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Archivio di gennaio 2008

mercoledì, 30 gennaio 2008

IL POTERE LIBRESCO E SALVIFICO DEL WEB

Sulle pagine culturali di Panorama, n. 5 del 28 gennaio 2008, Monica Vignale ha pubblicato un articolo molto interessante dal titolo: Passaparola, Il best-seller nasce sul web.

Ve lo riporto di seguito (approfittandone per ringraziare la Vignale di aver citato Letteratitudine).

Leggete il pezzo e rifletteteci un po’ su.

Vi chiedo:

Dando per scontato che, per quanto concerne l’acquisto dei libri, il web (considerato nel suo complesso) ha un suo potere persuasivo, ritenete che tale potere sia effettivamente paragonabile a quello tradizionale delle recensioni pubblicate sui giornali (sempre considerate nel complesso) ?

Un’ulteriore (e complementare) occasione di dibattito sul tema proposto ce lo offre un articolo di Ermanno Bencivenga pubblicato su Tuttolibri del 24 novembre 2007.

Il titolo è: Internet ci salverà dal finire al macero. Articolo interessante in cui si propone agli editori di mantenere in catalogo più titoli possibile, evitando il macero, basandosi sullo slogan «selling less of more»: gioco di parole che si potrebbe tradurre (credo) con «vendere di tutto un po’».

Domanda per voi:

Ritenete che, in effetti, «vendere di tutto un po’» sarà l’inevitabile futuro per l’editoria?

A voi le risposte.

(Massimo Maugeri)

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PASSAPAROLA: IL BEST-SELLER NASCE SUL WEB


di Monica Vignale

letteratura in rete. Aumentano i siti nei quali i lettori diventano recensori dei libri che comprano. Ne discutono, li consigliano o li stroncano e il tam tam dei navigatori influenza il mercato. Risultato: i romanzi snobbati dai critici di professione diventano successi. E gli editori corrono ai ripari.

Irina ha appena finito di leggere Il giorno in più di Fabio Volo (Mondadori). Le è piaciuto e ritiene importante condividere le impressioni con altri lettori. Apre il sito di comparazione prezzi www.ciao.it e nella sezione dedicata alla letteratura scrive: «Quella che sembrava una storia destinata a finire subito si rivela una storia quasi fiabesca, un sogno… lo consiglio a tutti».Su letteratitudine.blog.kataweb.it si discute animatamente di romanzi di guerra e si promuovono Il pittore di battaglie (Arturo Pérez-Revert, editore Tropea), Neven (Joe Sacco, Mondadori) e Ali di sabbia (Valerio Aiolli, Alet Edizioni). Gli interventi fioccano a centinaia, malgrado l’argomento sia di nicchia. C’è anche chi non ha ancora letto i romanzi: «Ma lo farò presto, mi avete fatto venire voglia di correre in libreria».

Che i libri si vendano col passaparola assai più che con le promozioni ufficiali è vero da secoli. Funzionava così nei «salons» settecenteschi e, in tempi più recenti, è stata la comunicazione diretta fra i lettori a consacrare il capolavoro di Boris Pasternak quando, nel 1957, la Feltrinelli pubblicò in anteprima mondiale Il dottor Zivago, traducendo il dattiloscritto che in pochi mesi divenne best-seller. Con internet sarebbe bastata qualche settimana.

Come è accaduto, per esempio, con L’eleganza del riccio (edizioni E/o), opera prima della docente di filosofia Muriel Barbery, best-seller in Francia, e gran successo in Italia, che ha venduto centinaia di migliaia di copie grazie all’impressionante tam tam online.

È il web ad accorciare i tempi. I lettori navigatori si definiscono books-eater (letteralmente: divoratori di libri) e condividono le emozioni che regala un romanzo avvincente, decretandone, più o meno inconsapevolmente, la popolarità.

Com’è avvenuto per The Stolen Child di Keith Donohue, mandato in libreria dalla Rizzoli con il titolo Il bambino che non era vero. Nel silenzio della critica, il romanzo ha fatto incetta di consensi grazie al brusio telematico scattato su Amazon, il più importante sito di libri del mondo.

Le librerie online hanno capito che conviene cedere la parola ai lettori più che ai recensori di professione. Riproponendo sul web un’abitudine consolidata: il lettore chiede una dritta sui titoli da acquistare all’amico che stima e che ha dimostrato, nei gusti, di essere attendibile. Così, sulla scia dei blog personali, i maggiori portali specializzati nel lancio e nella vendita di libri hanno aperto spazi di discussione libera dove i lettori diventano recensori.

Su Bol.it oppure Qlibri.it, per citare due delle più frequentate librerie della rete, sotto ogni titolo in commercio si possono leggere i contributi dei navigatori, le loro opinioni e il voto assegnato espresso in stelle, come per i film. A guadagnarci sono soprattutto gli scrittori esordienti. Come la controversa Babsi Jones, autrice per la Rizzoli di Sappiano le mie parole di sangue, una storia intensa ambientata durante il conflitto nei Balcani della quale, in rete, si sta discutendo moltissimo.

Capita in Italia e capita oltre confine. In Spagna La sombra del viento di Carlos Ruiz Zafón è stato scoperto dal pubblico di internet prima che dai critici. E internet l’ha rilanciato anche sul mercato italiano, dove il romanzo è stato pubblicato, con successo, dalla Mondadori. Tanti lettori dagli scaffali virtuali di www.internetbookshop.it l’hanno consigliato come regalo di Natale.

Le comunità del passaparola sono un aiuto determinante soprattutto per la piccola editoria, che può aspirare a un’improvvisa notorietà. È il caso di Ultimo appello dell’esordiente Salvo Toscano, un giallo pubblicato da Dario Flaccovio che, viste le dimensioni dell’editore, è stato un trionfo di vendite.

Può accadere anche il contrario, certo. Il contagio viaggia in due direzioni, come racconta un lettore sul forum di Qlibri.it: «Volevo comprare Brucia Troia, perché dello stesso autore di Caos calmo (Sandro Veronesi, ndr), un libro che ho adorato. Però ho visto che a molti lettori, dei quali recepisco i consigli su internet, non è piaciuto, e per ora ho rimandato».

Potere del condizionamento reciproco, che può influenzare facilmente anche il non acquisto.

Nei cyberluoghi dove navigano milioni di persone dai gusti variegati, il tam tam riserva sorprese inaspettate. I gruppi di bibliofili sparpagliati dalla Valle d’Aosta alla Sicilia, refrattari ai diktat delle mode, discutono anche di opere datate o trascurate, delle quali sintetizzano pregi e difetti in schede che inseriscono sul proprio sito web, dando vita a una rete nazionale (http://gruppodilettura.word press.com) di scambio di opinioni e giudizi sulla letteratura, classica o contemporanea.

Non è strano, quindi, che improvvisamente nelle librerie si registri una impennata di richieste per Danny l’eletto dell’americano Chaim Potok, pubblicato in Italia all’inizio degli anni Ottanta e riscoperto vent’anni dopo, quando internet ha fatto da cassa di risonanza a una toccante storia di amicizia fra due ragazzi divisi dall’ortodossia ebraica.

Significativo anche il caso di Eureka Street dell’irlandese Robert McLiam, una storia di amicizia, sangue e perdono ambientata in una Belfast di conflitti irrisolti. Il romanzo, pubblicato dalla Fazi nel 1999, è stato scoperto solo qualche anno più tardi sul web, dove è rimasto a lungo fra i testi «vivamente consigliati». L’ascesa è stata irresistibile, tanto che l’editore ora annovera il libro come uno dei più venduti del suo catalogo.

Miracoli di un fenomeno il cui esempio più vivido resta Il cacciatore di aquiloni (Piemme) di Kalhed Hosseini, che ha fatto piangere l’Europa ben prima che i raffinati opinionisti lo incoronassero principe delle librerie, e che per 3 anni, in Italia, ha venduto quasi 1.000 copie al giorno nell’indifferenza di giornali e tv.

La critica lo aveva ignorato ma i libri, è risaputo, vendono grazie ai consigli di chi li legge per piacere, non per dovere.

Monica Vignale

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INTERNET CI SALVERA’ DAL FINIRE AL MACERO

di Ermanno Bencivenga

Da anni le case editrici italiane si stanno disfacendo dei fondi di magazzino. Se un libro non si è dimostrato sufficientemente «attivo» negli ultimi tempi, viene messo fuori commercio e i diritti vengono restituiti all’autore. Insufficienze e conseguenti bocciature, peraltro, non vengono assegnate dai direttori editoriali o delle singole collane: se parli con loro, allargano le braccia e lamentano che «il commerciale» ha deciso così, in base a criteri di cui è esclusivo e geloso depositario.

Ne deriva l’impressione di una severa realtà con cui è purtroppo necessario fare i conti; e per fortuna che ci sono i contabili a farli, altrimenti chissà che guai potrebbero combinare intellettuali e utopisti. Ma, come spesso capita, i contabili stanno facendo i conti di ieri e adeguandosi a una realtà che sta cambiando – starei per dire sotto i loro occhi, se non fosse che guardano ostinatamente altrove.

Oggi i libri si comprano sempre più in rete; e questo ha rivoluzionato l’intero settore. Mentre prima tutto dipendeva dalla visibilità di un titolo, e quindi poteva essere plausibile investire su pochi e spesso rinnovati best-seller, Internet ha creato un mercato di nicchia, che fa affari d’oro.

Amazon informa che il 25% delle sue vendite riguarda libri che non sono compresi fra i 100 mila più venduti.

Chris Anderson, direttore della rivista Wired, ha ampiamente discusso tale nuova opportunità nel suo The Long Tail, uscito l’anno scorso, e l’ha riassunta nello slogan «selling less of more».

Occorre ragionare in modo diverso dal passato, afferma, perché la rete ha creato un’economia di abbondanza, in cui non ha più senso porsi i limiti che erano inevitabili quando c’erano pochi scaffali in negozio, pochi canali in televisione, pochi cinema, poche pagine nei giornali. Chi ancora rispetta questi limiti ormai obsoleti si troverà a mal partito in una situazione in cui è possibile gestire un inventario praticamente infinito.

Nell’economia dell’abbondanza della long tail, vincerà chi avrà i cataloghi più ampi: anche un titolo che vende dieci copie l’anno sarà utile, soprattutto per chi avrà migliaia di titoli del genere. Ma le case editrici nostrane stanno appunto smantellando i loro cataloghi, in nome di un sano, impietoso «realismo». Dove si dimostra una volta di più che la realtà è sovente un’etichetta per la propria ignoranza.

Ermanno Bencivenga

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A TUTTI I BLOGGER (soprattutto a coloro che si occupano di libri)

Se potete, linkate questo post (o ricopiatene il testo) e provate ad avviare, sui vostri blog, dibattiti paralleli a quello che si svilupperà qui. Grazie mille.

(Massimo Maugeri)

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AGGIORNAMENTO del 2 febbraio 2008

Cari amici,

come ricorderete avevo posto questa domanda: dando per scontato che, per quanto concerne l’acquisto dei libri, il web (considerato nel suo complesso) ha un suo potere persuasivo, ritenete che tale potere sia effettivamente paragonabile a quello tradizionale delle recensioni pubblicate sui giornali (sempre considerate nel complesso)?

Il realtà la domanda era volutamente fuorviante per i motivi che vi spiegherò di seguito.

Partiamo da questo ulteriore punto di domanda. Cosa è web? E cosa non lo è?

La maggior parte degli articoli pubblicati su quotidiani e riviste vengono automaticamente pubblicati anche on line. Dirò di più. Seguendo la direzione fissata dal New York Times – interamente e gratuitamente consultabile su Internet – anche molti dei nostri quotidiani si stanno adeguando. “Il Messaggero”, “Il Mattino”, “La Sicilia” sono già consultabili on line dalla prima all’ultima pagina. La maggior parte degli articoli pubblicati sui principali quotidiani vengono riproposti all’interno dei rispettivi siti (in alcuni casi gli articoli consentono di rilasciare commenti). E così per molti magazine e riviste.

Cosa voglio dire?

Che la differenza tra il web e il cartaceo è già quasi inesistente (o tende comunque ad affievolirsi) per il semplice fatto che la Rete sta inglobando l’informazione e i media tradizionali, integrandoli all’interno di un nuovo sistema di comunicazione (in parte ne avevo già parlato qui).

Quando Monica Vignale e Ermanno Bencivenga hanno scritto i loro articoli lo hanno fatto rispettivamente per Panorama e per La Stampa, ma al tempo stesso – più o meno consapevolmente – hanno scritto per il web. Io stesso, in effetti, pur avendoli letti, in origine, in versione cartacea, li ho poi proposti su Letteratitudine copincollandoli da Internet.

A loro volta questi articoli (anche per via del mio invito) sono stati riproposti su altri blog.

Da qui la considerazione che vi ripropongo: la differenza tra il web e il cartaceo è già quasi inesistente (o tende comunque ad affievolirsi). Il processo, a mio avviso, è inarrestabile e giungerà molto presto al suo completamento.

Se partiamo da questo presupposto probabilmente arriveremo alla conclusione che la differenza vera è determinata non dalla presenza on line o su carta, ma dall’autorevolezza della fonte. E forse dalla maggiore diffusione che, per un po’ di tempo, continueranno ad avere gli articoli pubblicati anche in forma cartacea.

Lascio a voi le ulteriori controdeduzioni.

(Massimo Maugeri)

Pubblicato in EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI   264 commenti »

lunedì, 28 gennaio 2008

LA VITA INCAGLIATA di Attilio Del Giudice

Sull’onda del filone “letteratura e infanzia, letteratura e adolescenza”, affrontato anche in altri post (vedi qui, qui, qui e qui) ne approfitto per presentare un’ulteriore piccola casa editrice – la Leconte - e uno degli autori del suo catalogo. Si tratta di Attilio del Giudice (1935), casertano, che vive a Santa Marinella (Roma). Del Giudice è stato pittore e filmaker, ha militato nei gruppi d’avanguardia attivi nella ricerca visiva degli anni 70 e 80 (alcuni suoi filmati sono stati selezionati per l’Archivio Storico delle Arti Visive della Biennale di Venezia e sono stati oggetto di studio e di esami al Dams di Bologna e nel corso di Storia del Cinema presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Trieste). Dopo le raccolte di racconti (Eventi Precipitati, Storie Terrestri e Non), è approdato al Romanzo nel 1998 con Morte di un Carabiniere (ed. Minimum Fax), ha pubblicato, poi, nel 2000 Città Amara (ed.Minimum Fax), nel 2004 Bloody Muzzare’ (ed.Leconte) e nel 2006 La Vita Incagliata (ed. Leconte).

