso di una tettoia e si arrampicò là sopra con difficoltà, per via della stazza.
 – Forza, siamo qui per discutere, – disse alle case. – È questo che volete, no?
Nessuno fiatava. Sir John diede uno strattone alle briglie, il cavallo arretrò e ruotò su se stesso, fino a cedere alla volontà del padrone.
Allora qualcuno si fece coraggio. Il gruppo che fronteggiava gli uomini a cavallo si infoltì.
Guy Johnson lanciò un’occhiata severa.
– Indirizzare una petizione al Parlamento è lecito, ma issare una bandiera che non sia quella del re è sedizione. Una cosa vi copre di ridicolo, l’altra manda sulla forca.
Ancora silenzio. I membri del comitato evitavano di guardarsi per timore di cogliere un cedimento negli occhi dei compagni.
– Volete seguire l’esempio dei Bostoniani? – riprese Guy Johnson. – Due fucilate all’esercito del re e si sono montati la testa. Sua Maestà possiede la flotta più potente del mondo. È buon amico degli indiani. Controlla tutti i forti dal Canada alla Florida. Credete che i ribelli del Massachusetts otterranno molto più di un cappio al collo?
Fece una pausa, quasi volesse sentire il sangue ribollire nelle vene dei tedeschi.
– La famiglia Johnson, – proseguì calmo, – possiede terra e commercia più di tutti voi messi assieme. Saremmo i primi a stare dalla vostra parte, se davvero Sua Maestà minacciasse il diritto di fare affari.
Una voce risuonò forte: – I vostri affari non li minaccia di certo. Voi siete ricco e ammanicato. Le tasse del re strozzano noialtri.
Un coro d’assensi accolse quelle parole. Dalla cima della tettoia Guy Johnson individuò Paul Rynard, il bottaio. Una testa calda.
Lo stallone di Sir John scrollò il capo e sbuffò nervoso, rimediando un altro strattone.
Il frustino del baronetto colpì il cuoio dello stivale.
– Le tasse servono a mantenere l’esercito, – ribatté Guy Johnson. – L’esercito mantiene l’ordine nella colonia.
– L’esercito serve a voialtri per continuare a tenerci sotto! – sbottò Rynard.
Gli animi si accesero, qualcuno dei cavalieri alzò d’istinto le armi, ma un cenno di Sir John li trattenne.
– Non ancora, – sibilò il baronetto.
Guy Johnson, rosso in volto, strillò dall’alto: – Quando i Francesi e i loro indiani minacciavano le vostre terre, l’esercito lo chiedevate a gran voce! La pace vi ha reso arroganti e stupidi al punto da desiderare un’altra guerra. Fate molta attenzione, ai morti la libertà non serve.
– Ci state minacciando! – gridò Rynard.
– Tornatene in Irlanda dai tuoi amici papisti! – urlò qualcuno. Un sasso scagliato verso Guy Johnson lo mancò di poco.
Una smorfia di compiaciuto disprezzo segnò la faccia di Sir John: – Adesso.
I cavalli mossero in avanti, il comitato di sicurezza si sciolse seduta stante. Gli uomini corsero in tutte le direzioni.
Il cavallo di John Butler travolse Rynard e lo fece rotolare nel fango. Il bottaio si rialzò, cercò scampo verso la chiesa, ma Sir John gli sbarrò il passo. Il baronetto lo frustò con quanta forza aveva. Rynard si accucciò a terra, le mani sulla faccia. Tra le dita, vide McLeod sguainare la sciabola e partire al galoppo. Strisciò via, invocando la misericordia di Dio. Quando ricevette il colpo di piatto sul fondoschiena, urlò forte, tra le risate roche dei cavalieri.
Mentre Rynard si scopriva ancora vivo, gli uomini del Dipartimento si radunarono al centro dello spiazzo. Guy Johnson rimontò in sella e li raggiunse.
Un leggero colpo di speroni e Sir John fu sotto il Palo della Libertà.
Parlò in modo che tutti lo sentissero, dovunque fossero rintanati.
– Ascoltate bene! Chiunque in questa contea voglia sfidare l’autorità del re, dovrà vedersela con la mia famiglia e con il Dipartimento indiano –. I suoi occhi maligni parvero scovare gli abitanti uno a uno, oltre le finestre buie. – Lo giuro sul nome di mio padre, Sir William Johnson.
Sfilò un piede dalla staffa. Dopo un paio di calci, il Palo rovinò nel fango.

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sabato, 12 aprile 2008

DI PROTEO E DEGLI INTRIGHI. VEIT HEINICHEN

Conoscete Veit Heinichen?

Ecco qualche cenno biografico.

È uno scrittore tedesco, nato a Villingen-Schwenningen il 26 marzo del 1957.

Si è laureato in economia a Stoccarda, ottenendo una borsa di studi della Mercedes-Benz per la quale ha anche lavorato nella sede della direzione generale. Poi ha lavorato come libraio e ha collaborato con diversi editori.

Nel 1994 è stato co-fondatore della Berlin Verlag di Berlino (diverse volte premiata come “Casa editrice dell’anno”) di cui è rimasto direttore sino al 1999.

Dal 1997 vive a Trieste, città di mare e di confine dove ha voluto ambientare i suoi romanzi. Una città che descrive nella sua complessità, tra bora e multicultura. Ogni libro approfondisce sia aspetti storici che elementi di estrema attualità offrendo sempre un piacevole quadro di una città di mare, dove si mangia bene e la cultura e l’arte hanno molto da offrire.

Il personaggio principale dei suoi libri è un poliziotto: il Commissario Proteo Laurenti, salernitano trapiantato da anni a Trieste, proprio come il suo padre letterario.

Heinichen ha ricevuto il Premio della RTV Brema 2005 per il miglior giallo 2005 (Bremer Krimipreis 2005). È stato finalista per il Premio Franco Fedeli, Bologna, 2003 e 2004, per il miglior giallo italiano dell’anno.

Ricordiamo le seguenti pubblicazioni:

I morti del Carso

Morte in lista d’attesa

A ciascuno la sua morte


Di seguito potrete leggere l’intervista realizzata da Sergio Sozi in esclusiva per Letteratitudine.

Vi invito a leggerla con attenzione perché è ricca di spunti interessanti (sui quali potremo discutere).

Intanto pongo due domande collegate, appunto, all’intervista:

Ritenete che il romanzo giallo sia particolarmente adatto a rispecchiare la società moderna? (Vi invito, se potete, a motivare la risposta).

Ritenete che le notizie dei giornali siano davvero così stereotipate come sostiene Heinichen (nell’intervista) ?

Massimo Maugeri

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Intervista a  Veit Heinichen (di Sergio Sozi)

 sergio-sozi.JPG

Ho incontrato il 22 gennaio 2008 a Lubiana lo scrittore tedesco Veit Heinichen – creatore della fortunata serie gialla del commissario Proteo Laurenti e vivente da un decennio a Trieste come il suo protagonista, poliziotto di origine meridionale (qualche titolo: I morti del Carso e A ciascuno la sua morte). I suoi romanzi sono tradotti in Italia da E/O e la serie di film televisivi che ne è stata tratta ha ottenuto in Germania nove milioni di spettatori. Una nuova serie verrà perciò nuovamente girata nel Capoluogo del Friuli-Venezia Giulia. Per venire a noi, questo è quanto scaturito dal nostro colloquio, svoltosi passeggiando tranquillamente alle undici di sera davanti al club jazzistico ”Gajo” (nel pieno centro di Lubiana), dove pochi minuti prima l’autore aveva tenuto un incontro pubblico nell’ambito del noto festival sloveno ”Fabula”.

 

Heinichen è un giallista, e noi lo conosciamo grazie ad un personaggio che è il commissario Proteo Laurenti… Ecco, noi Italiani in genere sappiamo chi è Proteus, mitologicamente parlando…

Ecco, Proteus, poveretto, è nato a Salerno e poi ha subíto tutta la classica carriera di un poliziotto tipico italiano della sua età, che veniva mandato da Sud a Nord, spedito da Ovest ad Est finché non si è inchiodato, diciamo cosí, a Trieste – una città di cui lui non sapeva tanto. Arriva a Trieste, dunque, con questo nome, Proteo Laurenti, e constata che tutti ne ridevano; perché? Perché negli abissi del Carso, nella profondità buissima dove ci sono le acque sotterraneee, vive un animaletto che ha oltre centomila anni, una specie di lucertola, priva di occhi, bianca, il cui nome scientifico è Proteus Anguinus Laurenti. Invece i genitori del personaggio pensavano ovviamente alla mitologia classica, a quel dio che riusciva a trasformarsi in qualsiasi materia e a non essere catturabile. Non sapevano che sarebbe un giorno diventato, proprio a Trieste, colui che avrebbe dovuto catturare gli altri e dunque anche scavare negli ”abissi”.

 

Ah, ecco; perciò il significato, diciamo, è metafora, piú che di ”proteiformità”, del ”vivere negli abissi”…

Sí: di vivere e scavare. E in piú c’è un altro aspetto, perché come si chiama questo animaletto in sloveno? Ecco si chiama (traduco) ”Pesciolino umano”, e infatti anche Proteo Laurenti ha i suoi lati umani… non è lo sbirro freddo: è uno che vive in contesti sociali molto forti, ha tre figli, una moglie, un’amante; diciamo che è il prototipo del cittadino italiano.

 

Già. Ma mi dica, come mai Lei – il ”burattinaio” – lo ha posto cosí: lo ha fatto emigrare dalla Campania fino ad una zona molto germanica – o almeno mitteleuropea – come quella di Trieste.

