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giovedì, 21 giugno 2007

“GOMORRA”, “IL MATTINO” E “NAZIONE INDIANA”

In questi giorni sulle pagine web di Nazione Indiana si sta consumando una polemica piuttosto virulenta a seguito della pubblicazione di articoli sul quotidiano “Il Mattino” da parte di alcuni scrittori, tra cui: Antonella Cilento, Andrea Di Consoli e Antonio Pascale. Articoli finalizzati a fare il punto della situazione sulla Napoli post-Gomorra.

Vi riporto, di seguito, gli articoli di Pascale, Cilento e Di Consoli. Poi vi esporrò il mio parere.

Il Male che bagna Napoli (di Antonio Pascale)

La città di Napoli (e il suo hinterland) ha ormai invaso il nostro immaginario narrativo. Da una decina d’anni a questa parte, scrittori, artisti, intellettuali, registi, sceneggiatori e pure qualche poeta parlano e raccontano Napoli. Si può dire a tutt’oggi che nessuna città italiana ha subito lastre radiografiche così invasive e così continue come Napoli. Certo alcuni hanno preferito racconti superficiali, altri hanno raccontato la città con dolore e con amarezza, altri ancora con troppo dolore e troppa morbosità. Comunque sia, sfumature a parte, ne abbiamo elencato i difetti, le brutture, modi di vivere, le antropologie sociali, gli scempi urbanistici, spesso in presa diretta. Tanto che si può dire senza paura di esagerare che della città sappiamo ormai tutto, vita, morte e miracoli, per citare l’ultimo bel reportage televisivo, andato in onda giorni fa su L7. La domanda a questo punto è lecita: se sappiamo come ormai funziona il sistema camorristico, se la complicità tra politica e malaffare è sulla bocca di tutti che quasi accompagna le nostre discussioni al bar, se la vox populi dice cose molto sensate, se, ancora, abbiamo capito che la struttura economica che fonda e fa girare Napoli è seriamente a rischio crepe e di sicuro l’edificio nel futuro immediato si incrinerà seriamente, se sappiamo tutto questo, come mai a Napoli non cambia niente? Come mai non si prende atto dello stato di macerie e si comincia a ricostruire? Molti narratori, giovani e non, si sono convinti, in questi anni che l’espressione artistica deve per forza tenere conto di tutto quello che si muove sotto i nostri piedi. Qualunque tipo di torre l’artista costruisca, sia d’avorio o altrimenti corazzata, questa (la torre) poggia comunque le fondamenta nel sottosuolo. Non possiamo abbandonare la realtà sismologica e l’impegno che questa comporta. L’arte realistica è, in questo senso, un potente sismografo. Serve in primo luogo a proteggerci, proprio perché ci fa riconoscere l’onda sismica e in secondo luogo, serve, a costruire strutture antisismiche. Il narratore realista crede, in buona o mala fede, con ottimi e cattivi risultati, che questo sia il suo compito, indagare e costruire. Un compito che grava su di noi come una necessità primordiale, da svolgere a tutti i costi, arrivando fino ad invadere il lettore, come sostiene Saviano, prenderlo a pugni, svegliarlo dal torpore. Ebbene, sto sempre più nutrendo il sospetto che questo tipo di rappresentazioni rischia sì di indagare senza però smuovere nulla. E’ un indagine ripetitiva, per così dire. Consolante come tutte le ripetizioni. Quasi come se a risultato ottenuto, a narrazione finita, dopo aver militarmente invaso l’altro, al lettore, davanti a tale apocalisse, non resti che alzare le mani, dichiarare la resa. L’arte, dicono i teorici, deve conservare la tensione, sia quella verso il bene sia quella verso il male, altrimenti risulta mutila. Le rappresentazione che spesso hanno oggetto Napoli indirizzano la tensione verso il male. Anzi, spesso lo riproducono. Voglio dire, qualche volta, c’è nello stile che si adotta una seria complicità con il potere che si vuole contestare. E’ forse questo è un punto problematico per noi che scriviamo di Napoli, troppo spesso le narrazioni su, dentro e fuori Napoli, sono stilisticamente colluse. Oppure contribuiscono a creare una specie di retorica dell’apocalisse che blocca ogni tipo di pensiero vitale. Per molti di noi, Napoli è una città che sta diventando capro espiatorio. Con la narrazione rappresentiamo sì il male ma solo per allontanarlo e per sentirci migliori. Forse è per questo che non cambia nulla. Napoli non ci riguarda, fa troppo schifo, ne siamo fuori. E invece, forse, noi narratori dovremmo a questo punto cambiare tattica. Basta con l’epica della criminalità, perché la narrazione ripetuta con gli stessi stilemi e lo stesso ritmo, crea una sorta di assuefazioni e anche, a volte,la possibilità che si idolatri il criminale. Si pensa,e lo pensano i giovanissimi: quando la vita quotidiana è banale, meglio la forza del male. E invece, al contrario, bisognerebbe adottare un punto di vista meno morboso, meno osceno. Oppure dovremmo, di tanto in tanto, andare nelle scuole, nelle piazze a parlare ai ragazzi di scienza e scienziati, di ricerca medica, genetica, di botanica (perché l’ambiente è importante), di tecniche di costruzioni, dovremmo trovare, cioè, il modo, un modo non pretesco, senza prediche, di raccontare alle nuove generazioni che è meglio denudarsi, dai vestiti di marca, dalle droghe, dalle moto e di tutto quando fa spettacolo, vetrina, siparietto, a Napoli e riuscire insieme ad appassionarsi alla città. La passione verso la conoscenza nasce da qui, da un corpo nudo che vuole umilmente provare nuovi abiti mentali. Forse tocca a noi provare la giusta tessitura narrativa.

pubblicato su Il Mattino il 13 giugno 2007

* * *

L’oleografia del male e i suoi danni (di Antonella Cilento)

La notizia che gira ci distrugge: amici da Londra mi scrivono per chiedermi se è vero che un’epidemia è scoppiata a Napoli. Ma quale epidemia?, chiedo subito, C’è un errore… Ma sì, mi rispondono: epidemia di colera. Allibisco. E’ vero: siamo sui giornali di tutt’Europa con lo scandalo della spazzatura. Con la camorra. Con tutto quel che non funziona. E alla fine l’effetto è lo stesso di un secolo fa: erano gli inglesi o gli americani dipinti da Edith Warthon che non volevano passare per Napoli, focolaio di epidemie.

Non solo, vado a trovare un amico albergatore e quando gli chiedo come va mi risponde: malissimo. Gli italiani e gli stranieri hanno ridotto le presenza turistica in forma radicale e, per di più, le locali istituzioni non sono partite per tempo con la pubblicità del Maggio dei Monumenti.

Che ci piaccia o meno l’enorme campagna stampa e letteraria dell’immaginario che circonda Napoli in questi ultimi tre anni, invece di fare luce, come è già stato detto da Antonio Pascale su queste pagine, crea oscurità. La città se ne cade di problemi, ma attorno a lei, dentro di lei, una colossale campagna di autodistruzione fa perdere di vista la verità dei fatti. E per conseguenza nasce l’oleografia del male, fioriscono i presunti cantori della camorra, che invece di colpire il Sistema, senza volere – o volendo – lo elogiano.

E’ pericoloso di questi tempi nascondersi dietro il Male, è pericoloso creare martiri, non ne abbiamo bisogno. Per tornare a guardare Napoli bisogna viverla e lavorarci dentro, non osservarla da altre città o con gli occhi rivolti al desktop invece che alla strada.

Non abbiamo bisogno di un mercato del racconto truce di Napoli (è roba vecchia, cambiano le forme ma le storie sono le stesse di cento anni fa, proprio come la notizia del colera): alla fine, anche questo, il raccontare il Male compiacendosene, è una forma di camorra.

Abbiamo invece necessità di far vedere le cose attraverso l’esperienza diretta di una città che, certo, non è il paradiso, ma che ha bisogno di pratica e non di teorie per cambiare.

La gratuità del Male che abita Napoli si ritrova bene cantata dai telegiornali, dai libri, dai giornali: il Male si alimenta del Male.

E tutto questo ci solleva dal dover osservare le pratiche quotidiane, i buoni comportamenti, la correttezza dell’uso del denaro, l’educazione stradale, il senso civico che non fanno audience e non vendono copie, ma che più banalmente servono a contrastare l’entropia.

pubblicato su Il Mattino il 17 giugno 2007

* * *

Andare avanti dopo Saviano (di Andrea Di Consoli)

Andrea_di_consoli

Le dure parole di Sergio De Santis, scrittore che è unanimemente riconosciuto equilibrato e mai demagogico, sulle colonne di questo giornale, in data 16 giugno, mi hanno dato l’impressione di un clima che sta cambiando. Ma cosa sta cambiando esattamente a Napoli? A mio avviso sta scricchiolando la dittatura del realismo e del reportage, quella che è stata giustamente definita, su questo giornale, la “retorica dell’apocalisse”.
Che Napoli sia un Far-West lo sanno tutti, lo sa tutto il mondo. Ma raccontare la realtà criminale non significa raccontare tutta l’anima di questa città, né i suoi sentimenti segreti, né il suo dolore. La vera letteratura, si sa, è parola che dura, è un affondo sentimentale di inaudita verticalità. Il realismo, invece, specialmente quello spettacolare, ha un grande impatto emotivo, ma lascia le cose, e le persone, così com’erano in partenza. Il giochetto è semplice: basta puntare vitalisticamente il taccuino, gli occhi e le telecamere sugli zombi della camorra, e l’effetto “pulp” è garantito.

Ma il convitato di pietra di queste discussioni è Roberto Saviano, inutile nasconderlo. Non finiremo mai di parlare bene del suo libro, né di vivere con apprensione la sua condizione di scrittore minacciato dalla camorra. Saviano è, per molti di noi, un amico, un giovane reporter di talento, ma per andare avanti, per non soccombere di fronte alla dittatura del realismo e alla “retorica dell’apocalisse”, di cui lui è il principale “colpevole”, l’unica soluzione, per consentire la rifioritura del racconto di Napoli, della sua anima, della sua anima plurale, è dimenticare Saviano.

Perché diciamoci la verità: tutti gli scrittori napoletani, oggi, vivono il complesso dell’anima bella. Qualsiasi cosa letteraria provenga da Napoli, da un anno a questa parte, sembra esercizio letterario, disimpegno filisteo rispetto alle emergenze napoletane (comunque immondizia, pistole, lavoro nero, contraffazione, sangue, droga e clan ci sono da prima che nascesse Saviano, questo va detto). Invece sappiamo qualcosa di Napoli grazie a tutti, anche grazie agli scrittori che hanno parlato d’altro: di sentimenti, di sogni, di storia, di amore, di utopie, di cose non “invischiate” con la cronaca nera.

Napoli è stata sempre una città “unica”, una città orgogliosa dei propri codici “sballati”, ma adesso è diventata una città-zoo, che i cronisti di tutto il mondo vengono a visitare con la stessa curiosità che si ha quando si vanno a fotografare le scimmie con il sedere rosso. Mi domando: perché i napoletani non sono offesi? Perché non si ribellano a quest’abnorme caricatura a cui certa letteratura e il circo dei media li ha ridotti? Perché insistono a voler vivere con rassegnazione in una città dove tutto è alla rovescia, dove i peggiori elementi di Napoli, i mariuoli, i killer, i camorristi presidiano come talebani il territorio? I politici, purtroppo, saranno poco determinanti in questa battaglia, se mai ci sarà, perché i politici fanno, com’è risaputo, solo ciò che la maggioranza vuole fare. I napoletani devono cambiare con le loro mani, e secondo me questo potrà accadere soltanto se proveranno il sentimento della vergogna e dell’umiliazione. Quanti napoletani, però, conoscono la vergogna e l’umiliazione? E mi domando: Saviano li ha davvero umiliati, tutti i mariuoli di Napoli?

Lo so che dire “dimenticare Saviano” fa male, è doloroso. Ma Napoli è tante altre cose, tanti altri mari, tanti altri linguaggi, tanti altri sentimenti. La camorra si umilia anche così: con la buona letteratura, con la gentilezza, con le belle parole, con il mare, con i sogni, con la cultura che si espande nonostante tutto. Non sono anime belle gli scrittori e le scrittrici che continuano a raccontare “un’altra Napoli”. Hanno pari forza e dignità di chi mette le mani nella bocca del leone. Ma la migliore Napoli, la Napoli della cultura, dell’intelligenza, della gentilezza e della legalità deve fare muro. Ovviamente contro la camorra quotidiana e contro i mariuoli, sia in cravatta che in jeans, ma purtroppo anche contro Saviano che, senza volerlo, ha dettato un canone ingombrante e tirannico. Mi perdoni Saviano, l’amico in pericolo in vita, il grande reporter, l’intelligentissimo scrittore (il Re degli scrittori di camorra), ma Napoli deve andare avanti, riscoprire la sua pluralità, riequilibrare i suoi tanti canoni letterari, i suoi infiniti paesaggi interiori.

pubblicato su Il Mattino il 18 giugno 2007

* * *

- – - – -

Credo che i toni usati su Nazione Indiana siano stati eccessivamente aspri e che Antonella Cilento, Andrea Di Consoli e Antonio Pascale abbiano subito insulti immeritati (forse anche perché il loro punto di vista è stato travisato).

Scrivo di seguito ciò che penso:

“Gomorra” di Roberto Saviano ha avuto meriti indiscutibili nell’indicare e stigmatizzare la cancrena del tessuto sociale ed economico di una certa Napoli. Perché non c’è dubbio che la società e l’economia napoletana abbiano piegato e continuino a piegare la schiena sotto il peso della criminalità organizzata. La camorra esiste – eccome se esiste -, così come esiste la mafia. A Saviano va tributato il merito del coraggio. Il coraggio di rischiare. Il coraggio di vedere e di dire, di scrivere e di descrivere. E il merito di averlo saputo fare con arguzia e talento.

Ma c’è, a mio avviso, un rovescio della medaglia di cui bisogna tener conto.

“Gomorra” si è fatto strada, prima lentamente, poi con forza inattesa fino a raggiungere livelli di fama non facilmente immaginabili. Capita però che, a volte, la fama trasbordi nella mitizzazione. E spesso la mitizzazione può essere causa di offuscamento delle prospettive, di distorsioni o addirittura – in alcuni casi – di effetti fuorvianti.

Vi ricordate il bandito Giuliano? A un certo punto, soprattutto all’estero, per via di un certo processo mediatico, la figura dell’efferato bandito fu idealizzata al punto tale da farla coincidere con l’immagine di un Robin Hood mediterraneo. Eppure Giuliano era solo un efferato bandito.

Ora, la camorra esiste e Saviano ha fatto bene a descriverla in maniera truculenta. Solo che a un certo punto il suo libro è… come dire… esploso.

Certo, se “Gomorra” ha subìto un processo di mitizzazione  non è colpa del suo autore, quanto piuttosto di un sistema mediatico che tende – ripeto – a enfatizzare il successo con effetti omologanti e stereotipanti. È falso e semplicistico identificare Napoli con tarantella, spaghetti e pizza. Ma è altrettanto errato identificarla con la camorra. O soltanto con la camorra. Napoli è anche una città d’arte, di cultura, di atmosfere magiche, di grandi tradizioni. E, d’altro canto, Napoli è una città che presenta grossi problemi spesso non collegati alla criminalità organizzata.

Io non credo che gli articoli di Pascale, Cilento, Di Consoli e di altri scrittori intervenuti sulle pagine de “Il Mattino” mirassero ad attaccare Saviano e la sua opera. Il loro intento, a mio modo di vedere, era finalizzato al ristabilimento di un equilibrio perduto a causa di quel processo di mitizzazione cui facevo riferimento prima. Ma temo che alcuni passaggi di quegli articoli siano stati travisati.

Se Saviano ha sentito il dovere – rischiando la pelle – di descrivere senza veli la Napoli della camorra ha fatto cosa giusta. Se però altri intellettuali hanno sentito la necessità di “correggere il tiro” fornendo punti di vista differenti, ritengo che abbiano fatto altrettanto bene (e che non meritino di essere insultati).

Credo che la crescita intellettuale si basi sul confronto, a volte sulla contrapposizione, di tesi e idee. Ma confronto e contrapposizione genereranno crescita solo se mantenuti entro i margini di una dialettica civile. Le risse verbali tendenti al linciaggio non servono a nessuno. Non servono a Saviano, così come non servono a Pascale, o a Cilento, o a Di Consoli. E soprattutto non servono a Napoli.

Massimo Maugeri


Scritto giovedì, 21 giugno 2007 alle 19:13 nella categoria PERPLESSITA', POLEMICHE, PETTEGOLEZZI E BURLE. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.

81 commenti a ““GOMORRA”, “IL MATTINO” E “NAZIONE INDIANA””

Caro Massimo Maugeri, io scrivo assiduamente su questo blog proprio per la pacatezza dei toni, ma anche per la qualità dei commenti e per l’approccio costruttivo degli altri commentatori. Credo che questo sia un marchio di letteratitudine. Andrò a leggere gli interventi su Nazione Indiana e poitornerò a commentare qui.

Postato giovedì, 21 giugno 2007 alle 21:39 da Rosa Fazzi


ho letto gli articoli incriminati e i commenti su nazione indiana. le mie considerazioni sono le seguenti:
1. in effetti gli articoli danno l’impressione di un attacco a saviano;
2. su nazione indiana sembra che si siano messi d’accordo per distruggere pascale cilento e di consoli
3. mi sembra una polemica interna agli addetti ai lavori

in ogni caso io sono sempre per la libertà di espressioni e per il confronto anche duro ma corretto ed esente da offese. in questo sono d’accordo con te, maugeri.

Postato giovedì, 21 giugno 2007 alle 21:52 da gennaro iozzia


L’accerchiamento messo in piedi da Nazione Indiana mi pare eccessivo. Si può essere d’accordo o non d’accordo con questi articoli. Possono essere intesi come attacco a Saviano? Benissimo. Saviano ha le spalle larghe e può difendersi anche da solo. Credo che oggi Saviano possa scrivere su qualunque quotidiano voglia senza alcun problema.

Postato giovedì, 21 giugno 2007 alle 22:17 da Gianluca Mazzeo


@ Rosa, Gennaro, Gianluca.
Grazie per i vostri commenti.

Auspicherei che si creasse un dibattito sull’argomento proposto.

Vi anticipo che cercherò di coinvolgere nel dibattito gli autori dei tre articoli riportati sul post. Quindi, se lo credete, potete rivolgervi direttamente a loro.

Postato giovedì, 21 giugno 2007 alle 22:58 da Massimo Maugeri


Forse è il caso che gli autori degli articoli precisino meglio il loro punto di vista dato che, come sostieni tu Massimo Maugeri, è stato travisato.

Postato venerdì, 22 giugno 2007 alle 08:27 da Marta


I post di Nazione Indiana contengono troppi commenti. Impossibile leggerli tutti. Si può avere un sunto qui?