Oggetto di questo post è, appunto, il suo romanzo più recente (La vita incagliata): il protagonista è un ragazzino del Sud, figlio di un camorrista. Ce ne fa cenno lo stesso Del Giudice, qui di seguito.

Seguiranno alcuni brani estratti dall’opera e una recensione di Sergio Sozi.

Considerati anche i precedenti post che hanno affrontato il tema letteratura e infanzia o letteratura e adolescenza ne approfitto per lanciare un dibattito collaterale a quello che avrà per oggetto questo libro.

Vi domando: fino a che punto la letteratura è in grado di cogliere il disagio di infanzie e adolescenze turbate, se non dilaniate, dalla ferocia di certi ambienti sociali?

(Massimo Maugeri)

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di Attilio del Giudice

Ho pubblicato La Vita Incagliata (ed. Leconte) nell’aprile del 2006, il romanzo, con una postfazione di Francesco Piccolo, è costituito da cinquantadue capitoletti. Qui, nello spazio, che Massimo Maugeri mi offre su Letteratitudine, ne propongo quattro, fra i primi. Spero che possano introdurre il mondo di Nino (il protagonista e narratore). Li faccio precedere da una breve nota, (fu richiesta dall’editore per un risvolto di copertina), che è, in qualche modo, una dichiarazione di intenti.

Caro lettore, forse, prima di acquistare e leggere questo libro, prima di fruire di una qualche qualità espressiva, vuoi sapere quali siano state le intenzioni dell’autore. Si sa che le intenzioni sono una piccola cosa fallibile e un romanzo, una volta scritto, aspira ad andare oltre e a camminare per conto suo, ma per quel po’ che possono valere, te le dico in due parole.Ho inteso parlare di un ragazzino di dieci anni e, attraverso il suo linguaggio,della sua condotta psicologica: le inquiete morbosità di adolescente, la levità, gli affanni; attraverso i suoi affetti e i suoi rapporti umani, ho inteso parlare di una comunità contadina, arcaica in alcuni riti e valori, ma brutalmente ammodernata dalla cultura del sopruso e della violenza. Un concentrato di drammatiche contraddizioni, un disagio nella vita civile che investe intere regioni del Mezzogiorno. Questo non era il mondo della mia infanzia lontana (altre, semmai, furono le lacerazioni), ma mi sono convinto che gli scrittori del Sud e anche i più umili facitori di storie non possono eluderlo, se vogliono rinforzare le esili e scabre ragioni della scrittura narrativa col peso della realtà e cercare l’incontro coi lettori su un terreno più sicuro.

a. d. g.

http://attiliodelgiudice.wordpress.com

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LA VITA INCAGLIATA

Maestre

1

Da dieci giorni abbiamo una nuova maestra. La nuova maestra parla tischitoschi, perché viene da una città dell’Alta Italia che si chiama Forlì, e tiene la faccia uguale uguale all’Arcangelo Gabriele che sta pittato nella chiesa di Santa Rita, subito entrando a destra.La nuova maestra ci ha detto che faceva giusto un anno da quando ammazzarono a Vincenzino Laquaglia e il fratello più grande nel bar California.

Vincenzino Laquaglia era un nostro compagno, un tipo vispo, che rideva sempre e faceva, di nascosto, le pernacchie al Signor Direttore.La nuova maestra ci ha detto che nessuno, delle otto persone che stavano nel bar California, ha dichiarato ai carabinieri di conoscere gli assassini e che noi dovevamo scrivere le nostre riflessioni.

Io ho fatto le riflessioni e poi ho scritto: “Chi sa, deve parlare! Se no, è scurnacchiato.”

Ho fatto subito subito, così, dopo, mi sono messo a penzare a lei, alla nuova maestra.

Io la penzo sempre alla nuova maestra. Per esempio, penzo che stiamo noi due soli in campagna, e io ci dico che mio padre ci dà un sacco di mazzate a mia madre. E quella volta che io ci ho detto a mio padre: “Mo la vuoi finire?” lui dicette che ci avevo mancato di rispetto e mi dette le cinghiate sulla schiena, che ne tengo ancora i segni.

Allora, la nuova maestra vuole vedere le cicatrici, io alzo la maglia e lei si mette a piangere e mi dà un sacco di baci dolci dolci.

Invece Michele, che è il mio compagno di banco, dice che la nuova maestra è troppo secca e che a lui ci piace di più la maestra che ci stava prima.

La maestra che ci stava prima era chiatta e gridava sempre e, quando si arrabbiava con uno di noi, si faceva rossa rossa e diceva: “Mo ci hai scassato a minchia!”Però a Michele ci piace di più la maestra che ci stava prima, perché, quando si sedeva, teneva sempre le cosce aperte, che si vedevano pure le mutande.

——

Panna e cioccolata 2

Oggi è morta la nonna. Ieri sera stava una bellezza, invece, stanotte, nel tramente che dormiva, è morta. La mamma se n’è accorta per prima che non respirava più. Poi è scesa per preparare la zuppa di latte, café e savoiardi per mio padre, che è venuto a mangiare in cucina. Mia mamma piangeva e ha detto a mio padre: “E’ morta tua madre”. Mio padre subito s’è incazzato: “E che maronna, me lo dici mo che sto mangiando?”“E quando te lo dovevo dire? Io mo me ne so’ accorta”.

Mio padre ha finito di corsa la zuppa e poi è andato a vedere.

Mia nonna teneva settantadue anni. Cioè, lei diceva che teneva settantadue anni, ma mia madre dice che ne teneva settantasette. Però era molto scetata, e pure che era sorda come una campana, capiva tutte le parole, guardando il movimento della bocca, quando uno parlava. E tutte le volte che mio padre bestemmiava la Madonna, lei diceva: “Statti zitto, disgraziato, che Dio un giorno o l’altro ti fulmina!”

Io me lo aspettavo che Dio lo fulminava e ci penzavo sempre, specialmente quando pioveva e c’erano lampi e tuoni.Però, secondo me, Dio s’era un poco distratto, perché a mio padre non lo fulminava mai. Invece fulminai a Carmelo Cantatore, che stava raccogliendo le zucchine sotto la pioggia, se no marcivano. Carmelo Cantatore era uno bravo, con gli occhi celesti celesti e quando vedeva a mio padre, diceva sempre: “Don Alfo’, servo vostro, a disposizione, a disposizione!” Poi ho visto nella televisione che hanno fatto una legge per un tipo inzisto, che pure se ha fatto qualche reato, non deve essere punito. Allora, ho penzato che pure in cielo avranno fatto una legge che i tipi inzisti non devono essere puniti.

Mio padre è un tipo inzisto. Anzi, mo ti conto il fatto di don Salvatore, così si capisce che mio padre è un tipo inzisto pure lui.

Don Salvatore tiene un bar in paese in via Caduti sul Lavoro, dove ci sta la saletta del biliardo. Io ci vado qualche volta e mi metto a guardare i giocatori di biliardo, perché mi piace assai e appena mi faccio grande, voglio diventare giocatore di biliardo.

Sabato scorso, a giocare, ci stavano Murrone ‘u zuoppo e don Nicola Tariello, che sono due campioni e, ogni tanto, si sfidano e una volta vince uno e una volta vince l’altro e chi perde deve pagare o un café o un sanbittér.

Io mi ero preso un gelato di cioccolato con due palline, quelle che si fanno con la macchinetta e ci avevo fatto mettere pure un poco di panna e mi stavo allicreando a leccare e a guardare la partita.

A un certo punto, Murrone ha fatto un tiro veramente super. A tre sponde, ha preso il filetto e ha lasciato le palle impallate, che era una cosa sopraffina. Io mi sono un poco piegato sul biliardo per vedere bene come stava messo il pallino. Allora, don Nicola ha detto: “Guaglio’, levati alloca!” Io subito ho ubbidito, ma, nel fare la mossa di scatto, mi è caduto mezzo gelato sul tavolo.

“Mannaggia, non l’ho fatta apposta” ho detto io. Però, quelli, i giocatori, si sono un poco incazzati e hanno chiamato a don Salvatore per fare pulire il panno verde.

Don Salvatore, quando ha visto che là stava tutto sporco di cioccolata, ha detto: “Guaglio’ vattenne se no ti piglio a calci in culo!”

Il fatto che don Salvatore mi voleva pigliare a calci in culo, io ce l’ho contato a mio padre. Laperlà mio padre non ha detto niente, però ha fatto quella faccia brutta che fa quando sta con la luna storta e se la piglia con mia madre. Il giorno dopo, a prima matina, mi ha detto:”Guaglio’, vestiti, che dobbiamo uscire!”

“Dove andate a quest’ora?” ha detto mia madre.

“Sono cazzi nostri!” ha detto mio padre.

E così siamo usciti, io e lui. Lui camminava veloce e io ogni tanto mi dovevo fare una corsetta, se no rimanevo indietro. Siamo andati al bar di don Salvatore che apre presto, pure la domenica.

Don Salvatore stava a lavare per terra con lo straccio. Appena ha visto a mio padre, ha detto: “Don Alfonso, che onore! In che cosa vi posso servire?”

Mio padre ha detto: “Dammi una marsala e un cono di gelato al cioccolato!”

Don Salvatore ha messo il bicchierino di marsala sul bancone e ha dato il gelato in mano a me, che me l’ho messo a lecca’. Mio padre si è bevuto il marsala in un solo sorzo e, poi, ha detto: “Aspetta, non mangiare, vieni con me!” Mi ha portato nella saletta del biliardo e ha detto: ”Metti il gelato qua!” Cioè che lo dovevo mettere proprio al centro, dove si mette il birillo rosso. Don Salvatore stava là a guardare, allora mio padre ha detto: “Salvato’, mio figlio ha inguacchiato il biliardo. Tu che vuoi fare? Lo vuoi prendere a calci in culo?”

“No, no, nonziamai! – Ha detto don Salvatore, che ha capito subito – Io non lo sapevo che era vostro figlio. Perlamorediddio!”Allora mio padre ci ha dato due schiaffi in faccia. Uno con la palma della mana e un altro, veloce veloce, con la mana smerza. “Questo ti serve come avvertimento! E mo inginocchiati!

”Don Salvatore si è messo a ridere, ma no assai, un poco poco.

“Don Alfo’, ve lo giuro…”

Don Salvatore si capiva che si stava cacando sotto, ma non si inginocchiava ancora. Mio padre, allora, ha inzistito e ha detto: “Inginocchiati, omm’e merda!”Allora don Salvatore si è inginocchiato.

“E mo – ha detto mio padre – leccami le scarpe!”

Don Salvatore ha alzato la testa. “Lecca, strunzo!”

Forse don Salvatore avrà penzato: “Evvabé, mo mi trovo.”

E, così, ha leccato tutte e due le scarpe di mio padre.

——

E come vi permettete?

5

Quando mia madre cucina i supplì di riso coi piselli dentro, e i crocché con la mozzarella di bufala dentro, allora si capisce che deve venire l’Onorevole. Perché, all’onorevole, i supplì e i crocché, come li fa mia madre, ci piaciono assaissimo.

L’Onorevole, quando viene, viene sempre di sera tardi, pure passata mezzanotte, certe volte. Arriva con la biemmevù blu, lucida lucida.

Con l’Onorevole viene pure uno, un poco tarchiato, che lo chiamano: “U’ ragioniere”, che porta le lente scure, che non se le leva mai, pure di notte.La machina la porta l’autista, Vittorio, che lo chiamano: “U Bambinello”. Però, non è bambinello, anzi è un pezzo d’uomo e tiene pure un poco di panza.Quando viene l’Onorevole, a me mi mandano a letto, pure se non me ne tiene. Mia madre porta la robba da mangiare nella sala da pranzo e, poi, se ne va a letto pure lei, perché quelli devono parlare di certi fatti importantissimi.

Vittorio, u’ Bambinello, no. Vittorio deve restare in machina a aspettare.P

erò, quando fa caldo, Vittorio si leva la giacchetta, che si vede il cinturone con la pistola e si mette a camminare sopra e sotto, e a parlare col cellulare, e a fumarsi le sigarette.

Mia madre, prima di coricarsi, ci porta pure a lui un piatto con quattro o cinque supplì e quattro o cinque crocché e una birra.

Una volta, io stavo nascosto dietro il muretto del terrazzo e loro non mi potevono vedere, io, però, li vedevo bene, perché c’era la luna.

Allora, mia madre teneva le mane impegnate, perché teneva il piatto in una mana e la birra nell’altra mana. “Questo è per voi!” dicette mia madre.

Bambinello, invece di prendere il piatto e la birra, mettette tutte e due le mane sul culo di mia madre. Mia madre si scanzò un poco e dicette: “Vitto’, e come vi permettete?”

Vittorio si mettette a ridere e dicette: “Angeli’, con voi nessuno può resistere!” Poi si pigliai il piatto e la birra.

Mia madre si fece una risella e dicette: “Non lo dovete fare più!”

U’ Bambinello prima si mettette a ridere e, poi, si mettette a muovere la lingua, come se se la voleva leccare tutta quanta a mia madre. Però lei non l’ha visto che faceva la mossa, perché già s’era girata per entrare in casa.

Io ho penzato che se ce lo dicevo a mio padre, mio padre lo sparava a Bambinello. Però, se ci dicevo che mia madre non s’era incazzata molto e s’era fatto una risella, lui sparava pure a mia madre. E se il fatto della risella, non ce lo dicevo, lui sparava a Bambinello, ma chi sa quanti pugni ci dava a mia madre, che non ci aveva detto niente a lui.

Perciò mi sono stato zitto.

——

Un ottimo lavoro

6

Ieri sera tardi sono venuti: l’Onorevole, il Ragioniere e Bambiniello.

A me già mi avevano mandato a letto. Però, invece di nascondermi dietro il muretto del terrazzo, mi sono nascosto nella scala interna, che tiene una finestrella con la grata di ferro, che affaccia nella camera da pranzo, così di giorno entra un po’ di luce nella scala.

