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mercoledì, 8 dicembre 2021

L’ULTIMO POST

L’ultimo post di Letteratitudine (su Kataweb)

di Massimo Maugeri

È strano scrivere questo post.
Sapevo che prima o poi sarebbe accaduto. Nulla di sorprendente, dunque. Tuttavia rimane comunque una sensazione di “smarrimento”.
E una certa tristezza.
Il fatto è che il gruppo GEDI ha deciso di chiudere il portale Kataweb: quello che ospita – tra gli altri – anche questo blog. Dunque, a partire da metà gennaio 2022, questo spazio (questo luogo virtuale) non esisterà più.
Non su Kataweb, almeno.

Non temete. Continueranno regolarmente le attività di LetteratitudineNews e del mio programma radiofonico… e quasi certamente verrà implementato il sito Letteratitudine.it.

In ogni caso, nulla sarà perduto. Nemmeno il più piccolo post o l’ultimo dei commenti che hanno caratterizzato gli appassionanti dibattiti online che, negli anni, si sono svolti in questo luogo (qui su Kataweb). Semplicemente ci si sposterà altrove. L’ottica, dunque, è quella del “trasloco” (o della “migrazione”, se preferite). Ve ne darò notizia proprio su LetteratitudineNews e sui vari canali social.
Rimane comunque un velo di tristezza per via del legame affettivo ed emotivo con questo luogo virtuale.

Vedete… è come se, a un certo punto qualcuno vi comunicasse (al di là di possibili ripercussioni di natura economica, ma non è questo il caso): “Ci dispiace, purtoppo dobbiamo abbattere il palazzo dove si trova l’appartamento in cui siete cresciuti. Sapete, è ridotto a un rudere e bisogna demolirlo”. Voi direte: “Okay, d’accordo. Nessun problema. Vorrà dire che sposteremo tutti i mobili altrove. Magari in un appartamento più bello, all’interno di un quartiere più accogliente”. O forse, penserete, sarà la volta buona per andare a vivere in una casa indipendente (niente più palazzi, né condomini). Comunque sia, un po’ di tristezza rimarrà comunque. Sarà inevitabile. Perché in quell’appartamento ci siete comunque cresciuti. E l’idea che non esisterà più non potrà rendervi felici.
Ma andrete avanti, in una prospettiva di miglioramento.
È il bello della vita, in un certo senso.

Letteratitudine nasce nel settembre del 2006: prima con un semplice post di “Benvenuto” e subito dopo con un post intitolato “Un caffè letterario virtuale” (come immagine compare – piuttosto banalmente – una tazzina di caffè accanto a un libro; la stessa che – in ottica di “circolarità” – ho deciso di riprorre nell’ambito di questo post di chiusura). È partito tutto da qui…

Ho sempre avuto il timore che questi testi scritti online prima o poi finissero con l’andare perduti. Anche per questa ragione, nel corso degli anni, ho deciso di far uscire libri legati all’attività del blog. A oggi ne sono usciti tre. Nell’ultimo -  uscito nel gennaio 2017, per celebrare i primi dieci anni di vita di Letteratitudine – ne ho ripercorso un po’ la storia.
Riporto, in chiusura, uno stralcio della prefazione di questo terzo libro. Benché si riferisca solo al primo decennio di attività, sintetizza comunque il senso dei primi anni (dei “vecchi tempi”, direi).
Lascio dunque la parola al “me stesso” di fine 2016.
Per il resto, continueremo ad andare avanti.
Grazie di cuore a tutte le amiche e a tutti gli amici di Letteratitudine per l’affetto con cui ci avete seguito fino a oggi e per quello con cui continuerete a seguirci.

* * *

Un brano estratto dalla prefazione di “Letteratitudine 3. Letture, scritture e metanarrazioni” (LiberAria, 2017)

La nascita di Letteratitudine

letteratitudineEra il settembre del 2006 quando pubblicai online il primo post di Letteratitudine. In quel periodo, nel territorio dove vivevo (Catania e dintorni), contribuivo a organizzare e a portare avanti una serie di iniziative culturali di natura letteraria. L’anno precedente avevo pubblicato il mio primo romanzo con una piccola casa editrice della mia città (“Identità distorte”, Prova d’Autore). Il libro, per quelle che erano le aspettative iniziali, aveva goduto di buon successo: era stato recensito positivamente su quotidiani e magazine nazionali e aveva vinto la sezione opera prima del “Premio Martoglio”. Andavo in giro a presentarlo ovunque mi invitavano.
È in questo contesto, come ho avuto modo di riferire in diverse occasioni, che nacque Letteratitudine. Il progetto prese vita in maniera piuttosto fortuita, per via di una mia esigenza personale: mia figlia (la secondogenita) era appena nata e dunque, per essere il più possibile presente in casa, decisi di ridurre drasticamente la mia partecipazione fisica agli eventi culturali a cui dedicavo parte del mio tempo libero. In effetti sapevo che c’era la possibilità di continuare a occuparsi di letteratura e di “incontri letterari” anche rimanendo in casa. E questa possibilità passava dalla Rete. Del resto erano già operativi blog letterari che seguivo con grande piacere (“Nazione Indiana” era già online dal 2003 e “Lipperatura” aveva aperto l’anno successivo). Pensai: perché non creare anch’io un blog incentrato sui libri e sulla letteratura? In verità non c’era alcuna ambizione particolare in quel pensiero. Solo il desiderio di creare un’occasione d’incontro, se pur virtuale, tra le persone che conoscevo, con l’obiettivo di discutere dei nostri amati libri. Ciò che avevo ben chiaro fin dall’inizio, però, era che in questo blog non dovevo parlare di me e delle “mie cose”, o proporre “miei testi”, o divulgare le “mie opinioni”. Desideravo creare un piccolo crocevia che, in maniera dichiarata, favorisse lo scambio di opinioni tra i vari protagonisti del mondo del libro. Questo blog, dunque, doveva nascere in un’ottica “di servizio”. Doveva essere un “open-blog”, ovvero “un luogo d’incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali”. Stiamo parlando di un’idea e di un’esigenza nate in un periodo in cui “l’esplosione” dei social network come Facebook e Twitter era ancora ben di là da venire (altrimenti è presumibile che avrei usato direttamente i canali dei social).
Mi serviva un nome. Doveva essere un nome composto da una sola parola e che richiamasse in qualche modo la letteratura; possibilmente un acronimo. Da buon siciliano si affacciò alla mia mente il neologismo sicilitudine, che Leonardo Sciascia aveva reso celebre utilizzandolo nel suo saggio intitolato, appunto, “Sicilia e sicilitudine”. Da qui nacque Letteratitudine, termine che aveva (e ha) anche la valenza di acronimo (letteratura + attitudine, letteratura + latitudine, letteratura + longitudine, letteratura + solitudine e così via).

letteratitudineL’idea iniziale, come ho già accennato, non aveva pretese particolari. Si trattava di pubblicare post letterari provando a coinvolgere un gruppuscolo di persone potenzialmente interessate. Creai, dunque, questo blog sul portale Kataweb, pubblicai i primi post e cominciai a divulgare i link attraverso l’invio di una newsletter (una lettera informativa) a una trentina di indirizzi email di persone che conoscevo e che pensavo potessero essere interessate agli argomenti proposti.
Nel tempo questa mailing list crebbe a vista d’occhio, con svariate decine di migliaia di iscritti [dalla data di entrata in vigore del "Regolamento Generale europeo per la protezione dei Dati personali", siamo nel maggio 2018, ho preferito interrompere l'invio della newsletter ed eliminare la mailing list, confidando sul fatto che non fosse più necessario... in effetti il numero delle visualizzazioni è continuato a crescere a prescindere dall'invio della newsletter - n.d.r].
Dopo pochi mesi dalla sua nascita, peraltro, Letteratitudine divenne uno dei blog d’autore del Gruppo L’Espresso.

La prima fase di crescita del blog fu caratterizzata dal tentativo di coinvolgimento di un numero crescente di persone che, in un modo o nell’altro, avesse a che fare con il mondo del libro. A qualche amico scrittore (tra i primissimi, Roberto Alajmo e Antonella Cilento) proposi la cura di uno spazio: una sorta di rubrica. Nel frattempo cominciai a proporre, stimolare e moderare una serie di dibattiti di natura letteraria. Potevano avere per oggetto articoli pubblicati sulle pagine culturali di quotidiani e magazine, oppure potevano nascere da idee di varia provenienza e da argomenti incentrati sulle storie narrate da alcuni romanzi (con il coinvolgimento diretto degli autori). Sempre più di frequente cominciai a formulare alcune domande “aperte” (cioè rivolte a tutti) per favorire il dibattito. Nacque così una serie di discussioni molto appassionate e appassionanti con contributi forniti da una schiera di preparatissimi commentatori (nella loro veste di semplici lettori, o di scrittori, o di giornalisti e critici letterari, o di editor, librai e così via). Una selezione di questi dibattiti è confluita sui due precedenti libri di Letteratitudine: “Letteratitudine, il libro: vol. I – 2006-2008” (Azimut), Letteratitudine, il libro: vol. II – 2008-2011” (Historica). [Questi libri – tra le altre cose – sono stati oggetto di studio da parte di alcune Facoltà universitarie di Lettere e di Scienze della Comunicazione nell’ambito di diverse tesi di laurea - n.d.r.].

Non si vive, però, solo di dibattiti. A ripensarci adesso mi tornano in mente, con un forte carico di nostalgia, anche alcune attività ludiche che proposi nei primissimi anni di vita del blog. Veri e propri giochi letterari di gruppo. Il primo si intitolava “Due libri da salvare” e trovò vita online in un post pubblicato il 9 novembre del 2007. L’idea era semplice, ma stimolante. I frequentatori del blog erano invitati a immaginare una catastrofe immane destinata a colpire ineluttabilmente i libri. Qualcosa di peggio (molto peggio) della tragedia libresca descritta in “Fahrenheit 451” (celebre romanzo di Ray Bradbury). Per farla breve bisognava salvare dall’oblio solo due libri. Per facilitare il compito, limitai la possibilità di scelta a due testi di narrativa: uno per l’Ottocento, uno per il Novecento. Ciascun frequentatore aveva la possibilità di motivare la scelta e di convincere gli altri a sostenerli. Nacquero vere e proprie (giocose) fazioni.
Il gioco durò all’incirca una decina di giorni, giunsero quasi 800 commenti e – alla fine – furono scelti i “due libri da salvare” che, nella fattispecie, furono: per l’Ottocento, “I fratelli Karamazov” di Fëdor Dostoevskij; per il Novecento, “I nostri antenati” di Italo Calvino.
La notizia di questo gioco letterario online ebbe un effetto “virale” e divenne persino oggetto di un articolo di Panorama. Era la prima volta che un grande magazine nazionale citava Letteratitudine.
Un altro gioco che ricordo con piacere fu il cosiddetto “Letteratitudine Book Award” che proposi nei primi anni. Si trattava di una sorta di Premio Letterario (senza Premio) finalizzato a individuare il libro preferito dai lettori di Letteratitudine uscito in Italia l’anno precedente.
La prima edizione di questo gioco è datata 12 marzo 2008: l’obiettivo era quello, per l’appunto, attraverso un sistema di votazione online, di individuare (secondo il gusto dei frequentatori di Letteratitudine) quale fosse stato il miglior libro pubblicato in Italia l’anno precedente. Vinse il romanzo “La strada” di Cormac McCarthy (Einaudi), dopo un feroce testa a testa con “Everyman” di Philip Roth (Einaudi). Nell’ambito della prima edizione di questo gioco, però, emerse con prepotenza il nome di uno scrittore napoletano che aveva pubblicato per Fandango un giallo ambientato nella Napoli degli anni Trenta con protagonista un personaggio letterario che avrebbe avuto molta fortuna negli anni a venire. Il romanzo si intitolava “Il senso del dolore”, lo scrittore in questione si chiama Maurizio de Giovanni e il personaggio è il commissario Ricciardi (oggi uno dei personaggi letterari italiani più noti e amati dal pubblico dei lettori).
Nell’ambito di quel gioco, oltre al nome di de Giovanni emerse quello di un altro autore italiano. Si trattava di uno scrittore che aveva pubblicato un romanzo con Rizzoli intitolato “L’ultimo parallelo”. Un certo Filippo Tuena.
Entrambi gli autori citati ricevettero una “menzione speciale” al Letteratitudine Book Award e furono invitati a partecipare a un dibattito online sui loro libri nell’ambito di un post pubblicato il giorno successivo (il 13 marzo 2008).

Questo è quel che accadeva nei primissimi anni di Letteratitudine… svariate attività con al centro una corposa serie di dibattiti “appassionati e appassionanti” da cui ritengo di aver ricevuto tanto in termini di apprendimento, scambio di opinioni, accrescimento del senso critico (in fondo per me – e spero non solo per me – Letteratitudine in questi anni è stata anche una sorta di scuola). Centinaia di discussioni che ho avuto il piacere di organizzare, stimolare e moderare con molta abnegazione e altrettanta fatica. In alcuni casi, lasciatemelo dire, tali attività si sono rivelate come vere e proprie imprese gargantuesche. Penso in particolare al megadibattito sul “romanzo storico” (una selezione è poi confluita su “Letteratitudine, il libro – vol. II”) condotto su due filoni e con la ricezione complessiva di più di un migliaio di commenti; ma penso soprattutto al post in assoluto più commentato della storia del blog: quello dedicato alla “letteratura dei vampiri” (dal Dracula di Bram Stoker ai succhiasangue di Twilight), dove sono pervenuti (grazie anche all’attività di “animazione” dello scrittore Gianfranco Manfredi, figura leader nell’ambito della letteratura horror-gotica italiana) oltre 2.800 commenti (il materiale sorto dallo sviluppo di questo dibattito, meriterebbe di essere “risistemato” e pubblicato in un volume a parte… e non è escluso che prima o poi non lo faccia). [Ne approfitto per segnalare la partecipazione straordinaria del compianto Alan D. Altieri - n.d.r.].
C’è da dire che in questi ultimi anni ho notevolmente alleggerito l’organizzazione dei dibattiti online. E non solo a causa della naturale e inevitabile stanchezza (che pure, nel tempo, ha cominciato a manifestarsi).
Quando creai il blog, come ho scritto prima, lo feci in un’ottica di servizio… con l’intento di creare un “luogo d’incontro virtuale” tra gli appassionati e gli addetti ai lavori del mondo del libro. A mano a mano che il blog cresceva, le attività legate all’organizzazione e alla gestione di questi dibattiti divenivano sempre più entusiasmanti e impegnative. Emergeva in maniera chiara – da parte dei tantissimi frequentatori del blog – l’esigenza di confrontarsi e di, appunto, incontrarsi in un luogo (virtuale) come Letteratitudine. A seguito dello sviluppo e della diffusione dei social network più popolari (mi riferisco a Facebook e a Twitter) quest’esigenza si è inevitabilmente affievolita. I dibattiti, com’era giusto e naturale che fosse, si sono spostati sulle bacheche Facebook e sui profili Twitter dei vari utenti. Questa fase di passaggio, questa sorta di metamorfosi, delle discussioni online – come sempre accade – è stata accompagnata da effetti positivi e negativi. Da un lato, infatti si è sviluppata in maniera esponenziale l’interattività tra coloro che desideravano scambi di opinioni online (con dibattiti che rimbalzavano – e che rimbalzano – da una bacheca all’altra), dall’altro è aumentata la frammentarietà e la volatilità delle discussioni medesime (nonostante il ricorso ai cosiddetti hashtag). In ogni caso, i tempi erano cambiati. I dibattiti letterari e culturali (con i pro e i contro a cui ho fatto cenno) sorgevano adesso in maniera spontanea e fulminea dentro questi megacontenitori americani online in cui tutti noi siamo schedati e tracciati e a cui tutti noi contribuiamo a foraggiarne il business con i nostri interscambi. Pro e contro, come in ogni cosa. L’importante è esserne consapevoli. Ed è con questa consapevolezza che ho aperto – su Facebook e su Twitter – profili intestati sia al sottoscritto sia a Letteratitudine.
In ogni caso, questa mutazione mi ha consentito di ri-organizzare le attività del blog. Se l’esigenza di animare dibattiti online si era affievolita, potevo tirare un po’ il fiato e utilizzare il maggior tempo libero a disposizione per sviluppare nuove idee e progetti.
Cosa che ho fatto… a partire dall’ulteriore crescita dell’attività radiofonica integrata al blog (ma soprattutto attraverso la cura del progetto LetteratitudineNews, di cui accennerò tra breve).

Partiamo dalla radio. Tra le pietre miliari di Letteratitudine va sicuramente inclusa l’esperienza radiofonica (ancora in pieno svolgimento) giunta ormai al settimo anno di attività.
Nell’ottobre del 2009, Gabriele Pugliese, il direttore di Radio Hinterland (una radio indipendente che trasmette in Fm in Lombardia, ma che va in diretta – in streaming – anche via Internet) mi contattò per propormi la conduzione, all’interno della radio, di una trasmissione culturale di libri e letteratura. Dopo qualche perplessità iniziale, accettai l’invito. Nacque, così, “Letteratitudine in Fm”: un programma radiofonico di libri e letteratura curato e condotto dal sottoscritto (con il prezioso supporto in regia di Federico Marin) e integrato con il blog.
In trasmissione ho avuto la possibilità di incontrare centinaia di protagonisti del mondo letterario ed editoriale con l’obiettivo di metterli a loro agio e indurli a raccontare e a raccontarsi nel modo più naturale possibile: trattamento, questo, riservato sia agli autori noti da tempo al grande pubblico, sia agli esordienti, sia agli addetti ai lavori più tecnici (come editor ed editori).
[Oggi la trasmissione non va più in onda su Radio Hinterland, ma su Radio Polis (sempre diretta da Gabriele Pugliese) - n.d.r.].

Un altro aspetto che mi è sempre stato a cuore riguarda ciò che io chiamo “processo di internazionalizzazione” di Letteratitudine, poiché c’è un numero molto consistente di italiani residenti all’estero e italianisti di tutto il mondo che seguono le attività del blog. In tal senso vanno evidenziate le molteplici potenzialità della Rete (di cui, peraltro, si è ampiamente discusso in passato); ovvero le enormi possibilità che essa offre per annullare distanze, oltrepassare barriere, creare nuove occasioni di scambio e di confronto.
Un contributo importante, nell’ottica dell’internazionalizzazione di Letteratitudine, è dato dai numerosi Istituti Italiani di Cultura e dagli istituti appartenenti alla Società Dante Alighieri sparsi per il mondo che sono iscritti alla newsletter del blog (il già citato comunicato via email con cui invio aggiornamenti sulle attività del sito).
Tale “processo di internazionalizzazione” è iniziato già da diversi anni. Nel 2009, per esempio, proprio con riferimento alle attività di Letteratitudine, fui intervistato dal network radiotelevisivo australiano SBS.
Nel corso degli anni sono state tante le iniziative che vanno in questa direzione. Tra i dibattiti extranazionali, ricordo quello intitolato “Vent’anni senza muro, vent’anni senza Sciascia” (un estratto è contenuto all’interno di “Letteratitudine, il libro – vol. II”) a cui hanno partecipato due cattedratici e italianisti spagnoli: Estela Gonzalez De Sande, Docente di Lingua e Letteratura italiane all’università di Oviedo e Vicente Gonzalez Martin, cattedratico di Letteratura italiana nella prestigiosa università di Salamanca.
Oppure, per fare un altro esempio, potrei citare gli interventi della tunisina Rawdha Zaouchi-Razgallah, saggista e docente di letteratura italiana presso l’Università di Cartagine, in Tunisia (sempre su “Letteratitudine, il libro – vol. II” ho riportato un suo ottimo intervento dedicato alla scrittura di Giuseppe Bonaviri).
Mi viene in mente anche una rubrica molto particolare – che chiamai “Babelit” (acronimo che deriva da due parole inglesi: babel e literature) - nata con l’obiettivo di ospitare autori stranieri nell’ambito di dibattiti bilingue: in italiano (naturalmente) e nella lingua d’origine dell’autore/autrice di volta in volta invitato/a.
Tra gli ospiti ricordo la scrittrice tedesca Birgit Vanderbeke, l’autore cubano Amir Valle e l’autrice irlandese Catherine Dunne.
Inoltre – nell’ambito delle iniziative legate al progetto “Autoracconto” (che illustrerò tra breve) – ho avuto il piacere di ospitare autori del calibro di: Glenn Cooper, Maylis de Kerangal, Ildefonso Falcones, Joe R. Lansdale, Pierre Lemaitre, Lilia Carlota Lorenzo, Amélie Nothomb, Amos Oz, Clara Sánchez, John Scalzi, Adam Thirlwell, Caroline Vermalle, Gabrielle Zevin.

letteratitudinenewsPrima di descrivere il progetto legato agli “Autoracconti” vorrei dedicare qualche parola alla nascita di LetteratitudineNews (sito gemello dello storico LetteratitudineBlog) che, in questi anni, ha assunto un’importanza crescente. Si tratta di un sito parallelo che inizialmente avevo creato con l’intento di pubblicare post dedicati alla segnalazione di eventi letterari speciali e che, nel tempo, si è trasformato in un vero e proprio magazine culturale; o meglio, una sorta di quotidiano culturale online che accoglie (oltre alla segnalazione di eventi): articoli, recensioni, “Autoracconti” (appunto), interviste, brani ed estratti e altri contenuti di carattere culturale e letterario (con contributi miei e di vari amici scrittori, critici e giornalisti culturali).
L’apertura di “LetteratitudineNews” ha segnato un cambio di rotta in seno a Letteratitudine che (tenuto conto anche dell’attività radiofonica), da semplice blog letterario, si è trasformato in una sorta di marchio culturale integrato.
Ne approfitto, inoltre, per segnalare anche l’attività video di Letteratitudine attraverso l’apertura di un apposito canale YouTube collegato al blog dove avrete la possibilità di visionare vari filmati (interviste, documentari, booktrailer, ecc.) legati al mondo dei libri e della letteratura.

Gli Autoracconti d’Autore
Avevo accennato al progetto legato agli Autoracconti. Cosa bisogna intendere, intanto, per Autoracconto? Il termine – da me coniato – ha una duplice valenza: da un lato, infatti, può essere considerato come l’acronimo delle due seguenti parole: autore + racconto (e dunque “racconto d’autore”); dall’altro indica un’attività narrativa incentrata sul racconto di una propria narrazione.
Quando ho fatto cenno alla nascita del blog, l’ho descritto come “luogo d’incontro”. Anche l’Autoracconto è pensato nell’ottica dell’ “incontro”. Le autrici e gli autori ospiti – dietro apposito invito da parte del sottoscritto – incontrano (per l’appunto) il pubblico dei lettori per “raccontare”, attraverso un testo scritto, un proprio libro (come nasce? dove è ambientato? chi sono i personaggi? che tipo di esperienza è stata la scrittura del libro in questione?, ecc.) in maniera il più possibile originale e creativa e senza vincoli di sorta, in termini di spazio e di contenuti. Di fatto, è come se le amiche scrittrici e gli amici scrittori di Letteratitudine, invitati a partecipare a questa iniziativa, salissero sul palco del blog con un microfono in mano per condividere con il pubblico l’esperienza di scrittura che ha generato una determinata opera letteraria di loro produzione. Solo che al posto del microfono è previsto l’utilizzo della penna (o meglio, della tastiera di un pc) e al posto della voce, si dà spazio al pensiero (che si fa parola scritta). Per farla breve, l’Autoracconto è una vera e propria prova narrativa, una sorta di metanarrazione (la narrazione di una narrazione e di ciò che è a essa legata, con ovvi riferimenti al processo creativo). Per ciò che ho avuto modo di constatare, si tratta di un’esperienza di scrittura (per l’autore) e di lettura (per il lettore) particolarissima e stimolante.
Devo dire che, da un certo punto di vista, lo sdoganamento dell’Autoracconto (l’iniziativa, peraltro, ha avuto un enorme riscontro anche oltre Letteratitudine, dato che – di fatto – è stata “replicata” dal alcuni quotidiani e da altri siti) ha determinato il superamento definitivo di quella specie di tabù che prevedeva il silenzio dell’autore su tutto ciò che riguardava il testo da lui scritto e pubblicato. Secondo tale visione, tutto ciò che l’autore intende dire è già contenuto all’interno del libro. Ogni parola in più sarebbe fuori luogo. O autoreferenziale. Naturalmente c’è del vero in questo tipo di argomentazione (a parte il fatto che nell’epoca dei social network parlare di autoreferenzialità fa un po’ sorridere: sarebbe come parlare di umidità mentre si passeggia sotto la pioggia). Ma l’Autoracconto di cui parlo io è altra cosa. Intanto non ha nulla a che vedere con valutazioni critiche sul proprio lavoro. L’obiettivo è individuare il germe creativo che ha dato origine alla narrazione e seguire il percorso che, da quel punto di origine, ha dato vita alla storia… adoperando un approccio narrativo. Del resto, questo tipo di lavoro sulla parola e sulla narrazione inerenti l’origine creativa di una determinata opera letteraria non può farlo nessun altro al di fuori dell’Autore.
L’Autoracconto di cui vi sto parlando è, dunque, una vera e propria forma letteraria. Ognuno di essi è la condivisione di un’esperienza, ma anche un invito (alla lettura) e una promessa (di coinvolgimento in una storia).
(…)
Ancora una volta, grazie di vero cuore a tutti voi, amiche e amici di Letteratitudine, ovunque voi siate, per questi dieci anni di vita letteraria che avete voluto condividere con me (e che mi hanno arricchito intellettualmente e interiormente al di là di ogni possibile previsione).
E grazie in anticipo per tutti quelli che, nel futuro, avrete la bontà di voler condividere.
Grazie!
(Massimo Maugeri - settembre/dicembre 2016)

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martedì, 20 luglio 2021

BUONA ESTATE

LetteratitudineBlog va in pausa estiva. Vi auguriamo buona prosecuzione di vacanze (per chi è già in vacanza) e buone letture. E continuate a seguirci su LetteratitudineNews

Buona estate da Letteratitudine

(continua…)

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sabato, 14 marzo 2020

VITA, LIBRI E CULTURA AI TEMPI DEL CORONAVIRUS

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#iorestoacasa #aleggere (continua…)

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mercoledì, 15 gennaio 2020

IL GIORNO SPECIALE DI MAX di Sophie Andriansen

Per GIOVANISSIMA LETTERATURA“, lo spazio di Letteratitudine dedicato alla cosiddetta “letteratura per ragazzi“, ci occupiamo del romanzo intitolato Il giorno speciale di Max” di Sophie Andriansen (De Agostini – traduzione di Elisa Macellari – illustrazioni di Ilaria Zanellato), incentrato sull’Olocausto visto attraverso gli occhi innocenti di un bambino.

Proponiamo una presentazione del libro, un’intervista all’illustratrice e un estratto.