Postato venerdì, 22 giugno 2007 alle 08:46 da Luca T.


Per le prossime ore sarò fuori sede e non potrò intervenire almeno fino a metà pomeriggio.
Voi però continuate a scrivere, se volete.

Postato venerdì, 22 giugno 2007 alle 09:21 da Massimo Maugeri


LA PATRIA, LA TRIBÙ E L’EGO – UN ARTICOLO-LETTERA APERTA

Cari amici di Letteratitudine, Cari Pascale, Cilento e Di Consoli, cara ”Nazione Indiana”,

mi rivolgo a voi solo per via dell’occasione data, ma in verità parlo all’Italia intera.
E questo per due motivi:

1) Sono scevro da qualsiasi tipo di radicamento regionale, avendo origini misto-italiche e non essendo l’attaccamento al paesello una prerogativa della mia famiglia d’origine.

Questo puntualizzato, ora, chi mi vuol seguire mi segua: con molto sforzo cercherò di parlare di cose che non rientrano nei miei interessi profondi (che sono le cose inerenti la Letteratura, l’arte, la poesia e affini). Prenderò dunque, consapevolmente, gli argomenti di cui si parla in questo post, molto alla lontana.

Prima di tutto diciamo che la Letteratura, a mio avviso – quando fatta da persone competenti professionalmente, originali nella poetica e nei motivi morali-filosofici di fondo, linguisticamente preparate, – è sempre la principale branca dell’arte. E l’arte può far tutto: reinterpretare la realtà o dimenticarsela, parlare di sogni, delirii, uggie, bellezze quintessenziali o infernali angosce. La Letteratura è arte, insomma, nient’altro che una forma d’arte. E dunque racconta le cose dal punto di vista di chi scrive. Poiché chi scrive, generalmente è anche vivo, resta ovvio che parlerà di cose appartenenti al tempo, ciò resta implicito.
Ma va anche precisato che la soggettività dello scrittore toglie forza alla sua obiettività – e, dopotutto, quale lettore sano di mente gliela chiederebbe mai? A Dante chiederemmo, stoltamente, di esser ”realistico” nel dire che i diavoli non ”facean del cul trombetta” ma ‘’spernacchiavano a più non posso”!?
L’arte, a mio avviso, quella vera, è il campo proprio dei mezzi suonati, dei malinconici, degli ipersensibili emarginati, di chi vive male e ama di brutto, di chi ha troppa fantasia ed è poco sicuro di sé e della propria effettiva esistenza. E questa congerie si diversifica dai ”matti-da-legare” solo perché sente dentro di sé la Parola Somma e il suo suono e ha sufficiente cultura razionale da saperne descrivere le astratte movenze.
Questa è, secondo me, la Letteratura e il suo limitatissimo popolo (ma non chiedetemi se io mi senta di appartenervi: sarei poco obiettivo nel rispondere sì o no. In ogni caso, per questi motivi la scrivo sempre con l’iniziale maiuscola).
Un vero scrittore non è un uomo normale, ma un impolitico, un solitario. Non vuole e non riesce a modificare l’esistenza degli altri individui. Propone solo la SUA PERSONALE VISIONE INTERIORE DEL MONDO. Una sua poetica, diciamo. Che, in quanto poetica, ha anche una forte componente morale – nel senso più individuale e solitario del termine.

Poi c’è il giornalismo. Esiste in fondo da sempre e rappresenta, invece, la professione di chi ‘’sta nel mondo”. Con i piedi saldamente piantati. E pensa di conoscere il mondo meglio dei suoi lettori, ovviamente.
Ecco, anche in questo diverso campo della scrittura, la moralità assume un ruolo fondamentale, seppur in senso diverso: siccome il giornalista vuole cambiare la realtà dei suoi lettori, costui deve anche sapere a cosa porteranno le informazioni che scrive e divulga. Il giornalista vuole far vivere la realtà esistente o esistita in un determinato posto a chi non era in quel determinato posto in quel determinato momento o non è ora lì. Il giornalista cerca l’obiettività di un’azione, di un fatto, di un fenomeno percepito in prima persona, per poterla trasmettere a chi la ignora. Insomma il giornalista (onesto) crede nella propria obiettività e la persegue quotidianamente, diversamente dall’artista. Il giornalista, dunque, hic et nunc, dovrebbe far sì che la squallida, deprimente, feroce, impietosa realtà italiana (non ”napoletana” ma ”italiana”, sottolineo) abbia a vergognarsi di sé, pertanto cambiando ‘’sua sponte”. E come potrebbe farlo? Magari scrivendo sul giornale che lui ha vissuto, mettiamo, in Francia per tre mesi e che i francesi vivono meglio nella propria Patria perché si stimano vicendevolmente più di noi italiani. Eccetera eccetera (io non rubo il mestiere agli altri).

Bene. Fin qui le mie personali definizioni.

Ora, non c’è nulla di male che le due professioni a volte si intersechino (ossia che i giornalisti scrivano libri e gli scrittori intervengano nei giornali). E che tutti, camerieri o nobildonne, disoccupati o palafrenieri, diano fiato alle trombe solo perché gli gira di farlo e di farsi vedere. Ma a mio avviso sarebbe un bene per tutti, soprattutto per i cittadini italiani oltre che per gli addetti ai lavori, che questi sconfinamenti restino episodici e non portino ulteriore confusione a chi – in situazioni realmente drammatiche e delinquenziali croniche – dovrebbe cercare di risolverle per mandato politico o tecnico-professionale. A ognuno il proprio specifico: diamo consigli su cose che abbiamo studiato per vent’anni, non solo perché ”ci piace intervenire”. Stiamo nel seminato della nostra professione: tutti ne gioveranno.

Qual è la morale della favola? Ma questa:
ognuno di noi cerchi di trovare il posto in cui, e il ruolo e le persone con le quali, sta bene (se gli piace fare il muratore divenga un bravo muratore, così come cerca la propria donna o il proprio uomo, e via dicendo) e tutti cerchino di essere dei buoni ed onesti cittadini – se vivono a Napoli cercando di risolvere i problemi di Napoli e del resto della Patria, altrettanto se stanno a Milano o a Firenze. E ognuno cerchi di aiutare il prossimo nel fare lo stesso.

La Patria, la tribù e l’ego: insieme divengono una forza, separati fanno l’Italiaccia di oggi (che non è Patria, né città, né ego associati, ma solo un posto dal quale tutti vorrebbero andarsene, perché nessuno sa amare i suoi concittadini e tutti pensano di saper fare tutto).

Sergio Sozi

Postato venerdì, 22 giugno 2007 alle 09:52 da Sergio Sozi


Cari amici di Letteraritudine,
io ringrazio molto Massimo di aver voluto creare uno spazio di discussione ulteriore sulla collana di pezzi che Il Mattino ha chiesto non solo a me, a Antonio Pascale e ad Andrea Di Consoli, ma anche a Silvio Perrella, Sergio De Santis, Marco Salvia, Francesco Piccolo. Per l’essattezza, il motore innescato da Antonio Pascale ha trovato interesse in Silvio Perrella e a seguire ci sono stati chiesti una serie di interventi sul già detto da Francesco de Core. Questo per ricostruire l’ordine degli eventi e le modalità del discorso. Mentre è impossibile pensare di intervenire in spazi dove l’insulto, la menzogna e il travisamento sono merce abituale, Letteraritudine offre, per merito di Massimo, uno spazio dove la discussione è prettamente letteraria e dove è possibile dissentire senza arrivare ai minimi termini. E di questo non smetterò mai di ringraziarlo.
Detto questo, la questione sollevata dagli articoli è molto ampia: l’intenzione generale riguarda la visibilità di Napoli (stiamo infatti parlando del dorso regionale del giornale dove sono usciti i pezzi), cioè l’immagine prodotta dai fatti e prodotta dalla letteratura, dai media (soprattutto!) intorno alla città. Ogni volta che si riapre questo discorso sembra sia obbligatorio dover usare come pietra di paragone Roberto Saviano e il suo libro. Ma la questione non era tanto questa, quanto una riflessione su cosa accade intorno a una condizione, molto seria, se questa viene strumentalizzata. Molti ricorderanno Bowling Columbine nel punto in cui si dice che gli americani hanno paura perchè i loro media non fanno che proiettare paura: c’è un punto del film dove si fa il confronto fra gli Stati Uniti e il Canada, porte chiuse e armi nel primo, porte aperte e politici dalla faccia pulita nel secondo. Questa riflessione, fatte le dovute differenze, è applicabile su Napoli: tutto quel che accade è sotto i nostri occhi e sulle pagine dei giornali locali non da qualche anno, ma da molti decenni. Le indagini vanno avanti, le responsabilità sociali sono molte ampie e riguardano tutti, ma occasionalmente ogni tot anni si riapre il caso Napoli (che nella realtà, come racconta anche Gomorra, non si è mai chiuso). Ora, la questione: mentre nei lontani anni Cinquanta l’uscita del Mare non bagna Napoli provocò un’ondata di malumore verso l’autrice, Anna Maria Ortese, ma anche la chiusura dei Granili, scandalo di punta della Napoli del dopo guerra, a cura del Presidente della Repubblica, oggi Gomorra solleva l’interesse politico (come se nessuno sapesse niente:cadono dalle nuvole…) e però, purtroppo, non produce alcun cambiamento nella realtà cittadina (magari…). Invece, per converso, si scatena una campagna mediatica che va a scavare nella schifezza (che è sotto gli occhi di tutti in Campania) non al fine di produrre cambiamento (ripeto: magari..) ma perchè si è “scoperto” che i mali di Napoli fanno vendere. E allora, come racconta anche Marco Salvia nel suo pezzo, ecco tutta una serie di pubblicazioni, di eventi teatrali, di personaggi più o meno attendibili che si spendono Scampia, che vanno in giro per programmi tv, producendo l’oleografia del male, l’apocalisse di cui parla Pascale. Questa confusione fra realtà e interventi da compiere, e che mai si compiono, e spesa del prodotto Male di Napoli non porta benefici. Anzi, poichè tutti ormai hanno paura di venire in città ecco che inizia l’onda lunga, difficile da arrestare, del mancato turismo, degli imprenditori che se ne vanno ecc… E poichè, come sappiamo, il male e il brutto di questi tempi vanno assai più di moda del buono e del bello – e pare quasi che il cattivo esempio sia diventato il buono – ecco che non c’è più spazio per parlare delle cose (poche, ma ci stanno) che a Napoli funzionano e che non servono a coprire l’orrore quotidiano che abitiamo ma dovrebbero essere la molla per far produrre buone pratiche.
Questa è una questione, assai concreta, che non toglie, ripeto, verità ai ritratti più o meno fedeli del male, ma che rischia di indurre peggioramenti: meno turismo significa meno lavoro, che già è poco, e significa più persone deboli di fronte a proposte di natura non legale. Meno investimenti esteri o da altre città d’Italia significa restare chiusi nella finta imprenditoria napoletana, collusa come ben si sa con la camorra. E così via. Senza smettere di denunziare, insomma, l’indicazione degli articoli, a mio avviso, andava verso una bonifica dell’immaginario e una ripresa concreta del ragionamento, senza muri, senza spartiacque.
E’ sempre pericoloso quando la letteratura si confonde con la realtà e viceversa, quando il giornalismo sconfina nell’invenzione e viceversa.
Ecco, il discorso è molto più lungo e complesso, ma almeno proviamo ad avviarlo.
Grazie, Massimo.
Antonella Cilento

Postato venerdì, 22 giugno 2007 alle 10:35 da antonella cilento


A me pare, molto semplicemente, che i tre scrittori più che altro vogliano indicare la STERILITA’ di certa narrativa.

E cioè, il fatto che se i reportage à la Saviano sono essenziali ed importanti, rischiano di NON PRODURRE un NUOVO tessuto sociale, artistico e letterario. Rimestano nella ferita, senza innestarle la cura giusta.

Mi pare che, insomma, pur stimando tutti il lavoro di Saviano, mirino a sottolineare come quel genere di narrativa – ORMAI – rischia appunto solo la MITIZZAZIONE di cui ha ben detto Maugeri.

Postato venerdì, 22 giugno 2007 alle 11:00 da Simone Cosimi


Quando la Cilento scrive di Saviano, senza avere il coraggio di citarlo “il cantore della camorra” sta facendo un’operazione sporca, sporchissima. Consigliarei a Saviano di querelare.

Postato venerdì, 22 giugno 2007 alle 11:37 da Francesco Iavazzo


Credo sia stata fatta già una querela per diffamazione ingiuria e calunnia contro la Cilento ma da tre ragazzi di San Cipriano che si sono sentiti offesi da quel “cantore della camorra” e la chiosa “forma di camorra”. Gli eventuali soldi che usciranno dall’eventuale vincita del processo saranno devoluti all’Università per la Legalità di Casal di Principe. Che se non ci fosse stato il “cantore della camorra” col cavolo che avrebbe avuto ancora fondi..

Postato venerdì, 22 giugno 2007 alle 12:24 da FrancIavaz


Un consiglio per tutti:
i problemi, fra persone civili che amano il proprio Paese e la propria citta’, non si risolvono certo con le querele e le controquerele. Qui mi sembra che nessuno sia ”pro camorra”, dunque sarebbe di gran lunga meglio mettersi a lavorare insieme per migliorare la situazione, invece che attaccarsi reciprocamente.

Sergio Sozi

Postato venerdì, 22 giugno 2007 alle 14:11 da Sergio Sozi


Diritto di replica: Francesco Forlani di Nazione Indiana.

Camorra è anche complottare.
Leggo su questo “modesto” e “onesto” blog:
Credo che i toni usati su Nazione Indiana siano stati eccessivamente aspri e che Antonella Cilento, Andrea Di Consoli e Antonio Pascale abbiano subito insulti immeritati (forse anche perché il loro punto di vista è stato travisato).

Scrivo (anch’io)di seguito ciò che penso:

Ero a Napoli per motivi personali quando Antonio Pascale, amico di lunga data mi ha telefonato per raccontarmi del dibattito sul mattino di cui ero assolutamente ignaro. Intanto Andrea Di Consoli, scrittore che stimo molto e che collabora alla nostra rivista mi scriveva via mail-in allegato mi mandava i due pezzi, quello suo e quello di antonio- chiedendomi di portare il dibattito su Nazione Indiana. Ottima idea, ho pensato e l’ho scritto anche all’inizio del post:
… sono da qualche ora nelle nostre terre e noto con estremo dispiacere – senza distacco – che le famose mosche di Céline da te citate si sono armate di spilli e vorrebbero accecare l’unico occhio letterario per cui valga la pena vedere la letteratura, ovvero la sua capacità visionaria e ribelle. E così mezze tacche di critici da Premio…, Bacoli – ti eri inventato questo Premio per un bel racconto pubblicato sulla nostra rivista Sud – si ergono a maestrini della nuova sinistra, letteratura, per non parlare di sedicenti scrittori, mediocrità venduta al chilo insieme ai loro atelier di scrittura. Ma in mezzo a tanta M…..(direbbe Louis Ferdinand) ci sono scrittori a cui siamo legati, da anni di amicizia, frequentazione. Mi hanno mandato due articoli, pubblicati sul Mattino , in cui sollevano le vesti di quel cumulo di non detti, invidia. gelosia, animosità, per tentare una riflessione sull’oggetto letterario. Mi piacerebbe che dicessi la tua, a questo punto.
tuo
Francesco

Nazione Indiana non complotta, mai,anche se volesse non potrebbe.Siamo diciannove autori, con altrettante visioni del mondo. Le imboscate le lasciamo fare agli altri, degli imboscati non ce ne frega nulla.
effeffe
ps
non si confondano redattori di NI con commentatori, cosa non difficile da fare visto che non sono rari i casi in cui “commentatori” spesso anonimi ci “attaccano” usando toni non proprio “carini”

Postato venerdì, 22 giugno 2007 alle 14:52 da francesco forlani


Ho letto con grande interesse gli articoli di Pascale, Di Consoli ( di cui ho appena letto con grandissima partecipazione Il padre degli animali) e di Antonella Cilento. Non sono andata su Nazione Indiana a leggere il resto, perché presuntuosamente immagino i commenti. E’ un sito che conosco, che ho frequentato assiduamente tempo fa , ma che poi ho lasciato, perché nonostante i temi importanti e gli interventi sapienti non ho incontrato la dimensione umana. “Raccontare il male compiacendosi è una forma di camorra”, l’affermazione è forte e isolata dal suo contesto non può che inquietare, e capisco e comprendo le reazioni. L’autore di Gomorra (libro straordinario, complesso e stilisticamente nuovo) è stato posto al centro di un tifone, e il giovane Saviano, suo malgrado, è l’avamposto simbolico da difendere uniti .
Negli interventi pubblicati sul Mattino leggo anche che l’Arte deve conservare la tensione sia verso il bene e sia verso il male altrimenti appare mutila. Ed è qui che vorrei concentrare il mio ragionamento.
Da anni, più o meno consapevolmente abbiamo accettato l’idea di un rapporto naturale che lega l’arte alla sofferenza, al dolore e in età contemporanea al Male. Ci trasciniamo questo concetto di sublimazione del Male che è cominciata come ricerca della paura. Da Edmund Burke :Il bello ha un effetto rilassante sulle fibre del corpo, il sublime invece le irrigidisce. Vale a dire, qualunque cosa sia in qualsiasi voglia modo terribile, o riguardanti cose terribili, o operi in maniera analoga al terrore, è fonte del sublime, cioè, genera l’emozione più forte che la mente è in grado di percepire”. Questa è la fascinazione del Male, ma l’Arte che cos’è?
L’Arte è Azione creatrice che si esprime per fantasia, tecnica e conoscenza. Azione creatrice e non creazione perché l’opera ( e qui parliamo di letteratura e con Sozi condivido che fra le Arti sia la prima) interagisce con gli altri, si espande ( con l’emotività, l’interesse e la partecipazione che provoca) si rigenera, si riformula, si ricrea. Ora con chi ha interagito Gomorra? Antonella Cilento è chiarissima quando afferma che il libro di Saviano ha sollevato l’interesse politico. Questo spiega ogni cosa. Così, alla banalità del Male dovremmo aggiungere la banalità della cultura e della politica …
Perché un libro bello come quello di Saviano deve portarci a riflettere sul ruolo delle Lettere e di tutte le arti? Parlare di Napoli per difenderla da un’ immagine di degrado che umilia e fa dimenticare tutto il resto?
La mia risposta è che, fra noi, manca l’interesse comune. Manca la riflessione grande, quella che dovremmo porci per rispondere a Pascale quando con forza afferma che i giovani non capiscono, non si riconoscono. Manca l’interdipendenza delle sensibilità. All’indomani dell’inaugurazione della Biennale di Venezia, L’Unità riportava la notizia titolando il pezzo “Biennale Arte: bentornata, politica. Sic!
A presto.Miriam

Postato venerdì, 22 giugno 2007 alle 16:52 da miriam ravasio


Scusate il ritardo del mio intervento, ma rientro solo adesso.

