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Archivio di febbraio 2008

martedì, 26 febbraio 2008

AVEVO VENT’ANNI: IL RUOLO DEL LIBRO IERI E OGGI

Ah… i bei vecchi tempi.

Eh, sì. Ai miei tempi andava meglio… molto meglio.

Eh… quando avevo vent’anni io…

Oggi non è più come una volta.

Frasi ricorrenti, vero? Luoghi comuni?

Forse.

Di certo c’è un evidente parallelismo tra l’erba del vicino e i bei vecchi tempi.

È così anche per i libri?

Ne parliamo con Stefano De Matteis, direttore editoriale de “L’Ancora del Mediterraneo” e “Cargo” (ricorderete senz’altro De Matteis in questa intervista rilasciata ad Andrea Di Consoli).

De Matteis considera che “fino agli anni Ottanta, il libro (…) oltre al piacere e al divertimento era lo strumento privilegiato per la comprensione del mondo.

È con gli anni Novanta che i libri perdono il contesto. Non costruiscono paesaggio, storico o culturale, non sono più riferimento né disegnano panorama. Cosa è successo?

Il pensiero è diventato così debole da non sostenere il libro?

E i libri, a loro volta, sono diventati insufficienti a capire e a spiegare il mondo?

Oppure è sempre colpa delle famigerate nuove generazioni (di volta in volta trasparenti, mammoni, bamboccioni, sessisti, drogati…)?”

De Matteis pone le domande e fornisce le sue risposte nel pezzo che segue.

Voi che ne dite?

(Massimo Maugeri) 

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AVEVO VENT’ANNI: IL RUOLO DEL LIBRO IERI E OGGI (di Stefano De Matteis) 

“Avevo vent’anni”, il titolo. Formato A4. Niente copertina e, ovviamente, niente colori e patinature. Spartanamente legato con il punto metallico. Sarà stato il settantotto (o il settantanove?). Il titolo era preso dall’incipit di Aden Arabia, lo straordinario romanzo di Paul Nizan (nella foto): “Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”.

Era una rivistina di una sessantina di pagine di bibliografie indispensabili per rendere più responsabili e consapevoli i durissimi vent’anni dei giovani. Gli artefici dell’iniziativa erano Giampiero Brega, direttore editoriale di Feltrinelli, Goffredo Fofi, dell’Universale economica e, ovviamente, Romano Montroni, il grande ideatore di librerie pedagogo stratega e diffusore di cultura. La rivista veniva data in omaggio nelle librerie Feltrinelli. Vi partecipavo come “esecutore materiale” in quanto collaboratore redazionale della casa editrice.

Leggere allora significava conoscere e conoscere voleva dire capire. E infatti si leggeva per capire. Senza lettura non si capiva il mondo. E la vita. E se non capivi non potevi cambiare né l’uno né l’altra.Altri tempi e, forse, stiamo parlando della coda di una storia, cominciata con il dopoguerra e l’alfabetizzazione. Un’epoca in cui un paese analfabeta dava a tante cose, tra cui il libro, un valore e un significato importanti, tanto materiali quanto simbolici.

Solo una decina di anni prima, la letteratura cosiddetta di consumo aveva avuto i gialli (Mondadori in questo caso) come battistrada. Che assieme alla lettura diffondevano i nuovi consumi: le due colonne della serie alternavano pubblicità di libri con offerte di “Cremfix”, “la crema per capelli che non unge”, corsi di jiu-jitsu e di ipnosi, il rimedio del dr. Knapp (“con vitamina B1”) contro il mal di denti. Potevi imbatterti in “strilli” del tipo: “Se il callifugo Ceccarelli usare non vuoi / perdi i denari e i calli restano tuoi”. Un mondo dai rimedi casalinghi era al tramonto e la reclame apriva le porte della modernità.

Ma anche nella sua prima grande diffusione di massa, il libro aveva una sua collocazione precisa nel mondo e, a sua volta, risistemava il mondo. Prendiamo la collana che ha diffuso e promulgato la lettura a livello di massa, gli Oscar. Tutti quelli della mia adolescenza, siamo nei primi anni Settanta, si aprivano con la cronologia (gli occhi della storia come dice Braudel): cominciavi così a prender confidenza con il mondo e a conoscerne l’espansione nel tempo e nello spazio.

Ma non solo. Perché nella cronologia imparavi che, tra gli eventi importanti e significativi c’era sì il Rinascimento ma anche Shakespeare, c’era la Grande guerra ma anche la Recherche.

Fino agli anni Ottanta, il libro ha avuto anche questa funzione: oltre al piacere e al divertimento era lo strumento privilegiato per la comprensione del mondo.È con gli anni Novanta che i libri perdono il contesto. Non costruiscono paesaggio, storico o culturale, non sono più riferimento né disegnano panorama. Cosa è successo? Il pensiero è diventato così debole da non sostenere il libro? E i libri, a loro volta, sono diventati insufficienti a capire e a spiegare il mondo? Oppure è sempre colpa delle famigerate nuove generazioni (di volta in volta trasparenti, mammoni, bamboccioni, sessisti, drogati…)?

No, non credo che ci siano tiempe belle ’e ’na vota e rifuggo ogni idea del passato come età dell’oro e del presente come caduta. Non foss’altro perché allora avevo vent’anni e credo di sapere cosa significa.

Ma allora, perché sprecare pagine e pagine di un libro (economico per giunta) per delle cronologie? Perché buttare carta, stampa e lavoro redazionale per delle bibliografie pensate per i giovani, e che in sovrappiù venivano regalate? Erano solo pazzie di imprenditori scellerati e direttori editoriali maniaci?

Non credo che quei manager avessero le mani bucate o fossero stupidi, furiosi distruttori di foreste. Pensavano in un altro modo. È vero, tutti quegli apparati non portavano guadagno. Immediato. Avevano una funzione pedagogica. Si faceva per seminare. Per far circolare polline. Per far nascere la curiosità, stimolare. Per creare ecologia. Per costruire un habitat dove collocare il libro.

Perché la cultura ha tempi lunghi. È come la terra, che ha bisogno di pause, concimi e lavorazioni faticose. Abituare (o disabituare, come nel nostro caso) alla lettura e al libro richiede tempo e fatica. Se sai seminare, la cultura produce i suoi frutti nel tempo, spesso anche dopo molto tempo.

Niente oggi di più distante, lontano e incomprensibile. Certo, nulla è irrecuperabile ma tutto è irreversibile. E oggi possiamo solo intervenire con degli aggiustamenti, ma non tornare indietro.È indubbio che il mondo è cambiato. Con esso la politica e l’industria culturale. Forse è proprio da qui che bisogna partire, da un’industria culturale che non ha saputo difendere la propria particolarità e differenza, mescolandosi troppo velocemente con l’industria tout court.

Non è un caso che a dirigere molte major ci siano manager provenienti dalla grande industria. (Dove, di un libro che va bene puoi sentirti dire: “è un prodotto che sta facendo buone performance”). Anche per i libri si ragiona oramai nei termini che è meglio un best seller subito, consumato da non lettori di oggi, che costruire una nuova ecologia per avere tanti lettori forti domani.

Stefano De Matteis

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Segnalazioni extrapost

- c’è un interessante articolo di Andrea Amerio sul blog di Marco Minghetti

- questo post di Luca De Biase

Pubblicato in EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI   166 commenti »

domenica, 24 febbraio 2008

LA CAMERA ACCANTO 2° appuntamento

LA CAMERA ACCANTO diventa rubrica del blog

Il titolo di questo post non si riferisce a un romanzo erotico o a un film spinto.

La camera accanto è la stanza, per l’appunto, posta di fianco a quella ufficiale (letteratitudine).