Vorrei dire che le espressioni ”mitteleuropeo o Mitteleuropa” sono state sicuramente molto superate, se parliamo del centro dell’Europa, perché i mezzi di comunicazione e di trasporto sono diventati molto veloci – rispetto a questi termini un po’ ”magrisiani” che si rivolgono indietro, all’Impero Austroungarico, e anche rispetto a queste piccole distanze. Ovviamente è una zona molto interessante, è un punto cruciale dell’Europa, perché qui si incontrano le tre grandi culture europee: quella di origine romana, quella slava e quella germanica; qui il Mediterraneo s’incontra con il mondo del Nord e dunque si incontrano le formazioni – direi quasi ”mentali” – del mare e della montagna, e, in piú, ovviamente, l’Ovest e l’Est. Inoltre questa città, Trieste, venne costruita e fatta grande e famosa da un insieme di oltre novanta etnie, cosí abbiamo anche l’insieme di Mercurio e Apollo – perché è anche una città molto forte nella Letteratura (a Trieste è sempre nata della Letteratura). Se parliamo degli ultimi due anni dell’esilio di Casanova: ebbene, in che lingua Casanova scrisse le sue memorie? In francese. Poi Stendhal (che passò a Trieste l’inverno del 1830-31) invece non la amava e diceva che sarebbe stato meglio esser rapinati da una banda di ladri catalani che esser colpiti una volta solamente dalla bora. Inoltre, in città capitò il giovane Sigmund Freud, che scriveva il suo primo discorso scientifico, cosí facendo quasi il primo errore ”freudiano”, poiché studiava gli organi sessuali dell’anguilla. Jules Verne, nel 1850, vi fece delle ricerche approfondite per un fantastico romanzo, veramente fantastico in tutti i sensi: il ”Mathias Sandorf”. E Rilke, nel castello di Duino, con le sue Elegie; Srečko Kosovel (scrittore di lingua slovena e Rimbaud del Ventesimo secolo); poi ancora Italo Svevo – che portava in sé Mercurio e Apollo perché era commerciante. Lo stesso, in seguito, per Umberto Saba ed oggi per un Boris Pahor e un Claudio Magris – Pahor, scrittore di lingua slovena, io veramente lo considero molto piú importante perché ha scritto i grandi romanzi di questo secolo, dando luce ai crimini del fascismo e ai cambiamenti in questo spazio, molto complesso, pieno di contraddizioni ma anche di ponti fra le contraddizioni.

 

Tornando alle sue opere, come mai proprio dei gialli? Da un personaggio ”proteiforme” come lei, io mi sarei aspettato magari qualcosa sullo stile del nostro Gadda oppure uno di quei falsi gialli alla maniera di Sciascia.

Mah… grande sfida. Due scrittori che io ammiro profondamente. Perché il giallo? Perché è un genere molto adatto per rispecchiare la società moderna. Se il romanzo di per sé è sempre stato uno specchio di un’area e di un’epoca, il romanzo giallo lo è ancora di piú perché si concentra molto fortemente sulle nevrosi e sugli estremi di un’area e di un’epoca. Posso anche ricordare che esistono due grandi opere della Letteratura mondiale che io ho sempre considerato come dei gialli – ”Delitto e castigo” di Dostoevskij e ”Il rosso e il nero” di Stendhal. Allora lasciamo via questi ”cassetti” in cui dobbiamo mettere le cose, lasciamo via le generalizzazioni… C’è anche della gente che mi dice: ”I tuoi libri non sono gialli, ma romanzi storici”; per me va tutto bene.

 

E sono romanzi storici, questi suoi, visto che Lei si documenta con fare certosino?

Beh: io faccio il mio lavoro, come lo faceva il grande Sciascia o anche Gadda, i quali hanno sempre descritto gli spazi in cui vivevano: erano osservatori perfetti, precisi, non lasciavano via niente. E questo fa Letteratura. Perché? Perché, in confronto agli altri media, la narrazione diventa pessima se lascia via le cose. I media oggi trattano tanto con la verità ”oppressa”, ossia con la metà della verità; mi spiegherò: non è la bugia il problema, la bugia si svela sempre da sola, ma prendendo le notizie, oggi, vediamo che una parte della verità è oppressa e l’altra parte diventa ”l’assoluto” e questo il romanzo non può farlo e il narratore ancora di meno.

 

Perciò il narratore ha il dovere, secondo Lei, di trovare una verità completa.

Per questo ha anche un mezzo che è anche molto diverso dagli altri: un libro di due, trecento pagine o perfino cinquecento; per questo, allora, lo scrittore può dare spazio a tutti: a quelli che gli piacciono e a quelli che non gli piacciono, ma, lasciandone via uno, diventa un disastro.

 

In poche parole, esiste una realtà corale all’interno di un romanzo. Il romanzo di oggi non è piú un romanzo monologante ma ”plurivoco”.

Sicuramente. E c’è un’altra cosa, poi: nessun altro mezzo e nessun altro genere dà spazio a tutti e quattro i gruppi coinvolti.

 

Mmmh… ovvero, chiarendo il concetto…

Intendo dire: gli investigatori, le vittime, i delinquenti e… chi è il quarto gruppo? Siamo tutti noi, a cui piace talmente tanto delegare il male e il bene ma soprattutto volgere le spalle a questi fatti che ci circondano. Se pensiamo al futuro e a come crearlo, servirebbe ammettere un po’ di piú che ne siamo tutti coinvolti.

 

In cosa: in un crimine? (dico sorridendo)

In tutti i crimini e in tutte le vicende e le cose che ci circondano, siano quella dell’immondizia a Napoli, siano i grandi fallimenti imprenditoriali, della Parmalat e via dicendo… dico che ne siamo tutti coinvolti. Ma ci piace troppo, stiamo ancora troppo bene per capire che queste cose ci sono e che ci circondano, ci concernono, influenzano la nostra vita.

 

Bene. Ma questa, magari, è una cosa che noi troviamo anche nei giornali. Nel senso che i giornali ce ne dànno uno spaccato.

Invece no. I giornali vivono di uno stereotipo enorme. Nessuno ci ha mai svelato, nelle ultime settimane, quante volte si sono ripetute queste cose dell’immondizia in Campania. Nessuno ricorda mai il fatto che ci sono stati almeno nove commissari straordinari coinvolti in queste cose. Nessuno scrive che ogni giorno, da dieci anni, partono dall’Italia per la Germania Ovest ed Est tre treni pieni d’immondizia (i tedeschi ovviamente ne sono contentissimi perché cosí fanno lavorare le proprie strutture). Lí, smaltire una tonnellata di rifiuti costa duecento euro – trasporto incluso – mentre in Campania costa duecentonovanta euro. Vorrei sentire questo dai media, perché solo cosí il cittadino può farsi un’immagine completa. Io purtroppo, che vivo con piacere in Italia e che ho avuto anche un ruolo di ”missionario” nei confronti dei tedeschi e di altri europei, devo dire che lí in Germania esiste sempre lo stesso stereotipo: in Italia non funziona niente. E non è vero: ci sono cose che in Italia funzionano molto meglio che in Germania: per esempio le telecomunicazioni e la burocrazia – sono stato imprenditore in Germania e lo so. Avevo un ruolo difficile: il missionario fra Tedeschi ed Italiani, e ambedue non mi credevano. Ho la sensazione putroppo che gli Italiani siano diventati recentemente un popolo con una memoria quasi inesistente.

 

Una memoria storica corta. Significa che l’Italia vive una contemporaneità dalla quale non riesce ad uscire. O sbaglio?

Io credo che questa sia solo teoria, perché anche l’Italia uscirà da questa contemporaneità; perché la contemporaneità è una cosa semplice che si sviluppa sempre in avanti. Non siamo mica in una tribú nella giungla. Non è vero: vedo gente in gamba, che si muove e torna dall’estero volendo investire impegno ed esperienza. Solo che dobbiamo rompere con alcune strutture e soprattutto… be’, facciamo esempio: Mastella perché si è dimesso? Per mantere il piccolo potere che ha. Semplicemente, se ci saranno adesso delle nuove elezioni, avranno la vecchia legge elettorale: significa che i piccoli partiti rimarrano sempre quelli che possono far cadere o frenare o portare avanti un progetto. Ma di popolo e di maggioranza non si parla molto: si parla solo dei piccoli rompi*****.

 

(Ridacchio) Per tornare alla Letteratura. Questo suo Proteo Laurenti mette sempre le mani in delitti abbastanza particolari ed in lui è presente un modus operandi tipico dell’investigatore.

Questo ha molto a che fare con la città in cui si trova, perché Trieste è una città particolare: varie volte confermata alla prima posizione nella qualità della vita in tutto il Paese; al secondo posto guardando ai depositi bancari; insomma una qualità della vita altissima: si sta bene a Trieste, non c’è microcriminalità o quasi. Siamo una città portuale e confinaria dove si riunisce e passa l’Europa, cosí non abbiamo a che fare con tanti omicidi… meglio cosí: non devi neanche chiudere a chiave la porta di casa! Laurenti invece ha a che fare con i casi tipici – che sono sempre europei: io non racconto mai una cosa che coinvolga solo i triestini, perché ogni cosa che tocca Trieste ha sempre a che fare con l’Europa. E questa è la particolarità del luogo, in senso positivo o negativo. Significa che abbiamo a che fare con una città multiculturale e plurilingue, una città dai contrasti enormi che va dal mare fino al Carso; una città che non ha una cucina tipica: abbiamo una vasta scelta di tutto. Un luogo, insomma, dove la diversità è una ricchezza, ma che ha le sue nevrosi, ovvero i grandi ”casi” europei: traffico d’organi – le cui investigazioni vengono gestite dalla Magistratura triestina in tutta Italia, in collaborazione anche coi colleghi europei; per non dire dei grandi coinvolgimenti, massonici e di Gladio, riguardanti la fine di Roberto Calvi: avevano il centro a Trieste e ne erano coinvolti personaggi triestini o triestini acquisiti… parlo di un Flavio Carbone, per esempio, che aveva tredici aziende a Trieste e che spacciava poi terreni in Sardegna. Guardiamo la storia di questi terreni, vediamo chi ha venduto queste terre che diventavano unite per esser la base per la Certosa. È cosí: a Trieste abbiamo sempre l’Europa – a Trieste nessuno paga il ”pizzo” e trenta chilometri piú lontano capita già.

 

Capita già? (dico essendone stupito). A proposito di questo Lei mi fa venire in mente un titolo: ”Gomorra”.

