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Archivio della Categoria 'LETTERATURA È DIRITTO... È VITA (a cura di Simona Lo Iacono)'

lunedì, 19 luglio 2021

PER PAOLO BORSELLINO

BorsellinoIN MEMORIA DI PAOLO BORSELLINO

Il 19 luglio del 1992, moriva Paolo Borsellino. Dopo aver pranzato a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia, si era recato insieme alla sua scorta in via D’Amelio, dove viveva sua madre.

Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell’abitazione, con circa 100 kg di esplosivo a bordo, deflagrò al passaggio del giudice, uccidendo anche i cinque agenti di scorta Emanuela Loi (prima donna della Polizia di Stato caduta in servizio), Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L’unico sopravvissuto fu Antonino Vullo, ferito mentre parcheggiava uno dei veicoli della scorta.

In memoria e onore di Paolo Borsellino – eroe italiano e vittima della mafia – dedichiamo questo spazio di Letteratitudine, rimettendo in primo piano questo post pubblicato originariamente nel 2010 e dedicato alla sua figura.

All’interno del post, in cui ragionavamo anche sul senso e sul valore della memoria, c’è un bel racconto della scrittrice e magistrato Simona Lo Iacono.

Massimo Maugeri

(continua…)

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sabato, 4 maggio 2019

SCRIVI IL TUO SOGNO

La nuova puntata della rubrica “Letteratura è diritto, letteratura è vita” a cura di Simona Lo Iacono: un progetto “da sogno” nel carcere minorile di Bicocca

* * *

di Simona Lo Iacono

Sembrava l’ultimo giorno di prove. Avevo radunato gli abiti di scena, avevo recitato per l’ultima volta la mia parte accanto a loro. Salutandoli, mi sentivo triste.
I sei detenuti del carcere minorile di Bicocca erano stati bravi.
Avevano indossato il pigiama a righe del detenuto, la toga dell’avvocato, la divisa della guardia. Tra sobbalzi di ilarità e qualche confidenza, avevano inscenato con me  “I civitoti in pretura” di Nino Martoglio.
La recita faceva parte del mio progetto “A partire dalle parole”. E’ dalle parole infatti, che costruiamo noi stessi, le nostre scelte, il nostro destino. E “I civitoti in pretura” era proprio una commedia sull’importanza del linguaggio.
Sembrava calare il sipario,  dunque. Il momento dei saluti pareva arrivato.
Rientrando a casa, i loro volti sbucavano dal  tergicristalli che lavava ritmicamente la pioggia del cruscotto. Ognuno di loro aveva speranze, progetti, potenzialità nascoste e talenti da mettere a frutto. Ognuno di loro viveva la reclusione con la sofferenza di chi è separato dal mondo in una fase della vita – la giovinezza – in cui tutto ti invoca, in cui tutto implora il tuo nome.
Fu così che mi venne l’idea.
Scrivere i propri sogni. Metterli sulla carta, leggerli e scrutarli come se iniziassero a sbocciare dalla penna. Dirli e, per questo, farli esistere, immetterli nella realtà con il fiato, con il dolore, con la voglia di essere liberi.
E proposi alla casa di reclusione un altro piccolo progetto… “Scrivi il tuo sogno”. I sei detenuti erano invitati a sognare, e a scrivere il proprio sogno. Ed era quasi Pasqua. (continua…)

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venerdì, 6 aprile 2018

NATI DENTRO di Simona Lo Iacono

Proponiamo una nuova puntata della rubrica “Letteratura è diritto, letteratura è vita“, pubblicando un breve racconto inedito della scrittrice e magistrato Simona Lo Iacono (curatrice della rubrica) intitolato “Nati dentro“. Un racconto struggente che riguarda la tematica delle madri detenute e dei bimbi costretti a vivere in carcere.

Segue un approfondimento giuridico.

Ne approfittiamo per segnalare questa puntata radiofonica di Letteratitudine perfettamente in tema (e disponibile per l’ascolto), dove Rosella Postorino – in conversazione con Massimo Maugeri – parla del suo romanzo “Un corpo docile” (Einaudi Stile Libero)

* * *

NATI DENTRO

di Simona Lo Iacono

Immagine correlataIl primo rumore a cui hai dato un nome è stato quello del cancello della sezione 22. Un clangore ferroso, lontano, che per anni è stato il suono dell’ora in cui andare a letto. Ogni sera alle 18, dopo la cena e dopo l’ultimo giro d’ispezione. Le luci si smorzano fino a spegnersi del tutto. Le chiavi tintinnano nel buio.
Non ti è mai sembrato un carcere. Né sapevi cosa fosse, fino a che, molti anni più tardi, non te lo hanno detto. Per te era lo spazio concesso, il ritmo del giorno. Niente più che la vita che ti era stata data.
D’altra parte sei nato qui, tua madre è entrata due mesi prima del parto.
Quando sei venuto alla luce eri già detenuto, anche se nessuna sentenza aveva mai decretato la tua condanna.

Ora che cresci in una sola stanza non sai che il mondo è più grande. Misuri le emozioni sui due metri per tre che ti è dato fare dalla mattina alla sera. Non hai termini di paragone e pensi che la scoperta delle cose sia osservare le ombre che fuoriescono dalla tenda. Smontare la caffettiera che si scalda sul fornelletto. Dire alle folate di vento settembrino che ti portino in alto, tra le nuvole di quello spicchio di cielo che ti sovrasta. (continua…)

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giovedì, 21 dicembre 2017

DIRITTO E LETTERATURA: una Lectio Magistralis di Simona Lo Iacono

Proponiamo una nuova puntata della storica rubrica di Letteratitudine curata da Simona Lo Iacono, intitolata “Letteratura è diritto, letteratura è vita“, pubblicando un video incentrato su alcuni passaggi della Lectio Magistralis tenuta dalla stessa Simona sul tema “Diritto e letteratura“. La lezione si è svolta il 19 dicembre 2017 presso la Scuola Superiore dell’Università di Catania all’interno del “Laboratorio di diritto” (con l’ausilio delle interpretazioni recitative di Giuseppe Orto, attore e docente dell’Istituto Nazionale del dramma antico).

Simona Lo Iacono – come lei stessa ha raccontato nel corso della lectio – indaga il rapporto tra letteratura e diritto facendo riferimento a quattro relazioni, o funzioni, fondamentali; quattro “declinazioni” che si combinano tra di loro: una funzione maieutica, una funzione rivelativa, una funzione rammemorativa, una funzione metaforica. Nel video riportiamo, in particolare, i riferimenti alla funzione maieutica e alla funzione metaforica (oltre a vari spunti e riflessioni di estremo interesse).

Una Lectio Magistralis appassionata e appassionante incentrata sulla ricerca della verità e della giustizia, sul rapporto tra parola e norma, sulla metafora del processo nascosto. Il tutto partendo dai due presupposti fondamentali. Il primo è che alla base di questa ricerca deve esserci la necessità di puntare al raggiungimento della “nostra pienezza di esseri umani”. Il secondo è che “la verità della giustizia va indagata tra gli ultimi, tra i più fragili”.

Auguro di vero cuore a Simona Lo Iacono di proseguire in questa importantissima attività di ricerca, condivisione e insegnamento che può dare un significativo contributo alla formazione degli studenti universitari interessati alle tematiche attinenti al diritto e alla letteratura (e non solo).

Buona visione e buon ascolto!

Massimo Maugeri


(continua…)

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lunedì, 8 settembre 2014

MORTE DI UN UOMO FELICE, di Giorgio Fontana (intervista all’autore)

MORTE DI UN UOMO FELICEMorte di un uomo felice, di Giorgio Fontana (Sellerio, 2014)

Nell’ambito della sezione “Letteratura è diritto, letteratura è vita” pubblichiamo “Morte di un uomo felice. Intervista a Giorgio Fontana”.

di Simona Lo Iacono

C’è un rapporto, viscerale e sempre sanguinante, tra giustizia e letteratura.
Sin dall’antichità, l’uomo si è interrogato, ha consultato Pizie e Dèi parlanti, ha cercato nel volo degli uccelli segnali profetici, per poi comprendere che le risposte risiedono dentro di noi.
Né questa ricerca è mai stata solo giuridica, o si è potuta risolvere unicamente nella codificazione. Ma ha avuto la necessità di addentrarsi nel cuore delle storie. E di raccontare non solo l’amore per la giustizia, ma anche il dolore della sua perdita.
Solo le storie, infatti, fanno affondare i concetti nel cuore, nel fango, nella caduta e nella resurrezione. E nell’uomo. Nelle piaghe dei suoi errori, nella struggente ansia di trovarsi.
Così, non dobbiamo solo ai giuristi la conquista della coscienza e della pietà umana, ma ad una donna, Antigone, narrata da parole e versi, urlata nei teatri e negli anfiteatri del mondo.
Né possiamo imputare l’evoluzione della civiltà alla sola codificazione, ma ad un coro di romanzieri e personaggi letterari, che a buon diritto possono dirsi coautori della costruzione di un ideale di bene comune.
Dunque, ricerca della giustizia e senso delle storie sono sorelle. E sono sorelle perchè complici della medesima segreta afflizione: trovare un significato, dare fondamento al mistero dell’esistenza.
Questo intreccio segretissimo e intimo, pare affiorare con potenza nell’ultimo romanzo di Giorgio Fontana, “Morte di un uomo felice” (Sellerio).
Giacomo Colnaghi è magistrato, e come tale è uomo di diritto e di giustizia.
In una Milano degli anni ottanta inquieta e già ossessionata dai vizi capitali del secolo (ricerca del potere, corruzione, caduta degli ideali della storia passata), cerca.
In apparenza è solo sulle tracce di una banda armata, responsabile della morte di un politico.
Ma la sua ricerca è molto più lacerante e antica.
Figlio di Ernesto, un partigiano che è morto durante un’azione, e che ha sconvolto la famiglia con la sua ribellione, Colnaghi è afflitto da domande sul senso della vita e della morte, sulla vera dimensione del bene e del male, sull’esistenza in un Dio nel quale crede ma a cui non riesce a tenere nascosti i suoi dubbi.
E’ lacerato, Colnaghi, è intuitivo, è – soprattutto – un uomo del suo tempo, ma con alle spalle l’esperienza eroica di un padre che – contro tutti, contro tutto – ha lasciato la vita per rincorrere un ideale.
Colnaghi non cerca dunque solo risposte giudiziarie. O meglio. Le piste investigative sono le tracce di un’altra ricerca, quella di un mondo spaesato, irriverente, dolentissimo, che gradualmente perde senso del mistero e del pudore, infliggendo all’Italia (quell’Italia che suo padre aveva fondato sulla riconquista della dimensione ideale) un destino da figlia perduta cui solo la compassione può salvare l’anima.
Il tempo di Colmaghi, allora, è il tempo di questa pietà che – come quella di Antigone – non si rassegna alla sola normatività, ma fa appello al valore del sangue versato, del sogno, della conquista di una giustizia che non è solo risposta a un reato, ma vocazione intima, troppo spesso profanata, dell’animo umano.
Vita e giustizia si aggrovigliano, rimandano l’una all’altra e si completano febbrilmente e drammaticamente, quasi a suggerire che scegliere l’una senza l’altra equivale a morire, mentre la morte vera (finanche quella sperimentata da un partigiano contro il volere della sua famiglia) non è morte, ma vita, se c’è significato, motivo della ricerca.
Allora, la fine di chi compie un simile viaggio, non è inutile.
E’, piuttosto, la morte di un uomo felice.

Chiedo dunque a Giorgio Fontana di parlarci dell’importanza di questa ricerca. E di quanto, in essa, conti ripercorrere le strade passate, dare valore alla morte di chi ci ha preceduto.

- In quest’ottica, qual è il significato del rapporto tra padre e figlio, nel romanzo? (continua…)

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lunedì, 25 giugno 2012

LA SESTA STAGIONE. Incontro con Carlo Pedini

carlo-pedini-cavallo-di-ferroSono molto lieto di organizzare questo dibattito online incentrato sul romanzo di Carlo Pedini, “La sesta stagione” (Cavallo di Ferro): uno dei dodici libri finalisti dell’edizione 2012 del Premio Strega.

Si tratta di un romanzo corposo, ambizioso, a largo respiro, che racconta le vicende di tanti personaggi sullo sfondo della Storia italiana del ventesimo secolo.

Lo recensisce, in esclusiva per  Letteratitudine, Simona Lo Iacono, la quale è anche l’organizzatrice e la curatrice di un’iniziativa culturale che avrà luogo a Siracusa il 30 giugno, intitolata “Parole sotto le stelle: tra pittura, musica e sogni”…

Un evento basato sulla contaminazione artistica che vedrà come protagonisti (tra parole, pittura, musiche e sogni) lo stesso Carlo Pedini con “La sesta stagione” e la scrittrice (nonché editrice di Cavallo di Ferro) Romana Petri con il suo romanzo “Tutta la vita” edito da Longanesi (ho già avuto modo di incontrare Romana Petri, in merito a questo libro, nell’ambito della puntata radiofonica di “Letteratitudine in Fm” andata in onda il 15 aprile 2011).

Di seguito, il video promozionale di “Parole sotto le stelle”.

Questa, invece, è la scheda del libro di Pedini…

È il 1934. A Civita Turrita, sull’Appennino toscano, si inaugura con solennità il nuovo santuario, e proprio nel momento di massimo fulgore di questo paese inizia la storia della sua decadenza. Nelle vicende profondamente umane dei tre seminaristi Piero, Ottavio e Oreste, e dei loro superiori, amici, avversari, irrompono gli eventi principali del nostro Novecento, dalla Seconda guerra mondiale al Sessantotto, e oltre fino agli Anni di piombo. Don Piero Menardi racconta dei suoi due colleghi, prima amici inseparabili e poi nemici giurati; dell’infatuazione politica del suo vescovo per il Duce; della guerra che spezza i destini e distrugge le famiglie; di partigiani e delatori; della contesa perenne fra democristiani e comunisti nel dopoguerra; di chi si perde nelle lotte studentesche; di preti ribelli che rifiutano l’abito. Nella vita della piccola comunità di Civita Turrita si rispecchiano dunque i mutamenti della Nazione, in una parabola di cinquant’anni dove tutti religiosi e laici – subiscono l’incedere della modernità. E fra i grandi giochi di potere si rivelano le debolezze di una Chiesa che fatica a tenere il passo con un’epoca sempre più veloce. “La sesta stagione” intreccia tanti destini sullo sfondo della Storia d’Italia del XX secolo, stratificando i documenti e i fatti reali alle radici del tempo presente.

Siete tutti invitati a partecipare alla discussione, incentrata su “La sesta stagione” e sui temi attinenti al romanzo (in primis: la Storia).
Ecco alcune domande pensate insieme a Simona Lo Iacono (che mi aiuterà ad animare il dibattito).

1. Le stagioni della vita e le stagioni della storia. Quanto interferiscono?

2. Elsa Morante definiva la Storia “il grande scandalo”. Siete d’accordo?

3. Siamo più vittime o artefici della storia?

4. Se siamo arrivati alla quinta stagione…. cosa ci riserverà, a vostro avviso, la sesta?

Di seguito, la recensione di Simona Lo Iacono.
Vi ringrazio in anticipo per la partecipazione.

Massimo Maugeri
(continua…)

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lunedì, 14 maggio 2012

LA SPOSA VERMIGLIA. Incontro con Tea Ranno

tea-ranno-la-sposa-vermiglia1Sono molto felice di coinvolgere, in un nuovo spazio/dibattito di Letteratitudine, la mia amica scrittrice Tea Ranno in occasione della pubblicazione del suo nuovo romanzo “La sposa vermiglia” (Mondadori).
Peraltro ho già avuto modo di discutere di questo libro, con la stessa autrice, nella puntata di Letteratitudine in Fm del 23 marzo scorso.
In questo post, invece, con la partecipazione della stessa Tea, avremo modo di approfondire la conoscenza di questo suo nuovo ottimo romanzo (che ha già beneficiato di riscontri molto positivi) e di approfondire le tematiche da esso affrontate.
Per l’occorrenza ho chiesto a Simona Lo Iacono, già coinvolta nel dibattito sul precedente romanzo di Tea – In una lingua che non so più dire – del novembre 2007, di scrivere un’apposita recensione per questo post (“extrapost”, ne approfitto per complimentarmi con Simona per la bella intervista rilasciata su Psychologies di questo mese).

Ecco la scheda del libro…
Sicilia, 1926. Vincenzina Sparviero è la figlia attraente ma fragile di una famiglia di nobili siciliani, una ragazza, si dice in paese, troppo cagionevole per diventare madre. Ma della sua presunta sterilità al vecchio don Ottavio Licata non sembra importare granché, e così il matrimonio d’interesse fra la “palombella” mansueta e obbediente e il ricco sessantenne, fascista e mafioso, è combinato. Un pomeriggio di primavera, però, quando il fidanzamento è stato ormai annunciato, improvvisamente Vincenzina incontra l’amore negli occhi ambrati di Filippo Gonzales. Da quel momento la ragazza si difende dal futuro che incombe imbastendo nella fantasia le immagini di una gioia impossibile: seduta alla finestra della sua stanza a ricamare e sognare, attende il passaggio della sagoma amata con il passo lento, le mani in tasca, uno sguardo fuggevole verso di lei. Nella china lenta e inesorabile che conduce, sul filo della tragedia, al matrimonio annunciato, assaporiamo la storia struggente di un amore probabilmente impossibile.

Come ho già accennato, ne parleremo con la stessa autrice. Per favorire la discussione, propongo – di seguito – alcune domande ispirate dal libro e elaborate dalla stessa Simona (subito dopo, la sua bella recensione).

1. Il libro di Tea offre una riflessione profonda sulla natura dell’amore sognato, che prorompe nella realtà con una forza straordinaria, soprattutto quando è amore negato.
È più la negazione a dare forza all’amore, o è la sua autenticità?

2. Amore sognato e amore reale.
In quale punto convergono? O in quale luogo? (Può essere la scrittura il luogo?)

3. Vincenzina e Filippo Gonzales non si scambiano neanche un bacio, eppure sono una delle figure più forti e struggenti di amanti che la letteratura ci abbia donato.
Allora, si può essere amanti senza mai unire i corpi? E cos’è essere amanti?

4. È quanto dice Besson? “Essere amanti è questo: usare le stesse parole per parlare delle medesime cose senza aver mai sentito l’altro usare quelle parole” (Philippe Besson, “Un amico di Marcel Proust”)?

5. Se essere amanti si gioca sul piano delle parole… la scrittura è un amante?

(aggiungo la seguente domanda)

6. Il cosiddetto matrimonio d’interesse (scelto o imposto che sia) è solo un “retaggio” del passato, o trova ancora riscontro ai nostri giorni?

A voi le risposte… (e grazie in anticipo per la partecipazione)

Massimo Maugeri

p.s. in coda di post, due video: le parole della editor Giulia Ichino e la lettura della prima pagina del romanzo…

—-

LA SPOSA VERMIGLIA di Tea Ranno
Mondadori, 2012, pagg. 365, euro 18

di Simona Lo Iacono

Non è notte, non è giorno.
E’ forse uno di quei momenti a metà, che in Sicilia restano sospesi eternamente. O forse è una controra, un passaggio tra la mezza e le prime ore del pomeriggio, quando il sole s’accanisce sulla terra e la squaglia.
Non c’è pace per chi riposa al riparo dalla canicola. Il letto è incandescente, il sudore s’addensa, indurisce la saliva.
Vincenzina Sparviero è forse in uno di questi sonni senza costellazioni del tempo, senza orari. Nella camera a finestre spalancate su una Sicilia degli anni venti, in cui le grancasse dei fasci risuonano e fanno baccano, si rigira inquieta, caccia ai piedi le lenzuola ricamate finemente.
E sarà allora per questo caldo senza requie , che il sogno in cui sprofonda è visione, profezia, incantamento.
D’altra parte può accadere in Sicilia che il sonno ammaestri, predica la sorte, si faccia consigliere e metta in guardia dai morti.
Può accadere. (continua…)

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venerdì, 23 settembre 2011

STASERA ANNA DORME PRESTO, di Simona Lo Iacono

Nuovo appuntamento con la rubrica “Letteratura è diritto, letteratura è vita”, curata dalla scrittrice e magistrato Simona Lo Iacono. Stavolta è proprio il nuovo romanzo di Simona a offrirci ulteriori occasioni di riflessione. Anche questo romanzo, infatti, è incentrato sul rapporto tra diritto e letteratura, parola e processo… come – del resto – il romanzo d’esordio “Tu non dici parole”.
In questa nuova opera, intitolata “Stasera Anna dorme presto”, pubblicata da Cavallo di Ferro, Simona ha avuto modo di confermare ancora una volta l’efficacia e la grande qualità della sua scrittura “fornendo” voci diverse ai quattro personaggi protagonisti della storia.

Ecco la scheda del libro…
Due donne. Due uomini.
Quattro diari della stessa, consumata, storia di amore e tradimenti, del medesimo adulterio, ognuno però scritto da un diverso punto di vista, attraverso sofferenze, sacrifici, illusioni personali. Quattro voci che si rincorrono per raccontare, ciascuna, un frammento di una verità che a tutti sfugge.
Anna abbandona la Sicilia e le proprie aspirazioni per sposare Carlo, giovane avvocato dal brillante avvenire, e seguirlo a Roma. Una lacerazione assecondata sperando in un futuro migliore, in cui poter continuare liberamente a coltivare la sua passione per la letteratura e la scrittura. Ma le cose non vanno come Anna aveva pensato: con Carlo la freddezza cresce fino al giorno in cui lei scopre di Elisa, un’intraprendente avvocatessa che, affascinata dal maturo principe del Foro, ne è divenuta l’amante. A quel punto Anna proverà ad andare indietro con la memoria, a riallacciare i fili della storia alla ricerca di ciò che sta all’origine di tutto. Ma non lo farà da sola, la accompagneranno la voce di Elisa e quelle di Carlo e Giovanni, suo cugino.
E allora sarà come assistere a un processo in cui ogni ruolo è ribaltabile nell’altro e tutti i punti di vista appaiono legittimi, perché si sa che nella vita ognuno di noi è insieme e inevitabilmente vittima e carnefice.
In Stasera Anna dorme presto Simona Lo Iacono racconta una storia sull’incapacità di sapersi aprire veramente all’altro, anche quando lo si ama, e sull’importanza, nella vita e nell’amore, di abbandonarsi completamente.

