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Archivio di aprile 2007

lunedì, 30 aprile 2007

UNA NUOVA STAGIONE PER L’HORROR ITALIANO ”NYMPHA” di IVAN ZUCCON

Nympha NyMpha è il nuovo horror del promettente regista Ivan Zuccon che abbiamo avuto modo di apprezzare nel claustrofobico e allucinato Bad Brains (2006) e nei precedenti The Shunned House (2003) e The Darkness Beyond (2000) ed è un vero peccato che certe pellicole abbiano mercato soltanto negli Stati Uniti. In Italia il nome di Ivan Zuccon non è noto perché i grandi produttori non rischiano con una pellicola horror nostrana e certi film sono realizzati da produzioni indipendenti. Sono finiti i tempi della Filmirage di Aristide Massaccesi e la factory di Dario Argento non è decollata, se mai qualcuno avesse avuto davvero intenzione di metterla in piedi. Michele Soavi, unico frutto di quella scuola, adesso gira film televisivi su San Francesco e Nassiria, dopo aver prodotto opere interessanti come “La Setta”, “La Chiesa” e ,”Dellamorte Dellamore”.

Il nuovo film di Zuccon è girato interamente in inglese e sottotitolato in italiano, sia perché la storia parla di una ragazza inglese che deve farsi suora, sia perché in questo modo è più facile venderlo oltreoceano. NyMpha è un interessante tonaca – horror che a tratti ricorda La monaca nel peccato di Joe D’Amato, ma che ha una sua precisa originalità. Il film racconta la storia di Sarah (un’affascinante ed espressiva Tiffany Shepis), una ragazza inglese che vuole farsi suora di clausura in Italia nel convento del Nuovo Ordine. Sarah è costretta a incontrare Dio in modo orribile, attraverso operazioni chirurgiche effettuate da un medico prezzolato che la priva di udito, vista, tatto e parola. Non è certo Dio l’entità misteriosa che governa le sorti del convento e che spinge un gruppo di suore allucinate a compiere azioni inquietanti. Zuccon è molto bravo a tratteggiare i caratteri dei protagonisti e a spingere lo spettatore dentro una spirale orrorifica che si dipana con grande tensione e scene a effetto. Sarah soffre per le torture praticate e rivive visioni relative al passato del convento, ma soprattutto ripercorre la triste sorte di una ragazza di nome Nympha. Per correttezza nei confronti dello spettatore è bene non rivelare la parte che vede protagonista un nonno vittima di una follia religiosa che lo porta a compiere atti orrendi. Nympha viene educata al timore di Dio, crede che nella soffitta di casa ci sia un’entità misteriosa affamata di carne umana, vede il sangue uscire da porte e finestre, sente dentro di sé il terrore del passato. Le scoperte di Nympha e di Sarah sconvolgeranno le loro vite ma pare scontato che per entrambe resta una sola via d’uscita. NyMpha è una storia horror a sfondo religioso, scritta e sceneggiata da Ivan Zuccon e Ivo Gazzarrini, che sfrutta effetti speciali interessanti, atmosfere cupe e claustrofobiche già viste nel precedente Bad Brains ed effetti gore e splatter che seguono la lezione del miglior Fulci. Il film si pone come continuatore della tradizione horror italiana e miscela parti orrorifiche a parti erotiche, soprattutto a sfondo lesbico. È interessante ricordare il sogno di Sarah mentre immagina di far l’amore con Nympha in una scena molto ben girata e recitata con grande naturalezza. La fotografia è cupa, il colore dominante è un verde scuro, la maggior parte delle azioni si svolgono di notte. Gli effetti speciali sono ben realizzati, soprattutto le scene di sangue che filtra dalle pareti, le feroci mutilazioni praticate su Sarah e le sequenze dove sciami di mosche volano su cadaveri decomposti. Un horror angosciante e cupo, basato sui ricordi e girato con la tecnica del flashback resa da continue e brusche dissolvenze. Nella pellicola sono presenti citazioni da vecchi horror italiani, forse inconsapevoli e frutto del background culturale di regista e sceneggiatore. La mente va a Dario Argento sia nella scena con la piccola Nympha che vede accanto un cavallo a dondolo, così come si pensa a Phenomena durante la sequenza con lo sciame di mosche. Alcune parti girate al convento ricordano Joe D’Amato (La monaca nel peccato, Immagini di un convento), ma pure il taglio della lingua, efferato e credibile, fa venire a mente una scena di Caligola interpretata da Michele Soavi. Sono presenti anche suggestioni dall’opera di Lucio Fulci, vero poeta del gore e dello splatter, il regista italiano che meglio ha saputo filmare la morte. NyMpha è tutto girato in interni ma in alta definizione e verrà distribuito sul mercato Home Video. Le ultime notizie raccolte da fonti sicure dicono che Bad Brains uscirà a luglio per Mikado e NyMpha verrà proiettato il 30 maggio al Salento Fearfest in anteprima, in concorso.

Scheda tecnica di NyMpha

Diretto da: Ivan Zuccon.

Scritto da: Ivan Zuccon, Ivo Gazzarrini.

Cast: Tiffany Shepis, Allan McKenna, Caroline DeCristofaro, Michael Segal, Alessandra Guerzoni, Francesco Primavera, Giuseppe Gobbato, Caterina Zanca, Federico D’Anneo.

Anno: 2007

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

Gordiano Lupi (Piombino, 1960). Capo redattore de Il Foglio Letterario e Direttore Editoriale delle Edizioni Il Foglio. Ha tradotto i romanzi del cubano Alejandro Torreguitart Ruiz: Machi di carta (Stampa Alternativa, 2003), La Marina del mio passato (Nonsoloparole, 2003), Vita da jinetera (Il Foglio, 2005), Cuba particolar – Sesso all’Avana (Stampa Alternativa, 2007). I suoi lavori più recenti sono: Nero Tropicale (Terzo Millennio, 2003), Cuba Magica – conversazioni con un santéro (Mursia, 2003), Cannibal – il cinema selvaggio di Ruggero Deodato (Profondo Rosso, 2003), Un’isola a passo di son – viaggio nel mondo della musica cubana (Bastogi, 2004), Quasi quasi faccio anch’io un corso di scrittura (Stampa Alternativa, 2004), Orrore, erotismo e pornografia secondo Joe D’Amato (Profondo Rosso, 2004), Tomas Milian, il trucido e lo sbirro (Profondo Rosso, 2004), Le dive nude – vol. 1 – il cinema di Gloria Guida e di Edwige Fenech (Profondo Rosso, 2005), Serial Killer italiani (Editoriale Olimpia, 2005), Nemici miei (Stampa Alternativa, 2005), Il cittadino si ribella: il cinema di Enzo G. Castellari – in collaborazione con Fabio Zanello – (Profondo Rosso, 2006), Filmare la morte – Il cinema horror e thriller di Lucio Fulci (Il Foglio, 2006) e Orrori tropicali – storie di vudu, santeria e palo mayombe (Il Foglio, 2006). Il suo ultimo libro è il saggio Almeno il pane Fidel – Cuba quotidiana (Stampa Alternativa, 2006). Di prossima pubblicazione: Dracula e i vampiri (in collaborazione con Maurizio Maggioni – Profondo Rosso, 2007), Il cinema di Luigi Cozzi (Profondo Rosso, data da stabilire) e Il cinema di Sergio Martino (in collaborazione con Fabio Zanello – Profondo Rosso, da stabilire). Pagine web: www.infol.it/lupi. E-mail per contatti:  lupi at infol.it

Ha preso parte ad alcune trasmissioni TV come Cominciamo bene le storie di Corrado Augias (libro Serial killer italiani), Uno Mattina di Luca Giurato (libro Serial killer italiani), Odeon TV (trasmissione sui Serial killer italiani) e La Commedia all’italiana su Rete Quattro (dove ha parlato di Gloria Guida e di commedia sexy). È stato ospite di alcune trasmissioni radiofoniche per i suoi libri e soprattutto per il saggio su Cuba intitolato Almeno il pane Fidel che sta facendo discutere. I suoi libri sono stati oggetto di numerose recensioni e segnalazioni che si possono leggere al sito www.infol.it

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venerdì, 27 aprile 2007

QUEL GENIO COSTRUITO DI JOHN COLTRANE (articolo di Roberto Alajmo)

Roberto Alajmo

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Su una cosa concordano tutti gli amici d’infanzia e i compagni di scuola, persino i parenti di John Coltrane: non era una cima. Eufemismo classico per mascherare lo sbigottimento di vedere un mediocre trasformarsi in genio universale conclamato.

John Coltrane

D’accordo, nessuno è un grand’uomo per il suo cameriere (e per i suoi compagni di scuola, e per certi parenti); ma nel caso di JC siamo di fronte a un fenomeno esemplare di genio costruito con la forza della volontà. Altro che Mozart: a parte la morte prematura, con Mozart c’è poco talento naturale in comune. Anche i primi amici musicisti non lo ricordano come un gran che. JC viene fuori poco alla volta, come una specie di diesel, ascoltando gli altri e facendo osmosi. Esercitandosi in maniera ossessiva, cercando la propria strada, sbagliando in continuazione e correggendosi ogni volta. È la prova vivente della convinzione di Hemingway: il genio è al cinque per cento ispirazione e al novantacinque per cento traspirazione. Intesa come fatica, sudore della fronte. Niente infanzia prodigiosa, niente talento innato, per JC. Lui fa marchettoni nei locali, suona nelle bande militari, monta in piedi sul banco dei bar per fare spettacolo, soffre di complesso di inferiorità quando le prime volte Miles Davis lo chiama a suonare con lui, e per giunta gli fa delle gran cazziate. Anche a suonare il sax tenore ci arriva per caso, quando un collega dimentica lì il suo strumento e lui comincia a soffiarci dentro. Usa sempre un certo tipo di ancia rigida, ne prova un’altra, cambia idea e sale di un altro gradino sulla scala della genialità. Ecco, un gradino dopo l’altro JC sale la sua scala fino in cima. Supera i diversi piani dell’autodistruzione e ne esce incolume. Diventa persino vegetariano e mezzo mistico senza smarrire il furore che anima la sua musica, una contraddizione che fa impazzire Ravi Shankar. Poi, a quarantun’anni gli viene un cancro, bum, e muore nel giro di qualche settimana. Sale, sale, sale. Un gradino dopo l’altro, con enorme fatica. Dopodichè la scala finisce e sotto c’è un precipizio. Come la fatica di Sisifo: solo che oltre a essere Sisifo, JC è anche il macigno che precipita dall’altra parte.

Roberto Alajmo

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Roberto Alajmo è nato a Palermo nel 1959. Fra i suoi libri: Le scarpe di Polifemo (Feltrinelli, 1998), e Notizia del disastro (Garzanti, 2001), col quale ha vinto il premio Mondello. Con Mondadori nel 2003 ha pubblicato il romanzo Cuore di Madre, finalista ai premi Strega e Campiello. Nel 2004 è uscito Nuovo repertorio dei pazzi della città di Palermo e nel 2005 il romanzo È stato il figlio, finalista al premio Viareggio e vincitore del SuperVittorini e SuperComisso.
Con Laterza, sempre nel 2005, ha pubblicato il saggio Palermo è una cipolla.

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Questo video di John Coltrane lo offre la ditta. Cliccate (un paio di volte) sul simbolo play in basso a sinistra del quadrante se volete rimanere in questa pagina. Massimo Maugeri

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giovedì, 26 aprile 2007

IL PADRE DEGLI ANIMALI di Andrea Di Consoli (recensione e intervista)

“Cosa se ne fa il mondo rotondo del corpo morto di un uomo che è nato sulla collina, e poi muore a Zurigo, circondato da scienziati giapponesi e da operai della Serbia, un uomo che come tanti ha cercato il bene migliore?”

“Cosa se fa il mondo rotondo dei nostri corpi di padri e figli che si sono addormentati così vicini da bersi il fiato per notti intere?”

Due domande. La prima è l’incipit del libro, la seconda la si trova pochi capoversi dopo.

Due frasi, due domande, estrapolate da Il padre degli animali, romanzo d’esordio di Andrea Di Consoli, già autore della raccolta poetica Discoteca (2003) e del libro di racconti Lago negro (2004).

Credo sia significativo che l’incipit di questo libro coincida con una domanda. Una domanda, in genere, è frutto di riflessione e, dunque, in questo caso, primo indizio di un’opera narrativa che già dall’inizio promette importanti livelli introspettivi. Promessa che verrà mantenuta fino in fondo.

Il padre degli animali, narra la storia di un rapporto particolare tra un padre e un figlio.

Il padre è un uomo che dopo lunghi anni di emigrazione ha deciso di ritornare ai propri luoghi, di abbandonare l’efficiente, ma forse algida, Svizzera (Zurigo) per riabbracciare un Sud – epicamente raffigurato in una valle e una collina senza tempo – problematico, conflittuale, persino paradossale, ma al tempo stesso genuino e autentico.

Il figlio osserva il padre. Lo osserva e lo ascolta. O almeno tenta di ascoltarlo, perché dalla voce del padre attende risposte capaci di placare il proprio senso di smarrimento e in grado di esorcizzare le proprie paure. La paura della malattia, la paura della morte. La paura di non sopravvivere al proprio senso di inadeguatezza.

Il padre dice al figlio: “Non devi mai avere paura delle malattie, perché il corpo degli uomini dura poco, pezzo dopo pezzo si consuma”. E prosegue dicendo: “È inutile avere paura, perché la vita è troppo breve per avere paura. Spingi in avanti tutta la vita, come i delfini quando vanno lontani nell’oceano, e vai sicuro, non farti mai toccare dalla paura.”

Il padre parla e il figlio ascolta. Il padre dice anche che: “Un vero uomo convive con il dolore”. Ma il figlio ha paura. Il figlio dice: “Papà, io ho paura dei serpenti”. E il padre risponde: “Non devi avere paura dei serpenti. Tu devi ucciderli, ma dopo che li hai uccisi devi avere pietà, perché sono indifesi. E anche seppellire, li devi, perché ogni creatura su questa terra deve essere seppellita.”

Il padre parla e tenta di indicare una strada al figlio, un percorso di vita, una strategia di sopravvivenza. Parla e a volte sbaglia, a volte si smarrisce.

Il figlio ascolta il padre, ma si dimentica – o forse non sa – che il padre è anche figlio e che anche lui, che ora è figlio, un giorno sarà padre. Non pensa, o forse si rifiuta di pensare, il figlio, che il padre è uomo e che in quanto tale è soggetto a errori e fallimenti.

Il rapporto padre/figlio, dunque, è il cuore del romanzo. Un rapporto di forza e debolezza, di amore e perplessità. Un rapporto destinato a essere imperfetto, eppure indispensabile.

Ma c’è dell’altro, in questo libro. C’è l’illusione del cambiamento di una società che, forse, è immutabile fino alle radici. C’è la speranza che sprofonda nel fallimento e un fallimento capace di generare speranza. E poi le storie: di zio Cotura, del barbiere-assessore, di don Eugenio, dello stesso Padre. E di Angela, unica figura femminile ad apparire in questo romanzo popolato da uomini.

Un romanzo poetico, dai toni biblici, che va controcorrente nella misura in cui segna il ritorno alla metafora e ai miti, forse eccessivamente – e indebitamente – allontanati dalla nostra letteratura, un po’ troppo adusa – negli ultimi tempi – a prestare orecchio, occhio e denaro a pornoromanticismi d’occasione e a storielle di stagione.