Bravo, Saviano, bravissimo! A me piace perché è uno intelligentissimo che mostra questo coraggio civile che pochi hanno. Magari, no anzi sicuramente, non si è immaginato il fuoco che accendeva. Sicuramente no. Non lo invidio per la situazione in cui vive, ma devo dire che è un uomo con il coraggio civile che mi aspetto da tutti. Cambierebbe immediatamente tutto. Invece la gente sta bene senza muoversi, accomodata sul divano con le noccioline.

 

I difetti degli Italiani: forse l’indifferenza, l’apatia…

Io sono contrario a tutte queste generalizzazioni, non servono. C’è gente ”cosí” e gente ”cosà”.

 

Be’, ma nella mentalità comune…

Della mentalità comune mi vieto di parlare, perché, con quattro traslochi che ho fatto in Europa, ho sentito tutti questi luoghi comuni. Tutti e di piú. Lasciamo perdere e guardiamo direttamente negli occhi dell’altro.

 

Già, questa è la cosa fondamentale, forse (concludo accondiscendente nel congedarmi con il sorprendente e disponibilissimo Veit Heinichen. Ai posteri, perciò, e agli astanti, l’ardua sentenza: senza ”luoghi comuni” ci resterà in mano solo uno sterile ”non luogo”?).

(Sergio Sozi)

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giovedì, 10 aprile 2008

LETTERATURA E MUSICA

I testi delle canzoni sono letteratura?

Quand’è che un testo musicale può considerarsi testo letterario a tutti gli effetti?

E ancora… il testo di una canzone può rientrare nell’ambito della cosiddetta grande letteratura?

Queste le domande che pongo nel post di oggi, incentrato sul tema “letteratura e musica”. Un post che pubblico anche a seguito della notizia dell’attribuzione del premio Pulitzer a Bob Dylan.

Come ha scritto Enzo Gentile su “Il Mattino” del 9 aprile: “A questo punto, quando canterà per l’ennesima volta che i «tempi stanno cambiando» ci sarà da dargli ancora ragione. Mentre il Nobel per la letteratura è ancora dietro l’angolo, a Bob Dylan arriva ora uno dei riconoscimenti internazionali più prestigiosi, quel Pulitzer che da 65 anni segnala le eccellenze nel campo del giornalismo e delle arti e che nella sua storia non aveva mai premiato un rocker, esponente di una musica ritenuta in passato barbarica e sovversiva. L’artista di Duluth è stato insignito dell’onorificenza alla carriera con una motivazione secca, che non lascia spazio agli equivoci: «Per il profondo impatto sulla cultura e la musica d’America grazie a composizioni liriche dallo straordinario potere poetico». (…)

I giurati del Pulitzer hanno inteso indicare con Dylan un cardine, una sorta di periscopio della cultura contemporanea, una voce e un testimone senza confini.”

-A proposito di Bob Dylan, vi segnalo che nel 1972
la Newton Compton ha pubblicato per la prima volta in Italia una raccolta di suoi testi, Blues, ballate e canzoni.

Una raccolta – riproposta in edizione economica (a 5 euro) – dove compaiono le tematiche di impegno politico e sociale, di accusa e di disperazione che hanno reso Dylan un’icona del Movimento di contestazione, nonostante egli non vi si identificasse appieno.

Il volume è introdotto dall’esperta di letteratura americana Fernanda Pivano.

Di seguito avrete modo di leggere i contributi di Francesco Di Domenico ed Enrico Gregori, che hanno affrontato – rispettivamente – i temi: “letteratura e musica italiana” e “letteratura e musica straniera”.

Massimo Maugeri

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LETTERATURA E MUSICA ITALIANA

di Francesco Di Domenico

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“E’ giunta mezzanotte/ si spengono i rumori si spegne anche l’insegna di quell’ultimo caffé
le strade son deserte/ deserte e silenziose, un’ultima carrozza cigolando se ne và.”

Probabilmente con questa strofa di “Vecchio Frack”, di Domenico Modugno comincia la storia dei cantautori in Italia e la musica comincia ad avere una sua categoria “colta”.Già in Francia molti poeti avevano cantato, e tre su tutti, Brassens, Brel e Leo Ferrè, veri artisti multimediali, avevano fatto diventare questa materia musicale una vera e propria categoria letteraria. Di lì a poco, in Italia, tutta una generazione di musicisti insofferenti, che avevano una proposta non solo melodica ma comprensiva anche di testi poetici e letterari, avrebbero rivoluzionato un certo modo di proporre la musica. Erano quasi tutti di provenienza da studi classici.       

Comincia Modugno che narra in tre minuti, gorgheggiando a modo suo, il racconto di un suicidio, circoscrivendolo in un ambiente da “telefoni bianchi”. E’ un racconto vero o quantomeno il suo explicit. La musica da quel momento può narrare e poetare in senso non volgare, come  era successo fino ad allora, dove i testi erano stati un semplice complemento per usare la voce come strumento, per veicolare il motivo, la melodia. I componimenti dei cantautori cominciano ad essere vere e proprie poesie a versi sciolti o a rima baciata, sovente usando anche la tecnica del Limerick anglosassone, la forma scherzosa e non-sense della poesia,  come ne  “Il Testamento” di De Andrè : “…per quella candida vecchia contessa che non si muove più dal mio letto/ per estirparmi l’insana promessa di riservarle i miei numeri al lotto/ non vedo l’ora di andar fra i dannati per rivelarglieli tutti sbagliati”. Gino Paoli, che canta “Il cielo in una stanza”, sembra rovesciare la tristezza delle stanze leopardiane, con un inno d’amore liberatorio. Veri racconti brevi irrompono nelle sale discografiche “minori”, cantati da scrittori e poeti che vogliono uscire dalla pagina scritta e narrarli accompagnati da chitarre, quando non da intere orchestre. Uno scrittore e poeta straordinario, che addiziona alle sue liriche una musica gradevole e colta appare, giusto come una nuvola barocca, sulla seconda metà del secolo breve: Faber De Andrè: “Benedetto Croce diceva che fino a diciotto anni tutti scrivono poesie e che, da quest’età in poi, ci sono due categorie di persone che continuano a scrivere: i poeti e i cretini. Allora, io mi sono rifugiato prudentemente nella canzone che, in quanto forma d’arte mista, mi consente scappatoie non indifferenti, là dove manca l’esuberanza creativa.” Diceva così Fabrizio De Andrè, dovendo giustificare le insistenze dei giornalisti. Ma l’esuberanza creativa l’avrebbe avuta e come visto l’immensa produzione poetica e l’inserimento in moltissime antologie scolastiche dei suoi brani. Scrivono di tutto i cantanti-autori, persino saggi politici e invettive come Claudio Lolli ne “La piccola borghesia”:   Vecchia piccola borghesia, per piccina che tu sia, non so dire se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia. Godi quando gli anormali son trattati da criminali/ chiuderesti in un manicomio tutti gli zingari e intellettuali. Ami ordine e disciplina, adori la tua Polizia tranne quando deve indagare su di un bilancio fallimentare. Sai rubare con discrezione meschinità e moderazione alterando bilanci e conti/ fatture e bolle di commissione. Sai mentire con cortesia con cinismo e vigliaccheria hai fatto dell’ipocrisia la tua formula di poesia.   

Francesco Guccini, poeta, scrittore e polemista fine, mette in musica dopo tante storie e racconti un polemico elzeviro contro i giornalisti che lo avevano accusato di imborghesimento: “L’avvelenata”,Una risposta feroce in rima: “Colleghi cantautori, eletta schiera, che si vende alla sera per un po’ di milioni, voi che siete capaci fate bene a aver le tasche piene e non solo i coglioni…
Che cosa posso dirvi? Andate e fate, tanto ci sarà sempre, lo sapete, un musico fallito, un pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate!”

Quindi finanche giornalismo, mettendo alla berlina un personaggio “cult” del tempo, il giornalista Riccardo Bertoncelli.   “Se avessi potuto scegliere tra la vita e la morte, tra la vita e la morte avrei scelto l’America”, ne aveva già recitato tante di poesie, molto ermetiche, quasi montaliane, alcune di una delicatezza estrema (“E guarda l’amore che non ha commenti da fare, l’amore comunque che non ha paura del mare da attraversare.”)

Francesco De Gregori, ma con questa frase inserita nella “Donna cannone” riuscì persino a ragionare di filosofia citando la “non scelta” di Schopenhauer.

Ora, una medievalizzazione del gusto musicale, che cammina di pari passo con un “barbarismo” culturale che sta modificando i rapporti di forza tra comunicazione e letteratura sembra abbia bloccato queste deliziose commistioni; viaggia comunque, spedito e silenzioso come un fiume carsico un grande “raccontatore” che da oltre quarantanni ha narrato storie surreali accompagnato da un piano tanghèro e da un orchestrina jazz: Paolo Conte.

Le sue parole sono entrate nel frasario cult e colto delle generazioni susseguitesi: “Era un mondo adulto, si sbagliava da professionisti” e sull’amore : “Non perderti per niente al mondo lo spettacolo d’arte varia, di uno innamorato di te”.

I suoi racconti ci hanno narrato pezzi d’Italia, storie d’amore; ci hanno fatto vedere film’s d’amore. Se Conte avesse voluto allargare in romanzi scritti le sue ineffabili storie avremmo avuto sicuramente un po’ di letteratura in più.

p.s. ho omesso molti autori validi, ma ho dimenticato, volutamente, un autore che considero sopravvalutato: Luigi Tenco. Non fu un vero poeta, ma un presuntuoso e bravo musicista, che trascinò la sua arroganza culturale fino ad un gesto estremo di narcisismo, il suo personale autoannientamento con il suicidio. Era stato fortunato perché una sua bella melodia aveva fatto da sigla al formidabile sceneggiato su Maigret (“un giorno come un altro”), ma le sue erano belle canzonette, come dice umilmente Bennato, la poesia è altro.