* * *

La De Agostini propone questo romanzo per ragazzi, “Il giorno speciale di Max” (titolo originale: “Max et les poissons”), firmato dall’autrice francesce Sophie Andriansen (traduzione di Elisa Macellari – illustrazioni di Ilaria Zanellato), dedicato al tema dell’Olocausto (in occasione della Giornata della Memoria del 27 gennaio): una storia che è stata ben apprezzata dalla critica francese e che ha vinto numerosi riconoscimenti letterari. La narrazione è ambientata durante il rastrellamento di Drancy del 1942 (alla fine del libro è disponibile una breve sezione dedicata alla seconda guerra mondiale e un approfondimento per capire meglio cosa è accaduto a Drancy).

Max è un bimbo molto legato al suo pesciolino. Un giorno, però, arrivano i tedeschi. È il 16 luglio 1942. Max e la sua famiglia devono fare le valigie. Il bambino non sa per dove, sa solo che il pesciolino Auguste non potrà seguirlo.

“Un giorno”, scrive Sophie Andriansen, “la commessa di un negozio di scarpe mi ha regalato un pesce rosso. Non avevo nemmeno la metà degli anni di Max e tutta fiera mi sono portata a casa il pesciolino chiuso in un sacchetto di plastica pieno d’acqua. Mio nonno non mi aveva ancora insegnato a pescare i pesci gatto nello stagno.
Venticinque anni dopo ho conosciuto una donna coraggiosa che, insieme ai fratellini, era sfuggita al rastrellamento del Velodromo d’Inverno e mi ha raccontato la sua storia.
Max è nato così. In una notte di dicembre, quasi settant’anni dopo quella retata, è venuto a sussurrarmi che dovevo anch’io dar voce ai bambini di luglio. Ho mescolato quella voce con i miei ricordi d’infanzia: l’estate, le rane e le candeline su un clafoutis di ciliegie. Perché ogni anno festeggio anch’io il compleanno verso metà luglio.
Quella di Max non è una storia vera. Nel 1942 vengono portati a Drancy, vicino a Parigi, gli uomini celibi e le famiglie senza figli. Le famiglie con bambini vengono portate nei campi di Beaune-la-Rolande o di Pithiviers, nel dipartimento di Loiret. Da lì vengono in seguito deportate tutte ad Auschwitz, in Polonia. Nessuno di quei bambini è tornato. Ma nel corso della guerra ci sono stati cittadini che hanno rischiato la propria vita per salvare quella di altre persone. Alcuni di loro vivevano di sicuro in case dai muri bianchi con le persiane azzurre, con vasi di fiori sui davanzali e pesci nello stagno.
Quindi una vicenda come quella di Max sarebbe potuta accadere”.

* * *

VISTO DALL’ILLUSTRATRICE. INTERVISTA A ILARIA ZANELLATO (continua…)

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domenica, 25 novembre 2018

GIORNATA MONDIALE CONTRO LA VIOLENZA ALLE DONNE: 25 novembre 2018

L’intervento del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella

(continua…)

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lunedì, 1 gennaio 2018

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mercoledì, 26 luglio 2017

GIOSUÈ CALACIURA con “Borgo Vecchio” (Sellerio) e ANTONIO DI GRADO (con due libri su Vittorini e Leopardi) a “Letteratitudine in Fm”

GIOSUÈ CALACIURA con “Borgo Vecchio” (Sellerio) e ANTONIO DI GRADO (con due libri su Vittorini e Leopardi) ospiti del programma radiofonico Letteratitudine in Fm di lunedì 24 luglio 2017 – h. 10 circa (e in replica nei seguenti 3 appuntamenti: giovedì alle h. 03:00 del mattino; venerdì alle h. 13:00; domenica alle h. 03:00 del mattino)

In Fm e in streaming su Radio Hinterland

trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia: Federico Marin

* * *

LA PUNTATA È ASCOLTABILE ONLINE, CLICCANDO SUL PULSANTE AUDIO

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Nella prima parte della puntata abbiamo incontrato Giosuè Calaciura per discutere del suo nuovo romanzo intitolato “Borgo Vecchio” (Sellerio).

Nella seconda parte della puntata abbiamo incontrato Antonio Di Grado per discutere dei sue due nuovi volumi: Vittorini a cavallo. Vecchie e nuove congetture su un artigiano anarchico che fabbricava miti(Euno edizioni) e Giacomo Leopardi: Pensieri anarchici estratti e scelti dallo Zibaldone (a cura di Antonio Di Grado) (A Est dell’equatore)

Di seguito, informazioni sui libri protagonisti della puntata.

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Borgo VecchioBorgo Vecchio” di Giosuè Calaciura (Sellerio)

Nel piccolo quartiere raccontato da Giosuè Calaciura sembra concentrarsi l’energia esplosiva di un’intera città. È solo una manciata di viuzze nel cuore di Palermo ma ne contiene tutto il carattere, l’oscurità, la violenza e la bellezza. Qui si rispecchia, si deforma ogni vizio e virtù, cuore e budella, come fosse un condensato di vita, una versione raggrumata e forte di sapori palesi e occulti, pubblici e privati. Qui vivono Mimmo e Cristofaro, amici fraterni, compagni di scuola e complici di fughe; Carmela la prostituta e Celeste, sua figlia, che porta in nome il colore del perdono; Totò il rapinatore che tiene la pistola nella calza perché – così si dice – è più difficile da usare. Qui si allevano cavalli per le corse e si truccano le bilance delle salumerie, mentre l’ululato del traghetto che parte verso il Continente si confonde con i lamenti causati dai pugni di un padre ubriaco. Da un lato c’è il mare, col suo vento che scombina gli odori in vortici ballerini, portando fragranza di carne nelle case di chi carne non mangia mai. Dall’altro c’è la piana distesa della metropoli, coi suoi negozi, le signore benestanti, la legge e le guardie. Nei vicoli il profumo del pane sfornato due volte al giorno suscita un tale stupore che ciascuno si segna con la croce. E può capitare che le forze dell’ordine cingano in assalto il quartiere fino a presidiarne gli ingressi, come in un assedio medievale.
Sembra tutto fantastico e inventato, e invece nell’immaginazione di questa storia, nella lingua che la racconta, nel suo ritmo frenetico, domina la verità. Quella difficile, contraddittoria, di una città che non può soffocare le sue viscere, il suo cuore, perché lì si è posata la sua anima, lì si intravedono i miracoli e la meraviglia di ogni giorno, la fierezza e l’efferatezza dell’antico, del presente, e la speranza del futuro.

Giosuè Calaciura è nato a Palermo nel 1960. Giornalista, collabora con Rai Radio3, scrive per quotidiani e riviste. I suoi racconti sono apparsi in diverse raccolte, tra queste “Disertori” (Einaudi, 2001), curata da Giovanna De Angelis, e “Luna nuova. Nuovi scrittori dal Sud” (Argo, 1997), a cura di Goffredo Fofi. Tradotto all’estero, ha pubblicato i romanzi: “Malacarne” (1998), “Sgobbo”, Premio Selezione Campiello (2002), “La figlia perduta. La favola dello slum” (2005), “Urbi et Orbi” (2006).

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Vittorini a cavallo. Vecchie e nuove congetture su un artigiano anarchico che fabbricava miti (Euno edizioni) – di Antonio Di Grado

Parlare di Elio Vittorini significa anzitutto fare i conti con una prodigiosa attività politico-culturale, con un frenetico alternarsi di progetti, di “furori” più o meno “astratti”, di idee consegnate ad immagini così folgoranti da bruciarsi quasi tutte nel breve periodo, nella fruizione immediata da parte delle élite intellettuali succedutesi nell’arco di quasi quattro decenni della nostra storia. Significa, dunque, fare i conti con questa storia e restituirne uno spaccato il più possibile significativo, ma soprattutto con una rigogliosa vegetazione di metafore, con un tessuto simbolico ordito tra il mondo arcaico e incontaminato delle dee-Madri e gli interminati spazi della “frontiera”, tra i “nuovi doveri” del dopoguerra e il favoloso firmamento delle “città del mondo”.

Pensieri anarchici estratti e scelti dallo ZibaldoneGiacomo Leopardi. Pensieri anarchici estratti e scelti dallo Zibaldone  – A Est dell’equatore (a cura di Antonio Di Grado)

Parlare di un Leopardi “anarchico” non significa assoldarlo, anacronisticamente, nella schiera dei regicidi e dei cultori della “propaganda del fatto”, ma scovare nel folto della sua elaborazione teorica sentieri che altre figure di solitari e di ribelli percorreranno o incroceranno senz’avvedersene, ma con la medesima ostinata lucidità di antagonisti radicalmente critici dell’esistente, del millantato “progresso”, della bancarotta della “civiltà”. Se oggi si ripubblica questa raccolta del 1945, è dunque per ricorrere a un Leopardi che svetta, nei nostri tempi grevi di “pensiero unico”, come maestro inascoltato di salutari dubbi e di radicale dissenso, verso ogni forma di costrizione istituzionale e di vincolo societario; e assertore dell’incoercibile libertà del singolo e della “naturale” uguaglianza del genere umano, ed estraneo e ribelle a ogni sudditanza a ideologie e istituzioni del suo come d’ogni tempo. E spettatore amaramente divertito dell’insana frenesia cui si dà il nome di “politica”.

Antonio Di Grado, Catania, 1949, è professore ordinario di Letteratura italiana nel Dipartimento di Scienze umanistiche dell’Università di Catania. È direttore scientifico, designato dallo stesso scrittore, della Fondazione intitolata a Leonardo Sciascia a Racalmuto. Vive a Catania, dove è stato assessore alla cultura e presidente del Teatro Stabile.
Numerosi i volumi di storiografia e critica letteraria da lui pubblicati; tra gli ultimi: La vita, le carte, i turbamenti di Federico De Roberto, gentiluomo; Vittorini a cavallo. Vecchie e nuove congetture di un artigiano anarchico che fabbricava miti. Per la nostra casa editrice: Divergenze. Borgese, Malaparte, Morselli, Sciascia e Anarchia come romanzo e come fede.

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trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia: Federico Marin

LA PUNTATA È ASCOLTABILE ONLINE, CLICCANDO SUL PULSANTE AUDIO

La colonna sonora della puntata: B.B. King Blues solo guitar.

(continua…)

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lunedì, 31 ottobre 2016

LUCCA COMICS 2016:intervista a Boban Pesov

Risultati immagini per lucca comics & games 2016

È in corso l’edizione 2016 di Lucca Comics & Games (qui il programma – qui gli ospiti): dal 28 ottobre al 1 novembre.

È a Lucca, per conto di Letteratitudine, il nostro inviato Furio Detti che collabora con noi nell’ambito della rubrica “Graphic Novel e Fumetti(qui di seguito il contributo di Furio Detti, da Lucca, con un’intervista a Boban Pesov, Youtuber e vignettista emergente).

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[Articolo a cura di Furio Detti]

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All’assalto dei “Giovani Merda”: intervista a Boban Pesov

Intervistiamo per Letteratitudine a Lucca Comics Boban Pesov, youtuber, fumettista e vignettista impegnato in una crociata contro il giovane pretenzioso da apericena e quartiere degli artisti, quello sempre impegnato, sempre con la conversazione ricercata e lo stile raffinato. Il nostro autore scatena l’odio e la matita, insieme a Amleto De Silva, e si concede qualche riflessione.

Boban Pesov: Grazie mille. Al momento mi definisco illustratore/vignettista, ma non escludo in futuro di fare anche fumetti…

-Hai avuto collaborazioni satiriche, al di fuori del circuito degli “Youtubers”?
Qualcosina, ma niente di rilevante. Mi piacerebbe anche pubblicare le mie vignette per qualche sito o rivista online, ma al momento, forse, non mi sono mai impegnato a proporre qualcosa. In effetti, dopo essermi ritagliato uno spazio su Youtube e con l’aumento dei followers fra il pubblico mi sono già trovato carico di lavoro e soddisfatto.

-Ci piacciono i nuovi media, ma un po’ ci dispiace che gli artisti passino più tempo a promuoversi/autopromuoversi sul web invece di potersi dedicare a tempo pieno alla loro attività artistica. Tu cosa provi a riguardo? Non senti il peso di presentare te stesso, o è ancora un divertimento? (continua…)

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giovedì, 25 agosto 2016

Terremoto Centro Italia: sms solidale

http://www.protezionecivile.gov.it/resources/cms/images/sms_solidale_orizz_blu_d0.jpg

Su richiesta del Dipartimento della Protezione Civile, d’intesa con le Regioni colpite dal terremoto e grazie agli operatori di telefonia mobile e ai media, è stato attivato il numero 45500 per la raccolta di fondi attraverso l’invio di sms del costo di 2 euro. È possibile donare anche chiamando da rete fissa lo stesso numero. Il servizio è attivato con gli operatori nazionali Tim, Vodafone, Tre, Fastweb, CoopVoce, Wind e Infostrada, TWT, CloudItalia e PosteMobile. I fondi raccolti saranno trasferiti dagli operatori, senza alcun ricarico, al Dipartimento della Protezione Civile che provvederà a destinarle alle regioni colpite dal sisma.

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mercoledì, 8 giugno 2016

GIORGIA ANTONELLI e MARILÙ OLIVA a Letteratitudine in Fm

GIORGIA ANTONELLI (direttrice di LiberAria) e MARILÙ OLIVA (autrice di “La squola“) in radio a Letteratitudine in Fm di lunedì 6 giugno 2016 – h. 10 circa (e in replica nei seguenti 3 appuntamenti: giovedì alle h. 03:00 del mattino; venerdì alle h. 13:00; domenica alle h. 03:00 del mattino)


In Fm e in streaming su Radio Hinterland

trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia: Federico Marin

LA PUNTATA È ASCOLTABILE ONLINE, CLICCANDO SUL PULSANTE AUDIO

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Nella prima parte della puntata abbiamo incontrato Giorgia Antonelli, giovane direttrice editoriale dell’altrettanto giovane casa editrice LiberAria. Abbiamo discusso del progetto editoriale di LiberAria e dei libri usciti di recente: tra cui “La squola” di Marilù Oliva (nostra ospite nella seconda parte della puntata); “Sergente Romano” di Marco Cardetta; “Il matrimonio di Chani Kaufman” di Eve Harris; “Il rifugio delle puttane” di Katy Darby; Il grande regno dell’emergenza” di Alessandro Raveggi.

La seconda parte della puntata è stata dedicata al nuovo libro di Marilù Oliva, intitolato “La squola“, edito – per l’appunto – da LiberAria.

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trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia: Federico Marin

LA PUNTATA È ASCOLTABILE ONLINE, CLICCANDO SUL PULSANTE AUDIO

La colonna sonora della puntata è composta dai seguenti brani musicali:…

(continua…)

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giovedì, 28 gennaio 2016

IL FIGLIO DI SAUL

Locandina italiana Il figlio di SaulLa nuova puntata de “Il sottosuolo” di Ferdinando Camon è dedicata al film “Il figlio di Saul” di  László Nemes.

Camon ha consigliato di celebrare il giorno della memoria con la visione di questo film.

A proposito di giorno della memoria, ne approfitto per segnalare: il post annuale di Letteratitudine, 10 libri per non dimenticare, l’intervento del Presidente Mattarella.

In fondo al post, il trailer del film.

Massimo Maugeri

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Un canto fra i latrati

ferdinando-camondi Ferdinando Camon

Il modo migliore di celebrare il giorno della memoria è andare a vedere il film Il figlio di Saul. Terribile a vedersi, ma non vederlo è un delitto. Un capolavoro aumenta in chi lo vede la voglia di vivere, una vita che ti fa incontrare capolavori è un regalo del destino. Ma stavolta non è così. Vedi questo film perfetto, e resti muto e spento. C’è un attimo di smarrimento in sala quando il film finisce, nessuno fiata. Non so se esista uno strumento in grado di misurare la “vitalità” delle persone, la voglia, la capacità di vivere, ma se esiste, e se si potesse usarlo sugli spettatori che escono dalla sala dopo aver visto questo film, si scoprirebbe che la loro vitalità è prossima allo zero. È un film che ti fa vergognare. Perché mostra che cosa sono stati capaci di fare gli uomini, e poiché tu sei un uomo, vergognandoti di loro ti vergogni di te. Non conosciamo ancora bene le lugubri imprese del Daesh, non ce le hanno mostrate per intero, e siamo grati di non averle viste. Chi verrà dopo di noi le vedrà. E proverà la stessa vergogna che proviamo noi oggi, vedendo questo film che ci mostra il macabro lavoro di un Sonderkommando. Sì, tutti abbiamo visto Birkenau (nessuno doveva uscire dal secolo scorso senza averlo visto), dunque abbiamo visto i luoghi dove si svolgeva l’abominevole operazione che si chiamava Sterminio. (continua…)

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venerdì, 15 gennaio 2016

PREMIO OSCAR 2016: le nomination

Nell’ambito della rubrica Letteratitudine Cinema, pubblichiamo l’elenco delle nomination del PREMIO OSCAR 2016

con i link alle schede dei film (e dei relativi attori) selezionati nelle principali sezioni

Ieri, 14 gennaio 2016, sono state annunciate le candidature relative alla edizione 2016 del Premio Oscar. Segnaliamo, in particolare, per quanto riguarda la “partecipazione” italiana agli Oscar di quest’anno che Ennio Morricone è candidato nella categoria migliore colonna sonora, per “Hateful Eight” di Quentin Tarantino. Il compositore italiano ha già vinto il Golden Globes per lo stesso titolo. Inoltre “Simple Song Number 3” (composta da David Lang), canzone della colonna sonora di “Youth” di Paolo Sorrentino, è fra i candidati agli Oscar alla migliore canzone.

La 88ª edizione della cerimonia degli Oscar si terrà al Dolby Theatre di Los Angeles il 28 febbraio 2016. Conduttore della serata sarà Chris Rock, già presentatore della 77ª edizione nel 2005. La cerimonia, trasmessa in diretta in oltre 225 Paesi, sarà visibile anche in Italia (sul canale Sky Cinema Oscar e in chiaro su Cielo).

Segue l’elenco delle candidature: cliccare sui titoli e sui nomi per aprire le schede (fonte wikipedia)

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Miglior film

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Miglior regia

(continua…)

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lunedì, 16 novembre 2015

ELISABETTA BUCCIARELLI e ANTONELLA CILENTO ospiti di “Letteratitudine in Fm”

ELISABETTA BUCCIARELLI e ANTONELLA CILENTO ospiti di “Letteratitudine in Fm” – lunedì 16 novembre 2015 – h. 10 circa (e in replica nei seguenti 3 appuntamenti: giovedì alle h. 03:00 del mattino; venerdì alle h. 13:00; domenica alle h. 03:00 del mattino)

In Fm e in streaming su Radio Hinterland

trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia: Federico Marin

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Sono Elisabetta Bucciarelli e Antonella Cilento le ospiti della puntata di “Letteratitudine in Fm” di lunedì 16 novembre 2015

Con Elisabetta Bucciarelli discutiamo del suo nuovo romanzo “La resistenza del maschio” (NN editore).

Con Antonella Cilento discutiamo del suo romanzo “La Madonna dei mandarini” (NN editore).

Cogliamo l’occasione per discutere anche delle problematiche affrontate dai due romanzi editi da NN edizioni (nuovo editore milanese: qui il progetto editoriale).

Di seguito, le schede dei due libri e le minibiografie delle autrici.

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La resistenza del maschioLa resistenza del maschio” – Elisabetta Bucciarelli - NN editore (la scheda del libro)

L’Uomo ha una vita di successo, moglie, lavoro, casa. Non vuole figli e non vuole solo sesso. Cerca in ogni circostanza misura e proporzioni. Una notte assiste a un incidente: una donna si schianta contro un palo della luce. L’immagine di lei, simile a un quadro preraffaellita, diventa un’ossessione. Intanto nella sala d’aspetto di uno studio medico tre donne attendono il loro turno. Parlano di uomini, sicure di essere alle prese con un nuovo tipo di maschio, quello che resiste, che si nega e non si concede. Al di là della volontà di ciascun personaggio, qualcosa sta per accadere: La resistenza del maschio illumina una nuova forma di lussuria, che qui trova la sua ultima metamorfosi.

Un Uomo che è una Fortezza. E poi una Moglie, una Signora, una Ragazza. E un incidente. Sono tutti gli incidenti, le ragazze, le signore, le mogli e gli uomini che abbiamo visto nella vita. Che siamo stati anche solo per una volta. Nella sala d’attesa di questa storia, tre Parche filano a parole il destino dell’Uomo”.
Gian Luca Favetto

Questo libro è per chi è innamorato dell’azzurro che non si riesce a toccare, per chi ama soffermarsi nei luoghi di transito e nei foyer dei teatri, per chi disegna tutto quello che vede e per chi non riesce a regalare canzoni per paura di perderle.

Elisabetta Bucciarelli scrittrice e sceneggiatrice, collabora con testate di cinema, arte e psicologia. Tra i suoi romanzi: Io ti perdono (Kowalski), Ti voglio credere (Kowalski, Premio Scerbanenco 2010 per il miglior noir italiano), Corpi di scarto (Verdenero), L’etica del parcheggio abusivo (Feltrinelli), Dritto al cuore (edizioni e/o). Ha pubblicato anche i saggi: Le professioni della scrittura (Il Sole 24 Ore) e Scrivo dunque sono (Ponte alle Grazie).

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La Madonna dei mandariniLa Madonna dei mandarini” – Antonella Cilento - NN editore – (la scheda del libro)

Tutto accade a Napoli nell’arco di sei mesi, benché la storia narrata potrebbe accadere in qualunque città d’Italia: Statine, studente in medicina a carico della nonna, è fra i volontari di una piccola associazione cattolica che cura disabili e ragazze madri, diretta da Simone Mennella su consiglio dell’avvocato Mimì Staibano e finanziata da don Cuccurullo, parroco alla moda. È una delle ragazze madri, Amalia, ad avviare la vicenda aggredendo Simone, ma sarà la presenza di Agata Sòllima, madre di uno dei ragazzi disabili, a catalizzare gli eventi.
Fra violenza e comicità, ipocrisie e teatrali colpi di scena, La Madonna dei mandarini racconta di nuove povertà, economiche e morali, del conflitto tra essere e apparire, tipico dei nostri giorni, ma anche di desideri, vanità e della bellezza offesa.

Sonata in tre movimenti e un epilogo. Primo movimento: ci si innamora soprattutto perché ci si deve punire. Secondo movimento: il paradiso è qui su questa terra, basta saperlo cogliere. Terzo movimento: potete aver studiato finché volete ma questo figlio sbagliato l’avete fatto voi. E l’epilogo è una coda. Del diavolo”.
Gian Luca Favetto

Questo libro è per chi adora leggere a letto al mattino, per chi ama i babà e le sfogliatelle, per chi vorrebbe urlare la sua rabbia dal finestrino di un’auto in corsa e per chi si commuove davanti alla statua dell’auriga di Mozia.

Antonella Cilento scrive e insegna scrittura creativa per Lalineascritta (www.lalineascritta.it), di cui è ideatrice e fondatrice da più di vent’anni, collabora con Il Mattino, L’Indice dei Libri e Grazia. Ha scritto testi per il teatro e ha pubblicato, tra gli altri: Una lunga notte, Neronapoletano, L’amore, quello vero, Isole senza mare, Asino chi legge, usciti per Guanda; Napoli sul mare luccica (Laterza), e Lisario o il piacere infinito delle donne (Mondadori), che è stato finalista al Premio Strega 2014 e ha vinto il premio Boccaccio. Nel 2015, ha scritto per Laterza Bestiario napoletano.

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trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia: Federico Marin

LA PUNTATA È ASCOLTABILE ONLINE, CLICCANDO SUL PULSANTE AUDIO

La colonna sonora della puntata è composta dai seguenti brani musicali: “Picasso” di Coleman Hawkins; “Nothing Else Matters” dei Metallica; “Napule è” di Pino Daniele

(continua…)

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sabato, 30 maggio 2015

I 50 ANNI DI OSCAR MONDADORI E CARLO CASSOLA: intervista a Elisabetta Risari

I 50 ANNI DI OSCAR MONDADORI E CARLO CASSOLA

di Massimo Maugeri

In data 5 maggio, in concomitanza con il 50° anniversario della nascita della collana “Oscar Mondadori“, sono stati ripubblicati (negli Oscar, appunto) due romanzi di Carlo Cassola, “Un cuore arido” (1961) con introduzione di Anna Bravo e “Il cacciatore” (1964) con introduzione di Massimo Onofri.
Questa scelta non è casuale. Nel maggio 1965 il capolavoro di Carlo Cassola, “La ragazza di Bube“, fu pubblicato nei neonati Oscar Mondadori come primo volume in assoluto di un autore italiano (fu il secondo titolo dopo “Addio alle armi” di Hemingway).
In questi ultimi anni si è proceduto alla ripubblicazione delle opere di Cassola negli Oscar con il coordinamento scientifico di Alba Andreini. Il primo volume fu, appunto, “La ragazza di Bube” (collana “Classici moderni”).
Le introduzioni ai volumi che escono nella serie “Scrittori moderni” sono di volta in volta affidate a personalità del mondo letterario affinché rileggano i testi su nuove basi. Così “Il taglio del bosco” (2011) ha un’introduzione di Manlio Cancogni; “Fausto e Anna” (2012) di Eraldo Affinati; “La visita” (2013) di Massimo Raffaeli; “L’uomo e il cane” (2014) di Vincenzo Pardini (approfondimenti su LetteratitudineNews).
Già nel 2007 Mondadori aveva pubblicato un corposo volume dei “Meridiani” dedicato a Cassola. Intitolato “Racconti e romanzi”, il volume raccoglie una selezione – dagli esordi al 1970 – delle principali pubblicazioni uscite per Einaudi. La curatela di Alba Andreini, ricchissima di materiali inediti, ha segnato l’avvio di una fase scientifica fondata sull’analisi dei documenti nello studio dell’opera nel complesso e nei suoi singoli titoli.

Proprio con riferimento all’anniversario e alla ripubblicazione dei due sopracitati romanzi di Cassola in “Oscar Mondadori”, ho coinvolto Elisabetta Risari (Responsabile Editoriale Classici Mondadori) nella seguente chiacchierata online.

- Cara Elisabetta, intanto vorrei chiederti: in che modo si pone la collana Oscar Mondadori rispetto all’odierno mercato editoriale? E quali sono i suoi obiettivi?
Per ampiezza e profondità questa domanda da sola richiederebbe un trattato. Mi limito perciò a sottolineare che gli Oscar Mondadori festeggiano quest’anno il loro cinquantesimo anniversario. Il primo Oscar infatti, Addio alle armi di Ernest Hemingway, uscì in edicola il 27 aprile del 1965. La settimana successiva toccò a La ragazza di Bube di Carlo Cassola.
Da allora gli Oscar sono diventati una sorta di casa editrice all’interno della Mondadori, si sono ramificati in numerose collane, partiti dalle edicole hanno poi invaso le librerie. In quella grande biblioteca che è oggi il catalogo degli Oscar – più di venti collane danno ordine a oltre quattromilaquattrocento titoli; milleduecento titoli all’anno tra novità e ristampe per un totale di oltre cinque milioni di copie – ogni lettore può ritagliarsi una biblioteca personale, leggere autori classici o moderni, trovare i libri su cui studiare o approfondire le sue conoscenze, scoprire quelli con cui divertirsi o passare il tempo libero, scegliere quelli da regalare o da collezionare: «negli Oscar c’è», come affermava la celebre pubblicità degli anni Settanta.

