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Archivio di settembre 2007

venerdì, 28 settembre 2007

LA SCRITTURA TRA SOLITUDINE E LIBERTA’ (Gao Xingjian)

Gao XingjianNel post dedicato all’edizione 2007 del Premio Nobel per la letteratura è venuto fuori il nome di Gao Xingjian. Qualcuno di voi mi ha chiesto di approfondire la conoscenza di questo autore.

È quello che conto di fare, con il vostro aiuto, in questo post.

Ecco, intanto, come Wikipedia Italia racconta l’autore cinese.

Gao Xingjian (nato il 4 gennaio, 1940), è l’unico scrittore cinese ad aver vinto il Premio Nobel per la letteratura, nel 2000.

È romanziere, drammaturgo e critico letterario, oltre che traduttore di grande fama, regista teatrale e pittore. Nato a Ganzhou, nella provincia cinese del Jiangxi; espatriato in Occidente, attualmente è cittadino francese. Nel 1992 è stato insignito dal governo francese dell’onorificenza di Chevalier de l’Ordre des Arts et des Lettres.

Gao Xingjian nasce all’indomani dell’invasione giapponese della Cina, il padre era un funzionario di banca e la madre un’attrice dilettante che lo spinse a interessarsi al teatro e alla scrittura.
Dopo aver frequentato le scuole di base, nel 1962 ottenne la laurea in francese presso l’Istituto di lingue straniere di Pechino. Dopo l’inizio della Rivoluzione culturale venne mandato in un campo di rieducazione; in quel periodo fu costretto a bruciare un’intera valigia di propri manoscritti non ancora pubblicati.

Le sue prime pubblicazioni risalgono al 1979, quando gli venne anche permesso di viaggiare in Francia e in Italia. Tra il 1980 e il 1987 pubblicò numerosi racconti e romanzi di successo e grande scalpore suscitarono alcune sue opere teatrali. Nel 1986 la sua opera L’altra riva venne vietata e da allora nessun suo testo teatrale è mai più stato rappresentato in Cina. Per evitare le persecuzioni si dedicò a un viaggio di dieci mesi attraverso le montagne della provincia del Sichuan, seguendo il corso del fiume Yangzi (noto in italiano come Yangtze o Fiume azzurro). Nel 1987 ottenne asilo politico in Francia e si stabilì a Parigi. Dopo la strage di Piazza Tian An Men del 1989 rassegnò le dimissioni da membro del Partito comunista cinese. Dopo la pubblicazione di Fuggitivi (ispirato alla tragedia di Piazza Tian An Men) le sue opere sono state vietate in Cina e Gao Xingjian è stato dichiarato persona non grata dalle autorità cinesi.

Gao Xingjian dipinge usando l’inchiostro (secondo la tradizione cinese) e illustra le copertine di molti suoi volumi; ha tenuto in tutto il mondo oltre trenta mostre.

Le opere del Nobel cinese pubblicate in Italia sono le seguenti

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Vi propongo, di seguito, un’intervista che Gao Xingjian ha rilasciato ad Alain Elkann nel giugno di quest’anno (cfr. La Stampa del 29/6/2007).

Letteratura è un Festival dedicato alla montagna, al viaggio e all’avventura ed è alla sua prima edizione. Questi sono gli stessi temi che lei tratta nel suo capolavoro il romanzo La montagna dell’anima (Rizzoli) che le è valso il Premio Nobel per la letteratura nel 2000…

«La letteratura può solo essere la voce dell’individuo, se è al servizio di una patria, di una nazione, di un partito o di un ceto perde ogni significato. Il mio romanzo è una ricerca spirituale. Una ricerca di pace. Sono stato obbligato a lasciare Pechino, la mia città. Così ho scritto un libro solo per me stesso senza pensare di essere pubblicato, ma nel quale non sottostare alla censura e dire e scrivere tutto ciò che pensavo».

Il libro dove lo ha finito?

«L’ho terminato a Parigi. Ma non trovavo un editore, perché non era commerciale. Fu bocciato da sei editori, che volevano lo riducessi. Ero di nuovo di fronte a una censura, questa volta del mercato. Io non ho fatto compromessi e il libro è stato pubblicato per la prima volta in 2000 copie a Taiwan».

La montagna nel suo libro è una metafora?

«Nella vita uno cerca quella spiritualità, così sono stato sulle montagne. Guardavo scorrere il fiume, ho fatto un viaggio di 15 mila chilometri per cinque mesi. Mi sono perso nelle foreste vergini. Sono stati degli scienziati a recuperarmi».

La Cina come Paese si è ufficialmente opposta al suo Premio Nobel.

«Sì, le autorità cinesi hanno attaccato l’Accademia svedese. Il mio nome è censurato in Cina e non può apparire in nessuna pubblicazione ufficiale».

Allora i cinesi non la conoscono?

«Sì, mi conoscono attraverso altri mezzi come le edizioni pirata. Su questa edizione hanno messo una mia fotografia che però non è la mia fotografia, è quella di un altro».

E lei come guarda la Cina?

«L’ho lasciata vent’anni fa. Non conosco la Cina attuale ma so cosa succede. Certo c’è un boom economico straordinario e penso che sia un bene anzi per la Cina e per il popolo cinese, ma il potere resta totalitario con la stessa censura di prima. La gente sta meglio nelle grandi città e in provincia ma ci sono enormi problemi ecologici dovuti a una corruzione che non ha controllo».

E il Nobel le ha cambiato la vita?

«Sì, all’inizio. E non sapevo reggere la pressione da solo. Mi sono anche ammalato, adesso ho ripreso la mia vita in mano».

Perché gli scrittori che sono sensibili e fragili fanno talmente paura ai regimi politici di grandi Paesi?
«Perché hanno una voce indipendente. Se non si segue il potere politico, se si vuole avere una voce, questo non è così piacevole per la politica».

Lei parla molto di solitudini…

«Sì, è una necessità assoluta per uno scrittore. Se si vuole veramente pensare bisogna essere soli con se stessi. La letteratura deve essere libera dalla politica lo ribadisco».

La letteratura ha un ruolo importante in Cina come in Francia?

«Sì, c’è una lunga tradizione. La letteratura è la testimonianza della esistenza umana. Questa è meglio conservata nella letteratura che nei grandi libri di storia scritti dal potere. La letteratura parla di piccole storie individuali molto più vere della storia sociale».

E chi sono i suoi scrittori preferiti?

Ho letto molto fin dall’infanzia. Ma non solo letteratura cinese, ho letto libri giapponesi, indiani e da ragazzo ho letto la Divina Commedia in cinese. L’ho comperata due volte perché la prima volta l’ho persa. Ho letto anche Don Chisciotte quando avevo 14 anni e ho fatto le illustrazioni. Mi sembra un personaggio ridicolo e affascinante. E anche il suo valletto».

Che cosa rappresentano le donne?

«L’altro sesso resta sempre misterioso. Non si può mai dire che si conosce una donna per quanto uno voglia conoscerla».

Lei è religioso?

«Prima dicevo che ero ateo, adesso penso che ci sono cose che non si possono spiegare ed è troppo vanitoso dire che conosco tutto. Ho bisogno del rispetto per ciò che è sconosciuto, forse è un po’ la paura della morte che è misteriosa e sconosciuta».

Come guarda il mondo di oggi?

«Si dice che l’uomo è fragile, ma lo è anche uno Stato. L’11 settembre ha fragilizzato gli Stati Uniti, una catastrofe può cadere sulla testa di ognuno senza che ce l’aspettiamo. Non si sa mai che cosa crea il conflitto. Io però non ho utopia».

Ama la democrazia?

«Sì, anche se non è perfetta ma non c’è altra scelta, perché non c’è niente di meglio. Le utopie falsano la gente, sono stupide, è una malattia infantile, bisognerebbe affrontare la realtà che è complessa e solo la democrazia sa equilibrare i conflitti, ma non basta».

E quello che spera per la Cina è una democrazia?

«Quello che spero non conta niente, è un Paese con un potere pesante e totalitario, non si può influenzare, non si può criticare».

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Vorrei che questo post procedesse su un duplice binario:

1. sulla figura di Gao Xingjian (mi aspetto vostri contributi)

2. mi piacerebbe che nascesse un dibattito sull’intervista che vi ho proposto.

In particolare, vi domando:

- La letteratura può solo essere la voce dell’individuo (nel senso che se è al servizio di una patria, di una nazione, di un partito o di un ceto perde ogni significato)?

- La letteratura è solitudine?

- La solitudine è davvero una necessità assoluta per uno scrittore?

Vi ringrazio molto.

(Massimo Maugeri)

Pubblicato in EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI   73 commenti »

mercoledì, 26 settembre 2007

RECENSIONI INCROCIATE (di Enrico Gregori e Vito Ferro)

Ho incontrato Enrico Gregori e Vito Ferro in maniera rocambolesca.

Stavo per eliminare le mail raccolte nella cartella spam del mio account quando, tra una promozione del viagra e una missiva in cui mi informavano che avrei vinto un milione di euro se (non ho continuato la lettura), scorgo – uno sull’altro – i messaggi di posta elettronica dei due suddetti individui.

Mi accorgo che le mail sono state inviate quasi contestualmente (a distanza di pochi minuti) e contengono informazioni sui libri di cui parleremo in questo post.

Dal breve scambio epistolare intuisco che Enrico e Vito sono accomunati, oltre che dall’essere riconosciuti come “spam” dal mio account di posta elettronica, da uno spiccato senso dell’umorismo.

Così ho pensato bene di metterli in contatto.

Volete che parli dei vostri libri? Facciamo così: spediteveli reciprocamente e recensitevi a vicenda.

Così ho detto, così hanno fatto.

Insomma, quelle che vi propongo sono recensioni incrociate. Vito recensisce il libro di Enrico e viceversa.

Saranno recensioni credibili? Si saranno messi d’accordo?

Leggete e giudicate.

E poi parlatene con gli interessati.

(Massimo Maugeri)

P.s. Guarda cosa si deve inventare uno per parlare di libri in maniera alternativa!