Francesco Di Domenico

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 LETTERATURA E MUSICA STRANIERA

di Enrico Gregori

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Oltremanica e oltreoceano i testi delle canzoni (almeno dagli anni 60 in poi) si sono ispirati alla rivendicazione sociale e/o alla trasposizione della realtà in una sorta di “poetica”.
Non credo sia utile, in questa sede, citare i “soliti” Dylan, Coen, Baez o Simon, in quanto autori celeberrimi.Tentiamo di (ri)scoprire chi, per esempio, si affidò a un paroliere quasi suo clone per mettere nero su bianco il suo dolore, il suo disagio, la sua infelicità interrotta solo episodicamente da scorci di gioia.Tim Buckley, per esempio, musicista e cantante pressochè insuperabile, che si affidò sempre al paroliere Larry Beckett. Come nella “Song to the siren” (Canzone alla sirena).

“…Sono confuso come un bimbo appena nato
Sono turbato dalla marea:
Devo fermarmi tra i distruttori?
Devo giacere con la morte mia sposa?
Ascoltami cantare “nuota da me, nuota da me, lasciati dire:
Sono qui, sono qui, aspettando di poterti abbracciare”.
Paradossale la vita di Tim Bucley, morto per eroina dopo che si era disintossicato. Una “una tatum” talmente pura che lo stroncò.
Suo figlio, Jeff, musicista anche lui, morirà annegato. Un’altra coppia padre-figlio accomunata nella morte, esattamente come Bruce e Brandon Lee. 
Ma se intorno a noi c’è solo odio, guerra, distruzione e infelicità. Si può fuggire e ritrovare se stessi.
Una trasposizione quasi metafisica di Peter Hammil e dei suoi “Van der Graaf Generator” nella epocale “Refugees” (Fuggitivi) dove l’Ovest altro non è (forse) che un sogno da raggiungere e coltivare per avere ancora la speranza.

“…..L’Ovest sono Mike e Susie
L’Ovest è dove io amo
 
Là noi passeremo gli ultimi giorni delle nostre vite
Racconteremo le solite vecchie storie
Bene, almeno abbiamo tentato
Andremo verso l’Ovest, con il sorriso sui nostri volti……”

L’infelicità di chi in teoria ha tutto, tranne se stesso.
Nick Drake, autore di tre capolavori ufficiali.
Figlio di un ricco diplomatico inglese, Nick non ha mai voluto rassegnarsi alla vita da figlio di papà.
Un artista enorme e (all’epoca) trascurato.
La sua celebrità, come spesso accade, comincia in un giorno del lontano 1974.
Quando la madre trova Nick, 26 anni, stroncato da un’overdose di tranquillanti.
Oggi Nick Drake significa ristampe, cover, colonne sonore, cult.
L’esatto contrario di ciò che lui (per sfregio) sentiva di essere nei confronti della vita. “Parasite” (Parassita).

 …”E guarda, puoi
vedermi per terra
Perché sono il parassita di questa città
Danzando una giga
in una chiesa con campane
Un segno dei tempi odierni
E non sentendo nessuna campana
da un’altra guglia
La gente tutta in costernazione
Cadendo così in basso su
un cucchiaio d’argento
Prendendo in giro la luna
E cambiando la fune per
una misura troppo piccola
Tutta la gente viene appesa
Guarda e mi vedrai passare
Perché sono il parassita che viaggia in coppia
Quando togli la maschera
a un pagliaccio del luogo
E ti senti già come lui…”

Ascoltare i testi di pezzi americani o inglesi è stata sempre un’arma a doppio taglio.
Magari ci si è innamorati di una musica senza accorgersi che il testo fosse di una banalità sconcertante.
O, più spesso, la stessa bellezza della musica ci ha fatto trascurare le parole.
Qui ho fatto tre esempi, a pioggia, i primi che mi sono venuti in mente tenendo come filo logico il disagio. Ma tanto, volendo, ci sarebbe da scoprire nei testi dei Procol Harum o dei King Crimson, tanto per fare due esempi di gruppi che nelle note di copertina avevano il giusto orgoglio di inserire tra i componenti del gruppo a tutti gli effetti Keith Reid (Procolo Harum) e Pete Sinfield (King Crimson)
Il loro “strumento?”. “Words”… parole.
Per chi vuole “leggere” oltre che ascoltare.

 Enrico Gregori

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lunedì, 7 aprile 2008

RECENSIONI INCROCIATE. Laura et Lory, Sabrina Campolongo

Vi è mai capitato di leggere una recensione e pensare: “e se il critico è un amico dell’autore recensito”?

Vi è mai capitato di pensare: “va be’, magari si sono messi d’accordo”?

Potrebbe accadere.

Non sarebbe molto corretto, vero? Bene. Letteratitudine, va oltre.

Inauguro, oggi, una nuova rubrica che si intitolerà, per l’appunto, Recensioni incrociate. Di volta in volta chiederò a due autori di recensirsi reciprocamente. Nella maggior parte dei casi l’oggetto delle recensioni saranno i loro libri, in altri casi potrebbero essere “le loro rispettive… figure“.

Saranno credibili, queste recensioni?

Lo giudicherete voi!

Intanto, dopo quelle di Enrico Gregori e Vito Ferro, ho il piacere di presentarvi le recensioni incrociate di Sabrina Campolongo e Laura et Lory (Laura Costantini e Loredana Falcone).

Naturalmente siete tutti invitati a interagire con le “autrici/critiche”. Ponete domande sulle loro opere e sulle loro recensioni incrociate.Ovvero… tartassatele.

Massimo Maugeri

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Sabrina Campolongo, “Il cerchio imperfetto“, Edizioni Creativa, 2008, pagg. 182, euro 12
recensione di Laura et Lory

Un libro sulle donne, scritto da una donna e scelto da un’altra donna per una collana che si dichiara Declinata al Femminile. Sono caratteristiche, queste, salienti per analizzare Il cerchio imperfetto, eppure vorremmo evitare la catalogazione nella cosiddetta letteratura femminile perché il romanzo di Sabrina Campolongo è soprattutto un viaggio all’interno di un universo che ci riguarda tutti, uomini e donne. Si parla di paura di vivere, dei sensi di colpa, del sentirsi inadeguati. Di più, imperfetti.
Sabrina usa i suoi personaggi per tratteggiare la difficoltà di relazione che caratterizza il nostro mondo. Tra Marga, Francesca, Viola, Massimo, nessuno ha la capacità di gestire serenamente un rapporto con l’altro, sia esso d’amicizia o d’amore. Nessuno riesce a trovare il coraggio di accettare l’altro come un dono, perché troppo forte è la paura di doversi dare fino in fondo, fino al confine tra il donarsi e il perdersi. Eppure tutti, indistintamente, hanno un disperato bisogno di amore.
Ha bisogno d’amore Margherita, Marga per le amiche. Lei che colleziona scopate come alcune donne fanno con le scarpe, o con le borsette. E’ spinta verso il sesso da una fame compulsava, non molto diversa da quella che da ragazzina la trascinava in ginocchio, davanti al frigorifero aperto, nel cuore della notte, a ingollare tutto ciò che le capitava sotto tiro.
Marga che ha gli occhi come pozzi verde cupo quando nella sua bulimia erotica incappa in un uomo violento. Un uomo che non ha capito.
Di uomini che non hanno capito ce ne sono molti nelle pagine di Sabrina.
C’è il marito di Francesca, Carlo, che non riesce a capire il bisogno di una madre di macerarsi nel senso di colpa per un figlio imperfetto. Un figlio che l’ha abbandonata alla solitudine, come tutti coloro che sono stati importanti nella sua vita. Francesca è un’artista, ma il linguaggio dei colori non basta a dissipare il buio che si porta dentro quando la giornata si svuota di colpo. Davanti solo un deserto spaventoso, incolmabile. Poter tornare a letto… E’ impossibile dipingere, è impossibile uscire di casa, lavarmi i capelli. Impossibile sollevare il ricevitore del telefono, impossibile sostenere una qualunque conversazione.
E’ la depressione il demone di Francesca. Un’ombra scura che la insegue e la precede schiacciandola in devastanti crisi di panico. Eppure a sconfiggere il mostro basta poco.
- Ciao, ti ho svegliata?
La sua voce, la voce di Massimo.
Vuoto nello stomaco, cuore che sbatte contro le sbarre della sua gabbia d’ossa, cercando di schizzarne fuori. E quel nodo implacabile che si scioglie, restituendomi lo spazio per gonfiare i polmoni.

Le donne amano così.
Eppure Massimo, il ragazzo che ha aperto uno spiraglio nella vita sentimentalmente irrisolta di Francesca, non capisce. O meglio, non vuole capire. Perché anche qui il rischio è il passaggio tra ciò che si ha e ciò che si potrebbe avere.
Lo sa bene Viola, che è nata con il corpo di un uomo, si è venduta per rendere visibile al mondo la femminilità della sua anima, ma non può accettare un amore vero. Un amore da donna. Perché lui non capisce. Pensa solo di fare un grande gesto romantico, non capisce e non gli interessa nemmeno di capire. Non sa cosa ci succederà. Non può capire, come te. Te lo ripeto Francesca: non posso andare a vivere nelle case popolari. I poveri non hanno pietà per quelle come me.
La pietà, la capacità di accettarsi per ciò che si è, manca a tutti i protagonisti di questo cerchio imperfetto.
Il libro di Sabrina Campolongo ha il pregio di descrivere, con la naturalezza del vissuto, stati d’animo che difficilmente vengono raccontati da chi ha la sfortuna di provarli. E’ un libro che scava in zone buie e forse, proprio per questo, il quadro che ne esce racconta di un’umanità fragile e dolente. Un’umanità che non riesce a trovare una rivincita, che non lotta fino in fondo, che si accontenta di un non detto.
Ti amo. Potrei dirti.
Potrei dire ti amo e non cambierebbe nulla.
Non aggiungerebbe nulla.
Posso dirtelo, non credo che lo farò mai.

E’ la sanzione di una sconfitta. Accettata con la strana gioia di una saggezza che, ancora una volta, parla della nostra profonda incapacità.