Ho aspettato che mia madre se ne andava a letto e senza fare rumore, piano piano, so’ sceso. Loro: mio padre, l’Onorevole e il ragioniere si sono abbuffati di crocché e supplì e si sono bevuti un sacco di birre. Poi mio padre ha levato dal tavolo i piatti e le bottiglie. L’Onorevole ha detto: “Allora, Alfo’, il materiale ci sta o non ci sta?”

“Ci sta, ci sta!”- Ha detto mio padre.

“E, allora, vediamo di che si tratta.” – Ha detto l’Onorevole.

Mio padre ha cacciato una chiave e ha aperto un armadietto, dove sopra ci sta il compactdisco, e ha preso un borza. Si è seduto, ha aperta la borza, che si apre coi numeri, e ha cacciato una busta rossa.“

Ecco il materiale!” – ha detto.

L’Onorevole ha aperto la busta e ha cacciato un sacco di fotografie. Si è messo gli occhiali e, appena ha cominciato a vedere le fotografie, ha detto: “Azzò! E questa, secondo me, non è ancora mestuata!”

Io questa parola non la so, però così ha detto. Sono sicuro, perché mio padre e il ragioniere parlano che si capisce e non si capisce, invece l’Onorevole parla forte, perché lui è abituato a fare i comizi in piazza e si capisce ogni parola.

“E qua – ha detto – si vede bene pure la penetrazione. Alfo’, questa quanti anni potrà avere?”

“Tredici, quattordici al massimo.”

“Noo! – Ha detto l’Onorevole – Quattordici non li tiene, e, forse, nemmeno tredici.”

Il Ragioniere si è andato a mettere dietro all’Onorevole, per vedere bene pure lui e ha detto: “Però, Onore’, a onor del vero, tiene nu bellu culillo!”

“Ah, su questo non ci sono dubbi. E’ invitante.”Allora si sono messi a ridere tutti e tre. Poi si sono messi a vedere le altre fotografie e, ogni tanto, dicevano: “Azzo!”

“E noi – Ha detto l’Onorevole – con questa robba lo teniamo in pugno, lo incastriamo una volta per sempre”.

Pareva contento l’Onorevole e ci ha detto a mio padre: “Bravo! Bravo Alfonso, hai fatto un ottimo lavoro!”

Si vedeva che pure mio padre era contento.

Mio padre all’onorevole ci porta rispetto. L’Onorevole ci dice a mio padre: “Mi raccomando, Alfo’, non fare cazzate!” E mio padre non si incazza e ride un poco e risponne: “Non vi preoccupate, Onore’, state tranquillo!” Dice così, perché ci porta rispetto. Però, questa volta, l’Onorevole non ci ha detto:” Non fare cazzate!” ma ci ha detto: “Bravo, Alfonso, hai fatto un ottimo lavoro, così il fetente sta in mano nostra completamente e senza spargimento di sangue.

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Modeste glosse a La vita incagliata di Attilio del Giudice (Leconte, Roma 2006)

di Sergio Sozi

Di questi tempi, leggere la nuova narrativa italiana è come fare una scelta di campo, soprattutto dal punto di vista linguistico: o con l’abusato, sciatto, impersonale italiano medio di molti, o nelle intricate vie lessicali dei realisti – o di chi al realismo s’ispira in un modo o nell’altro. Pochi autori stanno fuori da questi due schieramenti o dimostrano acume interpretativo, pur restando nei ”correntoni” attuali.Dunque, sarà perché il sottoscritto (almeno come narratore) non riesce a soggiacere a questa banale miseria generalizzata; sarà per via di una simpatia istintiva che queste pagine inducono in me; o forse sarà a causa della mia convinzione secondo cui ogni opera contemporanea debba esser vagliata alla luce della Storia Letteraria italiana. Ne sia quel che ne sia il motivo di fondo, credo di non dire una sciocchezza a cuor leggero se ora dichiarerò la riuscita operazione drammaturgico-letteraria consistente nella quarta opera narrativa di Attilio Del Giudice, scrittore casertano prima in forza alla casa editrice romana Minimum Fax e ora pubblicato dalla, sempre capitolina, Leconte. E come mai rappresenterebbe un’operazione drammaturgico-letteraria, questo La vita incagliata? Diversi sono i motivi per vederlo cosí: l’aspetto drammaturgico sono i capitoli-sequenza, scritti nel proprio diario dalla voce narrante, il bambino campano Nino: dei quadretti di quotidiana sopravvivenza che tanto ci rimandano visivamente al neorealismo di Pasolini. L’aspetto strettamente letterario è l’accuratezza della scrittura, poiché resta chiara l’elaborazione letteraria dei termini dialettali campani, trascritti con le giuste regole segniche dell’elisione eccetera. Le forme espressive dialettali (largo uso dell’erroneo ausiliare ”avere”, del pronome personale ”ci” per ”gli”, ecc.) sono veraci e credibili. Nel complesso ne risulta un italiano esteticamente vicino a quello di Gadda e Camilleri – mutatis mutandis naturalmente.

Ma il vero lato interessante di questa tristissima e commovente storia risiede nella violenza della quale è intrisa la vita di Nino, nove anni d’età (un bambino che sarebbe l’alter ego di Giamburrasca – tanto egli resta scanzonato e puro – se non gli fosse toccata la malaugurata sorte di aver un padre brutale e delinquente in un’Italia del Sud tremendamente novimillenaria): la violenza e le connesse perversioni qui divengono quasi una pagana accettazione della bruttura moderna, quasi come se l’incontro con uno schifoso riccone pedofilo (Al Mitreo, p. 67) fosse la rievocazione di un rito, appunto, concernente il dio Mitra. Il fondamentale particolare che, però, priva di fascino mitico la violenza serpeggiante in primo piano nel corpo di questi racconti, sta nella deficiente intelligenza del mondo in cui Nino, anima candidissima, nuota senza provarne disgusto: una provincia ottusamente autoreferenziale (direi autistica), depressa e affamata di spersonalizzazione e denaro, una provincia che non vede l’ora di dimenticare qualsiasi propria origine antica per buttarsi anima e corpo nella pomposa straniazione filo-americana. Niente di diverso rispetto alla provincia lombarda, umbra o sarda, dopotutto. Dunque niente di nuovo rispetto all’Italia post-bellica: violenza, sradicamento e solitudine di massa.

Dunque, in questo senso, La vita incagliata non straborda, per fortuna sua, nel mero ritratto della decadenza, processo spirituale e storico che purtroppo vediamo anche senza andarci a leggere dei libri che lo descrivano; appunto, il neorealismo che ne costituisce le fondamenta evita di cadere nella trappola dell’esagerazione e dell’iperbole ma ricorre piuttosto (secondo me salvificamente) alla letteraria tenerezza, alla poetica dolcezza con le quali Nino acquisisce il suo vero volto spirituale: quello, all’apparenza neutro come un foglio di carta bianco, che ci offre la soluzione per i mali italiani profondi e piú labirintici: resistere dentro, solo dentro di noi – nel limbo della nostra complessa, atavica semplicità – a questa brutale privazione del vissuto collettivo che ci costringe a rinunciare alla cura dell’infanzia (soprattutto a quella che abbiamo sempre viva nel cuore) in favore di una stonata idea della vita adulta.

E un indiretto manifesto della malsana crescita (degli altri, di molti altri italiani), questo romanzo-centonovelle dipinge, a veder bene, per mezzo della buona crescita che (alla faccia delle circostanze aberranti) il nostro Nino forse avrà. Anzi che sicuramente avrà, sempre che riesca a sopravvivere al padre insanus senex da cui è maltrattato e agli altri stolti. Molto plausibilmente noi tutti, gli adulti. Adulti solo nell’egoismo e nell’inciviltà.

Sergio Sozi

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venerdì, 25 gennaio 2008

IL SUD DELL’EDITORIA. EDITORIA A PAGAMENTO

Questo post ha una duplice valenza. Vi propongo, infatti, contestualmente, un’intervista che Stefano De Matteis – direttore editoriale di Cargo e L’ancora del Mediterraneo – ha rilasciato ad Andrea Di Consoli e un articolo di Gordiano Lupi (che, ricordo, è anche il direttore editoriale della casa editrice Il Foglio) corredato dalla lettera di un aspirante scrittore.

Gli argomenti trattati sono diversi e trovano un punto d’incontro nella “problematica” dell’editoria a pagamento, che già – di per sé – offre grandi opportunità di dibattito.L’intervista a De Matteis affronta ulteriori argomenti che potrebbero essere oggetto di discussione: l’editoria del Sud, la piccola editoria, la promozione dei libri.

Naturalmente vi invito a dibattere sui temi trattati.

Direi di procedere per fasi.

Cominciamo dal tema “editoria a pagamento”, per poi passare agli altri. 

(Massimo Maugeri)

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INTERVISTA A STEFANO DE MATTEIS di Andrea Di Consoli 

Dopo quasi un anno di fermo (il tempo di cambiare promotore, e aumentare il numero delle uscite) “L’ancora del Mediterraneo” e “Cargo”, le sigle editoriali napoletane, tra le principali del Sud, tornano fra qualche giorno in libreria. Dopo aver fatto esordire scrittori come Saviano, Pascale, Lucente e Zaccuri, e dopo aver pubblicato libri di Berardinelli, Naldini, Cederna, Fofi e Niola, si prevede un anno molto ricco per la piccola casa editrice campana.   Il direttore e fondatore delle sigle è Stefano De Matteis, nato nel 1954 a Napoli e formatosi, sin dal 1977, a Milano, lavorando da Feltrinelli, da Garzanti e, dal 1985 al 1992, con Mario Spagnol della Longanesi. Nel 1992 De Matteis decise di ritornare a Napoli, dove prima ha fondato una rivista con Gustav Herling (“Dove sta Zazà”), poi ha collaborato a “Il mulino” e alla pugliese “Argo”, fino a fondare, nel 1999, “L’ancora del Mediterraneo” (“Cargo” nascerà, da una costola de “L’ancora”, nel 2005).

De Matteis, perché nel Sud Italia non è mai nata un’editoria forte, a carattere industriale? 

Primo, perché al Sud non c’è mai stata una vera imprenditoria di mercato. Secondo, perché l’editoria non è mai stata vista come un’attività remunerativa, ma semplicemente come qualcosa che rientrava nei lussi dell’assistenza istituzionale. Quindi non si è mai costituita un’imprenditoria che lavorasse sulla cultura. Non a caso a Napoli c’è San Biagio dei librai, invece non esiste un San Biagio degli editori. La storia editoriale meridionale è soprattutto una storia di tipografie e di librai.

Quali sono, a suo avviso, le principali sigle editoriali del Sud?

Ovviamente “Laterza” e “Sellerio”.

Può l’editoria di progetto avere un legame forte con il proprio tempo?

Certo che può, sia per quel che riguarda L’Italia, sia per il Sud in particolare. Noi, per esempio, abbiamo anticipato quello che poi è capitato a Scampia, oppure il problema dell’immondizia.

Quali sono i principali problemi della piccola editoria di progetto?

Il problema principale della piccola editoria è saper creare un rapporto diretto con il lettore, nel senso che c’è un rapporto difettoso con i lettori, che adesso sta migliorando tramite internet, ma siamo il paese che spende meno su internet, perché non c’è un rapporto fiduciario con questo strumento e con le carte di credito. E poi c’è stato un grande cambiamento in libreria. Le librerie “grandi spazi”, come tutti sanno, smerciano soprattutto i famosi “non libri” per il famoso “non pubblico”.

Cosa significa fare l’editore a Napoli?

La difficoltà è questa: se tu apri un’impresa al Nord, le banche ti guardano come una persona interessante; se tu apri un’impresa al Sud, le banche ti guardano come un “mariuolo”. Noi abbiamo iniziato con capitali privati, non ci siamo mai seduti a nessun tavolo politico o di spartizione culturale, non abbiamo mai voluto nessun vantaggio dalle istituzioni e dall’università. Questa scelta ci è costata molto cara. Solo quest’anno, per la prima volta, faremo un accordo con la Regione Campania, perché pubblicheremo “Questa corte condanna. Spartacus, il processo al clan dei casalesi”, libro a cura di Maurizio Braucci e Marcello Anselmo. In questo caso l’accordo con la Regione è stato interessante, perché permetterà di distribuire il libro nelle scuole, dove verrà fatto un lavoro capillare sull’educazione alla legalità.

Il pubblico dei lettori è peggiorato in questi ultimi anni?

Assolutamente no. C’è stata però una forbice che si è molto divaricata tra quelli che leggono molto e quelli che leggono un solo libro all’anno.

I promotori hanno una grande responsabilità? 

E certo che ce l’hanno, perché devono posizionare bene i libri, fare un braccio di ferro con il libraio, sempre meno motivato. Il libraio purtroppo non è più il consulente dei lettori, ma è uno che riempie le schede e sposta i libri. Un tempo il libraio consigliava, era una figura di riferimento per l’editore. Oggi, con la rotazione che c’è, i librai fanno solo lo spelling sul computer per vedere se un libro c’è o non c’è.

La piccola editoria è anche un luogo di improvvisati e di cialtroni? 

Sicuramente. Ci sono alcuni come me che vengono dall’editoria “pura”, e molti che usano il surplus dei loro guadagni, fatti in altro modo, decurtandoli dalle tasse, e li investono in piccole case editrici. Mantengono quindi in vita una struttura dove non c’è un progetto forte. Se si prende invece Fanucci, e/o, Donzelli, e via a scendere fino a “L’ancora”, c’è un’identità tra imprenditore, ideatore e sistema editoriale. In molti casi, invece, c’è un’estraneità completa.

Ci sono anche speculazioni?

Penso proprio di sì. Ci sono situazioni dove si fanno grossi investimenti, non sempre trasparenti, per costruire marchi che possano funzionare a livello di mercato.

Quali sono le caratteristiche di un’editoria indipendente di progetto?

L’editoria di progetto costruisce un percorso sui tempi lunghi. L’editoria di speculazione, invece, è fatta di improvvisazioni che lasciano ben poco. C’è una tempistica che è completamente diversa, quando fai un’editoria di progetto, perché ti costringi ogni giorno a immaginare il futuro.