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Un tè prima di morire (di Enrico Gregori) – Editore Bietti, 2007, euro 10, pagg. 138

recensione di Vito Ferro

In un albergo americano che sarà la sede di un importante summit di potere e finanza, un probabile attentatore sanguinario è pronto a colpire il suo bersaglio, un uomo spregevolmente ricco, odiato da tutti. L’albergo, il prestigioso Manovar, diventa così una fortezza presidiata da poliziotti e cecchini, artificieri e agenti antiterrorismo. C’è tensione nell’aria e tutti gli ospiti dell’albergo, gli inservienti, gli abitanti della cittadina attendono un qualcosa che di tragico e devastante dovrà avvenire. E’ questo, in sintesi, l’incipit del bel romanzo di Enrico Gregori, giornalista e scrittore di Roma, che pubblica con Bietti (il libro è acquistabile tramite il sito della casa editrice www.bietti.it) questo avvincente noir (ma vedremo presto quanto l’etichetta stia stretta, molto stretta…) composto da ampie finestre narrative, squarci di vita narrati con lucidità, immediatezza, incisivo fervore. Il libro è, come dicevamo, difficilmente inscrivibile nel genere di thriller canonico: sembra anzi che la vicenda primaria della storia (l’attesa lunga della strage), sia quasi soltanto pretesto e stimolo per mostrarci, vivisezionata alla perfezione, l’esistenza delle singole persone che abitano l’albergo e le pagine del libro, tasselli e ingranaggi di un puzzle o di un meccanismo che mostra e scandisce il tempo verso l’ineluttabile (?), verso l’apoteosi. Si muovono come esseri umani veri, questi personaggi di carta, con le loro ansie, le loro paure, le gioie preservate nell’intimo e le loro missioni: ognuno di loro ha infatti una missione particolare, un senso da dare alla sua immediatezza, uno scopo profondo. C’è chi deve portare a compimento l’attentato, chi deve impedirlo, c’è chi è destinato a subirlo in quanto vittima sacrificale nel gioco dei poteri e della ricchezza, chi si trova nel luogo e sente di essere costretto a dovervi partecipare senza averne ragione o colpa. Dopo l’undici settembre, una vicenda come quella narrata da Gregori, acquista uno spessore e un valore di verità decisiva: figlia dei tempi ormai giunti, la paura e l’attesa (spesso risolta nel dramma, nel sangue) da Deserto dei Tartari, è l’aura che circonda la nostra consapevolezza, ormai certi di poter essere tutti bersaglio della follia terroristica e pagare colpe più grandi, avviluppati nella scacchiera sporca di una politica senza scrupoli, deviata e criminale. Ma il libro va oltre, e la metafora a cui rimanda è quella dell’eterno gioco tra la vita e la morte, la dinamica propria ad ogni esistente che cerca con il proprio particolare agire (e con la rimozione volontaria della consapevolezza che la fine di tutto sia in agguato, dietro l’angolo, dentro ogni passo, movimento, scelta), di scacciare il senso di inevitabile che ci condiziona e marchia tutti. Dentro l’albergo della storia quindi, soggiorniamo tutti noi. Chiunque di noi, che sia povero o ricco, abbia scopi nobili o perversi, provenga da un passato oscuro o abbia condotto la sua vita irreprensibilmente, che sia in fuga o in ricerca, è accumunato dall’avere una stanza nel Manovar (il nome del’albergo che ricorda l’espressione Man on War: uomo in guerra: uomo in guerra costante con se stesso e la vita). Lo scrittore riesce così, grazie ad un linguaggio diretto, franco, vivo, di mostrarci l’intima reazione di ognuno alla paura, a quella paura atavica che ci costringe a guardare al fondo di noi stessi e a fare i conti con una certezza che si preferisce evitare. Densi di un’umanità in affanno, capace di inventarsi manovre e speranze diverse, i personaggi del libro, ci sembrano così vicini, così veri: i poliziotti che maledicono il rischio che devono correre compiendo il loro dovere, l’uomo che sogna un amore e lo coltiva nel suo silenzio, la coppia adulterina sospesa tra desiderio e rimorso, il musicista che insegue la sua passione al di sopra di tutto, la poetessa in cerca del dialogo più intimo, più sincero, gli attori di teatro persi dentro la confusione di un ruolo, e ancora i magnati potenti invischiati nelle lotte per la supremazia disumana, il magnate, Colin Mallory, il bersaglio, lo spietato squalo che odiano tutti e che sembra destinato a scontare la pena accumulata in un vivere amorale, senza regole. E c’è anche, come personaggio aggiunto, il senso di pericolo incombente di cui si ignora quale faccia abbia, quale strategia. In un collage da reality veritiero sono i gesti, i tic, le ansie, le parole cariche di sospiro e trepidazione a connotare questi soggetti come ben altro da semplici comparse. Sono loro il libro, sono le loro interazioni, lo scorrere metodico di tante vicende che si accavallano, sino a sfumare e forse risolversi una volta finita la storia. Bene o male? Non lo dirò mai, ovviamente. Ma solo ricordo e ribadisco quanto il bene e il male, in questa vicenda, si smarriscano uno dentro l’altro, fino a perdere i netti contorti, fino a confondere alibi, ragioni, sentimenti, certezze. Proprio come nella vita di tutti i giorni, dove una colpa è spesso soltanto l’altra faccia di una ingenuità portata all’estremo. Ottima prova del Gregori, quindi, libro avvincente e tagliente, frutto di una capacità di resa narrativa che gli viene sicuramente dal suo lavoro di giornalista e dalla sua esperienza di conoscitore d’uomini. Ma sa anche giocare, e bene, Gregori con questa sua capacità, stravolgendo caratteri e cliché, infarcendoli di un ironia, a volte amara, a volte esilarante: crea un genere a sé che sta a metà strada tra la commedia umana e il noir più tradizionale. E questo grazie ad un linguaggio che non gira attorno alla sua materia in una costante rincorsa narcisistica, ma da essa proviene e ad essa si attiene: la materia dell’amore, del sesso, della morte, della ricerca, della violenza. Sono tutte con l’iniziale minuscola. Sono tutte le cose di cui ci circondiamo, e che, alla resa dei conti, abitano la nostra esistenza. E così come sono ce le presenta l’autore offrendoci questo Tè prima di morire.

Vito Ferro

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L’ho lasciata perché l’amavo troppo (di Vito ferro) – Coniglio Editore, 2007, euro 6,50, pagg. 93

recensione di Enrico Gregori

Un libro di circa 100 pagine pieno di pretesti per lasciare lei o per farsi da lei lasciare. Tale codardo volumetto non poteva che essere pubblicato dall’editore “Coniglio”(www.coniglioeditore.it). Sotterfugi, giustificazioni incredibili, situazioni paranormali. Tutto questo, forse, per non dirsi semplicemente “è finita”.

Vito Ferro ci regala questo manuale che, epidermicamente, pare un libro di barzellette sui carabinieri oppure un diario scolastico d’ultima generazione.

Io, ritenendo che la fantasia può rendere gradevole anche l’orario dei treni, dico che Vito di fantasia ne ha usata a profusione. Quindi, tra battute, monologhi, dialoghi e fandonie, “L’ho lasciata perché l’amavo troppo” è un esercizio cerebrale affrontato con cura e intelligenza. Volendo si ride, volendo si riflette.

Chi ne ha voglia potrebbe anche spulciare nelle psicologie, nelle timidezze, nei diversi approcci che maschietti e femminucce hanno nei confronti dell’abbandono. Io, esprimendo a Vito la mia ammirazione, vorrei semplicemente dire che non è facile, non è affatto facile costruire 100 pagine su un unico concetto.

Fantasia, dunque, e tanto di cappello al giovane autore. Anche con un pizzico di invidia perché se, ad esempio, avessi affontato io il medesimo cimento, avrei scritto un libro di tre sole righe.

Io: “Chi ha composto Eleonor Rigby”?

Lei: “George Michael?”

Io: “Vaffanculo!”

Enrico Gregori

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lunedì, 24 settembre 2007

IL “VOSTRO” NOBEL PER LA LETTERATURA 2007

Tra poco più di un paio di settimane conosceremo il nome del nuovo Premio Nobel per la letteratura. Un appuntamento atteso da molti.

Chi sarà immortalato nell’albo d’oro del Premio letterario più famoso, ambito e ricco del mondo? Badate bene. L’aggettivo ricco non è usato a caso dato che “il prescelto”, oltre a titolo e gloria, si intascherà l’equivalente di 1,06 milioni di euro (poco meno di due miliardi delle nostre vecchie lire). Non male, vero?

Fioccano i nomi. A quelli dei pluricandidati – Roth, Llosa, ecc – si affiancano quelli un po’, come dire, meno ortodossi: dal “nostro” Roberto Benigni alla leggenda vivente della musica pop-rock Bob Dylan.

Vi propongo l’articolo apparso giorni fa su Repubblica.

Poi vi domando: ritenete giusto che nella “rosa dei nomi” siano inclusi pure quelli di Benigni e Dylan ?

E poi – richiesta inevitabile -, chi è il “vostro” Nobel per la letteratura 2007 ?

Potete fare fino a tre nomi (e non venitemi a dire che non sono di manica larga, eh?). Vanno bene pure indicazioni “fuori lista”.
(Massimo Maugeri)

P.S. Nella foto la medaglia d’oro del Premio Nobel per la letteratura

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da Repubblica.it

STOCCOLMA – A chi andrà quest’anno il Nobel per la letteratura? I premi 2007 saranno annunciati tra l’8 e il 15 ottobre, lo ha reso noto la Fondazione Nobel di Stoccolma, ma sulla stampa svedese impazza già il toto-Nobel.

Ancora una volta, come è consuetudine, resta segreta la data dell’annuncio del premio per la letteratura, anche se tradizionalmente avviene durante il giovedì della settimana dei Nobel: quindi, in questo caso, il giorno più probabile è l’11 ottobre. Quanto ai candidati al riconoscimento letterario, i giochi sembrano quantomai aperti.

Per il 2007 si danno per favoriti gli autori americani, dal momento che il continente è ormai assente dalla lista dei premiati da oltre un decennio. Tra i nordamericani spiccano le candidature degli scrittori statunitensi Philip Roth, Norman Mailer e Joyce Carol Oates e della scrittrice canadese Margaret Atwood, mentre tra i sudamericani il superfavorito continua ad essere lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa. Sono ritenute alte anche le quotazioni di due scrittori israeliani, Amos Oz e David Grossman. Sembrano calate invece le possibilità del poeta sirio-libanese Adonis, dopo che il premio Nobel è stato consegnato nel 2006 allo scrittore turco Orhan Pamuk, ovvero ad un autore proveniente da un paese a maggioranza musulmana.


Roberto Benigni Ma l’Accademia Reale di Svezia è abituata a far sorprese e allora l’elenco dei candidati al Nobel letterario potrebbe includere dei veri e propri outsider: in questo caso si fanno i nomi dell’attore e regista Roberto Benigni per il suo impegno in favore della divulgazione della “Commedia” di Dante Alighieri (tuttavia potrebbe nuocergli il precedente premio consegnato ad un italiano, Dario Fo, solo dieci anni fa) e il cantautore statunitense Bob Dylan, da almeno sei anni in gara per la conquista dell’ambito alloro internazionale su proposta di illustri letterati di prestigiose università nordamericane.