Laura et Lory

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Laura Costantini e Loredana Falcone, “Roma 1944 – lo sposo di guerra“, Maprosti & Lisanti editore, 2007, pagg. 480, euro 15
recensione di Sabrina Campolongo

Due donne, al centro di questo romanzo, due sponde dello stesso fiume. Da una parte Camilla, ruspante ragazza del popolo, impegnata a tempo pieno a “risolversi la giornata” (vedi mettere assieme un pasto almeno al giorno), dall’altra Ottavia, la contessa Visconti-Parini, assediata nel suo stesso palazzo dalle truppe americane che ne hanno preso possesso, con suo malcelato fastidio.
Due binari, due destini, quello della popolana rimasta sola al mondo, e quello della nobildonna abbandonata da un marito fascista e puttaniere, che in un altro momento storico non si sarebbero mai incrociati, limitandosi a guardarsi dalle due opposte, seppur vicine, tribune: quella dei servi e quella dei padroni.
Ma, in questo particolare dove e quando, tutto, forse, può accadere: Roma, giugno 1944.
Siamo nel cuore di una “città eterna” ferita e umiliata, che deve piegare la testa e accogliere nella sua carne truppe straniere che la proteggano da se stessa, una città costretta ad accettare di farsi salvare a colpi di coprifuoco e restrizioni, siamo in una Roma alla fame, che piange i suoi morti e i suoi palazzi distrutti, e si interroga su un futuro ancora incerto.
In questo sbando totale, non sorprende che i ruoli diventino elastici. Attraverso le pareti sbrecciate, le cuciture che cedono, che si sfilacciano, ecco che Camilla e Ottavia si trovano a essere prima di tutto due donne sole, e poi, solo sullo sfondo, una serva e una padrona.
Pur nella paura del futuro, pur nelle difficoltà, queste due donne, fino ad allora chiuse dentro due vite cucite loro addosso, rigide come gabbie da cui non si può scappare, si trovano tra le mani, quasi loro malgrado, l’occasione unica e irripetibile di essere se stesse.
Non ci sono madri, mariti, o fratelli a controllarle da vicino, nella lotta per la quotidiana sopravvivenza come nelle notte solitarie nella roccaforte del palazzo, non ci sono uomini a imporre, a vietare, a proteggere, a salvare.
Sono sole, sole come si può esserlo quando si è sopravvissuto a una guerra, sole come dopo l’abbandono di tutti, sole come chi non ha più nulla, a parte se stesso, da perdere.
Sole, all’apparenza, finché si innamorano (eh già) di due uomini, due dei “salvatori” americani. Ma sole, mi sembra di poter dire, anche, e dolorosamente, dopo.
Perché, se Camilla e Ottavia sono cresciute, nella consapevolezza di sé, durante questi mesi di solitudine e lotta per la sopravvivenza (materiale e/o spirituale), lo stesso non si può dire degli uomini di questa storia, il giovane Michael che ama Camilla in buona fede, ma, alla fine come un bell’oggetto da possedere e riportarsi in patria intatto, e il colonnello Samuel Kilpatrick, che si concede il diritto di vivere con Ottavia quell’amore totale che il rispetto delle convenzioni gli ha fino ad allora negato, ma senza mai dubitare nel profondo che sarà di nuovo in quella direzione, in quella degli obblighi familiari, che i suoi piedi volgeranno, alla fine della guerra.
Nemmeno il finale (che non svelerò) se pur con un avvicinamento, riesce a sanare la frattura, tra queste donne che lottano per la propria integrità e il proprio diritto a essere se stesse, e questi uomini che non riescono ad amare alla pari, uomini mossi da onesto desiderio, ma anche da ansia di “salvare”, di controllare, di imporre le proprie decisioni.
Il che è indubbiamente coerente con il momento storico. Difficile credere nella possibilità di un vero rivolgimento, è corretto quanto inevitabile il finale “convenzionale” di queste storie. Alla fine, la libertà selvaggia e pericolosa sperimentata in quei giorni lascerà segni profondi, nelle vite dei protagonisti, ma non stravolgerà il paradigma.
Gli uomini continueranno a prendersi la libertà come un diritto sacrosanto, e le donne continueranno ad accettare gli addii, e ad accogliere, e a perdonare.
Eppure, si intuisce che la consapevolezza è diversa: le donne, le sopravvissute, quelle che hanno lavorato nelle fabbriche, quelle che hanno dato da mangiare ai figli quando i mariti erano al fronte, quelle che hanno preservato la propria anima sottraendola alle violenze del corpo, cominciano a mostrare insofferenza, verso quelle figure maschili che vorrebbero tornare a decidere delle loro vite. Ma i tempi, nel 1944, non sono ancora maturi. Forse di questo Laura Costantini e Loredana Falcone ci racconteranno in un prossimo romanzo.
Intanto, quello che resta, dopo la lettura di questo “Roma 1944”, al di là delle vicende individuali e sentimentali dei protagonisti, è l’affresco dolente ma anche vitale (a tratti decisamente divertente) di una città e dei suoi abitanti, sanguigni e beffardi, violenti e disarmanti, acciaccati, ma mai disposti a chinare la testa, ironici anche mentre si svendono, capaci, li si direbbe, di prendere in giro persino la morte.

Acconciarle i capelli in morbidi riccioli era sempre stato il compito di sua madre, fin dalla prima volta, il giorno della Prima Comunione. Sentì le lacrime pungerle gli occhi mentre la nostalgia per Assunta le scavava un dolore sordo nello stomaco, le sembrò quasi di vederla alle sue spalle, riflessa nello specchio della toeletta, con i suoi capelli grigi annodati in una crocchia sulla nuca, la sopravveste bianca quando andava a servizio da donna Matilde, la madre della contessa Ottavia. Le sembrò di sentire la carezza delle sue dita sui capelli e la sua voce che le sussurrava: “Sta’bbona fija mia, nun piagne…ce n’avrai de tempo pe’ disperatte nella vita…”

Sabrina Campolongo

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venerdì, 4 aprile 2008

DUE RACCONTI DA PANCHINA. DORA ALBANESE, GERMANO MILITE

Nuovo post sulla rubrica “Giovani scrittori crescono (selezione under 30)”.

Vi propongo due racconti diversi, ma che si assomigliano.

Gli autori sono Dora Albanese (di cui ho già pubblicato due racconti qui e qui) e Germano Milite (che ha pubblicato altri suoi racconti sulla rubrica Iperspazio creativo).

Due racconti “intimisti” e introspettivi. Due racconti che presentano voci narranti alla ricerca di qualcosa o di qualcuno. Atmosfere diverse, ambientazioni diverse. Ma è proprio la “ricerca” ad accomunare le due storie.

E poi le panchine. In entrambi i racconti troverete panchine dove i protagonisti, a un certo punto, si siedono. Nel racconto di Dora la panchina è di pietra; in quello di Germano – invece – è di marmo.

La duplice comparsa dell’elemento panchina è puramente casuale. Eppure mi sembra che abbia una sua significatività. Per questo ho deciso di intitolare questo post: “Due racconti da panchina.”

Vi invito a leggerli e a commentarli, interagendo con i due giovani autori.

Buona lettura.

Massimo Maugeri

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I LUMI SPENTI DI PIAZZA NAVONA

di Dora Albanese

L’anima mia, uno strumento a corde,

canta toccata dall’invisibile

una canzone di gondoliere,

trepida di colori e beatitudine.

C’era qualcuno forse – ad ascoltarla?…”

Nietzsche, Le poesie

 

“… questa giovinezza tanto vantata

il più delle volte mi appare come un’epoca ancora rozza della nostra esistenza,

un’età opaca e informe,

malsicura e fuggevole .”

Yourcenar, Memorie di Adriano

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Ho camminato a piazza Navona da sola questa sera, stretta nel mio paltò doppiopetto beige. E’ la prima volta dopo tanti anni che torno qui, sola. E’ così cambiata da allora, così buia e vuota, che quasi m’intenerisce lei, invecchiata e stanca e pure ancora calpestata da piedi e da carrozze.

E come il volto di una donna vecchia che getta i trucchi nel gabinetto, rassegnata alla perduta giovinezza, anche lei cessa d’indossare i trucchi che sono i lampioni, e non gli accenderà questa sera e chissà per quante altre sere ancora. Nel cielo volano come brevi fuochi d’artificio le stelline colorate degli ambulanti pachistani, corteggiatori giullari di donne e bambini.

Il mio sguardo come anche la mia memoria, difficilmente sostengono questo cielo romano lasciato spento, indi nero. Il buio anima le mura curve della chiesa, che sembra si inchinino ai piedi di chi passa, indi anche ai miei; e suggestionata piego il capo sul petto, mentre i ricordi mi riempiono gli occhi.

Entra nelle mie narici, come l’avessi ancora al mio fianco, il profumo di tabacco secco della pipa di Giorgio; e il cuore mi duole quando volto la testa e cerco il suo corpo con ancora addosso il paltò doppiopetto beige che adesso riscalda me. Lo cerco disperatamente, credendo ancora alle favole, ma ovviamente non lo trovo e non lo troverò mai più, non vedrò mai più questo paltò addosso a chi condivise con me il suo passeggio, sempre stretto al mio fianco; anche la mia ombra sembra avverta l’assenza di Giorgio: è forse per questo che adesso sul muro si torce.

Un capogiro mi stordisce un istante mentre vengo trascinata dal vorticoso sentimento nostalgico che si prende cura di me ora che sono sola.

Respiro savia il suo ricordo e mi cingo il busto con le mani, come avrebbe fatto lui stringendomi al petto, poi nascondo il mento in gola, e mentre cammino cerco con lievi movimenti oscillatori del capo, di accomodarlo il meglio possibile; come una gallina che si accovaccia nel suo nido: è una danza disperata la mia.

Oh, inconsolabile malinconia che circoli nelle vene come fossi sangue malato, liberami dal peso di questi ricordi che tanto mi lasciano in pena.

L’aria statica sembra ascolti il demone della malinconia che si gioca di me: per questa ragione è ferma di fronte alla mia danza.

Non basterà tutta la vita per accettare la sua scomparsa, non basterà il suo ricordo a consolarmi: lo rivorrei e null’altro poi potrebbe gioirmi.

Rivorrei indietro il suo modo di pronunciarmi al mattino e la sua urgenza di amarmi.