E’ rilevante l’editoria a pagamento? E come la giudica?

Purtroppo credo che sia molto rilevante, soprattutto quella che si appoggia all’università, in specie al Sud. Questo tipo di editoria, al di là di qualsiasi ragionamento etico e culturale, non mi piace per due motivi: primo, perché si crea una ridondanza di mercato, perché s’intasano le librerie con prodotti mediocri; secondo, perché si creano una miriade di sigle editoriali senza nessuna credibilità.

Chi sono i nemici dell’editoria di progetto?

I nemici sono tutti quelli che fanno non libri, non cultura, e che non insegnano a leggere. Il vero nemico, come suole dirsi, è la moneta falsa.

Quali sono le differenze tra “Cargo” e “L’ancora del Mediterraneo”?

Cargo” è un marchio nuovo nato nel 2005. Fino ad ora vi abbiamo pubblicato 15 titoli (tra gli altri, Arenas, Grass, Goytisolo), mentre solo nel 2008 ne faremo altri 15. “Cargo” pubblica esclusivamente narrativa straniera, e la direttrice editoriale è Milena Ciccimarra. “L’ancora del Mediterraneo” manterrà la collana “Le gomene”, che pubblicherà libri di attualità e pamphlet, la collana “Odisseo”, che farà gli esordienti e i narratori italiani, e “Gli alberi”, che sarà la collana della saggistica “pura”.

Ci dica alcuni titoli in uscita.

Per “Cargo” è in uscita MacPherson, che è un giornalista di guerra americano, che ha scritto un romanzo su una banda di americani che decide di aiutare il presidente a trovare le armi di distruzione di massa in Iraq. Poi uscirà un altro americano di “disinformations”, che si chiama Nick Mamatas, con un libro intitolato “Come mio padre ha dichiarato guerra all’America”. Per “L’ancora” uscirà un reportage sui rom d’Europa di un austriaco, Gauss, che s’intitola “I mangiacani di Svinia”, perché uno dei grandi olocausti del ‘900 è proprio quello dei rom.

Avete anche pubblicato molti libri sui gulag e sui laogai cinesi.

Adesso facciamo per il “Memento Gulag”, a novembre, la storia di un jazzista russo finito in un gulag. La collana su questi temi si chiama “Un mondo a parte”, in omaggio a Gustav Herling, che è stato, ed è tutt’ora, l’ispiratore de “L’ancora del Mediterraneo”.   

Andrea Di Consoli  

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SULL’EDITORIA A PAGAMENTO di Gordiano Lupi

Da quando ho pubblicato Quasi quasi faccio anch’io un corso di scrittura (Stampa Alternativa, 2004) e Nemici miei (Stampa Alternativa, 2005) ricevo le confessioni e gli sfoghi di tanti scrittori caduti nella rete degli editori a pagamento. Oggi voglio far conoscere quello che ci racconta Simone Pazzaglia, un autore toscano che ha ricevuto una proposta da una casa editrice a pagamento. Lui è d’accordo che venga pubblicizzata una brutta esperienza che può servire anche per altri colleghi. Diffidate degli annunci che trovate sui giornali e soprattutto di chi vi propone di pubblicare (meglio sarebbe dire stampare) il vostro libro in cambio di soldi. Se proprio dovete farlo potete ricorrere a un print on demand! Costa molto meno… In ogni caso il discorso sugli editori a pagamento sarebbe lungo, perché è anche vero che ci sono presunti scrittori (i famigerati scrittori locali che esistono un po’ ovunque) che se li meritano e che senza di loro non potrebbero mai definirsi scrittori. Chi pubblica pagando non è uno scrittore, ma soltanto un ambizioso che vuole il nome su una copertina.

A caro prezzo, di solito.

Gordiano Lupi

http://www.infol.it/lupi/

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“Non ho mai avuto grandi passioni in vita mia. A volte ho la sensazione che tutte le cose che faccio siano solo e soltanto un modo per riempire un vuoto, un po’ come fa chi guarda la pubblicità aspettando l’inizio di un film. Non mi intendo di calcio e non conosco neppure il nome dei giocatori anche se al bar spesso vengo tirato a forza in discussioni sull’arbitraggio della domenica o sui prossimi acquisti della mia presunta squadra del cuore. Con lo studio poi idem per il calcio. Certo mi sono laureato con poco sforzo ma con minima soddisfazione e anche lì una continua lotta per fingere, ad ogni esame, di sapere ciò che ignoravo e di essere ciò che non ero.Per il lavoro lasciamo perdere… non mi piace la moda, la trovo una cosa stupida, eppure mi scopro a dare consigli sugli acquisti o sugli abbinamenti di colore da fare ad attraenti donne attempate; è il mio lavoro, quello che mi fa mangiare, gestisco un negozio di abbigliamento.

E poi infine la politica, con anni di militanza in un partito ad organizzare concerti e fare riunioni interminabili per ritrovarmi con un’importante carica amministrativa a livello locale, nel mio sperduto paese. Sono una maschera di me stesso come diceva qualcuno oppure sono come quel cavaliere inesistente che doveva costantemente tenersi occupato in qualcosa per non svanire nel nulla. Essere ciò che gli altri si aspettano è un buon modo per sentirsi vivi, ma vivi a che prezzo?

In mezzo a questo galleggiare, spinto dal vento di ciò che non è mio, si insinua presente la scrittura simile ad un’ancora di salvataggio. E’ stata, da sempre, il mezzo tramite il quale raccontare quella parte di me, sconosciuta in fondo anche a me stesso, che si materializzava a volte sul foglio come avesse una vita sua propria.Eccomi allora nelle mie pagine sgrammaticate, nello sforzo di esprimere un minimo di sincerità; prima con delle poesie e poi con romanzi che raccontano il mio modo di vedere la realtà. Sì, scrivere mi piace e quando lo faccio, e sento che la penna scivola tra i miei pensieri, provo piacere, un piacere fisico simile allo sprigionarsi di uno strano calore nella pancia e nel petto.Va be’ mi diverto è vero, ma chi sa se quello che scrivo piace anche a qualcun altro?E allora perché non provare a spedire un po’ di materiale in giro, magari qualcuno è disposto a leggerlo e perché no a pubblicarlo! Ed ecco che la testa comincia a viaggiare e mi faccio il filmino di essere un vero scrittore e di poter pubblicare un libro, il mio, una cosa vera che mi appassiona e mi racconta.

Vai che si parte… e come dico io “niente a caso”, leggo sul mio quotidiano preferito un concorso letterario con i controcoglioni; c’è una casa editrice che selezionerà una storia di non meno di settanta cartelle dove, chi arriva primo su più di 2000 partecipanti, otterrà la pubblicazione del libro più 1500 euro di anticipo sui diritti d’autore.

Animato da grandi speranze, impacchetto il mio capolavoro e spedisco. Nel giro di una quindicina di giorni mi arriva una lettera dalla suddetta casa editrice dove mi si dice che il materiale è arrivato, lo analizzeranno e mi faranno sapere entro un mese il risultato.

Sono un’ottimista inguaribile, e per tutto il tempo di attesa inizio ad immaginarmi con il mio bel libro in un salotto letterario a firmare autografi e a godermi il premio monetario.

Dopo un mese circa arrivò la risposta a destarmi dal mio fantasticare, diceva più o meno così: il suo racconto non ha vinto il premio ma è stato trovato molto interessante bla, bla, bla, e allora avremmo intenzione se lei è d’accordo a sottoporlo alla valutazione di case editoriali di nostra conoscenza bla, bla, bla…

Aspettai quindi ancora con ottimismo ed iniziai, questa volta, ad immaginarmi con un piccolo libro, senza premio ma pur sempre con qualcosa di mio.Passano giorni di trepidante attesa ed io continuo a consigliare le mie vecchiettine sulle gonne che vestono meglio o sui maglioni che smagriscono, intervallando il lavoro con importanti riunioni comunali sul problema dei cani randagi e sulle scritte offensive che insozzano i muri di tutto il paese.

Poi un giorno, proprio all’ora di pranzo, arriva la mia compagna con in mano la lettera tanto attesa da parte della casa editrice.

La apro a tavola tra lo scoppiettare dell’olio nei tegami, le urla di fame di mio figlio che non intende aspettare e la tensione di Alessandra che legge insieme a me da dietro le mie spalle.

Sento Alessandra che sospira alle mie spalle mentre io le faccio cenno di richiudere la bottiglia e rimetterla in frigo.

Alzo la cornetta e chiamo la casa editrice dicendo di poter essere interessato alla proposta e di voler leggere il contratto di edizione.In fin dei conti si tratta di capire bene cosa significhi “un limitato numero di copie” e per di più tutte le spese di pubblicità e distribuzione nelle svariate librerie d’ Italia sono a spese loro quindi ancora non tutto è perduto.

Aspetto ancora. Non perdo neppure il mio solito ottimismo ma questa volta mi immagino, non più in un salotto letterario, ma in una bancarella davanti alla Coop a vendere il mio manoscritto.

Ed intanto i giorni passano sorretti da speranze non ancora cancellate.

Arriva dunque il pacco postale e dentro vi trovo due libri in regalo (…) dove sono spiegati tutti i misteri del mondo del libro dalla pubblicazione (con le relative spese), alla vendita in libreria. Leggo il contratto e vado subito con gli occhi a cercare l’articolo che parla del “limitato numero di copie” da acquistare… sono 298 per un totale di tremila euro. Bla, bla, bla, spese a carico dell’editore, bla,bla,bla, tiratura di 1200 copie, bla,bla,bla, 3 mesi di tempo per stamparlo in caso di pagamento in contanti, 6 in caso di pagamento in due trance, 9 mesi in caso di comodo pagamento dilazionato.

A questo punto perdo quasi tutto l’ottimismo che possiedo ma ne lascio una goccia per soppesare la possibilità di ottenere un finanziamento da parte di qualche ente. In fin dei conti danno l’idea di crederci nel mio stile e forse tutto il mondo dell’editoria va avanti così; per di più che diamine! Non sarò mica l’unico scrittore che si auto-finanzia un libro!

Ne parlo anche con un signore del mio paese che ha già pubblicato che mi assicura che gli editori solitamente non leggono e il fatto che la casa editrice mi abbia preso in considerazione è già importante. Mi dice inoltre che anche lui ha dovuto pagare per pubblicare, è la prassi. In fondo c’è sempre la pensione di mia nonna nel peggiore dei casi!Provo con Comune, Pro-loco, banche ed infine Coop per ottenere un finanziamento ma è tutto inutile e con il passare del tempo ho come la sensazione che il mio importante romanzo non sia neppure stato letto.

Rifletto se all’inizio della mia avventura come scrittore fosse stato questo quello che cercavo e mi accorgo che la strada intrapresa non ha nulla a che vedere con quello che avevo in mente.

Telefono a Sasha che mi è stato vicino in tutto il mio percorso e tra una birra e un’altra gli racconto la mia avventura.

Dopo una lunga chiacchierata mi alzo sbronzo ma stranamente con le idee più chiare circa il mio futuro.Intanto ho portato a compimento un altro romanzo che mi piace e mi ha fatto star bene nello scriverlo. Per ora non lo ha letto ancora nessuno ma credo che lo spedirò a qualche casa editrice… se non altro lo devo alla bottiglia di Brunello ingiustamente stappata che attende nel mio frigo.”

Simone Pazzaglia

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lunedì, 21 gennaio 2008

LA KRYPTONITE NELLA BORSA di Ivan Cotroneo

Voglio presentarvi il nuovo romanzo di Ivan Cotroneo, scrittore nato a Napoli nel 1968.

Cotroneo è anche il traduttore per l’Italia delle opere di Michael Cunningham e Hanif Kureishi. Scrive per il cinema, la televisione e la radio. Con Bompiani ha già pubblicato Il piccolo libro della rabbia e i romanzi Il re del mondo e Cronaca di un disamore. La kryptonite nella borsa è il suo terzo romanzo.

Vi presenterò il romanzo e, di seguito, avrete modo di leggere un brano del libro (ne approfitto per ringraziare la Bompiani per avermi concesso l’apposita autorizzazione).

Naturalmente vi invito a discuterne e a interagire con l’autore (che spero possa partecipare alla discussione). Poi vi propongo una sorta di gioco da portare avanti insieme al dibattito.

Poiché La Kryptonite nella borsa descrive la Napoli dei primi anni Settanta, vi invito a descrivere i “vostri” luoghi così come ve li ricordate negli anni in cui è ambientato il libro di cui discuteremo.

E poi, un altro tema su cui si potrebbe discutere è quello della solitudine dei bambini.

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Davvero ottimo il nuovo romanzo di Ivan Cotroneo, La kryptonite nella borsa – (Bompiani, 2007, pagg. 205, euro 14,50).

Nella Napoli degli inizi degli anni Settanta, Peppino, un bambino di sette anni, esteticamente sgradevole (se non proprio bruttino), vede il mondo attraverso le lenti dei suoi occhialini con l’asta rotta (poi riparata con il nastro adesivo) e il filtro naturale dell’appartenenza a una famiglia molto caratteristica, una di quelle che oggi sarebbero definite con l’ausilio di un aggettivo di nuovo conio: “disfunzionale”.

Peppino è anche un bambino solitario, spesso vittima di episodi di bullismo perpetrati ai suoi danni da alcuni compagni di classe che non fanno della sensibilità il loro cavallo di battaglia. Un bambino che deve fare i conti con i risvolti di una vita difficile da interpretare. Sua madre Rosaria, per esempio, è depressa ai limiti dell’immobilismo a causa del tradimento del marito. Il padre, dal canto suo, usa come alcova la Fiat 850 blu avion di famiglia senza essere a conoscenza del fatto che la moglie sa e tace (e per questo si ammala). E proprio per via di questo male oscuro che paralizza la madre, confinandola sotto le lenzuola di un letto, Peppino si trova a vivere in una sorta di famiglia allargata con tanto di nonni e zii ventenni. Questi ultimi – Titina e Salvatore – lo portano in giro per una Napoli psichedelica e colorata, dove vanno di moda pantaloni a zampa d’elefante, feste alternative negli scantinati e collettivi femministi; e dove circolano alcol, droga e pasticche allucinogene (che persino il ragazzino – sebbene inconsapevolmente – si troverà a ingurgitare).