- I Classici possono, senza dubbio, essere considerati come longseller. In alcuni casi diventano bestseller, superando per numero di vendite persino le “nuove uscite” di autori noti. È così? Cosa puoi dirci in proposito? (continua…)

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sabato, 30 maggio 2015

LE DONNE DI CASSOLA

Diamo nuova linfa alla rubrica di Letteratitudine intitolata “Ritorno ai classici“, pubblicando uno stralcio dall’introduzione di Anna Bravo a Carlo Cassola, Un cuore arido (Oscar Mondadori, Milano 2015).
Inoltre, in occasione del 50° anniversario della nascita della collana “Oscar Mondadori“, pubblichiamo questa intervista a Elisabetta Risari (Responsabile Editoriale Classici Mondadori) che ringraziamo.

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LE DONNE DI CASSOLA (stralcio dall’introduzione di Anna Bravo a Carlo Cassola, Un cuore arido, Oscar Mondadori, Milano 2015)

Fra i narratori italiani Cassola spicca per la frequenza con cui elegge a protagonista una donna, per l’ascolto che dedica alle figure femminili e per la sua visione del rapporto fra i sessi: “coesistenza” necessaria ma non per questo armoniosa, che contiene in sé il germe del conflitto, e di un conflitto a armi dispari. La Anna di Un cuore arido mostra uno dei modi possibili di affrontare questo squilibrio.
Ciononostante nel 1974 un testo di riferimento del femminismo italiano colloca Cassola fra I padri della fallocultura,[1] responsabili di aver descritto una femminilità subalterna, equivoca, debole e insieme pericolosa, e di aver imprigionato le donne nella dicotomia cultura/natura, dove al maschile spettano l’attività e il pensiero razionale, al femminile la passività e la ripetizione.
L’accusa riflette l’atmosfera di quei primi anni Settanta. Sull’onda del femminismo, sempre più donne avevano preso atto che i discorsi in circolazione non rendevano loro giustizia su niente o quasi e, dopo aver rotto il vecchio vincolo di fedeltà al mondo degli uomini, si applicavano a smontarne ideologie e stereotipi – nella quotidianità, in politica, nella cultura. A cominciare dalla pretesa maschile di rappresentare il soggetto unico e universale. La consapevolezza che i soggetti sono due, uomo e donna, e che il primo non può parlare per il secondo, era un “arrivano i nostri” della libertà così seducente da rendere simpatici ancora oggi certi eccessi di cipiglio e la perentorietà di alcune generalizzazioni.
Ma quel giudizio resta ingeneroso. Alle due autrici Cassola aveva risposto che le sue protagoniste erano donne degli anni Trenta e Quaranta. Donne, dunque, soffocate dal greve virilismo fascista innestato su una cultura patriarcale e su una religiosità bigotta. Donne intimorite dalla sessualità maschile, angosciate dal dilemma fra respingerla (e perdere il fidanzato) o compiacerla (e magari perderlo ugualmente, insieme alla rispettabilità). E se durante la guerra i ruoli maschili e femminili erano spesso cambiati, con il ritorno alla normalità si erano in buona parte ristabiliti. Come si poteva pretendere che le donne di allora fossero «campioni di razionalità e di modernità»?[2]
È una giusta affermazione di principio, ma fa torto al Cassola narratore, che in virtù dell’adesione alle sue donne riesce a vedere molto al di là dell’associazione femminilità-natura, o del paradigma dell’oppressione, secondo cui la storia è una catena di sopraffazioni maschili e di sofferenze femminili senza scampo. Le sue ragazze e spose sanno negoziare il proprio assenso alle norme, manipolare i rapporti, farsi valere, trasgredire cercando di non pagarne il prezzo. Possono vincere o perdere, resta il fatto che sono soggetti che cercano di decidere la propria vita, che a volte si fanno complici del maschile, che creano le proprie reti di relazione e esercitano facoltà e veti – avere un potere limitato non equivale a non averne affatto. Negli scenari cari all’autore, scenari del quotidiano, del privato, delle cose all’apparenza piccole e tenute ai margini, l’impronta femminile è visibilissima. Ne escono narrazioni punteggiate di scarti e ambivalenze – ciascuna donna i suoi scarti, ciascuna le sue ambivalenze.
La Anna di Paura e tristezza ha poco in comune con la Anna di Un cuore arido, che la precede di quasi dieci anni. È una bimba poi ragazza contadina, costretta a spostarsi dalla campagna alla città. Bellissima, luminosa, vivace, si misura fra ansie e speranze con il nuovo ambiente, cerca di decifrarne le regole per capire cosa si sente di accettare e cosa no. Nella campagna e nella polverosa dimora nobiliare in cui è a servizio sembra non succedere niente, ma nel suo cuore scorre molta vita presente e passata. La tenerezza provata da bambina nel rapporto con un ragazzino sfollato; la gratitudine verso la madre che ha trovato il coraggio di averla pur in assenza di un marito; la scoperta di abitudini sconosciute; l’innamoramento. Il prescelto è un alabastraio che la affascina e la turba, ma che di lì a poco parte per il servizio militare. E la forza di lei si disfa. Quando un contadino del paese, un vecchio corteggiatore cui si è data per inerzia, la mette incinta, sente di aver perso ogni valore, e finisce per rassegnarsi a un matrimonio di riparazione. Tradendo se stessa e uscendone sfigurata – corpo appesantito, bocca vuota di denti, capelli radi nascosti sotto un fazzoletto, la salute perduta per le gravidanze e il lavoro ininterrotto.
Un’altra Anna, quella di Fausto e Anna (1952 e 1958), è diversa da tutte e due le sue omonime. Nel romanzo, l’amore fra un velleitario ragazzo della borghesia e una ragazza del piccolissimo ceto medio si logora nell’indecisione di lui, che vorrebbe essere aspettato indefinitamente; al contrario Anna va avanti con la sua vita, si sposa, ha una bambina, e a Fausto riserva sì un posto nel suo cuore, ma un posto residuale, quasi un omaggio a un passato che, pur restando amabile nel ricordo, non deve interferire con il presente. (continua…)

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domenica, 20 aprile 2014

AUGURI DI BUONA PASQUA DA LETTERATITUDINE

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giovedì, 3 aprile 2014

Osservatorio LitBlog n. 31

(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)

a cura di Francesca G. Marone

I somari di ieri e di oggi

(da “Le parole e le cose“)

Ricorderete tutti il Franti del libro Cuore, l’impertinenza fatta ragazzo, l’intolleranza totale alle regole del vivere civile e della convivenza scolastica, di certo se andiamo un po’ indietro con la memoria ai nostri anni della scuola, troveremo un Franti nella nostra classe. Tutti l’hanno avuto, ad alcuni ha fatto paura ad altri ha suscitato simpatia. Fermo restando le opportune considerazioni che ognuno di noi può fare sul libro di Edmondo De Amicis, pubblicato nel lontano 1886 in un paese in cui si era dato inizio alla legittima ma difficile battaglia per la scolarizzazione, allungando e portando a tre anni il termine di obbligatorietà nella scuola elementare ( Legge Coppino), il testo rappresenta uno specchio dello spirito dell’epoca e un’espressione della volontà di focalizzare attenzione e interesse alla funzione della scuola nella formazione delle nuove generazioni. Chi sarebbe Franti oggi? E con quali strumenti un maestro potrebbe gestire una personalità difficile oppure per usare le parole di Umberto Eco “malvagia” «è l’incarnazione del male, principio assoluto, senza fondo e senza storia» (Eco , Elogio di Franti). Vi propongo la lettura di questo saggio particolarmente interessante dove la figura di un diverso viene vista con occhi di scrittori come  P. Mastrocola, E. Affinati- che ha avuto esperienze dirette con ragazzi cosiddetti difficili- e D.Pennac.  Le riflessioni sulla realtà scolastica non sono mai abbastanza, una lettura che consiglio a tutti perché insieme possiamo trovare strumenti adatti a non relegare “i nostri Franti” in spazi recintati ma ad imparare a coinvolgerli e integrarli, un atto consapevole come risposta di un’intera società civile.

Per approfondire, cliccate qui…

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Una risata intelligente ci salverà

(da “Doppiozero“)

(continua…)

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domenica, 8 dicembre 2013

È online la puntata con STEFANO TETTAMANTI, ospite di “Letteratitudine in Fm” di venerdì 6 dicembre 2013

stefano-tettamanti-e-laura-grandiÈ online la puntata con STEFANO TETTAMANTI, ospite di “Letteratitudine in Fm” di venerdì 6 dicembre 2013

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Stefano Tettamanti è stato l’ospite della puntata di “Letteratudine in Fm” di venerdì 6 dicembre 2013. Abbiamo discusso del rapporto tra cucina e letteratura concentrandoci sul volume “A capotavola. Storie di cuochi, gastronomi e buongustai” (Mondadori) che Stefano Tettamanti ha scritto insieme a Laura Grandi (sua socia nell’agenzia letteraria Grandi & Associati).

Su LetteratitudineNews è possibile leggere il capitolo dedicato a Ernest Hemingway.

Nella seconda parte della puntata, approfittando della presenza di Stefano Tettamanti, abbiamo discusso sul ruolo delle agenzie letterarie (e su come questo ruolo è cambiato e si è sviluppato in questi ultimi anni).

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Letteratitudine in Fm va in onda su Radio Hinterland il venerdì mattina (h.13 circa) e – in replica – il martedì sera (h. 20,30) e il mercoledì mattina (h. 11,00). Per dettagli, consulta il palinsesto della radio.

Puoi ascoltare Radio Hinterland in Fm su 94.600 nelle province di Milano e Pavia, oppure in streaming via Internet cliccando qui.

È possibile ascoltare le puntate precedenti, cliccando qui.

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(continua…)

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lunedì, 7 ottobre 2013

LetteratitudineNews: dal 30 settembre al 6 ottobre 2013

LetteratitudineNews: dal 30 settembre al 6 ottobre 2013

© Letteratitudine

(continua…)

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martedì, 24 settembre 2013

IL PRIMO E L’ULTIMO FILM DI ALBERTO BEVILACQUA

Dedichiamo il primo appuntamento di PELLICOLE ITALICHE da rivedere, curato da Gordiano Lupi, a due film di Alberto Bevilacqua (scomparso recentemente): il primo (La califfa, 1970) e l’ultimo (Tango blu, 1987).

A fine post potrete vedere, “La califfa” (film completo) e “Tango blu” (prima parte) disponibili su YouTube.

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LA CALIFFA (1970)

di Alberto Bevilacqua

Regia: Alberto Bevilacqua. Soggetto e Sceneggiatura: Alberto Bevilacqua. Fotografia: Roberto Gerardi. Montaggio: Sergio Montanari. Musiche: Ennio Morricone. Scenografia: Giantito Burchiellaro. Costumi: Luciana Marinucci. Produzione: Mario e Vittorio Cecchi Gori. Casa di Produzione. Fair Film. Distribuzione: Titanus. Genere: Drammatico. Durata: 99’. Interpreti: Romy Schneider (doppiata da Rita Savagnone), Ugo Tognazzi, Marina Berti, Roberto Bisacco, Gigi Ballista, Guido Alberti, massimo Serato, Franco Ressel, Massimo Farinelli, Giancarlo Prete, Stefano Satta Flores, Gigo Reder, Gianni Rizzo, Nerina Montagnani, Eva Brun, Luigi Casellato, Enzo Fiermonte.

La califfa è il primo film di Alberto Bevilacqua, tratto dal suo terzo libro, edito nel 1964, un successo di vendite importante che anticipa la vittoria del Premio Campiello del 1966 con Questa specie d’amore. Romy Schneider è la sensuale interprete, che presta volto e corpo a Irene Corsini, la Califfa, vedova di un operaio ucciso dalla polizia, presentata con un intenso piano sequenza che tornerà nel drammatico finale. Ugo Tognazzi è l’imprenditore dal volto umano, innamorato della proletaria contestatrice, che per amore va incontro agli operai e lotta con loro per risolvere i problemi della fabbrica.
La califfa è ambientato a Parma, città natale di Bevilacqua, da lui immortalata in racconti, romanzi poesie e lungometraggi. Irene Corsini è la donna fortificata dal dolore, che si pone a capo di una protesta operaia scoppiata all’interno della fabbrica di Doberdò (Tognazzi), ma finisce per innamorarsi dell’industriale. Al suo fianco il magnate scopre una nuova realtà, capisce che esiste un modo diverso e più umano di fare impresa. Non riesce a farlo capire ai colleghi, che in un drammatico finale lo uccidono e gettano il suo cadavere accanto al muro della fabbrica. Sangue che scorre tra le mani di Irene, una nuova ferita della vita.
La califfa non gode di un grande budget, motivo per cui Bevilacqua sceneggia soltanto la seconda parte del romanzo e utilizza più volte le stesse sequenze per alcune sequenze oniriche. Non solo, certi personaggi vengono del tutto omessi, incentrando l’attenzione soltanto sui protagonisti principali. Mancano molti dialoghi, importanti per capire la relazione tra Doberdò e Irene, persino il finale è diverso, più cinematografico, perché il romanzo si conclude con la morte dell’imprenditore per cause naturali. Le location della pellicola sono Parma, Spoleto, Terni, Colleferro e Cesano di Roma. Stupenda la colonna sonora di Ennio Morricone, a tratti dotata di sonorità western, che accompagna situazioni riconducibili ai duelli e le rese dei conti nel cinema di genere. Ottima la fotografia di Roberto Gerardi. Bevilacqua è alla prima regia, ma mostra di saperci fare con i piani sequenza, usa un po’ troppo lo zoom (ma era un male del periodo storico), sceneggia con tono poetico le situazioni iperrealistiche di un film metaforico e didascalico. Gli attori sono straordinari. Ugo Tognazzi è un perfetto imprenditore figlio di contadini che, grazie all’amore, passa dal pragmatismo alla sfida romantica nei confronti del potere. Tognazzi non è nuovo a interpretare parti da imprenditore e da ricco borghese, ma Bevilacqua lo pone a confronto con un testo poetico. “Oggi il potere non ha più bisogno di eroi né di leoni. Oggi ha bisogno di poeti”, dirà. E riferendosi a un passato da povero: “Me ne sono andato per non vedere più quella macchia di umidità sopra la mia testa”. Romy Schneider è di una bellezza prorompente, fotografata in stupendi primi piani, tra le cariche della polizia e il sangue che scorre. Un personaggio adatto alle sue caratteristiche femminili, una donna forte e innamorata, disposta a mettersi in gioco. Bevilacqua è molto bravo a raccontare l’animo femminile e a comporre insoliti ritratti di donne sopra le righe. Tra i caratteristi Gigi Ballista è a suo agio come imprenditore, ruolo che ripeterà all’infinito nella commedia sexy, Stefano Satta Flores è un operaio che si vede lo spazio di una sequenza, Gigi Reder (il Fillini di Fantozzi) è un servile cameriere, Giancarlo Prete (il culturista dei postatomici) è l’amante sfruttato dalla califfa, Massimo Serato è l’industriale fallito che si suicida. Bevilacqua racconta la società italiana di fine anni Sessanta con gli imprenditori d’assalto, le fabbriche che chiudono, gli operai che occupano e chiedono rispetto per il lavoro. Vediamo le cariche della polizia, gli imprenditori suicidi dopo il fallimento, le proteste di piazza. Il quadro sociale è accompagnato da un’analisi spietata dei rapporti borghesi tra moglie e marito, la passione che si stempera, il tradimento, ma pure il contrasto generazionale padre – figlio non sfugge alla critica. “Se padre e figlio scappassero insieme per raggiungere non si sa quale meta, probabilmente non accadrebbe niente”, dice Tognazzi. Intensi ma a volte troppo retorici e ridondanti i discorsi del padrone agli operai, così come le immagini della lotta di classe risultano troppo stilizzate. Notevole l’immagine della fabbrica come un dio pagano dove gli operai si recano ogni giorno per rendere omaggio all’altare della produzione. Ricordiamo alcune sequenze oniriche: il fiore che blocca gli ingranaggi dell’azienda, la califfa che rinchiude il padrone in una stanza per farlo morire tra i miliardi… Le scene erotiche sono molto soft ma ben recitate dai due interpreti, credibili e convincenti; la Schneider buca lo schermo in alcune sequenze che la vedono sfoggiare plastici nudi a figura intera. Un difetto è l’eccesso di ideologia sessantottina, ma resta un prodotto del suo tempo e va storicizzato. L’operaia ribelle e l’imprenditore hanno in comune il coraggio, le origini umili, la voglia di credere in un progetto e l’illusione di cambiare il mondo. Ma sarà la cruda realtà a vincere sui loro sogni.

Rassegna critica. Morando Morandini (tre stelle di critica e di pubblico): “La sorpresa di questa commedia a sfondo sociale è un Tognazzi che dà prova della sua inesauribile versatilità di attore straordinariamente padrone delle sue reazioni e dei suoi toni. Come operaia Romy Schneider convince meno. Il fico migliore nel bigoncio di Bevilacqua da Parma”. Una recensione non condivisibile, a partire dalla conclusione, passando per i dubbi sulla Schneider, per finire con la definizione di commedia a un film drammatico e iperrealista. Paolo Mereghetti stronca senza pietà (una stella): “L’esordio di Bevilacqua, dal suo romanzo omonimo, è un ritratto femminile che si perde tra generici (e gratuiti) riferimenti alle tensioni sociali del periodo”. Pino Frainotti torna a concedere tre stelle, senza un giudizio critico, ma fornendo una valutazione condivisibile.

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TANGO BLU (1987)

di Alberto Bevilacqua

Regia, Soggetto e Sceneggiatura: Alberto Bevilacqua. Produzione: Michele Janczarek e Giuseppe Giovannini per Be – Mer Film. Distribuzione: Columbia Pictures Italia. Produttore Rai: Roberta Cadringher per Rai Uno. Organizzatore Generale: Giorgio Morra. Scene: Lorenzo Baraldi. Costumi: Gianna Gissi. Fotografia: Pierluigi Santi. Operatore alla Macchina: Mario Cimini. Direttore di Produzione: Nicolò Forte. Montaggio: Nino Baragli. Musiche: Stelvio Cipriani. Aiuto Registi: Walter Italici, Inigo Lenzi. Teatri di Posa: Incir/De Paolis. Interni: Teatro dell’Opera (Roma), Discoteca Central Park (Milano). Interpreti: Franco Franchi, Maurizio Merli, Andrea Roncato, Gigi Sammarchi, Leo Gullotta, Antonella Ponziani, Armando Marra, Andrea Belfiore, Roberto De Marchi, Gloria Paul, Big Laura, Vic Poletti, Antonio Ballerio, Carlo Dapporto, Valentina Cortese, Ginella Vocca, Giuseppe Carlostella, Antonio Caffari. Partecipazione Speciale: Corpo di Ballo Cooperativa Culturale di Milano.
(continua…)

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lunedì, 18 aprile 2011

LIBERTÀ di Jonathan Franzen

La parola “libertà” è insita nel Dna e nell’immaginario collettivo degli Stati Uniti d’America. Basti pensare a uno dei più noti simboli nazionali americani e, per certi versi, del mondo intero: La libertà che illumina il mondo (in inglese, Liberty enlightening the world), ovvero la “Statua della Libertà”.
Ed è proprio sul concetto di libertà che vorrei ragionare, partendo dalla formulazione di alcune domande.

Cosa deve intendersi esattamente per libertà?

Il concetto di libertà è uguale ovunque e in ogni tempo?

Essere liberi, equivale a essere felici?

Esiste una relazione tra libertà e responsabilità?

Il concetto di libertà coincide più con un’esigenza realizzabile o con un’utopia a cui tendere?

È più punto d’arrivo o punto di partenza?

Quali sono i suoi pro e contro?

Fino a che punto la libertà può essere circoscrivibile, comprimibile… e continuare a ritenersi tale?

E ancora… Esistono schiavitù mascherate da libertà? Fino a che punto ci si può ritenere davvero liberi?

Sono queste le domande del post (a cui vi invito a rispondere).
L’input ce lo fornisce il nuovo romanzo dello scrittore americano Jonathan Franzen, intitolato – appunto – “Libertà” (Einaudi, 2011, traduzione di Silvia Pareschi).
Vi propongo il seguente brano estrapolato dal libro, a supporto del tema oggetto della discussione.

“La gente è venuta in questo Paese o per il denaro o per la libertà. Se non hai denaro, ti aggrappi ancora più furiosamente alle tue libertà. Anche se il fumo ti uccide, anche se non hai i mezzi per mantenere i tuoi figli, anche se i tuoi figli vengono ammazzati da maniaci armati di fucile. Puoi essere povero, ma l’unica cosa che nessuno ti può togliere è la libertà di rovinarti la vita nel modo che preferisci.”

Quella che segue, invece, è la scheda del romanzo (la riporto che capire meglio di cosa stiamo parlando). Walter e Patty erano arrivati a Ramsey Hill come i giovani pionieri di una nuova borghesia urbana: colti, educati, progressisti, benestanti e adeguatamente simpatici. Fuggivano dalla generazione dei padri e dai loro quartieri residenziali, dalle nevrosi e dalle scelte sbagliate in mezzo a cui erano cresciuti: Ramsey Hill (pur con certe residue sacche di resistenza rappresentate, ai loro occhi, dai vicini poveri, volgari e conservatori) era per i Berglund una frontiera da colonizzare, la possibilità di rinnovare quel mito dell’America come terra di libertà “dove un figlio poteva ancora sentirsi speciale”. Avevano dimenticato però che “niente disturba questa sensazione quanto la presenza di altri esseri umani che si sentono speciali”. E infatti qualcosa dev’essere andato storto se, dopo qualche anno, scopriamo che Joey, il figlio sedicenne, è andato a vivere con la sua ragazza a casa degli odiati vicini, Patty è un po’ troppo spesso in compagnia di Richard Katz, amico di infanzia del marito e musicista rock, mentre Walter, il timido e gentile devoto della raccolta differenziata e del cibo a impatto zero, viene bollato dai giornali come “arrogante, tirannico ed eticamente compromesso”. Siamo negli anni Duemila, anni in cui negli Stati Uniti (e non solo…) la libertà è stata come non mai il campo di battaglia e la posta in gioco di uno scontro il cui fronte attraversa tanto il dibattito pubblico quanto le vite delle famiglie”.

Vi invito a discutere del concetto di libertà, dunque; ma anche ad approfondire la conoscenza di Jonathan Franzen e di questo suo nuovo romanzo, che è stato da più parti additato come il caso letterario del decennio.
Lo sto iniziando a leggere solo adesso, per cui – per il momento – non posso esprimere un parere. Non ho alcuna difficoltà, però, nel dire che il precedente romanzo (“Le correzioni”) mi ha entusiasmato.
In America, a Franzen, è stato offerto il trono riservato ai grandissimi. Come ci ha ricordato Antonio Monda (sulle pagine di Repubblica), Il Time ha dedicato a Franzen la copertina (privilegio riservato in passato solo ad autori del calibro di Joyce, Nabokov, Updike, Salinger e Toni Morrison) con il titolo “Great American Novelist”; il New York Magazine ha parlato dell’”opera di un genio”, e il New York Times Book Review lo ha definito “un capolavoro”. Persino la temutissima Michiko Kakutani – ci ricorda Monda – lo ha definito “indimenticabile”, e Obama lo ha indicato come propria lettura estiva. L’unica eccezione autorevole è rappresentata da Harold Bloom, che ha parlato di un autore sopravvalutato dalla critica.
Capolavoro assoluto, dunque?
In Italia non sono mancate le lodi, ma nemmeno le perplessità. Nel corso del dibattito vi segnalerò – per par condicio – le opinioni positive del già citato Antonio Monda (la Repubblica), Paolo Giordano (Corriere della Sera), Masolino D’Amico (La Stampa – Tuttolibri); e quelle negative di Tim Parks (“Domenica” del Sole24Ore), Nicola Lagioia (“Domenica” del Sole24Ore), Gian Paolo Serino (“Il Giornale”).

Francesco Pacifico invece (“Domenica” del Sole24Ore) ha cercato di trovare un punto di equilibrio tra sostenitori e detrattori.

Sul concetto di libertà segnalerò inoltre il pezzo di Sandra Bardotti pubblicato su Wuz.

Coinvolgerò nella discussione anche la citata Silvia Pareschi (la brava traduttrice di Franzen), che interverrà da San Francisco.

Qui di seguito, a fine post, trovate un video: è un estratto della chiacchierata tra Jonathan Franzen e Fabio Fazio a “Che tempo che fa”.

A voi, cari amici, il compito di riempire questa pagina di ulteriori contenuti con le vostre risposte, le vostre opinioni e contributi di vario genere.
Grazie in anticipo.

Massimo Maugeri

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domenica, 19 ottobre 2008

CHIUSURA DI RUBRICA

Desideravo comunicare che Sergio Sozi e io, di comune accordo, e dopo un sereno scambio di opinioni, abbiamo deciso di chiudere la rubrica “Ritorno ai classici”. Questo a seguito di una “diversità di vedute” emersa anche da un nostro epistolario privato che comunque non influirà minimamente sulla nostra amicizia. Sergio Sozi rimane un amico di Letteratitudine e sarà il benvenuto ogni volta che desidererà intervenire (naturalmente rispettando lo spirito che ho desiderato imprimere al blog).
La rubrica, per il momento, rimarrà visibile sulla colonna di destra del blog (anche se non verrà aggiornata). E sarà comunque presente sul libro-Letteratitudine in uscita.
La suddetta rubrica, inoltre, non verrà affidata ad altri (per mia precisa scelta), e – in ogni caso – la sua chiusura non ci impedirà di discutere dei classici della letteratura.
Vi prego di rispettare questa nostra decisione evitando di commentarla (ed evitando così di metterci in imbarazzo).