Quattro voci, dunque. Quattro destini che si incrociano. Anna, moglie. Elisa, amante. Carlo, marito di Anna e amante di Elisa. Giovanni, cugino di Anna a lei legato dall’amore per la letteratura e da sentimenti che non sono mai stati dichiarati apertamente.
Una storia di aspettative disattese e di sogni infranti, che mette in risalto la fragilità umana e la difficoltà a capire veramente l’altro. Un romanzo dove la fattispecie più “classica” della storia della letteratura – quella del tradimento – è rivisitata in un’ottica nuova e originale, giacché all’intreccio tra diritto e letteratura, parola e processo, si aggiunge l’assenza di giudizio da parte del narratore. Ma quest’opera fornisce anche un esempio di come la “verità” difficilmente possa essere individuata in maniera univoca e assoluta.

Ed è proprio sul concetto di “verità” che vi inviterei a riflettere. Nel farlo, come sempre, pongo le mie solite domande…

- In che modo il concetto di verità può essere filtrato dalla nostra percezione personale? E fino a che punto, dunque, può esistere una verità univoca?

- Esiste un modo per superare la parzialità del nostro sguardo sulla vita e sugli eventi che la caratterizzano? Se sì, qual è?
Oppure siamo inevitabilmente destinati a rimanere confinati negli spazi angusti della nostra visuale?

Di seguito, il book trailer del libro, alcuni appuntamenti relativi alla sua presentazione, la mia conversazione radiofonica con Simona e la recensione firmata dal giornalista de “La Sicilia” Vincenzo Greco.

Massimo Maugeri


(continua…)

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sabato, 3 settembre 2011

LA CODA DI PESCE CHE INSEGUIVA L’AMORE

La coda di pesce che inseguiva l’amore” di Simona Lo Iacono e Massimo Maugeri (edito da Sampognaro&Pupi) si aggiudica l’edizione 2011 del Premio Nazionale di Giornalismo, Saggistica e Letteratura “Più a sud di Tunisi”, nella sezione “letteratura”


la-coda-di-pesce-cover-definitiva-per-blogCari amici, sono molto lieto di presentarvi la nascita di un progetto di scrittura che parte da lontano. Ne ha già “parlato” Affari Italiani con questo bello spazio allestito da Antonio Prudenzano (che ringrazio!).
Si tratta dell’imminente uscita di un racconto lungo a quattro mani scritto da me e da Simona Lo Iacono. Qualcuno di voi ne era già a conoscenza, per qualcun altro sarà una sorpresa.
Il titolo del libro è “La coda di pesce che inseguiva l’amore” (presente nelle migliori librerie e su IBS con disponibilità immediata). Lo pubblica l’editore siciliano Sampognaro & Pupi. Si tratta di una fabula per adulti ambientata a Portopalo di Capo Passero (paese marinaro della provincia di Siracusa) nel 1860, nata dall’idea di un pesce che insegue un giovane pescatore (in un’ottica, dunque, ribaltata… almeno, apparentemente). Una fabula d’amore e morte che denuncia l’incapacità di condividere, che evidenzia come le contrapposizioni esasperate e la brama di possesso possono uccidere il sogno; e come la bellezza – spesso – viene trafitta dall’incapacità di dare spazio all’apertura e alla consapevolezza necessarie per poterla contemplare.
Per altre notizie vi rimando alla citata pagina di Affari Italiani (dove potrete leggere, in esclusiva, l’incipit della storia) e a questo blog (dove troverete le date e i luoghi dove presenteremo il libro).
Qui sotto, invece, potete gustarvi il booktrailer realizzato da Carmelo Caramagno.

Segue un articolo con cui – Simona e io – tentiamo di proporre un dibattito sul concetto di condivisione (in generale… e “nella scrittura”, in particolare).
Estrapolo le due domande (e vi invito a fornire la vostra risposta, se ne avete voglia).

1. Che significato ha la condivisione in letteratura? È più perdita di sé, o conquista di sé attraverso il confronto con l’altro?

2. Scrivere a quattro mani può servire a lanciare il messaggio che la condivisione è una strada percorribile di accrescimento spirituale e personale?

Anticipo che in un prossimo post (dedicato alla “scrittura multipla”) conto di invitare vari autori che si sono cimentati con la scrittura a quattro o più mani… per discutere – insieme – della loro esperienza, dei loro libri e delle tecniche narrative adottate per realizzarli.

Fateci gli auguri, su…

Massimo Maugeri
(continua…)

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martedì, 3 maggio 2011

NARRARE I DIRITTI UMANI

daedalusPiù di una volta ci siamo interrogati sul ruolo della letteratura. La letteratura ha una funzione sociale? Può avere un senso “etico”? È dotata di una valenza formativa? Oppure è solo “intrattenimento”?
Sul numero di “Domenica” de Il Sole 24Ore del 1° maggio 2011 (cfr. pagg. 2 e 3 del supplemento), è stato pubblicato un bellissimo articolo del Premio Nobel per la Letteratura Mario Vargas Llosa intitolato: La finzione vi condurrà all’azione. Vi consiglio di leggerlo per intero, anche se di seguito propongo solo un breve passaggio (premettendo che l’articolo è ispirato dai “Miserabili” di Victor Hugo e da una celebre stroncatura del suddetto libro firmata da Lamartine).
Ecco cosa scrive – tra le altre cose – Mario Vargas Llosa:
(…) Tutte le finzioni fanno vivere ai lettori “l’impossibile”, tirandoli fuori dal loro io individuale, rompendo i confini della loro condizione, e facendo loro condividere, immedesimati con i personaggi dell’illusione, una vita più ricca, più intensa, o più abietta e violenta, o semplicemente differente da quella nella quale sono confinati, in questo carcere di massima sicurezza che è la vita reale.
Le finzioni esistono per questo e grazie a questo. Perché abbiamo una sola vita e i nostri desideri e fantasie esigono di averne mille. Perché l’abisso tra quello che siamo e quello che vorremmo essere doveva essere riempito in qualche modo. Per quello sono nate le finzioni: affinché, in quel modo surrogato, temporaneo, precario e contemporaneamente appassionato e affascinante, come è la vita nella quale ci trasportano, incorporiamo l’impossibile al possibile, e affinché la nostra esistenza sia contemporaneamente realtà e irrealtà, storia e favola, vita concreta e avventura meravigliosa
“.

Belle, le parole di Vargas Llosa. Da questo breve brano si deduce che per lui la letteratura ha un ruolo, una funzione (una potenza dirompente, leggiamo nel sommario dell’articolo). “Va bene”, potrebbe dire qualcuno. “Ma è l’opinione di uno scrittore, di un addetto ai lavori. Al di fuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori”, potrebbe continuare a dire questo qualcuno, “non è così”.
E invece no. Da più parti arrivano – nonostante tutto – esempi che ci dimostrano che la letteratura può avere (ha!) ancora un ruolo.
Nei giorni scorsi mi è giunta in posta elettronica una mail firmata da Sebastiano Grimaldi, Presidente dell’Ordine degli avvocati di Siracusa, nella quale mi spiegava il senso di un progetto intitolato “Daedalus” (la cui locandina è riprodotta qui sopra). Ne riporto qualche passaggio…

“Si intitola Progetto Daedalus – Percorsi giuridici, filosofici, storici e letterari. Nell’ambito della formazione degli avvocati”, mi scrive Sebi Grimaldi, “abbiamo immaginato di affiancare alla formazione strettamente tecnico-giuridica una serie di incontri formativi di più ampio respiro che abbiamo aperto alla partecipazione della cittadinanza. Come ho scritto solo ieri a Dacia Maraini (che parteciperà alla conferenza, n.d.a) spiegando i nostri intenti, vorremmo coniugare la formazione scientifica degli avvocati con i saperi che, a nostro modo di vedere, dovrebbero far parte del patrimonio dei giuristi, fosse solo per il fatto che con il diritto si incrociano: la filosofia, la storia e la letteratura. Mi rendo conto che forse si tratta di un’utopia, ma in un paese come il nostro nel quale si legge sempre meno, immersi in una spirale planetaria di divagazioni centripete (nel senso che ci allontanano sempre più dal centro…), è un po’ difficile concentrarsi su tutte queste belle cose. Lo dico sempre, con la consapevolezza della modestia dei nostri mezzi e con la convinzione della bontà degli intendimenti: è un tentativo di “alzare l’asticella”; superare l’ostacolo è altro capitolo!
Ma il salto va provato: non è possibile che le professioni intellettuali e, in particolare, quella degli avvocati, e più in generale il mondo dei giuristi appaiano sempre più chiusi dentro gli steccati invalicabili dei loro piccoli saperi. La tecnica ci aiuta perché stabilisce le regole; e questo, in un mondo complesso come il nostro, è quasi simbiotico rispetto alla democrazia e alla tutela delle libertà. Ma la tecnica ha bisogno di riconoscere sé stessa ed i propri limiti; altrimenti – sarà banale – ma si trasforma in tecnicismo. (…)
Non mi faccio illusioni, attendo laicamente di consumare il passaggio del dovere che il ruolo oggi mi impone; ed egoisticamente di dare, con le cose che faccio, un senso estetico alla mia quotidianità!

Ecco. Credo che questo progetto (come si evince dalla mail dell’avvocato Grimaldi) possa in qualche modo confermare il fatto che, ancora oggi, alla letteratura viene riconosciuto un ruolo. Auspico (fortemente auspico) che progetti come questo possano svilupparsi anche in altri ambiti.
Sono convinto che dare iniezioni di “umanesimo” alle attività che governano le nostre vite, possa dare buoni frutti.

Ciò premesso, vorrei concentrare l’attenzione sulla conferenza del 5 maggio del Progetto Daedalus intitolata “Narrare i diritti umani“. Insieme a Dacia Maraini, agli avvocati Rita Siringo e Lucia Sciacca, parteciperà anche la “nostra” Simona Lo Iacono (nella duplice veste di scrittrice e magistrato). Di conseguenza, questo post diventa un nuovo appuntamento della rubrica che ho affidato a Simona: “Letteratura è diritto, letteratura è vita“. Più in basso, potrete leggere un suo articolo sul tema.
Prima, però, vorrei invitarvi a partecipare alla discussione… partendo – come al solito – dalla formulazione di alcune domande.

1. Siete d’accordo sul fatto che, come sostiene Vargas Llosa, uno dei ruoli della letteratura sia quello di colmare l’abisso tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere?

2. La letteratura può avere anche oggi (anzi, soprattutto oggi) un ruolo formativo? (O è pura utopia?)

3. Da quali opere letterarie possiamo trarre il concetto di libertà?

4. Quali opere letterarie si prestano meglio di altre a approfondire la tematica sui diritti umani?

Ne approfitto per segnalarvi che, nel corso della discussione, con la collaborazione della docente e scrittrice Elvira Siringo, avremo modo di accogliere i pareri degli studenti del liceo che incontreranno Dacia Maraini nella mattinata di giovedì 5 maggio.

Segue l’articolo di Simona Lo Iacono.

Massimo Maugeri

P.s. Aggiorno il post con questo video registrato il 5 maggio 2011, poco prima dell’inizio della conferenza del Progetto Deadelus

(continua…)

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lunedì, 14 marzo 2011

L’UNITA’ D’ITALIA E LE DONNE NEL RISORGIMENTO ITALIANO: la Mariannina Coffa di Maria Lucia Riccioli

Come tutti voi sapete, il 17 marzo 2011 si celebra il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Vorrei dedicare la pagina che state leggendo (e che spero possiate contribuire a riempire) a questa ricorrenza così importante.

maria lucia riccioliSe penso a questa nostra terra mi sovviene la figura della madre, dunque della donna. Ecco perché vi propongo di partecipare ai festeggiamenti concentrandoci soprattutto sulle figure femminili che hanno attraversato il Risorgimento italiano e – più o meno indirettamente – con la loro vita e il loro operato hanno contribuito alla nascita di questo nostro Paese.
In particolare ci occuperemo di una figura meno nota di altre a livello nazionale e anche per questo maggiormente meritevole di essere messa in risalto: quella della poetessa siciliana Mariannina Coffa (1841 -1878). L’occasione ce la offre la recente uscita del romanzo d’esordio di Maria Lucia Riccioli (nella foto accanto), intitolato “Ferita all’ala un’allodola” (Perrone Lab, 2011) di cui approfondiremo la conoscenza nel corso della discussione.

A voi, amici di questo blog, rivolgo l’invito di scrivere qualcosa (un pensiero, una citazione, o quant’altro) per contribuire alla celebrazione della ricorrenza…

Donne del Risorgimento. Le eroine invisibili dell'unità d'ItaliaSulla festa del 150°, inoltre, mi piace segnalare questo bell’articolo di Alessandro Mari pubblicato su Tuttolibri del 12 marzo, intitolato: Italia forever giovane e forte.

E a proposito delle donne del Risorgimento italiano, ci tengo pure a segnalare questo libro di Bruna Bertolo: “Donne del Risorgimento. Le eroine invisibili dell’unità d’Italia” (Ananke, 2011).

Di seguito, il booktrailer del romanzo “Ferita all’ala un’allodola” di Maria Lucia Riccioli e gli approfondimenti firmati da Luigi La Rosa e Simona Lo Iacono.

In chiusura, l’inno di Mameli offertoci da Roberto Benigni nel corso di una serata del Festival di Sanremo di quest’anno.

Massimo Maugeri
(continua…)

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mercoledì, 22 dicembre 2010

IL DECISIONISTA, di Vincenzo Monfrecola

Chissà quante volte, nella vita, vi sarà capitato di dover prendere decisioni e di non sapere che scelta fare…
Questo post è proprio dedicato alla capacità o incapacità di scegliere, di prendere decisioni. Lo spunto lo offre il romanzo “Il decisionista” di Vincenzo Monfrecola, pubblicato di recente nella collana di narrativa italiana della casa editrice Cavallo di Ferro.

Siamo a Londra, nel 1898… “Quando Robert Younghusband legge l’inserzione pubblicata sul «Croydon Gazette» non crede ai suoi occhi, perché non pensava esistesse un esperto di decisioni difficili e già intravede la soluzione dei suoi problemi con i vicini di casa.
Quando William Cardigon legge la lettera inviatagli da Robert, fa i salti di gioia, perché quello è il suo primo cliente e finalmente sta per rimpolpare le sue finanze.
Quello che Robert non sa è che William non ha mai preso una decisione in vita sua, soprattutto non una buona, tanto che la sua famiglia ha finito per tagliargli i fondi”.

Le suddette frasi sono riprese dalla scheda del libro. Per il resto vi rimando alla bella recensione di Simona Lo Iacono che potete leggere di seguito. Come sapete Simona, oltre a essere scrittrice, è anche giudice. Dunque ho pensato di coinvolgerla: chi meglio di lei, che è obbligata a prendere decisioni per mestiere?
Discuteremo, dunque, di questo romanzo di Vincenzo Monfrecola (l’autore parteciperà alla discussione)… ma sarà anche l’occasione per conoscere un po’ di più la casa editrice Cavallo di Ferro (un’ottima realtà della piccola e media editoria).

E poi, mi piacerebbe che discutessimo insieme del tema generale di questo post. Così vi domando:

1. Vi è mai capitato di non essere in grado di prendere decisioni?
2. Quali sono i presupposti necessari per prendere una buona decisione?
3. Essere decisi è sempre un pregio?
4. Viceversa, essere indecisi è sempre un difetto?
5. La scelta è – come diceva Kierkegaard – la scelta dell’uomo solo… o può essere demandata ad altri?
6. Sareste capaci di rimettere le decisioni più importanti della vostra vita a una terza persona?
7. Infine: saper prendere decisioni, è più un’arte o una necessità?

Di seguito, come anticipato, la recensione de “Il decisionista” di Vincenzo Monfrecola firmata da Simona Lo Iacono.
Massimo Maugeri

 

(continua…)

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lunedì, 10 maggio 2010

PADRI (SCRITTORI) e LIBRI: Valter Binaghi, Gianni Biondillo, Vito Bruno, Franz Krauspenhaar, Rosa Matteucci, Raul Montanari, Amedeo Romeo

padri-e-figliÈ un post a cui tengo particolarmente, questo… finalizzato ad avviare una discussione sul significato dell’essere padre, oggi; dell’essere marito (o partner); ma anche dell’essere scrittore (e/o artista). E ancora, sul rapporto tra padre e figlio (anche nel caso di genitori separati) e su quello tra uomo e donna all’interno del nucleo familiare.
Per farlo ho invitato sei scrittori che hanno pubblicato, di recente, romanzi… “in tema”. Si tratta (li elenco in ordine alfabetico di cognome) di: Valter Binaghi, Gianni Biondillo, Vito Bruno, Franz Krauspenhaar, Raul Montanari, Amedeo Romeo.
Avrò modo di presentarli nel corso della discussione.

Vi anticipo i tratti in comune che hanno i protagonisti di queste storie (in fondo al post troverete le schede dei rispettivi libri).

- Il protagonista del libro di Valter Binaghi si chiama Fausto Blangé: è uno scrittore che ha perso la moglie (morta suicida) e ha ucciso il suo ex analista.

- Luca, personaggio del libro di Gianni Biondillo, è un padre separato che deve fare i conti con la moglie che gli impedisce di vedere la figlia.

- Anche il protagonista del libro di Vito Bruno – un uomo che scrive a quella che sta per diventare la sua ex moglie – deve affrontare la terribile esperienza della separazione dal figlio.

- Il personaggio principale del romanzo di Franz Krauspenhaar è un anziano scrittore italiano di origine tedesca alla ricerca della moglie scomparsa. L’uomo teme che sia stata uccisa dal figlio.

- Danio è il protagonista del libro di Raul Montanari: fa lo psicologo, è separato e ha un figlio, nervoso come tutti i ventenni. Ha anche una giovane fidanzata, e un tremendo segreto: è un assassino… un assassino per caso.

- Andrea Morini, invece, personaggio del romanzo di Amedeo Romeo, è affascinato dalla maternità ma… ha il terrore di diventare padre.

Discuteremo, approfittando della presenza degli scrittori/ospiti, dei libri (introdotti di seguito), ma anche dei temi del post.

Pongo alcune domande volte a favorire la discussione (e ispirate dai romanzi oggetto di questa discussione).

1. Come è cambiato, oggi, l’essere padre?

2. In cosa, il padre di oggi, si differenzia nettamente da quello delle generazioni precedenti? Quali i pro e i contro di tali differenze?

3. Che cosa significa, oggi, “volere” un figlio?

4. Premesso che le principali vittime delle separazioni tra i coniugi sono quasi sempre i figli, tra il padre e la madre chi è che subisce – in genere – il trauma maggiore? E chi, in genere, tra i due presenta maggiori fragilità?

5. L’uomo contemporaneo rischia di rimanere vittima della corruzione del successo di più o di meno rispetto a qualche decennio fa? E il successo che corrompe colpisce di più l’uomo, il marito, il padre, lo scrittore (o – in maniera analoga – la donna, la moglie, la madre, la scrittrice)?

Contestualmente coglieremo l’occasione per discutere sulla legge relativa all’affidamento dei minori.

Mi daranno una mano a moderare la discussione: Simona Lo Iacono (che, nella veste di scrittrice e giurista, metterà a nostra disposizione le sue competenze per fornirci informazioni e chiarimenti sulla vigente normativa sull’affidamento dei minori nei casi di separazione dei genitori; in fondo al post troverete un suo articolo), Francesca Giulia Marone (nel ruolo di scrittrice, madre e figlia: mercoledì 12, h. 8.00, trovere un suo racconto pubblicato su La poesia e lo spirito) e Ausilio Bertoli (che – nel duplice ruolo di scrittore e psicosociologo della comunicazione e della devianza – ci fornirà spunti e chiarimenti di natura, appunto, psicologica; ne approfitto per segnalare questo libro). Ad affiancare Ausilio Bertoli, anch’egli nel duplice ruolo di scrittore e psicanalista: Salvo Montalbano (nulla a che vedere con Camilleri, come si evince da questa recensione al suo romanzo).

Di seguito, le schede dei sei romanzi.
Massimo Maugeri
(continua…)

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martedì, 30 marzo 2010

L’ARTE DI ANNACARSI, il viaggio in Sicilia di Roberto Alajmo

Ultimata la lettura de “L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia” (Laterza, 2010) ho pensato: credo che questo sia uno dei migliori libri (se non il migliore) di Roberto Alajmo. E di ottimi libri – tra romanzi e saggi – Alajmo ne ha già scritti parecchi. Ricordo: Un lenzuolo contro la mafia (1993); Repertorio dei pazzi della città di Palermo (1995); Almanacco siciliano delle morti presunte (1997); Notizia del disastro (2001, Premio Mondello); Cuore di madre (2003, Premio Selezione Campiello, finalista al Premio Strega); È stato il figlio (2005, Premio Super Vittorini e Super Comisso); La mossa del matto affogato (2008); Le ceneri di Pirandello (2008) e – sempre per Laterza – 1982, memorie di un giovane vecchio; Palermo è una cipolla.

Prima di accennare ai contenuti di questo volume, vorrei soffermarmi sul brano scelto come epigrafe. Si tratta di un testo estratto da “La luce e il lutto” di Gesualdo Bufalino, che recita così: «Dicono gli atlanti che la Sicilia è un’isola e sarà vero, gli atlanti sono libri d’onore. Si avrebbe però voglia di dubitarne, quando si pensa che al concetto di isola corrisponde solitamente un grumo compatto di razza e costumi, mentre qui è tutto mischiato, cangiante, contraddittorio, come nel più composito dei continenti. Vero è che le Sicilie sono tante, non finirò di contarle. Vi è la Sicilia verde del carrubo, quella bianca delle saline, quella gialla dello zolfo, quella bionda del miele, quella purpurea della lava. Vi è una Sicilia “babba”, cioè mite, fino a sembrare stupida; una Sicilia “sperta”, cioè furba, dedita alle più utilitarie pratiche della violenza e della frode. Vi è una Sicilia pigra, una frenetica; una che si estenua nell’angoscia della roba, una che recita la vita come un copione di carnevale. Una, infine, che si sporge da un crinale di vento in un accesso di abbagliato delirio…»

La citazione riportata in epigrafe finisce qui, anche se poi – subito dopo – , in “La luce e il lutto”, Bufalino fornisce una sua risposta alla domanda “Tante Sicilie, perché?”
Bufalino risponde così: «Perché la Sicilia ha avuto la sorte di ritrovarsi a far da cerniera nei secoli fra la grande cultura occidentale e le tentazioni del deserto e del sole, tra la ragione e la magia, le temperie del sentimento e le canicole della passione. Soffre, la Sicilia, di un eccesso d’identità, né so se sia un bene o sia un male.»
Un bene o un male, dunque? Chi lo sa? Forse Goethe aveva le idee un po’ più chiare, giacché ebbe modo di sostenere (come è noto): «L’Italia senza la Sicilia non lascia immagine nello spirito: soltanto qui è la chiave di tutto».
Certo, per credere che soltanto in Sicilia ci sia la chiave di tutto ci vuole molta immaginazione. Del resto, come sosteneva Sciascia: « L’intera Sicilia è una dimensione fantastica. Come si fa a viverci senza immaginazione? »
E di immaginazione, a volte, ce ne vuole tanta… come quella che mosse il sommo Dante per la scrittura della sua Commedia:

«E la bella Trinacria, che caliga
tra Pachino e Peloro, sopra ‘l golfo
che riceve da Euro maggior briga,
non per Tifeo ma per nascente solfo… »

(dal Paradiso, canto VIII)

(Magari vi chiederò quale preferite, tra le suddette citazioni… e magari potreste proporne altre).