Vi propongo due brani – estrapolati dal romanzo – che, in minima parte, possono restituire la cifra lirica di questo libro. Due brani dove si alternano e s’intrecciano amore e dolore, vita e morte, speranza e disperazione.

“Svegliarsi la mattina e lavarsi la faccia con l’acqua fredda; affacciarsi sulla strada deserta, ed essere soli, ma mai così soli da non sperare nel bene migliore; credere, mentre si beve il primo caffè del giorno, che tutto sarà migliore, che verrà l’amore a scacciare i brutti pensieri che bloccano la vita; godere del mattino che porta un po’ di dimenticanza del dolore, come un mare che si presenta calmo all’alba, col respiro quieto; infilarsi in uno spiraglio che un giorno ti offre, anche se niente cambia, e percorrere questo spiraglio tutt’intero, senza voltarsi; essere uomini fino in fondo, con le ginocchia salde anche quando il pavimento sembra muoversi; e imparare a dimenticare, a non pensare, a non vedere, anche quando la mente vuole ricordare, pensare, vedere; ignorare la nozione di futuro, perché tutto il dolore nasce dai ricatti del futuro.”

“Tutti i morti della valle e della collina non sono veramente morti: stanno, di notte, all’imbocco del bosco, e stanno nel cuore delle persone vive. Quando i morti sono disperati per la loro stessa morte, si girano, stringono i pugni, e a quel punto le persone che ancora sono in vita sentono le fitte al petto e alla spalla. Nessuno muore mai veramente, perché nessuno avrebbe voluto morire per davvero: per questo i morti sono anime dolci da chiamare, anime da consolare, anche se hanno l’occhio secco di paglia. Nessuno però deve storcere il muso quando c’è l’amore, quando c’è la salute, quando c’è appetito, perché sennò i morti spengono la testa con un respiro, spingono le persone lì dove si vede l’ultimo precipizio. I morti chiedono ai vivi di vivere pienamente la maestà del giorno. I morti, certe volte, vorrebbero raddrizzare una testa che cade. I morti, poi, sono pieni di rimorsi, perché l’amore muore, l’amore è colpa: l’amore, quando si muore, è un tormento infinito, eterno.”

Massimo Maugeri

INTERVISTA AD ANDREA DI CONSOLI

Il padre degli animali è un titolo forte, evocativo. Evoca l’immagine di un padre che ha un rapporto – appunto – filiale con gli animali, un padre che – al tempo stesso – deve però gestire un rapporto spesso conflittuale con il figlio. A cosa è dovuta la scelta di questo titolo?

Il titolo allude al fatto che il padre del libro, a un certo punto, decide di chiamarsi fuori dalla storia dei “commerci umani”, trovando negli animali una sorta di pace, ma anche un profondo insegnamento, perché gli animali accettano il destino senza troppi crucci, cioè senza troppa angoscia. 

- Secondo te la figura paterna che emerge dal libro è un po’ mitizzata? E quale dovrebbe essere a tuo giudizio il ruolo del padre nella realtà contemporanea? Il padre dev’essere amico o solo padre? E la figura paterna può essere inficiata dalla cosiddetta equiparazione dei sessi?

E’ una domanda enorme, però voglio provare a rispondere. I padri, dal mio punto di vista, sono figure enormi, appunto mitiche. I padri condannano e salvano come avessero un potere divino. A mio avviso i padri dovrebbero sempre lasciare nei figli delle cicatrici di amore e di dolore. Tutto questo rende la vita più forte, più colossale. Oggi molti padri non hanno né il coraggio di sbagliare né il coraggio di indicare rotte. In una parola: molti padri contemporanei sono stupidamente democratici. Odio la “democrazia” sentimentale e affettiva. Quando si parla di amore, di amore vero, si arriva sempre, inevitabilmente, alla vischiosità, alla morbosità, al legame disperato e brutale. Solo i padri forti, che sanno farsi odiare, sono davvero amabili. 

- È piuttosto evidente che questo libro ha un taglio autobiografico. Ma fino a che punto Il padre degli animali può definirsi romanzo autobiografico? Fino a che punto Andrea Di Consoli è il figlio che appare nel libro? O è un po’ anche il padre?

C’è molto di autobiografico ne “Il padre degli animali”, anche se tutto è “gonfiato” in senso mitico. Però sono più il figlio che il padre. Io ho le sperdutezze e le paure del figlio.

- Un giorno tuo figlio leggerà questo libro ed è possibile che cercherà risposte nella lettura. Ci hai mai pensato?

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Ci ho pensato moltissimo. Non so cosa penserà, un giorno, leggendo questo libro. Vorrei solo che lui capisse la mia forza e la mia debolezza come due estremi del mio amore violento per la vita.

- La malattia, la paura della morte, emergono con forza dalle tue pagine. La malattia considerata come una sorta di tremenda spada di Damocle, come qualcosa di perennemente incombente, una sorta di cappa capace di compromettere l’esistenza (per certi versi viene in mente Everyman,  il più recente romanzo di Roth). È così?

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La malattia e la morte sono le mie costanti ossessioni. Sono, tecnicamente, un ipocondriaco ossessivo, che vive ogni giorno come fosse l’ultimo. Certe volte cammino per strada e mi dico: fra tre mesi non potrò più esserci, sarò chiuso in una bara. Amo troppo tutto questo (il mondo, le persone, i sentimenti) per poter accettare che da un giorno all’altro possa finire tutto. Non capisco il senso del dolore, della sofferenza e della morte. Vivo la prospettiva della fine come una vera malattia. Sono, infatti, un ansioso ossessivo, cioè una persona che vive con disagio il nulla incombente.   

- Leggendo il libro si percepisce, di tanto in tanto, una sorta di impronta biblica. È una percezione errata?

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No, è una percezione esatta. Amo l’Antico Testamento come pochi altri libri, e l’Antico Testamento entra di prepotenza nelle pagine del mio romanzo.

- Il padre degli animali è anche un romanzo fortemente lirico. Molto letterario. Poetico, potremmo dire. In tal senso si distingue dai prodotti ricorrenti dell’odierna industria editoriale. Qual è la tua posizione da questo punto di vista? Auspichi un ritorno più netto dei miti e della metafora in letteratura?

Il linguaggio letterario, dal mio punto di vista, è una treno che tu guidi avendone perso il controllo. La letteratura è perdere il controllo del linguaggio. E’ la minaccia del deragliamento. Bisogna essere molto coraggiosi per fare letteratura. La vera letteratura fa sempre male (ti fa sempre male). Tutto il resto è buona letteratura, cioè un rischio calcolato.

NOTE BIOGRAFICHE

Andrea Di Consoli è nato a Zurigo nel 1976 da genitori lucani. Attualmente vive a Roma, dove lavora ai programmi radiotelevisivi della Rai. Collabora inoltre a «l’Unità», a «La Sicilia» e a varie riviste, inoltre scrive sul «Messaggero» e «Nuovi Argomenti». Ha pubblicato il saggio Le due Napoli di Domenico Rea (Unicopli 2002), la raccolta di poesie Discoteca (Palomar 2003) e i racconti di Lago negro (L’ancora del Mediterraneo 2005).

IL PADRE DEGLI ANIMALI di Andrea Di Consoli

Rizzoli, 2007

pag. 192, euro 16,50

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martedì, 24 aprile 2007

UN CODICE DI CONDOTTA PER I BLOGGER?

La rivista NovaMagazine ha pubblicato di recente un articolo molto interessante riprendendo, a sua volta, il post di un blogger anglofono: Tim O’Reilly.

O’Reilly propone una sorta di "Codice di condotta per i blogger". Motivo? Molto spesso i blog sono frequentati da molestatori o disturbatori.

Il problema c’è. Esiste. È reale. Inutile nasconderselo. Di casi che rientrano nelle fattispecie di cui sopra se ne potrebbero citare tanti. Per restare nell’ambito dei blog letterari vi segnalo – ed è un esempio "a basso livello di gravità" – quanto accaduto sul blog Lipperatura di Loredana Lipperini proprio pochi giorni fa.

Vi propongo, di seguito, l’intero articolo – che ho ricevuto per mail dalla redazione di NovaMagazine – in maniera tale che se ne possa discutere tra noi.

La domanda è: codice o non codice per i blogger ?  Può essere utile o è solo una perdita di tempo ?

Dite la vostra, please. (Dopo aver letto l’articolo, s’intende).

Tutto è cominciato il 31 marzo scorso, quando Tim O’Reilly ha postato il suo Call for a Blogger’s Code of Conduct, Appello per un codice di condotta blogger. Però forse prima bisognerebbe spiegare chi è Tim O’Reilly: editore di libri di informatica dal 1978, è un sostenitore degli standard aperti per il software  e soprattutto negli ultimi anni è emerso come uno dei promotori più convinti del cosiddetto Web 2.0. Insomma, un guru di Internet.

Dicevamo dell’appello per un codice di condotta dei blog, i diari online che fioriscono a decine di milioni (soltanto Technorati afferma di censirne oltre 75 milioni) e che nei paesi democratici non hanno generalmente alcuna limitazione, se non quella del codice penale. E allora perché varare norme di comportamento? Per limitare la diffusione del Cyberbulling, ovvero “una nuova e crescente pratica di utilizzare la tecnologia per molestare o angariare qualcuno”. Fenomeno che chi ha un blog o chi ne frequenta conosce, anche solo per sentito dire.

Il primo post di O’Reilly che conteneva 7 regole capitali (Prenditi la responsabilità non solo delle tue parole, ma anche dei commenti che consenti sul tuo blog; indica il tuo livello di tolleranza per i commenti offensivi; considera la possibilità di eliminare i commenti anonimi; ignora i troll, cioè, per semplificare i provocatori; sposta la conversazione offline e parla direttamente, o cerca un intermediario che lo faccia; se sai che qualcuno si comporta male, diglielo: non dire nulla online che non diresti anche di persona), si è poi evoluto in una prima bozza di codice, che pubblichiamo in italiano più sotto, e che ha provocato numerose discussioni sul web, oltre a più di 300 commenti al post di O’Reilly.

Dopodichè è stato lo stesso autore a dare conto delle critiche più diffuse al suo codice. Critiche che riguardano l’uso di simboli per affermare che un blog è “civile”, la necessità di un codice più modulare. Critiche sull’anonimità che va stigmatizzata secondo le occasioni, non tout court, critiche sull’applicabilità legale. O’Reilly ha riposto, accogliendo molte indicazioni e aprendo a modifiche del Codice, ma ha anche ribadito la sua tesi di fondo: civility matters, essere civili è importante.

UNA BOZZA DI CODICE DI CONDOTTA PER I BLOGGER
Celebriamo la blogosfera come luogo di franco e aperto confronto. Ma franchezza non deve significare mancanza di un comportamento civile. Presentiamo quindi questo Codice di condotta per i blog nella speranza che possa contribuire alla creazione di una cultura che incoraggi tanto l’espressione personale quanto il confronto costruttivo.

1 – Ci assumiamo la responsabilità delle parole che scriviamo, e dei commenti a cui diamo spazio sul nostro blog. Ci impegniamo a mantenere le regole della convivenza civile: non posteremo contenuti inaccettabili, e cancelleremo i commenti che eventualmente ne esprimeranno.
Definiamo “contenuti inaccettabili” qualunque cosa includa o contenga un link a qualcosa che: viene usato per offendere, disturbare, perseguitare o minacciare gli altri è diffamatorio, intenzionalmente falso, ad hominem, travisa le intenzioni di un’altra persona viola un copyright o un marchio registrato viola un obbligo di confidenzialità viola la privacy di altri.
Definiamo e determiniamo un “contenuto inaccettabile” sulla base del singolo caso, e quindi la nostra definizione non si limita a questa lista. Se decidiamo di cancellare un commento o un link, lo esplicitiamo e spieghiamo il perché. (Ci riserviamo la possibilità di cambiare queste regole in qualsiasi momento e senza preavviso).

2 – Non diciamo niente online che non diremmo anche di persona.

3 – Ci connettiamo privatamente prima di rispondere in pubblico. Quando ci imbattiamo in conflitti o travisamenti nell’ambito della blogsfera, facciamo ogni sforzo possibile per comunicare privatamente e di persona con chi ne è coinvolto – oppure troviamo un intermediario per farlo al posto nostro – prima di pubblicare qualsiasi post o commento riguardo l’argomento in questione.

4 – Se ci rendiamo conto che qualcuno sta attaccando in modo non corretto qualcun altro, prendiamo dei provvedimenti. Quando ci accorgiamo che qualcuno pubblica dei post o dei commenti che sono offensivi, glielo facciamo presente (possibilmente in privato – vedi sopra) e gli chiediamo di scusarsi pubblicamente. Se i commenti pubblicati possono essere considerati una minaccia, e l’autore non intende né scusarsi né ritrattare, collaboriamo attivamente con le autorità preposte per proteggere l’oggetto della minaccia.

5 – Non consentiamo commenti scritti in forma anonima. Chiediamo a chi commenta di fornire un indirizzo email valido prima di postare, in modo da poter così consentire commenti scritti con un nickname, invece che con il proprio nome.

6 – Ignoriamo i Troll. Preferiamo non rispondere a commenti sgradevoli riguardo noi o il nostro blog, nella misura in cui non trascendono nell’insulto o nella calunnia. Siamo fermamente convinti che rispondere ai Troll significhi incoraggiarli – “Non metterti a fare la lotta con un maiale. Vi sporcate entrambi, ma a lui piace”. Ignorare gli attacchi fatti pubblicamente è di solito il miglior modo per limitarli.

Abbiamo inoltre deciso che abbiamo bisogno di una sorta di distintivo “vale tutto!” per quei siti che vogliono segnalare a chi commenta che stanno entrando in una zona aperta a chiunque. Il testo che accompagna questo distintivo potrebbe suonare più o meno così: “Questo è un forum aperto e senza nessun tipo di censura. Non siamo responsabili dei commenti di chi posta, e nel momento in cui le discussioni diventassero eventualmente accese, ci si potrà imbattere in un linguaggio volgare, insulti, o altri commenti coloriti. Entrate a vostro rischio e pericolo”.
(la traduzione è di Claudia Montanari)

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venerdì, 20 aprile 2007

DIRIMPETTAI n. 4

Su Books and other sorrow potete leggere la nuova "puntata" – la quarta – dell’epistolario on line che lega me e Francesca Mazzucato (e i nostri blog).

La mia foto

Francesca Mazzucato

Scriveteci le vostre impressioni se ne avete voglia. Gli indirizzi e-mail li conoscete. Risponderemo a tutti.

Intanto ne approfitto per augurare il meglio alla nuova creatura letteraria di Francesca. MagnificatSi intitola "Magnificat Marsigliese", edizioni Creativa: Tre storie d’amore. Tre storie sui corpi, sull’intimità e il dolore. L’anoressia e il fallimento, l’adozione, l’epilessia. Storie di donne che non soccombono, che amano, che portano avanti il loro sogno, qualunque sia. Storie che avvengono in frontiere estreme. Amori senza speranza ma pieni di palpiti e desiderio. Storie nelle quali non potremo non riconoscere un pezzo di noi, un barlume della nostra esperienza.

Con richiami a Jean-Claude Izzo, Louis Brauquier, Samuel Beckett e Kurt Nimmo.

Buon week end.