Ludo’ Ludo’ Ludovica, amore mio” ecco, diceva proprio così caro Lettore; con un lieve accento spagnolo ereditato dal padre, chinava le labbra sulle mie, carezzandole dolcemente, e con ancora la bocca impastata dalla notte – non temevamo il confronto, ci amavamo senza freni – la apriva al bacio, e io senza alcun indugio facevo lo stesso, gustando così ognuno il sapore dell’altro.

E certamente con un bacio salutava i miei occhi e con una mano i miei capelli, accomodandoli con le dita dal disordine della notte.

- Quanto l’ho amato – penso mentre mi siedo su una panchina di pietra, e penso pure che questa solitudine mi ammazza ogni giorno più fortemente. Mentre con una mano mi levo dagl’occhi il pianto fatto, con l’altra cerco – frugando nella borsa e scompigliando ogni cosa, com’avendo in corpo la stessa ansietà di un ladro, come fossi estranea delle mie stesse cose – cerco l’accendino e una Cartier, la tiro fuori dalla borsa tenendola già tra l’indice e il medio, poi l’accendo senza portarla alla bocca e subito prende vita: ho così la certezza che l’aria ha ripreso a muoversi.

Avevo quindici anni e una zingara alla stazione Tiburtina, trattenendomi con un sorriso dorato, chiese di potermi leggere la mano; feci finta di niente, ero troppo piccola, non avevo soldi a sufficienza e forse ella mi avrebbe solamente derubata. Non so perché mi ritorna in mente dopo tanti anni, non so perché caro Lettore mi ritorna in mente quel sorriso dorato e quella verità che la mia mano trattiene ancora adesso che la guardo, è come quando si volge lo sguardo al cielo ricordandosi di Dio.

Poco distante da me c’è un’altra panchina resa opaca dall’umidità. Due ragazzi ci si siedono sopra non badando a quel leggero strato di bagnato. Certo, queste accortezze non si hanno a sedici anni, perché è di quell’ età che si tratta caro Lettore, sono i loro zaini che me ne danno conferma: sempre presenti, mai fuori luogo, consumati e scarabocchiati, abbelliti da ciondoli e da sonagli. Si baciano nell’ombra di questa piazza ammalata, con i busti uniti e le gambe incrociate, imitando un amplesso che presto arriverà, magari quando lei sarà diventata maggiorenne. E’ bello pensare che per adesso si stanno solo immaginando nel gesto d’amore; e mentre lei, più piccola e dolce si contenta di essere pensata, lui di qualche anno più maturo, si diverte a fantasticare le labbra della sua giovane amica schiuse al godimento quando per la prima volta lo troveranno dentro.

- Mi piacerebbe avere un po’ del loro tempo.

Un violino e un’armonica suonano accompagnati dalle corde di una chitarra pizzicate come fossero teneri polpacci di fanciulla.

Il ragazzo che le fa vibrare ha la pelle colorata di nero, ed è così bello anche se la notte gli maschera il volto, che resto a guardarlo mentre lui indifferente continua ad amare quella donna-chitarra e a carezzarle il ventre col plettro, non alzando mai lo sguardo.

Lo guardo, provando ad accettare un’altra bellezza maschile, provando a emozionarmi ancora.

Capisco dopo poco che sono gli altri due strumenti – il violino e l’armonica – ad accompagnare le corde della chitarra. Il bel ragazzo suona una musica d’addio e canta graffiando la voce. Il mio corpo… una sensazione strana lo pervade, sarà forse il risveglio di chi abita in me: una dama dell’Ottocento, o forse un principe azzurro rimasto ancora rana.

Ecco, è di tristezza che sto parlando; essa si sveglia e si attorciglia al cuore come una serpe a contatto con la voce rauca del bel ragazzo che canta la sua vita, e che non chiede nulla: né spiccioli né pane, solo la possibilità di rivolgere il suo canto profondo al cielo e agli astri, a qualche messaggero che si nasconde tra le nuvole e che ci guarda, guarda i nostri corpi caro Lettore, banali contenitori del tempo che passa; li osserva mentre vanno avanti e indietro, girano a vuoto sempre alla ricerca dell’altro, magari di un gesto, uno qualunque, il più lontano possibile dalle proprie dimore, dai propri affetti; l’importante è che non li assuefaccia, che non li rimetta rapidamente nello scorrere quotidiano della vita.

La sigaretta finisce e la spengo premendo il filtro bruciato sulla panchina, poi la getto nel cestino verde che mi è accanto. I due ragazzi continuano a baciarsi e a guardarsi, il chitarrista gitano continua a cantare e suonare coi suoi due amici, sicuramente gitani pure loro.

Vorrei accompagnare questa melodia danzando all’aria aperta, senza vergogna; come quando ero bambina e nella terra di Calabria nel mese di agosto, mi divertivo la sera a ballare la musica di certi extracomunitari arabi.

Indossavo sempre una gonna rossa e un bustino a fiori – rossi pure loro – su uno sfondo bianco: risaltava così il mio seno acerbo e mai sfiorato, pronto a offrirsi al primo amore, come quello della ragazza che si bacia sulla panchina di fronte alla mia, e che porta addosso gli anni che portavo io allora.

Ballavo per trasgredire le regole, per far impazzire di rabbia e gelosia i miei genitori, per conquistare i sogni di certi uomini sposati. Adesso però, caro Lettore, ballerei solo per ricordare lui, diventerei una prefica danzante, getterei il pianto ai piedi e li muoverei a ritmo di rumba.

Giorgio era molto più grande di me, e mentre la mia vita stava iniziando ad affrontare la salita – la stessa che tutti, dopo aver compiuto la maggiore età si trovano ad affrontare – la sua iniziava a percorrere una lenta discesa, cosicché col tempo la sua immagine si aggravava maggiormente, perdendo i vivaci contorni maschili di cui mi ero innamorata.

Non avrei mai creduto di dover tornare in questa piazza senza di lui, eppure è successo, sono rimasta sola.

Mi aggiravo per Roma aggrappata al suo braccio, come un cieco aggrappato al suo cane, imparavo a memoria le vie, le strade, le piazze, senza ragionare, non occorreva allora che io ragionassi l’urbanistica romana, avrei camminato sempre con lui, oppure attraverso i ricordi, seguendoli fedelmente.

Mi abituai all’idea di essere in coppia, di apparecchiare per due, di raddoppiare la pasta da bollire, di stirare camicie, di attendere con ansia – sempre la stessa di un cane col suo padrone – la porta aprirsi.

Avrei voluto invecchiare con lui invece che crescere.

I due giovani innamorati stanno andando via, stretti nei loro zaini tenendosi per mano : chissà se li rincontrerò. Adesso che sono passati tanti anni da quando anch’io ero giovane, mi piacerebbe per un attimo voltare le spalle e trovare qualcosa che mi appartenne un tempo, magari un fermaglio colorato o forse degli orecchini, qualcosa insomma che mi colorasse il volto, o forse la prova che il destino lascia traccia di sé, di ciò che è stato.

- Vorrei non aver perso la strada.

Una coppia di turisti è ferma di fronte a una baracca, si fa ritrarre il volto da un’artista ambulante. Sembrano statue di cera i loro volti esposti al colore artificiale di una piccola lampadina giallo scuro attaccata da un filo rosso al tetto del piccolo riparo, e pare un faro in mezzo al mare, con i suoi bagliori sfocati.

I pachistani giullari rimettono a posto i balocchi in una sacca di corda consumata, mentre i bambini ritornano a casa con le loro madri: è l’ora di cena.

Anche le altre piccole baracche di souvenir – che illuminano leggermente la piazza anche loro con delle piccole lampadine – stanno chiudendo. Tolgono dal banchetto il Panteon e il Colosseo, imballandoli scrupolosamente, poi mettono in una sacca di tela i ritratti fatti e li conservano in un camioncino per esporli l’indomani senza neanche una grinza. E’ tutto quello che hanno: volti di stranieri ritratti in pochi secondi.

I musicisti hanno cessato di suonare, bevono una birra seduti sulle scale dell’istituto di cultura Cervantes, proprio di fronte alla mia panchina; a dividerci è solo la strada luccicante di umidità. Continuo a pensare che mi piacerebbe ballare la loro musica gitana, ma non lo faccio e mai più lo rifarò. Non ballerò mai più caro Lettore, ho capito che i ricordi devono rimanere tali, o forse solo delle perdute nostalgie.

Il ragazzo della chitarra, solo adesso sembra si sia accorto di me, indi mi guarda intensamente, come se ne avesse il diritto; e proprio adesso che mi sta guardando, già io non lo vedo più.

Decido di andare via; l’ora si è fatta tarda, e una donna non può sostare a lungo coi propri pensieri all’area aperta; tiro fuori dalla borsa – questa volta senza fatica – un’altra sigaretta, e l’accendo tenendola stretta tra le labbra; saluto la piazza carezzando la panchina fredda, stringo in vita la cinta del paltò e gettando un ultimo sguardo ai lumi spenti, mi incammino con ancora gli occhi pieni di ricordi.

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Dora Albanese è nata a Matera e ha 23 anni. Studia lettere moderne e pubblica racconti su giornali e riviste. Vive a Roma ed è già mamma di un bimbo.

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INFINITO

di Germano Milite

 

 

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Un giorno di circa tre mesi fa, fui colto da un’angoscia indescrivibile. Mi sembrava di impazzire dalla voglia di evasione. Avrei avuto bisogno di un viaggio, lungo e lontano… un viaggio che, come tutti i viaggi spirituali, non sarebbe servito solo per fuggire da qualcosa o da qualcuno ma, anche e soprattutto, per effettuare una ricerca interiore che solo lontano dalle cose che conosci a menadito può riuscirti.

Non avendo però a disposizione abbastanza soldi, dovetti accontentarmi di qualcosa di molto più banale. Presi l’auto e i miei risparmi e mi fiondai in un negozio di articoli sportivi… con 80 euro acquistai un bel paio di pattini in linea. Quel giorno pioveva ma non mi scoraggiai: li misi ai piedi e pattinai per circa due ore, senza avere idea di dove andare e senza curarmi della pioggia che in breve mi aveva infradiciato i vestiti, né degli sguardi un po’ straniti delle persone o del fatto che potessi prendermi una polmonite.