Postato Mercoledì, 19 Novembre 2008 alle 11:55 pm da Massimo Maugeri

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Confermo seduta stante quanto scritto qui sopra da Massimo per comune volonta’ e concorde decisione. Un’amicizia ormai biennale, fatta anche di collaborazione e lavoro, non si cancella di sicuro con la cessazione di una rubrica. Da aggiungere c’e’ soltanto un dato fondamentale riguardante il sottoscritto: sono aduso scrivere a penna e sulla carta; toccare e guardare in faccia le persone; esprimere per iscritto molti (solo benevolenti) sottintesi. E questo crea una mia certa inadeguatezza al mezzo elettronico. Insomma vivo nel secolo XX ed ho un piede nel XIX – percio’ non moriro’ di certo nel XXI. Come non morranno i miei sentimenti per Letteratitudine e per il suo creatore, Massimo Maugeri, a cui devo infiniti ringraziamenti e stima imperitura.
Sergio Sozi

Postato Giovedì, 20 Novembre 2008 alle 12:41 am da Sergio Sozi

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venerdì, 10 ottobre 2008

IL PRIMO AMORE NON SI SCORDA MAI, ANCHE VOLENDO di Roberto Alajmo

iltempodellemele.jpgIn questo periodo di forti ansie caratterizzato dai crolli di Borsa e dallo spettro di una recessione globale che pare difficilmente evitabile, ogni tanto – per tirare un po’ il fiato – può essere utile pensare con leggerezza al proprio passato.
Ecco. Provate a tornare un po’ indietro nel tempo…
Vi ricordate, per esempio, la prima volta che avete corteggiato qualcuno (o che qualcuno ha corteggiato voi)?
E il primo bacio?
Chi se lo ricorda?
È stata un’esperienza magica o… imbarazzante? Vi è mai capitato di pensarci, seppur a distanza di anni?
Roberto Alajmo ci ha ri-pensato. E ha scritto questo divertentissimo pezzo.
Vi invito a leggerlo e a interloquire con lui.
E poi… be’… raccontate la vostra esperienza, se vi va. Il primo bacio. Il primo corteggiamento. O anneddoti raccontati da altri o di cui voi siete stati testimoni.
Infine, sarà proprio vero che il primo amore non si scorda mai… anche volendo?
Massimo Maugeri

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IL PRIMO AMORE NON SI SCORDA MAI, ANCHE VOLENDO
di Roberto Alajmo

Poi arriva quell’estate in cui tutti si innamorano. Tutti si innamorano di tutti. Un mese prima, una settimana prima, per l’altro sesso ogni femmina è stucchevole e ogni maschio è puzzolente; un mese dopo, una settimana dopo, invece, è come se avesse ceduto una diga e fosse venuto giù tutto quanto.
Un’inondazione ormonale. Tutti i ragazzi si innamorano allo stesso tempo di tutte le ragazze. E viceversa, si spera. Dev’essere qualche polline nell’aria di inizio giugno, perché non è pensabile che i brufoli sentimentali dell’intera generazione attorno ai tredici anni decidano di sbocciare esattamente nella stessa settimana dello stesso mese dello stesso anno.
Insomma, arrivò quell’estate miracolosa e anche io mi innamorai: di tutte le femmine nel loro complesso, più un certo numero di femmine nello specifico. (continua…)

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venerdì, 4 aprile 2008

DUE RACCONTI DA PANCHINA. DORA ALBANESE, GERMANO MILITE

Nuovo post sulla rubrica “Giovani scrittori crescono (selezione under 30)”.

Vi propongo due racconti diversi, ma che si assomigliano.

Gli autori sono Dora Albanese (di cui ho già pubblicato due racconti qui e qui) e Germano Milite (che ha pubblicato altri suoi racconti sulla rubrica Iperspazio creativo).

Due racconti “intimisti” e introspettivi. Due racconti che presentano voci narranti alla ricerca di qualcosa o di qualcuno. Atmosfere diverse, ambientazioni diverse. Ma è proprio la “ricerca” ad accomunare le due storie.

E poi le panchine. In entrambi i racconti troverete panchine dove i protagonisti, a un certo punto, si siedono. Nel racconto di Dora la panchina è di pietra; in quello di Germano – invece – è di marmo.

La duplice comparsa dell’elemento panchina è puramente casuale. Eppure mi sembra che abbia una sua significatività. Per questo ho deciso di intitolare questo post: “Due racconti da panchina.”

Vi invito a leggerli e a commentarli, interagendo con i due giovani autori.

Buona lettura.

Massimo Maugeri

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I LUMI SPENTI DI PIAZZA NAVONA

di Dora Albanese

L’anima mia, uno strumento a corde,

canta toccata dall’invisibile

una canzone di gondoliere,

trepida di colori e beatitudine.

C’era qualcuno forse – ad ascoltarla?…”

Nietzsche, Le poesie

 

“… questa giovinezza tanto vantata

il più delle volte mi appare come un’epoca ancora rozza della nostra esistenza,

un’età opaca e informe,

malsicura e fuggevole .”

Yourcenar, Memorie di Adriano

 dora-albanese.jpg

Ho camminato a piazza Navona da sola questa sera, stretta nel mio paltò doppiopetto beige. E’ la prima volta dopo tanti anni che torno qui, sola. E’ così cambiata da allora, così buia e vuota, che quasi m’intenerisce lei, invecchiata e stanca e pure ancora calpestata da piedi e da carrozze.

E come il volto di una donna vecchia che getta i trucchi nel gabinetto, rassegnata alla perduta giovinezza, anche lei cessa d’indossare i trucchi che sono i lampioni, e non gli accenderà questa sera e chissà per quante altre sere ancora. Nel cielo volano come brevi fuochi d’artificio le stelline colorate degli ambulanti pachistani, corteggiatori giullari di donne e bambini.

Il mio sguardo come anche la mia memoria, difficilmente sostengono questo cielo romano lasciato spento, indi nero. Il buio anima le mura curve della chiesa, che sembra si inchinino ai piedi di chi passa, indi anche ai miei; e suggestionata piego il capo sul petto, mentre i ricordi mi riempiono gli occhi.

Entra nelle mie narici, come l’avessi ancora al mio fianco, il profumo di tabacco secco della pipa di Giorgio; e il cuore mi duole quando volto la testa e cerco il suo corpo con ancora addosso il paltò doppiopetto beige che adesso riscalda me. Lo cerco disperatamente, credendo ancora alle favole, ma ovviamente non lo trovo e non lo troverò mai più, non vedrò mai più questo paltò addosso a chi condivise con me il suo passeggio, sempre stretto al mio fianco; anche la mia ombra sembra avverta l’assenza di Giorgio: è forse per questo che adesso sul muro si torce.

Un capogiro mi stordisce un istante mentre vengo trascinata dal vorticoso sentimento nostalgico che si prende cura di me ora che sono sola.

Respiro savia il suo ricordo e mi cingo il busto con le mani, come avrebbe fatto lui stringendomi al petto, poi nascondo il mento in gola, e mentre cammino cerco con lievi movimenti oscillatori del capo, di accomodarlo il meglio possibile; come una gallina che si accovaccia nel suo nido: è una danza disperata la mia.

Oh, inconsolabile malinconia che circoli nelle vene come fossi sangue malato, liberami dal peso di questi ricordi che tanto mi lasciano in pena.

L’aria statica sembra ascolti il demone della malinconia che si gioca di me: per questa ragione è ferma di fronte alla mia danza.

Non basterà tutta la vita per accettare la sua scomparsa, non basterà il suo ricordo a consolarmi: lo rivorrei e null’altro poi potrebbe gioirmi.

Rivorrei indietro il suo modo di pronunciarmi al mattino e la sua urgenza di amarmi.

Ludo’ Ludo’ Ludovica, amore mio” ecco, diceva proprio così caro Lettore; con un lieve accento spagnolo ereditato dal padre, chinava le labbra sulle mie, carezzandole dolcemente, e con ancora la bocca impastata dalla notte – non temevamo il confronto, ci amavamo senza freni – la apriva al bacio, e io senza alcun indugio facevo lo stesso, gustando così ognuno il sapore dell’altro.

E certamente con un bacio salutava i miei occhi e con una mano i miei capelli, accomodandoli con le dita dal disordine della notte.

- Quanto l’ho amato – penso mentre mi siedo su una panchina di pietra, e penso pure che questa solitudine mi ammazza ogni giorno più fortemente. Mentre con una mano mi levo dagl’occhi il pianto fatto, con l’altra cerco – frugando nella borsa e scompigliando ogni cosa, com’avendo in corpo la stessa ansietà di un ladro, come fossi estranea delle mie stesse cose – cerco l’accendino e una Cartier, la tiro fuori dalla borsa tenendola già tra l’indice e il medio, poi l’accendo senza portarla alla bocca e subito prende vita: ho così la certezza che l’aria ha ripreso a muoversi.

Avevo quindici anni e una zingara alla stazione Tiburtina, trattenendomi con un sorriso dorato, chiese di potermi leggere la mano; feci finta di niente, ero troppo piccola, non avevo soldi a sufficienza e forse ella mi avrebbe solamente derubata. Non so perché mi ritorna in mente dopo tanti anni, non so perché caro Lettore mi ritorna in mente quel sorriso dorato e quella verità che la mia mano trattiene ancora adesso che la guardo, è come quando si volge lo sguardo al cielo ricordandosi di Dio.

Poco distante da me c’è un’altra panchina resa opaca dall’umidità. Due ragazzi ci si siedono sopra non badando a quel leggero strato di bagnato. Certo, queste accortezze non si hanno a sedici anni, perché è di quell’ età che si tratta caro Lettore, sono i loro zaini che me ne danno conferma: sempre presenti, mai fuori luogo, consumati e scarabocchiati, abbelliti da ciondoli e da sonagli. Si baciano nell’ombra di questa piazza ammalata, con i busti uniti e le gambe incrociate, imitando un amplesso che presto arriverà, magari quando lei sarà diventata maggiorenne. E’ bello pensare che per adesso si stanno solo immaginando nel gesto d’amore; e mentre lei, più piccola e dolce si contenta di essere pensata, lui di qualche anno più maturo, si diverte a fantasticare le labbra della sua giovane amica schiuse al godimento quando per la prima volta lo troveranno dentro.

- Mi piacerebbe avere un po’ del loro tempo.

Un violino e un’armonica suonano accompagnati dalle corde di una chitarra pizzicate come fossero teneri polpacci di fanciulla.

Il ragazzo che le fa vibrare ha la pelle colorata di nero, ed è così bello anche se la notte gli maschera il volto, che resto a guardarlo mentre lui indifferente continua ad amare quella donna-chitarra e a carezzarle il ventre col plettro, non alzando mai lo sguardo.

Lo guardo, provando ad accettare un’altra bellezza maschile, provando a emozionarmi ancora.

Capisco dopo poco che sono gli altri due strumenti – il violino e l’armonica – ad accompagnare le corde della chitarra. Il bel ragazzo suona una musica d’addio e canta graffiando la voce. Il mio corpo… una sensazione strana lo pervade, sarà forse il risveglio di chi abita in me: una dama dell’Ottocento, o forse un principe azzurro rimasto ancora rana.

Ecco, è di tristezza che sto parlando; essa si sveglia e si attorciglia al cuore come una serpe a contatto con la voce rauca del bel ragazzo che canta la sua vita, e che non chiede nulla: né spiccioli né pane, solo la possibilità di rivolgere il suo canto profondo al cielo e agli astri, a qualche messaggero che si nasconde tra le nuvole e che ci guarda, guarda i nostri corpi caro Lettore, banali contenitori del tempo che passa; li osserva mentre vanno avanti e indietro, girano a vuoto sempre alla ricerca dell’altro, magari di un gesto, uno qualunque, il più lontano possibile dalle proprie dimore, dai propri affetti; l’importante è che non li assuefaccia, che non li rimetta rapidamente nello scorrere quotidiano della vita.

La sigaretta finisce e la spengo premendo il filtro bruciato sulla panchina, poi la getto nel cestino verde che mi è accanto. I due ragazzi continuano a baciarsi e a guardarsi, il chitarrista gitano continua a cantare e suonare coi suoi due amici, sicuramente gitani pure loro.

Vorrei accompagnare questa melodia danzando all’aria aperta, senza vergogna; come quando ero bambina e nella terra di Calabria nel mese di agosto, mi divertivo la sera a ballare la musica di certi extracomunitari arabi.

Indossavo sempre una gonna rossa e un bustino a fiori – rossi pure loro – su uno sfondo bianco: risaltava così il mio seno acerbo e mai sfiorato, pronto a offrirsi al primo amore, come quello della ragazza che si bacia sulla panchina di fronte alla mia, e che porta addosso gli anni che portavo io allora.

Ballavo per trasgredire le regole, per far impazzire di rabbia e gelosia i miei genitori, per conquistare i sogni di certi uomini sposati. Adesso però, caro Lettore, ballerei solo per ricordare lui, diventerei una prefica danzante, getterei il pianto ai piedi e li muoverei a ritmo di rumba.

Giorgio era molto più grande di me, e mentre la mia vita stava iniziando ad affrontare la salita – la stessa che tutti, dopo aver compiuto la maggiore età si trovano ad affrontare – la sua iniziava a percorrere una lenta discesa, cosicché col tempo la sua immagine si aggravava maggiormente, perdendo i vivaci contorni maschili di cui mi ero innamorata.

Non avrei mai creduto di dover tornare in questa piazza senza di lui, eppure è successo, sono rimasta sola.

Mi aggiravo per Roma aggrappata al suo braccio, come un cieco aggrappato al suo cane, imparavo a memoria le vie, le strade, le piazze, senza ragionare, non occorreva allora che io ragionassi l’urbanistica romana, avrei camminato sempre con lui, oppure attraverso i ricordi, seguendoli fedelmente.

Mi abituai all’idea di essere in coppia, di apparecchiare per due, di raddoppiare la pasta da bollire, di stirare camicie, di attendere con ansia – sempre la stessa di un cane col suo padrone – la porta aprirsi.

Avrei voluto invecchiare con lui invece che crescere.

I due giovani innamorati stanno andando via, stretti nei loro zaini tenendosi per mano : chissà se li rincontrerò. Adesso che sono passati tanti anni da quando anch’io ero giovane, mi piacerebbe per un attimo voltare le spalle e trovare qualcosa che mi appartenne un tempo, magari un fermaglio colorato o forse degli orecchini, qualcosa insomma che mi colorasse il volto, o forse la prova che il destino lascia traccia di sé, di ciò che è stato.

- Vorrei non aver perso la strada.

Una coppia di turisti è ferma di fronte a una baracca, si fa ritrarre il volto da un’artista ambulante. Sembrano statue di cera i loro volti esposti al colore artificiale di una piccola lampadina giallo scuro attaccata da un filo rosso al tetto del piccolo riparo, e pare un faro in mezzo al mare, con i suoi bagliori sfocati.

I pachistani giullari rimettono a posto i balocchi in una sacca di corda consumata, mentre i bambini ritornano a casa con le loro madri: è l’ora di cena.

Anche le altre piccole baracche di souvenir – che illuminano leggermente la piazza anche loro con delle piccole lampadine – stanno chiudendo. Tolgono dal banchetto il Panteon e il Colosseo, imballandoli scrupolosamente, poi mettono in una sacca di tela i ritratti fatti e li conservano in un camioncino per esporli l’indomani senza neanche una grinza. E’ tutto quello che hanno: volti di stranieri ritratti in pochi secondi.

I musicisti hanno cessato di suonare, bevono una birra seduti sulle scale dell’istituto di cultura Cervantes, proprio di fronte alla mia panchina; a dividerci è solo la strada luccicante di umidità. Continuo a pensare che mi piacerebbe ballare la loro musica gitana, ma non lo faccio e mai più lo rifarò. Non ballerò mai più caro Lettore, ho capito che i ricordi devono rimanere tali, o forse solo delle perdute nostalgie.

Il ragazzo della chitarra, solo adesso sembra si sia accorto di me, indi mi guarda intensamente, come se ne avesse il diritto; e proprio adesso che mi sta guardando, già io non lo vedo più.

Decido di andare via; l’ora si è fatta tarda, e una donna non può sostare a lungo coi propri pensieri all’area aperta; tiro fuori dalla borsa – questa volta senza fatica – un’altra sigaretta, e l’accendo tenendola stretta tra le labbra; saluto la piazza carezzando la panchina fredda, stringo in vita la cinta del paltò e gettando un ultimo sguardo ai lumi spenti, mi incammino con ancora gli occhi pieni di ricordi.

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Dora Albanese è nata a Matera e ha 23 anni. Studia lettere moderne e pubblica racconti su giornali e riviste. Vive a Roma ed è già mamma di un bimbo.

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INFINITO

di Germano Milite

 

 

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Un giorno di circa tre mesi fa, fui colto da un’angoscia indescrivibile. Mi sembrava di impazzire dalla voglia di evasione. Avrei avuto bisogno di un viaggio, lungo e lontano… un viaggio che, come tutti i viaggi spirituali, non sarebbe servito solo per fuggire da qualcosa o da qualcuno ma, anche e soprattutto, per effettuare una ricerca interiore che solo lontano dalle cose che conosci a menadito può riuscirti.

Non avendo però a disposizione abbastanza soldi, dovetti accontentarmi di qualcosa di molto più banale. Presi l’auto e i miei risparmi e mi fiondai in un negozio di articoli sportivi… con 80 euro acquistai un bel paio di pattini in linea. Quel giorno pioveva ma non mi scoraggiai: li misi ai piedi e pattinai per circa due ore, senza avere idea di dove andare e senza curarmi della pioggia che in breve mi aveva infradiciato i vestiti, né degli sguardi un po’ straniti delle persone o del fatto che potessi prendermi una polmonite.

La prima cosa che potreste pensare è: vabè, bravo il pirla; alla fine volevi riprodurre la classica scena da film dove lui, solo e con il cuore a pezzi, se ne va passeggiando sotto la pioggia impietosa. Immagine trita e ritrita, utilizzata in migliaia di romanzi e di pellicole che parlano di storie d’amore finite male. Ammetto che, all’epoca, avevo l’animo straziato da una lei, la classica lei che ferisce i tuoi sentimenti, che ti abbandona e che ti dice, fredda come il ghiaccio, dopo aver condiviso con te un oceano di emozioni: “Mi dispiace, non ti amo più”. Tuttavia, quella mia pattinata “under the rain”, non rappresentò un modo per rendere cinematograficamente scontata la pena d’amore di un ragazzo sentimentale e ancora innamorato.

Quel gesto servì a farmi sentire libero; libero dal tempo, dall’ombrello, dal giorno e dalla notte, dalle prediche dei miei, dai consigli degli amici, dagli esami all’università e dalla voglia di non prendermi la polmonite. Quell’episodio, rappresentò l’appagamento del mio bisogno di tensione verso l’infinito. Ero arrivato a sentirmi così schiacciato dalle dimensioni spazio-temporali, da aver bisogno di spaccarle e di illudermi, almeno per un po’, che non esistessero.

Pensavo agli orologi, ai calendari, alle batterie che si scaricavano, ai pacchetti di gomme che finivano, al serbatoio della mia moto che si svuotava, alle date degli esami che si avvicinavano, al ciclo lunare, al petrolio che si stava esaurendo; persino all’aria che respiravo e mi sentivo così schiavo del tempo, delle cose che finivano e della vita stessa che mi sembrava sul serio di andar fuori di testa. Del resto il tempo nessuno lo può fermare, il tempo passa dall’inizio dei tempi… e allora?! Perché, all’improvviso, vedevo me e il mondo così schiavi delle scadenze?!

In particolare mi angosciavano le batterie che si scaricavano e il continuo bisogno di ricaricarle; il ciclo infinito carica/scarica mi inquietava in maniera indicibile. La batteria del cellulare si esauriva in un giorno, quella del mio lettore mp3 durava al massimo 2 ore; per non parlare di quella della macchina fotografica digitale… e poi quella dello spazzolino elettrico, del cordless. Io stesso, mi sentivo come una batteria e avevo l’impressione che il mondo mi stesse consumando, o meglio, scaricando.

Solo che, una volta finita la mia carica, non potevo attaccarmi a nessun trasformatore e ricominciare da zero…una volta finita l’energia sarei stato out, per sempre. E avrei voluto urlare ai passanti: “Fermatevi; fermatevi cazzo… risparmiate energie, sentite la pioggia, sedevi e non correte, godetevi il mondo, imparate a sentirlo; a viverlo e non a consumarlo”. Ma chi avrebbe dato retta ad un disperato bagnato fino al midollo con un paio di pattini ai piedi?! Non mi restava che godermi la pioggia, donandole i miei vestiti, la mia testa fradicia e tutto il mio corpo come luoghi di schianto. Sentivo di dover essere solidale con lei, visto che, i miei simili, facevano di tutto per scansarla. In effetti, da quando avevo smesso di girovagare e mi ero seduto su di una panchina di marmo, non facevo altro che pensare a quanto dovessero sentirsi sole le gocce d’acqua che scendono dal cielo: scaricate dalle nuvole ed evitate dagli esseri umani… nemmeno fossero schizzi di acido muriatico.

Così chiusi gli occhi, per sentire solo il rumore dell’acqua che veniva giù dall’alto, sempre più vogliosa di inondarmi di scrosciante affetto e mi parve, per qualche istante, di riuscire ad afferrare l’infinito e di avere davanti a me altri mille anni da vivere, confortato dalle lacrime del cielo e con il passo alleggerito dalle rotelle di un paio di pattini.

Su quella panchina, d’un tratto, il mondo mi sembrò incredibilmente semplice, elementare e insieme inspiegabile, proprio come il senso di infinito di cui avevo bisogno e che mi colpì, sparato da nuvole nere le quali, di solito, mi spingevano a ripararmi. Stille di infinito mi colpivano di continuo, senza sosta e mi ricaricavano. Poi aprii gli occhi e rividi il mondo così com’era: uomini con gli sguardi spenti nelle auto, donne che tiravano sfinite i loro pargoli urlanti, una coppia di amanti che si baciava, sotto un portone e io che, all’improvviso, mi sentivo un povero matto schiavo dei suoi viaggi onirici. L’auto era lontana dal punto in cui mi ero fermato e, la cosa, adesso, mi preoccupava non poco. Mi sentivo i piedi stanchi e il freddo dei vestiti bagnati sulla pelle; poi guardai l’orologio e, in quel preciso momento, realizzai che ero tornato nel mondo reale, nel mondo finito… nel mondo dove, chi resta immobile su di una panchina a prendersi la pioggia, si prende anche una polmonite e in cui, chi non guarda costantemente l’orologio, arriva in ritardo.

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Germano Milite ha 21 anni e studia Scienze Politiche Dell’Amministrazione. Lavora come giornalista praticante per la Julichannel (canale 921 di Sky) e scrive articoli sul sito di redazione. Gestisce un blog.

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venerdì, 25 gennaio 2008

IL SUD DELL’EDITORIA. EDITORIA A PAGAMENTO

Questo post ha una duplice valenza. Vi propongo, infatti, contestualmente, un’intervista che Stefano De Matteis – direttore editoriale di Cargo e L’ancora del Mediterraneo – ha rilasciato ad Andrea Di Consoli e un articolo di Gordiano Lupi (che, ricordo, è anche il direttore editoriale della casa editrice Il Foglio) corredato dalla lettera di un aspirante scrittore.

Gli argomenti trattati sono diversi e trovano un punto d’incontro nella “problematica” dell’editoria a pagamento, che già – di per sé – offre grandi opportunità di dibattito.L’intervista a De Matteis affronta ulteriori argomenti che potrebbero essere oggetto di discussione: l’editoria del Sud, la piccola editoria, la promozione dei libri.

Naturalmente vi invito a dibattere sui temi trattati.

Direi di procedere per fasi.

Cominciamo dal tema “editoria a pagamento”, per poi passare agli altri. 

(Massimo Maugeri)

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INTERVISTA A STEFANO DE MATTEIS di Andrea Di Consoli 

Dopo quasi un anno di fermo (il tempo di cambiare promotore, e aumentare il numero delle uscite) “L’ancora del Mediterraneo” e “Cargo”, le sigle editoriali napoletane, tra le principali del Sud, tornano fra qualche giorno in libreria. Dopo aver fatto esordire scrittori come Saviano, Pascale, Lucente e Zaccuri, e dopo aver pubblicato libri di Berardinelli, Naldini, Cederna, Fofi e Niola, si prevede un anno molto ricco per la piccola casa editrice campana.   Il direttore e fondatore delle sigle è Stefano De Matteis, nato nel 1954 a Napoli e formatosi, sin dal 1977, a Milano, lavorando da Feltrinelli, da Garzanti e, dal 1985 al 1992, con Mario Spagnol della Longanesi. Nel 1992 De Matteis decise di ritornare a Napoli, dove prima ha fondato una rivista con Gustav Herling (“Dove sta Zazà”), poi ha collaborato a “Il mulino” e alla pugliese “Argo”, fino a fondare, nel 1999, “L’ancora del Mediterraneo” (“Cargo” nascerà, da una costola de “L’ancora”, nel 2005).

De Matteis, perché nel Sud Italia non è mai nata un’editoria forte, a carattere industriale? 

Primo, perché al Sud non c’è mai stata una vera imprenditoria di mercato. Secondo, perché l’editoria non è mai stata vista come un’attività remunerativa, ma semplicemente come qualcosa che rientrava nei lussi dell’assistenza istituzionale. Quindi non si è mai costituita un’imprenditoria che lavorasse sulla cultura. Non a caso a Napoli c’è San Biagio dei librai, invece non esiste un San Biagio degli editori. La storia editoriale meridionale è soprattutto una storia di tipografie e di librai.

Quali sono, a suo avviso, le principali sigle editoriali del Sud?

Ovviamente “Laterza” e “Sellerio”.

Può l’editoria di progetto avere un legame forte con il proprio tempo?

Certo che può, sia per quel che riguarda L’Italia, sia per il Sud in particolare. Noi, per esempio, abbiamo anticipato quello che poi è capitato a Scampia, oppure il problema dell’immondizia.

Quali sono i principali problemi della piccola editoria di progetto?

Il problema principale della piccola editoria è saper creare un rapporto diretto con il lettore, nel senso che c’è un rapporto difettoso con i lettori, che adesso sta migliorando tramite internet, ma siamo il paese che spende meno su internet, perché non c’è un rapporto fiduciario con questo strumento e con le carte di credito. E poi c’è stato un grande cambiamento in libreria. Le librerie “grandi spazi”, come tutti sanno, smerciano soprattutto i famosi “non libri” per il famoso “non pubblico”.

Cosa significa fare l’editore a Napoli?

La difficoltà è questa: se tu apri un’impresa al Nord, le banche ti guardano come una persona interessante; se tu apri un’impresa al Sud, le banche ti guardano come un “mariuolo”. Noi abbiamo iniziato con capitali privati, non ci siamo mai seduti a nessun tavolo politico o di spartizione culturale, non abbiamo mai voluto nessun vantaggio dalle istituzioni e dall’università. Questa scelta ci è costata molto cara. Solo quest’anno, per la prima volta, faremo un accordo con la Regione Campania, perché pubblicheremo “Questa corte condanna. Spartacus, il processo al clan dei casalesi”, libro a cura di Maurizio Braucci e Marcello Anselmo. In questo caso l’accordo con la Regione è stato interessante, perché permetterà di distribuire il libro nelle scuole, dove verrà fatto un lavoro capillare sull’educazione alla legalità.

Il pubblico dei lettori è peggiorato in questi ultimi anni?

Assolutamente no. C’è stata però una forbice che si è molto divaricata tra quelli che leggono molto e quelli che leggono un solo libro all’anno.

I promotori hanno una grande responsabilità? 

E certo che ce l’hanno, perché devono posizionare bene i libri, fare un braccio di ferro con il libraio, sempre meno motivato. Il libraio purtroppo non è più il consulente dei lettori, ma è uno che riempie le schede e sposta i libri. Un tempo il libraio consigliava, era una figura di riferimento per l’editore. Oggi, con la rotazione che c’è, i librai fanno solo lo spelling sul computer per vedere se un libro c’è o non c’è.

La piccola editoria è anche un luogo di improvvisati e di cialtroni? 

Sicuramente. Ci sono alcuni come me che vengono dall’editoria “pura”, e molti che usano il surplus dei loro guadagni, fatti in altro modo, decurtandoli dalle tasse, e li investono in piccole case editrici. Mantengono quindi in vita una struttura dove non c’è un progetto forte. Se si prende invece Fanucci, e/o, Donzelli, e via a scendere fino a “L’ancora”, c’è un’identità tra imprenditore, ideatore e sistema editoriale. In molti casi, invece, c’è un’estraneità completa.