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martedì, 17 aprile 2007

ANEDDOTI LIBRESCHI

Vi propongo un giochino. Un giochino poco impegnativo finalizzato a farci divertire e magari a farci conoscere un po’ meglio.

Vi chiedo di raccontare un aneddoto libresco. Qualcosa di particolare che vi è capitato, di recente o molto tempo fa, e che ha a che fare con l’oggetto-libro.

Un aneddoto divertente, o imbarazzante, o doloroso. Non importa. Ciò che conta e che sia di natura libresca.

Per esempio, vi è mai capitato di regalare il libro sbagliato alla persona sbagliata? Sì? Magari vi siete sentiti pure in imbarazzo perché quella persona è rimasta a bocca aperta. O forse l’avete fatto di proposito. Vi è mai capitato?

Oppure c’è stato quel libro che vi ha fatto impazzire: l’avevate riposto su un ripiano della vostra libreria, non c’è dubbio; solo che quando l’avete cercato non c’era più. Letteralmente scomparso. Nel nulla. E non l’avete più ritrovato.

Certo, ci sarà stato quel volume che avevate prestato a un amico – accidenti, lo amavate proprio quel libro – e che non è mai tornato indietro.

O forse vi è successo di parlare di un romanzo convinti che fosse dell’autore X. Solo dopo vi siete accorti che, invece, l’autore si chiamava Y. Magra figura, eh?

E quel libro che avete odiato perché vi ha fatto stare tanto male? Ogni tanto lo osservate e vi viene voglia di gettarlo dal balcone.

Insomma, raccontiamo (e condividiamo) i nostri aneddoti libreschi.

Ci state?

Comincio io.

Il mio primo Dostoevskij lo lessi a sedici anni. Fu per caso. Nessuno mi aveva mai parlato del grande e celebre scrittore russo. Dovete sapere che in quel periodo ero particolarmente preso dalla letteratura gotica e da quella horror. Divoravo, uno dopo l’altro, i libri di autori come Edgar Allan Poe, Lovecraft e – naturalmente – Stephen King.

Ogni volta che mi capitava di trovare un libro che avesse a che fare con l’horror o  il mistero o il fantastico non riuscivo a resistere alla tentazione di leggerlo. Una vera e propria passione.

Quel libro di Dostoevskij lo trovai in una bancarella. Un bel volume. Corposo. Elegante. Rilegato. Copertina rigida.

Lo sfiorai con i polpastrelli di una mano.

Era cellophanato, dunque non avevo la possibilità di sfogliarlo. Ma quel titolo… oh, quel titolo. Impossibile sbagliarsi.

Lo acquistai senza indugi.

S’intitolava “I demoni”.

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lunedì, 16 aprile 2007

L’ISOLA CHE TREMA di Gianni Bonina

Il titolo è L’isola che trema. Il sottotitolo: Viaggio dalla Sicilia alla Sicilia.

Mi sto riferendo al più recente libro pubblicato da Gianni Bonina (ed edito da Avagliano).

Libro da leggere dalla prima all’ultima pagina, questo; soprattutto per chi ama conoscere le cose siciliane: quelle vere, non il frutto di luoghi comuni.

Bonina viaggia dalla Sicilia alla Sicilia, si sofferma spesso in località alternative, racconta storie inedite, ci mostra luoghi particolarissimi e ci fa conoscere personaggi reali che hanno il fascino e il carisma di personaggi da fiction. Ne viene fuori il racconto di una Sicilia che forse, almeno in parte, non è nota nemmeno ai suoi abitanti.

Leggiamo in quarta di copertina che “la Sicilia è quella che i siciliani hanno fatto, perché si può strappare un siciliano dalla Sicilia ma non può avvenire che la Sicilia sia strappata a un siciliano. Prima di essere un luogo è un’idea, una concezione mentale anziché una concrezione di templi e cattedrali.”

Verissimo! E qui la concezione mentale dell’isola che trema è resa al massimo attraverso il racconto di storie talmente vere da sembrare, talvolta, perfino assurde. Storie raccontate con la professionalità del cronista e il talento del narratore d’oc. Storie che si avvicendano con buon ritmo e che rimbalzano da un luogo all’altro: da Alicudi, a Casalvecchio Siculo, dal fiume Simeto a  Randazzo, da Bronte a Motta Sant’Anastasia, da Lentini a Mineo, da Vizzini a Palazzolo. E ancora: da Modica a Scicli, da Vittoria a Nicosia, da Canicattì a Cefalù, da Montelepre a Corleone a Marsala.

E altri luoghi ancora. Luoghi vicini, apparentemente simili, eppure profondamente diversi.

I luoghi di un’isola che trema. Come ci racconta l’autore: “Tifeo è stato seppellito vivo da Zeus sotto l’Etna per averlo sfidato. E identica è stata la fine di un altro mostro gigantesco, Encelado, punito da Atena per la stessa impudenza: ha avuto schiacciata la Sicilia addosso ed è rimasto vivo in un supplizio eterno, la mano destra fino a capo Peloro, la sinistra a Pachino, i piedi a Lilibeo e la testa sotto il vulcano. Quando si muove tutta l’isola trema e se sbuffa emette vampe e ceneri dal cratere. Per fortuna, negli abissi marini, sotto Encelado, c’è Colapesce che sorregge la colonna rotta delle tre che sorreggono la Sicilia.”

L’isola trema. E spesso, purtroppo, per ragioni extramitologiche.

Ho letto questo volume mosso da estrema curiosità. La curiosità del siciliano che, in fondo, non conosce davvero i propri luoghi. O non li conosce che in parte. E non me ne sono pentito. Tutt’altro. Ho letto il libro e ho viaggiato per questi luoghi, ascoltando le voci dei personaggi che li popolano.

Uno di questi racconti voglio condividerlo con voi (ma vi invito a gustarvi gli altri).

Chi conosce Bonina, magari per aver letto le sue belle recensioni sulla rivista Stilos, di cui ne è direttore e fondatore, ritroverà qui il suo tipico tratto elegante ed erudito.

Ringrazio Avagliano editore per avermi concesso la possibilità di riprodurre il capitolo che segue.

Capitolo XII

TRA RAGUSA E SIRACUSA

La terra degli sperti e dei babbi

Si narra che quando i catanesi decisero di darsi il titolo di “sperti”, dovendo trovare un contraltare necessario a legittimarli – perché, come dice Pascal, senza Satana non c’è Dio – convennero di affibbiare ai siracusani il nomignolo, avrebbe detto Verga, di babbi, il cui significato dopotutto non è molto diverso da quello di “malavoglia”. E siccome Ragusa era parte della provincia siracusana, nacque d’amblée la Sicilia babba, come Minerva già in armi dalla testa di Giove, cioè bell’e pronta.

Una volta creata, i catanesi si raffermarono nel giusto trovando nell’agiografia che pure Lucia di Siracusa divenne santa dopo un viaggio a Catania sulla tomba di Sant’Agata a pregare per la madre malata e compiere insomma atto di sottomissione.

Che per essere avvenuto nella sfera celeste non poteva non portare il crisma della parabola.

Ma anche la mitologia, oltre che la natura, dava loro ragione in fatto di diversità, essendo ninfe, giganti e divinità uguali al paesaggio: nero a Catania e bianco a Siracusa, cavandosi lì la pietra lavica e qui il calcare tenero. Che forse infatti l’estenuata Aretusa non è il contrario dell’orrorifico Tifeo, e il mite Cyane il contrappunto del focoso Etna? E il placido Dafni o la languida Lighea non sono l’opposto del malmostoso Efesto? E un Polifemo innamorato può mai avere qualcosa da spartire con uno svenevole Alfeo? Ma siamo poi sicuri che la Sicilia babba sia nata da un moto di grandigia dei catanesi decisi ad alzare muraglie di Semiramide a nord e a sud per crearsi una enclave che nulla sentisse del messinese e del siracusano e che niente avesse di una vagheggiata Mekone siciliana dove tutti i siciliani potessero vivere in uguaglianza e felicità come gli dei e gli uomini nella piana di Corinto?

Sciascia, qui cadendo in taglio, nota che anche Catania, vista da Palermo, fa parte della Sicilia babba figurando tra “le province orientali”; talché, giungendo dai territori dell’ovest, alle porte di Vittoria si ha l’impressione di “valicare un confine”, di arrivare all’“argine contro cui si spengono, non senza qualche impennata, le ondate mafiose”. Sperta, anche se “sedicente”, risulta quindi a Sciascia la sola Sicilia occidentale. Senonché anch’egli si lascia irretire nel gioco sempre di moda del nord e del sud, dove vince chi riesce a trovare un ennesimo sud, o in quello ancor più di moda del cannocchiale, che premia chi come Sciascia vede da lontano più cose insieme.

Alla fine l’uno e l’altro gioco si rivelano un ribobolo di idées reçues, idee, direbbe lo stesso Sciascia, “ricevute e poi ripetute”, che corrono grasse in Sicilia creando luoghi comuni capaci di sfidare gli articoli di fede, diventando verità storiche, come quella secondo cui Giuliano fu ucciso a Castelvetrano o l’altra che Pisciotta morì con un caffè avvelenato. Imposture che, come “consigli d’Egitto”, in Sicilia vivono pure fino a mille anni.

Non è forse un’impostura fare passare, da catanesi e palermitani stavolta inopinatamente d’accordo, Siracusa per babba?

Altro che babba. Gelone, tiranno di Siracusa, quando rifiutò il suo appoggio ad ateniesi e spartani nella guerra contro i Persiani (arrivando a dire che, non avendo egli il comando supremo, “l’anno perdeva la primavera”), costipò una nave ammiraglia di ricchissimi doni e la fece ancorare tra le procelle dove le flotte nemiche si sarebbero scontrate, con l’ordine che fosse data in regalo alla potenza vincitrice. Anche i catanesi, che hanno aperto la porta brancatiana al commercio e all’inganno, si sarebbero complimentati, perché se una dote i siracusani vantano come lascito degli avi greci questa è la metis, che è l’intelligenza unita alla premunizione: ieri sbertucciavano gli ateniesi assalendoli quando erano assediati e oggi riempiono la costa di ville, senza una sola fogna in trenta chilometri, per anticipare i vincoli paesaggistici. Ma se oggi vive a stecchetto, ieri Siracusa poteva fare il pavone signoreggiando su una Catania che se ogni tanto spopolava ciò faceva per il solo piacere di ricordarle chi era a comandare. Dimodoché Seneca non avrebbe mai potuto immaginare che la città da lui indicata nella “Lettera a Marcia” come paradigma mutevole e multiforme della vita, descrivendone le bellezze nello stesso tempo in cui ne rilevava le bruttezze – e con esse i personaggi di cangevole carattere – sarebbe un giorno potuta diventare stolida.

Certo deve essere molto decaduta Siracusa se si è guadagnata una condizione di cui uno come Bufalino, vivendo nella zona più babba di tutta la Sicilia babba (“particolarmente babba” tiene a precisare Sciascia), è stato costretto ad ammettere l’esistenza, non vergognandosi però di riconoscersi in essa, stimandosi anzichenò abitante di un’Arcadia dove occorre essere intelligenti per arrivare: “Una provincia che gli altri siciliani chiamano babba con un sorriso. Babba vuol dire bonaria, innocente, ed è epiteto meritato se è vero che qui negli ultimi dieci anni il numero dei morti ammazzati è vergognosamente basso rispetto a qualunque altro sito dell’isola”. Ma babba, con riferimento alla Sicilia, come avverte ancora Bufalino, vuol dire anche “mite, fino a sembrare stupida, cioè tonta, come per dileggio ci chiamano gli spavaldi e i facinorosi”.

Stupida Siracusa e “particolarmente” Ragusa? “Curiosa contraddizione – concede Sciascia – di considerare stupida, e particolarmente stupida, questa parte della Sicilia di cui contemporaneamente si riconosce e si esalta la tranquillità del vivere, il benessere, l’eccellenza dei prodotti. Evidentemente una sorta di masochismo presiede a un così contraddittorio giudizio”. Un’Arcadia quindi la Sicilia babba, posta oggi, geograficamente e feudalmente, sotto Catania. Purtuttavia in questa Arcadia Goethe scelse di non posare il suo passo romantico, Consolo ha preferito rinunciare al suo progetto di viverci “per tutta la vita” trovando in Siracusa (la “screziatura d’oriente” di Sciascia) una città “marcia e putrefatta” e Vittorini risolse di non tornare pur essendoci nato e pure vedendo in essa giustappunto “un’Arcadia dove l’inverno aveva abitato”, ma le cui “bellezze che parevano eterne il capriccio degli uomini ha reso d’un tratto, dopo gloriosi secoli, così precarie”.

Eppure ci sono bellezze che hanno tutta l’aria di volere durare eterne come la porta di Dante: una è la tragedia greca, che è forse la sola proprietà siracusana sulla quale i catanesi non fanno che gettare occhiatacce di invidia. Ma la tragedia greca, a sentire Brancati, nato nel fondo della Sicilia babba e trapiantato imberbe nel capoluogo di quella sperta, ebbe un’origine etnea: il signor Giovanni Scalia, catanese, ottenne che il suo Agamennone (che fu guardacaso la prima tragedia del ciclo siracusano) fosse rappresentato al teatro greco di Taormina da una compagnia di attori catanesi che però il sottosegretario all’Istruzione pubblica sostituì insieme con “il primo ideatore degli spettacoli classici nei teatri antichi”. Che fu perciò un catanese.

Chi vuole può ravvisarvi le ragioni perché Messina e Siracusa uniscano le palme in un ideale abbraccio tra babbi – al cui spirito però certamente non pensarono né Antonello né Paladino né gli altri artisti peloritani quando per quattro secoli sono andati dallo Stretto a bagnare i panni sulle rive dell’Anapo per lasciarvi i capolavori che hanno riempito il Bellomo.

Ma se nemmanco gli spettacoli classici, letterariamente s’intende, sono siracusani, come pure esogena è la tragedia, portata dalla madrepatria oltremare, il mimo è però interamente dei colori bianco e azzurro-rosa che hanno i monti siracusani, splendenti – lo dice Brancati – “fin sul mare di Catania”. L’ibridazione di tragedia e mimo ha creato quella particolare figura di “tragediatore” che è il siracusano, diverso da quello palermitano dipinto da Sciascia, “che tiene i familiari in triboli”, o da quello individuato da Camilleri, che “organizza beffe e burle”.

A stare a una definizione che i siracusani non amano molto, “Siracusa è piccola in sua cerchia, grande nel bel fare (o mal fare, secondo un’altra versione), e vi s’annidano astuzia greca e punica perfidia”, ciò che forma il “tragediatore” siracusano. Il quale in questa veste appare tutt’altro che babbo, qualità che riesce nondimeno più sgradita perché non vi rientrano né l’astuzia né la perfidia. Brancati, per esempio, non poteva certo chiamare babba la Sicilia dov’era nato, e infatti non l’ha mai detta tale, ma quando si è trattato di mandare Francesco Maria da Pachino a Catania a prendere i libri di D’Annunzio non ha usato eufemismi per bollare come “stupido provinciale” lui ed elevare un volgare cocchiere catanese al rango di “maffioso”, che è il superlativo di sperto.

Brancati non doveva avere però del tutto chiara la distinzione tra Sicilia babba e sperta perché andando a Palermo trovò che era “di peso uguale” a Catania, epperò si accorse di qualche differenza se auspicò al centro della Sicilia “una controdanza dei bell’ingegni” delle due Sicilie così da avere “l’incontro degli esseri più strani e diversi”.