Premessa:
Nel mese di ottobre avevo scritto questo post ( http://letteratitudine.blog.kataweb.it/letteratitudine/2006/10/solidarieta_a_r.html ) nel quale esprimevo solidarietà a Roberto Saviano.
E sulla colonna destra del blog trovate ancora il link “Sosteniamo Roberto Saviano”.

Detto questo…

Intanto vi ringrazio per i commenti. Poi…

@ Francesco Iavazzo
Francesco, credimi, le querele non servono a nulla se non a far arricchire gli azzeccagarbugli. Io abito in un condominio che ho ribattezzato “la pacchia degli avvocati”. Molti condomini si fanno causa tra loro e fanno causa al condominio. E non si risolve mai nulla. Sono d’accordo con Sergio Sozi. Possiamo tentare di “ricomporre” la situazione? Mi date una mano? (datemi pure dello “sporco buonista”: non mi offendo).

@ Francesco Forlani:
“Camorra è anche complottare”, scrivi. Pensi che io abbia l’intenzione (o abbia avuto l’intenzione) di architettare un complotto? Ti assicuro che non è così, ma se pensi il contrario… va bene. Vuol dire che sono un camorrista.

Dici che il mio blog è “modesto”. Ma io sono un autore scarso. Dunque, essere riuscito a creare un blog “modesto” per me è già un successo.

Scrivi pure che il blog è “onesto”. Immagino sia uno sfottò. Okay, accettato: diciamo che sono un “camorrista onesto”. :-)
Francesco, preferisco prendermi poco sul serio. Dico davvero.
E, credimi, nessuno ha mai detto, scritto o pensato che “Nazione Indiana” complotti.
Cerchiamo, invece, di ricomporre la situazione?
Ora devo scappare, ma interverrò più tardi.
Un caro saluto a tutti.

P.S. Attendo gli interventi di Antonio Pascale e Andrea Di Consoli.

Postato venerdì, 22 giugno 2007 alle 18:04 da Massimo Maugeri


Ho vissuto e lavorato a Napoli per un certo periodo.
A Napoli ho concepito mio figlio, a Napoli ho pubblicato il mio libro.
A Napoli ho avuto il mio primo contratto di lavoro.
Ho vissuto nell’indecente bellezza dell’ Hotel Santa Lucia, ma ho anche abitato squallide stanze nell’estrema periferia di Giugliano.
A Napoli mi perdevo a chiacchiera chiacchiera con le menti più lucide e nobili dell’arte e della letteratura italiana.
A Napoli non mi hanno rubato nulla, a Roma sempre tutto.
A Napoli i motorini si fermavano al mio passaggio, lasciandomi la strada libera, a Milano sono quasi stata investita dai pedoni che correvano trafelati sotto alla metropolitana.
“A Napoli c’ é il vulcano, il mare e l’energia della gente antica” mi ha detto il musicante dei quartieri.
“A Napoli la Madonna ci protegge” diceva la venditrice di noccioline.
E tuttavia, bastava mettere gli occhiali per vedere il rovescio delle storie e le trame dei destini.
A Roberto Saviano, é stato dato in sorte il dono di seguire quelle trame, percorrerle e narrarle senza contegno, senza rimorso né paura.
Napoli ci fa paura, é vero perché rispecchia la nostra anima, perché sventra le nostre certezze esistenziali.
A Napoli non c’é l’orizzonte, ma quella verticalità che implica la discesa agli inferi. Una discesa ormai inevitabile per tutto l’occidente.
Anche a Rio, a Guatemala City o San Francisco si rischia di morire accoltellati, ma a Napoli é diverso: a Napoli prima vedi e poi semmai muori.
Napoli é una come una bestiola selvatica, che solo i santi possono rendere docile e addomesticabile.
Padre Alex Zanotelli ha lasciato l’inferno dell’Africa per l’urgenza di Napoli.
Per quell’urgenza é stato scritto Gomorra.
Per i veri viaggiatori a Napoli ci sarà sempre una casa.
Quanto ai turisti, che vadano nei parchi a tema in mezzo ai mostri di cartapesta e alla più crudele delle finzioni: che questo sia il migliore dei mondi possibili.

Postato venerdì, 22 giugno 2007 alle 19:55 da Francesca Serra


intervengo di nuovo rivolgendomi allo scrittore francesco forlani.

egregio dr. forlani, lei ha scritto: non si confondano redattori di NI con commentatori, cosa non difficile da fare visto che non sono rari i casi in cui “commentatori” spesso anonimi ci “attaccano” usando toni non proprio “carini”.
ecco, su questo punto non sono d’accordo. io penso che il gestore, o i gestori, di un blog individuale o collettivo che sia abbiano la responsabilità dei commenti rilasciati da terzi.
se invito a casa mia degli ospiti, o se degli ospiti si autoinvitano e apro loro le mie porte, io mi sento responsabile per loro. se uno degli ospiti comincia a insultare gli altri lo butto fuori casa senza mezzi termini, perché la responsabilità è mia. io vedo il blog come un casa. chi lo gestisce ne è responsabile. gli interventi di “commentatori”, soprattutto anonimi, che “attaccano” usando toni non proprio “carini” vanno cassati, cancellati. non è censura, ma assunzione di responsabilità. del resto chi vuole scrivere offendendo può benissimo farlo creandosi un proprio blog. non sono un esperto, ma non credo ci voglia molto. questo è quello che io penso. a maugeri va riconosciuto il merito di gestire questo “modesto” blog con l’intelligenza di chi sa che dalle risse non viene fuori nulla di buono. mi dispiace dirlo, ma credo che lei, dr. forlani, poteva gestire il post aperto su nazione indiana un po’ meglio. soprattutto se è vero, come lei sostiene, che pascale e di consoli sono amici suoi. questo, ripeto, è quello che io penso. ma sono un semplice lettore. e probabilmente il mio pensiero conta poco.

Postato venerdì, 22 giugno 2007 alle 23:22 da gennaro iozzia


Le cose spiacevoli le leggo sempre dopo. Ho approfittato del dibattito per richiamare l’attenzione su quello che più mi sta più a cuore: il futuro dell’arte e dei giovani. Raccogliendo l’invito ad una attività collettiva ho sorvolato sulla polemica (obiettivamente riassunta da Gennaro Iozzia), perché mi sembra fuori luogo. La mia generazione ha pagato un prezzo altissimo per le esasperazioni, che da diverse direzioni ci hanno spinto ad un futuro non nostro. Adesso vedo le nuove generazioni cadere nella stessa trappola. In più, ora c’è internet che è un mezzo strordinario ma anche terribile, paragonabile per la sua potenza solo al sesso: pura immaginazione, insaziabile e ineducabile (Flaiano). Non ho mai visto Napoli, ma conosco i suoi artisti, a partire da Eduardo e dagli esami che non finiscono mai…

Postato sabato, 23 giugno 2007 alle 00:16 da miriam ravasio


Cio’ che scrive Francesca Serra lo sento anch’io nel profondo – anche se a Napoli ci sono stato solo un paio di volte in tutto e per pochi giorni.
Napoli e’ il cuore dell’Italia, un cuore che vive male nel crepuscolo dell’Occidente, essendone parte attiva anzi generante – dell’Occidente, non del crepuscolo. L’eleganza, la signorilita’ (tutta europea) di questa citta’ difficilmente sono arrivabili da altre metropoli. E a tutti noi italiani credo dispiaccia vederla cadere nelle mani della barbarie. Per questo dobbiamo aiutarla: cosi’ faremo si’ che Napoli aiuti noi. L’Italia ha bisogno di Napoli. E un modo per aiutare Napoli e’ discutere, si’, su come tirarla fuori dalla situazione che sta vivendo, ma anche sollecitare i professionisti – competenti nel campo dell’economia, della politica e della giurisprudenza – a trovare una serie di rimedi per riabilitarne non ”l’immagine” ma la sostanza.
Insomma: chiediamo un intervento piu’ calzante e incisivo ai politici, agli economisti, agli imprenditori, ai giudici, alle Forze dell’Ordine, ai Sindacati, alla Scuola Pubblica. Facciamo in modo che chi ne abbia le competenze professionali, tecniche e… perche’ no… anche sentimentali, si metta a lavorare per Napoli (e per l’Italia tutta, che non sta meglio di Napoli). Non per stravolgerla o renderla come un’altra citta’, ma per togliere il potere alla gente disonesta e dare sicurezze ai cittadini normali, alle famiglie.
Dunque: niente risse su Letteratitudine, ma rispettosi scambi di opinioni. Chi mena le mani e’ un cafone e rafforza il disagio collettivo. E la confusione. Infatti, la confusione e’ il miglior elisir di lunga vita per i criminali.

Sergio Sozi

Postato sabato, 23 giugno 2007 alle 00:33 da Sergio Sozi


Io vorrei esularmi dal “caso Napoli”, e fare, invece, un discorso sulla narrativa più in generale. Anche perché se tutto il mondo è Paese, tutti siamo napoletani.

Io scrivo racconti; soprattutto thriller e noir, ma anche di altri generi. Anche racconti autobiografici; anche “commedie” autobiografiche. La domanda che mi pongo prima di scrivere un racconto non è ”Perché voglio scriverlo” ma “Perché qualcuno che non mi conosce dovrebbe volerlo leggere”.
La letteratura deve provocare emozioni, sempre. Tra scrittore e lettore si stabilisce una sorta di transfert… E non solo coi romanzi di fantascienza!
Lo scrittore deve diventare ogni personaggio che crea, e se decide di scrivere un racconto realistico in un ambiente particolare deve, ma proprio DEVE, rispettare ogni minimo dettaglio.
Ma questo non ha niente a che fare con il compiacimento di quello che descrive.

Sono però assolutamente d’accordo che noi scrittori dobbiamo scrivere di tutto. Raccontiamo quello che ci capita, le nostre esperienze di vita quotidiana. Siamo scrittori, non giornalisti: abbiamo il potere di avvincere con tutto.
Sfruttiamolo!
Non si tratta di andare controtendenza, né tanto meno di rinnegare qualcuno; non credo che qualcuno abbia mai inteso questo. Si tratta di creare un nuovo movimento letterario, che può partire da Napoli ma che io estenderei in tutta Italia, per mostrare tutte le facce del nostro Paese.

Sergio Rilletti

Postato sabato, 23 giugno 2007 alle 00:50 da Sergio Rilletti


Napoli, soprattutto Napoli, ha molte realtà ortogonali. Vogliamo ridurla ad una sola di esse ?
Oppure vogliamo scegliere quella che amplifica i suoni ?
Lo scrittore dovrebbe avere la capacità di guardare in tutte le direzione cercando di vedere (e far vedere) ciò che altri non vedono.
Qualcuno ci prova.

Postato sabato, 23 giugno 2007 alle 09:45 da eventounico


la polemica secondo me riguarda una situazione interna all`intellighenzia napoletana.
Qualcuno ha avuto successo, parlando dei problemi di Napoli ed altri intellettuali gliene fanno una colpa non si capisce bene se per aver parlato dei mali di Napoli o per il successo.
i problemi di Napoli invece sono reali ed endemici, mi sa che bisogna cominciare a fare qualcosa di concreto.
Ed in questo i primi a muoversi devono essere i napoletani. Devono darsi una svegliata, molto semplicemente.

Postato sabato, 23 giugno 2007 alle 10:56 da outworks110


Sono assai dispiaciuto del clima che si è creato intorno ai nostri articoli. Una cosa è certa: l’anonimato mi fa orrore, perciò il dibattito su “Nazioneindiana”, per me, non ha valore. Troppi insulti. Troppo veleno. Troppe cattiverie gratuite. Troppi travisamenti. E, purtroppo, troppi vice-Saviano che non capiscono un tubo di letteratura. Ringrazio pubblicamente Massimo Maugeri, che non solo ha un sito di grande autorevolezza, ma riesce sempre a portare le discussioni su un binario di civiltà e di correttezza.

Andrea Di Consoli

Postato sabato, 23 giugno 2007 alle 11:40 da Andrea Di Consoli


Io seguo questo sito sin dagli inizi. Una delle sue caratteristiche è il livello civile dei dibattiti, spesso anche accesi. Per questo ci scrivo.
Sono una estimatrice di Roberto Saviano. Una estimatrice, non una fan. Il fanatismo non mi interessa e, in alcuni casi, mi fa paura.
Ho letto “Gomorra” tutto di un fiato. Poi l’ho riletto. Entusiasta l’ho anche regalato più volte ad amici in varie occasioni di ricorrenze. Credo che Saviano abbia avuto il merito di far riprendere coscienza all’opinione pubblica della questione camorra. Io sono dalla parte di Saviano, da questo punto di vista. So che ha rischiato la vita, e questo non posso dimenticarlo. Così come non dimentico che Massimo, mesi fa, proprio su questo sito scrisse un articolo a suo sostegno. Io fui la prima a intervenire tra i commenti.
Io sono con Saviano e sarò con lui. Per questo spero che continui a scrivere su questa linea. Io continuerò a comprare, leggere e regalare i suoi libri. Per me Roberto Saviano è un grande scrittore. Un grande scrittore, non un santo. Evitiamo di santificarlo, sia perché porta male (i santi diventano tali dopo morti), sia perché Napoli, e non solo Napoli, non ha bisogno di santi. Ne ha fin troppi. Napoli, e non solo Napoli, ha bisogno di politici che prendano sul serio il loro ruolo. Un libro come “Gomorra” può puntare l’indice, ma non può sconfiggere la camorra. Questo è un compito che spetta alle Istituzioni.
Ho letto “Gomorra”, dicevo, ma ho letto anche i libri di Antonella Cilento, che stimo tantissimo, compreso l’ultimo “Napoli sul mare luccica” che ho trovato davvero molto bello. Ho letto anche “S’è fatta ora”, bel libro dell’ottimo Antonio Pascale. E a giorni mi accingerò a leggere “Il padre degli animali” di Di Consoli, di cui Massimo ha parlato molto bene.
Io credo che il ruolo di ognuno di questi autori sia importante perché la realtà è frammentaria, prismatica, multifacce. Apprezzo il tentativo di Massimo Maugeri di smorzare i toni, di “ricomporre”. Per me è questa la strada da seguire.
E ringrazio Massimo per la bellissima risposta data a Francesco Forlani. Mi ha fatto molto riflettere. Credo sia stata una lezione di stile e un esempio per tutti noi.

Postato sabato, 23 giugno 2007 alle 12:23 da Elektra


Cito e sottoscrivo quanto detto da Sergio Sozi:

Chi mena le mani e’ un cafone e rafforza il disagio collettivo. E la confusione. Infatti, la confusione e’ il miglior elisir di lunga vita per i criminali.

Non entro nel merito perché non ho ancora letto Gomorra, e perché mi sembra che già l’abbiano fatto persone più qualificate di me, a parlare di Napoli e di camorra.
Da esterna, leggendo nella loro completezza gli articoli citati, non mi sembra che nessuno si sia scagliato contro Saviano e il suo lavoro.
Mi pare che semplicemente si dica che la denuncia va bene, ma poi bisogna fare altro.
Mi sembra che si auspichi che scrivere dei mali di Napoli non diventi una moda, ( come è accaduto con i testi pseudoreligiosi che hanno invaso gli scaffali sull’onda del Codice da Vinci, aggiungo io)
E dovremmo essere tutti d’accordo sul fatto che i napoletani onesti si meritino ben altro.

Postato sabato, 23 giugno 2007 alle 14:43 da sabrina campolongo


sono di origini (anche) napoletane, ma non conosco napoli
vivo a milano e mi trovo benissimo qui
dove ci sono, tutte insieme, le persone che corrono in metropolitana, la mafia che è venuta dalla sicilia, la camorra, la sacra corona unita, la mafia cinese e tante altre organizzazioni che hanno una tradizione locale, ma che sono anche loro “emigrate” al nord

dunque, nella mia città, che ho scelto e che amo, vivo ogni giorno (e non occorre leggere la cronaca, è sufficiente guardarsi intorno) le cose bellissime che me l’hanno fatta scegliere e quelle bruttissime (che, evidentemente stanno in tutte le città)

e sono anche una scrittrice, e quindi concordo in pieno con rilletti: gli scrittori DEVONO vivere il loro tempo e DEVONO usare la loro particolare sensibilità per parlare ANCHE della società, pur rimanendo in primis scrittori, cioè persone che parlano al PUBBLICO dei personaggi e delle storie che stanno nella testa loro

purtroppo, non avendo letto il libro di saviano, non ho molti argomenti per intervenire su questa piccola polemica
tuttavia, vorrei scrivere che ho notato con un po’ di dispiacere che alcuni commentatori hanno esagerato con i toni nei confronti del padrone di casa, che conosco e apprezzo da tempo, e che apprezzo non solo per la gentilezza e a generosità, ma anche e soprattutto per l’intelligenza e la pacatezza con cui porta avanti quotidianamente temi anche molto importanti

il grande successo del libro di saviano credo denoti insieme: che saviano ha talento e che c’è stata dalla casa editrice un’ottima politica di promozione

il tema di cui tratta (la camorra a napoli) è un tema che affascina, come affascinano tutte le piccole e grandi deformità sociali

come sempre, però, tra chi ha apprezzato e chi non ha apprezzato, se la discussione avviene sulle pagine di un sito noto a tutti per la qualità e per l’intelligenza e pacatezza, sarebbe opportuno mantenere un tono se non uguale, almeno affine a quello di massimo

cordialmente,
isabella rinaldi

Postato sabato, 23 giugno 2007 alle 17:18 da isabella rinaldi


Concordo perfettamente con Elektra e la Rinaldi.
Non l’ho detto prima per timore di surriscaldare ulteriormente gli animi, ma certi interventi da “riunione di condominio” mi hanno dato parecchio fastidio.
Come ho già detto allo stesso Maugeri tramite e-mail, mi complimento con lui per il suo aplomb!

Sergio Rilletti

Postato sabato, 23 giugno 2007 alle 20:17 da Sergio Rilletti


Non ho letto GOMORRA, ma seguo fin dagli inizi il bel blog di Muageri (sempre serio e civilissimo). E dunque non solo non capisco ma nemmeno condivido i toni esagitati di certi interventi che lanciano accuse nei confronti di Massimo, di Saviano e della Cilento.
A volte, quando si assiste da “esterni” a certe polemiche di cui sfuggono i contenuti, basta seguire con attenzione i modi per intuire chi abbia ragione e chi torto.
E mi sa che Maugeri abbia ragione.
A prescindere (direbbe il parte e nopeo Totò)
E io lo dico da triestino

Postato sabato, 23 giugno 2007 alle 20:25 da luciano / il ringhio di Idefix


Non capisco perché, ogni volta che uno scoperchia una pentola bollente, ci devono essere altri, molti,che protestano: la pentola è sotto gli occhi di tutti, il contenuto no. Meglio un eccesso di indignazione che un ‘affetto’ di protezionismo. A posteriori, quando si deve dare ragione agli scoperchiatori (che fanno la figura di soverchiatori se ottengono successo) ci si accorge che, nel caso migliore, si è perso del tempo prezioso. Caso emblematico, inscoltato e perseguitato, Oriana Fallaci. Caso un po’ meno tragico (per fortuna) Saviano. Ma, piuttosto che scopare la immondizia sotto i tappeti, non è meglio buttarla e sbattere i tappeti fuori, alle finestre?