Se letteratitudine è una sorta di caffè letterario virtuale, la camera accanto è un luogo dove si possono affrontare argomenti di diverso genere. Si può parlare di letteratura – certo -, di libri; ma anche di cinema, sport, televisione, politica, gossip, ecc.

Insomma, si può parlare di tutto ciò che volete. Ciascuno di voi può sentirsi libero di avviare un dibattito o, più semplicemente, scambiare quattro chiacchiere.

Anche qui, però, vige la nota avvertenza (colonna di sinistra del blog); per cui vi chiedo di rispettare persone e opinioni. Vi chiedo, inoltre, la cortesia di evitare litigi e toni eccessivamente scurrili.

(Massimo Maugeri)

Pubblicato in LA CAMERA ACCANTO   249 commenti »

giovedì, 21 febbraio 2008

IL SOTTOSUOLO di Ferdinando Camon

Cari amici di Letteratitudine,

con questo post decreto l’apertura di una rubrica che verrà affidata a Ferdinando Camon (nella foto).

camon-a-padova-2007.jpgCome ho già scritto in altra occasione, Camon è una delle voci più autorevoli della nostra letteratura; un uomo che ha scritto e pubblicato libri di altissimo pregio, a prescindere dal fatto che abbiano vinto premi importanti, tra cui lo Strega e il Campiello (lo stesso Camon sostiene che “I premi non sono giudizi critici, non sono saggi e non sono articoli. Non aggiungono nulla ai libri. Nella vita dei libri, le vicende che contano sono gli incontri con i giornali, con le riviste, con le scuole e le università, e, attraverso le traduzioni, con le lingue e le culture straniere”). La presenza di Camon qui a Letteratitudine è per me un vero onore, ma al tempo stesso testimonia l’apertura che questo grande letterato (classe 1935) mostra per i nuovi mezzi di comunicazione (come Internet e i blog).

Per espressa volontà dell’interessato, il titolo della rubrica sarà: Il sottosuolo.

Il riferimento è all’ottima opera Memorie dal sottosuolo (o Ricordi dal sottosuolo, dipende dalle traduzioni) di Fëdor Michailovič Dostoevskij. Libro che, secondo lo stesso Camon, contiene uno degli incipit più belli della storia della letteratura.

Io direi di far partire questa rubrica proprio così… discutendo di questo libro di Dostoevskij. Ritengo che si possa prestare a un interessante dibattito.

A quarant’anni Fedor Dostoevskij è uscito da poco da una serie di vicende drammatiche (la militanza socialista, la condanna a morte commutata all’ultimo momento, la deportazione siberiana) e, pur praticando un’intensa attività giornalistica, sta ancora cercando la sua strada. “Memorie dal sottosuolo” (1864) è il libro che annuncia i capolavori della maturità. Con i suoi tratti autobiografici, il protagonista delle memorie è un impiegato inconcludente, un uomo a disagio con se stesso e in rotta con la società, isolato, con una vita di relazione inconsistente, incapace di legare con i colleghi d’ufficio come con gli ex compagni di scuola. Un uomo timido, senza risorse e protezioni, che proprio la brutalità della vita sociale respinge nel sottosuolo, e a cui non resta che cercare uno sfogo provvisorio tormentando chi sta ancora più in basso di lui: Liza, misera prostituta alle prime armi, incontrata in una sera di neve bagnata.

Vi lancio una sfida. Vi invito a leggere (o a rileggere) il volumetto del celebre autore russo per discuterne assieme qui. Io dispongo dell’edizione Adelphi, con traduzione di Tommaso Landolfi.

Alcune domande provocatorie (spunti tratti dal libro).

Siamo davvero “convinti che soltanto il normale e il positivo, insomma soltanto il benessere, sia vantaggioso per l’uomo? Che non abbia a sbagliarsi, la ragione, a proposito di codesti vantaggi? Non sarebbe poi possibile che all’uomo non piaccia soltanto lo star bene? Che gli piaccia anzi altrettanto la sofferenza? Che lo star male gli sia di vantaggio giusto quanto lo star bene?”

E mentre ci sono ne approfitto per chiedervi… in che rapporti (letterari) siete con il grande scrittore russo?

Vi riporto inoltre un testo che Camon scrisse nel 1985 e che “Libération”, pubblicò nel numero speciale: Pourquoi écrivez-vous?, 400 écrivains répondent (numero speciale 15 marzo 1985; in volume: edizioni di “Libération”, Parigi 1988, pp. 247-248).

Mi pare un’ottima presentazione. Seguirà, infine, una biografia dell’autore.

Mi raccomando… massimo rispetto e serietà.

Ci tengo molto.

Grazie.

Massimo Maugeri

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PERCHÉ SCRIVO di Ferdinando Camon

Scrivo per vendetta. Non per giustizia, non per santità, non per gloria: ma per vendetta. Tuttavia, dentro di me, sento questa vendetta come giusta, santa, gloriosa. Mia madre sapeva scrivere solo il suo nome e cognome. Mio padre, poco di più. Nel paese dove sono nato, i contadini analfabeti firmavano con una croce. Quando ricevevano una lettera dal Municipio, dall’esercito, dai carabinieri (nessun altro scriveva ai contadini), si spaventavano e andavano a farsi spiegare la lettera dal prete. Li ho visti passare molte volte, ero un ragazzo. Da allora ho sentito la scrittura come uno «strumento del potere», e ho sempre sognato di passare dall’altra parte, impossessarmi della scrittura, ma per usarla in favore di coloro che non la conoscevano: per realizzare le loro vendette.

Ma essi non volevano vendicarsi e perciò non si sentono rappresentati da me. E coloro che io cerco di vendicare, mi considerano — giustamente — come un nemico. Di conseguenza, sono isolato, e non riesco a legare con nessuno. Dappertutto dove sono passato sono un non-riconosciuto, un espulso, un non-accettato: famiglia, paese, mondo letterario, mondo cattolico, partito comunista, psicanalisi… Sono uno al quale non si può fare alcuna confidenza, uno che può tradire. Ogni mio tradimento consiste nella ripetizione del primo tradimento: mi sono impossessato della scrittura per vendicare gli analfabeti, sono passato attraverso il cattolicesimo per insegnargli cos’è la santità, ho descritto i gruppi terroristi per giudicarli dall’interno, e sono entrato nella psicanalisi per «dominare» l’analista… Conseguenze: all’esordio, quando ho pubblicato il primo libro, Il quinto stato, il sindaco del paese che descrivevo voleva citarmi in giudizio… Sempre, dall’inizio fino ad oggi, la prima reazione che incontro è il rifiuto, la condanna, la censura. Ho scritto su molti giornali italiani, e dappertutto sono stato censurato: dall’«Unità» all’«Osservatore romano», dal «Corriere della Sera» a «Paese-Sera» al «Giorno».

Se dovessi definire la vendetta direi che è una giustizia nevrotica. Quando dico che scrivo per vendetta, voglio dire che scrivo per compiere una giustizia smisurata, eterna e dunque ingiusta: la scrittura deve essere una esaltazione o una punizione destinata a durare senza fine. Ho bisogno di coltivare l’illusione che questo sia possibile. Non importa che si tratti di un’illusione: se prendo coscienza che la mia opera non durerà a lungo, la mia vita non ha più giustificazione. Da qui il bisogno di scrivere poesie o romanzi, non politica: la politica produce una vendetta troppo provvisoria. Quando scrivevo Il quinto stato, volevo fare l’esaltazione degli ultimi, vendicare la loro condizione di repressi. Non c’è differenza tra repressione politica, militare, economica, sessuale, ecc.: sono tutte collegate. E di conseguenza l’espressione — che è l’esatto contrario di repressione — le “vendica” tutte. Scrivendo La vita eterna volevo vendicare i partigiani contadini, il loro destino oscuro, senza gloria.