Ma torniamo a “L’arte di annacarsi”. La prima domanda che il lettore (non siciliano) deve necessariamente porsi nell’affrontarne la lettura, è la seguente: cosa significa annacarsi?
In verità, per trovare la risposta non dovrà faticare molto; basterà girare il volume e leggere quanto scritto in quarta di copertina:
“Annacare/annacarsi = affrettarsi e tergiversare, allo stesso tempo. Un verbo intraducibile che significa una cosa e il suo contrario. Il massimo del movimento col minimo di spostamento”.

Un esempio calzante dell’arte di annacarsi – lo evidenzia lo stesso autore – è fornito nell’ambito delle feste religiose… dove Madonne, santi e canderole vengono portati in processione con un andamento danzante, ondeggiante, non necessariamente (e comunque non solo) in avanti, ma spesso di lato e senza disdegnare piccole retromarce. Forse si potrebbe dire che l’arte di annacarsi (per rimanere nell’ambito della metafora danzesca) è una sorta di sintesi tra una appariscente tarantella e il ballo della mattonella. Insomma, ciò che conta è produrre, appunto, il massimo del movimento, con il minimo di spostamento. In linea, peraltro, con la celebre frase de “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Ecco: il cambiamento immutevole è un ossimoro che è ben contratto nel termine “annacarsi”.

L’arte di annacarsi, dunque. Un titolo che sintetizza le apparenti contraddizioni e gli immobili mutamenti di una terra multiforme dove però è possibile trovare la chiave di tutto con un po’ di immaginazione: Marsala, Palermo, Ustica, Porto Palo, Favignana, Agrigento, Siracusa, Tindari, Catania, Gela, Taormina, Messina (sono solo alcune delle tappe di Alajmo). Un viaggio che si tramuta in racconto ironico e sferzante, ma che – in fin dei conti – ha sullo sfondo l’amore per questa terra: “un amore che si prova per una canaglia. Tu sai che è una canaglia, ma non puoi farci niente”.

Che il siciliano sia avvezzo all’ironia lo sosteneva anche Cicerone (in Verrem – Actio Secundae – Liber Quartus – De Praetura Siciliensi) : “Numquam est tam male Siculis, qui aliquis facete et commode dicant (Qualunque cosa possa accadere ai Siciliani, essi lo commenteranno con una battuta di spirito).
Ma l’ironia di Roberto Alajmo non si ferma alle classiche battute di spirito, o ai giochi di parole; essa – viceversa – si espande in ragionamenti volti a evidenziare paradossi, contraddizioni e situazioni ai limiti dell’inverosimile. È un’ironia intelligente e pessimista, quella di Alajmo; precisa e affilata come un bisturi, capace al tempo stesso di stigmatizzare facendo sorridere, lasciando tuttavia spazio alla speranza: “Ma esiste anche una parte di Palermo la cui coscienza non è ancora del tutto anestetizzata. Proprio quando tutto sembra annacquato e perduto, ecco che dal nulla, miracolosamente, la speranza rinasce. E a farla rinascere sono i pazzi. I famosi pazzi di Palermo. Quelli veri e quelli che vengono fatti passare per pazzi. Pazzo è colui che non si adegua allo stato delle cose, che non si lascia trascinare dalla corrente, che si rifiuta di portare coscienza e cervello all’ammasso. I talenti che nascono fuori dai circuiti convenzionali. I giovani che riescono ogni tanto a fare breccia nel deleterio scetticismo cittadino e a creare un movimento di opinione in grado di trasformarsi da un momento all’altro in autentica rivolta morale”. (cfr. pag. 30 – “L’arte di annacarsi” – Palermo. Teoria e tecniche dell’annacamento).

Non mi dilungo ulteriormente e vi rinvio alla bellissima recensione di Simona Lo Iacono (che ho coinvolto in questo post chiedendole di scrivere di questo libro e di darmi una mano a moderare e animare la discussione che ne seguirà). In chiusura del post… la prefazione del libro, gentilmente concessami dall’autore.

Per incentivare la discussione provo a porre qualche domanda:

- Ai siciliani (scrittori e non): vi ritrovate nell’arte di annacarsi? Ovvero… vi annacàte? E tra i due significati del termine, in quale vi ritrovate di più? (Questa domanda è finalizzata a sorridere un po’ insieme)

- Ai non siciliani che non hanno mai visitato l’isola: che percezione avete della Sicilia?

- Ai non siciliani che hanno visitato l’isola: la percezione che avevate della Sicilia, ha trovato riscontro nella vostra visita? Cos’è che vi ha colpito di più?

- La Sicilia rappresentata nei libri, nel cinema, nella televisione è rispondente alla realtà?

- Tra le citazioni sulla Sicilia (riportate sopra), quale vi sembra la più calzante? Ne avete altre da proporre?

Di seguito, l’articolo di Simona Lo Iacono e la prefazione del libro.

Massimo Maugeri
(continua…)

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lunedì, 7 dicembre 2009

CORPI… DA GIOCO. Contro la pedofilia e la pedopornografia

Apro una nuova puntata della rubrica Letteratura è diritto, letteratura è vita - affidata alla scrittrice e magistrato Simona Lo Iacono - dedicandolo a un argomento spinoso e delicatissimo. Lo faccio nella speranza di poter contribuire – per ciò che è dato fare a un blog come Letteratitudine – a combattere una piaga terribile come quella della pedofilia e della pedopornografia.
Il protagonista di questo post è un prete coraggioso: don Fortunato Di Noto, creatore dell’associazione Meter. Il libro di cui parleremo si intitola “Corpi da gioco“: un libro pubblicato dalle edizioni Elledici e curato da Antonino D’Anna.
Ecco la scheda: “Libro pieno di speranza, ma allo stesso tempo inquietante, duro, coraggioso questo di don Fortunato Di Noto che, da oltre quindici anni spende la sua attività pastorale in difesa dei diritti dei bambini, che lotta strenuamente mettendo a repentaglio la sua stessa vita contro i pedofili e gli “imprenditori” pedopornografici che agiscono spesso indisturbati in quella inestricabile ragnatela elettronica che è oggi il web.
Attraverso un narrare-informare chiaro, puntuale, costruttivo, don Di Noto presenta un profilo a tutto tondo, aggiornato e reale, di un drammatico fenomeno sociale che si consuma quotidianamente in modo silenzioso e subdolo da parte di uomini che giocano, commerciano ed abusano, anche fino alla distruzione, della sacralità del corpo infantile.
Un libro per capire e lottare, affinché si affermi, al posto di un’infanzia negata, una infanzia esaltata o semplicemente “vissuta”.

Di recente (e casualmente) Simona Lo Iacono ha incontrato don Fortunato e ha avuto modo di leggere questo libro… e di ripensare a un episodio vissuto nella sua carriera di magistrato (più avanti troverete un articolo intitolato Il processo del borsellino di plastica rosa).
Un argomento spinoso e delicatissimo, scrivevo in premessa. Terribile.
Vorrei provare ad affrontarlo con voi, con il supporto di Simona (che condurrà il post insieme a me) e la presenza dello stesso don Fortunato. Parteciperanno alla discussione diversi esperti e addetti ai lavori (ve li presenterò nel corso del dibattito).
L’argomento è tutt’altro che semplice… ma vorrei tentare comunque di favorire l’avvio della discussione ponendo un paio di domande:

- Qual è il miglior modo (se esiste) per impedire che i bambini cadano nella rete dei mostri?

- Le favole tradizionali hanno sempre parlato di bambini che cadono nelle mani di adulti mostruosi o nel mistero della violenza (Hansel e Gretel, Cenerentola, Cappuccetto Rosso). La letteratura dell’infanzia che ruolo può (e/o deve) avere nella formazione della coscienza? Educare, avvertire, immaginare la minaccia? O che altro?

Di seguito, l’articolo di Simona Lo Iacono

Massimo Maugeri
(continua…)

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domenica, 2 agosto 2009

CELESTE AIDA di Marinella Fiume

Apro una nuova pagina della rubrica Letteratura è diritto, letteratura è vita che ho affidato a Simona Lo Iacono, presentando un romanzo forte, duro, per certi versi terribile – ma direi anche necessario – scritto da Marinella Fiume (nella foto in basso, all’epoca in cui era sindaco del Comune di Fiumefreddo di Sicilia). Si intitola Celeste Aida. Una storia siciliana” (Rubbettino, pagg. 136, euro 8). Una storia ambientata nell’anno 1933, XI dell’era fascista. Questi i fatti: “In un villaggio siciliano, un ventenne commerciante di vini uccide la cognatina di cinque anni seppellendola viva. La relazione adulterina con l’ancor giovane suocera e la paura che la bambina possa rivelarla al padre emigrato in America, induce i due amanti a liberarsi della scomoda testimone. Al processo, la difesa della donna ha buon gioco nell’affermare la non punibilità per il reato di adulterio, mancando la querela del coniuge offeso. Così, si condanna a morte il giovane “debosciato”, assolvendo la madre per insufficienza di prove anche dell’imputazione di procurato aborto, che il Codice Rocco punisce severamente, in quanto sovvertitore della famiglia e perciò, come l’adulterio, reato contro lo Stato.

Così come è riportato sulla scheda,”il romanzo ricostruisce la torbida vicenda familiare da cui scaturì l’esecuzione capitale attraverso i canti dei cantastorie, fonti orali e giornalistiche, atti giudiziari, che consentono di mettere a fuoco il contesto del dramma: il “disordine” della famiglia contadina siciliana e la politica familiare del fascismo. Squisitamente letterari sono, invece, l’impianto narrativo e il linguaggio: la storia di una bambina, segnata dalla diversità già nel nome e travolta dall’assurda banalità del male, comunica una profonda impressione anche per l’efficacia e la profondità con cui sono tratteggiati i personaggi che balzano vivi dalle pagine, uscendo dal coro che commenta ai margini.”

Il tema che vorrei affrontare, in parallelo con la discussione sul romanzo di Marinella, è quello della violenza ai minori e della imputazione della colpamettendo in relazione la colpa individuale con quella collettiva.
Nell’ambito della discussione interverranno “ospiti speciali” che avrò modo di presentare adeguatamente.
Ecco alcuni spunti e domande volti a favorire il dibattito…

1- La condanna di Giovanni appaga un’intera società, sebbene anche l’amante sia colpevole del delitto di procurato aborto (confessato ma da cui andrà assolta per carenza di prove). Che rapporto c’è tra colpa individuale e colpa collettiva?

2- Victor Frankl (1905-1997), medico e psichiatra, filosofo e psicoterapeuta, saggista e conferenziere di fama mondiale, fondatore della logoterapia, scampato ai lager nazisti diceva: “Signori e signore, vi prego in quest’ora di ricordare con me mio padre, che morì nel lager di Theresienstadt; mio fratello, che morì nel lager di Auschwitz; mia madre, che finì in una camera a gas di Auschwitz; e la mia prima moglie, che perse la vita nel lager di Bergen-Belsen. E tuttavia devo chiedervi di non aspettarvi da me una sola parola di odio. Chi mai dovrei odiare? Io conosco soltanto le vittime, non i carnefici, quantomeno non li conosco personalmente – e io rifiuto di dichiarare qualcuno collettivamente colpevole. Una colpa collettiva infatti non esiste, e io questo non lo dico oggi, l’ho detto fin dal primo giorno in cui fui liberato dal mio ultimo campo di concentramento” (Cit. in: Paola Giovetti, Victor Frankl. Vita e opere del fondatore della logoterapia, Edizioni Mediterranee, Roma, 2001, p. 54). Siete d’accordo? Esiste o non esiste una colpa collettiva?

3- La voce di Aida viene messa a tacere dalla violenza e dalla paura. Ma viene riportata in vita dalla poesia del cantastorie Orazio Strano e di Marinella Fiume. Che rapporto c’è tra violenza e poesia?
C’è una correlazione sanante e necessaria oppure, come si domandava il poeta tedesco Friedric Holderin: “A che (servono) i poeti in tempo di povertà?”

Di seguito, la bella recensione di Simona Lo Iacono, che mi darà una mano ad animare e coordinare la discussione.
Massimo Maugeri
(continua…)

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lunedì, 22 giugno 2009

TU NON DICI PAROLE di Simona Lo Iacono

premio-vittorini-20091Conobbi Simona Lo Iacono nel 2006 in una libreria, a Catania, nel corso della presentazione di un volume (io ero tra i relatori). In quell’occasione ebbi modo di accennare alla mia esperienza letteraria on line su Letteratitudine (che era appena nato). Finita la presentazione Simona mi si avvicinò e mi chiese l’indirizzo del blog, affermando di essere molto interessata da questa esperienza.
In verità non intervenne subito. Passarono mesi. Credo che il suo primo commento letteratitudiniano sia datato 26 settembre 2007. Vi riporto uno stralcio: “la letteratura è solo quella dei libri? Non è spesso aria, desiderio, pensiero non ancora incarnato? Non è anche eco di versi? E che differenza fa se questi versi prendono forma in musica o nella voce di un altro poeta? A volte la poesia rinasce dalla stessa poesia, e la narrazione da un suono. Tutto, nell’arte, può convivere con tutto, purchè le combinazioni non turbino l’armonia, la bellezza, l’etica del linguaggio“.
Tutto, nell’arte, può convivere con tutto. E – in effetti -, da quel giorno, l’arte di Simona cominciò a convivere anche con questo blog.
I suoi commenti si fecero sempre più frequenti… e interessanti.
Una delle prime cose che subito mi colpì fu la sua tendenza a miscelare in maniera mirabile diritto e letteratura… la sua esperienza di magistrato, con quella di scrittrice. Per tale ragione il primo post che le affidai fu questo dedicato al romanzo “In una lingua che non so più dire” di Tea Ranno (era il 19 novembre del 2007). Il protagonista di quella storia era un magistrato. Pensai: chi meglio di lei?
Il post ebbe grande successo. Nel frattempo continuò a scrivere commenti su commenti… dai quali venivan fuori la sua abilità di scrittrice frammista alla sua esperienza di giurista.
A un certo punto ebbi un’intuizione, determinata anche dalla lettura della bozza del suo primo romanzo “Delle parole e delle sue figliolerie” (rispetto al quale mi permisi di darle qualche consiglio… compreso quello di cambiare il titolo).
E capii…
Le dissi: “secondo me devi portare avanti una nuova poetica, capace di mettere insieme diritto e letteratura; parola e processo”. Fu per questo che le proposi di condurre, su questo blog, una rubrica intitolata Letteratura è diritto, letteratura è vita (era il 10 luglio del 2008).
(E le dissi che, secondo me, avrebbe dovuto cercare di approfondire questa “poetica” anche con i libri futuri).
Il 29 luglio del 2008 parlai di lei sulla pagina Cultura del quotidiano Il Mattino, all’interno di un articolo sulla letteratura siciliana (l’articolo fu poi ripubblicato su Carmilla on line)… dove la presentai come una scommessa.
Ecco. Credo che l’attribuzione del Premio Vittorini 2009 – sezione Opera prima – a “Tu non dici parole”, sancisca la vincita di questa scommessa.
Di seguito troverete il post originario… e tre video tratti dalla presentazione catanese di questo romanzo.
Il mio piccolo omaggio a una scrittrice che è cresciuta insieme a questo blog e che è destinata a raggiungere traguardi sempre più importanti.
Auguri, Simona!

Massimo Maugeri

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POST DEL 21 GENNAIO 2009

tu-non-dici-parole.JPGParliamo di un romanzo ambientato in Sicilia, a Bronte, nel 1638… ai tempi dell’Inquisizione.
Non tutti sanno che l’Inquisizione siciliana nacque sotto forma di… balzello. In effetti fu formalmente introdotta intorno al 1224 dall’imperatore Federico II, quando dispose che tutti gli eretici e gli Ebrei dovessero pagare una tassa a suffragio degli inquisitori di fede preposti al loro controllo.
Il 6 ottobre 1487 Ferdinando II il Cattolico creò il Tribunale dell’Inquisizione e fu inviato in Sicilia il primo inquisitore delegato, un certo Frate Agostino La Pena, la cui nomina fu approvata da Papa Innocenzo VIII.
Nel solo anno 1546 i quindici tribunali attivi condannarono 120 persone al rogo, 60 in effigie e 600 a penitenze minori. I reati per i quali si veniva processati erano l’eresia… ma anche la bestemmia, la stregoneria, l’adulterio, l’usura.
L’Inquisizione nell’isola venne abolita con decreto regio del 6 marzo 1782 (disposto da Ferdinando III di Sicilia).

Torniamo al romanzo.
Francisca Spitalieri è una innamorata delle parole. Ma non di parole qualsiasi… delle parole belle. Francisca “ruba” queste parole. Le ripete. Per certi versi le re-interpreta. Sono parole latine, per lo più. Parole liturgiche e dell’offertorio… sentite in convento.
Cos’è che colpisce Francisca? Forse la loro austerità… che le fa sembrare al di sopra delle parole ordinarie. O, ancor di più, la loro musicalità. Qualunque sia la ragione, Francisca ama queste parole, rimane estasiata dalla loro bellezza. E le ripete. Le ripete senza nemmeno conoscerne il significato.
Ora, questo suo amore per le parole viene considerato… strano. Anormale. E viene messa a giudizio.
Il romanzo si intitola “Tu non dici parole” (Perrone, 2008, € 15). L’autrice è Simona Lo Iacono.

Vi invito a discutere di questo libro interagendo con Simona.
E poi vi invito a riflettere (e a discutere) sul ruolo della parola. E sulla sua importanza.

Quante persone - tra cui scrittori e intellettuali - hanno pagato, stanno pagando, o pagheranno, sulla pelle… il peso delle loro parole?

Di seguito potrete leggere la recensione di Maria Rita Pennisi e la monografia di Maria Lucia Riccioli. Su “Lo schiaffo” c’è una recensione di Salvo Zappulla. Mentre sul blog “La poesia e lo spirito” trovate una mia minirecensione con intervista all’autrice.
Massimo Maugeri
(continua…)

Pubblicato in EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, LETTERATURA È DIRITTO... È VITA (a cura di Simona Lo Iacono), SEGNALAZIONI E RECENSIONI   301 commenti »

martedì, 16 giugno 2009

ISOLE SENZA MARE, di Antonella Cilento


“Isole senza mare” è il nuovo romanzo di Antonella Cilento, ma è anche la storia parallela di due donne che attraversano l’Otto e il Novecento: Aquila, nobile caduta in povertà e costretta a lasciare la Spagna, vende se stessa e tenta il riscatto diventando l’amante del marchese Campana, collezionista di arte e di vite altrui, un amore che la trascinerà in una trama di ossessioni, vendette e fantasmi. Nina, ultima erede di una catena di donne che dalla Spagna sono fuggite, ha più di ottant’anni, ha vissuto il Fascismo e una difficile intimità famigliare percorsa da molti nodi silenziosi: orfana di padre, sposa tardiva, madre mancata. Aquila e Nina amano con infelicità, entrambe sono esiliate: legate a doppio filo da rimandi, coincidenze ed eredità, le loro vicende si intrecciano con un coro di indimenticabili personaggi sullo sfondo del Mediterraneo.
Un romanzo sulla solitudine, sull’isolamento, sull’esilio. Sull’amore deluso. Un’opera letteraria che ha impegnato Antonella Cilento per ben dieci anni e che finalmente vede la luce.
Ce ne parlano Luigi La Rosa e Simona Lo Iacono.
Vi invito a discuterne con loro e con l’autrice.
Di seguito pongo alcune domande/riflessioni – ispirate al romanzo – con l’intento di favorire la discussione.

1 -Isole senza mare. Isole senza amore.
Siamo isole quando amiamo? E quando scriviamo?

2 – Isole senza approdo, anche. Perchè se non c’è mare, non c’è riva. Se scriviamo come isole siamo, anche, viaggiatori senza ritorno?

3 – Isole senza tempo. Le generazioni che sfalsano e scombinano destini.
Il tempo che scorre è solitudine? È compimento?

4 – Isole senza viaggio.
Un viaggio, per scrivere, è necessario? E quale viaggio?