Ci sono anche speculazioni?

Penso proprio di sì. Ci sono situazioni dove si fanno grossi investimenti, non sempre trasparenti, per costruire marchi che possano funzionare a livello di mercato.

Quali sono le caratteristiche di un’editoria indipendente di progetto?

L’editoria di progetto costruisce un percorso sui tempi lunghi. L’editoria di speculazione, invece, è fatta di improvvisazioni che lasciano ben poco. C’è una tempistica che è completamente diversa, quando fai un’editoria di progetto, perché ti costringi ogni giorno a immaginare il futuro.

E’ rilevante l’editoria a pagamento? E come la giudica?

Purtroppo credo che sia molto rilevante, soprattutto quella che si appoggia all’università, in specie al Sud. Questo tipo di editoria, al di là di qualsiasi ragionamento etico e culturale, non mi piace per due motivi: primo, perché si crea una ridondanza di mercato, perché s’intasano le librerie con prodotti mediocri; secondo, perché si creano una miriade di sigle editoriali senza nessuna credibilità.

Chi sono i nemici dell’editoria di progetto?

I nemici sono tutti quelli che fanno non libri, non cultura, e che non insegnano a leggere. Il vero nemico, come suole dirsi, è la moneta falsa.

Quali sono le differenze tra “Cargo” e “L’ancora del Mediterraneo”?

Cargo” è un marchio nuovo nato nel 2005. Fino ad ora vi abbiamo pubblicato 15 titoli (tra gli altri, Arenas, Grass, Goytisolo), mentre solo nel 2008 ne faremo altri 15. “Cargo” pubblica esclusivamente narrativa straniera, e la direttrice editoriale è Milena Ciccimarra. “L’ancora del Mediterraneo” manterrà la collana “Le gomene”, che pubblicherà libri di attualità e pamphlet, la collana “Odisseo”, che farà gli esordienti e i narratori italiani, e “Gli alberi”, che sarà la collana della saggistica “pura”.

Ci dica alcuni titoli in uscita.

Per “Cargo” è in uscita MacPherson, che è un giornalista di guerra americano, che ha scritto un romanzo su una banda di americani che decide di aiutare il presidente a trovare le armi di distruzione di massa in Iraq. Poi uscirà un altro americano di “disinformations”, che si chiama Nick Mamatas, con un libro intitolato “Come mio padre ha dichiarato guerra all’America”. Per “L’ancora” uscirà un reportage sui rom d’Europa di un austriaco, Gauss, che s’intitola “I mangiacani di Svinia”, perché uno dei grandi olocausti del ‘900 è proprio quello dei rom.

Avete anche pubblicato molti libri sui gulag e sui laogai cinesi.

Adesso facciamo per il “Memento Gulag”, a novembre, la storia di un jazzista russo finito in un gulag. La collana su questi temi si chiama “Un mondo a parte”, in omaggio a Gustav Herling, che è stato, ed è tutt’ora, l’ispiratore de “L’ancora del Mediterraneo”.   

Andrea Di Consoli  

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SULL’EDITORIA A PAGAMENTO di Gordiano Lupi

Da quando ho pubblicato Quasi quasi faccio anch’io un corso di scrittura (Stampa Alternativa, 2004) e Nemici miei (Stampa Alternativa, 2005) ricevo le confessioni e gli sfoghi di tanti scrittori caduti nella rete degli editori a pagamento. Oggi voglio far conoscere quello che ci racconta Simone Pazzaglia, un autore toscano che ha ricevuto una proposta da una casa editrice a pagamento. Lui è d’accordo che venga pubblicizzata una brutta esperienza che può servire anche per altri colleghi. Diffidate degli annunci che trovate sui giornali e soprattutto di chi vi propone di pubblicare (meglio sarebbe dire stampare) il vostro libro in cambio di soldi. Se proprio dovete farlo potete ricorrere a un print on demand! Costa molto meno… In ogni caso il discorso sugli editori a pagamento sarebbe lungo, perché è anche vero che ci sono presunti scrittori (i famigerati scrittori locali che esistono un po’ ovunque) che se li meritano e che senza di loro non potrebbero mai definirsi scrittori. Chi pubblica pagando non è uno scrittore, ma soltanto un ambizioso che vuole il nome su una copertina.

A caro prezzo, di solito.

Gordiano Lupi

http://www.infol.it/lupi/

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“Non ho mai avuto grandi passioni in vita mia. A volte ho la sensazione che tutte le cose che faccio siano solo e soltanto un modo per riempire un vuoto, un po’ come fa chi guarda la pubblicità aspettando l’inizio di un film. Non mi intendo di calcio e non conosco neppure il nome dei giocatori anche se al bar spesso vengo tirato a forza in discussioni sull’arbitraggio della domenica o sui prossimi acquisti della mia presunta squadra del cuore. Con lo studio poi idem per il calcio. Certo mi sono laureato con poco sforzo ma con minima soddisfazione e anche lì una continua lotta per fingere, ad ogni esame, di sapere ciò che ignoravo e di essere ciò che non ero.Per il lavoro lasciamo perdere… non mi piace la moda, la trovo una cosa stupida, eppure mi scopro a dare consigli sugli acquisti o sugli abbinamenti di colore da fare ad attraenti donne attempate; è il mio lavoro, quello che mi fa mangiare, gestisco un negozio di abbigliamento.

E poi infine la politica, con anni di militanza in un partito ad organizzare concerti e fare riunioni interminabili per ritrovarmi con un’importante carica amministrativa a livello locale, nel mio sperduto paese. Sono una maschera di me stesso come diceva qualcuno oppure sono come quel cavaliere inesistente che doveva costantemente tenersi occupato in qualcosa per non svanire nel nulla. Essere ciò che gli altri si aspettano è un buon modo per sentirsi vivi, ma vivi a che prezzo?

In mezzo a questo galleggiare, spinto dal vento di ciò che non è mio, si insinua presente la scrittura simile ad un’ancora di salvataggio. E’ stata, da sempre, il mezzo tramite il quale raccontare quella parte di me, sconosciuta in fondo anche a me stesso, che si materializzava a volte sul foglio come avesse una vita sua propria.Eccomi allora nelle mie pagine sgrammaticate, nello sforzo di esprimere un minimo di sincerità; prima con delle poesie e poi con romanzi che raccontano il mio modo di vedere la realtà. Sì, scrivere mi piace e quando lo faccio, e sento che la penna scivola tra i miei pensieri, provo piacere, un piacere fisico simile allo sprigionarsi di uno strano calore nella pancia e nel petto.Va be’ mi diverto è vero, ma chi sa se quello che scrivo piace anche a qualcun altro?E allora perché non provare a spedire un po’ di materiale in giro, magari qualcuno è disposto a leggerlo e perché no a pubblicarlo! Ed ecco che la testa comincia a viaggiare e mi faccio il filmino di essere un vero scrittore e di poter pubblicare un libro, il mio, una cosa vera che mi appassiona e mi racconta.

Vai che si parte… e come dico io “niente a caso”, leggo sul mio quotidiano preferito un concorso letterario con i controcoglioni; c’è una casa editrice che selezionerà una storia di non meno di settanta cartelle dove, chi arriva primo su più di 2000 partecipanti, otterrà la pubblicazione del libro più 1500 euro di anticipo sui diritti d’autore.

Animato da grandi speranze, impacchetto il mio capolavoro e spedisco. Nel giro di una quindicina di giorni mi arriva una lettera dalla suddetta casa editrice dove mi si dice che il materiale è arrivato, lo analizzeranno e mi faranno sapere entro un mese il risultato.

Sono un’ottimista inguaribile, e per tutto il tempo di attesa inizio ad immaginarmi con il mio bel libro in un salotto letterario a firmare autografi e a godermi il premio monetario.

Dopo un mese circa arrivò la risposta a destarmi dal mio fantasticare, diceva più o meno così: il suo racconto non ha vinto il premio ma è stato trovato molto interessante bla, bla, bla, e allora avremmo intenzione se lei è d’accordo a sottoporlo alla valutazione di case editoriali di nostra conoscenza bla, bla, bla…

Aspettai quindi ancora con ottimismo ed iniziai, questa volta, ad immaginarmi con un piccolo libro, senza premio ma pur sempre con qualcosa di mio.Passano giorni di trepidante attesa ed io continuo a consigliare le mie vecchiettine sulle gonne che vestono meglio o sui maglioni che smagriscono, intervallando il lavoro con importanti riunioni comunali sul problema dei cani randagi e sulle scritte offensive che insozzano i muri di tutto il paese.

Poi un giorno, proprio all’ora di pranzo, arriva la mia compagna con in mano la lettera tanto attesa da parte della casa editrice.

La apro a tavola tra lo scoppiettare dell’olio nei tegami, le urla di fame di mio figlio che non intende aspettare e la tensione di Alessandra che legge insieme a me da dietro le mie spalle.

Sento Alessandra che sospira alle mie spalle mentre io le faccio cenno di richiudere la bottiglia e rimetterla in frigo.

Alzo la cornetta e chiamo la casa editrice dicendo di poter essere interessato alla proposta e di voler leggere il contratto di edizione.In fin dei conti si tratta di capire bene cosa significhi “un limitato numero di copie” e per di più tutte le spese di pubblicità e distribuzione nelle svariate librerie d’ Italia sono a spese loro quindi ancora non tutto è perduto.

Aspetto ancora. Non perdo neppure il mio solito ottimismo ma questa volta mi immagino, non più in un salotto letterario, ma in una bancarella davanti alla Coop a vendere il mio manoscritto.

Ed intanto i giorni passano sorretti da speranze non ancora cancellate.

Arriva dunque il pacco postale e dentro vi trovo due libri in regalo (…) dove sono spiegati tutti i misteri del mondo del libro dalla pubblicazione (con le relative spese), alla vendita in libreria. Leggo il contratto e vado subito con gli occhi a cercare l’articolo che parla del “limitato numero di copie” da acquistare… sono 298 per un totale di tremila euro. Bla, bla, bla, spese a carico dell’editore, bla,bla,bla, tiratura di 1200 copie, bla,bla,bla, 3 mesi di tempo per stamparlo in caso di pagamento in contanti, 6 in caso di pagamento in due trance, 9 mesi in caso di comodo pagamento dilazionato.

A questo punto perdo quasi tutto l’ottimismo che possiedo ma ne lascio una goccia per soppesare la possibilità di ottenere un finanziamento da parte di qualche ente. In fin dei conti danno l’idea di crederci nel mio stile e forse tutto il mondo dell’editoria va avanti così; per di più che diamine! Non sarò mica l’unico scrittore che si auto-finanzia un libro!

Ne parlo anche con un signore del mio paese che ha già pubblicato che mi assicura che gli editori solitamente non leggono e il fatto che la casa editrice mi abbia preso in considerazione è già importante. Mi dice inoltre che anche lui ha dovuto pagare per pubblicare, è la prassi. In fondo c’è sempre la pensione di mia nonna nel peggiore dei casi!Provo con Comune, Pro-loco, banche ed infine Coop per ottenere un finanziamento ma è tutto inutile e con il passare del tempo ho come la sensazione che il mio importante romanzo non sia neppure stato letto.

Rifletto se all’inizio della mia avventura come scrittore fosse stato questo quello che cercavo e mi accorgo che la strada intrapresa non ha nulla a che vedere con quello che avevo in mente.

Telefono a Sasha che mi è stato vicino in tutto il mio percorso e tra una birra e un’altra gli racconto la mia avventura.

Dopo una lunga chiacchierata mi alzo sbronzo ma stranamente con le idee più chiare circa il mio futuro.Intanto ho portato a compimento un altro romanzo che mi piace e mi ha fatto star bene nello scriverlo. Per ora non lo ha letto ancora nessuno ma credo che lo spedirò a qualche casa editrice… se non altro lo devo alla bottiglia di Brunello ingiustamente stappata che attende nel mio frigo.”

Simone Pazzaglia

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lunedì, 7 gennaio 2008

INTERVISTA A DANIELA MARCHESCHI

Vi propongo questa intervista che Daniela Marcheschi, italianista ed esperta di letterature scandinave, ha rilasciato ad Andrea Di Consoli.

Intervista interessante che abbraccia varie tematiche: dalla critica letteraria alla storia della letteratura.

Credo che molte delle risposte fornite possano prestarsi per avviare dibattiti. Leggetele con attenzione e, se volete, esponete le vostre opinioni.

(Massimo Maugeri)

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Intervista a Daniela Marcheschi

di Andrea Di Consoli

Daniela Marcheschi, italianista, esperta di letterature scandinave (ne scrive su “Il Sole 24 Ore”) e traduttrice di Karin Boye, August Strindberg, Edith Sodergran, Brigitta Trotzig, curatrice dei Meridiani Mondadori di Giuseppe Pontiggia e Carlo Collodi, ha al suo attivo un’attività saggistica di livello internazionale. Ha pubblicato, tra le altre cose, Una luce del nord. Scritti scandinavi (1979-2000) per Le Lettere, e Sandro Penna per Avagliano.

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Lei ha parlato più volte di tradizioni letterarie in contrapposizione a tradizione. Cosa significa esattamente?

Puntare alle tradizioni vuol dire cogliere la pluralità delle esperienze letterarie e artistiche, delle estetiche, poetiche, filosofie, dei generi, degli stili, delle forme. Significa cogliere e avvicinarsi alla complessità stessa delle esperienze letterarie e artistiche; e anche verificare i modelli storiografici che tendiamo a confondere con la storia stessa della letteratura. Da questo deriva oggi una critica povera, perché vista come cronaca, rassegna dell’esistente non inserita nel quadro più problematico delle tensioni della storia. Sta prevalendo una critica scissa dalla storia, e una storiografia scissa dalla critica. Stiamo facendo critica e storia della letteratura ingabbiate su visioni storiografiche ereditate dalle generazioni precedenti.

Qual è la differenza tra la critica letteraria e la storia della letteratura?

Non ci può essere una storiografia nuova senza una visione critica delle tradizioni, e non si dà una critica nuova senza una visione storica delle tradizioni e delle loro interconnessioni. E, sopratutto, non si può fare letteratura, né come autori né come critici, se non ci si rende conto che i valori vengono sempre discussi e negoziati, e che bisogna essere consapevoli perché certe esperienze si sono affermate, o sono state sostituite. I valori vanno sempre continuamente ridiscussi.

Chi è il più grande critico letterario del ‘900?

Da questo punto di vista Carlo Dionisotti (1908-1998) non è solo il più grande storico della letteratura nel ‘900, ma è anche un grande critico: lo provano il travaglio profondo della “premessa e dedica” a Geografia e storia della letteratura italiana e di pagine mirabili dei Ricordi della scuola italiana. Tenga presente che Dionisotti ha potuto pubblicare Geografia e storia della letteratura italiana, libro fondamentale, solo a 59 anni, quando l’Accademia di Svezia già gli chiedeva pareri riservati su eventuali candidati al Nobel.

Cosa pensa del dibattito sulla critica letteraria iniziato sul “Corriere della sera” a partire dal Dizionario della critica militante (Bompiani) di Filippo La Porta e Giuseppe Leonelli?

Considero questo dibattito fragile, poco consapevole della complessità dei problemi in campo. E’ un peccato, perché l’Italia si sta sempre più chiudendo in se stessa, incapace di esportare valori e proporre idee ed esperienze letterarie davvero persuasive.

Lei insiste spesso sull’isolamento dell’Italia, sul suo provincialismo. Come ci si apre al mondo, in che modo può avvenire quest’apertura?

Se siamo consapevoli che si conosce “per tradizioni” siamo poi anche in grado di leggere la trama delle varie tradizioni europee. Dobbiamo cominciare a individuare gli autori europei di lingua italiana, non gli scrittori italiani e basta. Come diceva Vincenzo Gioberti, travisato da certe letture fasciste, e come dice Amedeo Anelli (direttore della rivista “Kamen’”, n.d.r.), bisogna ragionare su quali siano gli scrittori europei di lingua italiana, perché gli scrittori italiani sono meno necessari.

Mi faccia alcuni esempi novecenteschi di scrittori europei, e provi a spiegare cosa significa essere uno scrittore europeo.

Uno scrittore europeo di lingua italiana, per il lavoro sui contenuti, sul romanzo, sullo stile, è stato Giuseppe Pontiggia. Basta leggere quello che la critica europea ha scritto sui suoi libri. Uno scrittore è europeo nel momento in cui è capace di porsi problemi che interessano le culture internazionali, quando è profondamente italiano ma sa lanciare problematiche di interesse non locale. Scrittori europei di lingua italiana, per esempio, sono stati Italo Svevo e Luigi Pirandello.

E Alberto Moravia?

Moravia è uno scrittore di grande mestiere, di grande abilità, ma è uno scrittore sempre dentro l’attualità, e in ciò è debitore del naturalismo. Moravia è il prototipo degli opinionisti di oggi, di questa cultura dominante della chiacchiera mediatica. Naturalmente aveva intelligenza da vendere. Moravia non è uno scrittore che ha allargato più di tanto le “barriere del naturalismo”, come invece diceva Renato Barilli in un saggio del 1964. La sua letteratura è fortemente radicata nella letteratura russa, come ormai tutti sanno. Anzi, è spesso più paragonabile alla “fattografia” del realismo socialista.

Che cos’era la “fattografia”?

Era una poetica che proponeva un romanzo radicato nella cronaca, per essere più aderenti agli indirizzi del regime comunista. Dostoevskij è stato molto amato da Moravia, che però non ne aveva lo spessore filosofico e religioso. Di fatto i modelli russi di Moravia sono principalmente altri.

A quali modelli si riferisce?

Glielo spiego partendo da Dino Terra (1903-1995), uno degli scrittori più importanti fra la fine degli ‘20 e la fine degli anni ‘40. Aveva fondato l’Immaginismo, un movimento letterario e artistico per unificare tutte le ricerche d’avanguardia, intesa questa come metodo, come arte sperimentale. Autore di vaste frequentazioni internazionali, Terra fece conoscere la psicoanalisi alla sua cerchia (Moravia, Bontempelli, i Bragaglia, Pirandello, Marinetti, Ungaretti, Chiaromonte, De Libero, Gallian). Tra quei giovani aveva fatto molto effetto il romanzo La famiglia Golovlioff di Michail Saltykov-Scedrin, pubblicato in Italia da Carabba in due volumi nell’aprile del 1918, con la prefazione di Federico Verdinois. In due interviste inedite allo storico Paolo Buchignani nel 1993, Dino Terra diceva che quel romanzo era stato decisivo per alcuni di loro.

Questo cosa significa?

Questa testimonianza non è un’inezia, ma mette lo storico e il critico della letteratura sulle tracce di un testo che ha a lungo influenzato l’opera di Moravia, all’epoca molto amico di Terra. Se noi prendiamo La famiglia Golovlioff, a parte la coincidenza del nome di Saltykov con quello di Michele de Gli Indifferenti, dobbiamo constatare che tutta quanta la costruzione del romanzo, dei personaggi e del loro carattere morale, le atmosfere, addirittura lo stile, hanno forti analogie, se non palesi “copiature”, con il romanzo d’esordio del giovane Moravia.

Quali sono gli elementi che supportano questo sospetto di “copiatura”?

Anche ne La famiglia Golovlioff i personaggi principali sono cinque. Una madre, Irene, che, per insensibilità e vuoto interiore, per i suoi modi grotteschi, somiglia alla madre di Carla e Michele. Sua nipote, Annin’ka, è il personaggio più lucido del romanzo di Saltykov e quello in cui si riscontrano analogie non casuali con Carla. Anche Annin’ka cerca letteralmente una “vita nuova, vera”, e pur di averla si dà a un riccone, ma capirà il vuoto e l’illusorietà di una simile aspirazione. Allo stesso modo Carla, ne Gli Indifferenti, nel desiderio di una “vita nuova”, si getta tra le braccia di Leo pur non amandolo, e di fatto gli si dà per avere un benessere, proprio come fa Annin’ka. Colpisce il fatto che Leo abbia in parte il carattere di Porfìrij, detto piccolo Giuda, che agisce solo per interesse e lussuria. Porfìrij, come Leo, è cinico, ipocrita, interessato, vive un erotismo puramente utilitaristico, senza profondi sentimenti, pronto a rovinare i suoi famigliari pur di accumulare ricchezze e impadronirsi di una villa. Poi ci sono gli atri due fratelli, Stepàn e Pavel, i quali vivono nell’indifferenza, nella finzione, nell’incapacità di qualsiasi applicazione, in una “nebbia di parole” che è la nebbia del vaniloquio e dell’impossibilità di sentire e volere.

Lei coincidenze sono solo di contenuto?

Colpiscono anche le coincidenze formali. Ad esempio ne La famiglia Golovlioff, proprio come nel romanzo di Moravia, ci sono il vaniloquio e un grande uso del discorso indiretto libero, che abbonda soprattutto nell’ultima parte. Michele ne Gli Indifferenti immagina l’ipotetico processo che seguirebbe l’uccisione di Leo, ma in realtà questo non avviene, perché Michele non uccide Leo. Tale processo, invece, nel romanzo russo c’è davvero. Ma le corrispondenze non finiscono qui, ve ne sono in grande quantità.

La letteratura nasce sempre dalla letteratura, di questo lei è consapevole. Quindi immagino che la sua riflessione vada più nella direzione della ricerca storica, che non nella direzione di una provocatoria polemica.

Che i libri nascano anche dai libri è cosa nota, ma è forse meno noto quanto questo romanzo russo abbia significato concretamente per quel gruppo di giovani scrittori romani. Per esempio, il carattere stesso de L’avaro di Moravia richiama ancora una volta un tratto molto caratteristico di Porfìrij, incapace di amare e assumersi qualsiasi responsabilità che non sia quella di accaparrarsi beni materiali. Ne L’amore coniugale il confluire di norme morali e convenzioni sociali è un tema che richiama un altro tema del ricco romanzo di Saltykov. Negli stessi Racconti romani il vizio della pignoleria, portato all’estremo grado, rimanda ancora a un motivo di Saltykov. La famiglia Golovlioff ha personaggi a tutto tondo che incarnano, nello svolgersi delle vicende, tutta una serie di vizi e carenze morali assai suggestive per l’opera di Moravia. Così si riconferma ancora una volta il radicamento di Moravia nel dibattito culturale degli anni ‘20 e ‘30, che dovrebbe essere studiato di più. Il libro di Saltykov aveva già influenzato Terra, basti pensare a un romanzo sperimentale come Ioni, del 1929, considerato l’anti-Indifferenti.

Dal suo discorso si profila addirittura uno “scontro” in sede di canone tra Moravia e Dino Terra. O forse è più esatto dire che lei auspica una maggiore attenzione sui cruciali anni ‘20.

Andrebbero studiati meglio l’ambiente delle riviste degli anni ‘20 (“La bilancia”, “La ruota dentata”, “Interplanetario”, “Occidente”, “Caratteri”, riviste in cui spesso si ritrovavano fascisti rivoluzionari, giovani comunisti, socialisti, anarchici, apolitici, tutti legati dalla volontà di costruire una nuova letteratura), la narrativa degli anni ‘20, il movimento dell’Immaginismo, la Roma di sostanza internazione ed europea di quegli anni. All’interno di questo quadro si gettano le basi per un realismo nuovo, in cui ha uno spazio il meraviglioso, basti pensare proprio a Riflessi di Dino Terra. Quindi siamo di fronte a una pluralità di tradizioni che la prevalenza di una storiografia ingessata e arretrata ha spesso cancellato, mentre ha lasciato tracce di vitalità nella narrativa italiana almeno fino agli ‘70 (si pensi agli autori di favole per adulti: Zavattini, Guareschi, Terra). Se noi paragoniamo Ioni a Gli Indifferenti, pubblicati entrambi da Alpes nel 1929, ci rendiamo conto della novità sperimentale di Ioni, costruito per micro e macro sequenze, per pluralità di voci, per molteplicità dei punti di vista. Moravia legge attentamente Saltykov e ne ricalca la tecnica romanzesca. Terra, invece, cerca di rinnovarla ulteriormente. A questo punto possiamo capire perché Dino Terra fosse considerato, in quel tempo, uno degli scrittori più importanti. Meno persuasivo, invece, è ritenere Moravia una delle punte di diamante della letteratura del ‘900.

Andrea Di Consoli

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lunedì, 29 ottobre 2007

PARLIAMO DI RIVISTE. A VOI “PORTOSEPOLTO”

 

Vi invito a parlare di riviste.

Principalmente di riviste letterarie e culturali… ma non solo.

L’occasione ce la fornisce Gordiano Lupi che ci presenta una “nuova nata”: Portosepolto. Noi di Letteratitudine facciamo tanti in bocca al lupo (un milione di questi numeri!) a Portosepolto, ma ne approfittiamo per confrontarci anche in quest’ambito: quello, appunto, della lettura di riviste.

Così vi domando: che riviste acquistate, leggete, consigliate?

Volete promuoverne qualcuna? Bene. È l’occasione giusta.

Ci sono riviste che vi hanno deluso? Spiegatene il motivo.

Mi raccomando: massima sincerità (su, chi è che legge gossip tra noi?) e il solito rispetto reciproco. È anche questo un modo per conoscerci meglio… non trovate?

Massimo Maugeri

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portosepolto.jpgPORTOSEPOLTO – Taccuino letterario

infoportosepolto@gmail.com

www.myspace.com/portosepolto

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Portosepolto è una nuova rivista letteraria di racconti e poesie di taglio bukowskiano realizzata a Torino da un gruppo di scrittori, disegnatori e grafici come Paolo Pellegrino, Luca Pizzolitto, Lucio Viglierchio, Marco Boscaglia, Melania Gasbarri, Alessandro Rivoir, Ilaria Urbinati e Paolo Bartoli. Esce in una tiratura non disprezzabile di 500 copie e viene sostenuta dall’Associazione Culturale Compagnia del Laccio Rosso e dalla Cooperativa Mirafiori. Diciamo subito che non si tratta della solita rivista letteraria paludata e illeggibile. Tutt’altro. I racconti sono brevi, agili e diretti, al punto che l’intera rivista si divora in meno di un’ora. Interessante la divisione in sezioni che fa capire subito la predilezione bukowskiana: Chinaski I, che contiene scritti di autori piuttosto noti come Matteo B. Bianchi, Sebastian Gush, Marco Missiroli e Giovanna Giolla, Pelle, che raccoglie ottime poesie trasgressive di Marco Rossari e lo splendido Il suono di Torino di Domenico Mungo, Chinaski II, con racconti di autori meno noti ma interessanti come Paolo Zanardi, Emiliano Dominici e Barbara Gozzi, Blu neon che pubblica un’intervista a Marta sui tubi (scusate l’ignoranza ma non sapevo chi fosse) e Freesbee, dedicata alle recensioni librarie. Conclude la rivista l’esilarante rubrica Gli scleri di Catalano. Complimenti a Luca Pizzolitto che ha avuto l’idea di questo geniale taccuino letterario, insolito e originale nel panorama italiano, soprattutto perché riesce ad accostare esordienti assoluti ad autori già esperti. Luca Pizzolitto lo conosciamo come ottimo autore di narrativa per aver letto e pubblicato Dopodomani (Edizioni Il Foglio) e la raccolta di poesie bukowskiane In queste notti di solitudine e birra (Edizioni Il Foglio). Dio sul letto di Matteo B. Bianchi è un piccolo capolavoro che racconta il dialogo tra Gregorio Samsa (vi dice niente questo nome?) e Dio, ai bordi del letto, ma la cosa più divertente è che Dio esaudisce il desiderio di Gregorio che vuol fare lo scrittore. Scoprite da soli come va a finire. La lettura di questo racconto vale l’acquisto dell’intera rivista, ma segnalo pure un racconto teatrale come Il suono di Torino di Domenico Mungo che va letto più volte per quanto è bello. Torino è un monolite rettangolare, bianco come il cemento, sdraiato esangue su un prato verde come il mare. Torino è come un uomo colpito da una raffica di mitra. Consiglio l’acquisto e il sostegno di Portosepolto, una rivista che deve sopravvivere.