Postato sabato, 23 giugno 2007 alle 21:47 da gianmario ricchezza


Chiedo anticipatamente perdono per la laconicità di questo mio commento, ma vado proprio di corsa (naturalmente tornerò a scrivere).

Intanto vi ringrazio davvero per aver ascoltato il mio appello a portare avanti il dibattito usando toni moderati. Naturalmente (e per fortuna… altrimenti saremmo fritti) ci sono pareri discordanti.

E grazie per le molteplici dimostrazioni di affetto nei miei confronti.

@ Luciano Comida:
ho letto il tuo commento e mi hai fatto ridere di gusto, amico mio :-)
Ti ringrazio per il sostegno… a prescindere. Alla Totò. So che hai pochissimo tempo a disposizione e scadenze da rispettare per la consegna del tuo nuovo libro, però se riesci a trovare “uno spiraglio” leggi con attenzione sia gli articoli di Pascale, Cilento e Di Consoli sia i commenti che seguono. La situazione è, in effetti, un po’complessa.

Buona domenica a tutti!
Ragazzi, qui a Catania si brucia dal caldo.

Postato sabato, 23 giugno 2007 alle 22:44 da Massimo Maugeri


Caro Massimo e amici cari, intervengo con grosso ritardo, per motivi di lavoro e di spostamenti vari. Il mio sarà un contributo breve, essenziale – ma che davvero farei fatica a trattenere oltre. Conosco personalmente Antonella Cilento, Antonio Pascale e Andrea Di Consoli, che considero validissimi scrittori oltre che artisti, amici, persone che stimo profondamente. E mi spiace davvero del tono che si è venuto a creare intorno al semplice diritto di espressione che ciascuno di questi tre scrittori ha manifestato attraverso il proprio strumento espressivo: la scrittura. Che è anche il mio. E quello di quanti hanno preso parte a questa discussione. Io, a differenza di Cilento, Pascale e Di Consoli, sono siciliano, pur vivendo a Roma ormai da vari anni, e devo riconoscere che il clima esasperato creatosi ultimamente intorno a Napoli è stato a lungo dei miei luoghi, della mia isola, di una regione considerata oscura, pericolosa, da evitare. Siamo stati per decenni periferia dell’impero. O meglio: periferia della periferia dell’impero. Siamo stati ai margini della vita cultura, artistica, e abbiamo sentito sulla pelle il fastidio di chi considerava la Sicilia un luogo esistente, magari caratteristico, ma da tenere ai margini del reale e delle possibilità effettive. Una sorta di apparente e silenziosa Macondo, su cui discutere, ma da evitare accuratamente. Troppe volte dire siciliano ha purtroppo significato dire “mafioso”. O comunque finire vittima di un razzismo sottile, strisciante, vergognoso. Questo, perché probabilmente porre l’accento sui drammi storici e politici della Sicilia ha finito col metterne in ombra le meraviglie, i carismi, gli incanti naturali e paesaggistici. Certamente non imputo a Sciascia – autore che amo e che considero tra i massimi che l’Italia abbia regalato al mondo – la responsabilità di aver consegnato una certa sicilianità all’immaginario collettivo. Anzi, la mafia è stata e rimane un dramma da tenere d’occhio, col quale tutti dobbiamo inevitabilmente fare i conti. Ma ribadisco – da siciliano, da scrittore e soprattutto da lettore – il diritto di rapportarmi a territori altri, luoghi visionari, del delirio creativo, sui quali si innesta la letteratura che amo maggiormente. La letteratura dell’immaginazione. Il paese che non c’è. L’isola che ci portiamo dentro, ovunque andiamo. Penso ad autori grandissimi, come Bufalino, come Silvana La Spina, come Maria Attanasio, Giovanna Giordano e altri – romanzieri che amo e che hanno avuto la forza di raccontare il sociale senza tuttavia tradire la magia della parola, lo smalto della visione, dell’affresco interiore. Credo che la stessa cosa sia accaduta a – e su – Napoli. Troppe volte si parla di Napoli in maniera esageratamente aggressiva, dimenticando che si tratta di una delle città più affascinanti del mondo, dalla quale i massimi viaggiatori della storia sono stati ispirati. Io ci torno periodicamente, ho amici, persone alle quali voglio bene e che rendono migliore la mia vita. E voglio poterci tornare senza paure, senza necessariamente pensare che sia tutto male, tutto sbagliato, tutto da rifare. Nessuno chiude gli occhi davanti ai drammi sociali, ma agli scrittori io chiedo l’attitudine al sogno, all’evasione, alla sacrosanta mistificazione evocativa – oggi così poco sviluppata. La letteratura deve essere Letteratura, con la “l” maiuscola. Il giornalismo è tutt’altra storia. La letteratura non è perlustrazione del proprio perimetro dissoluto, ma esplorazione di mondi altri, che raccontano quello reale attraverso la sua sublimazione, la sua ricostruzione parallela e individuale. Non neghiamo alla letteratura il diritto di raccontarci questo altrove. Non rapportiamoci ai mali del nostro piccolo giardino. Guardiamo oltre, per favore. Io credo che Antonella Cilento, Antonio Pascale e Andrea Di Consoli abbiano fatto proprio questo: ricordarci che la letteratura è altro, oltre, che è il luogo dove le diversità e le differenze possono finalmente trovare un’armonia diventando elementi universali, che parlano di noi parlando d’altro. Ribadendo che la letteratura ci educa solo facendoci guardare al di fuori della finestra di casa, in quello spazio magico dove io sono me stesso, ma sono anche nessuno e centomila altri da me. Nonostante i suoi evidenti problemi, io credo che Napoli abbia ancora il potere misterioso di sedurre, di innamorare, di richiamarci tutti alla sua bellezza. Ebbene, cerchiamo di trasmetterla alla letteratura e all’arte. Se i narratori fallissero tale obiettivo, non avremmo più bisogno di aprire un libro. Basterebbe lo squallore del vivere quotidiano. Grazie per lo spazio al caro Massimo, riferimento per tutti. Un saluto affettuoso, Luigi La Rosa

Postato sabato, 23 giugno 2007 alle 23:37 da Anonimo


Egr. Luigi La Rosa,

La ringrazio di cuore: avevo modestamente detto poco sopra – mutatis mutandis ma non poi troppo – quanto Lei ha ora espresso, in una lettera aperta intitolata ”La Patria, la tribu’ e l’ego”.
Praticamente la pensiamo alla stessa maniera, con l’eccezione che… Le sarei grato se leggesse il mio scritto (basta vedere piu’ su, in questa colonna di opinioni).

Saluti Cari

Sergio Sozi

Postato domenica, 24 giugno 2007 alle 03:00 da Sergio Sozi


Gentile Sergio Sozi, grazie per aver citato la mia breve lettera. Sì, la divisione tra i generi resta fondamentale per capire il nocciolo della questione. C’è la grande letteratura ed esiste da sempre il buon giornalismo. Utili entrambi, ma finalizzati a due forme di comunicazione assolutamente differenti. Nessuno intende negare il valore della cronaca e di chi la fa, ma al tempo stesso chi scrive narrativa ha il sacrosanto dovere di difendere il diritto al sogno e alla fantasia, che oggi mi sembra così infelicemente violentato. Difendiamo il primato dell’invenzione artistica – che non vuol dire negare la realtà, ma comprenderla semmai a un livello assai più emotivo e più profondo. Grazie per le sue parole, le porgo un caro saluto

Postato domenica, 24 giugno 2007 alle 03:42 da Luigi La Rosa


Cari amici,
torno a intervenire perché Sergio Sozi, con il consueto acume, ha toccato da vicino la questione di cui si dibatte, o meglio un suo lato, quella dei generi e della loro indipendenza: letteratura e giornalismo. Condivido con lui che è pericoloso pensare di poterli facilmente sovrapporre e ho sempre detto, anche direttamente a Roberto (Saviano) in un lungo viaggio verso Castel del Monte che facemmo insieme, che questa era una strada che mi sembrava eticamente e letterariamente pericolosa, nel senso che la finzione mescolata al dato reale rischiava di rendere poco credibili, o discutibili, gli urgentissimi e sacrosanti dati reali.
Ma Saviano ha avuto ragione perché alla fine, in questo paese, ha più effetto l’invenzione che la realtà e, come si può vedere dai risultati dei dibattiti, questa discussione entra subito nell’opinione media e comune in un ambito periglioso, come se discutere dei riflessi delle scelte letterarie diventasse una presa di posizione pro o contro la legalità. E questo la dice lunga sulla scarsa intelligenza dei fatti come delle invenzioni in cui globalmente viviamo.
Alcuni di noi hanno un impegno annoso contro la camorra e tutti gli stili di vita che la alimentano. La città distratta di Antonio Pascale, libro teso su Caserta e l’hinterland, si può quasi dire che abbia aperto all’origine ogni discussione. Io ho scritto Non è il Paradiso, dove si parla di camorra light, e cioè di quei comportamenti numerosi, indecenti, antichi e che fanno pure simpatia (sic!) dei napoletani di ogni classe sociale che sono la base, volontaria e involontaria, di ogni criminalità, ( e che rende impossibile una vera vita culturale, una nascita dell’industria culturale in città) cosa che non mi stanco di ripetere in tutte le scuole dove vado, e ormai sono 15 anni che vado per scuole in tutta la Campania, a fare oltre che a dire. Perché cambiare un territorio (avere la speranza di) significa anche starci dentro e lavorarci, mettendo in opera quelle gocce nel mare che, si spera incrollabilmente, un giorno faranno peso.
Come si può lontanamente credere che qualcuno di noi sia a favore di ciò che combatte? O che voglia spazzolare sotto un tappeto l’orrore e la vergogna?
Non è il Paradiso non mi è mai stato perdonato a Napoli: troppe persone hanno creduto di riconoscersi nel ritratto. Ho ricevuto attacchi pubblici, damnatio memoriae, prime pagine insultanti. Sono nata a Napoli e ho scelto di restare, abitare e lavorare in questa città anche se tutti i giorni ci troviamo in situazioni assurde: dal parcheggiatore abusivo che ritiene normale chiederci i soldi e indurci a non pagare il parcheggio comunale perché ha un accordo con la Napoli Park che non ci metterà le multe, al furto d’auto, alla minaccia diretta, alle violenze, all’abbandono più completo.
Un episodio, fra i molti personali: a mia madre che è dirigente scolastico telefona un collega dell’ex Provveditorato. Il parcheggiatore del Provveditorato l’ha fermato presentandosi. Si occupa di cavalli di ritorno per un celebre notaio ( e gli fa il nome): il notaio vuole che sua figlia, che è nella scuola di mia madre, venga spostata di classe. In cambio mia madre riavrà l’auto che le è stata rubata davanti al cancello della scuola. Ovviamente mia madre non ha ceduto alla pressione. Una delle tante, infinite esperienze che ci fanno pensare ogni giorno di andar via perchè la camorra è diventata uno stile di vita di ogni classe sociale in città. Ce ne sono altrettante però – e io le cerco con ostinazione – che ci impongono di restare. Fosse anche il fatto che nel fare laboratori recuperiamo un ragazzino alla scuola fra quelli che sono stati assorbiti dal lavoro minorile (Frattamaggiore). Fosse anche per il fatto che amo profondamente questa città e non mi sta bene di lasciarla morire perchè non smetto di guardarla: tanto è orrenda, tanto è bella. Così, vedete che è difficile distinguere ciò che siamo da ciò che scriviamo, pure va fatto. Perché, come molti hanno scritto su queste pagine, bisogna ricordarsi cos’è la letteratura, cos’è uno scrittore, cosa significa e che peso ha inventare.
Disgraziatamente quando una città è così forte nell’immaginario collettivo, per queste e per altre ragioni che sono state dette, è facile confondere gli scrittori con la città (una storia assai vecchia) ed è molto facile che le istituzioni si coprano con l’operato altrui (Bassolino pochi giorni fa in una trasmissione locale per giustificarsi della sua inoperosità circa la spazzatura e i rifiuti citava Gomorra: ma lui non sapeva niente prima? E neanche adesso? Ma ci prende per stupidi?).
E’ necessario raccogliere l’invito di Antonio Pascale per queste e molte altre ragioni: una cosa è la realtà che cerchiamo di cambiare, che subiamo, che richiede scelte forti e collettive, un’altra è la letteratura, che ha funzioni più ampie, più varie, non appiattibili e con ricadute lontane nel tempo e nello spazio.
Antonella Cilento

Postato domenica, 24 giugno 2007 alle 09:40 da antonella cilento


Napoli è anche Peter Ustinof, o sbaglio? Napoli è grande come i suoi miti!
Il dibattito ritorna ai temi di fondo e Cilento ci richiama alla vivibilità quotidiana in una città “mitica” riproponendo anche il dibattito su giornalismo e letteratura. Condivido, in via teorica, le sue opinioni, ma come lettrice io applaudo a Saviano. Lessi Gomorra lo scorso anno e ne rimasi colpita, l’autore (il giovane autore) mi trasmetteva la dimensione sociale della camorra; la base popolare del consenso. Io figlia di operai riconoscevo nel traffico economico dei pensionati, tutta l’apprensione del vivere dei poveri, dei salariati, dei senza speranza. Capivo il loro consenso che Saviano, senza retorica, descriveva narrando i fatti, facendoli nostri; trasfigurandoli. Non considerai Gomorra il libro dell’anno, che per me fu La figlia oscura della Ferrante, però pensai a lui come a un giovane promettente, a cui essere grata per il coraggio e per l’ inventiva. Pensai anche alle strumentalizzazioni che ne sarebbero seguite, agli inviti televisivi, ai cappelli politici, ma soprattutto al vuoto culturale che i tanti Festival letterari ( e relativi colti dibattiti) non colmano. Mi preoccupai per le strumentalizzazioni di cui, inevitabilmente, sarebbe stato vittima; immaginai il suo successo, grande e necessario per coprire i problemi della città. Gomorra è giornalismo? La letteratura è altro? Cari amici scrittori siete anacronistici se pensate veramente di dibattere su questo tema. Lo dico con affetto, e sorridendo vi pongo una domanda: è arte l’installazione di un bambino appeso ad un cappio; è scultura la Merda d’artista di Piero Manzoni ( per non citare le uova sode); è pittura il piscio che Pollock versava sulle tele? È da considerarsi un capolavoro artistico una cartina geografica realizzata incollando i ritratti dei marines morti in Iraq; è arte l’esposizione di sangue e di ossi buchi Kossovari? è arte riempire una stanza di palloncini colorati , incollare un Cristo su un relitto d’aereo, registrare cupi suoni, urla di partorienti, rumori d’amplesso ? e potrei continuare all’infinito…
Gomorra è un buon libro, La figlia oscura è letteratura; ma scrivere è un arte, un’azione creatrice che si propone di interagire…dipende con chi.
Vi abbraccio, Miriam

Postato domenica, 24 giugno 2007 alle 15:36 da miriam ravasio


Innanzitutto voglio fare i miei complimenti a Massimo perché, come sempre, riesce a nutrire il suo blog di spunti, questioni, notizie ecc. che non solamente si rivelano interessanti, ma dimostrano che la letteratura (e la cultura) è tutt’altro che fumo o semplice svago (come mi è capitato di sentire), bensì qualcosa che può toccare intimamente la nostra vita quotidiana e la nostra sensibilità, sotto molti punti di vista. In merito alla questione circa l’opprtunità o meno dello stile “realistico” adottato da Saviano ho condiviso molto le opinioni espresse da Elektra e da Miriam Ravasio le quali sono molto vicine al mio modo di considerare la letteratura e che ho trovato efficaci e complementari fra loro. Posso solamente aggiungere e suggerire che è, a mio avviso, un po’ rischioso limitare un testo “realistico” a semplice cronaca: se si guarda al cinema si fa un po’ fatica a ritenere opere, quali “Roma città aperta” o “La terra trema” o “Umberto D.”, come pellicole che “semplicemente” ci hanno voluto mostrare la realtà e non vedere in esse tutta una serie di risvolti poetici, letterari, psicologici, mitici, e persino favolistici. Opere, cioè, che esprimevano il complesso e articolato sentire dei loro autori.
Voglio aggiungere ancora, riguardo agli accenni polemici nei cofronti di Massimo Maugeri e del suo blog (al quale, modestamente, collaboro)che Massimo compie un’operazione civile ed intelligente riportando, come ho già detto, questioni attuali che lui stesso può anche non condividere personalmente, ma di cui ne intravede l’interesse per tutti coloro che si accostano a Letteratitudine; il quale è un blog realmente onesto proprio nel momento in cui Massimo lascia a noi collaboratori (con rubriche e non) piena libertà di scrittura e d’iniziativa; giacché grazie alle sue provocazioni si possano comporre opinioni anche divergenti fra loro, ma utili per il lettore. Nè, ovviamente, è suo obiettivo o intenzione alimentare una qualunque “camorra” letteraria. Scusate se mi sono dilungato ma ho voluto epsrimere queste mie opinioni per contribuire al ristabilimento di quella discussione civile propria di questo blog, che mi ha fatto piacere aver subito rivisto dopo il momento di provocazione. Dicussione civile anche nel rispetto e stima di chi, quella provocazione, la ha voluta esprimere per delle ragioni che hanno trovato validi interlocutori, con i quali, mi auguro, vorrà ancora (più pacatamente) continuare a discutere.
Un saluto a tutti, Gabriele Montemagno.