Poiché il capo delle SS di questa zona dell’Italia di cui parlo nel libro fu scoperto quando La vita eterna fu tradotta in tedesco, e fu citato in processo, e morì la notte della prima udienza, mi piace pensare La vita eterna come un colpo di fucile sparato dall’Italia alla Germania per colpire al cuore un nemico della mia gente. La Procura di Verona aveva incluso La vita eterna, edizione italiana ed edizione tedesca, tra i documenti a carico.

Con Un altare per la madre ho voluto realizzare un mio personale processo di santificazione, sostituendo quello della Chiesa: ho voluto fare la più grande esaltazione possibile del più miserabile dei personaggi, usare la santificazione come vendetta sociale.

E con La malattia chiamata uomo ho tentato di rovesciare i ruoli della psicanalisi, concependo il transfert come strumento per mezzo del quale il paziente conosce se stesso e l’analista. L’analisi è qualche cosa che non si può, non si deve raccontare: è piena di tabù.Colui che la racconta, non rompe un tabù, ma un contenitore di tabù. Caricata di questi compiti, che forse non può sopportare, la scrittura mi logora. Accettando di logorarmi punisco me stesso: mi punisco delle ingiuste giustizie che compio ogni giorno con ogni riga della mia scrittura. E così il cerchio si chiude: la scrittura è colpa ed espiazione, peccato e assoluzione, vendetta di una colpa, colpa per questa vendetta, espiazione di questa colpa.

Ferdinando Camon

——

BIOGRAFIA

Ferdinando Camon è nato in un piccolo paese di campagna, in provincia di Padova, presso Montagnana, cittadina chiusa da una perfetta cinta di mura (Castellani vi ha girato il film “Romeo e Giulietta”) che risale ai tempi del tiranno Ezzelino, prima di Dante. Di questo paese non ha mai indicato il nome. Aveva dieci anni quando la guerra finì, e dunque fece in tempo a imprimersi nella memoria rastrellamenti e bombardamenti: c’era un grande olmo nella campagna paterna, e lui vi saliva sopra per osservare le battaglie aeree tra i caccia tedeschi e le Fortezze Volanti americane, o la cattura dei partigiani da parte delle SS: fu così che vide un suo parente, membro di una squadra della brigata partigiana Garibaldi, mentre si arrendeva in un campo di frumento incendiato: aveva la pancia segata da una raffica, per la ferita uscivano le viscere, e lui se le reggeva con le mani (Camon ne parlerà in una poesia de Liberare l’animale, 1973, e nel romanzo Mai visti sole e luna, 1994). Gli abitanti della campagna (“uomini, angeli, diavoli, animali”) sono i protagonisti dei suoi primi due romanzi, Il quinto stato e La vita eterna, pubblicati nel 1970 e ‘72. Questi due romanzi furono poi oggetto di una lunga riscrittura, terminata nel 1988: sicché la loro stesura definitiva ha richiesto un quarto di secolo. Questa riscrittura si era resa necessaria perché man mano che i due libri venivano tradotti nel mondo, e che le vicende che essi raccontano si allontanavano nel tempo, l’autore sentiva pacificarsi il suo rapporto con quelle storie, che nella prima stesura gli risultava sofferente e sovraccarico. Il quinto stato uscì in Italia con una appassionata prefazione di Pier Paolo Pasolini, e fu subito tradotto in Francia per iniziativa di Jean-Paul Sartre e in Unione Sovietica da Gheorgi Breitburd, che a metà del lavoro scende a Venezia, insieme con Ajtmatov, per un incontro con l’autore. Breitburd, che s’era poi ritirato in una dacia per tradurre La vita eterna, morirà a metà di questo lavoro, che sarà perciò terminato da Julia Dobrovolskaja. Tra i due romanzi Camon interpose le poesie Liberare l’animale (premio Viareggio 1973). Imprevisto, e come elaborazione di un lutto, pubblica nel 1978 Un altare per la madre: esaltazione di un Cristianesimo mistico ed originario, questo romanzo (premio Strega) si diffonde nel mondo e specialmente nei paesi comunisti. La RAI, Radiotelevisione Italiana, ne ricava un film con Angela Winkler e Franco Nero. Un altare per la madre ebbe una gestazione lunga, e fu riscritto diciannove volte: ma la stesura mandata in stampa non fu la diciannovesima, ma la terza, anche per scelta dell’editore Livio Garzanti. I tre romanzi furono riuniti nel “ciclo degli ultimi”, perché con essi Camon si accorse di aver descritto la fine di una civiltà, la civiltà contadina: questa fine era stata chiamata, da un poeta francese (Charles Péguy), «il più importante avvenimento della storia, dopo la nascita di Cristo». Geno Pampaloni, illustre critico letterario italiano del secondo Novecento, inserendo questi romanzi nella “Storia della Letteratura Italiana diretta da Emilio Cecchi e Natalino Sapegno”, scrive: «Tre libri che sentiamo radicati come pochi altri nella cultura dell’ultimo ventennio». Il “New York Times” parlava di «A scene like a Bruegel canvas», la “Frankfurter Allgemeine Zeitung” di «Ein Epitaph, ein Requiem für die Letzten», “Le Nouvel Observateur” scriveva: «”La vie éternelle” est le livre d’un Lévi-Strauss qui aurait prêté sa plume à Faulkner». Raymond Carver, il padre dei minimalisti americani, definiva Un altare (che in America si intitola Memorial): «A sublime work of art», e in Francia l’”Express” terminava la recensione avvertendo: «Attention: chef-d’oeuvre». In Italia, la rivista “Letture” lo definiva: “Un libro meraviglioso, un libro sacro”. Avendo cominciato dunque con la ricognizione di una crisi (la crisi della civiltà contadina), Camon prosegue come descrittore di altre crisi: col “ciclo del terrore” (Occidente, Storia di Sirio) racconta quella crisi che si chiama “terrorismo”, e col “ciclo della famiglia” (La malattia chiamata uomo, La donna dei fili) la crisi che porta in analisi. La malattia chiamata uomo (titolo francese: La maladie humaine) viene rappresentata per quattro anni consecutivi al teatro “L’Aquarium” di Parigi.La particolare funzione che Camon attribuisce alla scrittura (la scrittura è rivelazione, quindi un merito, ma anche un tradimento, e più esattamente una delazione, quindi una colpa) fa sì che ogni ciclo romanzesco provochi delle reazioni: per il “ciclo degli ultimi” s’interrompe ogni rapporto con i paesi d’origine, che non volevano essere descritti per quel che erano, e con La vita eterna (diventata un best-seller in alcuni stati, tra cui
la Germania, dove fu per dieci mesi consecutivi nella lista dei libri raccomandati dalla critica) ottiene l’apertura di un processo contro l’SS che nel libro è l’”eroe negativo”, e che mantiene lo stesso nome (Lembke) che aveva nella realtà: il libro è assunto come “documento a carico” dalla Procura della Repubblica di Verona, ma quell’SS muore d’infarto alla vigilia del processo. Al quotidiano francese “Libération” l’autore dichiarerà di sentire quel libro «come un colpo di fucile, sparato dall’Italia alla Germania, per colpire al cuore un nemico della [sua] gente». Alla pubblicazione di Occidente fan seguito le reazioni di gruppi terroristici: all’autore viene distrutta l’auto, e per mesi gli vengono recapitate nella cassetta postale delle piccole bare, col suo nome scritto sopra. L’autore ebbe per lunghi periodi la casa e il telefono controllati, su sua richiesta, dalla polizia. Quando Occidente viene ridotto a film dalla RAI, l’autore abbandona la sua città, con tutta la famiglia; anche la troupe, che aveva cominciato a girare a Padova, è costretta a trasferirsi altrove (il film sarà terminato a Ferrara). Contro il film sporge denuncia il terrorista “nero” che si riconosce come protagonista. Ma, condannato all’ergastolo, perde i diritti civili, e il processo non ha luogo. Successivamente riabilitato, con piena assoluzione, chiede a Camon un incontro chiarificatore, da pubblicare. Il colloquio, di un’intera giornata, è pubblicato nel volume I miei personaggi mi scrivono: si conclude con Camon che domanda al suo “personaggio” in che cosa consista la sua innocenza, e quello risponde che «è innocente non colui che è incapace di peccare, ma colui che pecca senza rimorsi». Camon ritiene che con quelle parole il terrorista volesse affermare: «Sì, sono stato io, ho fatto la strage: ma possiedo un sistema morale in grado di giustificarmi». Sul problema della “colpa” Camon ha dialogato con Primo Levi, superstite di Auschwitz: ne è nata
la Conversazione con Primo Levi, conclusa poco prima del suicidio (ma Camon non crede che si tratti di suicidio) di Levi. La tesi di Camon è che lo Sterminio coinvolga una responsabilità più grande di quella affermata da Levi, il quale adotta una concezione “eroica” della storia, per cui la storia è fatta da pochi, i Napoleoni che galleggiano come sugheri sulla volontà dei popoli; Camon pensa che l’eliminazione degli ebrei sia stata l’atto finale di un plurisecolare processo di rigetto, che ha il suo nucleo originario nel cuore stesso del Cristianesimo, che non permetteva alcun rapporto con i “diversi” se non finalizzato alla loro conversione: nella concezione cristiana del “bene” stava in realtà la radice di una immensa colpa storica. Col Canto delle balene (1989) Camon inaugura un nuovo ciclo, e lo chiama “ciclo della coppia”: in questo primo romanzo racconta come la coppia si costruisca attorno ai proprî segreti, e come, con la violazione di quei segreti, si dissolva. Ma il libro vuol essere anche una “epigrafe” su una generazione, la generazione dei cinquantenni, un compendio delle sue grandezze e dei suoi delirî: la psicanalisi di massa, il culto dell’India, la mancata rivoluzione, l’invenzione di un nuovo Dio, e la tardiva riscoperta dei sentimenti e del sesso. Nel 1991 esce il romanzo Il Super-Baby, storia del parto visto dal nascituro (tutto il tempo del romanzo coincide col tempo pre-natale) e dal maschio: con soggezione e, avvertibile in ogni pagina, con rancore. La moglie (la “nuova donna”) vuole infatti partorire un genio, e perciò porta a scuola il bambino nei nove mesi prima che nasca: il marito (il “vecchio uomo”) la accompagna e la spia, ammirato e costernato. Fino al drammatico risultato finale. Nel 1993, mezzo secolo esatto dopo le vicende raccontate nella Vita eterna, un soldato tedesco torna nei paesi veneti dove aveva partecipato alle rappresaglie che avevano seminato 56 cadaveri in una decina di mesi: vuol essere festeggiato, contando sull’oblio delle vittime. L’incontro con questo soldato riporta Camon alla rievocazione della guerra e alla denuncia dei colpevoli che si sono costruiti una biografia innocente: nasce il romanzo Mai visti sole e luna (1994). Nel ‘96 pubblica
La Terra è di tutti, sul tema dello scontro di civiltà che si svolge nelle città occidentali, sotto l’urto delle ondate migratorie dall’Asia e dall’Africa. Nel 1999 Camon ritorna alla campagna e alla poesia, con la raccolta Dal silenzio delle campagne, in cui rievoca la ricchezza cattolico-pagana della civiltà contadina del dopoguerra, e l’amorale oblio della campagna di oggi, protesa alla ricchezza, dimentica del suo passato grandioso, delle violenze patite nell’occupazione, le rappresaglie e le stragi, e popolata di mostri, parricidi, serial-killer, mercanti di donne, drogati e spacciatori. Per quattro anni viene eletto presidente degli scrittori italiani associati nel Pen, e come tale inoltra all’Accademia di Svezia la candidatura al premio Nobel per
la Letteratura di scrittori italiani, uno all’anno: Mario Rigoni Stern, Antonio Tabucchi, Andrea Zanzotto e Alda Merini. Nel 2004 esce il breve romanzo La cavallina, la ragazza e il diavolo, che finalmente instaura un rapporto felice, gioioso, nostalgico con il mondo della campagna e i suoi abitanti, e lancia il messaggio che bisogna fare quel che è giusto, avvenga quel che può: ognuno avrà il premio che si merita, e se l’astuzia o l’iniquità glielo toglie, gli sarà restituito. Nel novembre del 2006 Camon ha riunito in un volume (“Tenebre su tenebre”) una lunga serie di pensieri, ragionamenti, analisi, ricordi, scritti nel corso degli ultimi 12-15 anni a ridosso delle vicende più importanti della storia e della cronaca: guerre, stragi, encicliche, processi, omicidi, suicidi, insomma i fatti che cambiano la nostra vita. Camon scrive regolarmente su giornali italiani, “
La Stampa”, “L’Unità”, “Avvenire”, i quotidiani delle Venezie del gruppo “Repubblica-Espresso”, a volte su “Le Monde” (Parigi) e su “
La Naciòn” (Buenos Aires). Ha due figli maschi: il primo, Alessandro, vive a Los Angeles, dove produce film, il secondo, Alberto, vive a Bologna, dove insegna Procedura Penale.