Chi ebbe le idee tanto chiare quanto preconcette fu invece il comisano Salvatore Fiume, che si diceva siracusano perché alla sua nascita le province erano ancora congiunte. Fiume nutriva una indomita avversione nei confronti dei ragusani tanto da inventare addirittura un romanzo, I sogni di Luisa, per dire quali fossero “le doti del fesso”, cioè del babbo e pour cause del ragusano: “Gente moscia, lenta e indolente, con la mano molle e i piedi di piombo”. Per Fiume anche nella provincia

più babba di tutte c’è un posto ancora più babbo che è Ragusa, perché “non succede mai niente e per fare accadere qualcosa occorre proprio qualcuno che venga da Palermo o da Comiso”.

Sarà babbissima Ragusa, a buon pro dei siracusani che pure non hanno che lo stesso sangue: di una gente unita dalle montagne, dal miele, dalle buone maniere, dalla pasta fritta e dal caciocavallo, che alla fine è solidale come i poveri e che per vedere una vera autostrada o un vero treno deve andare a

Catania, mentre sogna aeroporti ogni mille abitanti, porti turistici ogni chilometro, grandi opere e grandi gesta, finendo un po’ derisa come le vecchie nobildonne che si presentano in società con i trini e il cammeo – la testa reclinata sdegnosamente indietro come a specchiarsi nel passato – pretendendo il baciamano pur senza un solo anello ormai al dito, discendenti iblei e aretusei di quei siracusani che, messo il mondo sotto il proprio ferro, si concedevano il fervore di coltivare le belle arti quando Catania e Palermo erano bivacchi di pastori sicelioti e caravanserragli di mercanti fenici, tanto che agli ateniesi prigionieri nelle latomie rendevano salva la vita solo se sapevano recitare Euripide. Ma questo succedeva nel quinto secolo avanti Cristo. Oggi, come i siciliani di Dante, “fur già primi e quivi eran da sezzo”.

Gianni Bonina, giornalista, vive a Catania dove ha fondato e dirige “Stilos”. Ha pubblicato l’inchiesta giornalistica Il triangolo della morte (1992), il romanzo Busillis di natura eversiva (1997), la raccolta di racconti L’occhio sociale del basilisco (2001). Per il teatro ha scritto Ragione sociale (Premio Pirandello 2000) e ha curato e pubblicato l’inedito di Serafino Amabile Guastella Due mesi in Polisella.

L’ISOLA CHE TREMA, VIAGGIO DALLA SICILIA ALLA SICILIA

di Gianni Bonina,

Avagliano editore, 2006

pag. 257, euro 13,50

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sabato, 14 aprile 2007

CONFERENZA A TUNISI

Qualcuno di voi lo sapeva già. Dal 10 al 12 aprile sono stato in Tunisia per partecipare come relatore all’ottava giornata di studi italiani organizzata dall’Istituto Superiore di Lingue dell’Università del « 7 Novembre a Carthage » tenutasi giorno 11.

Il tema della giornata è stato il seguente : « Identità, migrazioni e declinazioni ».

Io sono stato invitato in quanto scrittore italiano autore del romanzo « Identità distorte » (vincitore del Premio Martoglio 2006, sezione opera prima).

Esperienza bellissima!

Scrivo questo post per ringraziare pubblicamente la prof.ssa Rawdha Razgallah, brillante e nota italianista (tra le altre cose è una delle più importanti studiose di Bonaviri) e anima della giornata di studi italiana.

Ringrazio pure la dott.ssa Paola Procaccini, direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura (che ha patrocinato l’evento), e la sua vice, la gentilissima dott.ssa Maria Vittoria Longhi, che è pure venuta a prendermi all’aeroporto di Tunisi (ho avuto modo di visitare la bellissima sede dell’Istituto, dotata – tra le altre cose – di una ricca e raffinata biblioteca… di quelle che fanno venire voglia di sedersi su un tavolo e mettersi a leggere). Ringrazio per l’accoglienza anche il primo Consigliere dell’Ambasciata e il Direttore dell’Università.

Esperienza bellissima, vi dicevo. Ho avuto modo di parlare del mio libro nell’aula magna di fronte a una moltitudine di studenti e ne è venuto fuori un dibattito interessante, nel corso del quale è stato affrontato anche il tema del terrorismo internazionale e dell’11 settembre (se ne parla nel romanzo). Soltanto la mattina seguente ho scoperto che mentre discutevamo di quegli argomenti – sì, proprio in quei momenti – si consumava la strage ad Algeri a causa degli attacchi kamikaze.

Naturalmente ci sarebbe molto da dire a tal proposito, ma preferisco rinviare a un’altro post che (forse) scriverò appositamente.

Riporto – a beneficio dei più curiosi – il programma della giornata.

Buona domenica a tutti!

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venerdì, 13 aprile 2007

OMAGGIO A KURT VONNEGUT

Un altro grande della letteratura mondiale lascia questa terra. Kurt Vonnegut si è spento lo scorso 10 aprile. Rimangono le sue opere, a testimonianza dello spessore di un autore che non verrà dimenticato.

In verità un grande autore non muore mai. È questo che mi piace pensare.

Kurt Vonnegut

Della dipartita di Vonnegut ne hanno parlato tutti giornali. Mi permetto di segnalarvi gli articoli comparsi sui seguenti quotidiani (cliccate sopra per leggere): Repubblica, La Stampa, Il Corriere della Sera, Il Tempo, Il Giornale.

Segue un brano estrapolato da Wikipedia. La celebre enciclopedia online è già stata aggiornata e riporta la data della scomparsa dell’autore di Mattatoio n. 5.

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Di origini tedesche (il nonno emigrò negli USA nel 1848), nacque da Kurt Vonnegut ed Edith Lieber a Indianapolis (Indiana), città in cui sono ambientate molte delle sue storie. Dal 1941 al 1943 frequentò la facoltà di biochimica alla Cornell University di Ithaca (New York) lasciandola nel 1943 per prendere parte volontariamente all’esercito alleato (nel ruolo di fante esploratore) durante

la Seconda Guerra Mondiale.

Nel 1944 venne fatto prigioniero durante la battaglia delle Ardenne e successivamente trasferito in Germania, nella città di Dresda. Qui assistette in prima persona al terribile bombardamento alleato che nel febbraio del 1945 rase al suolo la città e causò 135000 vittime civili (V. si salvò poiché rinchiuso in una grotta ricavata sotto il mattatoio della città normalmente utilizzata per l’immagazzinamento della carne). Questo episodio traumatizzante, anni dopo, verrà ripercorso in chiave solo parzialmente fantascientifica nel suo romanzo più famoso, Mattatoio n. 5 o la crociata dei bambini.

Dopo la guerra, di ritorno negli Stati Uniti, sposò l’ex compagna universitaria Jane Marie Cox, e successivamente si trasferì a Chicago, nel ghetto nero. A Chicago riprese gli studi iscrivendosi alla facoltà di antropologia. Nel frattempo, iniziò a lavorare come cronista presso il City News Bureau of Chicago.

Dopo il rifiuto da parte del collegio docente della sua tesi (questo episodio è raccontato in un capitolo di Divina idiozia), si trasferì a Schenectady, trovando impiego come pubblicitario presso

la General Electric Company. Nel 1951 decise di abbandonare il lavoro per dedicarsi totalmente alla scrittura, trasferendosi a Cape Cod (Massachusetts) e guadagnandosi da vivere scrivendo racconti, sia di fantascienza che di altri generi (per esempio, racconti d’amore come Long Walk to Forever).

Il suo primo romanzo fu Distruggete le macchine (Player Piano), pubblicato nel 1952, un’opera fantascientifica che descrive l’anti-utopia di un’America diventata succube della tecnologia. Nel frattempo, Vonnegut trovò impiego presso una scuola per ragazzi con disturbi emozionali. Alla morte della sorella ne adottò i tre figli rimasti orfani.

Nel 1959 pubblicò un nuovo romanzo di fantascienza, Le sirene di Titano, in cui appaiono per la prima volta gli abitanti del pianeta Tralfamadore, che diverranno presenze ricorrenti delle opere successive. Le Sirene di Titano e il successivo Ghiaccio-nove (1963) sono entrambi romanzi di fantascienza, ma rispetto al romanzo d’esordio i contenuti fantascientifici hanno un ruolo minore, servendo essenzialmente come sfondo per trattare temi di altro genere. Ghiaccio-nove, in particolare, è essenzialmente un libro sulle credenze religiose, e valse a Vonnegut (nel 1971) la laurea honoris causa per il contributo al campo dell’antropologia.

Fra la metà degli anni sessanta e gli anni settanta Vonnegut pubblicò una serie di romanzi che vengono generalmente considerati il suo apice e che ebbero grandissimo successo di pubblico e di critica; il più celebre è certamente Mattatoio n. 5 (1969), opera largamente autobiografica in cui Vonnegut, forse catarticamente, affronta lo spettro del suo ricordo del terribile bombardamento di Dresda. Di questo libro venne anche realizzata una trasposizione cinematografica. Fra le altre opere di quest’epoca si possono ricordare Dio la benedica, Signor Rosewater (1965) La colazione dei campioni (1973, un altro libro in seguito trasposto sul grande schermo), e Un pezzo da galera. Con questa serie di romanzi Vonnegut abbandonò il genere fantascientifico, cui era molto legato, salvo poi tornarvi di quando in quando (per esempio con Galapagos del 1985 e Cronosisma del 1997). Il rapporto fra Vonnegut e la fantascienza è oggetto di una celebre citazione, con cui Vonnegut si rivolge agli scrittori di questo genere:

Vi amo, figli di puttana. Voi siete i soli che leggo, ormai. Voi siete i soli che parlano dei cambiamenti veramente terribili che sono in corso, voi siete i soli abbastanza pazzi per capire che la vita è un viaggio spaziale, e neppure breve: un viaggio spaziale che durerà miliardi di anni. Voi siete i soli che hanno abbastanza fegato per interessarsi veramente del futuro, per notare veramente quello che ci fanno le macchine, quello che ci fanno le guerre, quello che ci fanno le città, quello che ci fanno le idee semplici e grandi, quello che cí fanno gli equivoci tremendi, gli errori, gli incidenti e le catastrofi. Voi siete i soli abbastanza stupidi per tormentarvi al pensiero del tempo e delle distanze senza limiti, dei misteri imperituri, del fatto che stiamo decidendo proprio in questa epoca se il viaggio spaziale del prossimo miliardo di anni o giù di lì sarà il Paradiso o l’Inferno.

Nel 1971, separatosi dalla prima moglie, Vonnegut si trasferì nella città di New York. Nel 1972 divenne vicepresidente del PEN (un club newyorchese di scrittori e poeti) e prese a insegnare scrittura creativa alla università di Harvard. Nel 1979 si sposò per la seconda volta con la fotografa Jill Krementz, dalla quale si separerà nel 1991. Nel 1992 venne nominato membro della American Academy and Institute of Arts and Letters; è stato inoltre nominato "artista dello stato di New York" per l’anno 2001-2002.

Muore il 10 aprile 2007 a seguito dei traumi cerebrali conseguenti un incidente domestico avvenuto nella sua casa di New York.

L’opera di Vonnegut è caratterizzata da una prosa piuttosto semplice, diretta, che proprio nella immediatezza trova i più efficaci spunti sia sentimentali che umoristici. Vonnegut è stato spesso paragonato a Mark Twain, ed egli stesso ha più volte dichiarato la propria smisurata ammirazione per lo stile e l’opera di Twain. Anche la narrazione fantascientifica di Vonnegut non ha nulla a che vedere con il sense of wonder; alieni, invenzioni e paradossi fisici servono semplicemente da pretesto per osservare l’umanità dei personaggi da angoli inconsueti, soprattutto allo scopo di aggirare ogni pregiudizio e tornare in questo modo all’essenza delle cose, con una semplicità che è al tempo stesso la più feroce delle satire. Paradigmatico in questo senso è

la Colazione

dei Campioni, in cui la voce narrante sembra rivolgersi a un alieno o a un ascoltatore del lontano futuro, a cui occorre spiegare ogni cosa, persino cosa sia un hamburger; e per l’occasione, in onore di correttezza e semplicità, i coloni americani diventano "pirati venuti dal mare" e la piramide mozza rappresentata sui dollari, di cui neppure il Presidente conosce il significato, serve a dire ai cittadini: "nel nonsense è la nostra forza".

Il critico Daniele Brolli ha scritto: «In un paese civile Madre notte di Kurt Vonnegut dovrebbe essere diffuso nelle scuole al pari di Se questo è un uomo di Primo Levi. Le osservazioni sulla vita mascherate da filosofia spicciola concentrate nei romanzi di Vonnegut sono una forma di sapienza naturale che una volta tanto nega che tutto debba risalire ad un’ancestralità sorda e bestiale [...] Solo James Thurber e Salinger possono vantare la stessa leggerezza nel parlare delle cose del mondo senza emettere giudizi» (Segrete identità, p. 222 Baldini & Castoldi, 1996).