Gordiano Lupi

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mercoledì, 3 ottobre 2007

LE SACRESTIE DI COSA NOSTRA di Vincenzo Ceruso (recensione di Roberto Alajmo)

In quel genere di attitudine del tutto personale rappresentato dalla lettura è raro che io mi sbilanci, ma una volta tanto mi sentirei di prescrivere la lettura di un libro: si intitola “Le sacrestie di Cosa Nostra”, di Vincenzo Ceruso, editore Newton Compton.

E’ un libro di quelli che mettono in fila i fatti uno dietro l’altro, in modo che parlino da soli. I ragionamenti, quelli, vengono di conseguenza, e sono lasciati all’intelligenza del lettore.
Io, per dire, sono uscito dalla lettura rafforzato nell’idea che la chiesa sarà pure “santa”, “cattolica” e “apostolica”, ma di sicuro non è “una”. Nel senso che assume di volta in volta un atteggiamento differente a seconda dei contesti. Solo all’apparenza padre Pino Puglisi e don Agostino Coppola sono in contraddizione fra loro. Al contrario: rappresentano due volti fra i cento diversi che la chiesa è capace di rappresentare. Ognuno di essi copre un segmento di mercato, in modo che a ogni interpretazione della fede, anche la più perversa, corrisponda una rispettiva chiesa. C’è il prete mafioso e il prete antimafioso, così come c’è il prete pedofilo e il prete antipedofilia.

Se i mafiosi non trovano contraddittorio uccidere e pregare, anche la chiesa cattolica non trova contraddittorio assumere un aspetto proteiforme, in modo da trarre il massimo profitto in ogni circostanza.

Ferma restando la buona fede di individui come padre Puglisi, quello della chiesa, in Sicilia come altrove, è un puro gioco delle parti.

Roberto Alajmo

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Le sacrestie di Cosa Nostra

di Vincenzo Ceruso

Newton & Compton, 2007, euro 9,90, pagg. 270

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Roberto Alajmo è nato a Palermo nel 1959. Fra i suoi libri: Le scarpe di Polifemo (Feltrinelli, 1998), e Notizia del disastro (Garzanti, 2001), col quale ha vinto il premio Mondello. Con Mondadori nel 2003 ha pubblicato il romanzo Cuore di Madre, finalista ai premi Strega e Campiello. Nel 2004 è uscito Nuovo repertorio dei pazzi della città di Palermo e nel 2005 il romanzo È stato il figlio, finalista al premio Viareggio e vincitore del SuperVittorini e SuperComisso.
Con Laterza, sempre nel 2005, ha pubblicato il saggio Palermo è una cipolla.

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Aggiornamento del 4 ottobre 2007

L’ufficio stampa della Newton & Compton, di comune accordo con l’autore del libro, mi invia il prologo. Ringrazio e pubblico qui di seguito. (Massimo Maugeri)

Prologo

Non fai più parte di questo mondo.

Il capomafia Leoluca Bagarella

rivolto a un nuovo affiliato a Cosa nostra

La sagrestia è una terra di mezzo. Non sei in chiesa ma neppure al di fuori di essa. È uno spazio in cui sacro e profano si mescolano. Vi si trovano gli arredi sacri e i paramenti liturgici.

Il prete lo usa per cambiarsi prima delle funzioni. Ma è anche un posto dove ci si può fermare a parlare tranquillamente, senza il timore reverenziale che si prova nel luogo deputato al culto. La gente entra, chiede informazioni, parla con il sacerdote, talvolta si confessa. Questo libro è un reportage sulle sagrestie di Cosa nostra: «Un poco come un viaggio senza precedenti, un viaggio da inviato speciale non già sulla mafia, ma “dentro la mafia” [...]. Un lungo, fantastico viaggio, dentro un mondo anche per me sconosciuto: una esplorazione, una scoperta. Un viaggio dentro la mafia e “sotto il mondo”…» (Felice Chilanti, in «L’Ora», 15 settembre 1963).

Parlare di “sagrestie di Cosa nostra” ha un duplice significato: in un senso puramente geografico, si riferisce a quante si trovano in territori dove il controllo della mafia è profondamente radicato e tendenzialmente assoluto; poi vi sono le sagrestie per le quali i padrini hanno una particolare predilezione.

Sono quelle che i padrini sentono come cosa propria, dove celebrano le loro festività, si sposano, battezzano i figli, in cui si muovono a proprio agio, dove la loro presenza non è imposta per via autoritaria, ma in cui sono bene accolti; non come peccatori in cerca di redenzione, ma proprio per quello che sono: personaggi di rispetto, mafiosi riconosciuti e, in quanto tali, ossequiati. Ovviamente, le due cose non sempre coincidono. Le sagrestie di Palermo racchiudono molti dei segreti dell’Onorata società. Il viaggio ci condurrà in chiese molto diverse tra loro. Dalla chiesa di Maria SS. delle Grazie, nel cuore della terribile “mafia dei giardini”, alla chiesa di San Giuseppe, nel pieno centro storico del capoluogo siciliano, così amata dall’infelice Vincenza Marchese, sposa del sanguinario Leoluca Bagarella; dallo splendido duomo normanno di Monreale alle chiese del SS. Crocifisso e di Maria SS. del Carmelo, nelle borgate di Coceverde-Giardina e Ciaculli, per decenni occupate quasi militarmente dalla spietata famiglia dei Greco; senza dimenticare la chiesa, anzi le chiese, del mite e forte don Giuseppe Puglisi, ucciso dai sicari mafiosi il 15 settembre del 1993. Non solo San Gaetano, nel famigerato quartiere palermitano di Brancaccio, la cui liberazione il coraggioso prete pagò con il martirio; Puglisi maturò la sua resistenza alla mafia nei primi anni di sacerdozio, trascorsi anche in condizioni difficili, in diverse chiese della diocesi di Palermo, lasciando ovunque segni tangibili della sua presenza amica. Il suo ultimo incarico come parroco, in un territorio ad alta densità mafiosa, fu il tragico epilogo di una vita spesa per il Vangelo e contro tutto ciò che Cosa nostra rappresenta in Sicilia. Ma quale interesse possono avere i rappresentanti di un’organizzazione criminale che movimenta decine di miliardi di euro dappertutto, si occupa di traffici internazionali di stupefacenti, decide la vita e la morte di migliaia di affiliati, a inserirsi nella vita di una parrocchia o, comunque, a intromettersi nelle vicende religiose dei suoi membri?

A titolo esemplificativo, si può rispondere a questo interrogativo raccontando una storia. Ciccio Pastoia era il braccio destro dello “zio Binnu”, cioè Bernardo Provenzano, l’ultimo capo dei capi di Cosa nostra (“zio” è un titolo onorifico abbastanza diffuso in Sicilia), arrestato nell’aprile del 2006. Grazie a questa fiducia don Ciccio, originario di un piccolo paese dell’entroterra siciliano, chiamato Belmonte Mezzagno, si era ritrovato a comandare in mezza Sicilia e a decidere su ogni genere di affari, dalle poche centinaia di euro per il pizzo di un negozio fino ai miliardi di euro per il futuro ponte sullo Stretto.

Ciccio Pastoia prendeva ordini solo dal capo e a lui solo riferiva. Ma aveva commesso un errore. Si era fidato troppo della sua autonomia e aveva ordinato un omicidio senza informarne Provenzano. Quando venne arrestato i giornali pubblicarono alcune intercettazioni telefoniche, in cui Pastoia metteva a punto il piano per il delitto e diceva chiaramente ai suoi complici che a Provenzano era meglio non dire niente. Decise di non attendere la punizione e di suicidarsi in carcere. Ma ciò non venne ritenuto sufficiente. Ha ricevuto la condanna fin nella tomba. All’indomani del funerale il loculo venne interamente distrutto; per ammonire e intimidire i vivi, certamente, ma anche per esprimere un giudizio sulla sorte ultraterrena del traditore. L’ambizione del sodalizio mafioso sembra essere quella di non fermarsi neppure di fronte alla morte, ma anche a questa apporre il proprio sigillo.

Quale altra organizzazione di malviventi si preoccupa del destino trascendente dei propri membri?

È un compito, questo, in genere riservato alle religioni. I terroristi legati al mondo dell’estremismo islamico, che abbiamo imparato a conoscere sotto la sigla di Al Qaeda, la rete criminale di Osama Bin Laden, ci hanno in effetti abituato all’immagine di uomini e donne che commettono azioni orribili, sgozzano, sequestrano, si fanno saltare in aria, massacrano vittime innocenti e sono disposti a farsi uccidere senza dubitare che, in cambio di ciò, riceveranno una ricompensa ultraterrena. Tutto questo ci disgusta ma, in un certo senso, ormai non ci stupisce più. Abbiamo familiarizzato con l’idea. È possibile che i mafiosi pensino ai loro crimini come azioni legittimate da una finalità religiosa?

Per rispondere a questa domanda dovremmo riuscire a pensare come pensa un appartenente a Cosa nostra. E non è facile.

Possiamo aiutarci con il lavoro di storici, psicologi e sociologi, ma ancora più utile potrebbe risultare lo studio di uno specialista molto particolare. Si chiama Sergio De Caprio, meglio conosciuto come “capitano Ultimo”. È l’uomo che ha catturato, dopo ventisei anni, Totò Riina, detto “’u curtu”, uno dei più feroci capimafia mai esistiti. Nel suo libro, un manuale di tecniche investigative destinato alla Scuola di perfezionamento di polizia, il militare espone il problema di come prepararsi a un conflitto asimmetrico, tra lo Stato e un nemico inferiore per forza e quantità, che però trova proprio nella sua presunta debolezza il vantaggio di cui servirsi sul terreno:

Il nemico invisibile, non strutturato, non convenzionale è la minaccia che stabilisce la nuova dottrina di lotta: non più muro contro muro, non più vuoto contro pieno, ma piccolo contro grande, leggero contro pesante, semplice contro complesso, poco contro tutto [...]. È immediata l’intuizione dell’importanza fondamentale che nei conflitti moderni assume la funzione dell’esplorazione nascosta by stealth e la tecnica che la spalma sul terreno. Vince chi ha la superiorità informativa sull’avversario, non chi ha maggiore capacità di fuoco (Ultimo, La lotta anticrimine.

Intelligence e azione, Roma, Laurus Robuffo, 2006, pp. 48, 49).

Se c’è una cosa che la storia della mafia (e dell’antimafia) dovrebbe insegnare, è che Cosa nostra ha saputo costruire una «superiorità informativa sull’avversario», cioè sullo Stato.

Per dirla in altri termini, i mafiosi sanno chi siamo noi ma noi non sappiamo chi sono i mafiosi. Cioè, non sappiamo come pensano, come si muovono, cosa sta loro a cuore. De Caprio spiega che per lottare sul terreno dei mafiosi occorre imparare a «interiorizzare l’avversario per prevederlo».

Un analista del fenomeno criminale – la cui conoscenza non è finalizzata all’azione repressiva – potrebbe parafrasare questa formula così suggestiva: interiorizzare l’avversario per studiarlo.

In qualche misura, dovremmo fare come il protagonista di un celebre film, Donnie Darko. Il personaggio principale è un poliziotto che si infiltra nelle fila della mafia americana. Lo fa così bene che arriva a identificarsi con gli esponenti di quel mondo criminale, fino a creare un sincero legame d’amicizia con il piccolo mafioso che lo ha introdotto nella “famiglia”, impersonato da Robert De Niro. Tutta la sua vita ne esce sconvolta.

In una scena litiga con la moglie, che lo accusa di comportarsi come i criminali che dovrebbe arrestare, di essere come loro. Lui le risponde urlando: «Io sono uno di loro!».

Ovviamente, a nessuna persona normale verrebbe in mente di procurarsi una pistola, trafficare in droga e iniziare a chiedere il pizzo ai negozi sotto casa, per riuscire a carpire qualcuno dei segreti dell’universo mafioso. E infatti non è necessario arrivare a tanto. Secondo il popolare protagonista dei

romanzi di Sir Arthur Conan Doyle, il celebre Sherlock Holmes: «È difficile che una persona usi ogni giorno un oggetto senza lasciarvi impressa qualche traccia della sua personalità, che un osservatore esperto non può non decifrare». La mafia usa fin dalla sua nascita tradizioni e simboli della religione cattolica. Tracce del passaggio dell’organizzazione segreta Cosa nostra si possono rintracciare nelle sagrestie, negli archivi delle confraternite, nei santuari, nel silenzio dei cimiteri, nei chiostri dei conventi, nei percorsi delle processioni.

Un buon punto di partenza sono le “santine”, le immagini religiose, che vengono utilizzate per la “punciuta”, la rituale affiliazione degli adepti:

Sono entrato a far parte della famiglia nel 1974: io e Umina Salvatore. Ci portarono in campagna, da mio padre [...]. Poi hanno preso una candela accesa, hanno disinfettato un ago facendolo bruciare al fuoco e ci hanno punto il dito. Pigghiaru a santa, ci dettiru fuocu e nna’ misiru nna’ manu, poi ci fecero giurare: io giuro di essere fedele alla famiglia, se io dovessi tradire le mie carni saranno bruciate come brucia questa santina. Queste sono le modalità per potere entrare nella famiglia. Poi c’è stata la baciata (trascrizione di un interrogatorio in «Giornale di Sicilia», 16 maggio 1987).

È la descrizione della cerimonia di affiliazione dalla viva voce di un ex mafioso, un certo Vincenzo Marsala, diventato collaboratore di giustizia negli anni Ottanta del secolo scorso.

È un racconto fresco ed essenziale, dove il contaminarsi di dialetto siciliano, italiano scolastico e parlato rende, anche linguisticamente, la mescolanza di arcaico e di moderno di cui è impastata la mafia. Se Cosa nostra è abituata a descrivere se stessa come manifestazione della società tradizionale, indubbiamente in questa elaborazione ideologica ha un ruolo da definire l’adesione dell’uomo d’onore al cattolicesimo:

Per incoronare un capo non si sceglieva mai un giorno a caso. Per esempio a Riesi, tra le miniere di zolfo e il vino nero come inchiostro della contrada Judeca, un boss ha presentato pubblicamente il suo delfino nel giorno più importante di quella comunità: la festa della Madonna della Catena. E così fu anche nel 1963, quando Francesco Di Cristina si affacciò dal balcone della casa più grande e bella di Riesi e baciò suo figlio Giuseppe. Sotto quel balcone dodici uomini portavano a spalla la statua di gesso della Madonna. Non c’è mafia senza chiesa. Non ci sono mafiosi senza fede. In tempi antichi e in tempi moderni. Si possono scannare cristiani come capretti, si possono sciogliere bambini nell’acido, si possono strangolare uomini e poi gettare i loro corpi in fondo al mare e poi… pregare (Attilio Bolzoni, in «la Repubblica», 9 giugno 1997).

Cosa intende l’affiliato a Cosa nostra con religiosità? Che ruolo ha questa religiosità nella cosiddetta cultura mafiosa? È esistita (o esiste) un’ideologia, o meglio, un sistema di valori condiviso, che ha fatto da cerniera tra mafia e parte del clero siciliano?

Possiamo rispondere a queste domande solo se partiamo da un presupposto: per un membro di Cosa nostra la mafia stessa esaurisce la sfera della religiosità. È una delle intuizioni di Giovanni Falcone: «Entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi ad una religione».

Nulla viene prima e nulla viene dopo di essa. Nell’Ottocento lo avevano già capito. Scriveva un delegato di polizia in un suo studio, nel 1886:

Si è parlato lungamente di riti di iniziazione. Si racconta in tono leggendario che dopo il 1866 girava per vari comuni una specie di missionari, i quali andavano facendo proseliti per una causa che, camuffata a religiosa e politica, sotto le finte cioè di far trionfare la religione ed abbattere il governo usurpatore e scomunicato, metteva capo realmente al delitto. Furono da costoro introdotti riti tra il mistico e il settario, che con brevi varianti si resero poi comuni alle varie associazioni di malfattori [...]. I soci avevano segni di riconoscimento e ben presto il tenebroso sodalizio si sparse in vari comuni. Vuolsi che all’atto del giuramento l’iniziato dovesse anche tirare un colpo di pistola ad un crocifisso colà appeso, quasi per dimostrare che dopo aver sparato al Signore non avrebbe esitato ad uccidere qualunque persona, anche a lui cara (Giuseppe Alongi, La maffia, 1886, p. 102).

Sono storie e metodi che riguardano un mondo arcaico e ormai scomparso, sostituito dalle strategie di una moderna holding criminale-finanziaria, che opera in borsa e non si preoccupa più di crocifissi e giuramenti?

Forse. O forse no. L’onorevole Lo Giudice, un deputato regionale siciliano di una certa importanza, recentemente arrestato, intercettato al telefono durante un’indagine, parlava dell’organizzazione mafiosa con un suo amico: «Conosco i parrini, anche se non faccio parte della Chiesa».

I “parrini”, i preti in siciliano, sono i mafiosi; la Chiesa di cui si parla qui è la mafia siciliana, Cosa nostra. Con questa colorita espressione, il politico intendeva sottolineare la sua vicinanza, la sua intimità, con il mondo degli uomini d’onore, nonostante il fatto di non essere formalmente affiliato all’associazione. In maniera non molto diversa, un capomafia si rivolgeva qualche anno fa a un nuovo aderente dicendogli: «Non fai più parte di questo mondo»; per fargli intendere quale vita lo attendeva, quasi assimilandolo a un convertito a una nuova religione, più che a uno spietato sicario. Sappiamo inoltre che per riferirsi alla famiglia mafiosa di San Filippo Neri, un quartiere della periferia nord di Palermo, meglio conosciuto come ZEN, i seguaci della cosca usano un’espressione: la Chiesa.

No, non si tratta di procedimenti superati, come cercheremo di dimostrare. La gran parte della documentazione che useremo è basata sugli scritti degli esponenti ecclesiastici, sulle dichiarazioni di chi ha combattuto la mafia, sulle rivelazioni dei mafiosi divenuti collaboratori di giustizia, sulle comunicazioni e sulle lettere degli uomini d’onore. Una fonte primaria sono le interviste rivolte a religiosi che operano, con la funzione di parroco, in alcuni quartieri palermitani considerati ad alta densità mafiosa: Brancaccio, Ciaculli e Settecannoli.

Un grande reporter, recentemente scomparso, ha scritto: «Esistono tre tipi di fonti, la principale delle quali è la gente. La seconda sono i documenti, i libri e gli articoli. La terza è il mondo che ci circonda e in cui siamo immersi: colori, temperature, atmosfere, climi, i cosiddetti elementi imponderabili e difficili da definire, e che tuttavia costituiscono un elemento importante del nostro lavoro» (Ryszard Kapuscinski, Autoritratto di un reporter, Milano, Feltrinelli, 2006, p. 64).

È una fonte primaria anche l’esperienza e la testimonianza personale di chi scrive, e che in quel territorio vive e risiede.

Questo non è necessariamente un vantaggio, poiché la vicinanza con l’oggetto del mio studio ha richiesto uno sforzo ulteriore di lucidità durante l’analisi; dall’altro lato vi è il vantaggio di poter osservare, in determinati momenti, quella che è la vita quotidiana di Cosa nostra, sapendo leggere connessioni e significati di un mondo in cui si assiste, senza tregua, all’alternarsi di grigiore borghese e di follia omicida. Le fonti orali che ho utilizzato sono indispensabili quando si indaga su una realtà quale quella mafiosa, connotata da segretezza e da mancanza, il più delle volte, di fonti scritte. Il lavoro

di un ricercatore sulle tracce di Cosa nostra non è talvolta dissimile da quello di un normale investigatore, che deve sapere infiltrarsi, leggere le connessioni, lavorare con frammenti per ricostruire l’insieme completo: «Ricondotti ad un unitario sistema di coerenze interpretative, i vari elementi

“indiziari” acquistano un convincente valore probatorio» (G. C. Marino, L’opposizione mafiosa, 1996).

Nel caso dei rapporti tra chiesa e mafia, non mancano gli indizi per ipotizzare una strategia di Cosa nostra volta a infiltrarsi all’interno del tessuto ecclesiale. Per un mafioso non solo mafia e religione si conciliano perfettamente ma, si può dire, il problema in genere non si pone neppure. Un collaboratore di giustizia, in un’intervista a Rita Mattei, così spiega come poteva conciliare mafia e religione: «Io e mia moglie siamo religiosi. Mi hanno insegnato che la mafia è nata per amministrare la giustizia. Quindi, nessuna contraddizione. Anzi, sa che ora, davanti a Cristo, mi sento un traditore? Quando ero un assassino andavo in chiesa con animo tranquillo. Ora che sono un pentito no, non prego serenamente» (T. Principato – A. Dino, Mafia donna, 1997, p. 131).

E i sacerdoti cosa ne pensano? La Chiesa non è un monolite.

Le sue relazioni con la mafia non possono essere comprese sotto facili slogan. Da un lato vi è il religioso carmelitano Mario Frittitta, che ha ammesso di aver officiato i sacramenti e celebrato messa nel covo del padrino Pietro Aglieri; dall’altro vi è don Puglisi. Tra questi due poli vi è un ampio arco di posizioni che questa ricerca ha cercato di rappresentare, seppure parzialmente, nel modo più fedele possibile. La storia della Chiesa di Palermo è necessariamente diversa dopo l’assassinio di padre Pino Puglisi in una misura che forse ancora non cogliamo pienamente, ma la sua stessa figura per essere compresa appieno, va inquadrata nella storia del cristianesimo del Novecento. E poi vi sono le strategie che la mafia mette in atto nei confronti del clero, per cercare di strumentalizzarlo e indirizzarlo, là dove questo può essere utile ai suoi scopi. Gran parte del libro si preoccupa di indagare intorno ai metodi utilizzati da Cosa nostra per riuscirvi.

Una lettura che non vuole dimenticare un filo rosso di resistenza cattolica alla mafia, lungo tutto il Novecento, che va da don Giorgio Gennaro, ucciso dai Greco di Ciaculli nel 1916, a don Giuseppe Puglisi, e passa attraverso l’esperienza di una rivista come «Segno», nata a Palermo, quella del Centro studi Pedro Arrupe, creato dai gesuiti nel capoluogo siciliano, o di sacerdoti come il salesiano Baldassare Meli e il gesuita padre Antonio Damiani, nei quartieri palermitani dell’Albergheria e del Capo. Ciò che ci interessa non sono tanto le colpe degli uomini o delle istituzioni, ma le conseguenze delle loro decisioni. E precisamente le conseguenze, sul piano religioso ed ecclesiale, di una egemonia mafiosa in Sicilia che si è consolidata nell’arco di almeno due secoli.

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martedì, 18 settembre 2007

NUOVI NARRATORI ITALIANI (di Gordiano Lupi)

Pochi giorni fa Gordiano Lupi mi ha inviato una mail con un titolo intrigante: Nuovi narratori italiani.

“Nuovi narratori italiani”, ho pensato. “E che sarà mai?”

Ve lo dico subito: è il titolo di una nuova rubrica che Gordiano gestirà per Tellusfolio e che ha come scopo quello di far conoscere ai lettori del web qualche giovane autore interessante che meriterebbe di pubblicare con case editrici medio – grandi.

Scopo ambizioso, vero?

Ma non è tutto. Gordiano mi ha domandato: “Saresti disponibile a mettere a disposizione un tuo racconto per inaugurare la rubrica?”

“Ne sarei onorato” gli ho risposto. “Ma fammi capire”, gli ho chiesto io, “non è una rubrica dedicata agli under trentacinque? Io ne ho trentanove.”

“Sì, ma per te faccio un’eccezione.”

Doppio onore, dunque. Non solo inauguro, ma sono pure ospite d’eccezione.

Mica da tutti!

Poi però ho pensato: “Un attimo. Ma che vuol dire che sono ospite d’eccezione? Che non sono più giovane? Ma non dicono che in Italia uno scrittore si dice giovane fino a cinquant’anni?”

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Scherzi a parte, ringrazio moltissimo Gordiano. Il racconto che gli ho proposto si intitola MUCCAPAZZA ed ha segnato il mio esordio letterario. Apparse nel 2003 su Lunarionuovo, rivista letteraria creata e magistralmente diretta dallo scrittore e poeta Mario Grasso (su Lunarionuovo si sono avvicendate firme importanti, tra cui: Giuseppe Pontiggia Giovanni Raboni, Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino, Giorgio Bàrberi Squarotti, Giuliano Gramigna, Giovanni Giudici, Andrea Zanzotto, Maria Luisa Spaziani, Vittorio Sereni, Italo Calvino, Sebastiano Addamo).

È un racconto scritto in prima persona. La voce narrante è quella di un magistrato, una persona colta, erudita; una di quelle che prima di parlarci è meglio munirsi di vocabolario. Il tono, dunque, è piuttosto aulico. Lo capirete da voi leggendo qui.

Poi però tornate. E lasciate un commento (non prima di aver letto l’introduzione di Gordiano, però).

(Massimo Maugeri)

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Comincio con entusiasmo questa mia nuova collaborazione con TELLUSFOLIO e spero di poter contribuire a far conoscere ai lettori del web qualche giovane autore interessante che meriterebbe di pubblicare con case editrici medio – grandi. Non ho la pretesa di fare il talent-scout, ma solo di segnalare al pubblico qualche nome nuovo per invogliare a decidere in autonomia, senza i soliti condizionamenti televisivi e della grande editoria. Sono convinto che in Italia esiste un sottobosco di narratori underground molto fertile e produttivo, giovani autori che hanno molto da dire ma che non trovano spazio nei canali ufficiali. Conduco da anni una battaglia contro la narrativa del niente, senza sangue, contro i libri sfiniti, esausti, privi di nerbo, frutto di ricerca stilistica e voglia di trasgredire. Vorrei ospitare su queste pagine telematiche autori preferibilmente under 35 (ma faremo delle eccezioni) che abbiano storie da raccontare e messaggi da lanciare. Potete inviare i racconti rigorosamente inediti all’indirizzo: lupi@infol.it.

Non pubblicherò tutto in maniera acritica, ma solo dopo attenta valutazione e selezione, mentre altri autori saranno da me invitati a scrivere un inedito per questa rubrica. Vedremo tra un po’ di tempo se sarà il caso di produrre anche un’antologia cartacea edita con la collaborazione di Edizioni Il Foglio (http://www.ilfoglioletterario.it/).