Pubblicato in IL SOTTOSUOLO (di Ferdinando Camon)   133 commenti »

martedì, 19 febbraio 2008

MEGLIO I LIBRI O I FILM TRATTI DAI LIBRI?

Letteratura e cinema sono molto legati. Lo sono sin dalla nascita del grande schermo. Un legame molto stretto, il loro.

Simbiotico.

Carta e pellicola che camminano mano nella mano per raccontare storie al mondo.

Bella immagine, vero?

Chissà se deve più il cinema alla letteratura o la letteratura al cinema!

Secondo voi?

Pensateci.

Quante volte vi è capitato di andare al cinema per vedere il film tratto da quel libro che avete tanto amato?

Quante volte, dopo aver visto un film che vi è piaciuto, siete andati ad acquistare il libro da cui è stato ispirato?

E vi è mai capitato di essere delusi da uno spettacolo cinematografico al punto tale da aver voglia di andar via prima della fine?

Magari vi è capitato, anche se poi siete rimasti perché avevate letto il libro. Così come è accaduto alla voce narrante (o meglio, cantante) della bellissima A day in the life dei Beatles.

I saw a film today oh, boy

The English army had just won the war

A crowd of people turned away

But I just had to look

Having read the book

Having read the book, canta John Lennon. “Avendo letto il libro” (perché avevo letto il libro).

Qui di seguito vi propongo il video.

Sì, ci sono film mediocri basati su romanzi stupendi. Così come ci sono libri deludenti che hanno ispirato film eccezionali.

Ma in generale… sono meglio i libri o i film tratti dai libri?

È meglio La terra trema di Visconti o I Malavoglia di Verga? Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa o quello del già citato Visconti?

Di esempi se ne potrebbero fare tanti. Fino ad arrivare ai nostri giorni.

Parliamo di Caos calmo. Meglio il romanzo di Sandro Veronesi o il film di Grimaldi?

Vi rammento la trama del libro.