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venerdì, 13 aprile 2007

“NUDI E CRUDI” e “ORO DI TRINACRIA” di Alfio Patti (recensioni di Elio Distefano)

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Alfio Patti è uno di quelli che potrebbe essere definito “artista poliedrico”: poeta, scrittore, musicista e aedo. C’è n’è per tutti i gusti. Vi propongo qui di seguito le recensioni di Elio Distefano alle più recenti opere di Patti: Nudi e crudi (poesie, ediz. Prova d’Autore, 2006) e Oro di Trinacria, Canzuneri ppi Rusidda (poesie, ediz. Boemi, 2006). Quest’ultimo libro sarà presentato Sabato 14 aprile 2007 alle ore 17,30 a Viagrande (CT) nella Sala conferenze del Centro Sociale e Culturale – Via della Regione, 25

La rapsodia della vita

Spunti per una lettura di “Nudi e crudi” di ALFIO PATTI (Prova d’Autore, 2006)

                        

                             La seconda raccolta di versi di Alfio Patti presenta una struttura tripartita: si parte dai ricordi della “carusanza” e, passando attraverso la “matelicheria” del presente, si approda alla “saccurafa”, ideale ago per ricucire il tessuto lacero dell’esistenza umana con il filo della memoria. L’inizio è segnato da una dichiarazione doppia, di argomento e di poetica, e questo ne fa una sorta di proemio: in “Arrivau a negghia” si disegna lo scenario che dominerà i versi con tocchi rapidi e densi, non impressionistici ma, per la loro intrinseca forza, capaci di farsi linee portanti dell’opera dal punto di vista tematico: i “carusi/scausi e nudi” sono assoluti protagonisti di una ideale giornata vissuta su quelle strade  che diventano il teatro (reso quasi sacro dalla memoria) in cui si svolge l’umana commedia dell’infanzia. La nebbia, con la sua caratteristica di elemento che impedisce di vedere, e quindi isola, allora “non c’era”, e questo dato visivo rimanda immediatamente ad una dimensione in cui si comunica senza schermi. Il nume tutelare di quel tempo così caro e dolce è “don Tanu, mastru d’ascia”, che resta sullo sfondo poiché non è una figura chiaramente connotata: questo è molto bello perché lo introduce “’nta sta favula antica” lasciando la fantasia dei lettori libera di spaziare e d’immaginarselo ora vicino di casa, ora nonno premuroso e dolce, ora infine –ed è l’immagine che in chi scrive è affiorata per prima alla memoria- come una sorta di Geppetto intento a dirozzare un pezzo di legno che diverrà poi il più discolo dei bambini, curioso , bugiardo e assetato di vita tanto da assurgere ad emblema di ogni bambino e-perché no- di questi “carusi” fra cui si adombra la figura del protagonista. In “Parola” l’accento si sposta sul mezzo con cui si dipingerà questo grande affresco : la parola, appunto. Anche qui curiosamente ritorna lo schema della prima lirica, che racchiude emblematicamente entro i confini di una giornata l’esperienza e le potenzialità della parola, capace di cantare “’u suli autu” dell’età verde con la forza delle emozioni che vi sono connesse e di divenire com’esso “forti e chiara”, e “u suli aggiuccatu” di ciò che finisce, quando essa, “rauca”, “muzzica ‘u silenziu”. E ancora, quando il silenzio ha divorato forma e confini, essa si erge con il suo potere eternatore e diventa “cuntu”, cioè racconto, canto, rapsodia che ricuce ed eterna la vita dell’uomo. Nella ricchezza delle suggestioni che evoca, questa lirica può essere paragonata all’oraziano “exegi monumentum aere perennius”, ripreso poi dal Foscolo dei “Sepolcri”.   Si evidenzia, nella chiusa di questa lirica, uno schema che  ricorrerà altre volte , specie nella prima sezione della silloge (schema che non è solo esteriore, retorico, strutturale, ma è legato ai meccanismi della memoria): quell’aura di sogno che domina il dolce, elegiaco canto dell’infanzia lontana e preziosa, viene a un tratto bruscamente spazzata via, come in un risveglio improvviso, dal ritorno al presente, che irrompe con la sua urgenza. Il senso del cambiamento viene trasmesso ai lettori con una  gravitas che solo noi siciliani, pur nella nostra solarità (anzi, direi proprio in virtù di quella!) sappiamo avere, senza sentimentalismi e compiacimenti di sorta, ma con la  solennità di un sipario che cala improvviso sugli uomini e sulle loro vicende (anche qui, a proposito di chiuse e ideali “sipari”, gli echi classici si sprecano: dal virgiliano “maioresque cadunt altis de montibus umbrae”(Verg., Ecl. I, 83) al foscoliano “finchè splenda il sol su le sciagure umane” (Sepolcri, 295).   

         Esempi ne sono “ ‘u scuru” che “m’abbrazzò” dopo che la parola divenne racconto, il “poi/ m’arrusbigghiai, all’antrasatta” nella lirica “Santu e riccu” (bellissimo e antico, qui, il gesto benedicente della nonna, segno di autentica fede e di amore profondo, interpretato dal piccolo nipote come una mera captatio benevolentiae), che segna lo stacco fra il racconto dell’infanzia beata e la doccia fredda della notizia della morte, e la chiusa stessa della lirica, in cui, a completare il gioco oppositivo passato-presente in termini di passato=gioia(illusione)/presente=dolore (disillusione), si pone in campo l’infanzia del figlio del protagonista-autore, protetto dal padre che non lo sveglia e “tira dritto” per recarsi al funerale. Sulla medesima linea si collocano l’immagine del cortile antico dove il protagonista è cresciuto, che “non smamma cchiu’ carusi”, e ancora l’inizio e la fine dell’ultima lirica di “carusanza”, contrassegnati da due versi-sipario: all’inizio “t’affacciasti/e ppi mia agghiurnau” e alla fine “non mi vidisti arrivari/e ppi tia scurau”, dove l’improvviso cambio di scena è dovuto all’azione dell’amore che sconvolge tutto , e fa “agghiurnari” quando arriva e “scurari” quando tarda: è l’antico potere dell’amore (l’Amor omnia vincit di ovidiana memoria). Il soprassalto è presente pure in “Stasira”, espresso con un bel termine siciliano, “arrisatari”, cioè “sobbalzare”: qui si tratta di un sentimento profondo, oscuro, non ben definito, che si presenta al cuore del protagonista e lo spinge ad entrare in una chiesa, da adulto (e quindi disilluso) per impostare una preghiera con Dio, sicuramente da Lui stesso sollecitato a questo dialogo, che però si ferma laddove il protagonista riconosce che , pur stando vicino a Dio, non è facile non fare il male, mentre un desiderio di cambiamento, suscitato da Dio stesso ma vissuto come se fosse venuto da dentro, si fa strada nel cuore .

              Passando a “matelicheria”,  nella prima lirica , “ ’A rrunna ”, l’opposizione fra passato e presente si fa schema per approcciare temi che sono più vicini agli ideali del protagonista-autore: il ragazzo scalzo e nudo di una volta è diventato un giovane adulto che sogna di cambiare il mondo.

La vita associata è concepita sempre come una sorta di militanza: da bambini si stava in fila nelle situazioni in cui l’ordine era probabilmente imposto dai grandi, mentre da adulti si sta in cerchio , facendo fronte comune per piantare un seme nuovo nel mondo – un mondo da cambiare con la forza rivoluzionaria dei sogni. Qui si adombra chiaramente la militanza politica giovanile dell’autore e il suo mondo di ideali non ancora spenti al modo delle “fole” leopardiane, ma vivi pur in un presente non maturo per accoglierli e che aspetta ancora “tempi scammisati”. Qui è notevole il fatto che l’immagine della nudità si riferisca all’ambito politico-ideologico: essa è un vero e proprio leit-motiv che percorre la silloge, dall’immagine iniziale dei “carusi scausi e nudi” fino a qui, tracciando un percorso segnato dalla nuda essenzialità, da una crudezza che si applica tanto all’ambito della propria infanzia quanto al modo di concepire gl’ideali più elevati. Il pessimismo che accompagna la presa di coscienza della realtà non riesce a spegnere la fede nell’uomo e nella sua dignità, la sete ardente di vita adombrata nei numerosi riferimenti al desiderio di rinascere non in un’altra, ma in questa medesima dimensione.    

Il presente è vissuto come aridità e isterilimento, come un incombere della notte. Perfino lo “sciusciamaccu”, cioè lo sciocco, riesce ad essere triste, abbandonando la sua incosciente allegrezza. Le lacrime come un balsamo bagnano la pietra inaridita su cui cadono , le ossa sono rotte e il cuore “agguttatu”. Nella sezione finale “saccurafa”, si rivela l’intento del poeta di usare la parola e la memoria come strumenti privilegiati per ricostruire “i punti persi/di sta vita ca si scusi/jornu dopu jornu”. Il poeta  è artigiano-artista, che recupera e attualizza il passato fissandolo con l’ago della memoria e il filo del dialetto, pregnante e vivido come una ferita sulle carni, da cui spurga un perenne salasso d’umanità.

Notevole è l’uso del dialetto. Patti qui combatte con quella che i Latini chiamavano “patrii sermonis egestas”: anch’egli, come il romano Lucrezio, si affida ad una lingua antica, che ha sapore di latte materno e profuma della ruvida saggezza dei padri, ma si accorge che essa, ai tempi nostri e a causa dell’elaborazione letteraria cui è sottoposta, non ha parole per dire alcuni concetti che appartengono al lessico scientifico, quali “endometrio”, “ossidiana”, “selenio” ed altri, i quali vengono lasciati come sono, salvo adattarne le desinenze e il vocalismo a quelli del siciliano (l’endometrio citato sopra diventa “endometriu”, il selenio “sileniu”). Alle volte sono presenti dei sorprendenti conii di composti come “jocafocu” per dire “kamikaze”, in cui l’inventiva verbale dell’autore riesce ad esiti geniali che coniugano culture distanti e questo, insieme con l’universo d’immagini che si piega a cantare, rende la lingua di Patti aristotelicamente “straniata” e quindi estremamente letteraria.

Alfio Patti è un temperamento passionale, graffiante e profondamente malinconico, e questo emerge  anche quando piange composto, quasi in silenzio, la fine della “carusanza” con le sue ruvide innocenti gioie.

Nudi e crudi non sono solo i versi di Alfio, ma anche gli uomini che popolano il suo mondo di ricordi, con le ginocchia facilmente sbucciate su strade pietrose e assetate d’acqua che non sono meno “nude e crude” esse stesse dell’umanità cui fanno da teatro; e “nudi e crudi” sono infine i ricordi stessi, che affiorano alla mente dell’adulto con la freschezza diafana di un acquerello le cui tinte si fanno d’un tratto forti nel momento in cui, per il confronto con il presente, essi escono dalla dimensione del sogno e della visione e palesano la loro natura di brandelli d’anima, ancora grondanti di sangue, di quel sangue che si sparge ogni giorno idealmente in ingrato sacrificio al dio cattivo della fatica, che nega agli uomini il diritto a godere e li costringe a traslocare sempre da una casa all’altra. Emerge l’attaccamento sanguigno e quasi carnale ad una vita piena d’affanno, la cui unica religione sono i ricordi della “carusanza”, vissuta anch’essa su strade scomode, aspre e accidentate, ma riscattata comunque dal sogno che accompagna l’età verde. Nudo e crudo è il dialetto con la sua caratteristica di strumento comunicativo immediato, forte, pregnante, sanguigno come questi ricordi, un modo di esprimersi in cui è impresso a fuoco il marchio atavico e ancestrale dell’umano, spoglio di ogni orpello retorico eppure carico di sogno come non ci si aspetterebbe da un popolo come quello siciliano  in cui anche le donne sono forti e in grado di essere delle vere “matriarche”. Eppure questo mondo è soffuso di una dolcezza, di una sensucht che scaturisce, come sempre quando è autentica, dal dolore, di cui è raro e prezioso distillato.

Elio Distefano

ORO DI TRINACRIA

“Canzuneri ppi Rusidda” edito da Boemi Catania 2006

Giuseppe Nicolosi Scandurra al microscopio poetico di Alfio Patti

Il rapporto che si stabilisce fra il filologo e la sua edizione di un testo è sempre particolare, e ha la sua ragion d’essere nelle motivazioni che hanno spinto l’editore del testo a vestire i panni del filologo e del critico testuale.

Queste motivazioni Alfio Patti le chiarisce bene nella “premessa” che precede l’opera: l’occasione di occuparsi di Nicolosi Scandurra si genera dietro lo stimolo di un amico poeta, Salvatore Camilleri, e si radica in un contesto di studi appassionati e di sodalizi culturali, scaturendone come naturale conseguenza fra le tante, salvo poi diventare oggetto privilegiato, vagheggiato e amato di riflessione a posteriori, dopo l’incontro con la parola del poeta studiato: allora dall’occasione meramente “libresca” nasce , quasi inaspettato  forse, l’afflato lirico che immette calore e vita nel freddo lavoro tecnico. Il filologo sente una particolare consonanza fra il proprio mondo espressivo e quello dell’autore èdito:e se alla poesia, e alla poesia dialettale in particolare,  si chiede soprattutto suono ed espressione, oltre che una carica evocativa che la lingua ufficiale non può avere, ecco che la musica del dialetto siciliano del poeta ottocentesco tocca le medesime corde della sensibilità di Alfio Patti, il quale vi scopre qualcosa che da un lato sazia il suo bisogno di strappare all’atra notte dell’oblio una parola che squarcia un mondo, e dall’altro rivela di contenere qualcosa di universalizzabile, che può essere esteso a patrimonio comune. Di qui il limae labor sul dialetto, onde sfrondarlo di quella patina di eccessivo carattere locale per poterlo proporre a tutti i siciliani e perché tutti possano riconoscersi in quella lingua e dire “qui c’è qualcosa del mio mondo”. La ricerca di una koinè siciliana, come felicemente la definisce lo stesso Alfio Patti, corrisponde al bisogno di diffondere il più possibile longe lateque questa poesia. Dicevamo del brivido che accompagna il contatto con  un autore che è anche, suo malgrado, araldo e sentinella  di un mondo e di un’umanità da salvare, e di come esso aggiunga senso all’operazione meramente filologica. C’è di più: il modo di cantare l’amore di questo autore può divenire simbolo di un sentire siciliano che supera le barriere temporali  e si erge a monumentum aere perennius, modello culturale ed espressivo da esportare conferendogli quella dignità cui raramente la poesia dialettale  riesce ad assurgere. Di ciò ci informa il curatore del testo raccontando brevemente di un viaggio in Messico, in cui il “Canzuneri” è stato realmente veicolo della sicilianità nel mondo ed ha suscitato un interesse specifico per la poesia siciliana. D’altra parte, come ci ricorda la prof.ssa Verdirame nella sua chiarissima introduzione, operazioni culturali come questa rendono possibile mostrare come ancora oggi si possa dire con Dante che ciò che si compone di poetico in Italia si chiama siciliano.