Bob Dylan

La stagione dei Nobel 2007 si aprirà con l’annuncio a Stoccolma dei premi per la medicina l’8 ottobre, seguito da quello del premio per la fisica il 9 e da quello per la chimica il 10 e dell’economia il 15. Il premio per la pace sarà annunciato a Oslo il 12 ottobre. In questo caso si sa ufficialmente che sono 181 i candidati, tra i quali figurano Al Gore, Sheila Watt-Cloutier, una Inuit del Canada impegnata nella denuncia dei danni che stanno provocando i cambiamenti climatici sull’Artico, Mahathir Mohamad, ex premier della Malaysia, e il presidente boliviano Evo Morales. Ciascun premio Nobel è dotato di un assegno di 10 milioni di corone svedesi, pari a 1,06 milioni di euro.

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venerdì, 21 settembre 2007

OMAGGIO A CARLO FRUTTERO: TUTT’ALTRO CHE UN “DINOSAURO AFFONDATO”

Giorni fa nel corso della trasmissione radiofonica Fahrenheit di Radio Rai Tre svoltasi dopo l’attribuzione del superCampiello 2007 (per adesso sorvoliamo sulle polemiche pre e post premio), Carlo Fruttero – per commentare l’ultima posizione a lui “tributata” tra i cinque finalisti selezionati – si è autodefinito un “dinosauro affondato”.

Credo che l’autoironia sia prerogativa delle persone intelligenti. Fruttero lo è. E la sua figura di scrittore è ben lontana – come egli stesso sa bene – dalla simpatica definizione che si è autoinflitto (e che mi ha fatto molto ridere). Altro che “dinosauro affondato”! Fruttero continua a riscuotere un meritato successo. Al di là di dei Premi letterari, il suo pubblico – il pubblico dei lettori – lo ama: basta considerare i dati di vendita dei suoi libri. Non credo ci sia premio migliore di questo.

Vi propongo, di seguito, un video estratto dalla diretta Rai della premiazione del Campiello 2007. Un video che dimostra come il genuino umorismo di Fruttero sia rimasto intatto. Alla fine, il pronosticato vincitore Fruttero è arrivato quinto. Ultimo della cinquina. Ma l’esito della premiazione non ha impedito al pubblico de “La Fenice” di alzarsi in piedi e applaudire lungamente.

Standing ovation. È quella che propongo qui, virtualmente, dalle pagine on line di Letteratitudine.

Guardate il video e poi lasciate i vostri commenti dedicati a Carlo Fruttero. Sarà mia premura farglieli pervenire.

A proposito di autoironia.

Su La Stampa del 10 ottobre 2006 Fruttero scrisse, riferendosi a Lucentini:

“La domanda veniva inesorabile: «Ma come fate a scrivere in due?». Cercavamo di cavarcela con qualche battuta: uno scrive i capitoli pari, l’altro quelli dispari, a uno tocca il lunedì all’altro il martedì, e così via per la settimana. Ma queste faceziole si ritorcevano contro di noi, ne incoraggiavano altre ancora più spiritose: è vero che uno scrive i sostantivi e l’altro gli aggettivi? Risate tra gli astanti.

Così un pomeriggio a Moncourt (Seine-et-Marne) dove Lucentini aveva la sua casetta sul canale, ci venne l’idea di dare testimonianza del nostro lavoro a due mediante un apposito apparecchio di registrazione. Franco inserì una cassetta di non so quante ore e cominciammo: lunghi silenzi, una proposta, una decisa obiezione, un’idea laterale che poteva servire più avanti, altri silenzi, ritorno alla proposta ma modificata, modifica esplorata in ogni direzione, corretta, giudicata possibile, ma ecco il vicolo cieco, altri desolati silenzi, improvvisa via d’uscita ma molto complicata, riposizionamento di almeno tre capitoli precedenti, un personaggio da eliminare, un personaggio forse da aggiungere, lunghi silenzi…

Alla sera Lucentini si accorse di non aver premuto il tasto «on», la cassetta era vergine, il risolutivo documento non esisteva.
(…)
Ora che è uscito un romanzo senza la doppia firma (ma è un dettaglio irrilevante) la domanda ritorna, inesorabile: «Come hai fatto a scrivere da solo?».

Il romanzo citato è, ovviamente, Donne informate sui fatti (Mondadori, 2006): proprio il N. 5 del Campiello di quest’anno.

Donne informate sui fatti

Devo ammettere che quando appresi della morte di Franco Lucentini (avvenuta nell’agosto del 2002) pensai che Carlo Fruttero non sarebbe sopravvissuto (letterariamente parlando). Ecco, pensai; ecco come finisce il duetto letterario più famoso d’Italia (almeno per quanto concerne la narrativa gialla). Di Fruttero&Lucentini, rimarranno – mi dissi – opere celebri come La Donna della domenica e A che punto e la notte, tanto per citare due titoli, ma non potremo più leggere nulla di nuovo.

Naturalmente, e per fortuna, mi sbagliai.

Intanto la Mondadori ha dato alle stampe quest’altro libro .

P.S. Per quanto riguarda Lucentini, vi consiglio di leggere l’articolo di Domenico Scarpa intitolato, appunto, “Lucentini visto da Lucentini” pubblicato su La Stampa del 10/10/06 (cliccate qui).

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martedì, 18 settembre 2007

NUOVI NARRATORI ITALIANI (di Gordiano Lupi)

Pochi giorni fa Gordiano Lupi mi ha inviato una mail con un titolo intrigante: Nuovi narratori italiani.

“Nuovi narratori italiani”, ho pensato. “E che sarà mai?”

Ve lo dico subito: è il titolo di una nuova rubrica che Gordiano gestirà per Tellusfolio e che ha come scopo quello di far conoscere ai lettori del web qualche giovane autore interessante che meriterebbe di pubblicare con case editrici medio – grandi.

Scopo ambizioso, vero?

Ma non è tutto. Gordiano mi ha domandato: “Saresti disponibile a mettere a disposizione un tuo racconto per inaugurare la rubrica?”

“Ne sarei onorato” gli ho risposto. “Ma fammi capire”, gli ho chiesto io, “non è una rubrica dedicata agli under trentacinque? Io ne ho trentanove.”

“Sì, ma per te faccio un’eccezione.”

Doppio onore, dunque. Non solo inauguro, ma sono pure ospite d’eccezione.

Mica da tutti!

Poi però ho pensato: “Un attimo. Ma che vuol dire che sono ospite d’eccezione? Che non sono più giovane? Ma non dicono che in Italia uno scrittore si dice giovane fino a cinquant’anni?”

-

Scherzi a parte, ringrazio moltissimo Gordiano. Il racconto che gli ho proposto si intitola MUCCAPAZZA ed ha segnato il mio esordio letterario. Apparse nel 2003 su Lunarionuovo, rivista letteraria creata e magistralmente diretta dallo scrittore e poeta Mario Grasso (su Lunarionuovo si sono avvicendate firme importanti, tra cui: Giuseppe Pontiggia Giovanni Raboni, Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino, Giorgio Bàrberi Squarotti, Giuliano Gramigna, Giovanni Giudici, Andrea Zanzotto, Maria Luisa Spaziani, Vittorio Sereni, Italo Calvino, Sebastiano Addamo).

È un racconto scritto in prima persona. La voce narrante è quella di un magistrato, una persona colta, erudita; una di quelle che prima di parlarci è meglio munirsi di vocabolario. Il tono, dunque, è piuttosto aulico. Lo capirete da voi leggendo qui.

Poi però tornate. E lasciate un commento (non prima di aver letto l’introduzione di Gordiano, però).

(Massimo Maugeri)

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Comincio con entusiasmo questa mia nuova collaborazione con TELLUSFOLIO e spero di poter contribuire a far conoscere ai lettori del web qualche giovane autore interessante che meriterebbe di pubblicare con case editrici medio – grandi. Non ho la pretesa di fare il talent-scout, ma solo di segnalare al pubblico qualche nome nuovo per invogliare a decidere in autonomia, senza i soliti condizionamenti televisivi e della grande editoria. Sono convinto che in Italia esiste un sottobosco di narratori underground molto fertile e produttivo, giovani autori che hanno molto da dire ma che non trovano spazio nei canali ufficiali. Conduco da anni una battaglia contro la narrativa del niente, senza sangue, contro i libri sfiniti, esausti, privi di nerbo, frutto di ricerca stilistica e voglia di trasgredire. Vorrei ospitare su queste pagine telematiche autori preferibilmente under 35 (ma faremo delle eccezioni) che abbiano storie da raccontare e messaggi da lanciare. Potete inviare i racconti rigorosamente inediti all’indirizzo: lupi@infol.it.

Non pubblicherò tutto in maniera acritica, ma solo dopo attenta valutazione e selezione, mentre altri autori saranno da me invitati a scrivere un inedito per questa rubrica. Vedremo tra un po’ di tempo se sarà il caso di produrre anche un’antologia cartacea edita con la collaborazione di Edizioni Il Foglio (http://www.ilfoglioletterario.it/).

L’autore che presento per inaugurare la rubrica è il siciliano Massimo Maugeri che ci regala un racconto affascinante dotato di ritmo e costruito su sensazioni che si susseguono con grande tensione narrativa. Siamo teatranti in festa con la morte nel cuore è una definizione troppo bella per non essere ricordata ed è il leitmotiv che il lettore si porta dentro al termine della lettura. Muccapazza come Godot, in un’attesa eterna, sperando che tutto non sia come sembra, ma che resti soltanto finzione… Leggete questo racconto, confrontatevi con la profondità dei concetti e con lo stile di scrittura. Inviate il vostro solo se siete perfettamente sicuri che i requisiti di contenuto e forma reggano il paragone.

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

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lunedì, 17 settembre 2007

“IL CAPPELLO DEL DIAVOLO” – ricordando Emilio De Marchi e il suo primo grande successo narrativo (di Sergio Sozi)

Un manzoniano in odor di Scapigliatura, Emilio De Marchi (Milano, 1851 – 1901), ma ben ancorato ai dettami del romanticismo milanese, tanto da far scrivere a Cesare Cantù (uno della vecchia guardia romantica lombarda) una favorevole critica de ”Il cappello del prete” (1888), romanzo sul quale ci concentreremo in questo articolo. Eccellente il fondo. Interessante l’intreccio. Schietta la forma. Scacco ai romanzatori vecchi, così si espresse, telegraficamente e netto, appunto Cantù – l’autore di ”Margherita Pusterla”, il romanzo storico che gli diede il successo.

Poi di De Marchi parleranno in molti, Benedetto Croce in primis (egli ne ”La Letteratura della Nuova Italia” lo posiziona fra i manzoniani un po’, diremmo, scapigliati) ma anche critici come Titta Rosa, Luciano Nicastro (quest’ultimo allievo di Valgimigli e Guglielmino), più di recente Toni Iermano e Antonio Palermo, e in generale ogni buona Storia della Letteratura Italiana.