Postato domenica, 24 giugno 2007 alle 18:13 da Gabriele Montemagno


In un saporito passaggio del bellissimo “Viaggio in Italia”, Goethe (che dell’Italia era pazzo) nota che in questo paese tutto diventa occasione per litigare e racconta che a una cena lo si tormentò per fargli confessare chi preferiva fra Leonardo e Michelangelo, perchè non si tollerava che potesse amarli tutti e due. Perchè litighiamo sempre? Perchè dai lontani conflitti su Coppi-Bartali o su Lollo-Loren si deve arrivare al dilemma Saviano o gli altri? Che cos’hanno detto di così terrificante amici e colleghi a me carissimi come Antonella Cilento o Antonio Pascale da attirarsi virulente scariche d’insulti? Stiamo male davvero se dimentichiamo dove si trova il vero nemico e passiamo il tempo ad azzuffarci fra di noi. Li ricordate i polli di Renzo in “I promessi sposi” che si beccavano mentre andavano dal macellaio? Quali frustrazioni sono alla base di così incivili aggressioni? Se il pamphlet come “Gomorra” ha pieno diritto di cittadinanza nel modo delle lettere, e lo attesta il suo successo, perchè sorvolare sul fatto che ci sono molti modi d’intendere l’impegno sociale? Se il pamphlet, intriso di echi giornalistici, sferra un attacco frontale al Male, il romanzo, per sua natura, fa evolvere la società nascondendo la sua voglia di cambiamento fra le pieghe di un racconto. Che c’è da contestare? La condizione femminile è migliorata anche grazie a “Orgoglio e pregiudizio” di Jane Austen, gli orrori del lavoro minorile ci hanno fatto rabbrividire in “Oliver Twist” di Charles Dickens, il potere corruttore del denaro è al centro dei romanzi di Henry James, e l’umanità deve tantissimo ai russi, ai francesi, alla Woolf, alla Mansfield, a Kafka e a tanti altri. Perchè accapigliarci? Perchè non riflettiamo invece sul fatto che la Campania con le sue sofferenze e le sue speranze ha prodotto negli ultimi dieci anni una letteratura che non ha eguali in Italia per forza, delicatezza, immaginazione, varietà, e anche per l’altissimo numero di rappresentanti. E’ la regione che vanta il maggior numero di scrittori, e tutti di talento. Alla luce di questa considerazione perchè non ci rimbocchiamo le maniche per lavorare tutti insieme, e di Napoli dire il brutto e il bello, invece di urlare come se stessimo vendendo il pesce al mercato? Offendere con linguaggio scurrile una donna che lavora è poi una cosa di cui non c’è proprio da andar fieri. Io non vorrei aver niente a che fare con chi lo fa, e neanche ne prova disagio. Chi ha un cervello, lo faccia funzionare. Chi ha un cuore, lo faccia battere forte. Basta con questi scontri inutili! Individuate un progetto da realizzare e siategli fedeli. Il resto è silenzio, come diceva il buon Shakespeare.
Francesco Costa

Postato domenica, 24 giugno 2007 alle 18:58 da francesco costa


Grazie per i nuovi commenti.
Purtroppo ho un problema al pc (spero di risolverlo entro domani) e sono costretto a essere stringatissimo.
Il dibattito continua.
Un caro saluto a tutti.

Postato domenica, 24 giugno 2007 alle 22:28 da Massimo Maugeri


Intervengo con ritardo per dire che il mio pensiero è molto vicino a quello formulato da Elektra. per cui eviterò di ripetere gli stessi concetti.
Mi sembra particolarmente bello l’intervento di Francesco Costa che credo abbia accolto l’appello di Massimo Maugeri a ricomporre.
Però desideravo esprimere la mia solidarietà ad Antonella Cilento. Sarò forse una all’antica, ma come ha scritto Costa “offendere con linguaggio scurrile una donna…”. Evidentemente esiste ancora un po’ di signorilità.

Postato lunedì, 25 giugno 2007 alle 10:09 da Rosa Fazzi


Ho letto in ritardo, come il caldo mi ha consentito, la questione di Gomorra e gli altri autori campani che chiedono , anche , di ritornare alla letteratura.
Sicuramente il libro di Saviano vuole denunciare e rappresentare una questione, la camorra appunto e la modalità barbara di esistenza che si conduce in Campania, ma per dirla alla Guido Dorso, la questione meridionale è soprattutto una questione nazionale.
Il libro di Saviano non è, a mio modesto parere, letteratura; è un libro giornalistico; è , per quello che ho potuto capire sfogliandolo e notando alcuni errori qua e là, un libro denuncia,caro ad una letteratura degli anni settanta, necessario, crudele, rappresentativo di questo tempo .Detto questo,
secondo chi e perchè dovremmo pensare che o gli scrittori meridionali seguono quella strada o niente? Perchè o Gomorra o morte?
Le cose che dice antonella Cilento a proposito della fuga dei turisti da Napoli, le finte dicerie del colera, sono vere e giuste. Non c’è rimedio, all0ra? Sprofondiamo tutti, aspettando la nuova apocalisse?Giustamente Cilento, Pascale, Di Consoli propongono di
andare avanti, guardare oltre, continuare la nostra difficile normalità, essere propositivi dopo Gomorra, se si vuole dare senso ad una nostra permanenza in Campania, a napoli, ma anche ad avellino.(sabato mattina hanno finalmente arrestato i componenti del clan del partenio)
Oppure fuggire, partire, guardare le cose da lontano.Chi vuole,o chi può, vada.E Pascale e Di Consoli sono andati via.
L’unica a fronteggiare Napoli e le sue munnezze é Antonella Cilento, che è la scrittrice contro cui si puntano maggiormente le critiche.
Nelle polemiche, come queste, lo abbiamo detto, è molto più facile scagliarsi contro le donne.Soprattutto quelle che lavorano secondo coscienza, che non hanno tolto il posto a nessuno, che fanno i conti quotidianamente con la normalità. Che la Cilento continui il suo lavoro, la sua scuola di scrittura ,realtà interessante, viva, formativa a Napoli.
So anche quando le costi, e non basta dire quanto le sono vicina.
Andiamo oltre le polemiche. Ognuno ha il suop sguardo e il suo modo per dire.
E’ importante lavorare perchè le cose, qui da noi, in Campania, diventino solo un poco più umane, solo un poco più sopportabili.
emilia cirillo

Postato lunedì, 25 giugno 2007 alle 15:11 da emilia cirillo


C’è un concetto, espresso in questo forum, che ci tengo a riprendere: il recupero dei valori.

Finora abbiamo dibattuto sulla realtà “bella” da mettere in contrapposizione a quella “brutta”. Ma esiste anche un’altra via da non sottovalutare: quella della fiaba; ovvero scrivere una storia di qualunque genere, rigorosamente divertente e appassionante, in cui un forte “concetto morale” trionfa su tutto, mostrando la vittoria dell’utopia (e magari di un determinato personaggio) sull’insensatezza di alcuni preconcetti, troppo ben radicati, che ormai contaminano la nostra società.

Sergio Rilletti

Postato lunedì, 25 giugno 2007 alle 18:32 da Sergio Rilletti


Per favorire il dibattito, confidando nel fatto che Massimo Maugeri sia d’accordo, “posto” il pensiero di Roberto Saviano recentemente espresso nell’ambito della manifestazione “Officina Italia” e pubblicato su Repubblica e Lipperatura.
Gli altri del gruppo (di segnalazione collettiva) Cicerone sono alla ricerca degli ulteriori articoli pubblicati sul Mattino da Silvio Perrella, Sergio De Santis, Marco Salvia, Francesco Piccolo.
Vostro Cicerone 1.

Segue Saviano.

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Nelle lunghe discussioni con Vincenzo Consolo, Goffredo Fofi, Corrado Stajano, ho appreso che la necessità prima dell´intellettuale è presenziare al dolore umano, mantenersi sentinella della libertà umana, non delegare mai ad altro il proprio imperativo di difesa della dignità umana. Non all´interno di una sorta di nuova ideologia ma come unica capacità di fare del talento, della scrittura, necessità: «Esiste la bellezza e l´inferno degli oppressi, per quanto possibile vorrei rimanere fedele a entrambi», scrive Albert Camus. Fedele alla bellezza e all´inferno dei viventi, è il canone estetico che preferisco.

La scrittura letteraria è labirintica, multiforme, non credo possano esserci strade univoche, ma quelle su cui credo debbano posare i miei piedi le riconosco. Primo Levi, in polemica con Giorgio Manganelli che rivendicava la possibilità di scrivere oscuro, affermò che “scrivere oscuro è immorale”. Quando Philip Roth dichiara che dopo Se questo è un uomo nessuno può più dire di non essere stato ad Auschwitz. Non di non sapere dell´esistenza di Auschwitz. Ma non si può più dire di non essere stati in fila fuori ad una camera a gas.

Questa la potenza di quelle pagine. Libri che non sono testimonianze, reportage, non sono dimostrazioni. Ma portano il lettore nel loro stesso territorio, permettono di essere carne nella carne. In qualche modo questa è la differenza reale tra ciò che è cronaca e ciò che è letteratura. Non l´argomento, neanche lo stile, ma questa possibilità di creare parole che non comunicano ma esprimono, in grado di sussurrare o urlare, di mettere sottopelle al lettore che ciò che si sta leggendo lo riguarda. Non è la Cecenia, non è Saigon, non è Dachau, ma è il proprio luogo, e quelle storie sono le proprie storie. Ed il rischio per gli scrittori non è mai di aver svelato quel segreto, di aver scoperto chissà quale verità nascosta, ma di averla detta. Di averla detta bene. Orhan Pamuk, Salman Rushdie, Anna Politkovskaja hanno avuto in modalità fortemente diverse la responsabilità di fare delle storie che raccontavano vicende riguardanti ogni essere umano e non più circoscritte alla geografia di un territorio. Questo rende lo scrittore pericoloso, temuto. Può arrivare ovunque attraverso una parola che non trasporta soltanto l´informazione, che invece può essere nascosta, fermata, diffamata, smentita, ma trasporta qualcosa che solo gli occhi del lettore possono smentire e confermare.

Questa potenza non puoi fermarla se non fermando la mano che la scrive. La forza letteraria continua ad essere questa sua incapacità a ridursi ad una dimensione, ad essere soltanto qualcosa, sia essa notizia, informazione o sensazione, piacere, emozione. Questa sua fruibilità la rende in grado di andare oltre ogni limite, di superare le comunità scientifiche, gli addetti ai lavori, e di andare nel tempo quotidiano di chiunque, divenendo strumento ingovernabile e capace di forzare ogni maglia possibile. La potenza stessa che faceva temere di più ai governi sovietici Boris Pasternak e Il dottor Zivago e I Racconti di Kolyma di Salamov che gli investimenti del controspionaggio della Cia. Mentre i saggisti venivano isolati, relegati in riviste accademiche, lasciati sfogare, gli scrittori dovevano essere eliminati, le pagine nascoste, le parole rese cieche e mute.

Quando mi capita di ascoltare le litanie sulla vacuità della scrittura, o quando io stesso mi lascio convincere dal vizio della letteratura come palestra per onanisti con poco talento per la vita, penso sempre alla figura di Kostylev, personaggio del libro di Gustaw Herling Un mondo a parte, un libro per anni marginalizzato e boicottato. Kostylev era stato un uomo che aveva dedicato la sua vita alla causa bolscevica. Poi iniziò a leggere Balzac, Stendhal, Constant e trovò in quei testi “un´aria diversa, mi sentivo come un uomo che, senza saperlo, era stato soffocato tutta la vita”. Kostylev abbandonò il lavoro di partito, concesse tutto il suo tempo alla lettura desideroso di conoscere le verità che gli erano state nascoste. I libri stranieri che si procurava clandestinamente lo fecero arrestare. La polizia segreta lo accusò d´essere una spia e torturandolo fu costretto a confessare la mendace accusa. Kostylev si ustionava di sua volontà il suo braccio esponendolo alle fiamme vive, preferiva avere un braccio piagato e gonfio, piuttosto che lavorare per i suoi carcerieri. Nella baracca dove, esentato dal lavoro, passava le giornate, non c´era attimo in cui non leggesse libri. La lettura che gli aveva cambiato l´esistenza portandolo nei campi di lavoro, continuò ad essere la maggiore espressione della sua umanità in quel girone infernale.

Non mi interessa la letteratura come vizio, non mi interessa la letteratura come debole pensiero, non mi riguardano belle storie incapaci di mettere le mani nel sangue del mio tempo, e di non fissare in volto il marciume della politica e il tanfo degli affari. Esiste una letteratura diversa, può avere grandi qualità e riscuotere numerosi consensi. Ma non mi riguarda. Ho in mente la frase di Graham Green: «Non so cosa andrò a scrivere ma per me vale soltanto scrivere cose che contano». Cercare di capire i meccanismi. I congegni del potere, del nostro tempo, i bulloni della metafisica dei costumi. Tutto diventa materia. Danaro, taglio della coca, transazioni, assessori, documenti, uccisioni, proclami, preti e capizona. Tutto è coro e materia, con registri diversi. Senza il terrore di scrivere al di fuori dei perimetri letterari, prescegliendo dati, indirizzi, percentuali e armamentari, contaminando con ogni cosa.

Se devo scrivere devo farlo in emergenza, dove le bestemmie sono più sincere delle preghiere. E dove la realtà ha slabbrature maggiormente in grado di mostrare verità. Il rap in Europa sembra essere anni luce più avanti della letteratura nella capacità di fare della parola parte della carne del presente, rapper parigini che si trasferiscono a Napoli per raccontare il mediterraneo, filippini e gallaratesi che si lanciano in slang comuni e codificano nuovi sguardi, foggiando nuove grammatiche del racconto. E narrano di un mondo dove tutto è meccanismo di potere, danaro, affermazione, dove la politica è sempre tradimento e dove la parola è il discrimine capace di raccontare tutto questo senza negarlo, senza considerarlo inevitabile ma sentendo necessaria la bellezza di narrarlo e di corroderlo. Con le parole e con i succhi gastrici.

Molta scrittura invece sembra fare tarantelle intorno alle questioni centrali del nostro vivere. Tutto sommato non mi interessa far evadere il lettore. Mi interessa invaderlo. E mi interessa la letteratura più simile al morso di vipera che ad un acquarello di fantasie. Arrovellarsi sui territori delle definizioni di ciò che è letterario e di ciò che non lo è, tra combattimenti di accademici e filologi, ruzzolando nell´aia degli scrittori, può essere un´attività infinita senza soluzione alcuna. Una risposta credo risolutiva la diede l´autore del Viaggio al termine della notte e di Morte a credito. Una giovane giornalista andò a trovare un ormai vecchio, isolato e sempre più accidioso Louis Ferdinand Céline. Andò a Meudon, a pochi chilometri da Parigi, dove lo scrittore si era rintanato con sua moglie e i suoi animali. La giornalista dopo le solite domande di circostanza trovò il coraggio e gli chiese, quasi come se stesse pretendendo che lo scrittore gli svelasse il segreto del suo mestiere: «Ma quanti modi ci sono di fare letteratura?». Céline rispose, secco senza titubare: «Ci sono solo due modi di fare letteratura». La giornalista così si aspettava lo scibile umano delle lettere divise in due correnti e Céline diede la sue sintesi insuperabile: «Fare letteratura o costruire spilli per inculare le mosche».

Postato lunedì, 25 giugno 2007 alle 19:12 da Il pensiero di Roberto Saviano (da Cicerone 1)


Sentite, c’è Giusi Marchetta, giovanissima casertana, vincitrice del Premio Calvino di quest’anno (e che è stata anche la più pestifera, ma fra le talentuose, delle mie allieve:-)), che ha fatto una cosa troppo divertente sul suo blog e mette tutto in burletta (con serietà di satira).
Date un’occhiata…http://altainfedelta.splinder.com/

Buona notte
Antonella Cilento

Postato lunedì, 25 giugno 2007 alle 22:05 da antonella cilento


@ Antonella Cilento:
darò senz’altro un’occhiata al blog satirico della tua ex collega. E’ pestifera e ha vinto il premio Calvino di quest’anno?
Accidenti! dal premio Calvino vengono fuori scrittrici pestifere. Mi ricordo un romanzo segnalato nel lontano 1997 (o era il 1998?). Si intitolava “Ora d’aria”. Chi era l’autrice? :)

@ Cicerone 1:
hai fatto benissimo. Se riuscite a a procurare gli altri articoli sarebbe un’ottima cosa.
Il post rimane aperto per ulteriori contributi.

P.S. Ragazzi, qui si brucia. Superati i 45 gradi… e scrivo da una stanza non climatizzata mentre grondo sudore sulla tastiera.

Postato lunedì, 25 giugno 2007 alle 22:54 da Massimo Maugeri


Caro Massimo,
rispondo subito al tuo invito.
Ecco l’articolo pubblicato da Silvio Perrella sul mattino del 15 giugno 2007.
Tuo Cicerone 3

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NAPOLI BLOCCATA DALLA RETORICA DELL’APOCALISSE
di Silvio Perrella

Quante volte ho formulato quest’ipotesi. Cioè che una certa letteratura «napoletana» sia diventata una retorica dell’apocalisse. Adesso, leggendo il suo articolo sul Mattino, vedo che Antonio Pascale la pensa nello stesso modo. Mi sento meno solo. Ma cerco di argomentare meglio. La letteratura ha voluto, rispetto alla conoscenza sulla città, una funzione di supplenza. In mancanza di studi veri e propri, la letteratura ha praticato l’arte dell’intuizione. Ottima cosa, ma con il concreto rischio che la supplenza possa essere durata troppo a lungo.
Il terreno da cui prendono forza i libri d’immaginazione deve essere nutrito di altre competenze. Se s’insterilisce anche la letteratura comincia a vacillare. Noi sappiamo che, soprattutto negli anni Cinquanta, sono venute alla luce alcune opere, che oggi ben figurano tre le più importanti del secondo Novecento. Si pensi al lavoro di quel poliedro di narratori composto da Domenico Rea, Luigi Compagnone, Michele Prisco, Luigi Incoronato, Enzo Striano, Mario Pomilio, a cui vanno aggiunti Raffaele La Capria, Anna Maria Ortese ed Ermanno Rea. Attraverso i loro libri ci facciamo un’idea di cosa sia stata la città, di chi l’ha abitata, delle tensioni che l’hanno attraversata e via di seguito, oltre a godere della bellezza della lingua, che è sempre un tutt’uno con tutto il resto. Ma anche dai loro libri da tempo si estrapolano formule ossificate, che tolte dai contesti servono tutt’al più a fare dei titoli ammiccanti. Il mare? Non bagna Napoli, certo. La città? O ti ferisce a morte o ti addormenta. E via di seguito. E allora? Allora è venuto il momento di porsi il problema della conoscenza. Quanti dati davvero condivisi possediamo sulla città e sui noi stessi. Siamo sicuri che i tanti libri che sembrano parlare di Napoli, parlino davvero della città? Chi può dire onestamente di aver fatto indagini, di parlare a partire da una reale esperienza? È evidente: dopo la stagione evocata prima, sono usciti altri libri d’immaginazione seri e importanti. Poi però c’è stato il diluvio. E si è finiti in un tragico paradosso. Si ha la sensazione che non si parli d’altro che di Napoli, eppure di Napoli non sappiamo quasi nulla. Per di più, spesso si scambiano le atmosfere della narrativa e del cinema come qualcosa di vero, da noi vissuto. Si finisce per dare più credito all’immaginazione altrui (spesso già inquinata dai luoghi comuni) che non ai nostri sensi, alla nostra percezione primaria. Se si aggiunge che Napoli non è riuscita ancora a dotarsi di un sistema dei media che la rappresenti, e che ancora la terza più grande città d’Italia debba scontare una realtà «locale», che va in «nazionale» solo se si passa attraverso alcuni codici, si capisce che il lavoro da fare è enorme, quasi impossibile. Forse è necessaria una bonifica dell’immaginazione, tale che permetta di retrocedere dalle metafore ai dati letterali. Gli storici, i geografi, i sociologi, gli antropologi, i fotografi, dovrebbero darci una mano, pena lo sfinimento della letteratura. Ciò significa che alla retorica dell’apocalisse bisogna contrapporre un’altra retorica, magari edulcorante. No, assolutamente no. Anzi, è necessario essere spietati, prima con se stessi, e poi con quel che la nostra mente partorisce. Bisogna credere ai nostri occhi. Non è facile, lo so. Eppure non esiste altra strada.
Silvio Perrella