L’autore che presento per inaugurare la rubrica è il siciliano Massimo Maugeri che ci regala un racconto affascinante dotato di ritmo e costruito su sensazioni che si susseguono con grande tensione narrativa. Siamo teatranti in festa con la morte nel cuore è una definizione troppo bella per non essere ricordata ed è il leitmotiv che il lettore si porta dentro al termine della lettura. Muccapazza come Godot, in un’attesa eterna, sperando che tutto non sia come sembra, ma che resti soltanto finzione… Leggete questo racconto, confrontatevi con la profondità dei concetti e con lo stile di scrittura. Inviate il vostro solo se siete perfettamente sicuri che i requisiti di contenuto e forma reggano il paragone.

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

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venerdì, 14 settembre 2007

I CAPPUCCINI DEL MARE (racconto di Dora Albanese)

dora-albanese.jpgVi propongo un inedito di Dora Albanese (nella foto).

Leggetelo, se potete. Io l’ho trovato delizioso: una piccola pennellata narrativa sospesa tra sguardi e pensieri.

Vi anticipo una cosa. Vi ricordate il precedente racconto di Dora: Portare il pane a casa? L’abbiamo pubblicato qui.

Raccogliendo la proposta di un commentatore ho chiesto a Dora: “E se fosse il primo capitolo di un romanzo?”

Lei mi ha detto: “Non ci avevo mai pensato”.

E io: “Secondo me è il primo capitolo di un romanzo.”

Da qui è nata l’idea e la proposta: pubblicare un romanzo online a puntate; un romanzo che ancora non esiste, che deve essere scritto (ad eccezione del primo capitolo).

Dora ha accettato con entusiasmo.

Ma sapete qual è la particolarità? Il romanzo sarà interattivo, nel senso che VOI – con i vostri commenti – indirizzerete Dora sull’evoluzione dei personaggi e della storia. Naturalmente l’autrice sarà libera di seguire un’indicazione piuttosto che un’altra, o – se capita – di non seguirne nessuna. Insomma, una concezione modernissima di romanzo interattivo che prenderà corpo tra gli impulsi dei commentatori e la penna di Dora.

Vi piace l’idea?

E ora il racconto. Leggete e commentate, please.

(Massimo Maugeri)

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La sala da pranzo dell’albergo di Maratea è poco distante dal mare. Si ferma proprio sulla spiaggia, come fa la libellula rossa d’estate. Quella momentanea sospensione, quell’impercettibile distacco da terra, rende tutto così feribile, così fragile, che a stento riesco a guardarlo il mare, seduta da qui. Mi sembra così profondo e infinito, che i miei occhi si fermano a riva, non vanno oltre. Credo che è solo da lontano che si percepisca esattamente la profondità del mare, e il suo pericolo. Il sapore di morte che ogni onda lascia sulla spiaggia. Invece, quando si è dentro, si smette di tremare, di guardare lontano; lo guardi dritto negli occhi il mare, i mille occhi, dei mille pesci azzurri che lo vestono, e si vedono le alghe, che gli sfiorano le gambe. Tutto è zumato, ha senso solo ciò che è efficace. Il mare è il riassunto di ogni vita, dalla paura più grande che ci rappresenta, alla pisciata di ogni uomo e di ogni cane. Il mare siamo noi: gente umida, uomini d’acqua, impastati con carne di sabbia. Il mare è il figlio che nasce e nuota, lasciando alle spalle il suo passato da feto, e pezzi di placenta galleggiante. Ieri notte, un uomo dell’età di mio nonno, è annegato nella sua piscina. “Aveva i pesci nella piscina, forse a guardarli gli è girata la testa ed è caduto dentro, o forse gli avranno cantato una melodia strana”. Ha detto così mia nonna, quando le ho telefonato, per chiederle come andava la salute. Le volevo dire che è troppo facile dare la colpa ai pesci, dire che sono degli assassini, le volevo dire che quell’uomo forse si è suicidato, che aveva una depressione inguaribile, che la moglie lo tradiva con un ragazzino di diciotto anni. Ho lasciato stare, le ho risposto: “sì, nonna forse è proprio come dici tu… che dobbiamo fare, pazienza”. Perché mia nonna è anziana, perché è convinta che ci sarà la fine del mondo, perché crede che gli occhi bruciano per colpa del vento dell’Africa, che arriva fino qua, in Basilicata. Le onde continuano a poggiarsi sulla spiaggia, a solcarla, senza tregua. Anche una ragazza della mia città è stata solcata da otto onde minorenni, senza tregua. L’hanno trasformata in tanti piccoli granelli di sabbia. Da allora, è scomparsa, nessuno più riesce a vederla. La immagino in camera sua, rannicchiata nel letto, ancora dolorante, mentre aspetta, aspetta come una farfalla, il soffio del vento, per essere trascinata via, per morire, per non volare più, e il solo pensiero mi provoca i brividi. Anche la sala è rossa, come la libellula. Il pavimento è fatto di tanti quadrati rossi e larghi, con gli interstizi neri. Neri di sporco. Di anni di sporco. Di anni di piedi passati a fare colazione o a cenare, di piedi che avevano tutti nel passo una decisione da prendere; se andare al mare o tornare in camera a dormire un altro po’, se restare seduti a leggere il giornale aspettando che la turista della duecentosei scendesse, o tornare dalla propria moglie lasciata a dormire. Sono tutti piedi “belli di giorno”, quelli che vivono nell’indecisione; non sapranno mai, alla fine, se salirle le scale, o scenderle per sempre. Quanti piedi decisi e innamorati incontriamo per strada e nella vita, anche se non lo sapremo mai, perché i piedi non parlano, ma si fanno capire.

I piedi di Adriana, la signora della centonove, sono allegri e frettolosi. Si fanno vedere poco, preferiscono nascondersi dentro stivali a punta, nonostante il caldo. Ma il loro passo, quello di certo non possono nasconderlo. Il piede destro tende a scappare verso l’esterno, anche se il piede sinistro, lo raggiunge in fretta; passano pochi attimi, e poi subito si coordinano; decidono che passo prendere; se scalpitante e fiero, o addomesticato e umile.

Oggi Adriana ha preferito non prendere l’ascensore. Scende le scale di corsa con gli stivali, assumendo un’ andatura animalesca. Scalpita come fosse un cavallo da doma. Alza i tacchi da terra, e prova gusto a ritmare il passo e a dargli una cadenza, a far sentire a tutti noi che siamo già seduti, in attesa che l’ordinazione venga servita, che lei c’è, anche oggi. Ha i capelli sciolti stamattina, biondi un po’ arruffati alle punte; forse non li ha ancora pettinati. Anche gli occhi sono quelli della sera passata; la matita è ancora lì, secca; la toglierà dopo aver fatto colazione, forse si tufferà direttamente in piscina, o forse farà una doccia in camera, restituendo il giusto candore alla sua pelle. Ha addosso una sottana ricamata, di lino verde oliva, che con l’abbronzatura, le dona un certo significato. Adriana significa qualcosa, stamattina. Credo che poche donne riescano ad avere un proprio significato. E’ bella, di una bellezza da ammirare, da approvare, e pure io che sono donna, resto a guardarla, imitando la sua compostezza e il suo naturale piacere nel farsi guardare, senza vergogna.Il cameriere la raggiunge e l’accompagna a sedere.

“Buongiorno signora, come è andata la notte… dormito bene?”

“Sì, sì… bene. Mi porterebbe un cappuccino? Grazie, e…”

“Certo signora, mi scusi, diceva… ?”

“E un caffè… un caffè da portare via, grazie.”

“Grazie a lei signora. Il numero della stanza?”

“Perché, a cosa le serve?”

“Per verificare se tutti riescono a fare colazione signora… se tutti i clienti dell’albergo hanno usufruito del servizio incluso nell’ospitalità, signora.”

“Ah, sì certo, certo… mi scusi, credevo voleste salire a portare il caffè… ”

“Come preferisce signora”.

“La 109… il numero è 109”.

“Grazie signora… le porto subito il cappuccino”

“D’accordo, grazie”.

Finalmente anche il mio cappuccino è arrivato. Il cameriere me lo serve accompagnandolo con un mazzo di buganvillea.

“Sono i fiori del mare, madame, per lei”.

Lo ringrazio, un po’ imbarazzata, poi mi guardo attorno, cercando di capire se ci sono altre buganvillea sui tavoli di chi ha ordinato la colazione, ed è proprio così. Sorrido, quando vedo altre donne girare la testa, alla ricerca di un qualche ammiratore segreto, e poi sbuffano un poco, o abbassano lo sguardo, quando scoprono che non c’è nessun bell’uomo dietro l’angolo, pronto a distrarle dalla noia del matrimonio. Sorrido nel vedere come è facile incantare una donna, illuderla di essere al centro del mondo, come fosse una sirena in mare aperto.

Anche Adriana ha ricevuto il mazzo di fiori; ma a fianco ai fiori c’è un telefono.

“Signora abbiamo suo marito in linea, vuole sapere cosa ha ordinato per colazione… quante colazioni ha ordinato cioè… vuole che glielo passi?”

“No, la prego… gli dica che sono salita in camera” risponde Adriana a voce bassa, con il panico in gola.

“La signora è salita in camera, spiacente signore, io non posso dirle altro… il numero della camera?”

Il cameriere posa la mano sul microfono della cornetta, poi si rivolge a Adriana: “Signora, suo marito vuole sapere il numero della sua camera…”

“Dica che non lo sa, che non mi ha servito lei, inventi una scusa, la prego”. Risponde agitata.

“Spiacente, signore, ma non ho servito io la signora, non conosco il numero della camera in cui alloggia… se vuole, provo a chiedere alla reception se la possono aiutare…”

“Bravo, bravo” dice Adriana, sussurrandogli un complimento.

“D’accordo, signore… comunicheremo alla signora che chiamerà più tardi… arrivederci, buona giornata”.

Adriana tira un respiro di sollievo.“Grazie, grazie davvero, lei… lei mi ha salvata… grazie”.

“Si immagini, signora, questo è il mio lavoro… allora, vuole che le salga il caffè in camera… vuole aggiungere altro?”

“Sì, grazie mi porti una colazione completa”.

“Certo, signora”.

Il cameriere, un uomo anziano con i capelli bianchi come la panna, non si è scomposto affatto, ha sostenuto la conversazione con un distacco quasi professionale, come se nella vita avesse fatto solo questo, coprire i clienti infedeli, magari avrà in cambio una mancia importante, penso alzando le sopracciglia. Adriana è immersa nel cappuccino, tira su la tazza, fino a coprirsi l’intero naso, lasciando fuori solo gli occhi. Pare una bizantina. E’ triste, e pensierosa. Chissà per chi è l’altra colazione, se per un ragazzo giovane, o per un uomo anziano, o forse per una donna.

Mentre penso alla scena vista, mi accorgo che il cappuccino che sto bevendo è ancora bollente; l’odore del latte a lunga conservazione emerge con il fumo, e dà un sapore sgradevole alla bevanda. Getto uno sguardo al mare, che si è scurito, il tempo oggi non è dei migliori. Adriana sorride al cameriere amico e con un cenno del capo gli dice che può salire a portare la colazione. Anche io vorrei salire, entrare in quella camera e soddisfare il mio desiderio voyeuristico. Peccato, peccato che sia tutto finito, che il mare è mosso, e che il cappuccino, come tutti i cappuccini degli alberghi di mare, sia troppo caldo, e senza sapore.

Dora Albanese

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Dora Albanese è nata a Matera nel 1985. Studia lettere moderne e pubblica racconti su giornali e riviste. Vive a Roma.

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venerdì, 7 settembre 2007

CENTOAUTORI (di Gabriele Montemagno)

Cari amici di Letteratitudine,

recentemente, trovandomi a Roma, ho avuto modo di assistere all’ultimo incontro (prima della pausa estiva) dei membri di Centoautori, tenutosi nella suggestiva cornice della “Libreria del Cinema” che si trova nel quartiere Trastevere in via dei Fienaroli. Cos’è Centoautori? Presto detto. E’ un movimento che raccoglie molte personalità del cinema e della televisione nostrani (registi, sceneggiatori, attori, documentaristi, fra i quali spiccano i nomi di Giuseppe Piccioni, Daniele Luchetti, Paolo Virzì, Francesca Archibugi, Cristina Comencini, Stefano Rulli, Sandro Petralia e molti altri), i quali, incontrandosi periodicamente (ogni giovedì pomeriggio) in detta libreria, hanno deciso di agire per promuovere una più equa legislazione che regolarizzi il nostro cinema (e la nostra tv). In un documento presente nel loro sito si legge infatti che Centoautori ha avuto inizio «quando, nel febbraio scorso, abbiamo iniziato a vederci alla libreria del Cinema a Trastevere, eravamo una cinquantina di registi e sceneggiatori, alcuni dei quali si conoscevano appena. Scrivemmo due lettere aperte per chiedere un nuovo profilo culturale ed etico alla direzione di Rai Cinema. In calce a quelle lettere, radunammo duecento firme di autori di cinema e televisione, e rimanemmo in fiduciosa attesa». A questo, è seguito un importante momento nella serata del 7 maggio scorso in cui, nel teatro romano “Ambra Jovinelli”, si sono trovati riuniti i «1400 firmatari del documento». Costoro –si legge ancora nel sito- riunitisi « per una costituente del cinema e della tv si sono moltiplicati: molti quella sera piovosa sono rimasti fuori dal teatro, ma da allora Centoautori ha avuto la certezza di aver toccato nervi scoperti, di essere diventato movimento». L’urgenza di una nuova legislazione sembra nascere, nei membri di Centoautori, dalla piena consapevolezza che televisione e cinema incidono nei costumi e nei modi di pensare della gente (e ciò, nel bene come nel male), e che tali media sono spesso guidati da logiche di guadagno e/o interessi particolari che penalizzano talenti, professionalità e la creatività di coloro che non accettano lo stato delle cose o che non vogliono allinearsi con alcuna cordata (politica e non), pur avendo, possibilmente, loro precise idee e talenti. Tale stato crea danno sia alla qualità artistica dei “prodotti” che non offrono utili e diversificati stimoli al pubblico, mirando a creare solo ascolto e consenso, sia ai molti professionisti, i quali non riescono a lavorare perché non “supportati” da alcun grosso nome o provenienti da ambiti sconosciuti. Uno stato delle cose che continua ad agire in barba alla tanto citata meritocrazia.

Cari amici, detto ciò vi invito a visitare il sito di Centoautori (www.100autori.it) in cui troverete più diffusamente le notizie circa il movimento e tutto ciò che vi può interessare (e potrete intervenire voi stessi); vi domando, poi: siete d’accordo con le istanze e le necessità di questo movimento? Secondo voi può rappresentare uno dei baluardi contro quell’imbarbarimento culturale da molti (giustamente) denunciato?

Vorrei anche aggiungere che quando ho loro domandato, nella riunione in cui ho partecipato, cosa si può fare per sostenerli, mi hanno risposto che il modo più diretto è quello di farli conoscere ed anche quello di intervenire nel loro sito. Ma poi qualcuno di loro mi ha anche suggerito di promuovere dibattiti sul nostro cinema, sulla sua qualità. E soprattutto sulla sua capacità di saper raccontare nel profondo e onestamente la nostra Italia.

Vi chiedo allora: secondo voi, il nostro cinema è ancora efficace come un tempo? Interessa ancora perché ci racconta realmente, oppure perché segue delle mode accattivanti? Non temete! Tali domande non si esauriranno qui, ma mi auguro che potremo, tutti insieme, dare loro spazio anche in altri interventi. E parleremo ancora di Centoautori. Nel frattempo, attendo le vostre risposte.

Un caro saluto a tutti voi e buon cinema!

Gabriele Montemagno

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mercoledì, 5 settembre 2007

FÌDEG di Paolo Colagrande (recensione di Andrea Di Consoli)

Fìdeg di Paolo Colagrande

Pur ironizzando senza risentimento su scrittori “affermati”, da Sandro Veronesi Veronesi a Umberto Eco, Paolo Colagrande (Piacenza, 1960) realizza, ironia della sorte, con Fìdeg, suo romanzo d’esordio, un’opera “aperta”, dove il registro comico si fonde sapientemente con un’attitudine metaletteraria mai intellettualistica, ma sempre contigua alla vita “bassa”, alla vita osservata rasoterra, dal “punto di vista del cane”. Come in alcuni scrittori dell’area emiliano-padana (da Ugo Cornia a Daniele Benati a Paolo Nori) anche in Colagrande “l’ideologia” dominante è un quotidiano burbero e vero, spazientito e diretto, sgomento e tragicomico: un quotidiano senza sovrastrutture piccolo-borghesi o “televisive”.

Colagrande usa un’oralità “semicolta”, che discende dagli “zii” Celati-Cavazzoni, eppure, a questo punto, sappiamo due cose: che la lingua dei semicolti è un artificio retorico (a volte di maniera) di certa letteratura “del Po”, e che Parma, tanto per dare un centro geografico a questo “gruppo molteplice” di scrittori, è in realtà una piccola e raffinata capitale culturale, una piccola Parigi – il “proustiano” Attilio Bertolucci, con la sua cinica grazia, è un riferimento obbligato, come ovviamente sono un riferimento obbligato Luigi Malerba, Cesare Zavattini e Alberto Bevilacqua, sempre meno “bestsellerista” nella considerazione dei critici.

Questi “nuovi” scrittori di area emiliano-padana usano il “basso”, verrebbe da dire, per mirare sempre più in alto. Eppure sappiamo quante difficoltà questi scrittori hanno nello sperimentare strade nuove di ricerca letteraria. In Colagrande, per esempio, il dato dominante è un umorismo intellettuale senza visceralità e senza facili ammiccamenti; un umorismo mai gratuito e risentito, ma sempre lucido, fortemente saldato a una precisa visione “teorica” del mondo – valgano da esempio le bellissime pagine sul campanilismo; su Cristoforo Colombo conteso dai genovesi, dai piacentini e dagli spagnoli. In Guido Conti, invece, e lo abbiamo visto nel suo ultimo romanzo La palla contro il muro, l’attenzione si è spostata efficacemente dai “folli” alle angosce piccolo-borghesi. Anche in Beppe Sebaste una narrazione fortemente orale si è ormai “allargata”, finanche nella forma, alla riflessione filosofica, linguistica e politica – valga per tutti l’esempio di Tolbiac. Lo stesso vale per Paolo Nori, che è passato da una comicità “stralunata” ed esilarante a un maggiore impegno civile – si pensi a Noi la farem vendetta. Forse solo Cornia, con il suo bellissimo Le pratiche del disgusto, sembra issato nella sua felice forma conchiusa: nel suo malinconico e masochistico affondo nella quotidianità.

Paolo Colagrande allarga e rafforza un gruppo di scrittori che ebbe nella rivista Il semplice il suo centro propulsore. Nel suo bellissimo Fìdeg, vincitore del premio Campiello opera prima, troviamo certamente l’oralità, il “basso”, il comico, l’inciampo “chapliniano”, la provincia, la marginalità, ma il tutto è irrobustito da una intelligente e continua riflessione sulla forma romanzo e sul fare letteratura. E’ come se questi scrittori emiliano-padani, partiti come semicolti, adesso risalissero il fiume della letteratura “alta” – ma, in fondo, non sono forse Celati, Cavazzoni, Sebaste, giusto per fare qualche nome, anzitutto dei raffinati studiosi?

Questo gruppo di scrittori, ovviamente, non è omogeneo; anzi, a volte è addirittura conflittuale. Eppure da questo gruppo di scrittori emerge l’unica visione davvero forte (mai mimetica, o moralistica, come invece accade in area veneta) della nostra provincia profonda, delle alterità linguistiche, di una quotidianità mai piccolo-borghese o sociologica. Anziché piangere sulle orride trasformazioni della via Emilia, questi scrittori continuano a cercare, come animali solitari, angoli bui dove trovare parole e immagini nuove, semplici e marginali. Come faceva il grande fotografo Luigi Ghirri. Come fece, fino a un anno fa, Giorgio Messori, che trovò a Tashkent, in Uzbekistan, un’altra via Emilia in cui non essere braccato.

Andrea Di Consoli

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Fìdeg

Paolo Colagrande

Alet

205 pagine 12,00 euro

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Ringrazio la Alet che ha messo a disposizione un estratto del testo di Fìdeg. Potete leggerlo di seguito. (Massimo Maugeri)

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Tra le disgrazie dell’umanità – diceva Neride Bisi – c’è che quando uno sente il bisogno irrefrenabile di dire una cosa intelligente, novantanove su cento poi la dice.

Da questa debolezza dipende la crisi del mondo moderno, diceva sempre Neride Bisi che per questo motivo aveva deciso di parlare solo quando era al bar o dal barbiere, che sono delle specie di aree protette, oasi ecologiche dove il parlare è indifferentemente un fatto di istinto o di divertimento o di abitudine, come fumare o giocare a carte o bere dei bianchi; tutte cose che lui faceva sempre volentieri, specialmente l’ultima.

Da questa premessa mio nonno Neride Bisi aveva tratto un’importante regola sociologica rivoluzionaria di cifra anarchica, cioè: che il parlare e il ragionare viaggiano su due strade diverse che non si incontrano, non c’è il collegamento, lo svincolo, il crocevia logico funzionale; di conseguenza, mancando il crocevia logico funzionale, le cose intelligenti vengono fuori solo per caso o addirittura per sbaglio, cioè tipo una volta su un milione. La teoria sociologica aveva poi anche un imprevisto risvolto macroeconomico, perché mio nonno Neride, con un passaggio un po’ ardito che non mi ha mai spiegato bene, diceva che a tacere tutti si migliorava il livello di benessere della società e si diventava ricchi, nel senso di fare i soldi. Lui, ricco, non lo è mai diventato.

L’ho presa lunga con mio nonno Neride non solo perché mi andava di baccagliare un po’, ma soprattutto per dire che quella cosa intelligente dei richiami semantici in tema di tubatura era meglio che me la tenevo per me: risparmiavo le parole e non passavo da locco.

Locco è una parola nordemiliana-sudlombarda assolutamente intraducibile: perché dire allocco, cioè una specie di uccello rapace notturno sinonimo non so perché di stupido, oppure babbeo, aggettivo manzoniano usato nei dialoghi di Tex, non dà quell’idea dispregiativa trasversale che solo la parola locco riesce a rendere. Quindi terrei locco, nella speranza che il concetto sia ben trasmesso.

Dimenticavo di dire, prima della digressione sull’epiteto locco nordemiliano vagamente sinonimo di stupido, che quando dei famosi scrittori con cui ero a cena ieri l’altro mi han detto che il nome della rivista era La tubatura, ho sentito il bisogno irrefrenabile di dire una cosa intelligente, e allora mi sono

lasciato scappare che nella tubatura c’erano molti richiami semantici.

Di qui il ricordo commosso di mio nonno Neride, bracciante agricolo con vocazione sociologica, morto a novantatré anni.

D’altra parte tutte le volte che incontro degli scrittori, cosa che non capita spesso, è più forte di me pensare che dentro la loro testa ci sia sempre un gran lavoro di richiami e controrichiami semantici in continua agitazione. E siccome ero a tavola con dei famosi scrittori che mangiavano del coniglio in umido e bevevano del rosso con la schiuma mentre buttavano giù il nome della rivista e altre cose tecniche come il palinsesto detto più propriamente menabò, ho pensato che in quel momento, all’interno dei loro cervelli, doveva esserci una tale esplosione di richiami e circuiti semantici che, a tenerci dietro a tutti, c’era veramente da farsi venire la febbre. E considerato che era già un po’ tardi e anch’io stavo mangiando il coniglio in umido – buonissimo, tra parentesi – con tre o quattro bicchieri di rosso con la schiuma, che non sono abituato, ed ero lontano centocinquanta chilometri da casa con strada collinare, ho pensato che era inutile mettersi a tirar giù uno a uno i richiami semantici esplosi nel cervello degli scrittori, e che era più pratico, intanto, far vedere intelligentemente che sapevi che c’erano, e poi a casa tirarli fuori con calma; magari non tutti, i principali. Mi era sembrata la cosa più pratica, da dire.

Invece era più pratico se stavo zitto. Adesso non voglio farla più tragica di quel che è, ma se c’era lì mio nonno Neride (cosa impossibile essendo morto quando avevo quattordici anni) diventava rosso in faccia dalla vergogna.

Perché i famosi scrittori che hanno inventato questo bellissimo nome per la rivista sono stati più che altro ispirati, come han cercato caritatevolmente di spiegarmi, dalla musicalità. La tubatura, a ripensarci, lasciando stare gli altri concetti che son secondari, è una parola con una musicalità da far venire la pelle d’oca, con un ritmo musicale, con delle bellissime note musicali

ripetute, che non ce le aveva neanche 1ostakovic; e poi con un gran bel labiale, che un labiale così non ce l’ha nessuna parola sul vocabolario, a parte Lolita, che non è sul vocabolario perché è un nome proprio e che comunque c’ha dietro tutto un suo ragionamento. Insomma a riflettere attentamente sulla straordinaria musicalità e sul labiale della tubatura ti si apre un orizzonte immaginifico da non credere, e mi sono sentito come in un grande prato verde pieno di scrittori contemporanei che si scambiavano ritmi musicalità e labiali e io gli correvo incontro, a quegli scrittori, a braccia aperte per ringraziarli e abbracciarli commosso. E lì per lì – lì per lì è un’espressione che non uso mai, ma io ho una creatività un po’ tutta mia che, con buona pace di mio nonno Neride, bisogna che ogni tanto si sfoghi – e lì per lì, dicevo, ho capito una cosa importantissima, che se la capivo prima evitavo di fare delle brutte figure.

E cioè: dire a dei famosi scrittori che dentro una parola, o nel nome di una rivista, ci sono molti richiami semantici è come dire a un famoso elettricista che negli impianti elettrici c’è molta elettricità. O come dire a un famoso cuoco cinese che dentro la cucina cinese ci sono molti aromi orientali. Cioè, lasciando stare gli elettricisti e i cuochi cinesi che erano solo delle similitudini, per i famosi scrittori – ma anche forse per i normali scrittori – i richiami semantici sono tipo delle cuciture fini e invisibili e impercettibili come quelle delle camicie eleganti.

Ma se tu vedi una camicia elegante che ti piace, non dici che belle cuciture invisibili impercettibili che ha questa camicia elegante.

Le cuciture sono cose che ci sono e basta, e se tu lo sai che ci sono è inutile che lo dici. Così, per i famosi scrittori il richiamo semantico è una cosa talmente naturale e istintiva e anche evanescente che loro, gli scrittori, non ci pensano neanche che c’è o se lo dimenticano, e se tu glielo dici è capace che s’irritano e magari, per tornare al caso che ci riguarda, non ti fanno più la rivista. Così sono fatti i famosi scrittori.

E durante il viaggio di ritorno in macchina con Fangio che guidava fortissimo l’escort giù per il percorso collinare verso la stazione di Modena dove avevo, o almeno credevo di avere, il treno, pensavo che dovevo essere stato proprio un asino a rovinare una cosa così bella e musicale e ritmica come la tubatura, sparando fuori l’idea dei richiami semantici che sono una specie di essenza intestinale della formidabile musicalità di quel nome.