Questo lavoro è come il poeta, il filologo e la loro (la nostra) terra: appassionato, ricco di intima vitalità, mosso da un’energia che si apre il varco a tutti i costi come può esserlo solo ciò che è per sua natura effusivo ed ha l’urgenza di riversarsi in tutta la sovrabbondante ricchezza, forza e varietà delle proprie nuances. Questo lavoro è anche figlio dell’esigenza , per l’uomo Alfio Patti, di riconquistare un tempo che rischia di perdersi e di salvare da certo naufragio una dimensione che, a parte la sua intrinseca validità di modello culturale da opporre a tutto ciò che vorrebbe cancellarne l’identità profonda, è  anche cara al cuore. Con formula omerica si direbbe “kecaristo qumw”, con tutte le implicazioni che questa radice car comporta, e che sono insieme di grazia, bellezza, dono, favore, gratuità e gratitudine. Non a caso l’ultima opera poetica del Patti si concludeva invocando la necessità di ricucire la vita che si scuce giorno dopo giorno. E’ un paziente lavoro di ricucitura degli strappi che non è rammendo ma restauro, capace di restituirci, in tutta la forza e la vivezza della propria espressività, il grande affresco di un mondo che ha gli splendori e la solennità di ciò che nella repubblica delle Lettere suole definirsi “classico”, ma anche la intima energia di ciò che affonda le proprie radici nella vita del popolo,in un sentire pienamente umano che conosce ben pochi filtri.  Nicolosi Scandurra è figlio di un’epoca che ha conosciuto da tempo il positivismo e i suoi fervori progressisti, con tutto quello che ciò comporta al livello della scrittura letteraria ,e cioè il risveglio del naturalismo e la sua volontà di rappresentare ambienti e personaggi in maniera più o meno oggettiva e distaccata. La particolarità di Nicolosi Scandurra è che egli è poeta illetterato, e quindi forse con lui più che con altri autori coevi si scopre una capacità di dar vita ad un mondo il cui cantore è talmente partecipe da essere quasi un pezzo di Sicilia stessa che parla, che canta. Ne scaturisce una restituzione di ambienti, persone e situazioni straordinariamente aderente al vero, radicata com’è in quella sapienza popolare che fa sempre da sfondo alle liriche, sebbene mista ad un’aura di letterarietà che non è assolutamente accademica (non poteva esserlo!) bensì spontanea, naive (nativa, originaria e autentica come acqua che scaturisce da pura fonte e non certo improvvisata!), residente nelle latebre del cuore di quest’uomo in cui la poesia si manifesta come modo peculiare di sentire prima ancora che di pensare la realtà. E’ per questo che leggere il Canzuneri significa compiere un viaggio, un viaggio in parallelo nel mondo del poeta e in quello del suo filologo, tanto lontano nella pratica della propria vita dal mondo del suo poeta quanto vicino a quel mondo nei sacrari della memoria, che conservano gelosamente scenari agresti, paesani, luogo ove riposano le intatte memorie degli avi, scenari della propria infanzia che ritornano in alcuni momenti di limpido lirismo nell’opera poetica di Alfio Patti : mi riferisco in particolare a  “Nudi e crudi” e al ricordo di quella carusanza che è presente ancora nel cuore dell’uomo adulto, un’età felice vissuta fra strade ancora polverose, in quella piana di Catania che è caleidoscopio rutilante di colori vivi, accesi, malinconici, pieni di pathos, intrisi di quella dolceamara sicilianità che è nel sangue di entrambi, del poeta e del suo editore. C’è un itinerario che si traccia davanti al lettore di questi versi, e che ha una sua intima coerenza. Si parte da un dato concreto, che resterà sempre sullo sfondo del Canzuneri: la condizione sociale del poeta-amante, sentita sin dall’inizio come inferiore a quella della sua amata. Il poeta è un umile contadino al soldo del padre di Rusidda, e sente il bisogno di riscattare in qualche modo la sua condizione, giustificandola nel canto con un sentimento impastato di siculo orgoglio ma anche venato profondamente di un carattere elegiaco che, per noi fruitori “letterati” della poesia, riecheggia  quello che ci suscitano alcune figure limpidamente, icasticamente disegnate dal Leopardi , quali quella di Saffo nell’”Ultimo canto”, in cui si riprende la tematica della natura nobile nascosta sotto un corpo vile. Il nostro poeta , in quanto innamorato, sente il bisogno di essere trovato bello dalla sua amata, e prova dolore del suo abito rattoppato e delle sue scarpe inzaccherate, e con un moto di orgoglio afferma (o meglio immagina di affermare) a testa alta davanti all’oggetto del suo amore che egli è ancora “caruso” ma si sente già uomo e inoltre di rivendicare l’incolpevolezza della propria condizione con quel fatalismo che è di marca squisitamente siciliana (“nun è difettu mai la puvirtati/zoccu tocca ad ognunu si lu pigghia”, scrive in “Pirchì”). Il poeta si pone nei confronti di Rusidda come maestro che le insegna i piccoli grandi doni del mondo agreste e bucolico, atteggiandosi in questo ad adulto. La presenza della donna è tuttuno con la natura e con l’ispirazione poetica stessa, ed essa  è l’interlocutrice silenziosa di un infinito dialogo d’amore che il poeta intreccia con tutti gli elementi naturali. Vivissimo è il ricordo del Petrarca di “Chiare,  fresche e dolci acque…” che chiede “udienza insieme” alle “dolenti sue parole estreme” a tutti gli elementi che hanno avuto la grazia di ospitare Laura, vicino nell’elegia e nel soliloquio ma lontano nel temperamento, poco incline alla malinconia e piuttosto pronto alle accensioni passionali. Il mondo bucolico stesso che è il teatro di questa storia d’amore non ha la letterarietà stilizzata dei grandi modelli classici, Teocrito e Virgilio, ma ha piuttosto il nitore pronto a macchiarsi di sangue delle vicende della “Cavalleria rusticana” cui è vicino per un certo andamento melodrammatico del canto e non certo per gli esiti della vicenda, che riesce piuttosto alle luminose plaghe di una solitudine sublimata dalla presenza della donna-musa, una donna che appare non differente nel suo essere diafana da una fata morgana.

Il mondo di Nicolosi Scandurra ha una sua organicità e una intima coerenza spiegabili dall’interno o al massimo con il ricorso al confronto con il melodramma coevo. La figura dei due innamorati mi fa subito pensare a Nemorino e Adina del donizettiano “Elisir d’amore” prima che a Francesco e Laura: la convenzione letteraria cede il passo a un animo in cui tutto è poesia, e la realtà e l’immaginazione si fondono in una simbiosi che è già greca, compresa in quel concetto di “physis” che lega indissolubilmente l’uomo alla natura per essere tutto frutto di un medesimo “Chaos”, tanto indistinto quanto ricco di concentrata energia vitale. La campagna, gli animali, il poeta e Rusidda stessa sono varie facce di uno stesso poliedro, fatto di un’energia che si può manifestare come armonia o come discrasia, ma che è vulcanica, effusiva, magmatica, ed ha bisogno di solidificarsi per poter assumere una forma definitiva. La campagna siciliana di Scandurra è un contenitore, un vaso ideale che dà forma ai sentimenti e alle passioni, quasi liquidi che per loro natura invadono tutti gli angoli e prendono la forma di ciò che li contiene. La campagna di Nicolosi Scandurra non è stilizzata come quella dei bucolici antichi, ma viva, palpitante, carnale e sanguigna e a volte rarefatta e angelica come può esserlo soltanto la terra di Sicilia. I pastori che popolano gli idilli teocritei e le ecloghe virgiliane sono in fondo dei poeti dottissimi che ingaggiano spesso gare di canto: il povero protagonista del “Canzuneri” non arriva a tali altezze, ma propone un grumo vitale che non è solo suo, ma lascia affiorare un mondo di saggezza antica che lo fa, suo malgrado, ai nostri occhi, “archeologo” di quel mondo, e con lui anche Alfio Patti.

Il fil rouge che lega tutto il canto è la Poesia, che rinasce prepotente in mille modi anche dopo che la morte ha sottratto per sempre l’amata agli occhi del poeta .La morte dunque, creata insieme con  Amore secondo antiche tradizioni mitologiche greche : e proprio l’amore e la morte formano un nucleo indissolubile, come due facce della stessa medaglia, che l’opera mette in campo prepotentemente, con tutta la carica di intenso e disperato pathos che ne deriva, e che si può generare solo quando il divino oggetto della propria passione contiene in sé l’inganno del transeunte e quindi è pronto a cadere e a tradire involontariamente. Il canto scaturisce da un’unica fonte, quella dell’ispirazione poetica che Rusidda veste di amore : anche quando l’amata non c’è più la sua assenza è parimenti generatrice di poesia, una poesia parimenti elegiaca, perché anche in vita l’oggetto del desiderio è sempre lontano. La natura, dopo la morte di Rusidda, non ha più vita, non ha armonie da poter suggerire al poeta che le canta, e tuttavia parla per lei la sua assenza, che sottrae vita al paesaggio ma aggiunge nuove sfumature al canto poetico di cui è unica Musa.

Elio Distefano

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martedì, 10 aprile 2007

ALTERNATIVE A “I PROMESSI SPOSI”

Alessandro Manzoni

Qualche giorno fa ho incontrato un vecchio compagno di scuola. Come sempre accade in siffatte circostanze abbiamo rievocato i bei tempi andati, quando la spensieratezza la faceva da padrona e il mondo sembrava essere tutto per noi. Ci siamo ricordati di varie cose, tra cui di come spesso – per dedicarsi all’apprendimento di certe materie – si sacrificava tempo che poteva essere devoluto a studi più interessanti. Ne è sorto una specie di dialogo molto simile a quello che vi propongo di seguito.

“Ti ricordi le mitiche edizioni Bignani?”, mi ha domandato il mio amico.

“Ti riferisci ai riassuntini de I promessi sposi?”

“Sì. E non solo.”

“Bignani o Bignami?”

“Che importanza ha!? Ciò che conta è che ci hanno fatto risparmiare un sacco di tempo inutile.”

“Dici? Ritieni ancora che il tempo impiegato per leggere I promessi sposi sia stato inutile?”

“Mah. Forse proprio inutile no! Però ci sono letture molto più interessanti e formative.”

“Tu dici?”

“Io dico. Ehi, non fare il bacchettone, eh? Non riterrai che I promessi sposi è da considerarsi ancora oggi il più grande romanzo della letteratura italiana?”

Ho inarcato le sopracciglia. Senza rispondere.

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Però mi viene voglia di lanciarla a voi, la domanda blasfema.

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I promessi sposi è da considerarsi ancora oggi il più grande romanzo della letteratura italiana? Se no… che alternative proponete?

Rispondete con sincerità, su!

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P.S. Nei prossimi giorni, e almeno fino a venerdì, difficilmente avrò la possibilità di aggiornare il blog con nuovi post. L’ideale, dunque, sarebbe che riusciate a farvi bastare questo. L’argomento è un po’ blasfemo (letterariamente parlando), però si presta a una partecipazione di massa. Magari potrebbe nascere un dibattito interessante…

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giovedì, 5 aprile 2007

NUOVE POLEMICHE SU “IL PARTIGIANO JOHNNY”

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Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, pubblicato postumo nel 1968, dopo una vicenda editoriale piuttosto travagliata, è stato considerato come uno dei testi più significativi della cosiddetta “letteratura della Resistenza”. Ciononostante attorno a questo libro non sono mancate le polemiche.

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Beppe Fenoglio

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A pag. 762 del volume 18° della Storia della letteratura italiana diretta da Enrico Malato (edizioni Il Sole 24 Ore) leggiamo, in merito al celebre romanzo dello scrittore di Alba, quanto segue:

“Fughe e scontri, vita disagevole e randagia, reazioni e slanci dei giovani «ribelli» che, spesso infantilmente crudeli negli atti di violenza, convivono giornalmente con sofferenze e morte quasi in un indotto stato di trance, costituiscono, proprio perché non enfatizzati, i momenti di un racconto drammatico, teso, che solo una lettura superficiale o una cecità di parte poteva scambiare per intenzionale e quasi goliardica demistificazione del movimento partigiano e del «periodo crudo e miracoloso» della Resistenza.”

Eppure, a quanto pare, le polemiche non si sono sopite.

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Giorgio Bocca in un’intervista  rilasciata a Bruno Quaranta, pubblicata su Tuttolibri de La Stampa del 31 marzo 2007, ha dichiarato (badate che il riferimento era proprio a Il partigiano Johnny): “Fenoglio della Resistenza non ha capito nulla. Io, di quei venti mesi, ho un’idea politica e storica. So qual è stato il valore della Resistenza, so perchè il sogno che la innervava è naufragato. Fenoglio è come Pansa. La sua Resistenza è falsa, un teatro di assassini, di cialtroni, di poveracci.”

Verrebbe da domandarsi: le affermazioni di Bocca hanno un loro fondamento o sono solo frutto di una lettura superficiale o di una cecità di parte ?

Voi che ne dite ?

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mercoledì, 4 aprile 2007

A CUBA NON SI LEGGE E NON SI SCRIVE POESIA (di Gordiano Lupi)

Gordiano Lupi

A Cuba non è facile comprare un libro e sceglierlo secondo il proprio gusto, anche perché gli stipendi sono così bassi che in pochi possono spendere denaro per la lettura. Di questi tempi è troppo più importante sopravvivere: se investiamo soldi in carta stampata non ne restano per riso e fagioli. I libri costano cari, soprattutto nei negozi di Stato che vendono in moneta convertibile, la carta scarseggia, le produzioni popolari sono ridotte all’osso. Restano i negozi di libri usati che vendono e affittano per pochi pesos vecchi libri ingialliti dal tempo. Negli anni Sessanta e Settanta circolavano molti libri, grazie al lavoro importante di editori come Huracán, Imprenta Nacional de Cuba, Casa de las Americas, Cocuyo y Dragón e molti altri. Tra le mani dei lettori passavano titoli importanti della letteratura mondiale a prezzi modici e in edizioni tascabili. All’inizio degli anni Novanta, con l’arrivo del periodo speciale, la mancanza di carta ha provocato una drastica riduzione delle tirature dei libri e la scomparsa di molti editori.
La Fiera del Libro dell’Avana è diventata l’unica occasione per acquistare libri, che tra l’altro sono sempre più costosi e politicizzati. Quest’anno il libro più venduto durante la Fiera del Libro è stato Cento ore con Fidel di Ignacio Ramonet, ignobile volume pubblicato anche in Italia e che rappresenta uno squallido copia-incolla di vecchie dichiarazioni del Comandante. Un altro libro molto venduto è stato Tinísima, un romanzo della scrittrice messicana Elena Poniatowska basato sulla vita della controversa fotografa rivoluzionaria Tina Modotti.
La Fiera del Libro dell’Avana è stata un evento importante al quale hanno preso parte oltre seicentomila persone che hanno acquistato più di un milione di libri. La maggior parte dei visitatori, però, sono andati soltanto a guardare, perché non possedevano denaro sufficiente per acquistare libri. Un’inchiesta condotta da una rivista di regime come Bohemia riferisce che tra i giovani è diminuita l’abitudine alla lettura, ma non si interroga sui motivi. Uno studente di medicina mi ha confessato: “Qualche giorno fa ho visto in una libreria della calle Obispo un libro di Harry Potter e mi sarebbe piaciuto compralo, ma non ho potuto perché lo vendevano in pesos convertibili e non avevo abbastanza denaro”.  Per chi ha pochi soldi e molta voglia di leggere restano i venditori di libri usati, che spesso possiedono edizioni straniere di autori proibiti come Cabrera Infante e Milan Kundera. Forse non tutti sanno che a Cuba sono molti gli scrittori che il regime toglie dalle librerie e che considera immorali e servi degli imperialisti. George Orwell (come potrebbe Castro far conoscere ai cubani La fattoria degli animali o 1984?), Vargas Llosa (troppe prefazioni a Reinaldo Arenas e molte critiche al regime) e Solgenitsin (a Cuba non esiste Arcipelago Gulag) sono alcuni esempi eclatanti. Purtroppo anche i venditori di strada spesso praticano prezzi in divisa e finisce che anche i libri usati restano appannaggio dei turisti stranieri. Le Biblioteche Indipendenti cercano di diffondere libri gratuitamente, ma vengono osteggiate dal governo e spesso capita che qualche pericoloso bibliotecario si faccia qualche anno di galera soltanto per aver procurato letture non consigliate da Castro. Per fortuna che Gabriel Garcia Marquez è in buoni rapporti con il regime, altrimenti i cubani non avrebbero potuto leggere neppure Cent’anni di solitudine o L’amore al tempo del colera. I libri proibiti circolano grazie ai dissidenti e ai bibliotecari indipendenti, che rischiano la galera per promuovere l’amore per la lettura.

A Cuba è difficile leggere, ma è ancora più complicato scrivere in modo indipendente e libero. Sono molti i poeti che soffrono costrizioni ideologiche dopo il famoso assunto di Castro: contra la revolución nada con la revolución todo. Molti poeti hanno vissuto in galera per opporsi al regime comunista e oggi sono in esilio: Armando Valladares, Ernesto Díaz Rodríguez, Jorge Valls, Ángel Cuadra, María Elena Cruz Varela e molti altri. I poeti cubani incarcerati per motivi ideologici e costretti ad accettare l’esilio e l’allontanamento dalle loro famiglie sono un numero indescrivibile. Ricordiamo ancora: Gastón Vaquero, Augustín Acosta, José Ángel Buesa, Heberto Padilla, Belkis Cuza Malé, Manuel Díaz Martínez, Antonio Conte, Raúl Rivero, Efraín Riverón e Manuel Vázquez Portal. La poesia ha bisogno di libertà per poter cantare e a Cuba per chi non abbassa la testa di fronte al regime non esiste diritto di parola. Pare di sentire nell’aria i versi di Salvatore Quasimodo: E come potevamo noi cantare?/ Pure le nostre cetre erano appese/, oscillavano lievi al triste vento… Cuba è una terra infida per i poeti, se si pensa che persino Pablo Neruda, il più grande lirico sudamericano, è considerato lettura proibita.  Raúl Rivero, considerato il più importante poeta cubano contemporaneo, è un esempio di quanto può essere spietato il regime castrista con gli uomini liberi. Rivero ha scontato alcuni anni di galera e oggi vive esiliato a Madrid solo per aver osato scrivere senza sottostare alla censura. Per conoscere l’opera poetica degli scrittori cubani incarcerati ed esiliati l’unico libro esistente in Italia è Versi tra le sbarre – antologia di poesia cubana dissidente (Edizioni Il Foglio, 2006). Come mai in Italia grandi editori come Mondadori dànno credito alle interviste fasulle e inginocchiate di un pessimo giornalista come Ramonet e soltanto un microscopico editore dà voce agli uomini liberi che si ribellano alla tirannia? La speranza è che certe connivenze con le dittature vengano giudicate dalla storia.