Articolo pubblicato su “Il Mattino” del 15 giugno 2007
Fonti: http://www.ilmattino.it/mattino/view.php?data=20070615&ediz=NAZIONALE&npag=37&file=10H3.xml&type=STANDARD
http://www.ilmattino.it/mattino/view.php?data=20070615&ediz=NAZIONALE&npag=45&file=D.xml&type=STANDARD

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Articolo segnalato da Cicerone 3

Postato lunedì, 25 giugno 2007 alle 23:27 da Articolo di Silvio Perrella (segnalato da Cicerone 3)


Cicerone 4 c’è: Ecco l’articolo di De Santis

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KAMORREIDE E LIBRI DI CONSUMO
Di Sergio De Santis

Bene, tra scrittori e intellettuali napoletani si riprende a ragionare sulla città attraverso le pagine dei giornali. Il che, anche se non risolutivo, è sicuramente meglio che perdere un ombrello. Pascale ha ragione da vendere quando sulle colonne del Mattino scrive che la denuncia di una realtà come quella napoletana, per quanto legittima, alla fine, se reiterata in tutte le salse possibili e immaginabili, finisce per essere inefficace e retorica, come da sempre sono tutte le prassi ripetitive. Pascale e Perrella parlano di retorica dell’apocalisse.
Potremmo aggiungere che a Napoli e su Napoli è nato addirittura un nuovo genere letterario e massmediatico che possiamo battezzare kamorreide (col k, così fa più blog e quindi più moda), teso più alla spettacolarizzazione sanguinolenta che alla conoscenza, un’epopea che vede al centro una città eletta a quintessenza del male cosmico. Nella kamorreide ormai si esercitano tutti: scrittori, sociologi, psicologi, talk-show, insomma chiunque voglia accreditare di impegno sociale la propria dimensione lavorativa ed esistenziale. Non è complicato dar vita a un buon prodotto di kamorreide. Se si è scrittori basta deportare un paio di personaggi in periferia, magari a Scampia, scriverci su un bel raccontino più o meno lungo e il gioco è fatto. Oppure setacciare i resoconti giudiziari per dar vita a un best-seller bello truculento e sdegnato nel quale scopriamo quello che già sapevamo dalla visione di qualsiasi fiction sulle criminalità organizzate: che tutte le mafie vivono di connivenze politiche, che operano ben oltre i confini del Mezzogiorno e della nazione, che le centrali finanziarie di riciclaggio sono nel nord del Paese o anche all’estero. Peccato, per chi non lo sapesse, che i camorristi reputano un punto d’onore essere citati in questo o quel libro. Diverso è se si colpisce un loro affare in corso: allora, come purtroppo sperimentò Giancarlo Siani, ti trovano e ti ammazzano sul serio. Se invece si lavora per i media, è ancora più facile: un’intervista a un pusher minorenne, per sfondo un bel mucchio di immondizia alto più dell’intervistato e il successo è assicurato. Vanno benissimo anche una prostituta, meglio se vecchia e brutta, o un ladro di motorini dodicenne, ottimo se fornito di coltello. La kamorreide più che retorica è diventata stucchevole accademia letteraria, cinematografica e massmediale. Un’arcadia del male assoluto che però si vende benissimo in film, libri, sfusa e a pacchetti. Peccato che, come dice Pascale, non muti di una virgola lo stato delle cose. E cos’è che cambierebbe lo stato delle cose? Questo più che agli intellettuali bisognerebbe domandarlo ai poliziotti, agli insegnanti, ai vigili urbani, agli impiegati, ai medici, insomma a tutti quelli che la mattina si alzano e vanno a lavorare incontrando approssimazione, nepotismo, indifferenza, tracotanza, abuso. Loro ci direbbero che no, Napoli non è un inferno apocalittico, ma nemmeno un paradiso perduto. È una città davvero tosta, dove tutto forse andrebbe meglio se ognuno pensasse a fare bene il proprio lavoro, senza delegare sempre ad altri la soluzione di ogni problema e senza usare le mancanze altrui per legittimare le proprie. Insomma, come scrive Perrella, bisogna essere spietati prima di tutto con se stessi, anche perché ormai le cose sono arrivate a un punto se non apocalittico, certamente insostenibile: lo sanno tutti, dentro e fuori l’intera nazione. Le scelte sono due, le stesse di sempre: o si va via o si cerca seriamente di cambiare quello che c’è. Ciascuno è libero di fare come vuole e come può, anche di continuare a straparlare, strascrivere e strafilmare, almeno fin quando la Napoli del male assoluto continuerà a vendersi bene. Quanto alla letteratura, per scrivere un grande libro su una realtà così complessa, vitale ed estrema come quella napoletana occorrerebbe la penna di Dostoevskij, ma di scrittori come lui ne nascono ben pochi in un secolo. Quello passato non sembra ce ne siano stati molti, e in quello appena cominciato… Non ci resta che sperare.
Sergio De Santis

Fonti:
http://www.ilmattino.it/mattino/view.php?data=20070616&ediz=NAZIONALE&npag=35&file=GIROVRO.xml&type=STANDARD
http://www.ilmattino.it/mattino/view.php?data=20070616&ediz=NAZIONALE&npag=45&file=GIROVRO.xml&type=STANDARD
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Articolo segnalato da Cicerone 4

Postato martedì, 26 giugno 2007 alle 00:21 da Articolo di Sergio De Santis (segnalato da Cicerone 4)


@ Cicerone 3 e Cicerone 4:
bravi!

@ Antonella Cilento:
ho letto i post di Giusi Marchetta. Di essere la ragazza è tosta (e non ho dubbi sul fatto che sia talentuosa).
Te le “allevi” bene le allieve, eh?

Postato martedì, 26 giugno 2007 alle 00:56 da Massimo Maugeri


Prima di tutto saluto caramente la sig.ra Cilento, ringraziandola per aver colto la mia modesta lettera si’ da sviluppare un proprio suo discorso che io personalmente considero del tutto condivisibile.

Poi, ma non ”dopo”, invio un caro saluto a Sergio Rilletti, al quale vorrei (dopo avergli fatto i complimenti per il suo racconto ”Solo”) dire che la ‘’strada favolistica” all’approccio letterario con la realta’ e’ tanto interessante quanto difficilmente praticabile, forse perche’ la realta’ scotta e l’utopia e’ tiepida, tenera, piacevole. Forse, per dire qualcosa di forte sotto il vestito di un’invenzione fantastica, sarebbe meglio ricorrere a qualcosa di simile ai racconti-apologo dell’antichita’ greco-romana – vedasi quello su Menenio Agrippa, vedasi Esopo. Oggi, pero’, oibo’, invece, caro Sergio, non ne siamo capaci. Siamo letterati di serie b che non sanno fare le cose piu’ quotidiane degli Antichi ma pensano di proporre chissa’ quale complesso discorso letterario. Inventare una favola e’ la cosa piu’ difficile che esista, per noi Moderni. Magari perche’ dentro abbiamo polvere e aria, con le quali non si fa inchiostro e saggezza.

Un Abbraccio Caro ad entrambi

Sergio Sozi

Postato martedì, 26 giugno 2007 alle 02:40 da Sergio Sozi


E’ la prima volta che scrivo in un blog e sono contenta di farlo qui, in casa Maugeri dove la cordialità del padrone (di casa…)la correttezza che è in grado di mantenere e stimolare nei partecipanti apprezzo moltissimo, data la scarsità che se ne trova in giro. In giro non solo tra i blog ma soprattutto tra le scritture, tra gli scrittori, tra i libri che ci propongono come libri di letteratura. La correttezza pare abbia fatto un grosso tuffo in un qualsiasi mare profondo, ed è annegata. Mi pare che però qualcuno pure abbia voglia di farla venire su, ad avere interesse che torni a galleggiare perchè altrimenti le parole soltanto (scritte nei libri, nei blog o dovunque) non bastano. Se non trovano terreno comune e solidale dove mettere radici, riaffondano. Sono daccordo con Francesco Costa (che conosco e stimo tantissimo) quando dice che la rete tra scrittori deve significare questo, deve avere un terreno fertile di concordanze e disposizione alla parola prima ancora della parola stessa, per poter fare in modo che le cose ‘cambino’ o quanto meno, si spostino. Il fotografo Renè Burri quando ha cominciato il suo mestiere di reporter per le vie di Cuba o del Brasile, aveva l’illusione di poter cambiare il mondo, di poterlo modificare con i suoi scatti e le sue testimonianze. Poi, in una sua bellissima biografia, ci dice che s’era sbagliato, che era impossibile: ma non perchè il suo mestiere lo disilludesse, ma perchè erano le persone a togliergli l’illusione. Nonostante ciò non ha smesso di andare avanti, di crederci, di provare, col risultato di illudersi di nuovo e ancora. E le sue illusioni sono diventate le sue fotografie. Per raccontare le storie che aveva necessità di fotografare ha dovuto lottare con le persone e non con la materia del suo narrare. La materia della narrazione è qui, vicino a noi, nelle invenzioni di chi la scrive, nella fatica creativa che comporta scrivere un libro. Tutto il resto credo che sia pura ricercatezza, ‘burdello’ (per dirla alla napoletana) che alla narrazione non serve. Quello che succede qui a Napoli (dove vivo) e ovunque, è una narrazione continua, e forse per questo Napoli si presta tanto ad essere messa sotto i riflettori: una sconfitta giornaliera, piccole vincite giornaliere, seguita da altrettante illusioni e speranze giornaliere. Se non ci fossero le illusioni e le speranze Napoli e le persone di Napoli non sopravviverebbero. E, forse, poichè per dirla alla Bocca Napoli non è che la rappresentazione sfacciata di ciò che è diventata l’Italia, nemmeno le persone dell’Italia (ma la letteratura non racconta questo?)
Chi vive a Napoli lo sa, lo fa, lo vive sulla pelle, ne fa i conti tutti i giorni. Conosco Antonio Pacale e Andrea di Consoli. Ma più di tutti conosco Antonella (Cilento) che a sgomitate e a volte anche con le lacrime (ma quelle passano, sennò si annega di nuovo) giorno per giorno scalpella la crosta che circonda la città, fa a botte con la burocrazia, con l’ignoranza, con la difficoltà di fare imprenditoria in una città dove l’imprenditoria è l’arte del ‘far fesso’, e soprattutto di far cultura. Lo so perchè provo ad aiutarla, lo so perchè spesso discutiamo, a volte litighiamo, gioiamo delle piccole soddisfazioni, o ci amareggiamo per le ennesime difficoltà, e leggere certe cattiverie mi pare davvero non solo una forma di mancanza di educazione punto e basta, (e già questo…) ma soprattutto un parlare a sproposito per esserci, per, come dice Francesco, litigare come se non si potesse fare altro (o non si voglia fare altro). Ma altro si puo’ fare e si fa: lo dimostra lei, quello che ha creato in città (una delle poche realtà culturali cittadine che abbia spessore, continuità e, forse, anche forza lavorativa) i suoi libri, i libri di Pascale, di Di Consoli, di Emilia Cirillo, di Francesco… Perchè non si fa ’scandalo’ su questo?Credo che la letteratura racconti storie, fatti che sono in grado di toccare la radice del profondo, farla male e pulsare in ogni lettore, recuperare in lui qualcosa che appartiene al libro e al genere umano tutto. Con la correttezza di chi osserva e fotografa, con l’onestà letteraria che forse oggi pare sia un po’ desueta ma che invece è alla base della dialettica scrittore\lettore. Altrimenti l’umanità non viene raccontata, ma mortificata e messa sotto un microscopio da laboratorio. E’ inutile. Chiunque abbia letto Cechov lo sa.

Grazie per l’opportunità
saluti cari

Rossella Milone

Postato martedì, 26 giugno 2007 alle 10:33 da Rossella Milone


Complimenti a questo blog per l’acume, il livello e la serenità degli interventi. Una vera rarità sul web, di questi tempi. Sono rimasto colpito della partecipazione di così tanti scrittori e del fatto che, con onestà, sono stati messi in luce i rapporti personali che li legano. E’ bello che si faccia rete in maniera costruttiva.
Ho apprezzato, in particolare, l’intervento di Rossella Milone e quello di Francesco Costa. E ho molto apprezzato che sia stato inserito il bellissimo articolo di Roberto Saviano.
Vi dirò con molta sincerità la mia opinione, che è l’opinione di un semplice lettore che scrive anche per proprio diletto. Credo che “Gomorra” di Roberto Saviano sia uno dei libri più belli e necessari scritti negli ultimi anni, e credo pure che rimarrà con merito nella storia della letteratura. Insomma, spero che Saviano continui a scrivere così.
Se poi si crea una moda camorra e tutti cominciano a scrivere di camorra per essere pubblicati e le case editrici si prestano a questo gioco (illuminante l’intervento di Sabrina Campolongo) il problema è dovuto ad una distorsione del sistema editoriale a cui gli altri scrittori qui intervenuti fanno bene ad opporsi. Poi sta a noi lettori saper scegliere, cosa che purtroppo non sempre avviene, decretando il successo dei libri di qualità. Ma Saviano deve rimanere Saviano e andare avanti per la sua strada con forza e determinazione. E con il sostegno dei lettori che lo amano.
Grazie per lo spazio concesso.
Giampiero Minnelli

Postato martedì, 26 giugno 2007 alle 11:33 da Giampiero Minnelli


@ Rossella Milone, Emilia Cirillo, Francesco Costa:
grazie davvero per essere intervenuti.

@ Sergio Sozi e Sergio Rilletti:
Sergio Sozi scrive: “… la ‘’strada favolistica” all’approccio letterario con la realta’ e’ tanto interessante quanto difficilmente praticabile, forse perche’ la realta’ scotta e l’utopia e’ tiepida, tenera, piacevole.”
Io penso che la realtà di questo nostro mondo, da che tempo e tempo, è stata sempre scoppiettante.

- “… Siamo letterati di serie b…”
Sozi, parla per te!
Ovviamente scherzo. :)

@ Giampiro Minnelli:
benvenuto anche a te e grazie per il tuo commento. E stai tranquillo, che Saviano resterà Saviano.Vedrai!

Postato martedì, 26 giugno 2007 alle 15:26 da Massimo Maugeri


Il mio intervento è probabilemente molto più generale, premetto che trovo importante e significativo un testo come quello di “Gomorra”. Detto ciò riprendo alcune delle frasi scritte da Antonio Pascale e vi apporto la mia riflessione:

“L’arte realistica è, in questo senso, un potente sismografo. Serve in primo luogo a proteggerci, proprio perché ci fa riconoscere l’onda sismica e in secondo luogo, serve, a costruire strutture antisismiche.Il narratore realista crede, in buona o mala fede, con ottimi e cattivi risultati, che questo sia il suo compito, indagare e costruire”.

Il problema sollevato introduce due visuali apparentemente opposte: quella della verità e quella dell’essenza della rappresentazione di essa nella forma artistica (letteraria e non solo) e della sua funzione sociale. La letteratura realista (così come, sino ad oggi, quella verista) ha sempre suscitato delle reazioni che si sono radicate nel tempo, e hanno dato adito a contrapposte considerazioni creando vere e proprie spaccature tra studiosi e intellettuali, a volte irreversibili. Il problema che oggi vive Napoli è un po’ il problema che vivono quelle realtà geografiche e culturali la cui l’identità nel tempo (per varie cause) è andata frantumandosi. Gli storici, gli antropologi, i sociologi, ( ma anche le persone ‘comuni’) fanno i conti con il riflesso dell’immagine deformata, eppure familiare, nota, vera ma a volte non completa ed esaustiva. In questo dibattito mi sembra di vedere il dibattito che ruota (da tempo) attorno alla ricostruzione dell’immagine della Sicilia, della sua identità storica, culturale, economica. La letteratura verista ha condizionato, nel bene e nel male, a torto o a ragione, la visione del mondo sull’isola e persino degli stessi siciliani: la Sicilia rurale di Verga, quella del potere marcio e corrotto di De Roberto e Pirandello, fino alla Sicilia, ’sconfitta’ dal male di una politica in osmosi con la mafia, di Sciascia. Ma non mi limito a citare esempi letterari lontani nel tempo (anche se per alcuni aspetti attuali) e penso al libro di diversi anni fa di Lara Cardella, in cui il sesso femminile siciliano veniva descritto sotto il segno della piena discriminazione (quando in realtà molte donne non avevano mai vissuto quelle restrizioni o quel senso di vittimismo). Per non allontanarmi più di tanto, oltrepassando i confini letterari, anche la scrittura giornalistica ha riempito, alcuni mesi fa, pagine di fogli e web a proposito dei fatti dello stadio di Cibali (per la morte dell’Ispettore Raciti). In quei giorni l’orgoglio siciliano (in particolar modo catanese) ha sentito l’urgenza di difendere la parte onesta, pulita, dinamica e costruttiva della città, puntando il dito contro la parte marcia e quasi estranea. Il punto di riflessione che allora mi nasceva era questo:
ma Catania, la vera Catania esiste realmente? È un’unica città, con le sue contraddizioni, con le sue opposte direzioni o non esiste ancora un’identità compatta che si chiami Catania? La disoccupazione, la corruzione, la miseria, gli intrecci tra loro, accomunano molte realtà del meridione, ma sono le sole cose che le possono rappresentare? Verga descriveva verso la fine dell’800 la vita dura dei contadini, dei lettighieri, dei raccoglitori, dei pescatori, le sopraffazioni dei galantuomini nei confronti dei loro dipendenti, così come la non sincera vocazione spirituale dei piccoli preti di campagna. Le inchieste parlamentari e giornalistiche gli davano ragione, e veniva fuori l’immagine di una Sicilia rozza, sofferente, ma a distanza di tempo la storiografia moderna ha capito che la parte attiva e dinamica della Sicilia non aveva avuto la stessa capacità espressiva (forse perché non ci sono stati letterati altrettanto grandi che ne parlassero?) di entrare nel motore più veloce di divulgazione che era ed è il senso comune.
Per contro: quello che ritraeva la letteratura verista era un aspetto della realtà, poiché quella gente viveva di fatto in quel modo, i sorprusi descritti spesso erano reali, la miseria esisteva e l’insoddifazione era continua.
Ci sarebbe un discorso di valenza analitica da fare, che ponga dei confronti tra la realtà dei fatti e le sue varie rappresentazioni ma il punto è quello di considerare più o meno efficaci le varie ipotesi di identità di un luogo al fine di optare con consapevolezza per quella tanto agognata ricostruzione, che riguardi Napoli, o Catania o un’altra città che da sempre ha dovuto fare i conti con la natura schizofrenica della sua identità.