Pietro Paladini è un uomo apparentemente realizzato, con un ottimo lavoro, una donna che lo ama, una figlia di dieci anni. Ma un giorno, mentre salva la vita a una sconosciuta, accade l’imprevedibile, e tutto cambia. Pietro si rifugia nella sua auto, parcheggiata davanti alla scuola della figlia, e per lui comincia l’epoca del risveglio, tanto folle nella premessa quanto produttiva nei risultati. Osservando il mondo dal punto in cui s’è inchiodato, scopre a poco a poco il lato oscuro degli altri, di quei capi, di quei colleghi, di quei parenti e di tutti quegli sconosciuti che accorrono a lui e soccombono davanti alla sua incomprensibile calma. Così la sua storia si fa immensa, e li contiene tutti, li ispira fino a un finale inaudito eppure del tutto naturale.

Nanni Moretti riesce davvero a impersonare così bene Pietro Paladini, il protagonista della storia? Ve lo immaginavate così mentre leggevate il libro? Certo, se avete già visto il film – ma non avete ancora avuto modo di gustarvi il romanzo – credo che nel momento in cui inizierete la lettura il personaggio che vedrete con gli occhi della mente avrà per forza di cose la faccia di Nanni Moretti. E vi sembrerà strano immaginarlo dentro la macchina anziché seduto su una panchina.

E poi c’è un altro caso recente.

Io sono leggenda. Anche in questo caso mi viene da domandarvi: meglio il romanzo di Richard Matheson o il film dove il protagonista è interpretato da Will Smith?

Anche in questo caso vi rammento la trama del romanzo.

Robert Neville torna a casa dopo una giornata di duro lavoro. Cucina, pulisce, ascolta un disco, si siede in poltrona e legge un libro. Eppure la sua non è una vita normale. Soprattutto dopo il tramonto. Perché Neville è l’ultimo uomo sulla Terra. L’ultimo umano sopravvissuto, in un mondo completamente popolato da vampiri. Nella solitudine che lo circonda, Robert esegue la sua missione, studia il fenomeno e le superstizioni che lo circondano, cerca nuove strade per lo sterminio delle creature delle tenebre. Durante la notte Neville se ne sta rintanato nella sua roccaforte, assediato dai morti viventi avidi del suo sangue. Ma con il sorgere del sole è lui a dominare un gioco crudele e di meccanica ferocia, scandito dalle luci e dalle ombre di un tempo sempre uguale a se stesso e che impone la ripetizione di un rituale sanguinario. In questo mondo Neville, con la sua unicità, si è già trasformato in leggenda.

Parliamone.

(Massimo Maugeri)

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Vi ricordo che per fare quattro chiacchiere su argomenti vari la porta de la camera accanto è sempre aperta.

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sabato, 16 febbraio 2008

VOI SIETE QUI

Rubo spudoratamente il titolo a questo libro edito da Minimum fax per pubblicare un post dedicato al cenacolo romano di un gruppo di “letteratitudiniani”.

Pensate un po’… un gruppo di persone che si sono conosciute su questo blog e che poi hanno avuto il piacere di passare da una conoscenza virtuale a una conoscenza reale.

Come ho già avuto modo di dire, questa cena (ma anche quella precedente… sì, ce n’ era stata un’altra) per me ha assunto il valore di un vero e proprio dono. Che vi devo dire? Mi piace l’idea che Letteratitudine possa unire.

Ecco i protagonisti della serata: Enrico Gregori (l’organizzatore), Silvia Leonardi, Eventounico (Pasquale), Laura Costantini, Loredana Falcone, Carlo S., Gea (che è scesa apposta da Trieste), Zauberei, M.G.

Carlo S. mi ha scritto una mail:

Caro Massimo

non riuscendo tu ad essere presente alle nostre cene romane ti invio (sperando tu gradisca) la mia personale impressione visiva dei tre polli della sezione capitolina gozzovigliante di letteratitudine. Forse così riuscirai a farti un’idea anche tu.

E mentre che c’era, il buon Carlo, mi ha inviato una (simpatica) caricatura della simpatica Zauberei.

Insomma… se ho intitolato questo post “voi siete qui” il motivo c’è.

Ed è qui sotto.

Grazie Carlo.

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lunedì, 11 febbraio 2008

LA LETTERATURA DELLA FOLLIA

Il tema della follia è uno di quelli più ricorrenti in letteratura.

Di seguito troverete un pezzo di Flaviana Zaccaria (pubblicato su letterariamente) e due recensioni. La prima è firmata da Ruggero Bianchi (pubblicata su Tuttolibri del 29 dicembre 2007) e riguarda il nuovo romanzo di Patrick McGrath che – dopo Follia (1998), Il morbo di Haggard (2002) e Port Mungo (2004), torna in libreria con Trauma (edito da Bompiani).

La seconda recensione è firmata, invece, da Silvia Leonardi e riguarda il libro di Pasquale Esposito (nome in codice: Eventounico), intitolato Come pagina bianca (edito da Aletti).

Due libri che, in un modo o nell’altro, rientrano nel tema.

Vi invito a discutere sia sul tema, prendendo come spunto il pezzo della Zaccaria, sia sui due libri recensiti.

A proposito… c’è un “romanzo folle” a cui siete particolarmente legati?

Chiudo con la domanda finale posta dalla Zaccaria.

Chi non ha mai lottato contro i mulini a vento?

(Massimo Maugeri)

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Da sempre la follia ha imperversato nella letteratura mondiale assumendo forme e valenze diverse; dagli antichi saltimbanchi ai romanzi di Dostoevskij e Pirandello, la follia non ha fatto altro che puntare il dito, focalizzando l’attenzione del pubblico su qualcosa di fondamentalmente universale: l’Io, i desideri e le espressioni più pure di se stessi. Cos’è infatti l’atto o le parole di un folle se non una espressione limpida, senza mediazioni raziocinanti, della propria mente, del proprio sentire?

L’arte ha adottato questa libertà per mostrare l’Altro, l’esistenza di qualcosa al di là della norma convenzionale sociale, alzando la sua polemica contro la “conformità-a-tutti-i-costi” e il rifiuto per il diverso: basta leggere qualche pagina del Sosia o delle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, o l’ancor più famoso Uno, nessuno, centomila di Pirandello, per rendersi conto della profondità in cui scende l’analisi umana nella sincerità della follia.

La “Follia seria” ha così accolto su di sé il difficile compito di esprimere l’angoscia, le ansie e il male di vivere dell’uomo; ma esiste anche un’altra faccia della follia: quella “che ride”, la follia giocosa dei saltimbanchi che nasconde dietro il suo riso le stesse inquietudini, che esorcizza i “mostri” e l’Altro mostrandone le contraddizioni e le irrazionalità. Ma ciò non significa che la sua sia un’opera di distruzione, al contrario, come scrive anche Bergson, la follia in tal modo dà consistenza e valore ad un modello, ad una determinata forma; che un personaggio, un avvenimento sia bersaglio del riso, non è che il riconoscimento della forza e dell’importanza di questo stesso.

Ariosto nell’Orlando Furioso mette in pratica proprio ciò: nella follia d’Orlando, che vaga seminudo nel bosco vaneggiando parole senza molto senso, che usa uomini a mo’ di mazza per colpirne altri e scorrazza per la foresta simile ad un animale, c’è l’affermazione di quell’uomo e del suo amore tanto grande da togliere il senno….. costringendo Astolfo ad arrivare fin sulla luna per riportarlo in sé!

Così nel “Don Quijote” di Cervantes, dove tra le risate davanti agli improbabili cavalieri e giganti sfidati, le gentildonne travestite da contadine e popolane e le locande trasformate in castelli, non si può far a meno di ammirare la forza d’animo e il coraggio con cui egli porta avanti il suo ideale cavalleresco e i suoi sogni di una gloria d’altri tempi, ove il cuore e la nobiltà d’animo erano i capisaldi di un grande uomo. Ciò ovviamente non lo esonera dagli scherzi del suo scudiero, il quale anzi, quando non è malconcio per le conseguenze delle avventure del cavaliere suo padrone, lo incalza nella sua follia arricchendola di nuovi personaggi e vicissitudini; ma la costanza e l’ammirazione con cui egli segue comunque il cavaliere errante al suo fianco, mostrano tutta la stima e l’elogio per un animo tanto grande.