La prima cosa che potreste pensare è: vabè, bravo il pirla; alla fine volevi riprodurre la classica scena da film dove lui, solo e con il cuore a pezzi, se ne va passeggiando sotto la pioggia impietosa. Immagine trita e ritrita, utilizzata in migliaia di romanzi e di pellicole che parlano di storie d’amore finite male. Ammetto che, all’epoca, avevo l’animo straziato da una lei, la classica lei che ferisce i tuoi sentimenti, che ti abbandona e che ti dice, fredda come il ghiaccio, dopo aver condiviso con te un oceano di emozioni: “Mi dispiace, non ti amo più”. Tuttavia, quella mia pattinata “under the rain”, non rappresentò un modo per rendere cinematograficamente scontata la pena d’amore di un ragazzo sentimentale e ancora innamorato.

Quel gesto servì a farmi sentire libero; libero dal tempo, dall’ombrello, dal giorno e dalla notte, dalle prediche dei miei, dai consigli degli amici, dagli esami all’università e dalla voglia di non prendermi la polmonite. Quell’episodio, rappresentò l’appagamento del mio bisogno di tensione verso l’infinito. Ero arrivato a sentirmi così schiacciato dalle dimensioni spazio-temporali, da aver bisogno di spaccarle e di illudermi, almeno per un po’, che non esistessero.

Pensavo agli orologi, ai calendari, alle batterie che si scaricavano, ai pacchetti di gomme che finivano, al serbatoio della mia moto che si svuotava, alle date degli esami che si avvicinavano, al ciclo lunare, al petrolio che si stava esaurendo; persino all’aria che respiravo e mi sentivo così schiavo del tempo, delle cose che finivano e della vita stessa che mi sembrava sul serio di andar fuori di testa. Del resto il tempo nessuno lo può fermare, il tempo passa dall’inizio dei tempi… e allora?! Perché, all’improvviso, vedevo me e il mondo così schiavi delle scadenze?!

In particolare mi angosciavano le batterie che si scaricavano e il continuo bisogno di ricaricarle; il ciclo infinito carica/scarica mi inquietava in maniera indicibile. La batteria del cellulare si esauriva in un giorno, quella del mio lettore mp3 durava al massimo 2 ore; per non parlare di quella della macchina fotografica digitale… e poi quella dello spazzolino elettrico, del cordless. Io stesso, mi sentivo come una batteria e avevo l’impressione che il mondo mi stesse consumando, o meglio, scaricando.

Solo che, una volta finita la mia carica, non potevo attaccarmi a nessun trasformatore e ricominciare da zero…una volta finita l’energia sarei stato out, per sempre. E avrei voluto urlare ai passanti: “Fermatevi; fermatevi cazzo… risparmiate energie, sentite la pioggia, sedevi e non correte, godetevi il mondo, imparate a sentirlo; a viverlo e non a consumarlo”. Ma chi avrebbe dato retta ad un disperato bagnato fino al midollo con un paio di pattini ai piedi?! Non mi restava che godermi la pioggia, donandole i miei vestiti, la mia testa fradicia e tutto il mio corpo come luoghi di schianto. Sentivo di dover essere solidale con lei, visto che, i miei simili, facevano di tutto per scansarla. In effetti, da quando avevo smesso di girovagare e mi ero seduto su di una panchina di marmo, non facevo altro che pensare a quanto dovessero sentirsi sole le gocce d’acqua che scendono dal cielo: scaricate dalle nuvole ed evitate dagli esseri umani… nemmeno fossero schizzi di acido muriatico.

Così chiusi gli occhi, per sentire solo il rumore dell’acqua che veniva giù dall’alto, sempre più vogliosa di inondarmi di scrosciante affetto e mi parve, per qualche istante, di riuscire ad afferrare l’infinito e di avere davanti a me altri mille anni da vivere, confortato dalle lacrime del cielo e con il passo alleggerito dalle rotelle di un paio di pattini.

Su quella panchina, d’un tratto, il mondo mi sembrò incredibilmente semplice, elementare e insieme inspiegabile, proprio come il senso di infinito di cui avevo bisogno e che mi colpì, sparato da nuvole nere le quali, di solito, mi spingevano a ripararmi. Stille di infinito mi colpivano di continuo, senza sosta e mi ricaricavano. Poi aprii gli occhi e rividi il mondo così com’era: uomini con gli sguardi spenti nelle auto, donne che tiravano sfinite i loro pargoli urlanti, una coppia di amanti che si baciava, sotto un portone e io che, all’improvviso, mi sentivo un povero matto schiavo dei suoi viaggi onirici. L’auto era lontana dal punto in cui mi ero fermato e, la cosa, adesso, mi preoccupava non poco. Mi sentivo i piedi stanchi e il freddo dei vestiti bagnati sulla pelle; poi guardai l’orologio e, in quel preciso momento, realizzai che ero tornato nel mondo reale, nel mondo finito… nel mondo dove, chi resta immobile su di una panchina a prendersi la pioggia, si prende anche una polmonite e in cui, chi non guarda costantemente l’orologio, arriva in ritardo.

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Germano Milite ha 21 anni e studia Scienze Politiche Dell’Amministrazione. Lavora come giornalista praticante per la Julichannel (canale 921 di Sky) e scrive articoli sul sito di redazione. Gestisce un blog.

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venerdì, 4 aprile 2008

LA CAMERA ACCANTO 3° appuntamento

Il titolo di questo post non si riferisce a un romanzo erotico o a un film spinto.

La camera accanto è la stanza, per l’appunto, posta di fianco a quella ufficiale (letteratitudine).

Se letteratitudine è una sorta di caffè letterario virtuale, la camera accanto è un luogo dove si possono affrontare argomenti di diverso genere. Si può parlare di letteratura – certo -, di libri; ma anche di cinema, sport, televisione, politica, gossip, ecc.

Insomma, si può parlare di tutto ciò che volete. Ciascuno di voi può sentirsi libero di avviare un dibattito o, più semplicemente, scambiare quattro chiacchiere.

Anche qui, però, vige la nota avvertenza (colonna di sinistra del blog); per cui vi chiedo di rispettare persone e opinioni. Vi chiedo, inoltre, la cortesia di evitare litigi e toni eccessivamente scurrili.

(Massimo Maugeri)

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mercoledì, 2 aprile 2008

È PICCOLA LA LETTERATURA DELLA GRANDE RETE? LA LETTERATURA DOPO LA RIVOLUZIONE DIGITALE

Nelle scorse settimane è sorto un grande dibattito intorno al saggio di Arturo MazzarellaLa grande rete della scrittura. La letteratura dopo la rivoluzione digitale” (Bollati Boringhieri, 2008, pagg. 128, € 15). Mazzarella insegna Letterature comparate nell’Università Roma Tre e si è a lungo occupato di vari temi riguardanti la letteratura e l’estetica otto-novecentesca. Tra le sue pubblicazioni più recenti va ricordata La potenza del falso. Illusione, favola e sogno nella modernità letteraria (Donzelli, Roma 2004).

Di cosa si occupa il saggio di Mazzarella?Mi affido a un estratto della scheda del libro, giusto per fornirvi un’idea.

Secondo Mazzarella “la contrapposizione sempre più marcata tra vecchi e nuovi media è un luogo comune che, dopo la definitiva affermazione della rivoluzione digitale, appartiene ormai al patrimonio delle certezze collettive. L’espansione della virtualità prodotta dai nuovi media sembra relegare tra le reliquie del passato quelle pratiche comunicative, come la letteratura, attraverso le quali la civiltà occidentale ha scandito il suo progresso. Ma è un’impressione di superficie. Considerata fuori dalla retorica che ancora l’avvolge in numerose sedi istituzionali, sgombrata da ipoteche etico-pedagogiche o estetiche, proprio la scrittura letteraria rivela oggi una insospettabile contiguità con l’universo dei media elettronici, mostrando il suo originario, costitutivo, carattere virtuale. È quanto esibiscono senza falsi pudori alcune tra le esperienze letterarie più vitali e innovative dell’ultimo ventennio: da Calvino, Celati e Tondelli a Kundera, Ballard, DeLillo, Ellis, Marias, Amis e Houellebecq. Grazie a loro gli incroci che si vengono a stabilire tra la letteratura e la videoarte, o il cinema digitale, i videogame e i videoclip diventano tutt’altro che uno scenario avveniristico”.

Credo che la tesi di Mazzarella si evinca già piuttosto chiaramente dalla breve scheda che vi ho proposto.

Vi accennavo al dibattito. Sì, perché questo libro ha già fatto parlare di sé sulle pagine dei più illustri quotidiani: dal Corriere della Sera a La Stampa.

Partiamo da La Stampa che ha pubblicato in contemporanea (il 17 gennaio) due articoli correlati firmati da Marco Belpoliti e Mario Baudino.