Postato martedì, 26 giugno 2007 alle 16:01 da Sabina Corsaro


Complimenti a tutti per il bellissimo dibattito.
Mi rifaccio all’ultimo intervento, quello di Sabina Corsaro.
Mi pare che la Corsaro, opportunamente, bypassi la questione “Cos’è letteratura e cosa non lo è” ed evidenzi la necessità di un’approccio pluralistico della scrittura per descrivere e affrontare le problematiche umane e dell’umano vivere. E anzi lo fa citando alcuni capisaldi della letteratura nazionale. Ha ragione quando sostiene che la letteratura (realista) di Verga non è stata e non poteva essere esaustiva, così come non poteva esserla quella di Sciascia. Ecco allora che la scrittura e la letteratura devono essere viste come un grande mare capace di bagnare tutte le terre. A me, scusate se lo sottolineo, magari vi sembrerò arrogante, la definizione di Celine citata dal bravo Saviano nel suo testo fa un po’ sorridere. Con tutto il rispetto per Celine (che non credo sia il più grande genio della letteratura mondiale di tutti i tempi), quella definizione mi pare un “tantino” didascalica.
Ma forse mi sbaglio.
Un saluto a tutti.

Postato martedì, 26 giugno 2007 alle 23:06 da Erika Di Giorgio


Costa, anche lui invidioso marcio, è lì a concedere cittadinanza a Gomorra, come se lui dovesse dirlo. Fofi, Stajano, D’Orrico, Jhonatan Galassi, Carla Benedetti, Sanvitale, Consolo, Fruttero, Camilleri, ed altri che hanno parlato bene di Gomorra spettavano il lasciapassare di Costa. La cosa triste è che invece di stringersi intorno a Saviano e salvarlo dalla degenerazione delle copie lo si attacca come fautore di queste retoriche. Che follia! E poi come saprà l’allieva della Cilento, se non fosse stato per il successo di Saviano col cavolo che pubblicava Einaudi (chiedere a Paola Gallo e Dalia Oggero). Una volta ho raggiunto Saviano via email e gli ho detto “quanta chiavica stai facendo pubblicare dopo il tuo successo” E’ un bene, mi ha risposto. Non vi merita. Morirete senza raggiungere un millesimo della bravura e della potenza di questo ragazzo. FI

ps pare non ci sia stata nessuna querela ance se io la vorrei fare contro la Cilento.

ps 2 Ma Saviano è stato avvertito di quanto Di Consoli un prsunto amico si sia sbavato di invidia? Qualcuno dovrebbe avvertirlo

Postato mercoledì, 27 giugno 2007 alle 01:59 da Francesco Iavazzo


@ Francesco Iavazzo

Caro Francesco Iavazzo,
nessuno è invidioso del successo di “Gomorra” (di cui se ne è parlato benissimo anche all’interno di questo post). E, in particolare, la parola invidia non è proprio accostabile a Francesco Costa che è un gentiluomo e persona squisita (lo dico perché lo conosco personalmente) come del resto è facilmente intuibile dal tono del suo commento.

Ma lo hai letto? Ti riporto due passaggi:

“Perchè dai lontani conflitti su Coppi-Bartali o su Lollo-Loren si deve arrivare al dilemma Saviano o gli altri?”
E poi: “Basta con questi scontri inutili! Individuate un progetto da realizzare e siategli fedeli. Il resto è silenzio, come diceva il buon Shakespeare.”

Di Gomorra se ne è parlato bene anche all’interno di questo post, pur non essendoci persone del “peso” di: “Fofi, Stajano, D’Orrico, Jonathan Galassi, Carla Benedetti, Sanvitale, Consolo, Fruttero, Camilleri”.

Ancora con questa storia della querela? Sostituiamo la parola “querela” con “querelle”? È più elegante e raffinata… e ci fa sembrare più “intellettuali”.

Di Consoli non ha nessuna invidia per Saviano (anche perché, a sua volta, sta beneficiando di un meritato successo).

Scrivi: “Morirete senza raggiungere un millesimo della bravura e della potenza di questo ragazzo”.
Sì, ma speriamo il più tardi possibile. :)

Grazie, comunque, per il tuo commento.

Postato mercoledì, 27 giugno 2007 alle 09:38 da Massimo Maugeri


Per Francesco Iavazzo
L’intervento “ironico” non è piaciuto nemmeno a me!
Saluti, Miriam

Postato mercoledì, 27 giugno 2007 alle 14:16 da miriam ravasio


Signor Francesco Iavazzo,
onestamente non riesco a credere ciò che leggo.
Intanto una domanda per lei, e la pregherei di rispondermi. E’ un componente di Nazione Indiana? Giusto per saperlo.

Se si va a leggere il mio precedente commento scoprirà che sono una grande estimatrice di Roberto Saviano. Ho già scritto di aver acquistato più di una copia di “Gomorra”. L’ultima, una decina di giorni fa, l’ho regalata a una cara amica per il compleanno. Credo di aver acquistato in tutto sei copie di “Gomorra”. E lei signor Iavazzo?
Sorvolo sulle reiterate minacce lanciate contro Antonella Cilento.
Lei scrive “Non vi merita…” e poi “Morirete senza…”
Ma di chi stiamo parlando, di un santo? Di qualcuno che è stato brutalmente ucciso dopo esser stato assoggettato a indicibili torture?
Guardi che commenti “boomerang” come il suo nuociono all’immagine di Roberto Saviano. Rischiano di farlo diventare (indirettamente) antipatico, se non odioso.
Mi scusi, ma credo che Saviano si meriti sostenitori migliori.
Solidarietà a Roberto Saviano!

Postato mercoledì, 27 giugno 2007 alle 15:34 da Elektra


Leggendo quest’ultimo intervento di Iavazzo e il successivo di Elektra mi sono convinta che una delle cose più giuste le ha scritte proprio Massimo Maugeri usando la parola “mitizzazione”.

Postato mercoledì, 27 giugno 2007 alle 17:23 da Rosa Fazzi


Nel mondo culturale italiano basso e confuso è facile mitizzare potenti scrittori come Saviano. E ben venga se invece di mitizzare Moccia o Baricco ci sia gente come lui. Ma avete idea di quello che ha fatto? Forse no. Avete idea di come vive? Io si. Successo di DI CONSOLI? Ma se non si è visto neanche col binocolo in classifica.
Andate a vedere cosa dice Saviano di Di Consoli su IBS ne parla benissimo. E viene ripagato non con una critica (quella è sacrosanta e non dipende dalle amicizie, io schifo i meglio romanzi dei miei più cari amici) ma con dietrologia, falsa coscienza, invidietta, meglio il mare…ma Di Cò…ma vattela a piglià…io sono 12 anni che sono disoccupato che vivo in un quartiere marcio e che sono stato costretto da sei mesi all’emigrazione. Mi riconosco in Saviano e non in questi nani da giardino!

Postato mercoledì, 27 giugno 2007 alle 19:39 da Francesco Iavazzo


Mi ero promessa di non intervenire più su questo argomento, ma oggi curiosando in Letteratitudine ho letto il “sentito” intervento (risentito e appassionato) di Iavazzo e ho postato un mio telegrafico parere. Vorrei che si chiudesse tutta questa storia perché è umiliante per tutti. A me non è piaciuto per niente il servizio un po’ goliardico pubblicato su Altatensione (o il titolo è diverso?); non mi è piaciuto lo stile e tanto meno il contenuto. Perché, da ex stilista con esperienza ventennale,so con sicurezza che quando qualcosa ha successo e per questo E’ IMITATA, la sostanza c’è! Quando un prodotto piace c’è consenso di massa. Perché gli uomini sono esseri semplici che aspirano a capire e sentirsi partecipi e…uguali. Gomorra piace perché senza annoiarti ti dà una dimensione. Chi non è di Napoli non sa cosa pensare quando puntualmente si propone l’emergenza dei rifiuti. Ne parliamo fra noi ma non riusciamo a darci delle risposte. Ma perché non si abituano a fare la raccolta differenziata? Ma perchè non vogliono un centro di smaltimento dei rifiuti? Ma perché non fanno come noi? Possibile che siano tutti così scemi? ( vi ho riassunto il pensiero comune del Nord)
Leggervi, sentirvi litigare non ci aiuta a comprendervi, ogni giorno ci allontaniamo, vi allontanate sempre di più.
Fatevi promotori di una iniziativa grande, insieme e uniti per lanciare un’idea rigenerante; o Bertolaso vi basta?
Un affettuoso abbraccio.

Postato mercoledì, 27 giugno 2007 alle 21:39 da miriam ravasio


Per Massimo.
Forse il tono del mio precedente commento era un po’ troppo aggressivo. Mi scuso

Per Iavazzo.
Mi dispiace che lei sia disoccupato. Capisco il suo disagio (che vivo anch’io in prima persona). Ma ribadisco il concetto: quel tipo di commento è lesivo della figura di Saviano. Personalmente, dopo averlo letto mi sono molto infastidita.
Se Saviano ha parlato bene del libro di Di Consoli è perché il libro di Di Consoli è buono (l’ho iniziato a leggere ieri e posso confermarlo). Se non sbaglio anche Di Consoli ha parlato bene di Saviano e del suo libro e se l’articolo pubblicato sul Mattino va in altra direzione non deve essere visto come un “attacco” a Saviano. Lo hanno scritto in tanti anche qui. E secondo me non c’è dietrologia, o invidia. Ma se lei la pensa diversamente rimanga pure del suo parere. L’importante è… “non offendere”.

Per Miriam.
tu hai ragione a porre quei perchè. Ma temo che potrebbe avviarsi una discussione infinita da cui non ne usciremmo più. Grande responsabilità va alla classe politica, ma è anche vero che i politici vengono eletti dai cittadini. Mi fermo qui.

Postato mercoledì, 27 giugno 2007 alle 22:24 da Elektra


Vi segnalo quest’altro articolo pubblicato sul Mattino del 19 giugno e scritto da Marco Salvia.

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MA IO STO CON SAVIANO
di Marco Salvia

pubblicato su “Il Mattino” del 19 giugno 2007

L’Italia è la terra degli insabbiamenti, la terra di quelli che «la mafia non ci risulta». Ma anche la terra in cui ogni immagine parziale che colpisca il fantomatico immaginario collettivo, diviene verità assoluta. Siamo poi prigionieri, come napoletani, di quei maledetti clichè che all’estero piacciono tanto. Prima nipotini di Totò e poi orfani di Troisi, ma sempre lì a identificarci in un ruolo stabilito da altri, a vederci con gli occhi degli altri. Ricordate il grande Massimo che sotto il ditone puntato si arrendeva alla fatidica interrogazione: «Emigrante? Sì». Ebbene, si arrendeva anch’egli al potere dell’idea preconcetta che il mondo ha in un modo o nell’altro su Napoli e sui napoletani, al meccanismo universale che afferma: se davvero così volete, così sarò. E oggi siamo di nuovo a questo punto.

Soprattutto dopo gli interventi sul Mattino di Raffaele La Capria della settimana scorsa e quello ieri di Andrea Di Consoli, una paura strisciante si rende palese, e diviene necessario, io che pure l’ho criticato per una sua (a mio parere) scivolata, spezzare oggi una lancia a favore di chi per primo ha scritto un romanzo che saputo richiamare grande attenzione su realtà gravi e assolutamente irrisolte della nostra terra: mi riferisco ovviamente a Roberto Saviano, ma non solo a lui, anche a tutti quegli autori che in modo sincero hanno voluto contribuire a portare alla luce il tanto malcelato volto oscuro della città e che ora sembrano quasi averlo creato loro quel marciume. Certo è da non credere come le cose possano rivoltarsi. Comunque, mi dispiace per il maestro La capria come per l’amico Di Consoli che, entrambi da Roma, ci segnalano quello che dovremmo vedere qui a Napoli, ma tali autori «terribilisti» non esistono e se i libri «sull’altra Napoli» sono andati male (ma poi quali sono?) forse è che non erano buoni libri. «Andare avanti» poi non credo significhi mettersi a scavare sotto l’immondizia per vedere se c’è qualcosa di carino da potervi raccontare. Andare avanti oggi in questa città significa proprio debellare la camorra, sottrarre hinterland e città alle quotidiane sparatorie, focalizzarsi sui problemi seri di vita civile e ricostruire una forza politica in rotta incapace di dare risposte, e questo con tutte le nostre forze. Guardare un bicchiere che non è più pieno nemmeno per metà non serve e fare finta che lo sia è da folli. Comunque capisco anche le lamentele di chi vede rappresentata la città sotto un unico aspetto, ma il fatto centrale che è accaduto e che ha prodotto questa impressione deriva dal possedere noi un’industria culturale talmente povera e senza idee, un mercato teatrale e cinematografico così asfittico, una televisione così scandalistica e ributtante che il successo del best-seller ha trascinato con sé un mare di paccottiglia usa e getta ed un esercito di speculatori: dai diari di camorristi a quelli delle vittime ad ogni tipo di «mischiafrancesca» e di trasmissione televisiva improvvisata in cui ci si poteva azzeccare vicino la parola camorra, tutto il peggio che si poteva produrre è stato prodotto. Ora si raschia il barile. Beh, questo schifo non può essere certo attribuito a Saviano (anche se le sue esasperazioni possono aver indispettito) o ai pochi che preparavano magari da anni lavori sul tema con intenzioni e progetti letterari chiari e seri e ci sono, ma è diretta responsabilità di quell’editoria anche cinetelevisiva, o pseudo tale, che si nutre delle briciole di ogni libro di successo, che sia il «Codice Da Vinci» o «Gomorra», e che finisce per trasformare ogni cosa in gadget, perfino la camorra. Nessuno scrive un libro pensando di dare un immagine assoluta della realtà, tutti scrivono, se sinceri, di quello che conoscono e vedono, e in ogni caso questa è per definizione una visione soggettiva e parziale. Se poi la gente è stupida, drogata dalla televisione e preferisce affrescare tutta Napoli con i colori da teatro granguignolesco sono fatti loro; se poi a qualcuno altro conviene buttare benzina sul fuoco, questa è ancora un’altra storia. Ma accusare chi in fondo ha fatto solo il suo mestiere scrivendo di ciò che ha visto anche se in forma romanzata, sembra davvero ingiusto. Napoli oggi soffre una grave situazione, andare oltre Saviano è una dichiarazione impegnativa quanto pericolosa. Tutti noi poi lo vorremmo, ma come vedete siamo ancora qui e credo sia anche un bene restarci. Anche a lungo, con pazienza. Forse qualcosa cambierà.
Marco Salvia

Fonte: Il Mattino
http://www.ilmattino.it/mattino/view.php?data=20070619&ediz=NAZIONALE&npag=29&file=6H2.xml&type=STANDARD
http://www.ilmattino.it/mattino/view.php?data=20070619&ediz=NAZIONALE&npag=40&file=RER.xml&type=STANDARD

Postato mercoledì, 27 giugno 2007 alle 22:52 da Articolo di Marco Salvia (da Cicerone 1)


Poi c’è quest’altro articolo pubblicato sul Mattino del 20 giugno e scritto da Francesco Piccolo.

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IL RACCONTO E L’APOCALISSE NECESSARIA
di Francesco Piccolo

pubblicato su “Il Mattino” del 20 giugno 2007

Porto una notizia confortante: forse un libro che racconti Napoli con tutta la potenza narrativa che ci vuole, io l’ho trovato. È un libro molto bello e allo stesso tempo terribile, perché è narrato con gli occhi di chi ha vissuto la città da bambino e poi se n’è andato; quando in un’altra parte del mondo (New York) ha sposato una donna della sua stessa «razza» e ha visto nascere due figli, ha detto: ma questi figli miei perché non devono crescere lì dove sono uguali a tutti gli altri, e non diversi? Così ha preso la famiglia, ed è ritornato nella città. E i suoi figli hanno visto che il mondo era pieno di bambini come loro. Lo scrittore si chiama Suketu Mehta, il libro si intitola Maximum City. Bombay città degli eccessi. È pubblicato da Einaudi. L’errore, forse, è cercare i libri su Napoli solo a Napoli. Il libro di Mehta è un grandioso libro su Napoli – almeno un napoletano non riuscirà a leggerlo in altro modo. E vi troverà il racconto dei quartieri poveri, di quelli ricchi, della questione dello spazio, della sporcizia. Vi troverà il racconto della città del sesso e di quella dello spettacolo. Vi troverà anche due capitoli interi e impietosi sulla malavita. Cioè, una versione indiana di Gomorra. Vi troverà la capacità umana di fare spazio a qualcun altro, sempre. Provate a leggerlo, e poi mi dite se è un libro su Napoli o no, se è un libro importante o no. Perché, mi sono chiesto, lo è? Perché è il libro di uno che ha sulla città sia uno sguardo interno sia uno sguardo esterno; quando è sentimentale, quindi, è allo stesso tempo addolorato e orripilato; quando è orripilato, è addolorato e commosso. La vecchia diatriba tra raccontare stando lontano o vivendoci, è risolta. Il narratore racconta la città per un solo motivo: perché la ama profondamente.
È questo il motivo ineliminabile (che forse coincide con quell’essere spietati con se stessi di cui ha parlato Perrella nel dibattito sul Mattino) per cui una intenzione di racconto riesce a farsi racconto necessario. La domanda successiva, per arrivare al dunque, è: ma è un libro apocalittico? Certo che lo è! Anzi, dico di più: non potrebbe non esserlo. Forse, nella discussione che sta venendo fuori su Napoli, non si fa questa distinzione: tra l’apocalisse necessaria e – per riprendere una definizione molto discussa di Sciascia – i professionisti dell’apocalisse. È questa invece la distinzione da fare: non si possono mettere sullo stesso piano la Ortese e il giornalista che intervista bambini accanto al cumulo di immondizia. Non è soltanto in nome della letteratura, ma è in nome della differenza tra necessità e professionismo. Per quel dolore e per quella necessità, esistono i romanzi di La Capria, Ortese, Ermanno Rea, per citare i libri che amo di più. Per questo esiste Malacqua, per esempio. E per arrivare ai giorni nostri: Gomorra ha dentro di sé un dolore, diciamo così, privato, e una conseguente necessità di racconto? Questo dolore e questa necessità sono visibili tra le pagine del libro? Secondo me, sì. Quindi, Gomorra è un libro che sa raccontare Napoli e la rivela. Se poi il libro ha il successo incredibile che ha avuto, si finisce per confondere la sostanza del libro con il suo risultato. Si vuole dire che c’è qualcosa di morboso in questo successo? Allora è una questione molto seria dal punto di vista sociologico, dell’animo umano – una questione che oltretutto potrebbe essere molto significativa riguardo a ciò che è Napoli nella testa dei lettori napoletani e del resto d’Italia. Ma in ogni caso la questione riguarda i lettori del libro, non il libro in sé. E chi dice che Saviano è il cantore della camorra, fa un errore molto grave e finisce per minare l’istinto più importante di uno scrittore: rivelare, svelare e perfino denunciare in nome dell’amore per la propria città. Non penso che Pascale, quando parla dell’apocalisse e dice che la rappresentazione del male allontana dalla realtà, stia facendo riferimento alla grande letteratura, ma proprio ai professionisti dell’apocalisse. In ogni caso fa un errore quando propone una «strategia»: non c’è tattica per i narratori, non può esserci, a meno che non diventino dei professionisti. Ma vorrei anche qui fare un distinguo: dovessi scegliere tra i professionisti dell’apocalisse e i professionisti della giustificazione, sarei dalla parte dei primi. Se penso che negli anni passati gli amabasciatori di Napoli nel mondo (dei libri) sono stati D’Orta e De Crescenzo, allora dico: più apocalisse! Di più! Perché alla fine, il modo di amare questa città è il modo di guardarla. Faccio un esempio: un mio amico ha comprato, qualche settimana fa, i biglietti per Napoli-Lecce, la partita che avrebbe dovuto portare il Napoli in serie A (ma poi la festa è stata rimandata): 1) Ha comprato i biglietti dai bagarini per una cifra di molte e molte volte superiore al costo reale, una cifra assurda 2) la domenica ha scoperto che il suo biglietto era falso 3) moltissimi altri biglietti sono risultati falsi 4) hanno aperto i cancelli e hanno lasciato entrare tutti i possessori di biglietto falso. Quando il mio amico ha raccontato questa storia, c’erano altre due persone oltre me. E hanno avuto due reazioni completamente diverse: una era entusiasta per la sequenza di accadimenti e la conclusione della storia; ha detto la frase classica: queste cose possono succedere solo a Napoli (e a Bombay, vorrei dirgli). L’altro era inorridito e indignato. In un consesso come il nostro, sarebbe stato additato come un apocalittico. Io sono dalla sua parte. E a proposito, alla fine del libro, Suketu Mehta racconta che prende moglie e figli e se ne torna a vivere a New York.
Francesco Piccolo