Senza alcun dubbio ci sono delle differenze, e notevoli, tra i due componimenti, mentre infatti la follia ariostesca investe solo un aspetto ben preciso dell’opera e del carattere del suo protagonista, in Cervantes questa sembra investire tutti, traendo nella sua ridente tela tutti i personaggi, trasformando l’intera opera in una miscellanea di rocambolesche e divertenti circostanze; la follia sembra diventare la normalità e tanta è la partecipazione del lettore che non si può far a meno di fare il tifo per Don Quijote, sperando nella buona riuscita di almeno una delle diverse imprese, e proprio qui c’è l’affermazione del modello, del carattere del personaggio.

Il senso della follia che ride forse è proprio qui, nella partecipazione emotiva e nella leggerezza d’animo che suscita nei lettori, rendendoli con la magia del sorriso un po’ più consapevoli e più vicini all’Altro, chi mai infatti, se non altro durante la lettura, non si è sentito un po’ Don Quijote, senza sogni ad occhi aperti? Chi non ha mai lottato contro i mulini a vento?

Flaviana Zaccaria

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Trauma di Patrick McGrath, Bompiani, 2007, trad. di Alberto Cristofori, pp. 252, euro 17

Torna a volare alto Patrick McGrath in Trauma, un romanzo serrato e avvolgente pubblicato in anteprima mondiale da Bompiani (trad. di Alberto Cristofori, pp. 252, e 17), che ruota attorno alla figura di Charlie Weir, psichiatra newyorchese d’assalto che vive e opera nel cuore della Big Apple, tra la Ventitreesima strada, e dunque a Chelsea e ai margini del Village, e l’alta Park Avenue, e dunque ai bordi della Columbia e di Harlem. E’ lui a narrare e a interpretare la propria storia. O meglio, a cercare di interpretarla, come conviene a ogni seguace di Freud convinto che la vita quotidiana è una forma di continuo e inconsapevole mascheramento ruotante attorno a transfert e rimozioni e quindi – per dirla con le sue parole – lo psichiatra è il «fantasma» di un «assente» del quale il paziente va a caccia. Queste, per Charlie, le basi teoriche e metodologiche sulle quali fonda la sua professione. Ma la pratica è tutt’altra cosa. Un po’ perche’ indulge a contaminare Freud con le nuove dottrine eterodosse alla Laing; un po’ perche’ a volte e’ precipitoso e pasticcione; ma soprattutto perche’, prima di risolvere i traumi e gli shock post traumatici dei suoi clienti, dovrebbe riuscire a risolvere i propri. E di se’ questo anomalo «strizzacervelli» (lui pero’ mal sopporta tale definizione) ne sa meno di Agnes, l’ex moglie sociologa, di Cassie, l’affettuosa figlioletta, di Walt, il rozzo fratello artista e benestante. E forse anche di Nora Chiara, l’amante fascinosa e candidamente perversa, di Fred, il padre eternamente perdente, e persino di Leon, il pompiere secondo marito di Agnes. Nel tentativo di venire a patti con se stesso, Charlie scivola disinvoltamente e dolorosamente tra presente e passato, tra un oggi del quale solo eventi traumatici sanno spezzare il monotono flusso, e uno ieri che risale agli anni di Nixon, dei reduci dal Vietnam e del Movement, delle Twin Towers ancora in costruzione, dei primi successi dei Doors e della moda dello Zippo. Ormai prossimo ai quaranta, psichicamente ed emotivamente ingrigito come certi personaggi di T.S. Eliot, e’ costretto ad ammettere che quanto vale per i suoi pazienti vale anche per se’: lui pure ha il problema del «gemello», fratello o doppio che sia. Lui pure ha un Edipo non risolto che gli fa vivere moglie e amante come surrogati materni e anelare alla «casa» come a un ritorno all’utero. E, soprattutto, lui pure vede lo psicanalista come un ficcanaso che vuole aiutare, spesso con disastrose conseguenze, persone che non vogliono essere aiutate ma solo farsi confessare ed essere assolte: un ruolo a mezza via tra il medico e l’amante che offre compassione a chi invece ha urgenza di amore. Non e’ facile d’altronde applicare nei propri confronti regole e metodi usati con gli altri, convincersi che anche la propria esistenza e’ il tentativo di dar corpo a un «modello drammaturgico di vita sociale» e che dunque la propria memoria non e’ un «deposito» di fatti e dati oggettivi bensi’ un «imprinting somatico dinamico», cioe’ una falsificazione e una reinvenzione delle esperienze passate. La psicanalisi, insomma, sembra essere un modo di apprendere piu’ che di insegnare. E Charlie dovra’ rendersi conto che certe scelte finali dei suoi pazienti – magari spararsi in bocca o buttarsi dal cornicione di un edificio – potrebbero essere anche le sue. Ma la chiusa del romanzo – con il colpo di scena d’obbligo, peraltro lievemente forzato e smorzato – lascia scorgere una soluzione pacificatoria, in linea con l’andamento cullante e pacatamente attutito di tutto il romanzo.

Ruggero Bianchi

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Come pagina bianca di Pasquale Esposito, Aletti, pag. 104, euro 14

In un mondo dove il normale altro non è che il valore che ognuno vuole dare a questo termine, i ruoli sembrano ribaltarsi. Chi è sano è il vero malato, e viceversa. Resta sospeso nell’aria questo dubbio, aleggia furtivo tra le parole del protagonista, internato in un manicomio con la sola “colpa”- se di colpa si possa parlare – di non essersi omologato al mondo, alle convenzioni, alle abitudini che negli altri determinano la normalità. Nessun riferimento a date, a luoghi che non siano la stanza da cui il protagonista scrive le sue lettere, il romanzo resta volutamente su un piano astratto, quello di uno spazio e di un tempo da immaginare liberamente. L’uomo, nella sua esistenza in solitudine, non può far altro che affidarsi alla penna, immaginando un amore ideale a cui scrivere, come a raccogliere i pensieri, concentrarli e fissarli per evitare – questa volta davvero – di impazzire, di restare “come pagina bianca”. Inespressiva e inascoltata. Inquietante la lucidità di pensiero del protagonista, azzeccata l’idea di non usare nomi se non uno, che comunque non è reale, quello di Girolamo, l’unico personaggio che infine sembra comprenderlo senza parole e senza giudizio.

Le lettere sono il contorno, la cornice perfetta di quelle piccole perle in versi che Pasquale Esposito incastona. Tra le rime c’è tutto quello che in altro modo è difficile spiegare e comprendere. Un caleidoscopio emotivo in cui prosa e poesia si alternano e si integrano. E se anche il protagonista dichiara fin dall’inizio di non essere avvezzo all’uso delle parole, mirabilmente le giostra, le plasma, in un linguaggio dal sapore vagamente retrò. Di certo non c’è ansia nel libro, tutto scorre come acqua sotto i ponti, e il lettore intuisce che di sorprese non deve aspettarsene. E’ la vita, quella vita, che va come deve.

Silvia Leonardi

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giovedì, 7 febbraio 2008

IGNORANTI A PIENO TITOLO?

Su Repubblica del 6 febbraio è stato pubblicato un articolo di Michele Smargiassi dal titolo: “Nell’Italia dei laureati che non sanno scrivere”. Un articolo amaro che mette in evidenza una realtà piuttosto scoraggiante: un laureato su cinque ha difficoltà a scrivere. Pare però che gli “ignoranti titolati” non si preoccupino più di tanto.