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

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martedì, 3 aprile 2007

MISTERO ETRUSCO di Paolo Ferrucci

Paolo Ferrucci ama definirsi come un manager che si è dimenticato di esserlo, che ama la letteratura ed è diventato uno scrittore mistery.

Dopo "Omicidi particolari" (Piemme 2000) e "Lune nere" (Aliberti 2005), da marzo 2007 è in libreria "Mistero Etrusco" (Edizioni Sylvestre Bonnard).

Mistero Etrusco è un noir raffinato, corposo e complesso che ha richiesto un attento lavoro di ricerca da parte dell’autore. E la pubblicazione da parte di un piccolo editore di grande qualità, come Sylvestre Bonnard – la casa editrice che pubblica Hans Tuzzi -, credo equivalga a un marchio di garanzia.

Vi accenno la trama.

*

Lester Howe è docente universitario di Paleografia all’Università di Cardiff.

Attualmente si trova in trasferta a Firenze, per studiare un fondo di manoscritti conservato nella biblioteca del Museo Archeologico. Recentemente separato dalla moglie, cerca di distrarsi immergendosi nel lavoro. Vive in affitto in un palazzo appartenente a una signora della vecchia borghesia fiorentina.

Un giorno, giù nell’atrio, vede emergere dalle cantine un suo vicino, che è in compagnia di un uomo. Il vicino lo saluta con imbarazzo, come se avesse preferito non farsi vedere. Successivamente, l’uomo che era in compagnia del vicino viene trovato assassinato, e Lester Howe ne riconosce la fotografia sul giornale. Era un discusso antiquario che pare si dedicasse a traffici di reperti archeologici. Howe vorrebbe chiedere spiegazioni al suo vicino, ma desiste, pensando che non sono fatti suoi. Nel frattempo, però, sorprende di nuovo il vicino che esce dalle cantine del palazzo e quasi si scontra con lui: anche stavolta l’uomo è imbarazzatissimo.

Questo vicino è un oscuro professore di liceo che si diletta di studi etruscologici: sta terminando la compilazione di un dizionario della lingua etrusca e propugna teorie sull’antica civiltà che confliggono con gli orientamenti ufficiali dell’Accademia.

In quelle cantine dev’esserci qualcosa di misterioso, si convince Howe.

Nel frattempo, al Museo Archeologico di Firenze fervono i preparativi per l’inaugurazione della mostra etrusca che farà da corollario all’imminente Congresso Internazionale di Etruscologia che si terrà in città. Ne sono coinvolti la direttrice del museo, con cui Howe quasi divide l’ufficio, e un illustre docente universitario coadiuvato da un suo ricercatore, fedele assistente-carrierista.

Howe, che sta meditando sugli strani movimenti del suo vicino, una sera decide di curiosare nella famigerata cantina del palazzo, avendone trovata la porta aperta. Scende e scopre il suo vicino disteso a terra, sgozzato, mentre esala gli ultimi respiri.

Ora gli omicidi sono due, e il protagonista ne viene coinvolto suo malgrado. La polizia indaga e interroga, ma sostanzialmente brancola nel buio.

Howe si mette a indagare per conto suo, stimolato dall’anatomopatologo che ha sezionato i due cadaveri.

Mi fermo qui… ma la storia procede in maniera rocambolesca e avvincente.

*

Ringrazio l’autore del libro e la Sylvestre Bonnard per avermi concesso la possibilità di pubblicare il brano che segue.

*

*

II

UN MORTO IN VIA VECCHIA FIESOLANA

giovedì

1.

«Ma perché non avete isolato subito la zona?» protestò l’agente della scientifica Caviglia, mentre tirava fuori le attrezzature dalla valigetta. «Ci sono orme dappertutto, qui. In quanti ci avete camminato?»

Una serie di pedate ancora fresche disegnava ghirigori disordinati intorno alla pozza di sangue, come se qualcuno ci avesse fatto un girotondo.

«Ci ha passeggiato il tizio che l’ha scoperto, era sotto choc.» Il sovrintendente di polizia Tampieri osservò il corpo con riprovazione, srotolando un nastro misuratore agganciato a una parete. «Dice di essere un suo aiutante. Ha le occhiaie nere e la faccia stralunata, come minimo s’è fatto una canna appena alzato.»

L’agente della scientifica montò il flash sulla macchina fotografica e iniziò le operazioni. Scattò un’inquadratura generale del portone in ferro, poi altre due da angoli opposti della rimessa. Quando arrivò al cadavere, s’inginocchiò su uno sgabellino per non pestare nulla. Il morto indossava una maglietta blu scuro e un paio di jeans logori. Il volto era premuto per metà sul pavimento, contratto in una smorfia di dolore, e il prolasso della muscolatura ne deformava i lineamenti.

Il medico legale aveva appena terminato di rilevare le condizioni della vittima, annotandole con una grafia minuscola su un taccuino. Il colpo di forcone gli aveva trafitto il cuore, quasi passandolo da parte a parte. I rebbi arrugginiti erano ancora infissi tra le costole del cadavere, che giaceva riverso su un fianco in un lago di sangue nerastro. A un paio di metri, alcune sedie rovesciate sull’impiantito di cemento e i vetri sfondati d’una vecchia credenza erano i segni evidenti di una colluttazione. Il decesso doveva essere avvenuto tra le ventuno e le ventiquattro della notte precedente, verosimilmente per le lesioni inflitte al cuore. Sull’emivolto sinistro e sulla regione corrispondente del collo erano visibili alcune piccole escoriazioni, la cui natura andava accertata.

Al centro del locale c’era un enorme banco da falegname coperto da molti attrezzi e seminascosto da cataste di mobilia d’ogni genere. Accanto, uno strano sedile in legno scuro col coperchio sollevato, che sembrava un pezzo di confessionale.

All’interno dell’abitazione, l’ispettore capo Gentilini stava ascoltando il testimone, un ragazzotto scuro di pelle con la fronte bassa e i folti capelli nerissimi. Secondo quanto aveva dichiarato, nel tempo libero andava ad aiutare Carletto Massi a titolo d’amicizia, per imparare le tecniche del restauro. Quella mattina avrebbero dovuto ricostruire un vecchio mobile a cui Massi teneva molto. Visto che al campanello non rispondeva e il portone di ferro era socchiuso, il ragazzo era entrato nel deposito e aveva trovato l’uomo stecchito, in un bagno di sangue.

«Allora, ricominciamo. Sei arrivato alle otto e mezzo col motorino. Sei entrato nella rimessa, hai visto il corpo, ci hai gironzolato intorno…»

«Ero sconvolto» biascicò il giovane, «e lo sono ancora, cazzo…»

«Non dire parolacce. Sei sicuro di essere italiano?»

«Certo. Perché, cosa le sembra?»

«Hai una faccia…»

«Sono così di famiglia, abbiamo la pelle scura. E poi cosa c’entra?»

«Le domande le faccio io, stronzo» sibilò l’ispettore capo agitandosi sulla sedia malferma.

Erano seduti in cucina, uno stanzone con un camino gigantesco dov’erano ancora ammucchiate le ceneri dell’ultimo inverno. Sul tavolaccio scrostato c’erano i resti d’un pranzo e su una sedia c’era una sportina di plastica piena di bucce, noccioli, tozzi di pane raffermo e avanzi irranciditi.

«Dov’eri ieri sera, tra le nove e mezzanotte?» venne al sodo l’ispettore.

«Al bar Parigi.»

«Al bar Parigi?»

«Già. E ci sono rimasto fino alle due.»

«Interessante…» Gentilini s’accarezzò la mascella prominente e accentuò l’espressione inquisitrice. Quel bar veniva chiuso a settimane alterne per gioco d’azzardo. «Allora t’avranno visto almeno in sessanta.»

«Proprio così» rispose il ragazzo con aria di sfida.

*

Le mani, nelle aree non imbrattate dal sangue, recano tracce evidenti di terra o terriccio, che le opportune analisi…”. Il medico legale staccò la penna dal taccuino e guardò l’agente Caviglia che raschiava i residui essiccati dalle dita del cadavere, facendoli cadere in una bustina trasparente. I rilievi sulle maniglie e sui piani d’appoggio erano stati eseguiti, mentre il legno sfaldato del manico del forcone non poteva restituire alcuna impronta.

Una tuta da lavoro sporca di terra era appesa a una specie di rastrelliera che accoglieva rudimentali attrezzi agricoli. L’ispettore capo ricomparve sbuffando, e andò a esaminarla da vicino.

«Ieri il terreno era ancora umido» osservò il sovrintendente indicando la terra incrostata sotto le scarpe del morto. «A meno che non le avesse sporche da prima.»

«Già. Deve aver lavorato nell’orto. Hai visto quanta verdura? È la parte più curata in assoluto.» Soprappensiero, Gentilini si accese una sigaretta e fece per gettare il fiammifero, ma un gesto repentino dell’agente Caviglia lo fermò.

«Ehi, capo, non vorrà che mi metta a fotografare anche la sua cenere, vero?»

«Certo che no, cosa credi?» ribatté l’ispettore, piccato. «Volevo solo vedere se stavi attento.» S’infilò il fiammifero in tasca con aria impermalita e fece un cenno verso il portone spalancato. «Là fuori ci sono due impronte di pneumatici ancora umide, sicuramente risalgono a ieri sera. Fagli delle belle inquadrature e poi prendi il calco.»

«Il ragazzo di là che dice?» domandò il sovrintendente.

«Ha già richiesto la presenza dell’avvocato. Uno non può nemmeno far due domande…»

*

MISTERO ETRUSCO di Paolo Ferrucci

Edizioni Sylvestre Bonnard, 2007

Pag. 350, euro 18

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martedì, 3 aprile 2007

GIOVANI LETTORI AL LAVORO

Aderisco con molto piacere a un’iniziativa lanciata dalle librerie Cavallotto di Catania. L’obiettivo è quello di coinvolgere (e magari contribuire a creare) giovani lettori. Per il momento il target di riferimento sarà limitato alla provincia di Catania, però ritengo che l’iniziativa possa replicarsi anche in altre città… magari con l’intervento delle librerie più attive.

Le Cavallotto, vincitrici del Premio Nazionale Librai "Mauri" di Venezia

Segue il testo diramato dalla libreria.

Vuoi diventare un giovane lettore consulente della nostra libreria? Se hai tra i 15 e i 19 anni contattaci entro il 15 aprile 2007 telefonando 095 310414 oppure scrivendo a luisa@cavallotto.it e parteciperai ad una selezione.

Ti daremo in prestito da uno a tre libri al mese per indicare l’indice di gradimento, tramite un questionario, e scrivere 15 righe di sintesi e 15 di commento.

Commento, sintesi e indice di gradimento verranno pubblicate sul nostro sito dove stiamo creando uno spazio per voi… e sul blog Letteratitudine di Massimo Maugeri.

I titoli potrai sceglierli nella nostra bibliografia sempre aperta a suggerimenti.

cavallotto
librerie/edizioni
www.cavallotto.it 

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lunedì, 2 aprile 2007

SULLA PUBBLICAZIONE DI OPERE TEATRALI IN LINGUA ITALIANA (di Isabella Rinaldi)

Minuscole compagnie si autoproducono, ospitate nei teatrini degli oratori di periferia e, nel disperato tentativo di richiamare pubblico, limitano il repertorio ad autori noti.

Gli autori scelti sono sempre quelli più facili vicini alla cultura anche di oggi, diciamo che i grandi classici, che tali sono per ovvi e meritati motivi, sono sempre in scena, mentre ci sono autori meritevoli che hanno una eco minima e presto vengono dimenticati.

Non essendo un’esperta, né un’assidua frequentatrice di teatri, posso solo lamentarmi, con la voce (scarsa) della quivis de populo appassionata lettrice, perché nemmeno l’editoria degna di nota la poetica del teatro.

Chi, come me, ha praticato da entrambe le parti l’editoria (come lettrice e traduttrice prima e come scrittrice poi), tristemente conosce i problemi economici che influenzano la pubblicazione.

Produrre un libro, per una casa editrice, ha un costo molto alto.

Le piccole case editrici che vorrebbero diffondere cultura e impegno, sono strangolate dalla distribuzione e dalle richieste delle librerie, che, nella logica del commercio (è un ossimoro) devono esporre i prodotti che vendono, cioè che vadano incontro alle richieste del pubblico pagante.

Dunque, per tornare al teatro, un’amante di questo particolarissimo genere, dopo aver esaurito nell’infanzia e nell’adolescenza tutti i classici, deve avere buone gambe per perlustrare tutte le librerie, specialmente quelle che vendono libri usati (per tacer di quelli antichi).

Che fortuna! A me piace camminare!

E camminando, amando il teatro e perlustrando ogni infimo scaffale dei grigi bugigattoli – dove si vendono intere biblioteche personali di colti trapassati – ho scoperto, circa quindici anni fa, la produzione del signor Jean Tardieu (1903 – 1995).

Jean Tardieu

*

Autore poco prolifico, ma con linguaggio eclettico, Tardieu scrive poesie, narrativa, lavora per la radio e, ciò di cui parlo adesso, scrive piccoli pezzi di teatro da camera, negli anni Cinquanta, quando in Francia il teatro aveva un’importanza che qui da noi non ha conquistato neppure nelle frequentatissime cantine degli anni Settanta.

Dunque, le opere da camera di Tardieu sono brevi atti unici, che realizzare, per via delle scene sempre scarne indicate dall’autore, costerebbe poco davvero.

Eppure nessuno lo fa.

Nessuno, nemmeno gli amanti del teatro dell’assurdo, pare abbia pensato a recitare questi piccoli, brevi, godibili capolavori.

E allora intervengo io, che ve li racconto, dopo averli faticosamente (e inutilmente) cercati nell’unica edizione italiana mai realizzata (Sansoni, 1956) – infatti li ho comprato in Francia, edizioni Gallimard 1992, ristampa della prima edizione del 1947 (io vi dico colo che ho cacciato un grido, quando ho visto il libro sullo scaffale, di una buia e fredda libreria, durante un buio e freddo pomeriggio di gennaio, ad Arles N.d.R. –Nota della Rinaldi).

Per Letteratitudine, che mi ospita, avrei tanto voluto fare una traduzione, almeno parziale, almeno di uno dei piccoli atti unici del Teatro da Camera, ma non ho ancora avuto il tempo di limare l’orrida bozza che avevo predisposto di uno dei miei pezzi preferiti, e dunque, piuttosto che tormentarvi anche con una traduzione approssimativa, preferisco invogliarvi a fare una gita oltr’Alpe.