Fonte: Il Mattino
http://www.ilmattino.it/mattino/view.php?data=20070620&ediz=NAZIONALE&npag=29&file=UNO.xml&type=STANDARD
http://www.ilmattino.it/mattino/view.php?data=20070620&ediz=NAZIONALE&npag=39&file=GIRO.xml&type=STANDARD

Postato mercoledì, 27 giugno 2007 alle 23:01 da Articolo di Francesco Piccolo (da Cicerone 1)


Scusate il ritardo…

@ Elektra:
In risposta alla tua domanda. No, Iavazzo non è un membro di “Nazione Indiana”. Attualmente fanno parte di “Nazione Indiana”: Andrea Bajani, Gianni Biondillo, Francesco Forlani, Sergio Garufi, Andrea Inglese, Helena Janeczek, Franz Krauspenhaar, Mattia Paganelli, Christian Raimo, Andrea Raos, Jan Reister, Massimo Rizzante, Marco Rovelli, Roberto Saviano, Piero Sorrentino, Antonio Sparzani, Giorgio Vasta, Maria Luisa Venuta.

Ne approfitto per segnalare che, giorni fa (il 20 giugno) Sergio Garufi – di Nazione Indiana – è intervenuto sul post di Forlani con un commento in controtendenza (che vi scrivo qui): “questa polemica mi sembra una timida variante di quella che provocò sciascia col suo pezzo di 20 anni fa su “i professionisti dell’antimafia” (che potremmo magari chiamare “i professionisti dell’anticamorra”), e dà voce a un’insofferenza sommessa ma molto diffusa verso la costruzione del santino laico di saviano, che imporrebbe col suo enorme successo sia dispotici canoni letterari che virtuosi modelli comportamentali cui uniformarsi.”

Sullo stesso post ieri Gianni Biondillo (sempre Nazione Indiana) ha invitato tutti a stemperare i toni.

@ Francesco Iavazzo:
se vuole continuare a scrivere qui è il benvenuto, però deve (rubo il termine a Biondillo) “stemperare” i toni.
Il libro di Di Consoli (che sta andando molto bene, mi creda) tratta in maniera approfondita forte e originale anche il tema della disoccupazione. Le consiglio di leggerlo. E glielo consiglia anche Saviano (su Ibs).
Ho ricevuto una mail arrabbiatissima da Brontolo (dei 7 nani); mi scrive che se lei chiamerà ancora una volta in causa i nani da giardino le manderà il principe azzurro di Biancaneve. E poi dovrà vedersela con lui. Mi dicono che è un tipo tosto.
In bocca al lupo per il suo lavoro!

@ Miriam:
- “Fatevi promotori di una iniziativa grande, insieme e uniti per lanciare un’idea rigenerante”.
Io sono a disposizione.

@ Cicerone 1:
bravissimo!!!
Riusciresti a procurarmi l’articolo di La Capria pubblicato su “Il Mattino”?
E credo ci sia un articolo di Garufi su “Liberazione”.
Ce la fai? Ce la fate?
Notizie di Cicerone 2?

Postato giovedì, 28 giugno 2007 alle 00:00 da Massimo Maugeri


@ Sergio Sozi.

Innanzitutto ti riguarda per i complimenti per “Solo!”.
Però, per rispetto a ttutti i miiei fan, non posso certo considerami uno scrittore mediocre… ;-)
e, da quello che ho letto, non lo sei neanche tu!

(Seguirà un mio intervento sulla mia concezione di “fiaba”.)

Sergio Rilletti

Postato giovedì, 28 giugno 2007 alle 02:41 da Sergio Rilletti


Caro Sergio,

mi rifewrivo, parlando di mediocrita’, alla nostra condizione generale di uomini moderni. E dunque anche al fatto che, ne’ tu ne’ io, siamo degli Omero. E nemmeno dei Seneca o dei Socrate, eccetera – Tito Livio, Cicerone, Orazio…
Insomma: parlavo della condivisibile – e’ vero? – minorita’ della nostra condizione culturale e sprituale in confronto agli antenati. Io, insomma, Sergio mio, non ardisco paragonarmi a qualche frase dell’ Imperatore Adriano o Marco Aurelio. Tu. Tu?

Con Sincero Affetto

Sergio Sozi

Postato giovedì, 28 giugno 2007 alle 04:28 da Sergio Sozi


Ecco l’articolo di Garufi su Liberazione.
P.s. per Maugeri: Cicerone 2 è in vacanza. Cicerone 3 e 4 a battono la fiacca.

- – - –

SAVIANO, L’OSCURITA’ NON E’ IMMORALE
di Sergio Garufi

da Liberazione del 27 giugno 2007

Quando le terze pagine stavano dove dicevano di essere, sul Corriere apparve un articolo di Pontiggia il cui provocatorio incipit affermava: «a scuola mi insegnarono che tutte le volte che avevo intenzione di scrivere il verbo andare dovevo sostituirlo con recarsi. Ci misi molti anni per capire che era vero il contrario». Questa presa di posizione sarebbe magari piaciuta al Saviano teorico e citazionista, quello che di recente, illustrando la sua poetica dall’autorevole tribuna di Repubblica, ha sentenziato con Primo Levi che «la scrittura oscura è immorale». I miti di riferimento di questa idea edificante della letteratura sono quelli della spontaneità e dell’impegno. La scrittura deve essere militante, specchio e testimonianza del proprio tempo, e la lingua adoperata chiara e diretta, l’unica in grado di svegliare il lettore dal suo torpore. Pur non essendo nuovissimo (su queste questioni si scontrarono a suo tempo Moravia e Manganelli), il tema ha suscitato un acceso dibattito sulle pagine culturali de Il Mattino, e più di una voce (vedi Andrea Di Consoli e Antonio Pascale) si è alzata per contrastare questa “dittatura del realismo”, rivendicando pari forza e dignità ai testi di chi non affronti temi sociali e si esprima con stile ricercato.
Personalmente credo abbia ragione René Daumal, quando scriveva che «lo stile è l’impronta di ciò che si è su ciò che si fa», qualcosa che fa costitutivamente parte del nostro senso identitario, che è meno frutto di una scelta che un naturale riflesso del modo di essere di ciascuno. Ci si esprime come si mangia insomma, difatti la massima istituzione in questo campo si chiama Accademia della Crusca. Pure riguardo alla superstizione della chiarezza, ottenibile con un lessico semplice, conviene forse correggere alcuni sillogismi falsi e fuorvianti. Il linguaggio è per sua natura ambiguo e metaforico. E’ il tentativo di tradurre verbalmente un pensiero o un’immagine che fa grumo e resiste; e che, per essere trasmesso, necessita di vocaboli che si fanno al contempo tramite e schermo. Il segreto non consiste tanto nel trovare le parole acconce – per usare un’espressione di Roberto Longhi, che traduceva testi
figurativi in testi letterari -, perché la chiarezza non sta nei concetti o nelle parole, ma nel loro incontro. Per alcuni, come Fortini, questo incontro è impossibile, perché «la chiarezza è come la verginità, la si possiede solo nel momento in cui la si perde»; mentre per altri, come Derrida, questo incontro non era neppure auspicabile. Ne Il gusto del segreto il francese dice chiaramente: «se la trasparenza dell’intelligibilità fosse assicurata distruggerebbe il testo, mostrerebbe che non ha avvenire alcuno, che si consuma immediatamente; dunque una certa zona di misconoscimento e incomprensione è anche una riserva».
Detto in modo un po’ complicato, il messaggio è: diffidate della semplicità.
Quando un’argomentazione è semplice e lineare significa che c’è identità fra esposizione e pensiero, o piuttosto che le complessità sono state occultate, rimosse? Per molta narrativa italiana la mimesi dell’oralità s’ispira ai dibattiti da talk-show televisivo, ma quello è proprio il modo migliore per assecondare le ischemie dell’attenzione di un pubblico sempre più distratto e anestetizzato, cui rivolgersi con un linguaggio rassicurante e consolatorio perché iterativo, pleonastico e brachilogico; un balbettio fatto di anacoluti, di concetti basici ripetuti all’infinito, di continui punti e a capo, che mitridatizza ogni esperienza al fine di persuaderci che il mondo è comprensibile e dominabile. Non a caso propone l’essere conformi come ideale di sanità, mentre è il tratto più evidente della malattia, dato che «una vita che non si individua – come diceva Jung – è una vita sprecata». Questo linguaggio risulta inoltre offensivo perché miseramente apodittico, ci tratta come lobotomizzati ai quali spiegare perfino un truismo, e per molti versi ricorda la gestualità tautologica di Piero Angela, che accompagna le sue parole con movimenti della mano che ribadiscono i medesimi concetti. In questo senso, parlar difficile può voler dire rifiutare facili dicotomie, introdurre anticorpi di vigilanza critica all’interno del senso comune, e ciò non lo si può certo liquidare come una forma di disimpegno. Questo benedetto impegno poi, che basta nominarlo per guarire dalle scrofole, spesso evocato proprio da coloro che sono meno legittimati a farlo (non l’autore di Gomorra, ovviamente), somiglia molto al parente ricco, che non è mai così benaccetto come quando se ne può denunciare la scomparsa. E’ la sua funzione precipua, il mancare. Iosif Brodskij, uno che patì l’esilio, lo spiegò bene nel discorso di accettazione del Premio Nobel. E’ il popolo a dover parlare la lingua della letteratura, non il contrario; ed è l’estetica la madre dell’etica, non viceversa. Solo così, per dirla con Saviano, si ha «una scrittura più simile al morso di una vipera che a un acquerello di fantasie».

Fonte: Liberazione.it
http://www.liberazione.it/giornale_articolo_ricerca.php?id_articolo=72106

Postato giovedì, 28 giugno 2007 alle 09:29 da Articolo di Sergio Garufi (da Cicerone 1)


@ Biancaneve

Scusa, Brontolo mi eliminerebbe e chiedo venia anche al principe azzurro.

Postato giovedì, 28 giugno 2007 alle 11:17 da Francesco Iavazzo


@ Tutti:
Sulla colonna sinistra del blog potete leggere quanto segue:

AVVERTENZA
“La libertà propria, anche di espressione, può essere esercitata solo nei limiti del rispetto altrui. Commenti ritenuti offensivi – o non rispettosi di persone e opinioni – potrebbero essere tagliati, o modificati, o rimossi. Nell’eventualità, siete pregati di non prendervela. Chi è contrario alla suddetta regola non è obbligato a frequentare questo blog.”

Postato giovedì, 28 giugno 2007 alle 15:18 da Massimo Maugeri


La libertà con limiti è una libertà castrante come i libri della Cilento. Anarchia! Ciao Massimo!

Postato giovedì, 28 giugno 2007 alle 17:32 da Iavazzo


Francesco, ribadisco ancora una volta che per me i libri di Antonella Cilento, così come di Di Consoli, o di Saviano, o di altri autori qui intervenuti sono libri buoni. Poi, possono piacere oppure no. Per alcuni possono avere effetto castrante, per altri effetto liberatorio. Ma non era questo il tema del post.
Come avevo già scritto nel mio breve articolo: “Credo che la crescita intellettuale si basi sul confronto, a volte sulla contrapposizione, di tesi e idee. Ma confronto e contrapposizione genereranno crescita solo se mantenuti entro i margini di una dialettica civile. Le risse verbali tendenti al linciaggio non servono a nessuno”.
Questo pensavo e questo continuo a pensare.
Libertà illimitata, per me, è un ossimoro. La mia libertà trova argini nel rispetto del mio prossimo. E all’anarchia preferisco una democrazia rispettosa.
Ti auguro, in tutta sincerità e di vero cuore (mi devi credere), che possa trovare un lavoro con il quale realizzarti. Cosa non facile di questi tempi.
Buona vita.
Ciao Francesco!

Postato giovedì, 28 giugno 2007 alle 18:02 da Massimo Maugeri


Bravo Massimo. Sono d’accordo. Mi sembra molto ragionevole.

Postato giovedì, 28 giugno 2007 alle 22:15 da Elektra


Grazie Elektra.

Postato giovedì, 28 giugno 2007 alle 23:12 da Massimo Maugeri


A proposito di don Chisciotte, Gesualdo Bufalino scrisse “l’unico, insomma, per cui si possa dire, contro Goya, che il sonno della ragione genera angeli”.
Tutti gli scrittori a Napoli , come angeli chisciotti, per la stesura del Grande Codice. Un codice per un comportamento responsabile, partecipato, creativo e continuo. Responsabilità, partecipazione, creatività, continuità: come liberté, ég
alité ecc.
Mai più sole, le istituzioni di Napoli saranno vegliate a turno dagli scrittori ( della città, del Sud, dell’Italia intera e oltre) che parteciperanno alle sedute, ai consigli comunali, provinciali, regionali e di questo scriveranno. Passandosi la staffetta, potrebbero partecipare e vegliare sui consigli di Amministrazione delle Università, delle Banche, degli Enti pubblici e, con la loro fantasia e creatività , raccontare. Trasfigurando il Bene possibile in tante altre possibili azioni, microazioni; come il microcredito per i poverissimi dei paesei in via di sviluppo. Microprogetti didattici, adottati dagli scrittori, dagli artisti per l’avvio di benefiche “catene”. . E si potrebbe continuare…

Postato venerdì, 29 giugno 2007 alle 14:05 da miriam ravasio


Per Miriam. Proposta interessante. Speriamo che qualcuno la raccolga.

Postato venerdì, 29 giugno 2007 alle 19:12 da Elektra


D’accordo con te su tutta la linea, Miriam, solo che i microfinanziamenti sarebbero piu’ utili ai napoletani stessi, magari, non credi?

Un abbraccio

Sergio

Postato sabato, 30 giugno 2007 alle 00:35 da Sergio Sozi


E’ vero! L’economia fa sempre la sua parte… ma uno scritto, una lezione, un tema proposto da… non costano molta fatica; un impegno volontario piccolo come un microcredito, ma grande nella sua potenzialità civile e sociale. Ciao

Un abbraccio, Miriam

Postato sabato, 30 giugno 2007 alle 15:43 da miriam ravasio


è da un po’ che non mi collego. acc…, quanti messaggi!

maugeri, questa tua risposta a iavazzo mi ha fatto ridere di gusto per un bel po’.

iavazzo: “Morirete senza raggiungere un millesimo della bravura e della potenza di questo ragazzo”.

maugeri: “Sì, ma speriamo il più tardi possibile”.

sei forte!

Postato lunedì, 2 luglio 2007 alle 09:51 da gennaro iozzia


@ Sergio Sozi (e tutti i tipi “fiabeschi”)

Caro Sergio, scusa se ti rispondo solo ora ma ho dovuto dedicarmi ad un paio di lavori.

Bah!… Io, di solito, mi paragono a qualcuno solo quando voglio fargli un grandissimo complimento; quindi non mi paragono mai agli autori del passato perché ormai, dei miei complimenti, non saprebbero che farsene!

Vabbe’… comunque… Tornando a parlare di fiabe, io, per esempio, cerco di trattare il tema dell’handicap e della diversità in tutti i modi possibili. Anche sotto forma di fiaba.
Ho scritto un racconto, “Il cappello del prete” – pubblicato nell’antologia “Borsalino – Un diavolo per cappello” (Robin Edizioni) -, che è un hard boiled in puro stile Mickey Spillane narrato, però, in prima persona dal cappello del detective. Il cappello, che può solo vedere e ascoltare ma non può muoversi né comunicare, diventa così un forte emblema dell’emblema dell’handicap, facendo acquisire al racconto una dimensione quasi fiabesca.
Inoltre ho scritto una vera e propria fiaba per bambini, spero di prossima pubblicazione, in cui tratto il tema dell’handicap e della diversità in modo fantastico e avventuroso.

Scrivere fiabe oggi, secondo me è possibile. E io, c-he adoro cimentarmi su tutto, lo faccio.

Sergio Rilletti

Postato giovedì, 5 luglio 2007 alle 12:07 da Sergio Rilletti


Nei prossimi giorni sarò fuori sede e difficilmente avrò la possibilità di “controllare” il blog. Per cui ho deciso di chiudere, almeno fino al mio rientro, lo spazio commenti a questo post.
Chi avesse qualcosa da aggiungere può scrivermi a letteratitudine@gmail.com
Provvederò io stesso a inserire i suddetti testi tra i commenti quanto prima.

Postato venerdì, 6 luglio 2007 alle 06:21 da Massimo Maugeri



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