E poi c’è Gennaro, altro personaggio chiave del romanzo: un ragazzo dotato di immaginari superpoteri che derivano, evidentemente, da reali superproblemi. Gennaro crede di essere Superman e scorazza per la città partenopea – abbigliato con calzamaglia blu elettrico, pullover a colo alto e una mantellina rosa da parrucchiere sulle spalle – in cerca di kryptonite nelle borse delle passanti. Perché solo la kriptonite è in grado di fermare Superman. Di certo non un automezzo. Forse è questo che pensava Gennaro poco prima di finire sotto un autobus, o forse – molto più tristemente – desiderava spegnere l’interruttore di una vita solitaria e insostenibile per via di una sospetta omosessualità latente.

Gennaro muore, ma risorge nelle fantasie di Peppino; perché Peppino ha bisogno di una guida, di un punto di riferimento, di qualcuno in grado di badare a lui un po’ meglio degli zii “alternativi”, o dei nonni anziani, o dei genitori assenti. Così Gennaro gli appare nei momenti topici della sua vita di ragazzino, sempre prodigo di consigli, di esempi, di filosofia spicciola; ma soprattutto sempre pronto ad ascoltarlo nel rumore silenzioso e sordo del contesto famigliare. E in uno di questi momenti Peppino si troverà a volare sopra le spalle di SuperGennaro e a contemplare questa Napoli cotronea che è al tempo stesso stravagante e volutamente stereotipata; e che emerge dalle pagine con la forza e la peculiarità dei modi di dire, delle espressioni tipiche, dei luoghi, delle strade, persino dei nomignoli attribuiti alle persone (che finiscono con il prevalere sui nomi reali).

In definitiva, Ivan Cotroneo, usando un linguaggio parlato e credibile, ci offre un romanzo originale, ricco di racconti e aneddoti correlati, ma ricco anche di ironia, di connotazioni comiche e risvolti tragici. Un romanzo che fa pensare senza essere tedioso, che fa sorridere senza essere volgare, che fa commuovere senza essere mieloso.

Merce rara di questi tempi.

Massimo Maugeri

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Da La kryptonite nella borsa di Ivan Cotroneo

Quando Peppino aprì gli occhi e vide, nel buio della sua stanzetta, la sagoma allampanata di Gennaro seduta ai piedi del letto, che gli sorrideva tranquillo con i suoi denti sghembi, non ebbe affatto paura.

Prese gli occhiali dal comodino, se li infilò con attenzione, raddrizzò la stanghetta rotta e lo guardò bene, per essere sicuro di non sbagliare. Sì, era proprio lui.

“Ciao Gennaro. Come stai?”

“Come mi vedi. Bene.”

In effetti, agli occhi di Peppino, Gennaro non stava affatto male. La calzamaglia blu era quella di sempre, così come la sua maglia a collo alto non particolarmente pulita. La mantellina rosa era annodata stretta sotto il collo, con un bel fiocco sistemato, e Gennaro la scostò dal petto con studiata noncuranza, molto elegantemente.

Il suo sguardo era attento, e perfino allegro.

Non aveva ingessature, né segni sul volto. Non sembrava riportare nessun effetto secondario in seguito allo scontro frontale con l’autobus numero 111 barrato, a parte, forse, una nuova pettinatura: fosse stata o meno una conseguenza dell’impatto, ora teneva i capelli tutti tirati all’indietro, che non gli stavano nemmeno male. Peppino decise di porgli subito la domanda che gli premeva, senza girarci troppo intorno.

“Genna’, senti una cosa… Io non capisco… Ma tu, non eri morto?”

“Io? E chi te lo ha detto?”

“Mamma… zia Titina… tutti.”

“La gente parla solo per parlare.”

“Ma quelle dicono che il pullman ti ha investito.”

“Il pullman mi ha investito, questo è vero. Esso non si è fermato. Ma io non sono morto.”

“E allora chi hanno messo nella bara in chiesa?”

Gennaro in un vago gesto di insofferenza un po’ femminile sollevò la mano destra, nella quale, Peppino si accorse solo ora, teneva una sigaretta accesa. Voleva dire, con quel gesto: Lascia perdere queste sciocchezze.

“Bambino, non devi credere a tutto quello che dice la gente. Io sono morto, ma non sono morto.”

Peppino lo guardò in silenzio, mentre Gennaro aspirava una boccata dalla sigaretta e soffiava un po’ teatralmente il fumo nella sua stanzetta.

“Genna’, penso che non ho capito un’altra volta.”

Gennaro sospirò paziente, poi fece volare via la sigaretta, che finì sul pavimento dall’altro lato della stanza.

“Peppino, tu lo sai che ho i superpoteri. Sei l’unico che mi ha sempre creduto.”

“Sì.”

“E per questo, sei l’unico che può sapere. L’unico che mi può vedere. Io sono morto per tutti ma non per te. I miei superpoteri mi hanno salvato.”

Peppino si rimise a posto gli occhiali che gli stavano scivolando sul naso. In effetti, quadrava. Se uno aveva i superpoteri, non poteva certo bastare un autobus dell’Atan in servizio dalla stazione centrale a piazza Municipio a eliminarlo. Eppure altre cose non sembravano a posto. Perché nascondersi a tutti? E perché adesso Gennaro parlava cercando di darsi un tono da signore, evitando il dialetto e aggiustandosi il collo della maglia in continuazione? La morte sembrava avergli dato importanza, una nuova concezione di sé, più alta, più complessa, schifiltosa e perfino un po’ snob.

“Genna’, ma io ti vedo diverso…”

“E perché, prima mi vedevi uguale agli altri?”

“No, ma… Quando hai cominciato a fumare? Non mi ricordo che…”

“E infatti prima non fumavo. Ho cominciato dopo. Finché ero vivo, non mi piaceva. Ma da qua le cose sono un po’ differenti. Che vuoi capire, tu…”

Peppino lo osservava, e più lo osservava, più si convinceva che doveva credergli.

“Genna’, ma quindi a finale avevo ragione io. Tu sei veramente Superman.”

Gennaro sorrise.

“Certo che sono Superman. Però sono Superman napoletano.”

“E ci sarai sempre per me? Mi aiuterai?”

“Praticamente sono qua per questo. Ogni volta che hai bisogno di me, se non tengo troppo che fare, tipo sventare una rapina a Forcella, o impedire uno scippo alla Pignasecca, o sconfiggere Lex Luthor il genio del male a Materdei, io ti verrò a trovare per vedere come stai.”

Peppino sorrise. E pensare che proprio quella mattina, nella III A della Scuola Elementare Adelaide Ristori, in mezzo ai suoi compagni di classe che lo prendevano in giro, si era sentito solo. Sua madre, inavvicinabile, restava sempre stesa a letto, nella stanza buia dove cercava di sfuggire al mal di testa. Suo padre era in continuazione al lavoro, dove ultimamente gli orari sembravano allungarsi e dilatarsi sempre di più, senza nessuna regola precisa. E lui si era sentito abbandonato. Che stupido era stato, non ci poteva pensare! Come faceva a sapere che quella stessa notte avrebbe capito di essere il bambino più fortunato del mondo, l’unico ad avere sempre Superman a disposizione!

Vabbe’, quasi sempre. Se non c’erano rapine a Forcella o alla Pignasecca.

“Come faccio a chiamarti?” chiese Peppino.

“Col mio nome. Superman, o Gennaro de Cicco, va bene lo stesso.”

“E mo’ che facciamo?”

“E che vuoi fare? Non facciamo niente. S’è fatto tardi, perciò ci corichiamo. Tu dormi tranquillo, che ci sono qua io che veglio su di te. È la mia missione.”

Peppino si sfilò gli occhiali e li appoggiò di nuovo sul comodino. Si tirò la coperta sotto il mento.

“Buonanotte.”

“Buonanotte.”

Nel silenzio, Peppino sentiva il peso di Superman sul materasso vicino ai suoi piedi. Se li allungava, poteva toccare l’esterno delle sue gambe, il suo corpo fatto di quel materiale misterioso che resisteva a tutto, e lo avrebbe salvato da qualsiasi cosa. Chissà se gli avrebbe insegnato a passare attraverso i muri, o a sentire il respiro delle formiche, o lo avrebbe aiutato con i compiti, o gli avrebbe rivelato il significato di tutte le cose che non capiva. Era buio, ma non aveva paura.

Sapeva che Gennaro poteva vedere comunque con la sua vista speciale.

Si sentì protetto, forse per la prima volta nella sua vita. Si voltò su un fianco e riprese a dormire.

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venerdì, 18 gennaio 2008

LA STRADA di Cormac McCarthy

Chi non conosce Cormac McCarthy ?

Credo che la maggior parte dei frequentatori di Letteratitudine ne abbiano quantomeno sentito parlare.

Cormac McCarthy è uno scrittore americano nato nel Rhode Island nel 1933. È cresciuto in Tennessee, dove ha frequentato l’Università, abbandonandola per ben due volte. Entrato nel ‘53 nell’Air Force, vi è rimasto per quattro anni. Attualmente vive a El Paso, in Texas, lontano dal clamore. McCarthy non concede interviste e non frequenta gli ambienti letterari e salottieri: un uomo che non ha bisogno di amicizie mondane per essere scrittore. Tra le sue opere, tutte di grande sapienza artistica e letteraria, è giusto ricordare almeno, Il guardiano del frutteto, Il buio fuori, Meridiano di sangue, Cavalli selvaggi, Oltre il confine e Città della pianura.

Cavalli selvaggi, ha conquistato il National Book Award.

Il suo più recente romanzo, La strada, narra la storia di un uomo e un bambino che viaggiano attraverso le rovine di un mondo distrutto in direzione dell’oceano, in cerca di tepore e qualche barlume di vita. Trascinano con sé sulla strada tutto ciò che in questa nuova “vita” ha ancora valore (e senso): un carrello del supermercato con quel po’ di cibo che riescono a rimediare, un telo di plastica per ripararsi dalla pioggia ghiacciata e una pistola con cui difendersi dalle bande di predoni che battono le strade decisi a sopravvivere a ogni costo. E poi il bene più prezioso: se stessi e il loro reciproco amore.

Ce ne parla in maniera più approfondita Enrico Gregori.

Aggiungo solo una breve considerazione: al di là del disastro (la Terra quasi interamente distrutta, la popolazione decimata) credo che il cuore del libro stia proprio nel rapporto padre-figlio, in quell’amore che diventa il bene più prezioso.

Da qui sorgono un paio di domande.

- Com’è lo stato del rapporto genitori/figli al giorno d’oggi ?

- Per noi, che viviamo vite sempre di corsa, che inseguiamo obiettivi futili e sfuggenti, scontrarsi con una catastrofe immane (intesa anche in senso metaforico) diventa necessariamente l’unico modo per capire che, forse, è proprio quello – l’amore genitori/figli – il bene più prezioso ?

Vi invito a discutere sulla base delle suddette domande e a dire la vostra su questo libro (potete leggerne un brano cliccando qui).

A voi.

(Massimo Maugeri)

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La strada (Einaudi, 2007, pagg. 220, euro 16,80, traduzione di Martina Testa)

di Enrico Gregori

È possibile scrivere un libro senza nomi e senza luoghi?

Se l’autore è Cormac McCarthy e se il libro è “La strada” la risposta è sì.

L’uomo, il bambino, e una devastazione apocalitica che si snoda tra chilometri di difficile sopravvivenza.

L’autore sostiene, più o meno, “ero con il mio ultimo figlio, mano nella mano, a guardare un panorama. Il libro è nato così”.

Si capisce allora, che in quel deserto sconquassato a cercar rimasugli di cibo e di stracci, “La strada” è un romanzo d’amore, quello più incrollabile, quello verso i figli.

Sembra di intuire, in sostanza, che secondo Cormac, pur nella totale distruzione, persino a due passi dalla morte, l’amore per i figli è ciò che sempre sopravvive e che dà la forza di proseguire in quel viaggio verso il nulla.

Un libro, credo, poco incline ai compromessi: o lo si ama o lo si odia.

L’azione di (per esempio) “Non è un paese per vecchi”, qui lascia il campo a una dinamica intima e psicologica.

Cormac McCarthy non è autore che vuole penetrare nei lettori, ma offrire ai lettori la possibilità di entrare nel suo mondo.

E per farlo bisogna essere attrezzati. Mai come stavolta Cormac Mc Carthy è “prendere o lasciare”. Paradossalmente l’azione “travolgente” è nella sua lentezza, a volte esasperante. In quel senso di angoscia che prende alla gola e che non lascia scampo.

Non c’è una boccata d’aria, non c’è riparo. I sentimenti scarnificati come l’ambiente circostante. E pure di una potenza enorme. “Moriremo papà?” “No, noi non moriremo, perché noi portiamo il fuoco”.

Un capolavoro, secondo me. Tra cent’anni lo inserirò nel nuovo post sui due libri da salvare. Rivediamoci tutti qui nel 2107.

Enrico Gregori

http://enricogregori.splinder.com

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mercoledì, 16 gennaio 2008

LA SAPIENZA SENZA LA TOLLERANZA È COME L’INTELLIGENZA SENZA LA SENSIBILITA’

A volte è difficile interpretare i fatti che succedono in questa nostra Italia. Mi riferisco, in particolare, a quanto accaduto ieri a “La Sapienza” in relazione alla prevista visita che Papa Ratzinger, giovedì 17, avrebbe dovuto recare dietro invito del Rettore della suddetta Università.

Ho letto la lettera dei 67 docenti di fisica (che ricordavano la frase del filosofo Paul Feyerabend, in merito al processo contro Galileo, che Ratzinger citò a Parma nel marzo 1990, quando era cardinale). Posso capire la loro posizione, ma non la condivido per nulla.

Ha fatto bene il Papa a soprassedere all’evento (inviando comunque l’intervento previsto). Ha dato una grande lezione.

Credo l’abbia data anche a Marcello Cini, il quale nei giorni scorsi così scriveva al Rettore:

“Non riesco a capire le motivazioni della Sua proposta tanto improvvida e lesiva dell’immagine de La Sapienza nel mondo. Il risultato della Sua iniziativa, anche nella forma edulcorata della visita del papa (con «un saluto alla comunità universitaria») subito dopo una inaugurazione inevitabilmente clandestina, sarà comunque che i giornali del giorno dopo titoleranno (non si può pretendere che vadano tanto per il sottile): «Il Papa inaugura l’Anno Accademico dell’Università La Sapienza».