Di seguito, gli ottimi contributi di Luigi La Rosa e Simona Lo Iacono.
Massimo Maugeri
(continua…)

Pubblicato in L'OMBRA E LA PENNA (con il contributo di Antonella Cilento), LETTERATURA È DIRITTO... È VITA (a cura di Simona Lo Iacono), SEGNALAZIONI E RECENSIONI   137 commenti »

lunedì, 11 maggio 2009

FUORI GIOCO di Salvatore Scalia

Il calcio come metafora della vita. Questa frase sintetizza una delle possibili letture del nuovo ottimo romanzo di Salvatore Scalia (nella foto): “Fuori gioco” (Marsilio, 2009, pag. 128, euro 12).
Così come nel precedente libro, “La punizione” (anche questo edito da Marsilio), le vicende narrate traggono spunto da una storia realmente accaduta. Se il primo romanzo vede come protagonisti quattro ragazzini vittime della mafia, in questa nuova opera Scalia fornisce dignità letteraria al mito indiscusso dei nostri tempi: il calciatore. Nell’immaginario collettivo il calciatore – oggi, ancor più di ieri – incarna il successo, la fama, il denaro, il fascino. Eppure il mondo del pallone non è tutto rose e fiori. Ne sanno qualcosa celebrità calcistiche di fama mondiale (tra cui Gigi Buffon, portiere d’acciaio della Nazionale) che hanno dovuto fare i conti con il continuo logorio dello stress da performance – e dell’estraniamento da successo – capace di sfociare nella depressione.
In questo romanzo Scalia offre una versione rovesciata del mito; perché, laddove l’agognato successo viene solo sfiorato, esso si trasforma in repentina sconfitta. O fallimento. E per ogni traguardo raggiunto da un individuo, in migliaia cadono durante il percorso.
Il protagonista della storia è Paolo Malerba, giovane calciatore della provincia di Catania che porta già nel cognome il segnale presago di un tragico destino. Paolo va a Milano, il provino con l’Inter sembra dare esiti positivi. Il sogno pare a un passo dal diventare realtà. Ma si sfalda di fronte a una radiografia. I medici della società calcistica attestano un piccolo problema ai polmoni. Nulla di grave, per una persona normale. Un insuperabile impedimento, per un calciatore professionista.
Paolo viene scartato. Il suo sogno si infrange e gli implode dentro con effetti devastanti, allargando squarci dell’anima già aperti da un’adolescenza difficile, dal problematico rapporto col padre, da paure mai domate. In tal senso Malerba è due volte perdente: perché prima patisce la sconfitta (per via di un disturbo fisico inatteso) e poi il fallimento (per via di equilibri interiori già fortemente precari). Non gli rimare che attorcigliarsi dentro se stesso, ancora di più; consumandosi tra amori irrisolti e una depressione serpeggiante che ne segnerà la fine.
Con un lirismo efficace e dolente Salvatore Scalia, tratteggiando i risvolti farseschi e paradossali della vita di provincia del profondo Sud, rovescia il mito moderno dell’uomo di successo miscelandolo con quello classico che narra la fine di Empedocle tra le fauci infuocate dell’Etna. Ne viene fuori un ritratto duro, impietoso, dolente. Credibile. E se è vero – come è vero – che per la popolazione etnea il vulcano è femmina (a’ muntagna), l’idea del lasciarsi precipitare nel cratere non riflette altro che il ferale desiderio (inconscio e insopprimibile) di tornare nel ventre materno: mettersi fuori gioco, scomparendo nelle origini della propria esistenza.

Mi chiedo, e vi chiedo…

I calciatori sono davvero i nuovi eroi dei tempi moderni?

Il gioco è metafora della vita o non è piuttosto la vita metafora del gioco?

Fare squadra ha ancora senso?

La felicità – in famiglia, nella società, nel lavoro – passa dal fare squadra?

E qual è il rapporto tra successo e felicità?

Di seguito, gli approfondimenti di Simona Lo Iacono e Salvo Zappulla (che mi daranno una mano a moderare la discussione)

Massimo Maugeri
(continua…)

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lunedì, 9 marzo 2009

UN ANGELO CLANDESTINO

mano-tesa.JPGNon sempre capita di avere intuizioni giuste. A volte accade.
Accadde quella volta che, parlando con Simona Lo Iacono – scrittrice e magistrato – le accennai alla possibilità di elaborare una nuova poetica capace di unire letteratura e diritto, parola e processo. Leggendo le sue pagine ebbi la chiara percezione che quelle due identità di giurista e amante della letteratura potessero confluire dando vita a una voce ulteriore. Così mi venne in mente la frase: letteratura è diritto, letteratura è vita. Le proposi uno spazio, su questo blog, utilizzando quella frase come titolo. Accettò con entusiasmo.
Con altrettanto entusiasmo introduco la nuova puntata di questa rubrica a metà tra diritto e letteratura. Il tema trattato è attualissimo. Parliamo di clandestini.
Simona Lo Iacono ci racconterà, da par suo, una storia nata in un’aula del tribunale che dirige. Una storia che ha come protagonisti un ragazzo – un clandestino – e il potere taumaturgico della parola. Il ragazzo si chiamerà Angelo, anche se non è il suo vero nome. Un nome fittizio, ma evocativo, che forse sarebbe giusto tributare anche all’avvocato che ha seguito questo caso a titolo gratuito (e che parteciperà alla discussione con un nome altrettanto inventato).
La storia di Angelo è una storia forte, dura. Vedrete.
Ma vorrei andare oltre…
Vorrei tentare di moltiplicare le voci, alternare i punti di vista, mischiare storie vere a storie letterarie. Perché letteratura è diritto, letteratura è vita.
E allora mi viene in mente che la storia di Angelo è la storia di un senzaterra. Chi è più senzaterra di un clandestino? Un clandestino fugge dalla propria terra d’origine, dunque la perde; mette piede in una terra che non può accoglierlo in maniera regolare, dunque non la trova. Un clandestino è doppiamente senzaterra. Ha perso la terra in cui ha aperto gli occhi, non trova quella in cui li ha posati.
Senzaterra è anche il titolo di un romanzo di Evelina Santangelo: scrittrice, traduttrice ed editor della Einaudi. Questo di Evelina è “un libro durissimo sul nostro Sud e su tutti i Sud: una storia di spaesati in cerca di una terra” che racconta – tra le altre cose – le vicende di clandestini che arrivano su barconi, si disperdono nelle campagne, si acconciano a lavorare per una mancia di euro nelle serre che, come «un mare finto», dilagano nel paesaggio. Così è stato anche per Alì, un nordafricano che, espulso dalla propria terra, ha scelto la clandestinità e l’anonimato di quei tunnel di plastica. E proprio in un’azienda che produce ortaggi in serra s’incrociano i destini di Gaetano (un ragazzo di un remoto paese della Sicilia) e Alì. Una serra gestita da un boss della zone, don Michele, che apprezza i «bravi lavoratori» che non «parrano ammatula», che sanno cioè tenere la bocca chiusa. Le due vicende umane, quella di Alì e quella di Gaetano, finiscono così quasi per sovrapporsi, diventare una lo specchio dell’altra. Alì è un «senzaterra», in balìa del suo destino d’immigrato. Gaetano è uno che crede di averla, una terra, solo che, a poco a poco, sarà costretto a vedersela sfarinare sotto i piedi.
Ho invitato Evelina Santangelo a partecipare al dibattito per raccontarci la storia di questo suo libro, confrontarla con quella di Angelo e interagire con Simona e l’avvocato che tutela il ragazzo.
Un’altra voce di questo post sarà quella di Christiana de Caldas Brito, psicoterapeuta e scrittrice nata a Rio de Janeiro, ma che oggi vive e lavora a Roma. Ha iniziato a scrivere in Italia grazie al Concorso Eks&Tra. In antologie e on line ha pubblicato racconti e saggi. Da due anni svolge insieme a Livia Bazu, il laboratorio di scrittura con partecipanti italiani, romeni e francesi all’interno del progetto Grundtvig European Programme – Arte Terapia Sociale.
Queste voci, naturalmente, si mischieranno alle vostre. Il tema – dicevo – è quello della clandestinità e del potere della parola.
La parola è diritto, la parola è vita.
Di seguito potrete leggere il bel racconto di Simona Lo Iacono.

Massimo Maugeri

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LO CHIAMERÒ ANGELO
di Simona Lo Iacono

simona_lo_iacono.JPGLo chiamerò Angelo.
Gli darò un nome di ali e di cielo.
Ma è l’unica cosa che gli presterò. I suoi occhi rimarranno quelli con cui mi guardò quel giorno: acquosi. Sgranati come acini pesti. Le sue mani scure. Più bianche nei palmi. Addomesticate a trattenersi.
I denti perfettamente allineati sulle gengive nere. Sul sorriso perplesso.
Le parole a sillabe e a tratti. Poi un fiume. Come inabissate e affiorate da una feritoia imprevista. Balzate da un’ impensabile via.
Il giorno in cui conobbi Angelo l’udienza fermentava di voci. Sudore. Avvocati annoiati. Testi reticenti.
Era una di quelle giornate in cui giudicare stanca. L’umanità stanca. L’errore, la falla, la sentenza o l’ordinanza sembrano niente più che una firma, svolazzata su una scartoffia annerita. Polverosa. Senza emozione.
Il cancelliere non mi annunciò Angelo. Mi disse solo: dottoressa, quel ricorso.
Quale ricorso?
Quello del clandestino.
Ah, lo faccia entrare. E chiuda la porta. (continua…)

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martedì, 18 novembre 2008

RESPONSABILITA’ LEGALE DELLA SCRITTURA IN RETE

accoglienza.jpgLa libertà individuale, anche di espressione, trova argini nel rispetto altrui.
La suddetta frase la trovate all’interno di una nota dal titolo “Avvertenza” che trovate sulla colonna di sinistra del blog. Si tratta di una dichiarazione di principio in cui credo fermamente.
Sulla destra del blog, invece, all’interno dello spazio “Nota legale, Responsabilità, Netiquette” (sotto “Netiquette”) trovate scritto quanto segue:
“Letteratitudine nasce fondamentalmente come luogo di incontro. Per tale motivo si basa sui principii dell’accoglienza e della cordialità. Il creatore e gestore del blog ringrazia anticipatamente tutti coloro che, con i loro interventi, daranno un contributo a mantenere un clima di accoglienza e serenità.
Naturalmente, nell’ambito delle discussioni proposte, è ammessa la polemica… purché sia sensata, utile e costruttiva; ma sempre entro i limiti dell’assoluto rispetto di persone e opinioni
.”

Ecco. Io questo blog lo intendo così. 

Credo nei principii dell’accoglienza e della condivisione. E continuerò a crederci.

Ciò premesso, questo post ha una funzione di “servizio”.
Troppo spesso si interviene in Rete con l’errata convinzione di poter scrivere qualunque cosa, dimenticando che accanto ai diritti figurano… “responsabilità”.
Ebbene sì. Scrivere in Rete implica anche responsabilità di natura legale. Non tutti ne sono a conoscenza, e qualcuno talvolta – magari in buona fede – assume un comportamento che potrebbe dar luogo a gravi conseguenze.

E questo è un altro dei motivi per cui spesso intervengo per smorzare i toni. E per invitarvi alla moderazione.

Ho chiesto a Simona Lo Iacono, scrittrice e magistrato, dirigente del Tribunale di Avola (SR), di predisporre un intervento sul tema accennatovi.
Il fine è quello di poter fare chiarezza e soprattutto… informare. Credo sia importante. Per questo chiedo a tutti i miei amici blogger di aiutarmi a divulgare questo post.
Simona Lo Iacono risponderà alle vostre domande di natura tecnica (e lo farà avvalendosi della sua esperienza di magistrato maturata in undici anni di brillante carriera), mentre è invece invitata dal sottoscritto a non replicare a eventuali considerazioni di carattere politico o di altra natura.

Contestualmente avremo modo di discutere del Disegno di Legge Levi, il cosiddetto decreto “ammazzablog”.

Quello che propongo è un dibattito sereno, alla conclusione del quale ciascuno di noi avrà modo di trarre le proprie conclusioni.

Prima di lasciare lo spazio a Simona vi pongo una domanda.
A vostro avviso, quale deve essere (se ci deve essere) il limite della libertà di espressione, peraltro garantita dalla nostra Costituzione?
Vi ringrazio anticipatamente per la collaborazione.

Massimo Maugeri
(continua…)

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lunedì, 4 agosto 2008

IL CENTENARIO DELLA NASCITA DI ELIO VITTORINI

elio-vittorini-ritratto.JPGCent’anni fa – per esattezza il 23 luglio 1908 – nasceva Elio Vittorini.
Dedichiamo uno spazio (e un dibattito) a questo grande intellettuale e scrittore siracusano.
Di seguito avrete la possibilità di leggere quattro interventi.
Il primo è firmato da Ernesto Ferrero ed è stato pubblicato su Tuttolibri del 26 luglio.
Gli altri sono stati realizzati, dietro mia richiesta, dagli amici scrittori siracusani che frequentano questo blog: Maria Lucia Riccioli, Salvo Zappulla, Simona Lo Iacono (Maria Lucia, Salvo e Simona mi daranno una mano per moderare e animare il post).

Vi pongo alcune domande, estrapolate dagli articoli che leggerete di seguito.
Le prime sono di Ferrero (pensate con riferimento a Vittorini):
Chi è, cosa deve fare uno scrittore? In che modo deve mettersi in relazione con la società? Cosa può fare per la collettività?
E poi (pescando dal pezzo della Riccioli)…
Cosa rimane di Elio Vittorini?
Quali sono stati i frutti della sua opera? Riusciamo a scorgerli ancora oggi? Vittorini è ancora un autore fecondo e vitale, a parte il suo ruolo di “editor” e organizzatore di cultura?
Il suo stile? L’ermetismo, il simbolismo allegorico? Sono ancora proponibili?

Insomma… Vittorini.
Un’occasione per ricordarlo. E per parlarne.
Massimo Maugeri

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Il centenario della nascita di Elio Vittorini
di Ernesto Ferrero (da Tuttolibri del 26 luglio 2008)

Non c’era davvero miglior modo di ricordare il centenario della nascita di Elio Vittorini (23 luglio 1908) che evitare la melassa buonista di simili occasioni e stare ai testi: come questo secondo e ultimo tomo che raccoglie i suoi articoli e interventi 1938-1965 (il primo copriva gli anni 1926-37, in cui ebbe tanta parte il soggiorno a Firenze e la furiosa attività traduttoria).
Sono oltre mille pagine, curate come meglio non si potrebbe da Raffaella Rodondi, degna allieva di Dante Isella. Dico subito che le sue note sono così approfondite ed esaustive che chi vuole occuparsi della cultura italiana del periodo dovrà passare di lì. Vi troverà una miniera di notizie e documenti.
Lo si frequenta poco, Vittorini, a parte Conversazione in Sicilia, che tiene ancora benissimo.
Da tempo è sparita dal nostro orizzonte la sua fervida progettualità utopistica a 360 gradi. Non parliamo poi della sua pretesa di concorrere attraverso la letteratura a una rigenerazione collettiva, addirittura alla nascita di un uomo nuovo. La tensione appassionata e sciamanica con
cui il Gran Siracusano insegue il moderno, inventandoselo anche quando non se ne vedono tracce, ripercorsa adesso risulta commovente.
Uscito da un arcaico mondo contadino, lo conosce troppo bene per abbandonarsi a idilli e nostalgie, che anzi non si stanca di deprecare. Gli interessa l’incontro-scontro con le metropoli, con l’industria, il nuovo mondo che dovrebbe nascere da una sorta di palingenesi collettiva. Ha la bulimia del futuro prossimo. Se le domande sono sempre le stesse (chi è, cosa deve fare uno
scrittore? In che modo deve mettersi in relazione con la società, cosa può fare per la collettività?), ricorrenti sono anche le risposte, pur nel variare di quell’«irta vegetazione di metafore» di cui parla Italo Calvino (ma forse più avvolgente che irta): scoprire qualcosa che ancora non si conosce, aggiungere qualcosa di nuovo all’umana coscienza, fuori dai lacci delle ideologie e dei concetti astratti. Certo non «suonare il piffero per la rivoluzione», come scrisse a Togliatti nel corso della famosa polemica su «Politecnico». Vittorini sognava una letteratura che sapesse interagire al livello più alto con tutte le attività umane, che ne fosse il lievito, lo stimolo permanente.
Era (dice ancora Calvino) totalmente immune dalla negatività esistenziale, dalle voluttà del nichilismo, dalle scissioni dell’Io che connotano il Novecento degli sconfitti contenti di esserlo. Anteponeva l’urgenza di un rinnovamento vero alla sua stessa creatività personale, esempio unico di disinteresse.
Nel volume c’è di tutto: saggi, articoli di varia occasione, recensioni, i risvolti per i «Gettoni» einaudiani (sempre imprevedibili, spesso a contropelo), schede di lettura, interviste autobiografiche (tenerissime), risposte a inchieste e dibattiti, elzeviri, corsivi, scritti sull’arte (Dosso Dossi ma anche Cassinari e Guttuso), dibatti sul fumetto (con Eco), abbozzi di storie letterarie, lucidi ripensamenti dei propri libri, ma si possono comunque identificare alcuni nuclei forti. Il gran lavoro sugli americani, anche in vista dell’antologia poi pubblicata da Bompiani (Saroyan, James Cain, Caldwell, Faulkner, Steinbeck, Wright, John Fante); gli interventi febbrili su Politecnico (1945-47), poi sul Menabò (1959-65), principalmente centrati sul solito dolente nodo dei rapporti tra cultura e politica e sull’impegno.
Non c’è campo in cui l’autodidatta non scateni le sue curiosità, creando collegamenti fulminei,
sorprendendo il lettore laddove meno se lo aspetta.
Parla schietto, trasferendo nello scritto la vivacità orale. Gran comunicatore, incantatore nato,
immune da rigidezze accademiche e specialistiche, mercuriale sempre. Così pronto ad ammettere i propri errori che anche un nemico non può che rassegnarsi ad amarlo. Dichiara
odi e amori con il candore degli innocenti. Dice (negli Anni 30) di detestare Voltaire e Balzac,
Kipling, Rilke e Kafka, D’Annunzio e Dostoevskij e idolatra Hemingway al di là del ragionevole,
ma è capace di mandare a Montale, dalle colonne di un periodico giovanile, un saluto di ringraziamento per le Occasioni appena uscite («il fatto più importante, oltreché il più felice, dei nostri ultimi mesi di storia umana»).
Perché nel cuore di Vittorini, felice perché sempre in movimento, lanciato verso il prossimo
ostacolo, non c’è la letteratura, c’è l’uomo. La letteratura è uno strumento da usare bene, come tanti altri. Per questo si sdegna perché nel primo governo repubblicano non è stata chiamata una sola donna, nemmeno come sottosegretario.
Ripete che il più umile dei problemi di una città ha un significato per la cultura in assoluto. Richiesto di autodefinirsi, si iscrive nella categoria dei «poeti civili», lui che non ha scritto un verso. E nel 1964 arriva a dire che la letteratura è ormai destituita d’importanza, si è fatta semplice mediatrice di cose scoperte da altri.
Che la nostra fantasia è vecchia, governata da una concezione del mondo che risale a Tolomeo. Negli ultimi anni, per coerenza, si butta a leggere di scienza, matematica, biologia,
astrofisica. Dice che bisogna continuare a scrivere senza la presunzione di credere che sia importante.
Come sarebbe bello che il calore delle indomite passioni di questo «indiano delle riserve» (come si definiva autoironicamente, ma senza indietreggiare di un pollice) arrivasse fino a noi, al nostro deserto di cenere governato dal marketing.

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Cosa rimane di Vittorini?
di Maria Lucia Riccioli

maria_lucia-riccioli.JPG23 luglio 1908 – 23 luglio 2008.
Vittorini cent’anni dopo la sua nascita.
Cosa rimane di uno scrittore? Ce lo chiediamo spesso, in particolare quando si verificano ricorrenze come quelle dei cinquantenari o in questo caso dei centenari.
La figura e l’opera di Vittorini sono state fondamentali per la cultura italiana tra le due guerre e oltre. Ma quali ne sono stati i frutti? Riusciamo a scorgerli ancora oggi? Vittorini è ancora un autore fecondo e vitale, a parte il suo ruolo di “editor” e organizzatore di cultura?
Siracusa dedica da anni un premio letterario ad Elio Vittorini e quest’anno è stata curata la pubblicazione di un volumetto che raccoglie estratti dalle sue opere più note, dei disegni realizzati da Guttuso per un’edizione di “Conversazione in Sicilia” che però vide la luce solo nel 1986. Speriamo che si realizzi il sogno di Siracusa di fare di più – magari una casa museo, una biblioteca – per onorarlo degnamente.
La Sicilia è stata sempre mater poco materna con i suoi figli più illustri e con Vittorini non ha fatto eccezione. Il figlio del ferroviere, cognato di Salvatore Quasimodo, che vide la luce nell’isola di Ortigia, alla Mastrarua, poi Via Vittorio Veneto, dopo i primi studi, il formarsi di una precoce coscienza politica e le febbrili entusiastiche letture, ha fatto la sua fortuna “in continente”.
Cosa resta, dicevamo, di Vittorini? Le istanze della denuncia civile? L’ideale riscatto degli umiliati e offesi? Vittorini patì anche l’ottusità ideologica degli stessi compagni di partito (Togliatti e il suo becero “Vittorini se n’è gliuto e soli ci ha lasciato”), oltre alla sostanziale incomprensione e indifferenza dei conterranei.
La sprovincializzazione della nostra letteratura? Grazie all’antologia “Americana”, grazie ad uno stile che risente della lezione degli autori statunitensi. L’esperienza neoilluministica de “Il Politecnico” fu fondamentale, come la sua opera di “talent scout”.
Il suo stile? L’ermetismo, il simbolismo allegorico? Sono ancora proponibili?
Certo rimane memorabile il lirismo dell’incipit di “Conversazione in Sicilia”:

Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi sono messo a raccontare. Ma bisogna dica che ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, i qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero a capo chino.vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un’ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo.
Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l’acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete.

Rimangono la passione per i libri e la letteratura, scoperta e passione giovanile:

È una fortuna aver letto quando si era ragazzi. È doppia fortuna aver letto libri di vecchi tempi e vecchi paesi, libri di storia, libri di viaggi e le Mille e una notte in special modo. Uno può ricordare anche quello che ha letto come se lo avesse in qualche modo vissuto, e uno ha la storia degli uomini e tutto il mondo in sé, con la propria infanzia.

Vorrei che iniziassimo un dibattito innescato dalle mie domande e da quelle che ci verranno in mente. Sono onorata di scrivere su Vittorini per orgoglio di comune siracusanità e spero che i miei concittadini prima o poi si sveglino dall’apatica quiete della non speranza.