E se per Titta Rosa, De Marchi fu ”il Gogol’ della bassa”, forse un riuscito bilancio complessivo ci proviene da Luciano Nicastro. Vale la pena riportarlo per esteso:

Quando si è conosciuto il sentimento delle pagine più impegnate, rimane tuttavia nella mente, prima di ogni altra nota, la visione desolata e lo sconforto che la poesia del De Marchi esprime in prosa o in versi, consolata ora dal senso della natura ora da un concetto panteistico e romantico, confidente nell’opera redentrice della bontà operosa e nel sacrificio umano con cui l’anima sembra unirsi allo spirito divino. Emilio De Marchi ha pure qualche accento mistico e, nelle sue rappresentazioni angosciate e dolenti, l’esigenza spirituale di una concezione religiosa, che però si afferma in modo diverso da quello voluttuoso del Fogazzaro. (Dalla Presentazione ne ”I capolavori di Emilio De Marchi”, Mursia, Milano 1967, p. XXI).

Ma cos’è ”Il cappello del prete”, romanzo d’esperimento e non sperimentale (parole dell’autore e soprattutto direi del suo desiderio di distanziarsi dal contemporaneo Émile Zola), uscito a puntate come racconto d’appendice nel Corriere di Napoli durante il 1888 (lo stesso anno di ”Mastro don Gesualdo” del Verga, oltretutto buon amico di De Marchi) e poi pubblicato in volume dall’editore Treves, oltre che all’epoca vendutissimo e ampiamente pubblicizzato come reazione italiana al romanzo naturalista francese?

Io direi che ”Il cappello del prete” sia un esemplare romanzo-sintesi della sensibilità letteraria generale agitante la fine dell’Ottocento italiano ed europeo, nel quale l’escavazione psicologica di Dostoevskij si unisce al naturalismo di Zola e al verismo verghiano, mentre si vedono emergere fra le righe le premesse di un Pirandello e uno Svevo. Il tutto a sprazzi, a tratti, a pennellate: un collage d’epoca non sottovalutabile, in quanto sintesi e premonizione.

L’opera, inoltre, non disprezza una coloritura ”gialla”, poiché dopotutto tratta e narra di un omicidio, quello del prete Cirillo, e dell’omicida, il barone Carlo Coriolano di Santafusca. Il tutto nel contesto di Napoli e dintorni.

Ma ora vediamone i protagonisti e rintracciamo lo svolgimento della trama, sempre grazie alla penna dell’autore stesso (ogni estratto dall’edizione Mursia, ”I capolavori di Emilio De Marchi”, Milano 1967).

Dunque, prendiamo subito un ritrattino del barone Santafusca:

Il libertino prese la mano sul frate e sul nichilista, e dalla fusione di questi tre uomini uscì «u barone» unico nel suo genere, gran giuocatore, gran fumatore, gran bestemmiatore in faccia all’eterno. (…) Oggi l’uomo aveva quarantacinque anni, una gran barba nera, un volto abbruciato dal sole e dai liquori, una gran voglia di godere la vita e una miseria profonda. (…) Al frate, al nichilista, al libertino si aggiungeva ora un pitocco disperato, costretto a quarantacinque anni a mendicare dieci lire alla sua guardarobiera, se voleva pranzare e bere un cognac. (p. 5 e segg.)

Ed ecco il prete Cirillo:

Prete Cirillo era un uomo pieno di denari, che egli aveva radunati un poco con l’usura, prestando ai pizzicagnoli, ai pescivendoli, ai galantini della Sezione, e molto colle vincite al lotto. Si diceva che «u prevete» avesse i numeri e, coll’aiuto di certi calcoli cabalistici trovati da lui su un libro vecchio, vincesse al lotto ogni volta che gli piacesse di vincere. (p. 7 e segg.)

Ma veramente sconvolgente è il preludio dell’assassinio:

Come sul momento d’accostarsi a un intimo colloquio d’amore freme il sangue e par che gorgogli a fiotti nel corpo, e la vita si mesce già con un’altra vita, così man mano che la vittima si accostava al suo letto, il barone sentiva crescere la ferina voluttà. (p. 32)

Dopo il fattaccio, una prima reazione del barone:

Poi, sentendosi mancare le forze, usci (…) e venne in un prato pieno d’erbe folte e di sole, dove stavano pascolando le capre di Salvatore. Qui si fermò coi piedi sprofondati nella terra molle e cominciò a guardare stupidamente il muso delle capre, che guardavano lui stupidamente, ruminando. (p. 33)

Seguono lunghe serie di meditazioni rifiutate o sotterrate nell’anima come la seguente:

Era una brutta vita… Perché non s’ammazzava? (…) Se un uomo val l’altro, perché non aveva fin da principio accoppato sé in luogo del prete? (…) – Oh! i grandi imbecilli che siamo – mormorò a mezza voce, e si mosse per uscire. (p. 132)

Finché… davanti al giudice, in un confronto tremendo al palazzo di giustizia napoletano, inizia la conclusione del dramma vero e proprio, sia intimo che estetico, letterario, iniziato sin dal primo post-delitto con un incessante dialogo interiore filosofico a cui il barone non sa sfuggire:

La mente non connetteva più, si spezzavano le formule logiche, e la pazzia, la furia vendicatrice della superba ragione, scendeva a rompere la testa del barone di Santafusca, come egli aveva spezzata, con una sbarra di ferro, la piccola testa di prete Cirillo. Ciò che seguì da questo momento non fu più interrogatorio nelle forme, ma la lotta estrema di una ragione contro un rimorso. (p. 155)

Le ultime pagine sono terrificanti, per la resa realistica della scena (vi sono il giudice, i poliziotti, l’interrogato, tutti in un grigio ufficio del palazzaccio) e soprattutto per la descrizione della forza esplosiva che la verità della coscienza emette nel suo prorompere fuor dal dominio razional-istintivo del barone assassino, il quale infine non può più disgiungere da sé la figura del ”cacciatore”, personaggio prima fittizio da cui lui stesso si era veramente travestito per parlare con un presunto possessore del famoso ”cappello” (oggetto che infine cosituisce la sua condanna), al fine di riprendere il cappello in mano per farlo sparire. Il ”cacciatore” insomma fuoriesce dalla cinica finzione teatral-difensiva del barone per divenire platealmente l’anima nera di Santafusca (e qui, certamente, c’è in De Marchi il tocco vistoso di Gogol’):

Gli veniva meno la forza di tener separato nettamente il cacciatore da sé, di non attribuire all’uno pensieri ed atti che appartenevano, pur troppo! soltanto all’altro. Non sapeva più discernere il fatto da’ suoi particolari, e, per la foga di conciliare il prete col suo cappello e di voler credere troppo nel cacciatore, non si accorgeva che poco a poco andava esponendo e accusando se stesso. La sua testa era una fornace. I mille fantasmi cacciati, respinti, costretti, flagellati dalla sua scienza e dalla sua logica, uscivano sbucando ora tutt’insieme dai tenebrosi spechi della coscienza (…). (p. 155)

Ed avviene il crollo di un’anima da sempre scissa (allegoria, credo, della modernità) che, direi, si spacca tragicamente in due, come la sottile scienza delle dottrine positivistiche: il barone Santafusca vuole distruggere la religione annientando il cappello del prete, ossia confonde il simbolo con la fede vera e profonda del cristianesimo. Appunto in lui, fino alla crisi finale, convivono un frate, un libertino, un nichilista e… un accattone senza dignità, schiavo dei propri vizi. La vita di noi moderni, in fondo, in un solo personaggio, che dal 1888 ci raggiunge a mo’ di… ritratto collettivo. E qui, per adesso, mi fermerei.

Sergio Sozi

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Sergio Sozi collabora con il quotidiano L’Unità ed il settimanale Avvenimenti, con il mensile triestino Trieste Arte e Cultura, il mensile lubianese Nova revija, il quotidiano sloveno Dnevnik, la Radio Tre slovena e la casa editrice Studentska Zalozba – per la quale ha curato nel 2005 il volume antologico di racconti italiani (1989-2003) ”Carta e carne” (”Papir in meso”, SZ-Beletrina, Ljubljana 2005). Suoi pezzi culturali sono presenti su diversi siti letterari. Da ricordare la pubblicazione di colloqui con Dacia Maraini, Sebastiano Vassalli, Diego Marani e Claudio Magris.Ha pubblicato “Il maniaco e altri racconti” (Valter Casini Editore, 2007)

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venerdì, 14 settembre 2007

I CAPPUCCINI DEL MARE (racconto di Dora Albanese)

dora-albanese.jpgVi propongo un inedito di Dora Albanese (nella foto).

Leggetelo, se potete. Io l’ho trovato delizioso: una piccola pennellata narrativa sospesa tra sguardi e pensieri.

Vi anticipo una cosa. Vi ricordate il precedente racconto di Dora: Portare il pane a casa? L’abbiamo pubblicato qui.

Raccogliendo la proposta di un commentatore ho chiesto a Dora: “E se fosse il primo capitolo di un romanzo?”

Lei mi ha detto: “Non ci avevo mai pensato”.

E io: “Secondo me è il primo capitolo di un romanzo.”

Da qui è nata l’idea e la proposta: pubblicare un romanzo online a puntate; un romanzo che ancora non esiste, che deve essere scritto (ad eccezione del primo capitolo).

Dora ha accettato con entusiasmo.

Ma sapete qual è la particolarità? Il romanzo sarà interattivo, nel senso che VOI – con i vostri commenti – indirizzerete Dora sull’evoluzione dei personaggi e della storia. Naturalmente l’autrice sarà libera di seguire un’indicazione piuttosto che un’altra, o – se capita – di non seguirne nessuna. Insomma, una concezione modernissima di romanzo interattivo che prenderà corpo tra gli impulsi dei commentatori e la penna di Dora.

Vi piace l’idea?

E ora il racconto. Leggete e commentate, please.