Congratulazioni, signor Rettore. Il Suo ritratto resterà accanto a quelli dei Suoi predecessori come simbolo dell’autonomia, della cultura e del progresso delle scienze”.

Congratulazioni Marcello Cini, il Papa non si recherà a La Sapienza e dunque, stia tranquillo, i giornali del giono dopo non titoleranno: «Il Papa inaugura l’Anno Accademico dell’Università La Sapienza». Titoleranno ben altro, i giornali… italiani e del mondo. Perché, sa una cosa?, la Chiesa non è certo esente da colpe (essa stessa lo ha ammesso e lo ammette), e si può essere anche anticattolici e anticlericali, e Benedetto XVI può anche essere meno simpatico di Giovanni Paolo II, meno carismatico; ma oltre a essere a capo di uno Stato e di una religione, Ratzinger, che piaccia o no, è uno studioso, un intellettuale, uno scrittore; una voce importante di questo secolo. Ed è un uomo di pace.

Tappare la bocca a uno studioso, un intellettuale, uno scrittore, a una voce importante di questo secolo, soprattutto se uomo di pace, è sempre sbagliato. Non importa se esso sia il capo della religione cattolica, o il massimo rappresentante della religione ebraica, o dell’Islam o di qualunque altra fede religiosa. Non importa se esso sia il rappresentante di uno Stato “scomodo”. Qualcuno, caro Cini, le avrà detto che il presidente dell’Iran Mahmoud Ahmadinejad ha avuto modo di partecipare a un dibattito con gli studenti all’interno di una Università americana: la Columbia University (pur tra vibranti proteste). Ripeto, il presidente dell’Iran che va negli Usa riesce a parlare agli studenti di una Università americana. Soprattutto dopo l’11 settembre. Vorrà dire qualcosa? Secondo me, sì. Secondo me vuol dire che democrazia significa anche avere il coraggio di dare voce a chi non ci piace. E vuol dire anche che laicità non può essere sinonimo di intolleranza.

Mi compiaccio per il fatto che, almeno una volta, il capo del Governo e il capo dell’opposizione si siano uniti nello sdegno.

Prodi ha dichiarato: “profondo rammarico per la decisione di Benedetto XVI”, “solidarietà forte e convinta alla sua persona” e un invito rinnovato “affinché possa mantenere il programma originario”, poiché “nessuna voce deve tacere nel Paese, e a maggior ragione quella del Papa”. E condanna “i gesti, le dichiarazioni e gli atteggiamenti che hanno provocato una tensione inaccettabile, e un clima che non fa onore alle tradizioni di civiltà e di tolleranza dell’Italia”.

Berlusconi ha detto: “la rinuncia del Papa è il segno dell’intolleranza e di un fanatismo che nulla hanno di autenticamente laico”. Una vicenda che “ferisce e umilia l’Università italiana e in generale lo Stato”, “non in grado di garantire la libertà d’espressione alla massima autorità religiosa”.

All’annuncio della Santa Sede, intorno alle 17 di ieri, quando gli studenti erano riuniti in assemblea per decidere la “settimana anticlericale”, è scoppiato un applauso. “Ha vinto il corpo vivo dell’università”, hanno detto alcuni. Altri, gli studenti cattolici, si sono radunati nella cappella del La Sapienza per una veglia di preghiera. Spero che nelle loro preghiere si ricordino di invocare la benedizione per una Università che, purtroppo, naviga in cattive acque e che offre ai suoi laureati titoli di studio che, nella maggior parte dei casi, non serviranno loro a trovar lavoro. Di questo, sì, bisognerebbe indignarsi.

Secondo me, caro Cini, e cari studenti esultanti, non ha vinto proprio nessuno. Non ha vinto la laicità, non ha vinto La Sapienza e soprattutto – ancora una volta – non ha vinto l’immagine dell’Italia nel mondo.

Massimo Maugeri

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domenica, 13 gennaio 2008

LETTERATURA E MALATTIA, LETTERATURA E MORTE: PHILIP ROTH, GIAMPIERO RIGOSI

La letteratura si è confrontata molto spesso con la morte e la malattia. In questo post vi propongo due libri pubblicati da Einaudi che rientrano nel filone. Due libri diversi, eppure accomunati dalla presenza di patologie destinate ad avere esiti mortali.

Mi sto riferendo a Patrimonio di Philip Roth e a L’ora dell’incontro di Giampiero Rigosi.

Sul primo vi propongo una mia breve nota, sul secondo una recensione firmata da Barbara Gozzi.

Vi invito a discutere di entrambi i libri; magari c’è qualcuno che li ha letti.

Inviterò Giampiero Rigosi a partecipare al dibattito. Approfittatene per rivolgergli domande.

Poi vi pongo un paio di quesiti generici… e vi invito, ovviamente, a dire la vostra.

La letteratura può essere capace di esorcizzare morte e malattia oppure non può che limitarsi a rappresentarle, o – più semplicemente – a sfiorarle stigmatizzandone, con rassegnazione, l’ineluttabilità?

Può esistere un connubio tra “letteratura di morte e malattia” e “letteratura della speranza”?

Tra i vari romanzi che hanno affrontato i suddetti temi c’è n’è qualcuno a cui vi sentite particolarmente legati?

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PATRIMONIO di Philip Roth, Einaudi, 2007, pag. 192, euro 16,50, traduzione di Vincenzo Mantovani

Patrimonio non è – in senso tecnico – un romanzo, ma una storia vera raccontata da un grande romanziere.

Hermann Roth, padre di Philip, protagonista di un’esistenza caratterizzata da tenacia, determinazione e vitalità è costretto a piegarsi all’ (inevitabile) avvento di una malattia mortale. Ha ottantasei anni quando gli viene diagnosticato un tumore al cervello che segnerà la sua fine.

Philip racconta la terribile odissea della malattia, il calvario di un viaggio senza ritorno che questo padre deve affrontare accompagnato dall’amore di questo figlio fino alla soglia dell’agonia e dell’oblio. Perché un padre può anche avere ottantasei anni (età invidiabile) ma – per te figlio – non smetterà mai di essere padre, di essere colui che ti teneva per mano nelle tue passeggiate di bambino, di essere il depositario di ricordi e di esperienze famigliari che si perderanno con il suo trapasso.

L’immagine di copertina è una foto di famiglia che inquadra tre Roth: Hermann e i due figli. Come ci racconta lo stesso Philip, “Siamo in posa, in costume da bagno, un Roth dietro l’altro, sul prato antistante la pensione di Bradley Beach dove la nostra famiglia affittava una camera da letto con uso cucina ogni estate per un mese. È l’agosto 1937. Abbiamo quattro, nove e trentasei anni. Ci drizziamo verso il cielo formando una V, di cui i miei sandaletti sono la base appuntita e le spalle larghe di mio padre – tra le quali è perfettamente centrata la faccia furba da folletto di Sandy – le due imponenti terminazioni della lettera. Sì, quella che spicca sulla foto è la V di Vittoria: di Vittoria, di Vacanza, di retta e distesa Verticalità! Eccola, la linea maschile, intatta e felice, in ascesa dalla nascita alla maturità!”

Ma quell’ascesa non è eterna. È destinata a interrompersi, per poi intraprendere un percorso all’incontrario che prima o poi incrocerà il dolore e la perdita.

“(…) quando avevo voglia di piangere piangevo, e mai ne ebbi più voglia di quando tirai fuori dalla busta la serie di immagini del suo cervello: e non perché potessi identificare prontamente il tumore che glielo stava invadendo, ma solo perché era il suo cervello, il cervello di mio padre, che lo spingeva a pensare nel modo brusco in cui pensava, a parlare nel modo enfatico in cui parlava, a ragionare nel modo emotivo in cui ragionava, a decidere nel modo impulsivo in cui decideva. (…) Ero solo e senza inibizioni, e così, mentre le immagini del suo cervello, ripreso da ogni angolo, giacevano sparpagliate sul letto dell’albergo, non feci il minimo sforzo di controllarmi. Forse l’impatto non fu quello che sarebbe stato se avessi tenuto quel cervello tra le mani, ma era qualcosa di molto simile. (…) Avevo visto il cervello di mio padre, e tutto e nulla era stato rivelato.”

Il tempo ribalta posizioni e ruoli. Quel padre che teneva il figlio in braccio quand’era in fasce, quel padre che si alzava di notte a soccorrere i suoi pianti da culla, quel padre che lo portava in giro nelle giornate estive di luce, comincia a invecchiare, a regredire. E tanto più la ruota del tempo gira, quanto più posizioni e ruoli vengono ribaltati fino al punto che il padre diventa figlio (sebbene rimanga pur sempre padre) e il figlio diventa padre (sebbene rimanga pur sempre figlio).

E allora qual è, qual è il patrimonio significativo che riceve il figlio? Qual è il lascito, l’eredità profonda che deriva dalla dipartita di questo padre?

Troviamo la risposta in questo breve stralcio. Una risposta che, nella sua valenza metaforica, conferma la tesi del ribaltamento dei ruoli.

“Si pulisce la merda del proprio padre perché dev’essere pulita, ma dopo averlo fatto tutto quello che resta da sentire lo senti come mai prima d’allora. (…) Questo, dunque era il mio patrimonio (…): non il denaro, non i tefillin, non la tazza per farsi la barba, ma la merda.”

Philip Roth scrisse Patrimonio nel 1991, dopo la morte del padre. Un libro importante, pregno di narrazione, di amore, di dolore, di denuncia. Un libro che è un tributo al padre e, al tempo stesso, un raccoglitore di ricordi, ma che funge anche da fondamentale premessa per la scrittura di quel grandissimo capolavoro che è Everyman, il miglior romanzo – a mio avviso – pubblicato nell’anno 2007.

Massimo Maugeri

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L’ORA DELL’INCONTRO di Giampiero Rigosi, Einaudi, 2007, pagg. 446, euro 17,50
‘La vita può finire da un momento all’altro. E allora perché non andare in fondo alle cose, finché c’è tempo per farlo?’ (pagina.11)

La storia inizia. Intrigante. Sospesa. E in mezzo ai primi tessuti narrativi Rigosi infila questa frase che è un indizio. Su cosa sarà in realtà questo romanzo. Gli elementi per incuriosire ci sono tutti. Un oncologo sembra interessarsi intimamente (molto intimamente) ad alcune sue pazienti, malate terminali. Coincidenza? Stranezza? O qualcos’altro? E’ quello che si chiede Clara, personaggio controverso, discutibile tanto quanto l’oncologo che tenta in tutti i modi di incontrare e mettere alla prova. Tra Clara e il dottor Palmieri appaiono piccole meteore luminose, luci soffuse e suoni forti, stridenti. Personaggi che sembrano lì per caso ma che hanno tutti un motivo, per esserci e svelarsi. L’ex marito di Clara, distratto e nostalgico, il fratello, Paolo, musicista in cerca del ‘tocco’ perduto, Antonia, la madre di Clara e Paolo, che non è sicura di essere poi così vecchia e raggrinzita come la faccia che vede riflessa allo specchio. Rigosi pubblicò ‘Notturno bus’ nel 2000 e descrisse una Bologna frenetica, personaggi in perenne rotazione, quattro giorni incandescenti, cadenzati, dove le emozioni tendono a zittirsi per non perdere il ritmo, per non rimanere indietro. Eppure lì c’era l’inizio. Di un viaggio. Un viaggio che Rigosi porta a compimento con ‘L’ora dell’incontro’ rallentando i ritmi, dilatando gli spazi e i tempi. Gli intrecci maliziosi non mancano così come una certa morbosità latente verso una situazione fuori dal comune e per questo poco chiara, che si presta a molteplici interpretazioni. Rigosi non dimentica di far leva sul lato mediatico del lettore (che vive di telegiornali, news on line, giornali e dibattiti tv), non dimentica di solleticare il lato oscuro, insomma. Parte proprio da lì per scavare. E scava davvero, a fondo. I personaggi che tratteggia vivono tra le pagine in modo sorprendente. Ci sono capitoli talmente intensi da lasciare imbarazzato il lettore, sospeso in una narrazione pulsante dal sapore fin troppo reale. Antonia che davanti alla televisione, seduta nel salotto del suo appartamento silenzioso mischia il passato remoto con il presente deformato e dimentica dove abita e chi è. Clara che sotto la pioggia, in una notte buia e fredda si precipita a casa per baciare il figlio febbricitante, unico amore solido e stabile in una vita costruita sui silenzi e confusa da emozioni difficili da gestire. Paolo che sente la musica nella testa ma ne ha paura e si lascia intontire da alcol e sesso. Poi c’è lui.L’oncologo misterioso che solo verso la fine assumerà sembianze umane precise e aprirà una sottile fessura in quella che è la porta del suo mondo, protetto con ostinazione, e molto diverso dalle aspettative di Clara (e forse anche del lettore).

Tutto in questo romanzo ruota attorno alle attese. In un certo senso tutti aspettano qualcosa. Di smascherare le coincidenze. Di ricostruire una vita spezzata, sospesa. Di sapere se potrà vivere ancora. Di dimostrare al mondo chi è veramente, cos’è capace di fare. Di ritrovare l’amore perduto. Di tornare indietro, a quando tutto era più semplice. Di.

‘Perché nessuno ha quasi mai la forza per superare la breve distanza che lo separa da chi gli è vicino per toccarlo, fargli sentire la propria esistenza con un gesto, una stretta.’ (pag.385)

Verso la fine della narrazione eccolo. Un altro indizio. Su dove si concluderà il viaggio. Il romanzo è diviso in tre parti. Nella prima vengono presentati i personaggi principali, il lettore inizia a conoscerli e a entrare nelle dinamiche relazionali che riprenderanno con maggiore potenza e intensità nella terza parte dove tutti si intrecciano in un ultimo valzer solitario. La seconda parte è dedicata a una storia indipendente in un certo senso. Rigosi racconta un frammento della vita di una Laura come tante che scopre di essere malata in seguito a un tocco doloroso, una coincidenza. Inizia così un percorso terapeutico insidioso né più né meno di quello degli altri (malati). Rigosi sente fortemente la storia di Laura, entra nella sua vita di donna in carriera che ha una famiglia unita e felice eppure. Eppure il nodulo, la chemio e la pace. Temporanea quanto dolce in attesa del nuovo round, più duro e insidioso. In questa parte del romanzo i sentimenti sono i padroni della trama, restano alcuni punti di contatto con la narrazione principale ma sfuggono, si nascondono dietro alle terapie, i foulard e l’amore che Laura cerca con una tenacia straziante.