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Vittorini editore e il suo rapporto con il cinema
di Salvo Zappulla

salvo_zappulla.JPGVittorini è stato uno degli intellettuali più poliedrici del ventesimo secolo, autodidatta, letterato per vocazione, aveva una visione pessimistica della vita, una costante tristezza che esprimeva attraverso la scrittura. E’ stato sempre dalla parte degli ultimi, i lavoratori, gli oppressi. Loro sapevano che di lui potevano fidarsi, e lo amavano. Si definiva un solariano e questo termine ne racchiude altri che intendono antifascista, europeista, antitradizionalista. In poche parole: illuminista. Se consideriamo che egli dichiarava con forza le proprie idee, in un momento storico in cui un sistema autarchico consigliava una certa “prudenza”, ci possiamo rendere conto della grandezza di quest’uomo. E’ nota la sua collaborazione con la Einaudi per la quale curò la collana I gettoni che servì a lanciare autori come Calvino, Fenoglio, Romano, Rigoni Stern, Ottieri, Testori, Bonaviri ed altri. Altrettanto famoso – una macchia sulla sua coscienza di intellettuale – fu il suo rifiuto al romanzo di Tomasi di Lampedusa. Va precisato però che il romanzo subì prima un rifiuto da parte della Mondadori alla quale Tomasi di Lampedusa aveva inviato quattro capitoli tramite il cugino Lucio Piccolo. Il testo letto dai redattori (Ricci, Antonielli e Romanò) pur non ricevendo un giudizio del tutto negativo, non fu ritenuto idoneo alla pubblicazione. Vittorini in quel caso si limitò a dare il suo parere conclusivo senza leggere il dattiloscritto personalmente. Successivamente egli ricevette ancora parte del dattiloscritto affinché il romanzo venisse pubblicato su I gettoni, ma lo ritenne lontano per la sua idea della collana in quanto Il Gattopardo, emblema dell’inettitudine sociale e politica della nobiltà siciliana, era un tema ritenuto da lui piuttosto stantìo. Come sappiamo il romanzo verrà pubblicato da Feltrinelli nel 1958 a cura di Giorgio Bassani. Forse il suo rapporto con il cinema è il meno conosciuto rispetto alle molteplici attività di intellettuale. Alla fine degli anni Trenta non esisteva in Italia una vera e propria critica cinematografica e Solaria fu una delle prime riviste a dare ampio spazio a questo settore. Gli anni fiorentini (1930-1938) sono quelli in cui Elio Vittorini si avvicina alla critica cinematografica, anche se costituisce sempre un’attività marginale rispetto alla sua corposa produzione letteraria. Sono anni di difficoltà economica per la famiglia Vittorini, ed egli si presta persino a interpretare una parte nel film Romeo e Giulietta di Castellani. L’attività dello scrittore è frenetica ma l’impegno dedicato al cinema è autentico ed estremamente competente. Egli afferma: “L’essenza artistica del cinematografo è nel movimento”. E ad esso occorre, se necessario, sacrificare le bellezze accessorie. Quando si riferisce al movimento, di successioni, di immagini, di ritmo, si riferisce al montaggio così come è inteso dai grandi maestri dell’avanguardia russa. Aveva una grande passione per Charlie Chaplin, la cui arte – a suo parere – apparteneva alla storia. Era tale la stima per il grande comico, che nel numero 10 del Politecnico gli dedica un articolo, anche se non firmato, ma la cui impronta stilistica è inconfondibilmente sua. Vittorini attribuiva al cinema un ruolo fondamentale per l’educazione del popolo italiano e già, sempre nel Politecnico, secondo numero, pubblica un breve articolo dal titolo ”Il cinematografo dell’avvenire”, a cui fa seguito nel numero successivo un altro scritto a firma di Carlo Luzzari. Il cinema come specchio dei tempi e dei problemi sociali. Tutta l’attività di Vittorini si sviluppa all’insegna dell’impegno civile e ideologico, un neorealismo che non va inteso nel suo senso più ristretto ma che lascia spazio alla poesia, al lirismo, permeato da grande valenza etica. Sicuramente ha lasciato un segno tangibile sulla storia degli uomini.

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Vittorini e l’Isola
di Simona Lo Iacono

simona_lo_iacono.JPGSi dice che l’uomo sia una scaglia di terra. Che sia nato da fango misto a saliva. Si dice che è questo a suggerirgli i passi. Che è la forma di quella terra a dar corpo al suo corpo. Parola alla sua parola. Sguardo al suo sguardo.
Si dice.
Ma non si dice soltanto.
Si sente.
Si sente se è grumo di montagna, goccia di lago, o sale di mare.
Si sente se è uomo di isola o di continente.
Ecco. Elio Vittorini fu uomo di isola. E lo fu due volte.
Perché non fu solo siciliano. Ma Siracusano. E di quella parte di Siracusa che è isola dell’isola: Ortigia.
Il nome pare venga da “quaglia”, perché Ortigia è un isolotto arpionato alla città e che dall’alto richiama la fisionomia di questo uccello.
Ma io che ci abito, io che ne respiro l’accroccato divincolarsi tra strade dai nomi ebrei, arabi, greci, io che saluto lo scudo della dea Atena che svetta dal Duomo sol che apra le mie finestre – io so che Ortigia non è nome di quaglia.
E che – anzi – non è neanche nome.
Piuttosto modalità dell’essere. Del vivere.
Del morire.
Tanto che non se ne può prescindere per comprendere l’opera di Vittorini. Né si può ignorare il suo essere contemporaneamente dentro la Sicilia e fuori di essa, quasi su un battello pencolante, che con uno sboffo di corrente potrebbe mollare gli ormeggi.
Doppia isola, dunque. E doppia solitudine. Doppio errare.
Doppio esilio.
Perché l’isolano è esule. E’ straniero.
Ma l’isolano che dall’isola passa ad un’altra isola è quasi un pellegrino di mare. Un eterno viandante. Un Ulisse meno precario che deve fare i conti con una stabilità sempre da rincorrere.
A tal punto scava in noi, la forma della terra.
A tal punto un duplice rimando ci costringe ad allungare lo sguardo – avanti e ancora avanti – a tal punto ci impone di sognare due volte.
E poi, allontanarsi due volte. Tornare due volte. Intascarsi non una, ma due manciate di nostalgia.
Credo che in questa somma di ostacoli sia da cercare anche il senso del viaggio. Della navigata che in “Conversazione in Sicilia” non solca solo lo stretto di Messina, non Scilla e Cariddi, non una fetta di mare.
Ma un portale. Un ingresso in una dimensione e poi in un’altra. Un varco tagliato da uno Stige.
Quando questo confine viene oltrepassato la memoria di ciò che ci precede vacilla. Perché rientrando in Sicilia e poi ancora in Ortigia, il passo si abitua all’ondeggio del mare.
Lo vedi che ti assale ovunque, se vai avanti, se guardi indietro, se torni a casa.
Ovunque, ovunque. L’acqua a frastagliarti addosso come un dolore. Di non poter che essere questo. Questo oscillare e questo complicato rientro che non si accontenta di compiersi come per gli altri.
Che per te si raddoppierà sempre.
A tal punto scava in noi, la forma della terra.

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giovedì, 10 luglio 2008

LETTERATURA È DIRITTO, LETTERATURA È VITA (di Simona Lo Iacono)

Simona Lo Iacono la conoscete molto bene, perché è di casa qui. Scrittrice dalla penna lirica e immaginifica, è la creatrice, la mente e il braccio di un importante salotto letterario che ha sede in casa sua, a Siracusa. Ma Simona Lo Iacono è anche un valente magistrato (dirige il Tribunale di Avola).
Ho pensato di intestare a Simona una nuova rubrica di Letteratitudine dove confluiranno talento letterario ed esperienza di giurista.
Il titolo è: Letteratura è diritto, letteratura è vita. Piuttosto evocativo, vero?
Qui potrete leggere storie nate nelle aule di Tribunale, articoli sulle “implicazioni giuridiche” della scrittura (soprattutto quella in rete), considerazioni su romanzi che incrociano la sfera del diritto e molto altro (perché letteratura è diritto… ma è, soprattutto, vita).

Intanto vi invito a gustarvi il pezzo omonimo della rubrica (lo trovate di seguito) e a interagire con l’autrice.

Vi ricordo che è disponibile, on line, il bellissimo racconto I semi delle fave, firmato – appunto – da Simona Lo Iacono.

Auguri, Simona!

Massimo Maugeri

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Letteratura è diritto, letteratura è vita

di Simona Lo Iacono

Ci sono albe che si somigliano. Che si sovrappongono. Che ci appartengono anche se le chiamiamo con nomi diversi.
Sono le albe in cui l’uomo ha immerso lo sguardo in se stesso. In cui si è contemplato e ha scoperto che era un’eredità. Che aveva un passato. Una storia da ricordare.
Le origini del diritto si confondono con le origini della letteratura. Con l’esigenza di raccontarsi e di codificare regole per migliorare la convivenza. E sebbene l’alba della parola sembri non avere assonanza con quella della norma, l’uomo le ha viste nascere insieme. Ha posato lo sguardo su di esse nello stesso momento.
Perchè raccontandosi e non perdendo memoria della propria storia, l’uomo la esaminava e formulava ipotesi per disciplinarla. Perché narrazione e regolamentazione fanno parte della stessa necessità: sopravvivere.
E perché laddove una smarriva la strada, l’altra sopravveniva a colmarla. Dove l’una perdeva la pietà, l’altra riesumava lacrime e dolori.
Letteratura e diritto sono sorelle.
Sono sorelle nel rappresentare l’uomo e i suoi errori. Nel raccoglierne i lamenti. Sono sorelle nell’identificarne la voce, nell’interpretarne i desideri.
Nessun intreccio è più complementare: diritto e letteratura. Rimandano l’uno all’altra lambendo un unico e misterioso continente: quello della natura umana.
Perché la legge non è un abito che dall’esterno ci vesta. Non è forma – indurita da precetti – che ignori la fragilità umana. La legge è frutto di quella fragilità. E’ sintesi della sua precarietà. E’ la stessa occhiata stupefatta su quell’alba. E nasconde lo stesso incanto nell’interrogarsi.
La pratica giudiziaria lo dimostra. Le norme più rispettate sono quelle percepite come conformi all’identità di un popolo. Alla sua esigenza di essere interpretato nei propri bisogni. Al risuonare della sua anima.
E le storie seguite con più passione sono quelle che nascono da una norma violata. Da un’esigenza di riparazione. Da un cambiamento che si concluda con una risposta. Non con un’altra domanda.
Perché la vita è già domanda. E’ già viaggio e cambiamento. Affastellarsi di umori sovrapposti che esigono giustificazione.
Il processo è una giustificazione. Così come il romanzo.
Io credo che il miglior processo sia quello che si conclude dopo aver scavato dolentemente e sinceramente nella ricerca di una giustificazione al mistero di esistere. E che tale sia anche il miglior romanzo.
Se entrambi conciliano pietà e fantasia, verità e desiderio di sottoporsi a questa verità, nessun imputato né alcun lettore potrà pensare di non avere avuto giustizia.
Simona Lo Iacono

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domenica, 29 giugno 2008

PRESTO TI SVEGLIERAI. Incontro con Francesco Costa

In quali circostanze potresti uccidere qualcuno?
Conosci qualcuno che sarebbe disposto ad uccidere pur di realizzare i propri sogni?

Due domande che emergono dall’ottimo – e divertentissimo - romanzo di Francesco Costa (nella foto) “Presto ti sveglierai”, edito da da Salani.
Due domande sulle quali si potrebbe discutere a lungo.
Vi invito a interagire con l’autore, che parteciperà al dibattito.

Di seguito potrete leggere le recensioni di Maria Lucia Riccioli – che mi darà una mano a moderare il dibattito – e Antonella Cilento (il suo pezzo è già apparso sulle pagine culturali de “Il Mattino”).

Subito dopo… una bella intervista rilasciata all’inesauribile Simona Lo Iacono (che si presenta all’intervistato nei panni di… Pulcinella)

E poi, sinceramente (e magari con un pizzico di sana ironia)… provate a rispondere!
In quali circostanze potreste uccidere qualcuno?
Conoscete qualcuno che sarebbe disposto ad uccidere pur di realizzare i propri sogni?

Mica facile!

Massimo Maugeri

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Francesco Costa, Presto ti sveglierai, Salani Editore, Milano 2008, pag. 222

recensione di Maria Lucia Riccioli

Presto ti sveglierai è uscito pochi giorni fa per Salani dalla penna oraziana di Francesco Costa.
Oraziana, sì, perché al di là, infatti, della scrittura serrata, del ritmo indiavolato, sostenutissimo della pagina – e qui si avverte il tocco del Francesco Costa sceneggiatore per la televisione e il cinema – serpeggia una malinconia disillusa, che è l’altra faccia della medaglia di quella solarità che connota – ma è proprio così? – i napoletani.
Di oraziano c’è anche il gusto per la battuta arguta, mai veramente cattiva, il dono dei ritratti indovinatissimi, tracciati in punta di penna, un senso morale fatto di sano buonsenso e di bonomia nient’affatto superciliosa.

«In quali circostanze potresti uccidere qualcuno?» (p. 7).

La domanda dell’incipit non potrebbe più perentoria.
Suo malgrado, Laura questa domanda dovrà porsela, lei che sembra essere, proprio come il suo minuscolo amatissimo giardino con un pino centenario, un’oasi integerrima e diciamocelo pure un po’ fessa in un mondo di strafichi furbastri arrampicatori fotticompagnisti.
A partire proprio da casa sua: la figlia Gemma cambia look – bonza, dark, intellettuale… – a ritmo vertiginoso ed è convinta di poter sfondare come scrittrice con un romanzo intitolato nientepopodimeno che Rebecca la porca; il marito Stefano la ignora, la tradisce forse con la bellissima Clara e non perde occasione per rimproverarle l’attaccamento alla morale kantiana ritenuta muffosa e fuori moda.
Per non parlare di colleghi e alunni, di Regina Saporito, vicina di casa tutta invidia e falsa cortesia…
C’è persino un surreale Gesù a vegliare, a suo modo, sulle vicende di Laura.

«Conosci qualcuno che sarebbe disposto ad uccidere pur di realizzare i propri sogni?» (p. 7).

Morale, certezze, valori vacillano di fronte all’ipotesi ventilata dal tubo catodico.

«… Allora raccontalo a Miriam!» (p. 8).

Miriam è la quintessenza dello sfasciume televisivo che ha inquinato le intelligenze e le coscienze di tutta Italia e conduce l’ennesimo reality, volto ad indagare sulle fantasie omicide che infettano anche gli animi più insospettabili, come quello di Laura.
Mite e persino goffa nella sua ingenua semplicità, la nostra sprovveduta protagonista si troverà coinvolta in un complotto che include camorristi, professori in piena crisi d’autorità, vaiasse e persino un poliziotto dall’augurale nome di Speranza.

«Per salvare la vita alla persona che ami, per eliminare un ostacolo tra te e una ricca eredità, per conquistare l’uomo o la donna dei tuoi sogni, per impadronirti di un’automobile…» (p.11).

Il marito di Laura è stato rapito ed è tenuto in ostaggio. Solo la moglie può salvarlo impegnandosi a compiere ciò che il pavido, imbolsito, distratto Stefano non è stato capace di portare a termine: l’omicidio dell’avvocato Morris, un cattivo, un vilain della peggior specie, che l’umanità tutta vorrebbe veder sparire dalla faccia della terra. Chi esiterebbe?
Laura, combattuta tra il residuo amore verso un marito che pur non apprezzandola sempre il padre di sua figlia è, il cielo stellato sopra di lei e la legge morale dentro di sé, verrà catapultata in una sarabanda esilarante di colpi di scena fino allo scoppiettante finale, che lascia anche uno spiraglio di speranza per le sorti di Napoli.
Una Napoli devastata dall’inciviltà, dal cinismo, dall’ignoranza cafona, dalla speculazione edilizia, subissata dall’onnipresente monnezza.
Francesco Costa, con profetico tempismo – o forse è Napoli ad essere tragicamente sempre uguale a se stessa? – fa muovere Laura Belmonte in un presente quanto mai attuale.
E noi ci ritroviamo a tifare per lei e per la sua città, sperando che entrambe finalmente, il più presto possibile, come Francesco Costa si augura nel titolo del libro, si sveglino e trovino la via più “giusta” per il loro riscatto.

«È notte fonda, certo, ma prima o poi si sveglierà anche lei» (p. 222).

Maria Lucia Riccioli

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recensione di Antonella Cilento

«In quali circostanze potresti uccidere qualcuno?»: questa è la frase che lampeggia lungo le pagine di Presto ti sveglierai (Salani, pagg. 222, euro 13), brillante settimo romanzo di Francesco Costa. A pronunziare la temibile frase è un’attempata conduttrice televisiva restaurata di fresco, che si affaccia da ogni media ad inquietare una Napoli messa a ferro e a fuoco dalle emergenze: camorra, spazzatura, campi Rom (una notevole preveggenza dell’autore, considerando che questo libro è stato scritto ben prima dei recenti fatti di cronaca: ma questo, ovvero anticipare i fatti del mondo, alla buona letteratura capita). E certo il diktat televisivo in una città già così facile agli ammazzamenti, turba, o quanto meno infastidisce, la vita della quarantenne Laura Belmonte, insegnante sposata a un professore, che per conservare la sanità mentale in un mondo allo sfascio ha scelto un imperativo kantiano da ripetersi come un mantra: «Il cielo stellato sopra di me. La legge morale dentro di me». Laura vive in una piccola isola, una casetta a Fuorigrotta dove fa crescere a fatica un minuscolo giardino che la separa da una vicina invadente con un figlio che crede d’essere Gesù – le cui apparizioni esilaranti, ma anche visionarie, sono una delle punte di diamante della narrazione – fra il cimitero, che manda miasmi di morte, e un campo Rom, che di miasmi ne manda di vitali. I problemi di Laura sarebbero molto comuni: un marito che si è stancato di lei e non l’ama più con la stessa passione, una figlia adolescente assai stramba, che passa da una moda all’altra e da un’identità all’altra senza troppi imbarazzi (ora bonzo meditativo, ora autrice di Rebecca la porca, non celata satira dei romanzetti trash di giovanissimi autori analfabeti), una collega di scuola bellissima e con casa a Posillipo, amante di suo marito. Tuttavia le cose si complicano: una sera, di ritorno da una disgustosissima e trendy cena, Laura e Stefano, suo marito, vengono assaliti. Il giorno seguente Stefano scompare. Laura lo cerca invano fino a che non le viene detto che la camorra lo tiene in ostaggio e che lei lo potrà riavere solo a patto di uccidere un certo avvocato americano. Dunque, la realtà non è come appare. Cos’è finto e cos’è vero? Di più non diremo della trama, che si avvolge come una spira attorno al lettore, complice la scrittura elegantissima di Costa, fatta di composta ironia e di situazioni esilaranti, sullo sfondo di luoghi napoletani non usurati dal copione letterario ma consueti all’autore, che di Fuorigrotta e dei Campi Flegrei ha già molto narrato nei precedenti romanzi. Presto ti sveglierai è un noir pieno di comicità e di ritratti impietosi della borghesia televisiva dei nostri giorni, un libro che scorre rapido e restituisce un’aria estiva: promette e mantiene le qualità narrative già note, con in più il dono della commedia di qualità.

Antonella Cilento

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INTERVISTA A FRANCESCO COSTA

di Simona Lo Iacono

simona_lo_iacono.JPGEcco… Ho sempre pensato che ci siano scrittori che affondano tra le maglie di una città. Che le rotolano accanto col respiro. Con i propri sogni.
Scrittori di sogni e di città, diciamo allora. Che sfiatano gli stessi sboffi del vulcano che li domina. E che ne condividono il destino fatto di precarietà e sorrisi. Quella leggerezza che solo chi vive a contatto con una terra prossima a tremare e a spaccarsi sotto il passo, è in grado di raccontare.
E allora facciamo per un attimo finta di essere a Napoli.
Andiamo incontro a Francesco Costa, edito in questi giorni da Salani con “Presto ti sveglierai”.
Pur avendo un passato da fine sceneggiatore e da romanziere di successo ( abituato – tra l’altro – alle trasposizioni per il cinema delle sue storie), Francesco è, soprattutto, un uomo aperto alla meraviglia. Al raspo repentino di un entusiasmo. All’infallibile fiuto dei veri sognatori: lo stupore – sempre rinnovato – per la vita.
Uno stupore a cui di tanto in tanto non sfugge uno strappo di malinconia. Un sobbalzo di inquietudine. Ma non per intima adesione.
Più che altro, per lo scontro con un mondo strano, che ha perduto il senso della curiosità per il proprio mistero. Per l’assurda felicità di vivere.
A volte, sebbene i mascheramenti non siano il suo forte, me lo sono immaginato come un Pulcinella. Ma diverso dagli altri. Dai mille altri Pulcinella che ci si assiepano intorno.
Il “suo” Pulcinella lo immagino a capo di una banda di bambini moccolosi, arrangiato, con scarpe di due misure più grandi, il vestito sgualcito… e un libro in mano.
Si ferma. Lo guarda. Mi toglie le parole di bocca…
Sarà lui a condurre questa intervista…

“Francesco – gli domanda, infatti, Pulcinella – ma tu cos’hai in comune con me”

F: Perdonami, ma non credo che abbiamo qualcosa in comune. Mi ha messo sempre tristezza l’idea che la tua arguzia sia per te un modo di dimenticare che hai fame. Di Napoli ricordo sempre una gran fame, tutti quelli che conoscevo (adulti e bambini) parlavano sempre di quanto avessero fame. Io covavo un’idea di fuga, che poi ho messo in atto. Pulcinella non medita di scappare: è legato da sempre alla sua Napoli. Io per poterne parlare ho dovuto mettermi a debita distanza da lei.

“E con Napoli cos’hai in comune?”

F: Napoli la rivedo ogni mese per visitare la mia famiglia. Che dire? La ami e la maledici, e questo è quanto. Ho l’impressione che non ricambi mai l’amore che le porti. Perfino i recensori napoletani se la prendono comoda nel recensire i tuoi libri quando dovrebbero quantomeno meravigliarsi ed esser grati a chi, da lontano, abbia ancora la voglia di scrivere di questa stranissima, meravigliosa e tremenda città. Inseguono il potere, pure loro, e non si rendono conto che, osservati a distanza, annaspano in una situazione emergenziale che ha dell’incredibile.

“E allora, quanta parte ha la napoletanità nei tuoi libri?”

F: Credo che se fossi nato a Nairobi, parlerei di Nairobi. Parlo di Napoli perché la conosco meglio ed è un fondale adatto alle storie che mi vengono in mente. Il fatto, anzi, che il fondale sia sempre lo stesso dovrebbe a mio avviso mettere in risalto l’inesauribilità dei registri stilistici con cui posso narrare la tragicommedia umana.

“E questa amarezza che affiora tra una risata e l’altra? Questa ricerca della salvezza in una leggerezza apparente, sempre velata da meraviglia? Forse non è della sola Napoli. Forse è oggi – non credi? – l’unica via d’uscita per sopravvivere al mondo senza rinunciare alla fantasia”.

F: L’amarezza non mi appartiene, perché ho un temperamento naturalmente gioioso. Se la si sente venir fuori dai miei libri è perché i miei personaggi devono confrontarsi con qualcosa che ha dell’incredibile. Una città pazzesca, priva di alberi, seppellita sotto la spazzatura. Dominata da gente senza scrupoli. Il contesto in cui vivono metterebbe ansia pure al serafico Oblomov.