Tullio De Mauro considera il problema come un’emergenza nazionale. Ecco cosa dichiara: “Per il futuro economico del nostro paese migliorare l’italiano degli imprenditori, dei professionisti, dei politici, è perfino più vitale e urgente che migliorare i salari dei dipendenti.”

Però dallo stesso articolo apprendiamo che “il laureato analfabeta non fa necessariamente più fatica a trovare lavoro rispetto ai suoi quattro colleghi più letterati. Le imprese non sembrano granché interessate a selezionare i propri quadri dirigenti sulla base delle competenze linguistiche di base.”

E allora? Che fare? Che dire? Chi ha ragione?

E chi è che, oggi, usa l’italiano vero (che non è quello di Toto Cutugno)?

Secondo Stefano Bartezzaghi “non lo usano certo i personaggi televisivi (la tv, in Italia, è oggi un canale di diffusione di dialetti). I dirigenti d’azienda, gli amministratori, i politici, i ricchi? Non scherziamo. I professori universitari? I giornalisti? Gli scrittori? I medici? Gli avvocati? Nemmeno loro, se non in una quota irrilevante”.

Bartezzaghi vi sembra un po’ supponente? Avete l’impressione che faccia troppo lo Smargiassi?

Io credo che abbia ragione.

E voi?

(Massimo Maugeri)

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AGGIORNAMENTO del 9 febbraio 2008

Provo a rilanciare il dibattito con alcune domande/riflessioni.
1. Secondo voi la “scrittura rapida” tipica dei commenti dei blog può essere considerata come una via di mezzo tra la lingua parlata e quella scritta (considerate in senso tradizionale)?
2. La suddetta “scrittura rapida” ha una valenza negativa (rispetto all’argomento oggetto di questa discussione)?
3. L’ideale della perfezione linguistica è più difficile da raggiungere “oggi” rispetto a “ieri”? (Mi viene in mente la titanica operazione manzoniana di “risciacquatura in Arno”).
4. Siete a conoscenza di opere del passato – divenuti classici – che contengono “errori marchiani” dal punto di vista linguistico?
4. Rispetto al passato, la lingua parlata di oggi “detta” i cambiamenti di quella scritta in misura superiore o inferiore?
5. Quando un errore nella lingua parlata diviene “generalizzato”, può “imporsi” nella lingua scritta al punto tale da divenire “regola” ? Potete fare qualche esempio?

(Massimo Maugeri)

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mercoledì, 6 febbraio 2008

TARIQ RAMADAN CONTRO LA FIERALIBRO

Probabilmente ne siete già al corrente. Tariq Ramadan ha lanciato una sorta di fatwa contro la Fiera del Libro di Torino, con l’invito di boicottarla. Il motivo? Aver tributato a scrittori israeliani il ruolo di ospiti d’onore.

Dall’articolo di Giovanna Favro pubblicato su La Stampa del 3 febbraio apprendiamo quanto segue.

“Nel clima sempre più arroventato, Rolando Picchioni ammette che negli uffici della Fiera sono piovuti, oltre a un fiume di messaggi solidali, pure «insulti, arroganze, fatwe, veti». (…) Ieri Rifondazione Comunista è scesa in campo per la prima volta accanto ai Comunisti italiani, dichiarando inopportuno l’invito di Libropoli nel 60° anniversario della nascita dello Stato d’Israele. E mentre Vincenzo Chieppa (Comunisti italiani) insiste nel chiedere «pari dignità per la Palestina», va nella direzione opposta la lettera che il regista Davide Ferrario ha spedito al direttore Ernesto Ferrero: «nel conflitto medio-orientale non si può che stare con i palestinesi», «per la sua natura di incontro, la Fiera è l’occasione per affrontare la questione. Rispondere col muro del silenzio e del boicottaggio è cadere nella stessa logica di chi i muri li costruisce per dividere i popoli».

Nel gran turbinio scatenato dalla querelle, ieri Fabrizio Cicchitto (Fi) ha definito il boicottaggio «puro antisemitismo», mentre per il sindaco Sergio Chiamparino «sta prendendo piede un fondamentalismo politico prima che religioso». E’ con lui Walter Vergnano, sovrintendente del Regio: «Sarebbe aberrante non poter ospitare liberamente un gruppo di intellettuali. Chi invita una letteratura non è contro un’altra, e rivendico il diritto di leggere libri sia di israeliani che di arabi, ascoltandone gli autori». Pure a Franzo Grande Stevens pare che nelle scelte della Fiera «non ci sia alcun intento discriminatorio», e s’è detto indignato delle polemiche Paolo Bertinetti, il cattedratico che propose la laurea ad honorem ad Abraham Yehoshua: «La scelta della Fiera non può essere messa in discussione per ragioni politiche da chi confonde politica e cultura».
L’Unione araba cittadina, però, è ferma nelle sue posizioni: per Franco Trad «non si può festeggiare l’anniversario di un paese che semina morte e la cui indipendenza è una ferita aperta». Se Tawfik lavora al dialogo («La Fiera ha sempre ospitato autori arabi, è stata fraintesa»), per Ernesto Ferrero «sbaglia chi non scinde politica e cultura, e presenta per l’ennesima volta un’immagine faziosa e intollerante della Palestina». Chi protesta «non sa il significato di “ospite d’onore”: non prevediamo corone fiorite e lanci di caramelle dai balconi, ma incontri con scrittori, per di più critici col governo. Cosa temono gli autori arabi? Vengano a Torino ed espongano democraticamente il loro punto di vista»”.

Vi riporto l’opinione di Riccardo Chiaberge pubblicata sulla sua rubrica “Contrappunto”, in prima pagina del Domenicale de Il Sole24Ore del 3 febbraio, dal titolo “La fiera del libro? Spostiamola al Cairo”:

“Alla Fiera del Libro del Cairo, la più importante del mondo arabo, in corso in questi giorni, succedono cose a dir poco singolari. Per esempio che la polizia egiziana sequestri all’aeroporto pacchi di libri considerati sovversivi o immorali. Come “For Bread Alone” del marocchino Mohamed Choukri, tradotto in inglese da Paul Bowles, e già boicottato in molti paesi musulmani per le sue scene di sesso e droga. Ma anche opere meno scottanti di autori occidentali, come “L’insostenibile leggerezza dell’essere” o “Il libro del riso e dell’oblio” di Milan Kundera. Di fronte a queste prepotenze ci saremmo aspettati qualche reazione della cultura locale: un mugugno, un ohibò, anche solo un colpetto di tosse da parte, tanto per fare un nome, del signor Mohamed Salmawy. Niente. Il giornalista egiziano, presidente dell’Unione degli Scrittori Arabi, non ha fiatato. Era troppo impegnato a indirizzare vibranti lettere di protesta ai responsabili di un’altra Fiera del libro, quella di Torino, colpevoli di aver invitato Israele come Paese ospite. Questa scelta – ha dichiarato Salmawy – è una provocazione nei confronti degli arabi, «che non se ne staranno con le mani in mano». L’intellettuale egiziano ha anche minimizzato l’importanza della «piccola Fiera» torinese, niente di paragonabile alle grandi manifestazioni tipo Francoforte, New York, Montreal e, appunto, Il Cairo. Ma se il Lingotto fosse davvero così irrilevante, perché tanto chiasso? Perché l’appello al boicottaggio, orchestrato da quattro gatti nostrani – forse tirati per la coda da qualcuno – è diventato subito una crociata?