‘E’ solo grazie alla mia malattia che. […] Vedi, se domani mi annunciassero che il tumore è scomparso, che la mia vita può continuare come prima, non so cosa farei. Forse non riuscirei più ad accettare. Questa cosa incoerente. Assurda. Ma straordinaria, che mi sta capitando.’ (pag.201)

Stilisticamente è un romanzo immediato, fresco e trasparente. I dialoghi sono sospesi, lasciati volutamente incompleti come se la voce cedesse, si inclinasse. I capitoli sono brevi, flash intensi che descrivono scene precise come in un film proiettato lentamente, dove il lettore è anche registra proprio perché non ci sono vincoli. La brevità di ogni scena permette di staccare senza perdere il senso degli intrecci, la forza delle analisi che gli stessi personaggi svelano in primis a se stessi.

‘L’arte, come ha detto qualcuno, sono dieci minuti di ispirazione e parecchie settimane di paziente lavoro. Ma quei dieci minuti, cazzo, non puoi sprecarli a elaborare teorie, ipotizzare citazioni e omaggi, stratificare impalcature sempre più complicate. Così zavorri l’intuizione e la fai andare a fondo.’ (pag.50)

Non so se in queste frasi la voce di Rigosi stia consapevolmente parlando (anche) della scrittura, la sua, e di questo romanzo, davvero uno dei migliori che ho letto nell’ultimo anno. Non lo so. Eppure l’ho sentita, l’essenza di questo testo pieno, maturo e consapevole. Che parla di tumori, routine, sentimenti (tanti, sempre, ovunque, solo). Tratteggia storie di solitudine, ricerca, paure, disprezzo, separazioni e falsi stordimenti. Ma che lascia il lettore con la speranza che qualcosa c’è (a parte alzarsi ogni mattina, il caffè, il lavoro, mangiare, dormire…) e la consapevolezza che non sempre si può.

Barbara Gozzi

http://progettobutterfly.splinder.com/

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giovedì, 10 gennaio 2008

THINKING BLOGGER: SONO STATO NOMINATO

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Sono stato nominato.

È un bene o un male? In questo caso… un bene.

Sono stato nominato nell’ambito dell’iniziativa “thinking blogger” da Eventounico , ottimo blogger e frequentatore (supercompetente) di Letteratitudine. Ciò significa che Eventounico pensa che io sia un thinking blogger (un blogger che pensa) e che di conseguenza il mio blog faccia pensare. E a ben pensarci, il pensiero di Eventounico mi induce a pensare che un blog che fa pensare è meglio di un blog che non fa pensare (Catalano docet). Pensa un po’…

A questo punto, per stare al gioco, devo nominare altri cinque blog che secondo me fanno pensare. Premesso che voterei lo stesso Eventounico (non lo faccio, sia perché è vietato, sia per evitare che qualcuno ci possa accusare di esserci piegati a logiche da “voto di scambio”), e che mi farebbe piacere nominarne cinquanta, anziché cinque, le mie scelte “ricadono” su (in ordine alfabetico):

1. Books and other sorrows

2. Lipperatura

3. Luca De Biase

4. Remo Bassini

5. Satisfiction

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Seguono le regole per partecipare all’iniziativa:

a) Partecipare se si è stati nominati.

b) Lasciare un link al post originario inglese

c) Quindi inserire nel post il logo del Thinking blog award.

d) Indicare i blog che hanno la “capacità di farti pensare”.

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Siccome, come sapete, mi è quasi impossibile resistere alla tentazione di avviare dibattiti… per restare più o meno in tema vi chiedo di indicarmi il vostro thinking writer.

Qual è lo scrittore, italiano o straniero, capace di farvi riflettere di più?

Non necessariamente deve coincidere con il vostro preferito.

Per semplificare limitiamo la scelta ai romanzieri.

Il titolo del gioco è: Il romanziere che fa riflettere di più

A voi!

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lunedì, 7 gennaio 2008

INTERVISTA A DANIELA MARCHESCHI

Vi propongo questa intervista che Daniela Marcheschi, italianista ed esperta di letterature scandinave, ha rilasciato ad Andrea Di Consoli.

Intervista interessante che abbraccia varie tematiche: dalla critica letteraria alla storia della letteratura.

Credo che molte delle risposte fornite possano prestarsi per avviare dibattiti. Leggetele con attenzione e, se volete, esponete le vostre opinioni.

(Massimo Maugeri)

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Intervista a Daniela Marcheschi

di Andrea Di Consoli

Daniela Marcheschi, italianista, esperta di letterature scandinave (ne scrive su “Il Sole 24 Ore”) e traduttrice di Karin Boye, August Strindberg, Edith Sodergran, Brigitta Trotzig, curatrice dei Meridiani Mondadori di Giuseppe Pontiggia e Carlo Collodi, ha al suo attivo un’attività saggistica di livello internazionale. Ha pubblicato, tra le altre cose, Una luce del nord. Scritti scandinavi (1979-2000) per Le Lettere, e Sandro Penna per Avagliano.

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Lei ha parlato più volte di tradizioni letterarie in contrapposizione a tradizione. Cosa significa esattamente?

Puntare alle tradizioni vuol dire cogliere la pluralità delle esperienze letterarie e artistiche, delle estetiche, poetiche, filosofie, dei generi, degli stili, delle forme. Significa cogliere e avvicinarsi alla complessità stessa delle esperienze letterarie e artistiche; e anche verificare i modelli storiografici che tendiamo a confondere con la storia stessa della letteratura. Da questo deriva oggi una critica povera, perché vista come cronaca, rassegna dell’esistente non inserita nel quadro più problematico delle tensioni della storia. Sta prevalendo una critica scissa dalla storia, e una storiografia scissa dalla critica. Stiamo facendo critica e storia della letteratura ingabbiate su visioni storiografiche ereditate dalle generazioni precedenti.

Qual è la differenza tra la critica letteraria e la storia della letteratura?

Non ci può essere una storiografia nuova senza una visione critica delle tradizioni, e non si dà una critica nuova senza una visione storica delle tradizioni e delle loro interconnessioni. E, sopratutto, non si può fare letteratura, né come autori né come critici, se non ci si rende conto che i valori vengono sempre discussi e negoziati, e che bisogna essere consapevoli perché certe esperienze si sono affermate, o sono state sostituite. I valori vanno sempre continuamente ridiscussi.

Chi è il più grande critico letterario del ‘900?

Da questo punto di vista Carlo Dionisotti (1908-1998) non è solo il più grande storico della letteratura nel ‘900, ma è anche un grande critico: lo provano il travaglio profondo della “premessa e dedica” a Geografia e storia della letteratura italiana e di pagine mirabili dei Ricordi della scuola italiana. Tenga presente che Dionisotti ha potuto pubblicare Geografia e storia della letteratura italiana, libro fondamentale, solo a 59 anni, quando l’Accademia di Svezia già gli chiedeva pareri riservati su eventuali candidati al Nobel.

Cosa pensa del dibattito sulla critica letteraria iniziato sul “Corriere della sera” a partire dal Dizionario della critica militante (Bompiani) di Filippo La Porta e Giuseppe Leonelli?

Considero questo dibattito fragile, poco consapevole della complessità dei problemi in campo. E’ un peccato, perché l’Italia si sta sempre più chiudendo in se stessa, incapace di esportare valori e proporre idee ed esperienze letterarie davvero persuasive.

Lei insiste spesso sull’isolamento dell’Italia, sul suo provincialismo. Come ci si apre al mondo, in che modo può avvenire quest’apertura?

Se siamo consapevoli che si conosce “per tradizioni” siamo poi anche in grado di leggere la trama delle varie tradizioni europee. Dobbiamo cominciare a individuare gli autori europei di lingua italiana, non gli scrittori italiani e basta. Come diceva Vincenzo Gioberti, travisato da certe letture fasciste, e come dice Amedeo Anelli (direttore della rivista “Kamen’”, n.d.r.), bisogna ragionare su quali siano gli scrittori europei di lingua italiana, perché gli scrittori italiani sono meno necessari.

Mi faccia alcuni esempi novecenteschi di scrittori europei, e provi a spiegare cosa significa essere uno scrittore europeo.

Uno scrittore europeo di lingua italiana, per il lavoro sui contenuti, sul romanzo, sullo stile, è stato Giuseppe Pontiggia. Basta leggere quello che la critica europea ha scritto sui suoi libri. Uno scrittore è europeo nel momento in cui è capace di porsi problemi che interessano le culture internazionali, quando è profondamente italiano ma sa lanciare problematiche di interesse non locale. Scrittori europei di lingua italiana, per esempio, sono stati Italo Svevo e Luigi Pirandello.

E Alberto Moravia?

Moravia è uno scrittore di grande mestiere, di grande abilità, ma è uno scrittore sempre dentro l’attualità, e in ciò è debitore del naturalismo. Moravia è il prototipo degli opinionisti di oggi, di questa cultura dominante della chiacchiera mediatica. Naturalmente aveva intelligenza da vendere. Moravia non è uno scrittore che ha allargato più di tanto le “barriere del naturalismo”, come invece diceva Renato Barilli in un saggio del 1964. La sua letteratura è fortemente radicata nella letteratura russa, come ormai tutti sanno. Anzi, è spesso più paragonabile alla “fattografia” del realismo socialista.

Che cos’era la “fattografia”?

Era una poetica che proponeva un romanzo radicato nella cronaca, per essere più aderenti agli indirizzi del regime comunista. Dostoevskij è stato molto amato da Moravia, che però non ne aveva lo spessore filosofico e religioso. Di fatto i modelli russi di Moravia sono principalmente altri.

A quali modelli si riferisce?

Glielo spiego partendo da Dino Terra (1903-1995), uno degli scrittori più importanti fra la fine degli ‘20 e la fine degli anni ‘40. Aveva fondato l’Immaginismo, un movimento letterario e artistico per unificare tutte le ricerche d’avanguardia, intesa questa come metodo, come arte sperimentale. Autore di vaste frequentazioni internazionali, Terra fece conoscere la psicoanalisi alla sua cerchia (Moravia, Bontempelli, i Bragaglia, Pirandello, Marinetti, Ungaretti, Chiaromonte, De Libero, Gallian). Tra quei giovani aveva fatto molto effetto il romanzo La famiglia Golovlioff di Michail Saltykov-Scedrin, pubblicato in Italia da Carabba in due volumi nell’aprile del 1918, con la prefazione di Federico Verdinois. In due interviste inedite allo storico Paolo Buchignani nel 1993, Dino Terra diceva che quel romanzo era stato decisivo per alcuni di loro.

Questo cosa significa?

Questa testimonianza non è un’inezia, ma mette lo storico e il critico della letteratura sulle tracce di un testo che ha a lungo influenzato l’opera di Moravia, all’epoca molto amico di Terra. Se noi prendiamo La famiglia Golovlioff, a parte la coincidenza del nome di Saltykov con quello di Michele de Gli Indifferenti, dobbiamo constatare che tutta quanta la costruzione del romanzo, dei personaggi e del loro carattere morale, le atmosfere, addirittura lo stile, hanno forti analogie, se non palesi “copiature”, con il romanzo d’esordio del giovane Moravia.

Quali sono gli elementi che supportano questo sospetto di “copiatura”?

Anche ne La famiglia Golovlioff i personaggi principali sono cinque. Una madre, Irene, che, per insensibilità e vuoto interiore, per i suoi modi grotteschi, somiglia alla madre di Carla e Michele. Sua nipote, Annin’ka, è il personaggio più lucido del romanzo di Saltykov e quello in cui si riscontrano analogie non casuali con Carla. Anche Annin’ka cerca letteralmente una “vita nuova, vera”, e pur di averla si dà a un riccone, ma capirà il vuoto e l’illusorietà di una simile aspirazione. Allo stesso modo Carla, ne Gli Indifferenti, nel desiderio di una “vita nuova”, si getta tra le braccia di Leo pur non amandolo, e di fatto gli si dà per avere un benessere, proprio come fa Annin’ka. Colpisce il fatto che Leo abbia in parte il carattere di Porfìrij, detto piccolo Giuda, che agisce solo per interesse e lussuria. Porfìrij, come Leo, è cinico, ipocrita, interessato, vive un erotismo puramente utilitaristico, senza profondi sentimenti, pronto a rovinare i suoi famigliari pur di accumulare ricchezze e impadronirsi di una villa. Poi ci sono gli atri due fratelli, Stepàn e Pavel, i quali vivono nell’indifferenza, nella finzione, nell’incapacità di qualsiasi applicazione, in una “nebbia di parole” che è la nebbia del vaniloquio e dell’impossibilità di sentire e volere.

Lei coincidenze sono solo di contenuto?

Colpiscono anche le coincidenze formali. Ad esempio ne La famiglia Golovlioff, proprio come nel romanzo di Moravia, ci sono il vaniloquio e un grande uso del discorso indiretto libero, che abbonda soprattutto nell’ultima parte. Michele ne Gli Indifferenti immagina l’ipotetico processo che seguirebbe l’uccisione di Leo, ma in realtà questo non avviene, perché Michele non uccide Leo. Tale processo, invece, nel romanzo russo c’è davvero. Ma le corrispondenze non finiscono qui, ve ne sono in grande quantità.

La letteratura nasce sempre dalla letteratura, di questo lei è consapevole. Quindi immagino che la sua riflessione vada più nella direzione della ricerca storica, che non nella direzione di una provocatoria polemica.