“La fantasia. Questa nemica che ti fa credere possibile l’impossibile. Che ti precede, ti perseguita e ti condanna a barricarti tra parole a cui non puoi rinunciare. Che rapporto hai con lei?”

F: La fantasia è tutto. La vita non può essere semplicemente vissuta. Va anche raccontata, per capirci qualcosa, altrimenti l’uomo impazzirebbe.

“E il tuo ultimo libro? Perchè questo titolo?”

F: E’ il mio romanzo più dichiaratamente umoristico. Volevo far ridere. Riuscirci è per uno scrittore un dono divino. Sapere che un lettore ha riso sulle tue pagine è il massimo. Mi arrivano sms ed email di lettori (anche colleghi) che mi ringraziano per le risate che si stanno facendo. Ne sono fiero. Il titolo attiene al sonno e ai sogni. E’ musicale. Ho una ricca scorta di titoli, ai quali devo appioppare un romanzo dotato di intreccio e sensi riposti. Uno scrittore parte generalmente da una storia a cui poi dare un titolo, io parto da un bel titolo e poi vi aggiungo una storia: esattamente il percorso inverso. “Presto ti sveglierai” è un titolo che mi piace, che è piaciuto all’editore, che piace a molti lettori.

“Da quale esigenza interiore è nato?”

F: Dalla voglia di far conoscere ai miei lettori la mia abilità nel registro comico. Tutti i miei libri sono percorsi da una vena ironica, ma questa black comedy, questa commedia con delitto ha costituito per me uno sforzo ulteriore nella direzione dell’umorismo più diretto, più schietto. Presto mi misurerò invece con l’horror e con il noir: dimensioni narrative che non ho ancora affrontato. Lo sfondo sarà sempre Napoli.

“E se anche da questa tua ultima fatica fosse tratto un film, com’è accaduto per altre tue opere (ultimamente rappresentate dal meraviglioso viso di Maria Grazia Cucinotta), che volti sovrapporresti a quelli dei tuoi personaggi?”

F: Ho sempre pensato a Laura, la protagonista di “Presto ti sveglierai”, come a una donna bionda e smarrita, fragile eppur energica, con occhi azzurri stupefatti, e ogni volta mi è venuta in mente Margherita Buy: sarebbe una magnifica Laura!

“Un’ultima cosa, Francè… se ti prestassi il mio vestito, lo indosseresti?”…

F: Non mi piace travestirmi. Ho già il mio bel daffare a entrare e a uscire dalle menti dei miei personaggi. E’ sufficientemente faticoso (e spesso doloroso) inventarli e poi abbandonarli, visto che quando scrivo io divento esattamente loro, al punto che entrano nei miei sogni e mi procurano a volte perfino dei terribili incubi. Quando non scrivo, preferisco il silenzio, e dispormi all’ascolto di quella specie di mood che mi fa arrivare l’eco delle prossime storie…

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Francesco Costa è nato a Napoli. Già sceneggiatore cinematografico e televisivo, ha esordito con il romanzo La volpe a tre zampe, cui s’ispira l’omonimo film di Sandro Dionisio con Miranda Otto e Angela Luce.
Sono seguiti L’imbroglio nel lenzuolo (1997), da cui è tratto un film con Maria Grazia Cucinotta, Anne Parillaud e Geraldine Chaplin – attualmente in produzione, di cui Costa ha firmato anche la sceneggiatura – Non vedrò mai Calcutta, Se piango picchiami, e Il dovere dell’ospitalità.
I suoi libri sono tradotti in Germania, Giappone, Spagna e Grecia.

Pubblicato in L'OMBRA E LA PENNA (con il contributo di Antonella Cilento), LETTERATURA È DIRITTO... È VITA (a cura di Simona Lo Iacono), SEGNALAZIONI E RECENSIONI   160 commenti »

lunedì, 9 giugno 2008

IL SUCCESSO DEL RICCIO

L’abbiamo detto altre volte. Costruire un best seller a tavolino è cosa assai difficile, praticamente impossibile. È più agevole ragionare in direzione opposta, con il “senno di poi”. Partire, cioè, da un caso di successo, magari inatteso, e interrogarsi sui motivi che tale successo, in un modo o nell’altro, l’hanno determinato.

In Francia, per esempio, c’è stato un libro che sul campo si è guadagnato il titolo di caso letterario del 2007 vendendo centinaia di migliaia di copie grazie a un impressionante passaparola. Il libro ha poi vinto il Premio dei Librai assegnato dalle librerie.

Il suddetto successo è stato sostanzialmente replicato anche qui in Italia.

Mi riferisco a L’eleganza del riccio di Muriel Barbery, tuttora in top ten, e che qualche settimana fa ha raggiunto la cima delle nostre classifiche dei libri più venduti segnando il più importante successo editoriale nella storia della casa editrice romana e/o (che al libro ha anche dedicato un apposito forum).

Vi propongo: un articolo di Daria Bignardi, la recensione della “nostra” Simona Lo Iacono (che mi darà una mano a moderare il post) e l’opinione di Giovanna Bentivoglio (editor e/o per la letteratura italiana).

A voi domando:

Cosa pensate del libro in questione? Vi ha sorpreso? Vi ha deluso? Vi aspettavate di più? Di meno? (Mi rivolgo, chiaramente, a chi ha letto il libro).

Quali sono le ragioni di tanto successo?

E poi… chiudersi a riccio, nascondersi, nascondere i propri sogni, le passioni, le aspirazioni, e coltivarle in segreto… è giusto o sbagliato? È bene o male?

Quali sono i pro e i contro?

Massimo Maugeri

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L’articolo di Daria Bignardi

L’eleganza del riccio di Muriel Barbery è in classifica da parecchio, in Francia è stato il successo dell’anno scorso e sta diventando un caso anche qui: mentre scrivo è al primo posto della narrativa straniera. L’ho letto a Natale e non mi ha deluso, era dai tempi di Quella sera dorata di Peter Cameron che non m’imbattevo in un romanzo tanto romantico. In Internet se ne discute con foga: chi lo trova un romanzetto pretenzioso pieno di difetti, chi un libro delizioso. Io sono d’accordo con entrambe le curve, anche se, dovendo votare col maggioritario, do il mio voto al partito del delizioso. Voglio dire che L’eleganza del riccio non è certo un grande romanzo contemporaneo come, che so, La versione di Barney di Mordecai Richler, ma è un libro piacevolissimo che induce sane riflessioni. Riflessioni e ricordi: di quando da ragazzi si viveva d’arte e d’amore, letteralmente, e si pensava che sarebbe stato così per sempre. Chi prima e chi dopo, quasi tutti a un certo punto abbiamo scoperto quanto i bei libri, il buon cinema, l’arte possano dare piacere.Noi l’abbiamo scoperto alle superiori, o giù di lì; la portiera Renée, il Riccio, l’ha intuito addirittura da bambina, poi però la sua vita è andata in un modo che non prevedeva scuole né teatri né biblioteche. Ma il germe di quel piacere Renée l’ha coltivato da sola, di nascosto. Il motivo per cui decide di nascondere a tutti le sue buone letture, camuffandosi da persona ignorante, è uno dei limiti del romanzo: non molto credibile e un po’ di maniera.
Ma se l’artificio letterario non è riuscitissimo, lo è invece il suo personaggio: tutti ci nascondiamo. O, almeno, tutti crediamo di farlo. I più sensibili e irrisolti di noi si sentono sempre in incognito, come Renée, e passano la vita a cercare di non farsi notare mentre coltivano in segreto passioni, speranze, sogni. Renée non spera, ma in segreto coltiva il Bello. Finge di cucinare piatti grevi che dà al suo gatto (che si chiama Lev come Tolstoj) mentre lei si nutre di piatti semplici ma raffinati, finge di guardare programmi stupidi in Tv ma in segreto studia l’anti-cinema di Ozu, legge solo classici e saggi, ascolta Mahler.
Tutto questo mentre lavora per gli inquilini ricchi di un palazzo parigino di rue de Grenelle, uno più stupido e superficiale dell’altro tranne Paloma, figlia dodicenne di un deputato, così lucida e disperata che ha deciso di uccidersi il giorno del suo compleanno. Sarebbe la coprotagonista del romanzo, ma, per quanto simpatica, scompare di fronte alla forza del personaggio del riccio Renée.Quando in rue de Grenelle 7 trasloca un ricco ma sensibile vedovo giapponese, la storia prende un ritmo cinematografico incalzante e, improvvisamente, la cultura giapponese diventa la personificazione del Bello assoluto. Non è difficile capire che sia così anche per l’autrice e lo diventa immediatamente anche per il lettore: come non averlo capito prima? È bello tornare ragazzi e credere al potere salvifico dell’arte e dell’amore: deve essere questo il motivo del successo dell’Eleganza del riccio di Muriel Barbery, insegnante di filosofia.

Daria Bignardi

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La recensione di Simona Lo Iacono

simona_lo_iacono.JPGUn condominio. Una portinaia. La vita che s’innesta su ritmi lenti, scrutati da una guardiola. E uno sfilare innanzi a essa distratto, veloce, già preso dal pensiero del  dopo, delle scale che si abbarbicano su,  o dell’ascensore lussuoso che svetterà fino all’attico di rue de Grenelle numero 7.

Da questo andirivieni che la sfiora soltanto, che a stento la lambisce come onda che rallenti sulla schiena di un pesce, la portinaia è separata da un cortile, da piante curate con concimi e spray, da pochi passi scalpiccianti su un marmo levigato, incerato di fresco.Eppure è come se in questo brevissimo spazio si dilatassero terre e continenti. Come se Renée – anni 54, vedova, pantofole ciabattanti nel sottoscala – per gli abitanti di rue de Grenelle  non esistesse.Sarà perché è mattina di afa. E sudori svaporano dai seni delle signore imbellettate. Sarà perché nell’aria naviga l’odore acre di un profumo costoso e cani di razza ticchettano per i corridoi.Renée osserva dalla guardiola. Torna a lucidare gli ottoni delle maniglie. Di nuovo solleva lo sguardo. Alle sue spalle, l’ultimo libro letto pare occhieggiarla e sussurrarle un invito. Dopo, pensa, dopo.

E dopo, quando la guardiola serra gli usci, quando  lo scuro prende ad assediare l’atrio, le vetrate, le porte su cui splendono le targhette degli interni, Renée esiste. Esiste nelle speculazioni filosofiche che le balenano in testa con raffinata spavalderia. Nella lettura di  Tolstoj. Nell’assetata conoscenza della musica classica, dell’arte contemporanea, dei film d’autore.Allora è come se da un fodero consunto guizzasse fuori una lama d’argento.  Come se dal guscio di un riccio venisse allo scoperto un corpo elegante. Come se la portinaia svaporasse dal grembiule che la  cinge ai fianchi  e intonasse un canto.Un canto ironico, colto, contemplativo. Quello che la sua autrice – Muriel Barbery (“L’eleganza del riccio” ed. e/o) – le affida impavidamente, rompendo gli schemi dell’apparenza. Quello che stranamente si incrocia – in ondeggiante riflesso – a un altro canto.

Paloma. Figlia di un ministro. Disincantata abitante  del condominio. Contestatrice silenziosa delle amicizie che contano, della lingerie di lusso, dei cibi dell’aute cousine rosolati in essenze orientali. Paloma che scrive un diario. Che tesse riflessioni e poesie. Che programma di dar fuoco alle vacuità del suo mondo in un rogo infestante.

Paloma. Che ha 12 anni e che vuole morire.Una morte di cui riempie le pagine. Di cui organizza i particolari. Di cui  recita la parte con distacco, fingendosene disinteressata. Attendendo – disperatamente attendendo  – che qualcuno  la salvi.

Ecco. E’ forse in questa inconsapevole attesa della  salvezza che le due voci si somigliano. In questa sospensione senza dolore, senza speranze. Nell’immobilità che precede lo scroscio di un acquazzone, il saettare di un fulmine, il rombare di un tuono.Questa salvezza, Renèe e Paloma non sanno neanche di vagheggiarla. Di desiderarla. Di lambirla in notti stanche, cullate dal ronfare di un gatto o dal cicaleccio della  tv. Non sanno che è prefigurazione di un viaggio. E che è anche paura di essere salvate.

Quando questa salvezza irromperà nelle loro vite – e avrà volto di uomo e di poeta – forse al lettore sembrerà tardi. Forse penserà che il destino riscuote troppi interessi e che  Renée meritava più tempo. Penserà: non ora. Non ancora.

Ma non è beffa. Né malasorte. Tu, lector, ricorda che la rivincita sta nel far affiorare assonanze. Nel lasciare che il battito del cuore illanguidisca, che il respiro si riappropri di uno spazio, che qualcuno ci sradichi dalla guardiola. Dopo, sarà come andare – finalmente andare –  a fiato pieno. Allungare  il ricordo  sul passato. Tornare a ripercorrerlo, il passato, a farne un polverio da sfarinare, ormai, tra le dita.

Simona Lo Iacono

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L’opinione di Giovanna Bentivoglio 

Il romanzo di Barbery è sicuramente un caso letterario interessante da analizzare e a parer mio verte sulla straordinaria coincidenza di una mutazione nel comune sentire di una società, quella francese, che ha comportato la rottura di luoghi comuni con la conseguente insofferenza per quello che era ritenuto il politicamente corretto corrente, e il “tempismo” dell’autrice nel coglierne e rappresentare in un romanzo la mutata sensibilità. La scrittrice ne ha avvertito i segnali e li ha trasposti in una storia abitata da uno spirito sarcastico pungente, da un’ansia di riscatto per coloro che – per una ragione o per l’altra – restano emarginati o schiacciati e dall’insofferenza per una certa casta dominante ma in rovinoso declino politico sociale (quella della cosiddetta “gauche caviar”). Il grande successo registrato anche in Italia è a mio avviso il sintomo che, al di là del valore letterario specifico del romanzo (che pure c’è), esso corrisponda a una stessa mutazione nella sensibilità comune, una stessa insofferenza nei riguardi di una rappresentanza politica e culturale che ha durevolmente detenuto il primato dell’egemonia culturale ed etica e che, come si è visto, non corrisponde più a un sistema di valori e a una identità sentita e condivisa.

Giovanna Bentivoglio

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martedì, 25 marzo 2008

DIARIO DI SCUOLA di Daniel Pennac

Quando Miriam Ravasio mi ha chiesto di discutere qui a Letteratitudine del nuovo romanzo di Pennac, Diario di Scuola (Feltrinelli. 2008, pagg. 241, euro 16), magari coinvolgendo alcuni dei frequentatori abituali di questo blog, io le ho detto subito di sì. E le ho dato carta bianca.

Ne è venuto fuori, come vedrete, un ottimo lavoro di gruppo… sulla base del quale sarà possibile avviare – ne sono convinto – un interessante dibattito.

Prima di lasciare la parola ai “quattro moschettieri di Letteratitudine” (così si sono autodefiniti per “bocca” della Ravasio) vi fornisco, con l’aiuto di wikipedia, una breve scheda biografica di Pennac.

Daniel Pennac, pseudonimo di Daniel Pennacchioni (Casablanca, 1944), è uno scrittore francese.

Nato in una famiglia di militari, passa la sua infanzia in Africa, nel Sud-Est asiatico, in Europa e nella Francia Meridionale. Ha vissuto in Etiopia, Algeria, nell’Africa Equatoriale. Ha fatto anche il mozzo lungo la Costa d’Avorio. Pessimo allievo, solo verso la fine del liceo ottiene buoni voti, quando un suo insegnante comprende la sua passione per la scrittura e al posto dei temi tradizionali gli chiede di scrivere, a puntate settimanali, un romanzo. Ottiene la laurea in lettere all’Università di Nizza, diventando contemporaneamente insegnante e scrittore. La scelta di insegnare, professione svolta per vent’otto anni a partire dal 1970, gli serviva per aver più tempo per scrivere durante le lunghe vacanze estive. Da subito,però, Pennac si appassiona alla professione di insegnante. Inizia l’attività di scrittore con un pamphlet contro l’esercito (Le service militaire au service de qui?,1973) in cui descrive la caserma come un luogo tribale che poggia su tre grandi falsi miti: la maturità, l’eguaglianza e la virilità. In tale occasione, per non nuocere a suo padre, militare di carriera, assume lo pseudonimo Pennac, contrazione del suo cognome Pennacchioni. Abbandona la saggistica in seguito all’incontro con Tudor Eliad, con il quale scrive alla fine degli anni 1970 due libri burleschi di fantapolitica (Les enfants de Yalta, 1977 e Père Noël, 1979) di scarso successo commerciale. In seguito decide di scrivere racconti per bambini. Nel 1980 si reca per un anno in Brasile dove abbozza metà di un romanzo di cui riprenderà anni dopo le idee scrivendo Messieurs les enfants (1997). Ma soprattutto scopre il romanzo giallo, leggendo Louis Berretti di Henderson D. Clark. Successivamente, scommettendo contro amici che lo ritenevano incapace di scrivere un romanzo giallo, scrive Au bonheur des ogres (Il Paradiso degli Orchi) pubblicato nel 1985 in una nota collana di romanzi gialli, e dal quale nasce involontariamente la serie di Belleville. Successivamente i romanzi gialli sono stati spostati dalla casa editrice (Gallimard) dalla collana di romanzi polizieschi alla collana di narrativa. È sposato dal 1979 con Juliette, architetto, con cui ha due figli, e vive nel quartiere di Belleville.

Pennac è diventato noto con i romanzi che girano attorno a Benjamin Malaussène, (di professione capro espiatorio) alla sua inverosimile e multietnica tribù (composta di fratellastri, sorelle veggenti, madre sempre innamorata e incinta) e a un quartiere di Parigi, Belleville. Nel 1992 Pennac ha ottienuto un grande successo con Come un romanzo, un saggio a favore della lettura.

« L’uomo costruisce case perché è vivo ma scrive libri perché si sa mortale. Vive in gruppo perché è gregario, ma legge perché si sa solo. La lettura è per lui una compagnia che non prende il posto di nessun’altra, ma che nessun’altra potrebbe sostituire ».

(Massimo Maugeri)

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Diario di scuola di Daniel Pennac

Presentazione di Miriam Ravasio (autrice de L’Occhio alato)

miriam.JPGCanto della somaraggine o della sofferenza condivisa del somaro, dei genitori e degli insegnanti, quella “sofferenza di non capire e i suoi danni collaterali”. Pagine vibranti di amore dolce e furioso per gli esclusi, che Pennac definisce i “passionari del fallimento” e per gli insegnanti “salvatori”, quelli che non mollano mai, artisti nella trasmissione della loro materia. “Nessuno è più pronto a cazziarti di un professore insoddisfatto di sé stesso”, ma “è sufficiente un professore – uno solo! – per salvarci da noi stessi e farci dimenticare tutti gli altri”.

Una magistrale lezione pedagogica, divisa in parti che voglio riassumere così: il somaro, la somaraggine, l’amore. Pagina dopo pagina il lettore ripercorre tutte le tappe di Pennac, Daniel Pennacchioni,  bambino che andava male a scuola “non capivo, ero più indietro del cane di casa”. Testimonianze, analisi, riflessioni e prese di posizione nette e anche provocatorie che non mancheranno di sollevare polemiche: un testo dirompente, da leggere e studiare. Un testo sull’organizzazione del sistema scolastico francese, dalla sua istituzione ad oggi. Dallo “zio Jules”, Jules Ferry che assicurò l’istruzione pubblica obbligatoria, al “bambino cliente” e alla sua “Nonnaccia Marketing”.

E’ quasi impossibile, anche con la disamina più attenta, comprendere i temi del libro, perché Pennac ci offre il cuore, la sua professionalità e lo spirito critico dello scrittore, attento al mutare delle abitudini e delle classi sociali. Per riuscire nell’intento  ho chiesto aiuto agli amici del blog:  Carlo Sirotti (detto Speranza) che con me coordinerà il dibattito, Simona Lo Iacono ed  Enrico Gregori interverranno con approfondimenti relativi alle loro rispettive competenze: tutela dei minori e informazione.

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DIARIO DI SCUOLA di Daniel Pennac

recensione di Carlo Speranza (nell’autocaricatura in basso)

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C’è una visione un po’ tradizionalista dello studio visto come duro lavoro e sacrificio: l’immagine è quella dell’Alfieri che si fa legare alla sedia per imporsi lo studio dei classici (sarà poi vera o frutto dell’aneddotica ?); comunque una concezione dell’impegno allo studio fatto di sudore e lacrime che si è abbattuta inesorabilmente su generazioni intere di studenti. Personalmente mi ha sempre terrorizzato e forse è per questo che non ho mai amato l’Alfieri. Anzi, debbo confessare che continuo a detestarlo ancora oggi.

Daniel Pennac già nel suo precedente “Come un romanzo” esponeva un decalogo di diritti del lettore che capovolgeva questo concetto asserendo: 1 – Il diritto di non leggere; 2- Il diritto di saltare le pagine; 3 – Il diritto di non finire il libro; 4 – Il diritto di rileggere; 5 – Il diritto di leggere qualsiasi cosa; 6 – Il diritto al bovarismo (malattia testualmente contagiosa); 7 – Il diritto di leggere ovunque; 8 – Il diritto di spizzicare; 9 -  Il diritto di leggere ad alta voce; 10 – Il diritto di tacere.

Leggere (e per estensione studiare) è quindi innanzitutto un diritto e dovrebbe pertanto essere anche un piacere. E compito di un buon maestro (per estensione anche quello della scuola) quello di insegnare ad apprezzare tale godimento. Con questo suo recente “Diario di scuola” Pennac, fedele a questa impostazione, racconta con bravi flash vicende autobiografiche di una vita trascorsa al di là e al di qua della cattedra, e ce le narra sia dal punto di vista dello studente “somaro” (perché il Daniel Pennacchioni della vita ne è stato per sua stessa ammissione un caso tipico e apparentemente senza speranza), sia dell’insegnante (professione poi da lui effettivamente esercitata), che della famiglia, la sua. E poi c’è la scuola, questo istituto a torto o a ragione così sempre più bistrattato al giorno d’oggi, che torna in queste pagine ad assumere talvolta una dimensione umana: perché in fondo ben prima dei programmi ministeriali, dei giochi della politica e delle sue riforme, la scuola è innanzitutto una comunità fatta di allievi ed insegnanti, che si devono continuamente confrontare tra di loro, che devono imparare a conoscersi a fondo e ad accettare di svolgere ognuno il proprio ruolo per permettere a tutti di “diventare”.  Perché poi nella vita ognuno “diventa” qualche cosa: e in qualche modo, grazie a tre o quattro insegnanti non necessariamente consci dell’opera salvifica che stavano svolgendo, la scuola alla fine ha permesso anche al “somaro” e pluriripetente Daniel Pennacchioni di “diventare” magicamente il professore e lo scrittore Daniel Pennac.