(Massimo Maugeri)

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La sala da pranzo dell’albergo di Maratea è poco distante dal mare. Si ferma proprio sulla spiaggia, come fa la libellula rossa d’estate. Quella momentanea sospensione, quell’impercettibile distacco da terra, rende tutto così feribile, così fragile, che a stento riesco a guardarlo il mare, seduta da qui. Mi sembra così profondo e infinito, che i miei occhi si fermano a riva, non vanno oltre. Credo che è solo da lontano che si percepisca esattamente la profondità del mare, e il suo pericolo. Il sapore di morte che ogni onda lascia sulla spiaggia. Invece, quando si è dentro, si smette di tremare, di guardare lontano; lo guardi dritto negli occhi il mare, i mille occhi, dei mille pesci azzurri che lo vestono, e si vedono le alghe, che gli sfiorano le gambe. Tutto è zumato, ha senso solo ciò che è efficace. Il mare è il riassunto di ogni vita, dalla paura più grande che ci rappresenta, alla pisciata di ogni uomo e di ogni cane. Il mare siamo noi: gente umida, uomini d’acqua, impastati con carne di sabbia. Il mare è il figlio che nasce e nuota, lasciando alle spalle il suo passato da feto, e pezzi di placenta galleggiante. Ieri notte, un uomo dell’età di mio nonno, è annegato nella sua piscina. “Aveva i pesci nella piscina, forse a guardarli gli è girata la testa ed è caduto dentro, o forse gli avranno cantato una melodia strana”. Ha detto così mia nonna, quando le ho telefonato, per chiederle come andava la salute. Le volevo dire che è troppo facile dare la colpa ai pesci, dire che sono degli assassini, le volevo dire che quell’uomo forse si è suicidato, che aveva una depressione inguaribile, che la moglie lo tradiva con un ragazzino di diciotto anni. Ho lasciato stare, le ho risposto: “sì, nonna forse è proprio come dici tu… che dobbiamo fare, pazienza”. Perché mia nonna è anziana, perché è convinta che ci sarà la fine del mondo, perché crede che gli occhi bruciano per colpa del vento dell’Africa, che arriva fino qua, in Basilicata. Le onde continuano a poggiarsi sulla spiaggia, a solcarla, senza tregua. Anche una ragazza della mia città è stata solcata da otto onde minorenni, senza tregua. L’hanno trasformata in tanti piccoli granelli di sabbia. Da allora, è scomparsa, nessuno più riesce a vederla. La immagino in camera sua, rannicchiata nel letto, ancora dolorante, mentre aspetta, aspetta come una farfalla, il soffio del vento, per essere trascinata via, per morire, per non volare più, e il solo pensiero mi provoca i brividi. Anche la sala è rossa, come la libellula. Il pavimento è fatto di tanti quadrati rossi e larghi, con gli interstizi neri. Neri di sporco. Di anni di sporco. Di anni di piedi passati a fare colazione o a cenare, di piedi che avevano tutti nel passo una decisione da prendere; se andare al mare o tornare in camera a dormire un altro po’, se restare seduti a leggere il giornale aspettando che la turista della duecentosei scendesse, o tornare dalla propria moglie lasciata a dormire. Sono tutti piedi “belli di giorno”, quelli che vivono nell’indecisione; non sapranno mai, alla fine, se salirle le scale, o scenderle per sempre. Quanti piedi decisi e innamorati incontriamo per strada e nella vita, anche se non lo sapremo mai, perché i piedi non parlano, ma si fanno capire.

I piedi di Adriana, la signora della centonove, sono allegri e frettolosi. Si fanno vedere poco, preferiscono nascondersi dentro stivali a punta, nonostante il caldo. Ma il loro passo, quello di certo non possono nasconderlo. Il piede destro tende a scappare verso l’esterno, anche se il piede sinistro, lo raggiunge in fretta; passano pochi attimi, e poi subito si coordinano; decidono che passo prendere; se scalpitante e fiero, o addomesticato e umile.

Oggi Adriana ha preferito non prendere l’ascensore. Scende le scale di corsa con gli stivali, assumendo un’ andatura animalesca. Scalpita come fosse un cavallo da doma. Alza i tacchi da terra, e prova gusto a ritmare il passo e a dargli una cadenza, a far sentire a tutti noi che siamo già seduti, in attesa che l’ordinazione venga servita, che lei c’è, anche oggi. Ha i capelli sciolti stamattina, biondi un po’ arruffati alle punte; forse non li ha ancora pettinati. Anche gli occhi sono quelli della sera passata; la matita è ancora lì, secca; la toglierà dopo aver fatto colazione, forse si tufferà direttamente in piscina, o forse farà una doccia in camera, restituendo il giusto candore alla sua pelle. Ha addosso una sottana ricamata, di lino verde oliva, che con l’abbronzatura, le dona un certo significato. Adriana significa qualcosa, stamattina. Credo che poche donne riescano ad avere un proprio significato. E’ bella, di una bellezza da ammirare, da approvare, e pure io che sono donna, resto a guardarla, imitando la sua compostezza e il suo naturale piacere nel farsi guardare, senza vergogna.Il cameriere la raggiunge e l’accompagna a sedere.

“Buongiorno signora, come è andata la notte… dormito bene?”

“Sì, sì… bene. Mi porterebbe un cappuccino? Grazie, e…”

“Certo signora, mi scusi, diceva… ?”

“E un caffè… un caffè da portare via, grazie.”

“Grazie a lei signora. Il numero della stanza?”

“Perché, a cosa le serve?”

“Per verificare se tutti riescono a fare colazione signora… se tutti i clienti dell’albergo hanno usufruito del servizio incluso nell’ospitalità, signora.”

“Ah, sì certo, certo… mi scusi, credevo voleste salire a portare il caffè… ”

“Come preferisce signora”.

“La 109… il numero è 109”.

“Grazie signora… le porto subito il cappuccino”

“D’accordo, grazie”.

Finalmente anche il mio cappuccino è arrivato. Il cameriere me lo serve accompagnandolo con un mazzo di buganvillea.

“Sono i fiori del mare, madame, per lei”.

Lo ringrazio, un po’ imbarazzata, poi mi guardo attorno, cercando di capire se ci sono altre buganvillea sui tavoli di chi ha ordinato la colazione, ed è proprio così. Sorrido, quando vedo altre donne girare la testa, alla ricerca di un qualche ammiratore segreto, e poi sbuffano un poco, o abbassano lo sguardo, quando scoprono che non c’è nessun bell’uomo dietro l’angolo, pronto a distrarle dalla noia del matrimonio. Sorrido nel vedere come è facile incantare una donna, illuderla di essere al centro del mondo, come fosse una sirena in mare aperto.

Anche Adriana ha ricevuto il mazzo di fiori; ma a fianco ai fiori c’è un telefono.

“Signora abbiamo suo marito in linea, vuole sapere cosa ha ordinato per colazione… quante colazioni ha ordinato cioè… vuole che glielo passi?”

“No, la prego… gli dica che sono salita in camera” risponde Adriana a voce bassa, con il panico in gola.

“La signora è salita in camera, spiacente signore, io non posso dirle altro… il numero della camera?”

Il cameriere posa la mano sul microfono della cornetta, poi si rivolge a Adriana: “Signora, suo marito vuole sapere il numero della sua camera…”

“Dica che non lo sa, che non mi ha servito lei, inventi una scusa, la prego”. Risponde agitata.

“Spiacente, signore, ma non ho servito io la signora, non conosco il numero della camera in cui alloggia… se vuole, provo a chiedere alla reception se la possono aiutare…”

“Bravo, bravo” dice Adriana, sussurrandogli un complimento.

“D’accordo, signore… comunicheremo alla signora che chiamerà più tardi… arrivederci, buona giornata”.

Adriana tira un respiro di sollievo.“Grazie, grazie davvero, lei… lei mi ha salvata… grazie”.

“Si immagini, signora, questo è il mio lavoro… allora, vuole che le salga il caffè in camera… vuole aggiungere altro?”

“Sì, grazie mi porti una colazione completa”.

“Certo, signora”.

Il cameriere, un uomo anziano con i capelli bianchi come la panna, non si è scomposto affatto, ha sostenuto la conversazione con un distacco quasi professionale, come se nella vita avesse fatto solo questo, coprire i clienti infedeli, magari avrà in cambio una mancia importante, penso alzando le sopracciglia. Adriana è immersa nel cappuccino, tira su la tazza, fino a coprirsi l’intero naso, lasciando fuori solo gli occhi. Pare una bizantina. E’ triste, e pensierosa. Chissà per chi è l’altra colazione, se per un ragazzo giovane, o per un uomo anziano, o forse per una donna.

Mentre penso alla scena vista, mi accorgo che il cappuccino che sto bevendo è ancora bollente; l’odore del latte a lunga conservazione emerge con il fumo, e dà un sapore sgradevole alla bevanda. Getto uno sguardo al mare, che si è scurito, il tempo oggi non è dei migliori. Adriana sorride al cameriere amico e con un cenno del capo gli dice che può salire a portare la colazione. Anche io vorrei salire, entrare in quella camera e soddisfare il mio desiderio voyeuristico. Peccato, peccato che sia tutto finito, che il mare è mosso, e che il cappuccino, come tutti i cappuccini degli alberghi di mare, sia troppo caldo, e senza sapore.

Dora Albanese

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Dora Albanese è nata a Matera nel 1985. Studia lettere moderne e pubblica racconti su giornali e riviste. Vive a Roma.

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venerdì, 7 settembre 2007

CENTOAUTORI (di Gabriele Montemagno)

Cari amici di Letteratitudine,

recentemente, trovandomi a Roma, ho avuto modo di assistere all’ultimo incontro (prima della pausa estiva) dei membri di Centoautori, tenutosi nella suggestiva cornice della “Libreria del Cinema” che si trova nel quartiere Trastevere in via dei Fienaroli. Cos’è Centoautori? Presto detto. E’ un movimento che raccoglie molte personalità del cinema e della televisione nostrani (registi, sceneggiatori, attori, documentaristi, fra i quali spiccano i nomi di Giuseppe Piccioni, Daniele Luchetti, Paolo Virzì, Francesca Archibugi, Cristina Comencini, Stefano Rulli, Sandro Petralia e molti altri), i quali, incontrandosi periodicamente (ogni giovedì pomeriggio) in detta libreria, hanno deciso di agire per promuovere una più equa legislazione che regolarizzi il nostro cinema (e la nostra tv). In un documento presente nel loro sito si legge infatti che Centoautori ha avuto inizio «quando, nel febbraio scorso, abbiamo iniziato a vederci alla libreria del Cinema a Trastevere, eravamo una cinquantina di registi e sceneggiatori, alcuni dei quali si conoscevano appena. Scrivemmo due lettere aperte per chiedere un nuovo profilo culturale ed etico alla direzione di Rai Cinema. In calce a quelle lettere, radunammo duecento firme di autori di cinema e televisione, e rimanemmo in fiduciosa attesa». A questo, è seguito un importante momento nella serata del 7 maggio scorso in cui, nel teatro romano “Ambra Jovinelli”, si sono trovati riuniti i «1400 firmatari del documento». Costoro –si legge ancora nel sito- riunitisi « per una costituente del cinema e della tv si sono moltiplicati: molti quella sera piovosa sono rimasti fuori dal teatro, ma da allora Centoautori ha avuto la certezza di aver toccato nervi scoperti, di essere diventato movimento». L’urgenza di una nuova legislazione sembra nascere, nei membri di Centoautori, dalla piena consapevolezza che televisione e cinema incidono nei costumi e nei modi di pensare della gente (e ciò, nel bene come nel male), e che tali media sono spesso guidati da logiche di guadagno e/o interessi particolari che penalizzano talenti, professionalità e la creatività di coloro che non accettano lo stato delle cose o che non vogliono allinearsi con alcuna cordata (politica e non), pur avendo, possibilmente, loro precise idee e talenti. Tale stato crea danno sia alla qualità artistica dei “prodotti” che non offrono utili e diversificati stimoli al pubblico, mirando a creare solo ascolto e consenso, sia ai molti professionisti, i quali non riescono a lavorare perché non “supportati” da alcun grosso nome o provenienti da ambiti sconosciuti. Uno stato delle cose che continua ad agire in barba alla tanto citata meritocrazia.