In questo clima surriscaldato, c’è chi è arrivato a parlare di «militarizzazione della cultura». Come se David Grossman, che ha perso un figlio nella guerra in Libano del 2006, o Amos Oz, o Abraham Yehoshua, o quell’Etgar Keret che ha scritto un libro con un palestinese, fossero dei guerrafondai «embedded» nelle truppe di occupazione. Israele è ospite d’onore anche al Salon du Livre parigino, che precede di due mesi l’appuntamento torinese: eppure lì, a parte qualche isolato dissenso, non si sono udite urla sediziose. L’insostenibile leggerezza dell’idiozia dev’essere una prerogativa italiana. Forse è bene ricordare che le aule della Sapienza e i saloni del libro sono luoghi di incontro e di confronto delle idee, non di scontro tra identità armate. E che in quest’era di fondamentalismi dovremmo tutti imparare l’arte del riso e dell’oblio di cui Kundera è maestro. Ma intanto, suggeriamo ai censori della Fiera di Torino di fare un salto al Cairo. Stiano solo attenti a che libri si portano in aereo: lì la cultura non è militarizzata, preferiscono imbavagliarla”.

E infine la provocazione di Aldo Grasso, su Il Corriere della Sera del 5 febbraio, rivolta Fabio Fazio e Serena Dandini, Piero Dorfles, Neri Marcorè e Corrado Augias:

Il Giorno della Memoria, una settimana fa, avete riempito i vostri programmi di toccanti testimonianze sulla Shoah e adesso niente, neanche una parola per condannare il boicottaggio contro gli scrittori ebrei o per prendere le distanze da Tariq Ramadan.

Mi rivolgo a Lei, Fabio Fazio, al suo autore più prestigioso, Michele Serra, a Giovanna Zucconi, che ogni settimana consiglia ottimi libri, mi rivolgo a voi perché «Che tempo che fa», considerata a ragione una delle rare trasmissioni in cui si parla ancora di cultura, non lasci passare sotto silenzio l’appello lanciato da gruppi della sinistra antagonista contro la Fiera del Libro, «colpevole» di aver invitato a Torino gli scrittori di Israele come ospiti d’onore.

Mi rivolgo a lei, Serena Dandini, che ogni domenica sera ospita nel suo salotto televisivo grandi scrittori e artisti famosi, chiedendole di pronunciarsi, dire parole chiare, senza tentennamenti, su questo clima di intolleranza suscitato da alcune minoranze bellicose che amano però riempirsi la bocca della parola «pace».

Mi rivolgo a voi, Piero Dorfles e Neri Marcorè, a voi e al vostro programma domenicale «Per un pugno di libri» perché interveniate a spiegare al vostro giovane pubblico che questi sciagurati boicottaggi non solo confondono in maniera subdola la responsabilità del singolo scrittore con le posizioni politiche di uno Stato ma, sotto sotto, mettono in discussione il diritto stesso all’esistenza di Israele. Mi rivolgo a lei, Corrado Augias, il cui impegno dichiarato, come dice lei, «è solo fare e indurre a fare qualche ragionamento», perché inviti nella sua trasmissione quotidiana i responsabili della Fiera di Torino Ernesto Ferrero e Rolando Picchioni a spiegare la loro scelta. Giorni fa ha chiamato Giulietto Chiesa a raccontare le sue deliranti convinzioni sul complotto dell’11 settembre. Bene. Spero trovi il modo di offrire ospitalità anche a chi ha civilmente deciso di offrire a Israele un proprio stand nazionale, come è successo negli anni passati con altri Paesi, in coincidenza con il 60˚ anniversario della fondazione di quello Stato.

Raitre si distingue per essere una rete ancora attenta ai problemi della cultura ma anche alle Buone Cause, al politicamente corretto, al dialogo, al diritto d’espressione, alla supremazia dei Valori; proprio per questo si ritiene l’ultimo avamposto della tv intelligente e della sinistra progressista. Ecco, sarebbe bello se voi, i conduttori più prestigiosi, buttati al vento gli alibi semantici, senza tante ipocrisie, magari sfidando un po’ di impopolarità, ci diceste se gli scrittori d’Israele sono o non sono degni di essere invitati in Italia a una manifestazione di libri”.

La domanda, naturalmente, è d’obbligo: voi cosa ne pensate?

(Massimo Maugeri)

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AGGIORNAMENTO

Nel nome della letteratura

Israele ospite della Fiera del Libro di Torino 2008

Con questa firma esprimiamo una solidarietà senza riserve nei confronti degli organizzatori della Fiera del libro di Torino, nel momento in cui questo evento di prima grandezza della vita letteraria nazionale viene attaccato per aver scelto Israele come paese ospite dell’edizione 2008.
L’appello a cui aderiamo s’intende apartitico, e politico solo nell’accezione più alta e radicale del termine. Non intende affatto definire uno schieramento, se non alla luce di poche idee semplici e profondamente vissute.
In particolare, l’idea che le opinioni critiche, che chiunque fra noi è libero di avere nei confronti di aspetti specifici della politica dell’attuale amministrazione israeliana, possono tranquillamente, diremmo perfino banalmente!, coesistere con il più grande affetto e riconoscimento per la cultura ebraica e le sue manifestazioni letterarie dentro e fuori Israele. Queste manifestazioni sono da sempre così strettamente intrecciate con la cultura occidentale nel suo insieme, rappresentano una voce talmente indistinguibile da quella di tutti noi, che qualsiasi aggressione nei loro confronti va considerata un atto di cieco e ottuso autolesionismo.

Raul Montanari

Prime adesioni:
Alessandra Appiano, Alessandra C., Andrea Carraro, Gabriella Alù, Cosimo Argentina, Sergio Baratto, Paola Barbato, Antonella Beccaria, Silvio Bernelli, Gianfranco Bettin, Daria Bignardi, Gianni Biondillo, Riccardo Bonacina, Laura Bosio, Elisabetta Bucciarelli, Gianni Canova, Fabrizio Centofanti, Benedetta Centovalli, Piero Colaprico, Giovanna Cosenza, Sandrone Dazieri, Francesco De Girolamo, Girolamo De Michele, Donatella Diamanti, Paolo Di Stefano, Luca Doninelli, Riccardo Ferrazzi, Marcello Fois, Francesco Forlani, Gabriella Fuschini, Giuseppe Genna,Michael Gregorio (Daniela De Gregorio, Mike Jacob),Helena Janeczek, Franz Krauspenhaar,Nicola Lagioia,Loredana Lipperini,Valter Malosti, Antonio Mancinelli, Valentina Maran, Federico Mello, Antonio Moresco , Gianfranco Nerozzi, Chiara Palazzolo, Gery Palazzotto, Paolo Pantani, Leonardo Pelo, Guglielmo Pispisa, Laura Pugno, Luca Ricci, Andrea Raos, Roberto Moroni, Mariano Sabatini, Rosellina Salemi, Flavio Santi,Tiziano Scarpa,Beppe Sebaste, Gian Paolo Serino, Luca Sofri, Monica Tavernini, Annamaria Testa, Maria Luisa Venuta, Andrea Vitali,Vittorio Zambardino,Zelda Zeta (Pepa Cerutti, Chiara Mazzotta, Antonio Spinaci)

Ps. L’appello appare contemporaneamente su Nazione Indiana, Ilprimoamore e Lipperatura

Potete sottoscriverlo su uno dei siti citati.

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AGGIORNAMENTO del 7 febbraio 2008

Segnalo che su Nazione Indiana è stato pubblicato anche questo post che va in direzione opposta a quello che propone la firma dell’appello

(Massimo Maugeri)

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Letteratitudine: da oltre 15 anni al servizio dei Libri e della Lettura

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"Cetti Curfino" di Massimo Maugeri (La nave di Teseo) ===> La rassegna stampa del romanzo è disponibile cliccando qui

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OMAGGIO A ZYGMUNT BAUMAN

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OMAGGIO A TULLIO DE MAURO

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RATPUS va in scena ratpus

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Ricordiamo VIRNA LISI con un video che è uno "spot" per la lettura

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"TRINACRIA PARK" a Fahrenheit ...

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