Perché la scuola alla fine dipende solo dagli insegnanti: ci sarà sempre quella dei bravi maestri che riescono a salvare i “somari” da una mancanza di prospettive e di un futuro e quella che per tali studenti senza speranza sarà sempre un incubo, una prigione della propria anima, un’entità ostile, fonte di malessere e di alternative compensatorie che talvolta possono sfociare nella violenza, nell’asocialità, talvolta nella delinquenza; sicuramente nell’ignoranza e nella facilità a rimanere acriticamente strumenti e vittime del consumismo e dei mali della nostra società.

E privi della capacità di apprezzare il piacere della conoscenza, perché in fondo il segreto è tutto lì: l’insegnante che non riesce a trasmettere ai suoi allievi la propria passione, il proprio “amore” (ah, questa parola che sembra così inappropriata nel contesto scolastico, quasi scandalosa!), sarà destinato a trasmettere solo nozioni e solo a chi è pronto a recepirle, a quelli che sono i “bravi” della classe, quelli che ne hanno meno bisogno perché alla fine andranno avanti comunque.

La conoscenza del non sapere (l’essere stato asino) si rivela quindi uno strumento in più per l’insegnante, ma non sufficiente se priva di una certa forma di amore. Il libro si chiude con una bellissima metafora sulle rondini che vanno a sbattere sui vetri, e quelle rondini sono gli studenti, gli allievi meno capaci.  “ Sono i nostri studenti. Le questioni di simpatia o di antipatia per l’uno o per l’altro (questioni quanto mai reali, ci mancherebbe!) non c’entrano. Nessuno di noi saprebbe dire il grado dei nostri sentimenti verso di loro. Non di questo amore si tratta. Una rondine tramortita è una rondine da rianimare, punto e basta”.

Un libro di ricordi e di riflessioni, ma fatto essenzialmente di piccoli dettagli che suggeriscono anche grandi temi pedagogici (la diversa percezione del tempo tra un grande ed un bambino, il diverso senso del presente e del futuro, l’importanza dell’autostima e della fiducia in se stessi, il senso di piccoli ma importanti rituali come l’appello mattutino in classe, …ecc.), che dovrebbero essere materia di interesse per gli insegnanti, per i genitori, per gli studenti, ma poi anche al di fuori di qualsiasi categoria, perché lo stile è quello del Pennac di sempre, leggero e frizzante come quello dei romanzi della saga del signor Malaussène e della sua stramba famiglia. Uno stile che vuole rispettare il diritto al piacere della lettura seminando qua e là gli elementi che possano costituire una seria materia di riflessione. Se il lettore vorrà coglierli: è pur sempre solamente un suo diritto.

Carlo Speranza

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L’evoluzione legislativa in tema di tutela dei minori.

di Simona Lo Iacono (nella foto in basso)

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La storia dei bambini ha gambe corte.  Fiato di sogni. Salti di gambero.E’ una storia piccola e soffiata in vasi di vetro. E’ una storia breve, anche, a volte percorsa dal tempo con balzi di lepre.

Storia, poi, non è neanche. Piuttosto voce. Tradita, a volte. Mal compresa, affogata in apparenze.E comincia tardi. Perché prima del XX secolo neanche esisteva. Solo col nascere  della famiglia borghese e della rivoluzione industriale, infatti, si afferma una cultura di protezione del bambino.

Ma tutto è ancora lasciato alla famiglia, senza nessun riscontro giuridico esterno. Il primo organismo internazionale che si occupi di bambini, il Comitato di Protezione per l’Infanzia, fu costituito dalla Società delle Nazioni solo nel 1919. Al 1924 risale invece la prima Dichiarazione dei Diritti dell’Infanzia che precisa la responsabilità degli adulti nei confronti dei minori.E nel 1946  nasce l’Unicef, una struttura creata dall’ONU, specializzata per l’infanzia, che nel 1953 diventa una organizzazione internazionale permanente. Nel 1959 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite proclama all’unanimità la Dichiarazione dei Diritti dell’Infanzia. E nel 1989  sancisce la  “Convention on the Rights of the Child”,  approdo di una graduale evoluzione della coscienza giuridica e origine delle successive iniziative legislative  all’interno dei singoli stati.

I suoi principi infatti sono stati inseriti nel testo di 14 costituzioni nazionali, e sono stati immessi nei programmi di studio di vari paesi. Ad essa fanno esplicito riferimento
la Convenzione europea sull’esercizio dei Diritti dell’Infanzia (1996), la Carta africana sui diritti e il benessere dei bambini, la Convenzione dell’Aia per la tutela dei minori in materia di adozioni internazionali (1993), la Dichiarazione di Madrid sugli aiuti umanitari (1995), la Dichiarazione di Stoccolma contro lo sfruttamento sessuale dei bambini (1996), la Convenzione ILO n. 182 sulle peggiori forme di sfruttamento minorile (1999), la Risoluzione del Parlamento europeo sul traffico dei bambini (maggio 2001).  Il testo della convenzione salvaguarda il diritto del bambino di vivere, essere accudito, rispettato, amato nella sua identità e nelle propensioni che manifesta.

Preserva dagli attacchi dell’indifferenza il suo inviolabile diritto ad essere istruito.

Proclama con forza la sua minorità e in ossequio ad essa lo tutela dallo sfruttamento e dall’abuso.

Sottolinea che ogni suo diritto è paritario e non ve ne sono alcuni sovraordinati ad altri. Inneggia a gran voce all’interesse supremo del minore, non subordinabile ad alcuno.

Eppure.

Nella pratica quotidiana del tribunale vivo faide sanguinarie tra genitori scissi e in battaglia. Campo di sterminio è il cuore dei figli, la loro aspirazione all’unità e al sogno.

Talvolta me li vedo sfilare innanzi infagottati e incappucciati. Lo zaino barcollante sulla schiena. Le mani sporche d’inchiostro. Gli occhi cespugliosi e abbacinati dal pressare di un pensiero. E allora mi dico che è vero, sì, che oggi il bambino è un soggetto giuridico attivo, centro di imputazione di inviolabili interessi. Che può immaginare il proprio futuro, anche se non in tutte le parti del mondo. E ha colori variopinti come la coda di un pavone, e carte stampate con tanto di bollo in cui è scritto che esiste.

Ma  la sua voce è  ancora flebile perché dipende  dal destino di un adulto.

C’è una storia non scritta in alcuna convezione né in alcun codice. C’è un sussurro che non appartiene alle statistiche ufficiali e alle sentenze che pronuncio in nome del popolo italiano. Ed è quella della solitudine dei bambini: non nasce dal riconoscimento di alcun diritto, né dalla proclamazione di testi legislativi. E’ storia di tutti i giorni. E dipende da noi.

Simona Lo Iacono

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Il parere di Enrico Gregori

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Pennac, a mio avviso, ha sempre avuto il pregio di comunicare pensieri profondi quasi sempre con leggerezza. E forse la lievità è proprio lo strumento adatto a trasmettere i pensieri più “ostici”. Mi interessa molto la riflessione sulla scuola. Forse gli istituti scolastici non sono sempre adeguati alla formazione, ma è molto più facile che la natura criminogena sia insita nell’individuo a prescindere dalla sua frequentazione scolastica.

Molto più spesso, direi, l’insegnante e la materia possono essere un salvagente per chi non ha mai visto altro che la bruttura e la disperazione. La cultura, a volte, funge da redenzione sincera anche per chi si trova ristretto in carcere. Quindi è ben possibile che possa funzionare come riscatto nei confronti di un giovane “incensurato”.

Quanto ai media credo che non vadano esaltati ne demonizzati. Ritengo che vadano accettati come forma di comunicazione. Se questa è corretta (purtroppo non sempre è così), fornisce gli strumenti per accostarsi ai fenomeni. Ma su questi, poi, è necessario che uno lavori e rifletta con la propria sensibilità. Se, invece, si lascia guidare da slogan e frasi fatte come fossero bastonate sul groppone, allora la condizione di “somaro contemporaneo” diventa inevitabile.

Era il 1967 quando scoppiò il “caso Zanzara”. Questo il nome del giornale scolastico del nobile” liceo milanese “Parini”, “colpevole” di aver pubblicato una piccola inchiesta sulla sessualità dei giovani.

Un articolo che, oggi, farebbe ridere persino i ragazzi della scuola media.

Eppure all’epoca fu una bomba, se non altro perché il maggio francese era ancor di là da venire. Tv e giornali si gettarono a corpo morto sulla notizia. Ovviamente ciò che fu sottolineato fu lo scandalo, il folclore, il colore.

L’atteggiamento di chi guarda la scuola con piglio severo e cattedratico.

Nel corso degli anni, fino ad arrivare a oggi, non sembra che siano trascorse 41 primavere.
Il “68″, la “pantera”, le occupazioni, i problemi didattici continuano a essere analizzati da un punto di vista superficiale e senza entrare nel merito.

In pieno 2008, quindi, se un alunno delle elementari crea una statuetta o compone un disegno, si è portati a considerare la manualità, l’impegno e la bravura tecnica. Sorprendendosi, magari, di come un bambino di 8 anni possa fare certe cose.

Si indaga poco, poco si considera ciò che ha condotto il bambino alla sua creazione. Il cuore, i pensieri, l’anima passano in secondo piano.E invece, probabilmente, sono questi elementi da tenere in considerazione. Per comprendere, se si vuole, piuttosto che giudicare.

Enrico Gregori

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Il somaro, la somaraggine, l’amore

di Miriam Ravasio

IL SOMARO

Il somaro di Pennac, è un disadattato senza fondamento storico,  senza ragione sociologica, perché lui figlio di laureati era somaro come altri  “un archetipo senza unità di misura”. Un escluso, elemento di disturbo per l’istituzione scolastica e incompreso a casa. Al punto che la madre, nell’epilogo, messo ad introduzione del racconto, non gli riconosce nemmeno il successo: Il mio avvenire le parve subito talmente compromesso che non è mai stata davvero sicura del mio presente. Perché il somaro si racconta ininterrottamente la sua somaraggine: faccio schifo, non ce la farò mai. Per loro, la scuola è un club di cui si vietano, da soli, l’accesso. Giorni e ore di scuola e di fatica per comprendere quelle parole, così facili per gli altri, e che lui ripeteva instancabilmente, come bocconi masticati senza inghiottire fino alla totale decomposizione del sapore e del senso. Sofferenza e comicità,  momenti di abbandono e voglia di riscatto, impotenza e compiacimento, perché “il somaro oscilla fra lo scusarsi di essere e il desiderio di esistere nonostante tutto”.

LA SOMARAGGINE

La somaraggine, è lo stato di solitudine e impotenza che pervade il somaro; un insieme di sentimenti e reazioni che cristallizzano l’inettitudine in odio, e in lotta aperta contro “il mostro scuola che vuole mangiarmi il cuore”. La somaraggine è anche un rapporto che muta, che vive di condizioni e nuove difficoltà. Pennac ricostruisce, per noi,  attraverso i suoi ricordi di allievo e poi di docente, la nuova condizione del somaro. Dal vendicatore solitario, un po’ alla Gian Burrasca, al “renitente” contemporaneo che non è più bambino, nemmeno adolescente ma ha gli aspetti di una nuova categoria: è un consumatore, un bambino cliente. Mentre il somaro di ieri provava una gioia cupa  nel sentirsi incomprensibile ai privilegiati del potere, lasciando comunque aperto uno spiraglio al recupero; oggi, il somaro-cliente, forte della sua maturità commerciale si preclude ad ogni intervento. Perché dovrebbe abbandonare questa sua “veste” per la posizione dell’allievo obbediente, che lui reputa infantilizzante? “Per quanto somaro sia in classe, non si sente forse padrone dell’universo quando, chiuso in camera sua, è seduto davanti alla sua consolle?”

L’AMORE

L’amore è liberare il somaro dal suo pensiero magico, che come in una fiaba lo inchioda in un eterno presente. E’ l’amore degli insegnanti che non  si lasciano ingannare dalle ammissioni d’ignoranza. Diario di scuola si conclude con un dialogo filosofico fra Daniel Pennac, docente e scrittore di successo, e  Daniel Pennacchioni, somaro. Sono domande e risposte sul Sapere e l’Ignoranza; il Sapere comprende l’Ignoranza o ne ha già elaborato il lutto? “Lo studente che va male, non ha mai la sensazione di essere ignorante. Io non mi trovavo ignorante. Io mi trovavo coglione” Pennacchioni  risponde con sicurezza all’incalzare delle domande, rifiutando le risposte che lo scrittore suggerisce. Nessuna empatia e nemmeno comprensione, nemmeno i metodi, nemmeno la psicologia; l’ignorante chiede al sapiente, che sia inclusa fra i saperi anche quello dell’ignoranza; che sia quella la base per organizzare il lavoro di  insegnare ad impegnarsi. L’ex somaro avrebbe la risposta che sta tutta in una parola. “Una parola che non puoi assolutamente pronunciare in una scuola, in un liceo, in una università, o in tutto ciò che le assomiglia…se tiri fuori questa parola parlando di istruzione ti linciano.”Puntini e puntini di sospensione per l’ultima parola  … “L’amore.”

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martedì, 18 marzo 2008

A CIASCUNO IL SUO

Ho il piacere di presentarvi due racconti molto interessanti.

Naturalmente siete invitati a leggerli e a commentarli.

Il primo racconto, intitolato “A ciascuno il suo”, (titolo sciasciano) è firmato da Veronika Simoniti. E lo trovate in questo stesso post.

Il secondo, “I semi delle fave”, è di Simona Lo Iacono. E lo trovate qui.

Preciso subito che Veronika è la moglie del “nostro” Sergio Sozi.

Entrambi i racconti sono preceduti da una breve nota biografica.

Buona lettura.

(Massimo Maugeri)

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Veronika Simoniti (1967, nella foto) vive a Lubiana, dove lavora, soprattutto per conto di grandi case editrici, come traduttrice letteraria dal francese e dall’italiano (Camilleri, Marani, Buzzati, Calvino, Pazzi, Tabucchi, Vassalli, ecc.), oltre che come Lettrice d’italiano presso
la Facoltà di Lettere e Filosofia di Lubiana.In quanto narratrice ha esordito in Slovenia nel 2005 con Zasukane štorije – raccolta di racconti brevi, segnalata dal Premio Esordio dell’Anno 2005 e due volte inclusa tra i finalisti del premio per la migliore raccolta di prosa breve, Fabula 2006 e Fabula 2007. Ha vinto premi o ricevuto segnalazioni anche per singoli racconti (per l’Italia ricordiamo la segnalazione del Premio Teramo). Pubblica per diverse riviste letterarie slovene e per Radio Slovenia. Alcuni suoi racconti sono stati tradotti in inglese, tedesco, ungherese, croato e italiano.Il racconto Egeo è incluso nell’antologia di scrittori sloveni nati dopo il ‘60, in inglese, A Lazy Sunday Afternoon, pubblicata dall’Associazione degli Scrittori Sloveni (Lubiana 2007) oltre che, in traduzione italiana, nell’antologia Cromografie (ed. bilingue ita/slo, 2007). Finora ha tenuto incontri letterari su invito a Budapest (Fiera del Libro – aprile 2006), Francoforte (Fiera del Libro – ottobre 2006), Roma (Università la Sapienza – maggio 2007), Torino (Salone del Libro – maggio 2007) e Berlino (Literatur Werkstatt – febbraio 2008). È membro della giuria del premio del Festival Letterario Internazionale Vilenica, dell’Associazione degli Scrittori Sloveni e dell’Associazione dei Traduttori Letterari sloveni.

Va infine precisato che il racconto A ciascuno il suo, tutt’ora inedito in Italia, ha ricevuto il personale apprezzamento di Claudio Magris.

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A CIASCUNO IL SUO

Abdul non sapeva dove sbattere la testa. Non sapeva che fare. In un anno che stava in Italia ancora non aveva combinato niente. L’unica cosa buona era aver incontrato Madjid. Madjid non era curdo come Abdul, era berbero. Comunicavano in un italiano zoppicante, con quelle poche parole che avevano imparato durante il loro breve soggiorno senza permesso in Italia.

«Abdul, cosa fare noi oggi?»

«Che ne dici di andare a vedere se troviamo qualche motorino?»

«Ah, ah, Abdul, motorino per girare, brrruumm, brrruumm, ah, ah…»

E cosí Abdul il Curdo e Madjid il Berbero in quella tiepida sera settembrina si misero a cercare «qualche motorino». Si avviarono per le vie del centro storico pordenonese, senza badare alle bellissime facciate delle case rinascimentali, senza degnare nemmeno di uno sguardo le arcate che proteggevano i maestosi portoni dei palazzi signorili, senza sentire i colpi dell’orologio municipale, senza accorgersi degli affreschi rosso-marrone in restauro. Il loro passo era diretto verso l’immediato futuro perché del passato e della storia che ancora attualmente opprimevano i loro rispettivi popoli non ne potevano più. 

II 

Silvano e la sua fidanzatina salparono troppo tardi. Quella tiepida ma piovosa sera settembrina la loro macchina sembrava piú una nave che un veicolo stradale. In più, la sua fidanzata, nonostante l’aspetto magro, smilzo e indifeso, quella tiepida sera settembrina era anche un bel po’ stronzetta. Tra gli scrosci che si sentivano mentre le ruote navigavano da una pozzanghera dell’autostrada all’altra, non smetteva di rimproverargli di essere partiti troppo tardi per colpa sua, per colpa di Silvano.

«Chi dorme non piglia pesci. Se sai che il giorno dopo devi fare duecento chilometri in macchina e che l’incontro è fissato per le sei e mezza, non parti mica alle quattro del pomeriggio».

Il naso della fidanzata sembrava allungarsi per l’offesa.

«Senti, stanotte stavo ancora rileggendo la cosa. Lo sai che non sono molto sicuro che tutto vada bene».

«Ma certo che va bene, Silvano! L’abbiamo rivista chissà quante volte. Lo sai che meriterebbe di essere pubblicata».

«Lo pensi davvero?»

«Certo, amore».

Il naso della fidanzata era tornato corto come prima.

«Il fatto è che oggi funziona tutto con le conoscenze. Se non stai nel giro, se non lecchi i piedi a nessuno, non combini niente».

«Ce la farai, amore, ce la faremo», rispose la promessa sposa come rispondono le regine che dietro le quinte tengono i fili del regno del marito.

Splash, splosh… oddio, è andata la gomma!  

III 

«Abdul, piacere a te quello motorino?»

No, a Abdul non piaceva perché stava troppo vicino al baretto, e davanti al baretto c’era della gente seduta che, sorseggiando il caffè o il refosco friulano, avrebbe potuto vedere il furto da vicino e dunque reagire.

Il curdo e il berbero erano stanchi. Si sedettero sugli scalini davanti a un negozio chiuso per le tarde ferie.

«Sta per cominciare a piovere», disse Abdul.

«Da noi non piovere mai. Tutto secco», aggiunse Madjid.

«Da noi raramente. C’è anche una leggenda sulla pioggia. È una leggenda molto bella».«Dimmi la leggenda, Abdul».

«Un giorno un giovane principe vaga per i campi e avvista una  pastorella. La pastorella si chiamava Leila e pascola una sola pecorella… Il principe Najad si avvicina alla pastorella e vede che lei è molto bella…»

«Bella come Naomi Cambel, ah, ah…»

«Bella come Naomi Campbell. Ma vede anche che la pastorella Leila piange. Allora le chiede: ‘Pastorella, perché piangi?’»

In quel momento davanti ad Abdul e Madjid passò un elegante signore in giacca e cravatta che, scambiando il berretto di Abdul per un contenitore elemosiniaco, ci gettò la nuova moneta da mille lire.

Abdul e Madjid si scambiarono gli sguardi e sorrisero con complicità. 

IV 

Il professor Jagris già da tempo soffriva di quello che negli ambienti letterari viene definito il «vuoto creativo». Dopo l’ultimo libro, Il Tagliamento, una riuscitissima metafora del «taglio» tra due mondi, quello italiano e quello «furlan», era rimasto avvolto in un vacuum e gli sembrava di stare sotto una campana di vetro. Non lo poteva consolare né l’attenzione che gli recavano gli intellettualetti provinciali né gli inviti di cui era bombardato da ogni parte della regione né le lettere, piene di lodi e complimenti, che riceveva tutti i santi giorni. Non ne poteva piú di sparpagliare la propria conoscenza tra i commensali accidentalmente occasionali nelle tavolate dopo le sue conferenze, quella  gente che gli succhiava il midollo mentre lui buttava il suo sapere come le perle ai porci. Solo che i porci tornavano a casa tutti orgogliosi e arricchiti, e lui rientrava del tutto esausto e vuoto. Il  professor Jagris era disperato. Il contratto lo obbligava a consegnare un nuovo libro entro la fine dell’anno. Era autunno, era una tiepida sera settembrina, gli rimanevano ancora tre mesi e nell’orfano file del suo computer non figurava neanche una frase completa. Gli abbozzi delle idee gli giravano sí nella testa, ma nessuna di esse era degna di essere approfondita. Il tema del suo saggio letterario avrebbe dovuto aggirasi intorno alle leggende antiche e moderne orientali e occidentali. Il professor Jagris negli ultimi mesi aveva letto tanta di quella letteratura scritta sull’argomento, ma non riusciva a sviluppare un proprio punto di vista. E quella sera doveva andare all’Auditorio, per un’ennesima conferenza su Il Tagliamento. Sapeva a memoria già le domande che gli avrebbero fatto e le risposte che lui avrebbe dato. Erano le sei, bisognava avviarsi verso la sala, stava nella piazzetta sotto il corso. E poi ha fatto bene ad aver lasciato il motorino nel vicoletto lí vicino, sarà facile tornare a casa. Pensieroso, il professor Jagris passò davanti a due extracomunitari gettando una nuova moneta da mille lire nel berretto che giaceva davanti a loro. Chissà da dove vengono questi due, pensò, e chissà come sono le leggende del loro Paese. 

Il carro attrezzi dell’ACI partí e Silvano e la sua fidanzatina tirarono un sospiro di sollievo. La gomma era a posto e dopo aver fatto la pipí nell’orrendo ed anonimo autogrill continuarono il viaggio verso Pordenone. Silvano diventava nervoso perché si stava facendo tardi; la gomma gli aveva preso un’ora del suo prezioso tempo.