Cari amici, detto ciò vi invito a visitare il sito di Centoautori (www.100autori.it) in cui troverete più diffusamente le notizie circa il movimento e tutto ciò che vi può interessare (e potrete intervenire voi stessi); vi domando, poi: siete d’accordo con le istanze e le necessità di questo movimento? Secondo voi può rappresentare uno dei baluardi contro quell’imbarbarimento culturale da molti (giustamente) denunciato?

Vorrei anche aggiungere che quando ho loro domandato, nella riunione in cui ho partecipato, cosa si può fare per sostenerli, mi hanno risposto che il modo più diretto è quello di farli conoscere ed anche quello di intervenire nel loro sito. Ma poi qualcuno di loro mi ha anche suggerito di promuovere dibattiti sul nostro cinema, sulla sua qualità. E soprattutto sulla sua capacità di saper raccontare nel profondo e onestamente la nostra Italia.

Vi chiedo allora: secondo voi, il nostro cinema è ancora efficace come un tempo? Interessa ancora perché ci racconta realmente, oppure perché segue delle mode accattivanti? Non temete! Tali domande non si esauriranno qui, ma mi auguro che potremo, tutti insieme, dare loro spazio anche in altri interventi. E parleremo ancora di Centoautori. Nel frattempo, attendo le vostre risposte.

Un caro saluto a tutti voi e buon cinema!

Gabriele Montemagno

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mercoledì, 5 settembre 2007

FÌDEG di Paolo Colagrande (recensione di Andrea Di Consoli)

Fìdeg di Paolo Colagrande

Pur ironizzando senza risentimento su scrittori “affermati”, da Sandro Veronesi Veronesi a Umberto Eco, Paolo Colagrande (Piacenza, 1960) realizza, ironia della sorte, con Fìdeg, suo romanzo d’esordio, un’opera “aperta”, dove il registro comico si fonde sapientemente con un’attitudine metaletteraria mai intellettualistica, ma sempre contigua alla vita “bassa”, alla vita osservata rasoterra, dal “punto di vista del cane”. Come in alcuni scrittori dell’area emiliano-padana (da Ugo Cornia a Daniele Benati a Paolo Nori) anche in Colagrande “l’ideologia” dominante è un quotidiano burbero e vero, spazientito e diretto, sgomento e tragicomico: un quotidiano senza sovrastrutture piccolo-borghesi o “televisive”.

Colagrande usa un’oralità “semicolta”, che discende dagli “zii” Celati-Cavazzoni, eppure, a questo punto, sappiamo due cose: che la lingua dei semicolti è un artificio retorico (a volte di maniera) di certa letteratura “del Po”, e che Parma, tanto per dare un centro geografico a questo “gruppo molteplice” di scrittori, è in realtà una piccola e raffinata capitale culturale, una piccola Parigi – il “proustiano” Attilio Bertolucci, con la sua cinica grazia, è un riferimento obbligato, come ovviamente sono un riferimento obbligato Luigi Malerba, Cesare Zavattini e Alberto Bevilacqua, sempre meno “bestsellerista” nella considerazione dei critici.

Questi “nuovi” scrittori di area emiliano-padana usano il “basso”, verrebbe da dire, per mirare sempre più in alto. Eppure sappiamo quante difficoltà questi scrittori hanno nello sperimentare strade nuove di ricerca letteraria. In Colagrande, per esempio, il dato dominante è un umorismo intellettuale senza visceralità e senza facili ammiccamenti; un umorismo mai gratuito e risentito, ma sempre lucido, fortemente saldato a una precisa visione “teorica” del mondo – valgano da esempio le bellissime pagine sul campanilismo; su Cristoforo Colombo conteso dai genovesi, dai piacentini e dagli spagnoli. In Guido Conti, invece, e lo abbiamo visto nel suo ultimo romanzo La palla contro il muro, l’attenzione si è spostata efficacemente dai “folli” alle angosce piccolo-borghesi. Anche in Beppe Sebaste una narrazione fortemente orale si è ormai “allargata”, finanche nella forma, alla riflessione filosofica, linguistica e politica – valga per tutti l’esempio di Tolbiac. Lo stesso vale per Paolo Nori, che è passato da una comicità “stralunata” ed esilarante a un maggiore impegno civile – si pensi a Noi la farem vendetta. Forse solo Cornia, con il suo bellissimo Le pratiche del disgusto, sembra issato nella sua felice forma conchiusa: nel suo malinconico e masochistico affondo nella quotidianità.

Paolo Colagrande allarga e rafforza un gruppo di scrittori che ebbe nella rivista Il semplice il suo centro propulsore. Nel suo bellissimo Fìdeg, vincitore del premio Campiello opera prima, troviamo certamente l’oralità, il “basso”, il comico, l’inciampo “chapliniano”, la provincia, la marginalità, ma il tutto è irrobustito da una intelligente e continua riflessione sulla forma romanzo e sul fare letteratura. E’ come se questi scrittori emiliano-padani, partiti come semicolti, adesso risalissero il fiume della letteratura “alta” – ma, in fondo, non sono forse Celati, Cavazzoni, Sebaste, giusto per fare qualche nome, anzitutto dei raffinati studiosi?

Questo gruppo di scrittori, ovviamente, non è omogeneo; anzi, a volte è addirittura conflittuale. Eppure da questo gruppo di scrittori emerge l’unica visione davvero forte (mai mimetica, o moralistica, come invece accade in area veneta) della nostra provincia profonda, delle alterità linguistiche, di una quotidianità mai piccolo-borghese o sociologica. Anziché piangere sulle orride trasformazioni della via Emilia, questi scrittori continuano a cercare, come animali solitari, angoli bui dove trovare parole e immagini nuove, semplici e marginali. Come faceva il grande fotografo Luigi Ghirri. Come fece, fino a un anno fa, Giorgio Messori, che trovò a Tashkent, in Uzbekistan, un’altra via Emilia in cui non essere braccato.

Andrea Di Consoli

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Fìdeg

Paolo Colagrande

Alet

205 pagine 12,00 euro

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Ringrazio la Alet che ha messo a disposizione un estratto del testo di Fìdeg. Potete leggerlo di seguito. (Massimo Maugeri)

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Tra le disgrazie dell’umanità – diceva Neride Bisi – c’è che quando uno sente il bisogno irrefrenabile di dire una cosa intelligente, novantanove su cento poi la dice.

Da questa debolezza dipende la crisi del mondo moderno, diceva sempre Neride Bisi che per questo motivo aveva deciso di parlare solo quando era al bar o dal barbiere, che sono delle specie di aree protette, oasi ecologiche dove il parlare è indifferentemente un fatto di istinto o di divertimento o di abitudine, come fumare o giocare a carte o bere dei bianchi; tutte cose che lui faceva sempre volentieri, specialmente l’ultima.

Da questa premessa mio nonno Neride Bisi aveva tratto un’importante regola sociologica rivoluzionaria di cifra anarchica, cioè: che il parlare e il ragionare viaggiano su due strade diverse che non si incontrano, non c’è il collegamento, lo svincolo, il crocevia logico funzionale; di conseguenza, mancando il crocevia logico funzionale, le cose intelligenti vengono fuori solo per caso o addirittura per sbaglio, cioè tipo una volta su un milione. La teoria sociologica aveva poi anche un imprevisto risvolto macroeconomico, perché mio nonno Neride, con un passaggio un po’ ardito che non mi ha mai spiegato bene, diceva che a tacere tutti si migliorava il livello di benessere della società e si diventava ricchi, nel senso di fare i soldi. Lui, ricco, non lo è mai diventato.

L’ho presa lunga con mio nonno Neride non solo perché mi andava di baccagliare un po’, ma soprattutto per dire che quella cosa intelligente dei richiami semantici in tema di tubatura era meglio che me la tenevo per me: risparmiavo le parole e non passavo da locco.

Locco è una parola nordemiliana-sudlombarda assolutamente intraducibile: perché dire allocco, cioè una specie di uccello rapace notturno sinonimo non so perché di stupido, oppure babbeo, aggettivo manzoniano usato nei dialoghi di Tex, non dà quell’idea dispregiativa trasversale che solo la parola locco riesce a rendere. Quindi terrei locco, nella speranza che il concetto sia ben trasmesso.

Dimenticavo di dire, prima della digressione sull’epiteto locco nordemiliano vagamente sinonimo di stupido, che quando dei famosi scrittori con cui ero a cena ieri l’altro mi han detto che il nome della rivista era La tubatura, ho sentito il bisogno irrefrenabile di dire una cosa intelligente, e allora mi sono

lasciato scappare che nella tubatura c’erano molti richiami semantici.

Di qui il ricordo commosso di mio nonno Neride, bracciante agricolo con vocazione sociologica, morto a novantatré anni.

D’altra parte tutte le volte che incontro degli scrittori, cosa che non capita spesso, è più forte di me pensare che dentro la loro testa ci sia sempre un gran lavoro di richiami e controrichiami semantici in continua agitazione. E siccome ero a tavola con dei famosi scrittori che mangiavano del coniglio in umido e bevevano del rosso con la schiuma mentre buttavano giù il nome della rivista e altre cose tecniche come il palinsesto detto più propriamente menabò, ho pensato che in quel momento, all’interno dei loro cervelli, doveva esserci una tale esplosione di richiami e circuiti semantici che, a tenerci dietro a tutti, c’era veramente da farsi venire la febbre. E considerato che era già un po’ tardi e anch’io stavo mangiando il coniglio in umido – buonissimo, tra parentesi – con tre o quattro bicchieri di rosso con la schiuma, che non sono abituato, ed ero lontano centocinquanta chilometri da casa con strada collinare, ho pensato che era inutile mettersi a tirar giù uno a uno i richiami semantici esplosi nel cervello degli scrittori, e che era più pratico, intanto, far vedere intelligentemente che sapevi che c’erano, e poi a casa tirarli fuori con calma; magari non tutti, i principali. Mi era sembrata la cosa più pratica, da dire.

Invece era più pratico se stavo zitto. Adesso non voglio farla più tragica di quel che è, ma se c’era lì mio nonno Neride (cosa impossibile essendo morto quando avevo quattordici anni) diventava rosso in faccia dalla vergogna.