Baudino sostiene che “Tutto cominciò negli Ottanta, quando Pier Vittorio Tondelli, giovane maestro per almeno due generazioni di scrittori italiani, ripeteva di sentirsi più debitore verso la musica rock che verso i libri. O forse prima, secondo Filippo La Porta. Il critico che ha appena licenziato, fra grandi discussioni, il suo Dizionario della critica militante scritto per Bompiani con Giuseppe Leonelli, ricorda una battuta di Wim Wenders, regista da lui molto amato: «Devo tutto al rock». Vennero poi i Cannibali, e si disse che i loro territori di partenza erano le giungle della cultura pop, dei fumetti, del cinema d’azione, anche se poi avevano un retroterra letterario. Pare che la mamma di Niccolò Ammaniti, ad esempio, gli facesse leggere Cechov in dosi massicce. E ora? Ora un narratore come Pietro Grossi confessa a Ttl, di dovere ai «librogame» la sua passione per la letteratura, perché leggere è sempre stata una fatica, «lo scotto da pagare per tentare di riuscire a scrivere qualcosa di decente». Alfonso Berardinelli, in Casi critici (Quodlibet) celebra la fine del postmoderno e annuncia, riprendendo un saggio del ‘97, l’Età della Mutazione, quella in cui, «dopo aver diffidato per circa un secolo della comunicazione», la letteratura vorrebbe oggi «essere comunicazione di cose già comunicate». È lo scenario in cui stanno Grossi e i suoi coetanei? Coloro che addobbarono i predecessori con ossa umane, e cioè il duo Severino Cesari-Paolo Repetti, inventori di Einaudi-Stile Libero, non sono d’accordo. «All’inizio degli anni Novanta cominciammo a leggere testi – dicono – dove le merci e la cultura popolare costituivano l’enciclopedia di riferimento». Con una differenza, però: «La lezione dei classici, in autori come Ammaniti, Nove, Scarpa o Simona Vinci, era ben presente. Forse era sparita la gerarchi dei valori. Ma l’idea del giovane scrittore che arriva dai fumetti è spesso caricaturale». (…) Il romanzo, aggiunge Berardinelli, non è mai stato, del resto, «un genere intellettuale. Il suo terreno è il senso comune di un’epoca. Se quello attuale è fondato sulla cultura di massa e sulle subculture giovanili, si parte di lì». Non è una novità, non è neanche una «mutazione». «Esistono due tipi di senso comune: quello sentimentale dei più adulti, e quello dei monellacci sado-maso. Due nomi: Sandro Veronesi per la prima categoria, Tiziano Scarpa per la seconda, o almeno lo Scarpa degli esordi. Lo scopo è analogo: acchiappare una fetta di lettori “nuovi” in contatto con la realtà attuale». Questo, aggiunge, se ragioniamo in generale. Se invece guardiamo al risultato, cominciano i guai.
«Nella mescolanza tra alto e basso, credo che conti il clima morale del Paese. E allora penso che gli autori Usa siano messi meglio perché lì le cose avvengono sul serio; i nostri meno, perché qui tutto è di riporto». Eccola, la mutazione. «Prima c’era un super-io culturale, la società letteraria. Ora non c’è più, tant’è vero che la critica non conta nulla ed è pure detestata».”

Belpoliti cita McLuhan, il quale nel 1964 scrisse “che uno dei fenomeni più significativi dell’età elettrica consiste nel creare una rete globale che somiglia al nostro stesso sistema nervoso, «il quale non è soltanto una rete elettrica ma un campo unificato di esperienza». La profezia non tarda ad avverarsi. Ben prima della comparsa del computer, prima di Internet e dei nuovi media, a indicare come la rete dei possibili e l’esperienza possano coniugarsi positivamente provvede la letteratura. Nel ‘67 esce Cibernetica e fantasmi di Italo Calvino, vero e proprio manifesto della nuova letteratura; tuttavia ad accorgersene sono in pochi. Su questa strada, che coniuga comunicazione e letteratura, moltiplicazione del punto di vista e virtualità, si sono già mossi Beckett e Borges, seppur con esiti diversi e persino opposti. E, prima di loro, Henry James ha messo a punto alcune delle svolte decisive del Novecento. Sono passati quarant’anni, ma gran parte di coloro che si occupano professionalmente di letteratura in Italia, sulle pagine dei quotidiani, nelle case editrici, nelle università e altre istituzioni culturali, non sembrano essersene accorti. A suonare di nuovo il campanello, ad avvisare della trasformazione provvede Arturo Mazzarella, studioso di letterature comparate, in un piccolo e appuntito libro: La grande rete della scrittura. La letteratura dopo la rivoluzione digitale (Bollati Boringhieri, pagg. 128, €15). Secondo l’autore, per orgoglio di casta personaggi come Franco Fortini e Pietro Citati hanno continuato a riconfermare il paradigma incontrastato del sapere umanistico, anche quando appariva ormai privo di rilevanza. Sostenitori della letteratura come unico viatico di conoscenza piena e assoluta appaiono, a detta di Mazzarella, Asor Rosa, Giulio Ferroni, Claudio Magris, George Steiner, Marc Fumaroli, vestali di un’idea di «Belle lettere» tramontata da un pezzo. Mentre scrittori come Kundera e DeLillo, dopo Calvino e Borges, e poi Martin Amis, Houellebecq – ma anche Manganelli, Landolfi, Volponi e Gianni Celati – hanno dimostrato la fine dell’unico punto di vista, la dissoluzione della visione cartesiana, evidenziando nel contempo la porosità del reale e l’idea del caos non come disordine, bensì velocità di scorrimento del reale stesso, le istituzioni letterarie continuano a perpetuare un’idea conservatrice, se non proprio reazionaria. Usando Deleuze e Pierre Levy, sostenitori di una visione progressiva del virtuale («la virtualizzazione non è una derealizzazione, ma un cambiamento di identità»), Mazzarella scrive che la letteratura che non indaga tanto la realtà, quanto l’esistenza. Già Barthes nel 1970 parlava del testo come rete, luogo dalle molteplici entrate, senza gerarchie prefissate, in cui i codici si profilano «a perdita d’occhio». Il punto essenziale del libro consiste nel coniugare insieme letteratura e mondo visivo. Non necessariamente l’arte d’avanguardia – ormai annessa nel tempio della cultura, a cent’anni dal debutto – quanto piuttosto il «visivo» reputato di serie B: videogiochi, videoclip, l’arte mediale in Internet e nel web. La letteratura, fondata sulla lettura, sull’occhio, ha predisposto i tracciati su cui si è sviluppata l’idea contemporanea di visione, al di là degli stessi confini del libro. La proposta di Mazzarella è di riconfigurare l’interrelazione tra vecchi e nuovi media, come ci ha proposto Bolter in un volume cui nessun quotidiano, o pagina culturale italiana, sembra aver dato il peso che merita al momento della sua pubblicazione: Remeditation.
Per nostra fortuna, questa ibridazione di visivo e scritto, di letteratura e nuovi media, è entrata nelle pratiche di alcuni dei saggisti e critici più giovani. Non tutto è perso”.

- – -

Cosa succede dopo?

Succede che Giorgio De Rienzo, legittimamente, sulle pagine de Il Corriere della Sera di sabato 19 gennaio 2008 interviene manifestando perplessità sul libro di Mazzarella e sul sostegno ricevuto da La Stampa attraverso gli articoli di Belpoliti e Baudino.-Vi riporto l’articolo di De Rienzo:

“Fa discutere il saggio di Arturo Mazzarella sulla letteratura dopo la rivoluzione digitale secondo il quale una serie di scrittori – Fortini e Magris tra gli altri – continuano a coltivare un’idea della scrittura letteraria, germinata dalla lettura di altri libri, come un viatico della conoscenza. Mentre altri indicano una via diversa in cui letteratura e comunicazione si toccano nella descrizione del caos non come disordine, ma come velocità di scorrimento del reale. Discorso complicato, la cui sostanza è questa: è in atto un mutamento che non si può arrestare, perché il trasformarsi della comunicazione emarginerà la letteratura che preferisce restare chiusa in sé.La Stampa, con servizi di Belpoliti e Baudino, in una rassegna svelta ricorda che Tondelli (maestro di almeno due generazioni di scrittori) dichiarò di “sentirsi più debitore verso la musica rock che verso i libri”. Poi mette in campo la provocazione forte di Pietro Grossi, che confessa di dovere al “libro-game la propria passione per la letteratura, perché leggere libri è stata sempre una fatica”. A spremerne il sugo, nei nuovi scrittori c’è una tendenza in cui la cultura popolare, fatta di canzoni pop e blog, diventa una sorta di enciclopedia di riferimento. Stando ai fatti ci capita oggi di leggere scritti rumorosi di giovani emergenti, che eliminano il silenzio e la lentezza della vecchia letteratura. Confesso: mi sento irrimediabilmente passatista e reazionario. Credo che silenzio e lentezza con cui si scrivono (e leggono) i libri siano beni da salvare, per una sorta di ecologia dell’anima: perché nell’allontanamento dal rumore e dalla velocità ci è rimasta l’unica possibilità di crescere e pensare».

- – -

Il contrappunto di De Rienzo non passa inosservato e, pochi giorni dopo, viene ripreso da Nico Orengo sulla rubrica Fulmini di Tuttolibri del 26 gennaio.

Scrive Orengo: “Melanconico De Rienzo sul «Corriere», incupito dalle tesi di Arturo Mazzarella nel saggio «La grande rete della scrittura». Letteratura addio, non si fa nuova narrazione con la scrittura degli scrittori ma con quella pop, di rete, di blog, di libri-game e canzoni. Ma no, son sempre i vecchi, immutabili sentimenti a guidare la scrittura, che può e anzi deve essere meticciata con talento. Il «canone» non è rigido, altrimenti la letteratura sarebbe morta da tempo. Ogni tanto invece si ripresenta il gioco degli Apocalittici e integrati.”

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Bene vi ho riportato i termini della “questio”.

Vi invito a rifletterci un po’ su e a intervenire provando a rispondere a questa domanda un po’ provocatoria: è piccola la letteratura della Grande Rete?

scrittura-rete.jpg

E poi, per favorire la discussione, ecco altre domande:

- Ha ragione Mazzarella nel sostenere che la contrapposizione sempre più marcata tra vecchi e nuovi media è un luogo comune che, dopo la definitiva affermazione della rivoluzione digitale, appartiene ormai al patrimonio delle certezze collettive?

- Ha ragione Berardinelli quando sostiene che “prima c’era un super-io culturale, la società letteraria. Ora non c’è più”?

- Siete d’accordo con Belpoliti quando considera che per fortuna, questa ibridazione di visivo e scritto, di letteratura e nuovi media, è entrata nelle pratiche di alcuni dei saggisti e critici più giovani?

- Oppure ha ragione De Rienzo nel sostenere che silenzio e lentezza con cui si scrivono (e leggono) i libri siano beni da salvare, per una sorta di ecologia dell’anima: perché nell’allontanamento dal rumore e dalla velocità ci è rimasta l’unica possibilità di crescere e pensare?

- E cosa pensate della tesi di Orengo, in base alla quale son sempre i vecchi, immutabili sentimenti a guidare la scrittura, che può e anzi deve essere meticciata con talento? (Ovvero: il «canone» non è rigido, altrimenti la letteratura sarebbe morta da tempo)?

A voi.

Massimo Maugeri

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RATPUS va in scena ratpus

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