Posto che di Tardieu non ho amato le poesie, né mi sono soffermata sui libelli per la gioventù con i quali pure in gran parte contribuì a pagarsi l’affitto, posto inoltre che, per la giovine età mia (giovane è in effetti un eufemismo, avendo io passato la trentina, e avvicinandomi ad ampie falcate al temuto mezzo del cammin, ove non rischio tuttavia di smarrire la via retta, non avendola ancora mai intrapresa) non ho esperienza diretta delle fumose sale di teatro dell’assurdo di un tempo, e mi limito a immaginare tutti quei signorini e quelle signorine di nero vestiti, con capelli corti e baschetto nero (ho visto troppe sophisticated comedy americane, temo).

Tornando a Jean Tardieu, segnalo dunque la sua attuale assenza dal mercato italiano e vi racconto perché se ne sente la mancanza.

Perché chi sostiene che Vallettopoli sia un frutto dei tempi moderni, dovrebbe riflettere sull’umana natura, che ben poco è mutata in questi anni senza guerra (senza guerra in casa nostra, intendo).

La prostituzione, il ricatto, la viltà d’animo sono tristi prerogative dell’Uomo.

L’assenza di morale nel comportamento è solo enfatizzata e resa più evidente dalla maggior libertà di costumi.

Niente di nuovo sopra il palco, dunque.

Ed è per questo motivo che vale la pena di leggere con i nostri occhi freschi questi atti unici, che raccontano di un tempo solo apparentemente lontano.

Il teatro di Tardieu è metafisico: crea domande e lascia solo intuire le risposte, stimolando nello spettatore (ehm… nel lettore) reazioni che vengono dal profondo.

E il teatro metafisico (la definizione non è mia, e peccato, perché mi piacerebbe tanto reclamarne la maternità) è solo lo spunto di riflessione, è la scusa per concederci un momento di sguardo esterno sulla natura umana.

Siamo ancora come erano questi burocrati di cinquant’anni fa?

(Sì).

Dobbiamo porci domande differenti, ora che sono cambiati i tempi, ora che gli abiti sono diversi, ora che da fuori i costumi sembrano tanto lontani da questi?

(No).

E via di seguito.

Tardieu, dunque, come fa il suo più fortunato “collega” Jonesco, parte da situazioni quotidiane, e per questo apparentemente lontane dal lettore del Duemila, per distruggere, battuta dopo battuta, gesto dopo gesto, l’apparenza, e rivelare che la sostanza è (sempre, ahimè) la stessa.

Se Tardieu vi diverte, è perché siete di buon umore.

Se vi rende cinici, è perché lo siete sempre stati.

Se vi lascia indifferenti è perché… è perché i lettori, oggi, hanno poco da dire e le corde che verrebbero stimolate dal teatro metafisico, in molti lettori non ci sono più.

Ci meritiamo i Cento Colpi di Spazzola? (Questo non l’ha chiesto Tardieu, per la verità).

Cordialmente,

Isabella Rinaldi


(1) Avete acquistato una poltronissima al Teatro Strehler, di recente? Io sì, ho fatto un mutuo ventennale.

*

*

Isabella Rinaldi è nata a Roma il diciassette maggio, lavora a Milano dove abita con suo figlio, un cane e un gatto. Ha collaborato per quattro anni con varie case editrici in qualità di traduttrice, lettrice, editor e organizzatrice di eventi e poi, stremata dall’assidua frequentazione con troppi scrittori, si è dedicata al più riposante mestiere di praticante notaio. Ha pubblicato diversi racconti su riviste e antologie, nel 2005 è uscito il suo primo romanzo HEY, MEN! (Addictions – Magenes editoriale) ripubblicato da TEA nel 2006.

Attualmente sta lavorando al secondo romanzo.

La mia foto
Isabella Rinaldi

Il teatro è morto e, come direbbe Woody Allen, anche io oggi mi sento poco bene.

Si dice che nel nostro Paese il teatro sia poco seguito e pochissimo amato (1)

*

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domenica, 1 aprile 2007

LA GIUSTA VIA (di Joseph Termini)

La giusta via è il romanzo d’esordio di un giovane sessantanovenne siciliano emigrato negli Stati Uniti d’America: Joseph Termini.

Il libro, edito dalla casa editrice senese Pascal, è ambientato tra la fine dell’800 e i primi decenni del ‘900. Un siciliano, Giuseppe Bonelli, la cui stessa nascita è frutto di violenza, cerca la propria strada, la “giusta via”, per garantirsi dignità e benessere contro le ingiustizie, le prevaricazioni, le ipocrisie di un mondo violento e crudele. Tale ricerca lo costringerà ad abbandonare la sua isola per l’Africa e quindi per l’America, in un itinerario di lotte e di sangue che, al termine, lo ricondurrà in Sicilia. Ma lungo l’accidentato percorso, Bonelli conoscerà anche il bene, l’amore, l’amicizia, la solidarietà, il senso dell’onore.

Quella che segue è un’intervista rilasciata dall’autore del romanzo.

.

- Joseph Termini, lei ha esordito con il romanzo "La giusta via " pubblicato l’anno scorso per i tipi della Pascal editrice. Il suo è un esordio particolare poiché è avvenuto all’età di sessantanove anni. Ci racconti un po’…

Il mio esordio letterario con il romanzo "La giusta via " per i tipi della Pascal editrice, mi sembra abbia suscitato stupori e curiosità a non finire perché, come  lei indica, è avvenuto quando avevo sessantanove anni. A questo proposito mi consenta di ricordarle che la particolarità dell’evento che lei pone in evidenza non è, a mio avviso, da considerarsi unica. Tomasi di Lampedusa, figlio della nobilissima terra di Sicilia, autore di numerosi racconti, di saggi sulla narrativa francese dell’Ottocento, scrisse il romanzo " Il  Gattopardo" tra il 1955 e il 1956 quando aveva già raggiunto l’età di sessant’anni. Sono convinto che gli anni non contano. Ha importanza, invece, il grado di fantasia creatrice di cui si è dotati, a parte la grandissima difficoltà che uno scrittore sconosciuto incontra a causa della… “mafia editoriale che pullula in Italia".

- Che tipo di romanzo è "La giusta via " ?

Rispondo così…

Di Cesari Mori, di quell’integerrimo funzionario governativo che per volere di Benito Mussolini fu inviato in Sicilia con pieni poteri per debellare la mafia, lo scrittore Arrigo Petacco, nel suo libro "Il Prefetto di Ferro" edito da Mondadori ,narrando la vita e le bell’imprese (sic) di codesto solerte ed incorruttibile sbirro,ci fa conoscere  quali furono le opere che egli scrisse e i "pensieri" che  volle tramandare ai posteri. Il "pensiero" che mi ha colpito maggiormente e’ il seguente: "La mafia e’ come una vecchia puttana che ama strofinarsi per adulare, circuire e incastrare."

Devo confessare che questo primo pensiero del Mori mi frullò nella mente per diversi giorni a tal punto che, sorridendo, ne creai un secondo che qui di seguito rendo noto: "Mafia , parola magica , e’ come il miele che attrae le api". Da qui, all’idea che avrei potuto, pur con sommo gaudio, narrare una storia di mafia il passo non sarebbe stato breve. Per non battere strade già percorse da scrittori di successo, conoscere tutto o quasi in merito al fenomeno mafioso a partire dal Pitré e fino alla saggistica di Hess, imparare dai lavori di Sciascia, di Puzo, di Pantaleone, Scorsese, Coppola e Francesco Rosi, avrebbe dovuto essere il mio obiettivo primario.

Per la situazione politica ed economica in Sicilia durante il 1860 e il 1870, invece, sarebbe stato importante rifarmi alle notizie storiche riportate da William Galt (Luigi Natoli) nella sua imponente "Storia di Sicilia ".

Per la crisi finanziaria che colpì gli Stati Uniti d’America nel 1929, avrei dovuto attenermi alle informazioni di cronaca  che, senza dubbio, avrei trovate negli archivi delle biblioteche. E’ fuor di dubbio che descrivendo un personaggio mafioso sia pure immaginario, non si può evitare del tutto d’imbattersi nell’uso di comuni definizioni rischiando di finire impantanati nel cliché. E perché? Il mafioso, nella letteratura e nella vita ha un "modus vivendi" che è caratterizzato da un dire, da un gesticolare e da un ammiccare che lo rendono unico e  comprensibile solamente a chi percorre il medesimo cammino mosso da identici intendimenti. L’importante, a mio avviso, per non dare l’impressione di essere andato a "scopiazzare ", è di evitare analogie.

E’, dunque, " La giusta via ", un romanzo di mafia? Certamente, ma esistono sostanziali differenze tra il mio primo mafioso descritto nel mio libro che ha nome "don Fernando Vega " e i mafiosi che conosciamo attraverso tutta una letteratura, una filmografia e dai fatti di cronaca riportati quasi ogni giorno, purtroppo, dai maggiori quotidiani.

Il mio "don Fernando " è nobile di antica schiatta. Uomo coltissimo, conosce la lingua francese, il latino e non ha nulla a che vedere anche con i mafiosi del passato che non sapevano né leggere e né scrivere .

Ma dopo avere raccolto sufficienti informazioni, sarei stato certo di potere iniziare a buttare giù qualche cartella ?  Nossignori ! E perché? Il mio romanzo " La giusta via " scorre per un periodo di circa novant’anni e i personaggi, a parte i luoghi dove nascono, vivono,  e passano a miglior vita, sono più di una ventina e avrei dovuto dividerli in  buoni, cattivi e minchioni. Per queste differenze, per meglio dare il giusto carattere al Tizio o al Caio avrei dovuto indossare i panni di ciascuno di essi e cioe’ a dire: quelli di don Mariano, prete della parrocchia di Caccamo, quelli di un mendicante, del maniscalco, del dottor Placido, dell’imbelle Francesco, suo figlio, e anche quelli del mafioso. Le riflessioni sono state tante e  non ho avuto ripensamenti una volta che decisi di iniziare a scrivere e a divertirmi. Se sono riuscito a narrare in modo scorrevole e comprensibile senza mettere le ali ?

Senza dubbio alcuno. La giusta via, il mio libro, ovvero il mio diletto, è di oltre trecento pagine e di tempo ne è occorso per portarlo a termine e le ali, per la fretta di concludere a tutti i costi, non hanno fatto parte del mio bagaglio. Lo spirito critico di cui sono convinto di essere dotato non me ne avrebbe concesso l’uso e ho preferito lasciarle al mitico Icaro per non evitare di essere arrostito. Per concludere, mi sia concesso di rammentare a chi ha letto il libro e di avvertire chi non l’avesse ancora sotto gli occhi, che la mafia non è il mondo dei bambini e delle donne che , erroneamente, autori di grido hanno introdotto nella narrazione. "I picciriddi ", i bambini, frequentano l’asilo e attendono al catechismo. " I fimmini ", le donne, invece, la mafia le mantiene con cura in cucina e in camera da letto.             

               

- Da dove nasce l’ispirazione ?

Ho l’abitudine di prestare attenzione a ciò che mi circonda. Un albero dai lunghi rami contorti e privo di foglie, il sorriso di un bimbo, le sembianze dei miei simili  e quando accade, il suono, il colore e il timbro delle loro voci.

Alterate, dopo una malaugurata ed improvvisa pestata sui piedi in un autobus affollato o sommessa e pregna di buone maniere di chi, domanda permesso per raggiungere la porta d’uscita.

Tutto ciò mi attrae e può, in particolari situazioni d’animo, essere di stimolo alla mia creatività e fare sorgere un idea che, da pensiero astratto, potrebbe andare a concretizzarsi in un contenuto razionale e comprensibile.

Ho intenzione di rivedere la mia terra, la mia Sicilia, e la prima cosa che farò sarà quella di recarmi fuori le mura di un paesino qualunque per scoprire cosa mi suggerirebbe l’immagine di una trazzera deserta, polverosa ed assolata. Se poi avessi tanta fortuna, una fila di carrette che tornano dal lavoro dei campi e udire il suono delle sonagliere che pendono dalle cavezze dei cavalli e il canto melanconico e dolcissimo dei contadini.

            

- Il suo libro è in qualche modo autobiografico?

Nel romanzo, Giuseppe Bonelli, figlio di Nunzia Bonelli, è un ragazzo di appena quattordici anni. Dopo le ore di scuola,  dopo avere messo ordine tra i paramenti sacri per volere di don Mariano, si diverte a gironzolare per le strade del paese e curiosare. In via dei Calderai, dove osserva gli artigiani nella manifattura di padelle, pentole ed anfore di rame, presso l’officina di mastro Saverio il maniscalco ad ammirare i  cavalli magnifici di don Fernando Vega che attendono di essere ferrati, oppure in via dei Cordari dove nascono le gomene che servono ai pescherecci ormeggiati alla fonda.

E’ in quest’unico caso che si può essere certi della mia autobiografia. Infatti, il personaggio del giovane Bonelli, nel racconto, indossa i medesimi panni e ha le identiche abitudini che Joseph Termini  indossò ed ebbe all’età’ di quattordici anni al tempo in cui abitava a Termini Imerese.

Per quanto riguarda le tragedie che investono il Giuseppe Bonelli, che si trasforma in uomo anzitempo, che si arma di una arrugginita doppietta ed uccide Vito Vega e che poi fugge in Tunisia , è frutto di pura fantasia. Sono fantasie anche le avventure  di Joe Bonelli in America e le arrampicate nel mondo della mafia che lo porteranno ad assumere preminenti  posizioni di comando e di ricchezza.

             

- Progetti per il futuro?

Al momento lavoro a… ma cosa dico ? lavoro ?

Che brutta parola ! Per essere coerente devo dire, invece, che mi diverto a scrivere quasi ogni sera a parte le decine e decine di pagine che non mi convincono e getto nel secchio della carta straccia. Il lavoro e’ fatica, sudore che diventa, a seconda delle persone che lo spandono, insopportabile e nauseabondo. Scrivere e’ respirare aria fresca, ritrovarsi, essere liberi. Scrivere è come aprire magiche porte e trovarsi d’incanto in un mondo dove si può scorazzare a  proprio piacimento. Ma per soddisfare la domanda , le confesso che… mi sto divertendo a scrivere due racconti contemporaneamente i cui rispettivi titoli, almeno fino ad ora , sono: " L’uomo tascabile " e  "Bel visino tra la folla ".

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LA GIUSTA VIA di Joseph Termini

Pascal editrice, 2006

Pag. 307, euro 15

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Joseph Termini è nato a Cassino nel 1937 da famiglia di origine siciliana. Dopo gli studi di agraria ha esercitato svariati mestieri e attività: impiegato a Palermo, Parma e Perugia, benzinaio a Catania, cantante di night a Tunisi. Vent’anni fa si è, infine, trasferito negli Stati Uniti dove ha lavorato con ruolo dirigenziale per un’importante ditta di cosmetici; attualmente vive a Northport, Alabama. In realtà queste sue peregrinazioni erano essenzialmente tese a conoscere luoghi, ambienti, culture diverse, accumulare esperienze da tradurre sulla pagina, perché il vero sogno di Termini è sempre stato quello di diventare scrittore, un sogno che comincia a realizzare con questo romanzo.

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