Perché i famosi scrittori che hanno inventato questo bellissimo nome per la rivista sono stati più che altro ispirati, come han cercato caritatevolmente di spiegarmi, dalla musicalità. La tubatura, a ripensarci, lasciando stare gli altri concetti che son secondari, è una parola con una musicalità da far venire la pelle d’oca, con un ritmo musicale, con delle bellissime note musicali

ripetute, che non ce le aveva neanche 1ostakovic; e poi con un gran bel labiale, che un labiale così non ce l’ha nessuna parola sul vocabolario, a parte Lolita, che non è sul vocabolario perché è un nome proprio e che comunque c’ha dietro tutto un suo ragionamento. Insomma a riflettere attentamente sulla straordinaria musicalità e sul labiale della tubatura ti si apre un orizzonte immaginifico da non credere, e mi sono sentito come in un grande prato verde pieno di scrittori contemporanei che si scambiavano ritmi musicalità e labiali e io gli correvo incontro, a quegli scrittori, a braccia aperte per ringraziarli e abbracciarli commosso. E lì per lì – lì per lì è un’espressione che non uso mai, ma io ho una creatività un po’ tutta mia che, con buona pace di mio nonno Neride, bisogna che ogni tanto si sfoghi – e lì per lì, dicevo, ho capito una cosa importantissima, che se la capivo prima evitavo di fare delle brutte figure.

E cioè: dire a dei famosi scrittori che dentro una parola, o nel nome di una rivista, ci sono molti richiami semantici è come dire a un famoso elettricista che negli impianti elettrici c’è molta elettricità. O come dire a un famoso cuoco cinese che dentro la cucina cinese ci sono molti aromi orientali. Cioè, lasciando stare gli elettricisti e i cuochi cinesi che erano solo delle similitudini, per i famosi scrittori – ma anche forse per i normali scrittori – i richiami semantici sono tipo delle cuciture fini e invisibili e impercettibili come quelle delle camicie eleganti.

Ma se tu vedi una camicia elegante che ti piace, non dici che belle cuciture invisibili impercettibili che ha questa camicia elegante.

Le cuciture sono cose che ci sono e basta, e se tu lo sai che ci sono è inutile che lo dici. Così, per i famosi scrittori il richiamo semantico è una cosa talmente naturale e istintiva e anche evanescente che loro, gli scrittori, non ci pensano neanche che c’è o se lo dimenticano, e se tu glielo dici è capace che s’irritano e magari, per tornare al caso che ci riguarda, non ti fanno più la rivista. Così sono fatti i famosi scrittori.

E durante il viaggio di ritorno in macchina con Fangio che guidava fortissimo l’escort giù per il percorso collinare verso la stazione di Modena dove avevo, o almeno credevo di avere, il treno, pensavo che dovevo essere stato proprio un asino a rovinare una cosa così bella e musicale e ritmica come la tubatura, sparando fuori l’idea dei richiami semantici che sono una specie di essenza intestinale della formidabile musicalità di quel nome.

E se di una cosa bella tu tiri fuori solo l’essenza intestinale, corri il rischio di rovinarla per sempre.

Ma poi, considerato che, dopo che Fangio mi ha lasciato giù in stazione ed è ripartito e io ho scoperto tragicamente che poco alla volta venivano soppressi tutti i treni, per via dello sciopero del personale ferroviario, e considerato che in quello stesso momento mi sono anche accorto che il telefonino era scarico e che tutte le cabine di Modena, come mi ha spiegato il tunisino clandestino Jamal, vanno solo con la scheda telefonica, che io non avevo e lui neanche, e che alle due di notte non c’è nessuno che ti vende delle schede telefoniche e che l’indomani mattina alle nove dovevo essere alla Malpensa a prendere mio fratello che veniva da Londra e io la Malpensa a momenti non so neanche dov’è. Considerato che si è messo anche a piovere e la sala d’aspetto era chiusa e che l’unica cosa che potevo fare era stare sotto una pensilina in piedi perché le panche erano già occupate tutte da extracomunitari clandestini coricati, fra cui appunto il tunisino Jamal. Considerate tutte queste cose, compreso il fatto che alle tre ho bussato alla porta a vetri di un albergo dove per poco non chiamano i carabinieri, sono arrivato alla conclusione che, in quello stato di sfiga totale e di degradazione inarrestabile in cui inspiegabilmente mi trovavo, se anche facevo tra me e me qualche richiamo semantico, magari non rumoroso, la situazione non sarebbe comunque peggiorata. Tanto più che non c’erano scrittori in giro e in teoria potevo fare tutti i richiami semantici che volevo. E allora, mi sono fatto una specie di confessione.

Se c’è una cosa che mi ha sempre lasciato a bocca aperta dalla meraviglia sono le planimetrie e i disegni tecnici. Io penso che a volte ci sono delle planimetrie e dei disegni tecnici che a guardarli sono più belli di certi quadri famosi di celebri pittori.

Da quel punto di vista sono abbastanza fortunato perché ho un amico che è un famoso geometra e sul suo tavolo c’è sempre una montagna di planimetrie da guardare. Io non ho vergogna a dire che lo invidio molto perché sa fare dei disegni tecnici così belli e precisi e raffinati che io non sarei buono neanche se andassi a scuola di disegno tecnico per cinquant’anni a fila. E così, quando guardo una bella planimetria, specialmente quelle delle case, mi vengono due tipi di sentimenti che qualcuno potrebbe dire che sono in contrasto, ma invece non lo sono per niente: uno è quello di mettermi lì a estasiarmi davanti al foglio per delle mezze giornate e seguire col sorriso sulle labbra tutte quelle belle righe e quei bei spazi vergini con dei piccoli simboli tecnici che sembrano dei fiori in un giardino, l’altro è di prendere dei pastelli e farci in mezzo qualche disegno postmoderno a mano libera o riempire gli spazi bianchi con un bel colore o cose di quel genere.

Le planimetrie che mi piacciono di più sono le sezioni con gli schemi idraulici perché entrano in una specie di intimità maliziosa con la casa: in pratica è come vedere la casa segata verticalmente con un taglio preciso, dal tetto alla cantina, lungo il tracciato dei tubi d’ingresso e di scarico. Quelli d’ingresso c’hanno segnata una freccia verso l’alto, in quelli di scarico la freccia punta verso il basso: le frecce sono disegnate allo sbocco del tubo, cioè dove il tubo, andando verso l’alto, entra nella casa e a un certo punto finisce con un tappo. Se la sezione è di un condominio, ci sono tanti sbocchi di tubo quanti sono gli appartamenti. Ecco, io quando vedo questi disegni tecnici di sezioni idrauliche sulla scrivania del mio amico geometra, quando vado a trovarlo, ho l’irresistibile tentazione di prendere una matita, una di quelle bellissime matite a mina che tutti i geometri lasciano distrattamente in giro nei loro studi, e completare la bocca dei tubi disegnando, appena sopra la freccia, dei piccoli wc con su degli omini seduti. Il risultato è che al mio amico famoso geometra, dopo che sono uscito, gli tocca perdere poi dei quarti d’ora a tirare delle madonne a cancellare tutti i vaterini e gli omini che ho disegnato sulle sue meravigliose mappe. È più forte di me. Tra l’altro devo dire che ormai c’ho preso su una mano che sia i vaterini sia gli omini caganti mi vengono proprio bene: anche se sono stilizzati hanno una loro dignità composta e serafica, come dovrebbe avere normalmente una persona in quei momenti.

Questa mia mania di disegnare vaterini e omini serafici caganti sulle mappe del mio amico famoso geometra rappresenta solo la prima parte della confessione.

La seconda, quella più importante, è che quando questi amici scrittori mi hanno detto che il nome della rivista era La tubatura mi si è magicamente disegnata nella testa la sezione planimetrica di un condominio con schemi idraulici; già completo di vaterini e omini in cima ai tubi. Non solo, ma ho anche visto idealmente per un attimo tutto l’impianto in funzione con gli omini serafici che si danno da fare con movimenti impercettibili dell’addome e gli scarichi che scorrono nei tubi che si uniscono e si incrociano con dei gomiti, delle T, delle V, delle Y, e convogliano, come si dice in lingua idraulica, nella rete fognaria e via discorrendo.

È così che mi è scappato fuori il richiamo semantico.

E, modestamente, tra i possibili richiami semantici collegati alla tubatura – pensavo più tardi sotto la pensilina della stazione di Modena mentre aspettavo inutilmente dei treni soppressi – quello che ho trovato io mi sembra proprio azzeccato.

Perché, a pensarci, la rivista che mi si è idealmente raffigurata in testa è proprio una tubatura che convoglia i prodotti letterari di ciascuno di questi scrittori famosi o di scrittori minori o di scrittori esordienti o di scrittori sedicenti.

E ripensando alla cena dove più o meno tutti avevamo mangiato il coniglio in umido, tranne Girolamo che era a dieta e Gèc che ha preso il castrato, nella mia testa un po’ annebbiata dalla depressione del momento contingente ho rivisto tutti noi intorno a questa tavola seduti su tanti bei wc.

E la tavola è diventata la sezione idraulica di un piccolo condominio dove ciascuno di noi produceva letteratura seduto sul suo legittimo vaterino e il prodotto convogliava in una tubatura comune che era appunto la rivista.

Non escludo che in questa visione abbia giocato un elemento onirico – se mi si passa ancora una volta l’espressione – dovuto al fatto che sotto quella pensilina ci sono rimasto a deprimermi fino alle cinque cioè fino a quando ha aperto il bar della stazione, e allora siamo entrati io, quattro neri compreso Jamal il tunisino e tre prostitute altissime con la voce strana, io a comprare una tessera telefonica, le prostitute a bere il cappuccino e tutti quanti a scaldarci.

Ma a parte l’elemento onirico (su cui non mi soffermo, per la nota teoria macroeconomica di mio nonno Neride), credo che la mia idea del richiamo semantico-planimetrico-idraulico, idea che sto onestamente confessando da un paio di pagine e ormai ho quasi finito, sia un’idea azzeccata anche dal punto di vista dell’anonimato che è una caratteristica esclusiva della rivista La tubatura.

Perché il prodotto letterario di ciascuno di quegli omini serafici seduti sui vaterini va a finire appunto nella tubatura, seguendoun suo iniziale percorso intimo per entrare in una zona idraulica collettiva e paritaria dove nessuno può più rivendicare il prodotto come suo.

Chiaro che un esperto, posizionandosi nella parte finale della tubatura, quella che convoglia gli scarichi nella rete fognaria che semanticamente rappresenta il mercato editoriale, potrebbe riconoscere frammenti di prodotto letterario attribuibili all’uno o all’altro omino serafico. È un po’ difficile, ma infatti stiamo parlando di un esperto.

Ad esempio, Girolamo dopo le tagliatelle agli ovoli ha mangiato solo un’insalata mista e ha bevuto poco, per via della dieta, e allora i suoi frammenti narrativi di quella sera è facile che si disperdano un po’ nel filone letterario corrente; mentre Fangio ha mangiato, oltre al coniglio, i tortellini al pasticcio, le cipolline borettane in agrodolce e ha coricato due bottiglie. Gèc ha bevuto la vodka come aperitivo, prima delle tagliatelle, ma poi mi pare che ha mandato giù della gran acqua. Sono tutti dati importantissimi per l’eventuale esperto che, per amore di ricerca scientifica, volesse cimentarsi nel selezionare, dentro il prodotto letterario della rivista, il contributo soggettivo di ogni singolo omino serafico.