Che i libri nascano anche dai libri è cosa nota, ma è forse meno noto quanto questo romanzo russo abbia significato concretamente per quel gruppo di giovani scrittori romani. Per esempio, il carattere stesso de L’avaro di Moravia richiama ancora una volta un tratto molto caratteristico di Porfìrij, incapace di amare e assumersi qualsiasi responsabilità che non sia quella di accaparrarsi beni materiali. Ne L’amore coniugale il confluire di norme morali e convenzioni sociali è un tema che richiama un altro tema del ricco romanzo di Saltykov. Negli stessi Racconti romani il vizio della pignoleria, portato all’estremo grado, rimanda ancora a un motivo di Saltykov. La famiglia Golovlioff ha personaggi a tutto tondo che incarnano, nello svolgersi delle vicende, tutta una serie di vizi e carenze morali assai suggestive per l’opera di Moravia. Così si riconferma ancora una volta il radicamento di Moravia nel dibattito culturale degli anni ‘20 e ‘30, che dovrebbe essere studiato di più. Il libro di Saltykov aveva già influenzato Terra, basti pensare a un romanzo sperimentale come Ioni, del 1929, considerato l’anti-Indifferenti.

Dal suo discorso si profila addirittura uno “scontro” in sede di canone tra Moravia e Dino Terra. O forse è più esatto dire che lei auspica una maggiore attenzione sui cruciali anni ‘20.

Andrebbero studiati meglio l’ambiente delle riviste degli anni ‘20 (“La bilancia”, “La ruota dentata”, “Interplanetario”, “Occidente”, “Caratteri”, riviste in cui spesso si ritrovavano fascisti rivoluzionari, giovani comunisti, socialisti, anarchici, apolitici, tutti legati dalla volontà di costruire una nuova letteratura), la narrativa degli anni ‘20, il movimento dell’Immaginismo, la Roma di sostanza internazione ed europea di quegli anni. All’interno di questo quadro si gettano le basi per un realismo nuovo, in cui ha uno spazio il meraviglioso, basti pensare proprio a Riflessi di Dino Terra. Quindi siamo di fronte a una pluralità di tradizioni che la prevalenza di una storiografia ingessata e arretrata ha spesso cancellato, mentre ha lasciato tracce di vitalità nella narrativa italiana almeno fino agli ‘70 (si pensi agli autori di favole per adulti: Zavattini, Guareschi, Terra). Se noi paragoniamo Ioni a Gli Indifferenti, pubblicati entrambi da Alpes nel 1929, ci rendiamo conto della novità sperimentale di Ioni, costruito per micro e macro sequenze, per pluralità di voci, per molteplicità dei punti di vista. Moravia legge attentamente Saltykov e ne ricalca la tecnica romanzesca. Terra, invece, cerca di rinnovarla ulteriormente. A questo punto possiamo capire perché Dino Terra fosse considerato, in quel tempo, uno degli scrittori più importanti. Meno persuasivo, invece, è ritenere Moravia una delle punte di diamante della letteratura del ‘900.

Andrea Di Consoli

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lunedì, 7 gennaio 2008

LA CAMERA ACCANTO

Il titolo di questo post non si riferisce a un romanzo erotico o a un film spinto.

La camera accanto è la stanza, per l’appunto, posta di fianco a quella ufficiale (letteratitudine).

Se letteratitudine è una sorta di caffè letterario virtuale, la camera accanto è un luogo dove si possono affrontare argomenti di diverso genere. Si può parlare di letteratura – certo -, di libri; ma anche di cinema, sport, televisione, politica, gossip, ecc.

Insomma, si può parlare di tutto ciò che volete. Ciascuno di voi può sentirsi libero di avviare un dibattito o, più semplicemente, scambiare quattro chiacchiere.

Anche qui, però, vige la nota avvertenza (colonna di sinistra del blog); per cui vi chiedo di rispettare persone e opinioni. Vi chiedo, inoltre, la cortesia di evitare litigi e toni eccessivamente scurrili.

(Massimo Maugeri)

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mercoledì, 2 gennaio 2008

IL FENOMENO POTTER

A luglio, come qualcuno di voi ricorderà, in questo post presi un po’ in giro la “povera” J. K. Rowling, madre letteraria di Harry Potter.

Ne riparliamo adesso, dato che l’ultimo capitolo della saga del maghetto più famoso del mondo sbarcherà nelle nostre librerie (in lingua italiana) tra un paio di giorni.

Scherzi a parte, sarebbe davvero interessante dibattere sui perché di tanto successo. Stiamo parlando del caso editoriale più grande di tutti i tempi, quantomeno in termini di copie vendute e di guadagni (ad eccezione, s’intende, della Bibbia… come peraltro non manca di far notare il protagonista de “Il codice Da Vinci” di Brown, altro eclatante caso editoriale).

Proviamo a discuterne…

Quale magia ha trasformato la Rowling da una quasi indigente a una delle donne più ricche e famose del pianeta?

O, in altri termini… quali sono stati gli elementi fondamentali che hanno determinato il “fenomeno Potter”?

Vi riporto di seguito l’articolo di Roberto Denti pubblicato su Tuttolibri del 28 dicembre, che offre ulteriori spunti per il dibattito.

(Massimo Maugeri)

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Sette romanzi: una lunga serie fuori dalle consuetudini contemporanee che ne ammettono mediamente tre, almeno per quanto riguarda la letteratura per ragazzi. La Rowling ha il passo lungo della narratrice, ma anche i maratoneti hanno spesso momenti in cui cambiano il ritmo della corsa per nascondere un cedimento o una crisi. Infatti fra i primi quattro volumi di Harry Potter e gli ultimi tre, si nota una evidente differenza di ritmo: asciutti e impostati esclusivamente sulle vicende i primi, connotati da considerazioni e riflessioni i secondi. In particolare l’ultimo, Harry Potter e i doni della morte (Salani, pp.702, e 23 in libreria dalla mezzanotte del 4 gennaio) risente l’influenza del pensiero buddistico per come commenta molte vicende, che se seguissero lo stesso modulo di scrittura dei primi quattro, si ridurrebbero a poco più di un terzo rispetto alle pagine complessive.

Ancora una volta però, il giudizio sul testo non può non essere influenzato dal fantasmagorico incalzare di notizie che ha preceduto e seguito la pubblicazione del libro.

Nei mesi precedenti all’uscita del libro (21 luglio, solstizio d’estate) in Inghilterra, le scommesse sulla fine del protagonista hanno raggiunto fasi di parossismo: morirà o riuscirà a sopravvivere? La Rowling ha accontentato tutti: Harry muore ma resuscita. Il genere fantasy è debitore di precedenti illustri, da Gesù a Pinocchio.

Poi ci sono i dati che ne fanno un caso unico: 325 milioni di copie vendute, traduzioni in 64 lingue per oltre 4 miliardi di ricavi, 2.2 milioni di prenotazioni raccolte da Amazon per il nuovo libro (una ogni 5 secondi), 7 milioni le copie vendute dei primi 6 volumi in Italia finora, dalle 3000 sterline incassate per il primo volume la Rowling è diventata la 91° persona più ricca del mondo, in lingua inglese oltre 80.000 persone si sono prenotate in rete per ascoltare la lettura dal vivo del libro, l’ultimo volume ha venduto 11 milioni di copie in lingua inglese in 24 ore, ecc… (inutile, credo, ripetere i dati strabilianti degli spettatori e degli incassi dei primi 4 film).

La Rowling è un’ottima promotrice di se stessa, quasi avesse seguito un corso di marketing di livello superiore. Il 20 ottobre scorso, durante un incontro con 1500 fans alla Carnegie Hall di New York, ha rivelato che Silente (Dumbledore nella versione originale) è gay: infatti si era innamorato del cattivo mago Gellert Grindelwald. «Harry Potter incoraggia la tolleranza» ha dichiarato la scrittrice, profetizzando «nuove crociate di chi non perdonerà mai di aver abbattuto anche questo tabù». Silente è il preside della scuola di magia di Hogwarts, grande autorità morale dell’intera saga che muore nel sesto volume. Nessuno, onestamente, si era accorto di questa diversità (anche se Silente aveva la strana mania dei lavori a maglia), ma le rivelazioni della Rowling hanno permesso a giornali e tv di dedicare ai suoi libri pagine e servizi, sino alla noia.

Poi c’è stata la scoperta (fine ottobre) del linguista francese Jean-Claude Milner: constatato che il mago è profondamente politico e ci parla dell’Inghilterra di oggi «il mondo della magia incarnerebbe la resistenza operaia contro la borghesia dei babbani». Addirittura l’anziana Marge, la zia cattiva di Harry, rappresenterebbe l’indimenticata signora Thatcher, esempio insuperato della reazione. Da aggiungere che Vandemort e i mangiamorte «inneggiano alla purezza della razza», mentre il protagonista ama «le contaminazioni tra diversi».

A suo tempo Antonio Faeti demolì i primi romanzi della Rowling destrutturandone la linea narrativa e mettendone in luce il limite della costruzione delle vicende. Neil Gaiman non è così negativo: «Ne ho letto qualcuno, ho visto un paio di film. E’ ok… Per chi ha letto molta fantasy e libri per ragazzi, non c’è gran che di sorprendente. Il fantasy regala magia e senso di meraviglia, un mondo accogliente e piacevole. Questa è la parte più importante del suo successo». Alan Bennet mentre ci racconta le sorprese della Sovrana lettrice non manca di rivelare che se molti auspicavano uno scambio di idee su Harry Potter, la Regina (che non aveva tempo per quel genere letterario) subito replicava: «Sì, sto aspettando il momento giusto per leggerlo» e sorvolava in fretta.

Non si può pretendere che i contemporanei diano giudizi convincenti su un best-seller globalizzato senza precedenti nella storia dell’editoria. Forse il numero sette che nella cultura indoeuropea è quello magicamente più significativo (dalle fiabe alle note musicali, dai fondamenti religiosi – i peccati, le opere di misericordia, ecc… – ai colori dell’arcobaleno, dai colli di città famose – Roma, Delhi – ai giorni della settimana) ha portato fortuna. Ma la fortuna e la montatura tecnico-pubblicitaria non bastano a giustificare un successo che non può non avere solide radici di merito, difficili da individuare in mezzo al frastuono provocato dall’evento, che il fenomeno ha permesso di costruire non soltanto nei paesi influenzati dalla cultura anglo-sassone ma addirittura nella nuova Cina.

Per i lettori che ne hanno decretato il successo è certamente scattato il processo di identificazione, come accade da quando si ascoltano le fiabe nella prima infanzia quando un romanzo è particolarmente affascinante (per le vecchie generazioni Sandokan insegna). Come Cenerentola, Harry Potter è un protagonista perseguitato che alla fine della storia trova il suo riscatto. Questo avviene per i giovani lettori ma anche per quelli adulti, così numerosi che in Inghilterra, anche per l’ultimo volume, si sono stampate due edizioni di formato diverso: una rilegata per ragazzi, una tascabile per i «grandi».

Siamo quindi al finale che più che altro è un epilogo, diciannove anni dopo la morte e la resurrezione del maghetto. Harry ha sposato Ginny e ha tre bambini, Ron ed Hermion anche loro sposati e Draco si trovano di nuovo al binario 9 e ¾ dove tutto è cominciato per accompagnare i rispettivi figli al treno per Hogwarts. Fra tutte le possibili previsioni e relative scommesse, un finale così convenzionale era difficilissimo da prevedere. Dopo tutto quello che è accaduto ad un protagonista segnato (anche in fronte) da un destino così complesso e intricato, la famiglia tradizionale era l’ultima cosa che ci si potesse aspettare. Immeritata fine!

Roberto Denti

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AGGIORNAMENTO del 03 gennaio 2008

Gli amici della libreria Cavallotto di Catania mi hanno inviato questa locandina chiedendomi di pubblicarla per promuovere l’evento che hanno organizzato insieme a Radio Zammù. Provvedo con vero piacere.locandina-harry-potter.JPG

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EXTRAPOST

Il nostro Luciano Comida mi scrive a proposito di un’iniziativa letteraria lanciata a favore di Nicolas Carlino, un bambino di sette anni (siciliano di Canicattì, provincia di Agrigento). E’ malato di una rara e terribile malattia dal nome orribilmente poetico: la sclerosi tuberosa. Vi invito a leggere qui i dettagli dell’iniziativa. E vi ringrazio.

(Massimo Maugeri)

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martedì, 1 gennaio 2008

NOTA LEGALE E NETIQUETTE

NOTA LEGALE

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Naturalmente, nell’ambito delle discussioni proposte, è ammessa la polemica… purché sia sensata, utile e costruttiva; ma sempre entro i limiti dell’assoluto rispetto di persone e opinioni. Non sono invece ammesse espressioni scurrili (che verranno prontamente cancellate).

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E’ ammesso l’uso di pseudonimi. Il commentatore che sceglie uno pseudonimo è invitato a usare sempre lo stesso nick name.

I monologhi non sono graditi.

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PETULANZA, MOLESTIA E DISTURBO ALLA PERSONA

“Ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 660 del Codice Penale “molestia o disturbo alla persona” la Corte di Cassazione specifica che per luogo pubblico o aperto al pubblico devono intendersi anche i siti Internet e i blog aperti alla discussione senza l’uso della moderazione. Ai fini della sussistenza del reato è sufficiente la cosiddetta “petulanza”, cioè un modo di agire pressante che sgradevolmente interferisca nella discussione.

Per petulanza non può che intendersi un atteggiamento di insistenza eccessiva e perciò fastidiosa di intromissione continua e inopportuna nell’altrui sfera, perciò esorbitanti rispetto alla tutela dell’art. 21 della Costituzione alla libertà di manifestazione del pensiero.

Cassazione Penale, sez. I, sentenza 3494 del 7/1/94

Sezione I, sentenza 7044 del 12/6/98

e in particolare sez. I, sentenza 7953 del 4/10/84 “deve considerarsi petulante, e quindi molesto, l’atteggiamento di chi insiste nel ribadire le proprie posizioni anche dopo essersi accorto, ed essere stato avvertito, che la sua condotta non è gradita.”

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Il moderatore del blog metterà automaticamente in “moderazione” (procedura che consente l’esame previo dei commenti pervenuti prima della pubblicazione) gli autori di interventi ritenuti petulanti. Ciò a tutela dei diretti interessati, oltre che per garantire uno scambio equilibrato nell’ambito delle discussioni.

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AGGIORNAMENTO DEL 18 novembre 2008

Si consiglia di visionare il post “responsabilità legale della scrittura in rete

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