«Se fossimo partiti prima…», ricominciava la fidanzata col naso sempre piu affilato.

«Se fossimo, se fossimo… fatto sta che non siamo partiti prima!» alzò la voce Silvano.

«Per colpa di chi?»

«Uffa!»«E che fai???» urlò lei.

«Cosa adesso?»

«Hai appena fallito l’uscita per Pordenone!»

«Come? Non è possibile!»

«Ma sí, certo, se sorpassi il camion nel momento in cui ti sta coprendo il cartello indicatore!»

Anche il naso di Silvano diventò lungo. E per di piú, rosso.

La fidanzata stese la cartina sulle ginocchia.

«Adesso dobbiamo fare la strada statale che è molto piú lunga». 

VI 

«Allora le chiede: ‘

Pastorella, perché piangi?’

‘Piango perché prima avevo un gregge numeroso.’

‘E dove sono andate le tue pecore?’ chiede il principe.

‘Le ha rubate il Dio della Pioggia.’

‘E dove le ha portate?’

‘Stanno nel suo Regno delle Nuvole.’

‘E perché te le ha prese?’

‘Perché si sentiva solo e vuoto.’

‘Non puoi chiedergli di ridartele?’

‘Ho paura.’

Il principe Najad che pian piano si innamora della pastorella decide di andare dal Dio della Pioggia e chiedergli di restituire le pecore a Leila».

«Abdul, lei bella come Naomi Cambel?»«Sí, bella come Naomi Campbell». 

VII. 

Quando arrivarono a Pordenone erano le sette e mezza. Prima che trovassero la sala dell’Auditorio si erano fatte le otto meno dieci.

La porta dell’ingresso si aprí e uscí un grappolo di signori con la barba, c’era chi intellettualmente si accendeva la pipa, le donne ridevano con discrezione, i giovani dirigevano lo sguardo verso l’uscita della sala da dove dovrebbe da un istante all’altro venire il celebre personaggio. C’era chi, alla bancarella di uno studente stile sessantotto, comprava Il Tagliamento e c’era chi un po’ piu avanti con il libro già comprato in una mano e la penna nell’altra aspettava l’illustre docente per farsi fare l’autografo. Era questa la scena nel momento in cui giunsero Silvano e la sua fidanzata.

«Forse ci riusciamo».

«Ma come faccio a dargli la mia copia, guarda!»

Dal portone uscí un altro grappolo appiccicato al professor Jagris. Sembrava un plotone di guardie del corpo. La piccola folla si eccitò e circondò la scorta.

«Aspetta, si libererà di loro prima o poi, no?»

E infatti, dopo qualche minuto, i fan cominciarono a diradarsi, finché non restò solo il primo nucleo che accompagnò il professor Jagris attraverso la strada.

«Seguiamoli!» si entusiasmò la fidanzata di Silvano.

«Ma che sei pazza?»

«Lo vuoi pubblicare il libro o no? È un’occasione che non possiamo perdere. E poi abbiamo fatto tutta questa strada!»

Il corteo jagrisiano si avviò verso l’osteria dell’Antico daino e si sedette a un tavolino fuori, sotto la tenda. La fidanzata trascinò attraverso la strada Silvano, paralizzato dalla paura. I due si sedettero due tavoli piú lontano. Sulla panchina di legno, Jagris era schiacciato da altri incravattati che guardavano solo lui e assorbivano ogni parola dalle sue labbra. Il professore stava scomodo e anche se avrebbe dovuto un’altra volta gettare le perle ai porci era contento poiché almeno per una sera gli facevano dimenticare il «vuoto creativo»…  

«È imbarazzante», disse Silvano.

«Come faccio, vado lí mentre parla e gli ficco le bozze sotto il naso? Che, gli dico: Professor Jagris, ecco il mio libro, che ne dice di leggerlo e mettere una buona parola per me presso qualche casa editrice?»

«E allora perché siamo venuti? Perché abbiamo fatto duecento chilometri? Dimentichi che per tornare ne faremo altri duecento?»

«E poi lo sai, non sono nemmeno sicuro che il titolo vada bene».

«Ne abbiamo parlato tanto, Silvano: perché Il Regno del Sole non andrebbe bene? È un saggio letterario, ci vuole un titolo un minimo misterioso».

«Forse non traspare bene il contenuto: tratto delle leggende».

«Ma l’hai scritto nel sottotitolo: Il Regno del Sole, Leggende antiche e moderne dell’Occidente e dell’Oriente».

«Forse sarebbe meglio A ciascuno il suo o Le cose cambiano. Cosí si capirebbe subito il messaggio dell’intercambio delle culture, delle ricchezze che si regalavano i popoli durante la storia, spesso senza rendersene conto».

«Sei troppo autocritico».

«E forse non ho fatto abbastanza ricerche sulle leggende ancora sconosciute con cui illustrare il mio saggio. Mi manca il materiale».

I commensali del professor Jagris si alzarono e si misero a stringersi la mano.

«Adesso, vedi, sta per attraversare la strada, seguilo!» 

VIII 

«Abdul, a te piacere questo motorino?»

«Hm, questo potrebbe andar bene. Senti, tu ti metti un po’ piú avanti, a quell’angolo e osserva. Se viene qualcuno, fischia».

«Fischia? Fiu-fiu, cosí?»

«Cosí».

Abdul cominciò a occuparsi della catena intorno alla Vespa rossa.

Il professor Jagris attraversava la strada quando sentí una voce fioca dietro di lui: «Professore, professore, scusi un attimo». Jagris si voltò e vide un giovanotto che stendeva la mano verso di lui porgendogli un fascicolo giallo. Ma la scena che aveva visto un secondo prima gli tornò davanti agli occhi, la scena di due extracomunitari che stavano aprendo la catena di un motorino. Di un motorino rosso. Della sua Vespa! Il professor Jagris non badò al giovane invadente ma corse verso i due delinquenti. In certe situazioni il nostro cervello ha delle idee geniali. Il quel momento il cervello di Silvano ebbe l’idea di acquistare la simpatia del professore salvandogli la moto. Si buttò in una corsa sfrenata dietro ai due ragazzi  che nel frattempo erano riusciti a liberare il veicolo dall’abbraccio della catena, saltarci sopra e fuggire. Si buttò allora, seguito dalla fidanzata, in una gara rocambolesca per essere pubblicato, per diventare un giorno famoso come il professor Jagris, gettando per terra la cartella gialla con dentro il suo saggio. Il professor Jagris si fermò, rimanendo immobile in mezzo alla strada. Ancora non aveva capito cosa gli fosse successo. I suoi accompagnatori erano già andati via e non avevano visto l’indescrivibile avvenimento. La pioggia sgocciolava sulla cartella gialla. Il professor Jagris si inchinò e la raccolse. Aprí il cartone e lesse il titolo: Il Regno del Sole, Leggende antiche e moderne dell’Occidente e dell’Oriente. Un sorriso malizioso gli attraversò il viso. 

 IX 

Dicono che quando uno alle cose ci tiene, riesca a attraversare mari e monti. Silvano, che teneva tanto a conoscere il professor Jagris e a pubblicare il suo saggio, riuscí a prendere i due mascalzoni e la moto del celebre intellettuale. L’ambizione gli dava un tale coraggio che se ne accorsero e si spaventarono anche Abdul il Curdo e Madjid il Berbero.

«Prego, prego, non fare male, noi poveri», supplicava Madjid.

«Non chiamare la polizia, per favore», lo pregava Abdul.

«Adesso torniamo dal legittimo proprietario, gli ridiamo la moto e voi vi scusate direttamente con lui!» era accanito Silvano che teneva le giacche dei due ragazzi sulla loro nuca mentre la fidanzata tirava la Vespa.

«Noi fare tutto, ma non dire polizia!»

Quando imboccarono la strada del furto, il professor Jagris non c’era più. Tornarono al luogo esatto del delitto e non c’era nemmeno la cartella gialla. Silvano lasciò i colletti di Abdul e Madjid, si sedette disperato all’orlo del marciapiede e, sull’orlo delle lacrime, si mise la testa tra le mani.

«Vedete cosa avete fatto, imbecilli!» disse la fidanzata abbracciando Silvano.

«Cosa? Il signore è già andato via, forse lui se ne frega della moto».

«Idioti, ho perso il mio saggio!»

«Saggio? Cosa saggio?» chiese Madjid.

«Sí, ciao, a spiegarlo a voi, cos’è un saggio. E cosa sono le leggende e cos’è la storia del Regno del Sole», singhiozzò Silvano.

«Abdul, questo come tua storia regno di nuvole».

«Sí, adesso non è piu il regno del sole, è il regno delle nuvole», ironizzò la fidanzata.

«La leggenda curda racconta che un giorno un giovane principe erra per i campi e incontra una pastorella, Leila, che pascola una sola pecorella… Il  principe Najad si avvicina alla pastorella e vede che lei è molto bella…»

«Bella come Naomi Cambel…» aggiunse Madjid.«Bella come Naomi Campbell», ripetè Abdul e continuò: «Ma vede anche che la pastorella Leila piange. Allora le chiede: ‘Pastorella, perché piangi?’

‘Piango perché prima avevo un gregge numeroso.’

 ’E dove sono andate le tue pecore?’ chiede il principe.

‘Le ha rubate il Dio della Pioggia.’

‘E dove le ha portate?”Stanno nel suo Regno delle Nuvole.’

‘E perché te le ha prese?’

‘Perché si sentiva solo e vuoto.’

‘Non puoi chiedergli di ridartele?’

‘Ho paura.’

Il principe che pian piano si innamora della pastorella decide di andare dal Dio della Pioggia a chiedergli di restituire le pecore a Leila.

Quando arriva al Regno delle Nuvole vede che le nuvole non sono nuvole bensí le pecore che pascolano sul cielo. Le pecore sono molto tristi perché non stanno piú con Leila. E le loro lacrime sono le gocce della pioggia.

Il principe va dal Dio della Pioggia e gli dice:

‘Dio della Pioggia, ridai le pecore alla pastorella Leila, perché lei è triste.’

‘Ma come faccio a essere il Dio della Pioggia se non mando la pioggia sulla Terra?

‘Allora il prinicipe Najad ha un’idea: ‘Senti,’ gli propone, ‘a ogni luna piena io ti porto cento barili di acqua dal fiume che scorre per il mio paese: tu dopo puoi rovesciarli sulla Terra come pioggia. E tu dài le pecore a Leila, lei non piangerà piú, si innamorerà di me e ci sposeremo.

‘Al Dio della Pioggia piace questa soluzione e cosi è ancora oggi: piove regolarmente e il principe Najad vive felicemente sposato con la pastorella Leila. A ciascuno il suo».

Il viso di Silvano si rasserenò. Prese la testa di Abdul tra le sue mani e lo baciò.

«Grazie, grazie, tu mi hai salvato, questa leggenda farà perfettamente da filo conduttore nel mio saggio Il regno del Sole! Grazie, grazie!» 

La macchina dei fidanzati cantanti divorava allegramente i duecento chilometri. Quella stessa sera, qualche passante infreddolito poteva intravedere attraverso una finestra del pianterreno di un palazzo liberty un professore felicemente assorto e chinato sopra un testo dalle copertine gialle.

«Bella come Naomi Cambel, vero, Abdul?» sorrise sognante Madjid.

«Bella come Naomi Campbell», rispose Abdul, tirando la motocicletta rossa nella fredda notte settembrina. 

Veronika Simoniti

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lunedì, 19 novembre 2007

IN UNA LINGUA CHE NON SO PIU’ DIRE di Tea Ranno (recensione di Simona Lo Iacono)

Tea Ranno: “In una lingua che non so più dire”

(edizioni E/O, 2007, euro 17, pagg. 223).

Recensione di Simona Lo Iacono

Un libro sulla necessità del ritorno. Un viaggio a dorso di ricordi da nord a sud, dal futuro al passato, dalla terra ferma, arpionata alla riva, a un’isola galleggiante e senza sponde, naufragata tra le correnti. Dopo il maestoso esordio di “Cenere” (ed. e/o, 2006) Tea Ranno, scrittrice siciliana di razza e dal meraviglioso talento visionario, affonda la penna tra le maglie della nostalgia, dei solchi lasciati dalla memoria.

Andrea, magistrato e rampollo di una famiglia dell’alta borghesia siciliana, abita a Milano e non torna a casa da 42 anni. Non è una scelta. E non è neanche l’opposto. È come dev’essere, il fluire di una vita che si è innestata da sé su binari di comodità e buone amicizie, tessuta con l’ago fino di chi inanella, uno dopo l’altro, successi su successi. La moglie, una rampante avvocatessa milanese, si divide con disinvoltura tra amanti e schermaglie da tribunale, ostentando un’eleganza sobria e ricercata: tailleur che la fasciano ai fianchi e foulard di Gucci annodati con civetteria. I figli, ormai universitari e abituati alle sue assenze, gli scivolano accanto senza parole, in silenzi carichi di complicità con la madre. È quello che si direbbe un uomo arrivato, Andrea. Un uomo fortunato, anche, forse appena appena fuori dai ritmi assordanti di una Milano in cui fa fatica a riconoscersi, o forse solo distratto, assorbito dalle solennità un po’ demodé delle aule giudiziarie, dal passo che ticchetta tra corridoi intricati in cui toghe e nocche da cassazionista frusciano come fossero seta.

Eppure. Voci ancora lo abitano. E volti. Balbuzie di un nonno amato e ostinatissimo, impegnato in fittizie battaglie napoleoniche colle quali crede di cambiare il corso della storia. E poi paesaggi ammantati di fasti, sole e scogli come anime di fuoco, sigilli di una terra calda, dura, arida di inverni. Ed ecco allora venir fuori da una – impensabile – piega della mente la casa padronale, stanze dentro stanze orpellate di salotti retrò in cui risuonano voci di bambini, latrati di cani, lievitare di amori. Resti e resti di un passato che è dannazione e incantamento, una malìa suscitata all’improvviso dalle parole di una amante che non crede alla facciata di uomo soddisfatto e inconsapevolmente dà il via al fiume torto della memoria. Ma da quel momento è difficile dire basta: strappi del cuore, annaspi di moribondo. Il viaggio è già cominciato. Nel sud. Nel tempo. Dritto a lei, all’immagine di una donna, al suo spettro di compagna fedele sovrapposta a ogni altro corpo. Teresa. Teresa. Teresa. Per Andrea è nome e invocazione, sacra unzione di eternità, maritaggio fantasioso di destini. Teresa fumigante di sogni, di letture, di studi. Teresa accesa da abiti neri in cui spicca come corallo. Teresa dei baci non dati e degli addii. Potesse disegnarla ne farebbe una musa ispiratrice e paziente che presenzia a ogni sua intemperanza. Fosse fuoco ne farebbe una scintilla barbagliante nello scuro o una stella incauta e liquefatta. Fosse mattino ne farebbe una coltre da spostare con lentezza, fosse mare una sirena, fosse aria un fiato che riscalda, una voce che rimanda.

E se quella voce, poi, avesse vita e volontà propria, flutti di farfalla o ali di poesia, Andrea è sicuro che gli parlerebbe, che lo avvertirebbe. Che gli direbbe: – brutta bestia, Andrea, la nostalgia. Brutta bestia. Ti prende coi suoi artigli quando meno te l’aspetti, rispolvera ricordi rimossi, ombre dimenticate, solchi fondi lasciati sulla sabbia che una risacca improvvisa non cancella.

Brutta bestia. E poi. Quel dubbio gusto del tempo. Quel farti credere che non sia trascorso, mentre decenni ti sono scivolati addosso, feroci, impietosi, restituendoti il riflesso di un viso rigato, bianco. Ma il gioco s’è innestato colla prima voce che è venuta a visitarti, con l’odore di un fumastro di farina o col guizzare di pesci che solcano mari antichi, abitati da viandanti impastati di parlate straniere. Basta niente e sei lì, sulle rive di un paese che immaginavi morto e che ti balza innanzi senza spaesamento, senza lentezza. Ma se cerchi un fantasma credendolo reale, Andrea, aspetta. Fermati sul ciglio di una strada, chiedi a qualcuno che sappia dirti dove andare. Ancora una volta, aspetta. Vedi, alle volte è meglio non voltarsi indietro. È meglio fingere che il passato non sia già trascorso. Meglio che scoprirlo diverso, senza nome. Senza un solo alito che possa farti credere che ti è appartenuto.

Simona Lo Iacono

____________________________________________

AGGIORNAMENTO del 21 novembre 2007

Brano tratto da IN UNALINGUA CHE NON SO PIU DIRE di Tea Ranno. Edizioni E/O

-

Capitolo Ventunesimo (pp. 189-190)

-

E se adesso, per un prodigio, ci fosse concesso di riavvolgere il tempo e tornare al giorno – il quindici del mese di luglio del 1959, mercoledì, S. Bonaventura, giorno prima della festa della Madonna del Carmelo, in cui avrebbe suonato la banda, ci sarebbero stati i fuochi d’artificio, le corse col sacco, l’albero della cuccagna, e i devoti con lo scapolare sarebbero andati in processione per il paese, e si sarebbe riso e scherzato; e Teresa non ce l’avrebbe proprio fatta a ridere e scherzare, ad accogliere i cugini, a sopportare il peso di quella giornata impossibile da vivere – se ci fosse concesso di tornare a quel giorno, allora sì, anche noi ci precipiteremmo a dire:

Attenta, Teresa, attenta

non lasciarti tentare

non farti ingannare dal fumo che ti sembra sostanza e sostanza

invece non è

non aspettare di sentire parole che vorresti fossero dette e invece

dormono in gola a quarant’anni d’attesa.

Attenta, Teresa, attenta

non ascoltare le voci che ti promettono nella morte la pace.

Teresa,

le voci pazze non portano bene

neppure il mare le porta:

schizza e ribatte, torce le schiume ma non ti restituisce il ritorno

di chi non vuole tornare.

Attenta, invece, a queste nostre parole

che vengono da un altro tempo

che ti girano intorno, Teresa, qui sui binari, per dirti:

attenta,

alzati, la stazione è a un passo, salta sul treno e vai

vedrai, ti aspetta e non lo sa, Teresa,

anche lui ti sta aspettando, e ogni volta che qualcuno suona alla

porta solleva di scatto la testa e chiede: «Chi è?»

e Felicia risponde: «La sua signora madre»,

oppure: «Un garzone»

oppure: «Il postino»

e quando dice: «Il postino» lui vola a vedere se tra le buste ce ne

sia una con su scritto Teresa,

e persino Felicia capisce che là, in quella Sicilia africana dalla

quale è venuto, c’è qualcuno, sicuro una donna, che gli ha mangiato

il cuore.

E quella donna sei tu, Teresa, alzati, su, ascolta…

Ma tu non senti, non parli, aspetti soltanto il treno: che si faccia

vicino, si sbrighi,

e stringi nella mano la madonna, i grani di quarzo

che ti facciano di sasso

intanto che il rombo s’avvicina.

Attenta, Teresa, attenta

non pensare che non verrà a cercarti.

Un giorno sì, verrà, ma solo per piangere,

un uomo tutto bianco, Teresa,

con le rughe negli occhi

e la bocca spaccata.

Attenta, Teresa,

attenta alle parole che vanno e vengono e sanno di sale

sanno di nulla se nulla è impietrarsi nel ricordo.

Teresa, attenta

al niente che ti gira intorno e non ha ragioni, Teresa, e affonda

nella memoria.

Attenta, Teresa,

ché gira e rigira ripeschi lo stesso tormento,

attenta al passato,

che non ti uccida, Teresa.

Attenta, Teresa,

al treno che viene e non lo vedi,

attenta allo stridore dei freni, al balzo, Teresa, che ti spezza e ti

frammenta.

Attenta, Teresa, attenta

al freddo che ti buca le ossa

alla cenere che ti colma la bocca

attenta

al buio che non ha voci, Teresa,

attenta.

«Scrivi che mi ami, Andrea, scrivi» implori, lì alla curva del

Cavaliere.

Ma nulla, solo un raschio di cicale.

E allora alzati, su, Teresa, alzati,

perché la terra non soffochi inutilmente il tuo fiato e l’ira non si

faccia resa.

Teresa, attenta

al solco che qualcuno va tracciando per te:

non metterci i piedi, Teresa, non camminarci dentro,

attenta alla bugia delle voci che ti promettono pace,

non hanno fondo, non hanno importanza.

Attenta al richiamo d’un diavolo che non vuole per te paradisi e

ti tormenta nel ricordo di quello che è stato

e ti pietrifica, Teresa,

come la moglie di Lot, che si voltò a guardare lo scempio di

Sodoma e per la pena e l’angoscia si sbiancò in una sola lacrima

di sale.

____________________________________________

EXTRAPOST

(Massimo Maugeri)

1. Un grandissimo ringraziamento agli amici di “Scritture&Pensieri”, inserto domenicale di libri del quotidiano “Il Corriere Nazionale” brillantemente curato da Stefania Nardini, per aver pubblicato un articolo su Letteratitudine all’interno del numero di domenica 11 ottobre. Vi riporto un passaggio:

Si chiama “Letteratitudine”, ed è un blog letterario d’autore di Kataweb/Gruppo L’Espresso, curato dallo scrittore siciliano Massimo Maugeri. Blog molto visitato e “partecipato”: nella maggior parte dei post (articoli) i commenti dei frequentatori superano il centinaio. Maugeri lo ha creato definendolo open-blog e coinvolgendo scrittori, lettori, librai, critici e giornalisti culturali: una community che tende ad allargarsi sempre più confrontandosi e dibattendo su libri e temi di natura letteraria e culturale.

2. Ricevo (da Sabrina Campolongo) e segnalo quanto segue.

C’è un bambino, che si chiama Gramos che ha undici anni e una malattia terribile e rara. Un bambino che vive in Kosovo, in una zona ancora militarizzata. Cliccando sul suo nome si può ascoltare tutta la sua storia e vedere il suo viso. Chi decide di aiutarlo può farlo attraverso un libro di fiabe, acquistabile a questo indirizzo https://www.lulu.com/content/1423738.

Le donazioni saranno gestite dall’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù.

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Letteratitudine: da oltre 15 anni al servizio dei Libri e della Lettura

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OMAGGIO A ZYGMUNT BAUMAN

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OMAGGIO A TULLIO DE MAURO

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RATPUS va in scena ratpus

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Ricordiamo VIRNA LISI con un video che è uno "spot" per la lettura

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