Alla fine della mia confessione, vorrei metterci ancora tante idee, perché ormai vado a ruota libera e, a dirla tutta, mi scappano ancora tante di quelle variabili semantiche che non basterebbero altre cento pagine: ad esempio, l’ipotesi che la tubatura un bel giorno si ingorghi perché qualcuno ha buttato nel wc letterario del materiale anomalo e improprio, o che qualche omino infingardo resti seduto facendo solo finta di produrre e via discorrendo. Ma il discorso diventerebbe troppo lungo e devo dire che, a un certo punto di quella interminabile notte, mi è anche passata la depressione; che, come gli scrittori sanno, è un momento di grande rigoglio creativo.

Infatti, alle nove di mattina, grazie alla scheda telefonica comprata al bar, ho chiamato mio fratello sul cellulare. Come ho già detto, mio fratello mi aveva chiesto il grosso favore di andarlo a prendere alla Malpensa alle nove di mattina, e io, con la mia solita straripante generosa disponibilità, gli avevo risposto che non solo non c’erano assolutamente problemi ma che lo facevo con piacere qualunque fosse l’orario, anche alle sei di mattina. Lui mi aveva detto di non esagerare, che l’ora di arrivo comunque era le nove, ma io ho insistito e alla fine sono riuscito a convincerlo che era meglio che io arrivassi lì almeno alle otto; così lui, dopo che si è convinto, mi ha ringraziato perché gli toglievo davvero un pensiero. E io ero contento di far qualcosa di utile per mio fratello che è sempre in giro per il mondo a lavorare come un matto. Quando, dal telefono pubblico, alle nove di mattina, gli ho detto che ero in stazione a Modena da sette ore, e che il primo treno era alle due di pomeriggio, mi ha dato dell’asino.

Poi ha noleggiato una macchina alla hertz e mi è venuto a prendere a Modena; così alla mezza ero a casa a fare la doccia.

Mi ha detto, a livello di consiglio fraterno, che la prossima volta che mi chiede un favore di rispondergli semplicemente di no, che si evitano tanti problemi.

L’ultima riflessione l’ho fatta proprio mentre venivo scarrozzato sulla bellissima e profumatissima macchina noleggiata da mio fratello all’aeroporto della Malpensa: in fin dei conti, ho pensato, la teoria di mio nonno Neride con tutto il rispetto è molto opinabile. E mi sa che io sto già diventando come lui, che parlo sempre poco (a parte stavolta) e non c’ho mai una lira in tasca.

Ma se lui – mio nonno Neride – mi avesse visto quella notte di pioggia sotto la pensilina davanti alla stazione (chiusa) di Modena, in piedi, con tre prostitute e quattro clandestini, compreso Jamal il tunisino, ad aspettare per sei ore dei treni che venivano soppressi uno dopo l’altro, con il cellulare scarico e senza scheda telefonica, con ancora sullo stomaco un coniglio in umido mangiato molte ore prima insieme a famosi scrittori e a scrittori minori e a scrittori sedicenti; se, contemporaneamente, avesse visto mio fratello che, sbarbato e dopobarbato e in giacca e cravatta di ritorno da Londra, entrava alla hertz dell’aeroporto della Malpensa facendosi consegnare da una specie di miss mondo sorridente in divisa blu della hertz le chiavi di una bmw per venire a prendere me, fino alla stazione di Modena; se avesse visto tutto questo, compresa la faccia del custode

dell’albergo che, dalla paura che facevo, voleva chiamare i carabinieri, adesso probabilmente sarebbe abbastanza orgoglioso di suo nipote più vecchio (cioè io), anche se – pensando alla rivista denominata La tubatura e ricordando quel coniglio in umido – ogni tanto mi scappano ancora di quei richiami semantici così potenti che poi c’è da aprire delle finestre per delle mezz’ore.

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lunedì, 3 settembre 2007

CAPITOLO I – “L’OCCHIO ALATO: storie di disumanizzazione scolastica” (di Miriam Ravasio)

Le nuvole. Il plesso delle prime. “Forse” aveva vinto. Sudavo. I cieli romantici. Niente matita. Un momento critico. Le nuvole sulla cattedra. Come Raffaello.

Non entravo in una classe da oltre 20 anni. Avevo la febbre e solo da pochi giorni era morto mio padre. Improvvisamente, per un infarto, mentre attraversava la strada sotto casa, era morto sorridendo. Chissà a cosa stava pensando…

Il giorno prima, la direzione didattica, o meglio Giovanna Portavoce, mi aveva postato una mail, come al solito un po’ così , ma il senso era chiaro: il progetto che avevo scritto, e che loro avevano presentato alla Regione “forse” aveva vinto. In attesa della comunicazione ufficiale, potevo iniziare subito ” magari con un altro argomento somigliante”; dovevo impegnarmi per 195 ore divise in tutte le classi della scuola. Ero felice, con 7 interventi per classe potevo sbizzarrirmi e aggiungere attività più complesse: potevo realizzare un buon lavoro, ma lo stile della comunicazione mi faceva sperare ben poco.

In mente avevo sempre mio padre, ma pensavo anche alle dimensioni della scuola a quanto avrei dovuto camminare per muovermi dalle aule alla stanza del materiale. Contavo mentalmente i passi e i metri che avrei dovuto percorrere. Pensavo alle gambe, agli spiacevoli esiti e a quell’intervento che continuavo a rinviare; e a questo nuovo capitolo della vita che si stava aprendo. Speranzosa e triste, alle 14 esatte mi presentai a scuola. Con me avevo tutto, i libri con i segni di diverso colore, l’astuccio con le gomme pane i quadrelli di creta e le matite 6B, il quaderno degli appunti, un po’ di fogli colorati in tinte pastello sui quali, avremmo incollato i primi lavori: le nuvole chiare, le nuvole rosa, le nuvole nere.

All’istante ho capito come sarebbe stata e che prima di affrontare la classe avrei dovuto ogni volta spiegare tutto e molto bene alle maestre. Guardavo i bambini che avevo di fronte e alcuni mi conoscevano, un po’ emozionata iniziai presentando il “magnifico programma d’arte” che avrei svolto con loro, cominciai parlando dei cieli, di come è bello guardarli e dei pittori che li dipingono nei quadri. Loro, attenti, incuriositi, volevano vedere i libri, la novità li eccitava e la maestra esercitava il controllo alzando la voce. Il raffreddore, che nel giro di poche ore sarebbe diventato febbrone da cavallo, mi aggrediva. Il naso gocciolava, avevo un gran caldo, sudavo e temevo di infettare i piccoli; loro invece erano attenti. Pendevano teneramente dalle mie labbra e anche se la condizione non era delle migliori, mostrai i libri con le immagini già divise fra le nuvole serene, quelle bianche e soffici; quelle gialle o rosa che salutano il sole; quelle nere cariche di pioggia, grandine e tempesta. La scelta cadeva sui pittori tedeschi e inglesi, sui cieli romantici. Secondo la mia scaletta, questa cosa dei libri non doveva durare più di 15-20 minuti al massimo, perché la loro attenzione è limitata e anche il disegno non doveva prendere più di un’oretta. In teoria tutto era stato calcolato.

E nonostante la tosse e il raffreddore, ogni cosa si stava svolgendo come previsto e con occhio fisso all’orologio seguivo le tappe. Bambini rapiti dall’idea di toccare e sfogliare i miei libri, rumorosi ma disciplinati, toccavano incantati i tramonti e i cieli azzurrissimi di quelle vecchie opere che si avvicinavano al vero.

Davanti ad un foglio bianco, con un pastello blu oppure rosso, giallo o rosa, aspettavano il resto delle indicazioni. ”Niente matita”, perché rovina l’effetto pittorico dei gessetti; e poi volevo che pensassero, che memorizzassero, e lavorassero con attenzione, senza la possibilità di cancellare. Giravo fra i banchi e tutti mi chiamavano contemporaneamente, chiedevano; tutti insieme volevano, pretendevano consigli, colori, esprimevano dubbi, mi volevano al loro banco. Un piacevole caos che temevo di non controllare.

I tempi dei bambini sono, per ognuno, diversi. Alcuni hanno fretta di dimostrare d’aver capito tutto, altri sono incerti se prendere la cosa come un compito serio o un divertimento nuovo, altri ancora hanno bene in mente cosa vogliono fare, ma temono la novità dei nuovi mezzi. Il pastello, usato al posto della matita, creava all’inizio una grande diffidenza, è sempre così; la paura di non poter cancellare si risolveva nel tentativo di cambiare il foglio. Dovevo intervenire per tranquillizzare tutti, prestare attenzione alla maestra, rispondere alle sue domande, spiegarle ogni cosa e farmi aiutare. Un momento faticoso, il punto critico di ogni lezione, un momento che dura poco ma con un livello d’attenzione massimo.

Ho lavorato con molte insegnanti e sono pochissime quelle che hanno l’intuito giusto nei confronti del disegno, la maggior parte di loro è attratta solo dall’ordine, e da un segno che non sia troppo marcato. E’ dura dover insegnare un metodo nuovo senza inibire i bambini, lasciandoli liberi nella loro espressività, e confondere le idee alle maestre. Bisogna improvvisare i commenti giusti e guadagnare tempo. Quello necessario alla consegna dei primi lavori, che guardo e metto da parte per rivederli con loro prima della fine della lezione.

La lezione piacque a tutti, i lavori uno dopo l’altro raggiungevano la cattedra. Belli, alcuni intensi, altri imprevedibili, altri tranquilli, esageratamente simpatici, coloratissimi, o appena accennati.

I gessetti colorati rendono. Sono un mezzo molto gratificante, efficace, veloce, rassicurante. Anche se ci si sporca, in un attimo tutto è subito risolto. L’uso della gomma pane aiuta a conferire l’effetto vaporoso e i bambini imparano in fretta. Le nuvole disegnate parlano del tempo, delle ore del giorno e della sera, della luce colorata del tramonto e dell’aurora, del buio della notte e dei temporali. Un buon lavoro. Ma non è una cosa straordinaria, a quella età la sicurezza di descrivere ciò che si conosce, o si ha appena imparato, o visto è intatta.

“Quando avevo l’età di questi bambini sapevo disegnare come Raffaello; mi ci è voluta tutta una vita per imparare a disegnare come loro.” Picasso.

Miriam Ravasio

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Miriam Ravasio abita a Lecco, si occupa di educazione all’immagine nelle scuole; un lavoro a cui è arrivata “per caso”, dopo una vita dedicata alla moda e alla ricerca di immagini per abiti, tessuti e ricami. L’impatto con la scuola, e in particolare, con il frastuono pedagogico della didattica, è stato così forte e violento da indurla a scrivere.

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