E se di una cosa bella tu tiri fuori solo l’essenza intestinale, corri il rischio di rovinarla per sempre.

Ma poi, considerato che, dopo che Fangio mi ha lasciato giù in stazione ed è ripartito e io ho scoperto tragicamente che poco alla volta venivano soppressi tutti i treni, per via dello sciopero del personale ferroviario, e considerato che in quello stesso momento mi sono anche accorto che il telefonino era scarico e che tutte le cabine di Modena, come mi ha spiegato il tunisino clandestino Jamal, vanno solo con la scheda telefonica, che io non avevo e lui neanche, e che alle due di notte non c’è nessuno che ti vende delle schede telefoniche e che l’indomani mattina alle nove dovevo essere alla Malpensa a prendere mio fratello che veniva da Londra e io la Malpensa a momenti non so neanche dov’è. Considerato che si è messo anche a piovere e la sala d’aspetto era chiusa e che l’unica cosa che potevo fare era stare sotto una pensilina in piedi perché le panche erano già occupate tutte da extracomunitari clandestini coricati, fra cui appunto il tunisino Jamal. Considerate tutte queste cose, compreso il fatto che alle tre ho bussato alla porta a vetri di un albergo dove per poco non chiamano i carabinieri, sono arrivato alla conclusione che, in quello stato di sfiga totale e di degradazione inarrestabile in cui inspiegabilmente mi trovavo, se anche facevo tra me e me qualche richiamo semantico, magari non rumoroso, la situazione non sarebbe comunque peggiorata. Tanto più che non c’erano scrittori in giro e in teoria potevo fare tutti i richiami semantici che volevo. E allora, mi sono fatto una specie di confessione.

Se c’è una cosa che mi ha sempre lasciato a bocca aperta dalla meraviglia sono le planimetrie e i disegni tecnici. Io penso che a volte ci sono delle planimetrie e dei disegni tecnici che a guardarli sono più belli di certi quadri famosi di celebri pittori.

Da quel punto di vista sono abbastanza fortunato perché ho un amico che è un famoso geometra e sul suo tavolo c’è sempre una montagna di planimetrie da guardare. Io non ho vergogna a dire che lo invidio molto perché sa fare dei disegni tecnici così belli e precisi e raffinati che io non sarei buono neanche se andassi a scuola di disegno tecnico per cinquant’anni a fila. E così, quando guardo una bella planimetria, specialmente quelle delle case, mi vengono due tipi di sentimenti che qualcuno potrebbe dire che sono in contrasto, ma invece non lo sono per niente: uno è quello di mettermi lì a estasiarmi davanti al foglio per delle mezze giornate e seguire col sorriso sulle labbra tutte quelle belle righe e quei bei spazi vergini con dei piccoli simboli tecnici che sembrano dei fiori in un giardino, l’altro è di prendere dei pastelli e farci in mezzo qualche disegno postmoderno a mano libera o riempire gli spazi bianchi con un bel colore o cose di quel genere.

Le planimetrie che mi piacciono di più sono le sezioni con gli schemi idraulici perché entrano in una specie di intimità maliziosa con la casa: in pratica è come vedere la casa segata verticalmente con un taglio preciso, dal tetto alla cantina, lungo il tracciato dei tubi d’ingresso e di scarico. Quelli d’ingresso c’hanno segnata una freccia verso l’alto, in quelli di scarico la freccia punta verso il basso: le frecce sono disegnate allo sbocco del tubo, cioè dove il tubo, andando verso l’alto, entra nella casa e a un certo punto finisce con un tappo. Se la sezione è di un condominio, ci sono tanti sbocchi di tubo quanti sono gli appartamenti. Ecco, io quando vedo questi disegni tecnici di sezioni idrauliche sulla scrivania del mio amico geometra, quando vado a trovarlo, ho l’irresistibile tentazione di prendere una matita, una di quelle bellissime matite a mina che tutti i geometri lasciano distrattamente in giro nei loro studi, e completare la bocca dei tubi disegnando, appena sopra la freccia, dei piccoli wc con su degli omini seduti. Il risultato è che al mio amico famoso geometra, dopo che sono uscito, gli tocca perdere poi dei quarti d’ora a tirare delle madonne a cancellare tutti i vaterini e gli omini che ho disegnato sulle sue meravigliose mappe. È più forte di me. Tra l’altro devo dire che ormai c’ho preso su una mano che sia i vaterini sia gli omini caganti mi vengono proprio bene: anche se sono stilizzati hanno una loro dignità composta e serafica, come dovrebbe avere normalmente una persona in quei momenti.

Questa mia mania di disegnare vaterini e omini serafici caganti sulle mappe del mio amico famoso geometra rappresenta solo la prima parte della confessione.

La seconda, quella più importante, è che quando questi amici scrittori mi hanno detto che il nome della rivista era La tubatura mi si è magicamente disegnata nella testa la sezione planimetrica di un condominio con schemi idraulici; già completo di vaterini e omini in cima ai tubi. Non solo, ma ho anche visto idealmente per un attimo tutto l’impianto in funzione con gli omini serafici che si danno da fare con movimenti impercettibili dell’addome e gli scarichi che scorrono nei tubi che si uniscono e si incrociano con dei gomiti, delle T, delle V, delle Y, e convogliano, come si dice in lingua idraulica, nella rete fognaria e via discorrendo.

È così che mi è scappato fuori il richiamo semantico.

E, modestamente, tra i possibili richiami semantici collegati alla tubatura – pensavo più tardi sotto la pensilina della stazione di Modena mentre aspettavo inutilmente dei treni soppressi – quello che ho trovato io mi sembra proprio azzeccato.

Perché, a pensarci, la rivista che mi si è idealmente raffigurata in testa è proprio una tubatura che convoglia i prodotti letterari di ciascuno di questi scrittori famosi o di scrittori minori o di scrittori esordienti o di scrittori sedicenti.

E ripensando alla cena dove più o meno tutti avevamo mangiato il coniglio in umido, tranne Girolamo che era a dieta e Gèc che ha preso il castrato, nella mia testa un po’ annebbiata dalla depressione del momento contingente ho rivisto tutti noi intorno a questa tavola seduti su tanti bei wc.

E la tavola è diventata la sezione idraulica di un piccolo condominio dove ciascuno di noi produceva letteratura seduto sul suo legittimo vaterino e il prodotto convogliava in una tubatura comune che era appunto la rivista.

Non escludo che in questa visione abbia giocato un elemento onirico – se mi si passa ancora una volta l’espressione – dovuto al fatto che sotto quella pensilina ci sono rimasto a deprimermi fino alle cinque cioè fino a quando ha aperto il bar della stazione, e allora siamo entrati io, quattro neri compreso Jamal il tunisino e tre prostitute altissime con la voce strana, io a comprare una tessera telefonica, le prostitute a bere il cappuccino e tutti quanti a scaldarci.

Ma a parte l’elemento onirico (su cui non mi soffermo, per la nota teoria macroeconomica di mio nonno Neride), credo che la mia idea del richiamo semantico-planimetrico-idraulico, idea che sto onestamente confessando da un paio di pagine e ormai ho quasi finito, sia un’idea azzeccata anche dal punto di vista dell’anonimato che è una caratteristica esclusiva della rivista La tubatura.

Perché il prodotto letterario di ciascuno di quegli omini serafici seduti sui vaterini va a finire appunto nella tubatura, seguendoun suo iniziale percorso intimo per entrare in una zona idraulica collettiva e paritaria dove nessuno può più rivendicare il prodotto come suo.

Chiaro che un esperto, posizionandosi nella parte finale della tubatura, quella che convoglia gli scarichi nella rete fognaria che semanticamente rappresenta il mercato editoriale, potrebbe riconoscere frammenti di prodotto letterario attribuibili all’uno o all’altro omino serafico. È un po’ difficile, ma infatti stiamo parlando di un esperto.

Ad esempio, Girolamo dopo le tagliatelle agli ovoli ha mangiato solo un’insalata mista e ha bevuto poco, per via della dieta, e allora i suoi frammenti narrativi di quella sera è facile che si disperdano un po’ nel filone letterario corrente; mentre Fangio ha mangiato, oltre al coniglio, i tortellini al pasticcio, le cipolline borettane in agrodolce e ha coricato due bottiglie. Gèc ha bevuto la vodka come aperitivo, prima delle tagliatelle, ma poi mi pare che ha mandato giù della gran acqua. Sono tutti dati importantissimi per l’eventuale esperto che, per amore di ricerca scientifica, volesse cimentarsi nel selezionare, dentro il prodotto letterario della rivista, il contributo soggettivo di ogni singolo omino serafico.

Alla fine della mia confessione, vorrei metterci ancora tante idee, perché ormai vado a ruota libera e, a dirla tutta, mi scappano ancora tante di quelle variabili semantiche che non basterebbero altre cento pagine: ad esempio, l’ipotesi che la tubatura un bel giorno si ingorghi perché qualcuno ha buttato nel wc letterario del materiale anomalo e improprio, o che qualche omino infingardo resti seduto facendo solo finta di produrre e via discorrendo. Ma il discorso diventerebbe troppo lungo e devo dire che, a un certo punto di quella interminabile notte, mi è anche passata la depressione; che, come gli scrittori sanno, è un momento di grande rigoglio creativo.

Infatti, alle nove di mattina, grazie alla scheda telefonica comprata al bar, ho chiamato mio fratello sul cellulare. Come ho già detto, mio fratello mi aveva chiesto il grosso favore di andarlo a prendere alla Malpensa alle nove di mattina, e io, con la mia solita straripante generosa disponibilità, gli avevo risposto che non solo non c’erano assolutamente problemi ma che lo facevo con piacere qualunque fosse l’orario, anche alle sei di mattina. Lui mi aveva detto di non esagerare, che l’ora di arrivo comunque era le nove, ma io ho insistito e alla fine sono riuscito a convincerlo che era meglio che io arrivassi lì almeno alle otto; così lui, dopo che si è convinto, mi ha ringraziato perché gli toglievo davvero un pensiero. E io ero contento di far qualcosa di utile per mio fratello che è sempre in giro per il mondo a lavorare come un matto. Quando, dal telefono pubblico, alle nove di mattina, gli ho detto che ero in stazione a Modena da sette ore, e che il primo treno era alle due di pomeriggio, mi ha dato dell’asino.

Poi ha noleggiato una macchina alla hertz e mi è venuto a prendere a Modena; così alla mezza ero a casa a fare la doccia.

Mi ha detto, a livello di consiglio fraterno, che la prossima volta che mi chiede un favore di rispondergli semplicemente di no, che si evitano tanti problemi.

L’ultima riflessione l’ho fatta proprio mentre venivo scarrozzato sulla bellissima e profumatissima macchina noleggiata da mio fratello all’aeroporto della Malpensa: in fin dei conti, ho pensato, la teoria di mio nonno Neride con tutto il rispetto è molto opinabile. E mi sa che io sto già diventando come lui, che parlo sempre poco (a parte stavolta) e non c’ho mai una lira in tasca.

Ma se lui – mio nonno Neride – mi avesse visto quella notte di pioggia sotto la pensilina davanti alla stazione (chiusa) di Modena, in piedi, con tre prostitute e quattro clandestini, compreso Jamal il tunisino, ad aspettare per sei ore dei treni che venivano soppressi uno dopo l’altro, con il cellulare scarico e senza scheda telefonica, con ancora sullo stomaco un coniglio in umido mangiato molte ore prima insieme a famosi scrittori e a scrittori minori e a scrittori sedicenti; se, contemporaneamente, avesse visto mio fratello che, sbarbato e dopobarbato e in giacca e cravatta di ritorno da Londra, entrava alla hertz dell’aeroporto della Malpensa facendosi consegnare da una specie di miss mondo sorridente in divisa blu della hertz le chiavi di una bmw per venire a prendere me, fino alla stazione di Modena; se avesse visto tutto questo, compresa la faccia del custode

dell’albergo che, dalla paura che facevo, voleva chiamare i carabinieri, adesso probabilmente sarebbe abbastanza orgoglioso di suo nipote più vecchio (cioè io), anche se – pensando alla rivista denominata La tubatura e ricordando quel coniglio in umido – ogni tanto mi scappano ancora di quei richiami semantici così potenti che poi c’è da aprire delle finestre per delle mezz’ore.

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giovedì, 30 agosto 2007

IN RICORDO DI RAFFAELE CROVI

Raffaele Crovi: l'ombra del padre e il ritorno a casaUn altro grande autore della nostra letteratura ci ha appena lasciato. Noi di Letteratitudine vogliamo ricordarlo partendo proprio dai suoi esordi letterari.

Lo facciamo proponendo questo scritto di Andrea Di Consoli sul romanzo Carnevale a Milano, opera prima di Raffaele Crovi, pubblicato nel ’59 da Feltrinelli e riproposto recentemente da Avagliano.

(Massimo Maugeri)

* * *

E’ una boutade, ma ha qualcosa di serio: anche Raffaele Crovi è stato un “giovane scrittore”. Carnevale a Milano è il primo romanzo dello scrittore emiliano; scritto tra il 1956 e il 1957, è ambientato nella Milano del 1955. Fu pubblicato dalla casa editrice Feltrinelli nell’aprile del 1959, in una collana che si pubblicizzava in questo modo: “E’ la prima volta che opere prime di giovani autori, non di rado alla prima loro esperienza letteraria, vengano presentate ad un pubblico vasto, popolare, con il criterio editoriale del basso prezzo e dell’alta tiratura”. Crovi, comunque, aveva appena venticinque anni, e a quei tempi aveva pubblicato una raccolta di poesie con il mitico Schwarz, e lavorava già con profitto nell’editoria.

Il risvolto non firmato dell’edizione feltrinelliana di Carnevale a Milano è una testimonianza preziosa della cultura degli anni Cinquanta. Leggiamone uno stralcio: “Raffaele Crovi, con un acuto e smaliziato esame, senza abbandoni sentimentali e con un attento rigore intellettuale, affronta qui il giudizio della gioventù italiana d’oggi, quella che usa, come strumenti di vitalità, il flipper, i gettoni del juke-box, e indossa i blue-jeans. Ragazze per le quali il pudore non è più una difesa, quindi una verità; ragazzi senza passione, senza illusioni, e tuttavia non cinici, non indifferenti”. Da notare almeno due cose: la moda del momento (i jeans, il juke-box) e la faccenda delle ragazze, che non considerano più il pudore una difesa, cioè una verità. Tutti i “giovani scrittori” dovranno attendere la prova della ruggine e dell’erosione, ché ciò che oggi è dirompente, forse domani strapperà un sorriso appena. Il mondo, purtroppo, galoppa; ma anche se galoppa, molte cose rimangono. Carnevale a Milano, sia detto con franchezza, è un romanzo che regge alla prova del tempo. Forse, addirittura, è uno dei migliori romanzi di Crovi, che pure ha scritto tanti libri importanti. Ma l’alta temperatura di questo romanzo rimane un unicum, una felice sorpresa. Si ristampa Carnevale a Milano con l’ovvio intento di rendere reperibile un testo introvabile. Però c’è anche dell’altro; per esempio ci piacerebbe sapere nei lettori di Crovi che “posto” andrà a occupare questo romanzo; e poi non ci dispiacerebbe una riflessione a più voci sui destini della “giovane letteratura” nel tempo. Un romanzo “giovane” è “giovane” per sempre?

Non era facile esordire nel 1959. L’Italia letteraria era nella sua fase dorata. In circolazione c’erano, giusto per fare qualche nome, Pasolini, Gadda, Moravia, Vittorini e Calvino. Si stava sotto lo schiaffo dei grandi. Eppure il Novecento è una miniera inesauribile. Basta affondare la mano nel suo fondo, e anche l’opera prima di uno scrittore venticinquenne risulta di grande importanza. Chi aveva la forza di esordire ai tempi dei giganti, poteva considerarsi un vero scrittore. Il giovane Crovi è nella foto di gruppo dell’epoca d’oro delle lettere italiane. Quanti “giovani scrittori” di oggi avrebbero ricevuto sberle sulla nuca dai giganti del ‘59?

Si parta dall’epigrafe, in questo caso di Tommaso Landolfi: “Perdo tempo come si perde sangue”. Epigrafe assai adeguata al senso del romanzo. Carnevale a Milano è un romanzo di giovani impiegati, operai, intellettuali nella Milano del boom economico, continuamente alla ricerca di un senso, di una “serietà” esistenziale, epperò eternamente risucchiati nell’inadeguatezza, nella noia, nella inconcludenza e nella malinconia. I personaggi del romanzo sono “senza soluzione”. La Milano del romanzo è invernale, coperta di neve. L’inverno di Crovi ferisce il cuore (“Nel buio, anche se ero nella grande Milano, non potevo impedirmi di sentire il freddo ferirmi”). E’ una Milano di studenti senza soldi, di pensioni periferiche e di latterie. Nella latteria di via B., Sergio, studente proveniente dalla provincia e voce narrante, trova per la prima volta degli amici. Dice Sergio: “Nessuno di noi aveva molti soldi (questo lo scoprimmo subito) e fu la prima ragione che ci tenne uniti”. Tutti i ragazzi di Carnevale a Milano cercano “un’occasione ancora per fare passare del tempo”. Tutti cercano compagnia, un pretesto per chiacchierare in latteria o per stringersi a una ragazza. Trovare degli amici significa “potersi commiserare insieme”, “trovare una scusa ai pentimenti”. Occhio ai dettagli. Quando Aldo propone di andare a donne, Sergio dice: “Uscimmo senza aggiustarci le cravatte”. E’ un’Italia di studenti ancora con la cravatta, epperò con l’anima già in rivolta, in apatica attesa di uno sconvolgimento. Nella Milano di Crovi ci si attacca a tutto pur di sentire un po’ di tepore; anche l’odore del caffè proveniente dal cortile può dare un po’ di calore a chi cerca la sua strada in una grande città. E’ una gioventù maliziosa che pure sente i morsi dell’impotenza. Tutti si prendono e si lasciano “con stanchezza”, e anche quando si beve e ci si diverte, la tristezza è in sottofondo, come un murmure. Carnevale a Milano è un lungo inverno, ma “l’inverno è sempre lungo” per chi cerca la sua strada.
Sergio ha fatto anche politica. Il suo compito era quello di trasformare in comizi le notizie dei giornali. Per questa ragione ha ben conosciuto Roma. Ma Milano gli piace di più, perché “a Milano, nonostante tutto, mi pareva di poter camminare più libero, raccolto in me stesso, capace di difendere il mio pudore d’uomo, in una città che ha un suo pudore”. Un giorno, con Gerardo, Sergio va a un comizio monarchico. Gerardo provoca una rissa e viene fermato dai poliziotti. Qualche pagina prima il triste presentimento: “Forse diventeremo deputati o segretari di partito: e saremo vecchi anche noi”. Non sognano a occhi aperti, i giovani di Carnevale a Milano, ma avvertono l’oscura minaccia della maturità, della vecchiaia, ovvero della inevitabile “serietà” delle responsabilità. Sergio sa bene che il mondo non è solo suo. In questo è di una maturità sconvolgente (“Il sole è fatto anche per gli altri, e così il freddo, il pane, la sera. Devi anche essere disposto a cedere, a ricompensare la gente della compagnia che ti fa, del credito che concede”). Il sole è anche degli altri.

Non si può correre a lungo senza stanchezza. E forse nell’inverno ci si può nascondere, perché il freddo “ti scusa se non hai voglia di parlare”. Sergio forse ama Giuliana; forse la sposerà. Ma Giuliana vive a Genova, e la distanza fiacca la sua vitalità sentimentale. Nell’attesa, gioca con le ragazze. Una sera, al cinema, tocca il seno di Delia. Lei si fa toccare. Solo, a un certo punto gli dice: “Perché tremi?” Sergio è giovane, cerca la sua strada, tira tardi con gli amici e con le ragazze, ma poi c’è sempre un dettaglio che lo tradisce; che tradisce il suo distacco, la sua inadeguatezza, il suo fragile tremore. Scappare, partire non serve (“Se lasci qualcosa, quando torni lo ritrovi. E’ un posto dove fermarsi che bisogna cercare”). E’ rimanere che conta, trovare una “serietà” nel proprio tempo.
Tutti sappiamo che Raffaele Crovi ha avuto un maestro d’eccezione. A Elio Vittorini ha dedicato un libro stupendo. Ed echi vittoriniani sono ben presenti in questo romanzo. Un esempio per tutti: “Ci sono giorni più tristi degli altri e venerdì d’inverno che sono i più freddi giorni dell’inverno. Pioggia per tutta la notte e la neve sporca”. Qui l’andamento è evidentemente poetico e sincopato à la Vittorini; la pioggia di Carnevale a Milano non è troppo diversa dalla pioggia nelle scarpe rotte di Conversazione in Sicilia. E la Milano di Crovi è piena di meridionali; tra di loro c’è sicuramente gente come Silvestro. La padrona del chiosco delle castagne dice: “Sono loro che comprano le castagne. Senza calabresi e siciliani, io qui ci morirei di fame”. E intanto si balla, tristemente; si beve cognac cantando “Oci ciornia, oh che sbornia”. E c’è malinconia, paura di non farcela, d’invecchiare senza essersi ancorati a nulla. Sergio ricorda con struggimento le parole del padre lontano: “Sta’ attento”, e quelle parole stringono il cuore. Il passaggio dalla civiltà contadina alla vita cittadina è in fase avanzata. La strada di Sergio è ormai una strada senza ritorno.
Intanto il carnevale si avvicina e il sole è come un miraggio lontano. Quando Giuliana, al telefono, chiede a Sergio notizie sugli esami, lui non risponde, ma domanda: “C’è il sole lì da te?” Spesso Sergio si trova “davanti al sole” come davanti a un miracolo, anche se poi passa e svanisce nel grigiore.

Nei giorni di Carnevale a Milano “Eisenhower aveva avuto un colloquio con Dulles, la Lollobrigida strava interpretando Trapezio, a Barcellona gli studenti disertavano i tram”. Nessuno, però, dice Sergio, “parlava del rumore delle nostre forchette, degli sbadigli di Paolo, della nostra noia”. C’è vento a Milano, tanto che per accendere una sigaretta si sprecano tanti fiammiferi. Il cielo è buio dovunque, e fa freddo. Sergio le sue mani le riscalda sulla stufa di terracotta. Nella sua stanza c’è odore di aglio e di biancheria stirata. Alla radio si ascoltano i valzer trasmessi dal “Notturno dall’Italia”, programma radiofonico oggi trasmesso in AM da Rai International per i soli nostalgici. Anche se annoiati, i giovani di Carnevale a Milano sono seri; in una lettera spedita a Giuliana, Sergio scrive: “Mi piaceva la tua umiltà, la tua serietà”. Si cerca una “serietà di vita”, anche se la modernità incombe con i suoi tanti dubbi e lusinghe. Ma si continua a perdere tempo “come si perde sangue”, e “ormai c’era l’abitudine di perderlo”. In questo romanzo tutti cercano “qualcosa d’imprevisto”, una scossa vitale; oppure un posto dove fermarsi. Sergio, probabilmente, trova la sua “fermezza” nel matrimonio con Giuliana. E anche se la modernità rompe gli schemi e disintegra le certezze, ugualmente i personaggi di Crovi cercano dei punti fermi. Non solo li cercano, ma li trovano, come testimoniano i romanzi successivi di Raffaele Crovi, uno scrittore che ha attraversato la modernità senza rinunciare alla costruzione di una “forma”, di una “serietà” esistenziale.

Andrea Di Consoli

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Aggiornamento del 30 agosto 2007, h. 21.20

Segue un articolo, firmato da Andrea Di Consoli, che sarà pubblicato sulle pagine culturali de L’Unità di domani (31 agosto). Lo offriamo, come anticipazione, ai lettori di Letteratitudine.

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Si è spento ieri pomeriggio, nell’ospedale “Umanitas” di Rozzano, in provincia di Milano, Raffaele Crovi, scrittore, poeta e intellettuale tra i più importanti degli ultimi anni. Era nato nel 1934 a Calderara di Paderno Dugnano, ma era cresciuto a Cola, paese dell’Appennino reggiano dove, soleva dire, “ho una casa, una biblioteca e una tomba”. Nel 1952 si trasferì a Milano, dove si laureò in giurisprudenza, mentre dal 1956 al 1960 collaborò con la casa editrice Einaudi in qualità di assistente di Elio Vittorini, prima come redattore della collana-rivista “I Gettoni” e poi della rivista-collana “il menabò”.

Raffaele Crovi non è stato soltanto uno scrittore; è stato a lungo uno dei grandi protagonisti dell’editoria italiana (vicedirettore della Mondadori, direttore della Rusconi, della Bompiani-Fabbri-Sonzogno, fondatore di Camunia e, dal 2000, direttore della casa editrice Aragno), della politica italiana (nella DC e nel Partito Popolare, collaborando con Mino Martinazzoli), della televisione e del teatro (è stato responsabile dei programmi culturali della Rai di Milano e ha diretto il teatro “Verdi” di Milano).

Eppure è nel campo letterario che Crovi ha riscosso i successi maggiori, sin dal suo esordio come narratore nel 1959 con Carnevale a Milano (Feltrinelli), recentemente ristampato da Avagliano. Tra i suoi romanzi ricordiamo: La corsa del topo (Mondadori, 1970), Il mondo nudo (Einaudi 1975, ristampato da Fanucci nel 2006), Le parole del padre (Rusconi, 1991), La valle dei cavalieri (Mondadori, 1993, Premio Supercampiello), L’indagine di via Rapallo (Piemme, 1996), Appennino (Mondadori, 2003), Cameo (Mondadori, 2006) e Nerofumo (Mondadori, 2007). Importanti anche la produzione poetica, da Fariseo e pubblicano (Mondadori, 1968) a Elogio del disertore (Mondadori, 1973), da L’utopia del natale (Rusconi, 1982) fino al recente libro struggente e gioviale La vita sopravvissuta (Einaudi, 2007). Importante, infine, l’attività saggistica. Ricordiamo il monumentale Il lungo viaggio di Vittorini (Marsilio, 1998), Diario del Sud (Manni, 2005) e Vittorini cavalcava la tigre (Avagliano, 2006). Sterminata la bibliografia critica sulla sua opera (per farsene un’idea basta leggere il volume monografico a lui dedicato dallo scrittore Giuseppe Lupo, Le utopie della ragione, Aliberti editore), nonché l’attività di Crovi sul versante della critica letteraria, come collaboratore di numerose riviste e quotidiani (da “Il Giorno” al “Corriere della sera”).

Con Raffaele Crovi scompare uno scrittore fortemente novecentesco (della letteratura del Novecento conosceva anche le pieghe più segrete), un intellettuale con forti motivazioni morali, nonché un romanziere che ha lungamente lavorato intorno a nuclei tematici ben precisi: il potere, il romanzo antropologico, il rapporto tra provincia e metropoli, la terra, la paternità, la memoria, la politica italiana. Uno scrittore che ha saputo dialogare con i “padri”, e che ha saputo indicare rotte precise a centinaia di scrittori italiani (dai “marginali” o “dimenticati” fino agli scrittori di genere, che lui ha sdoganato in tempi non sospetti). Da questo punto di vista si può parlare di un vero e proprio magistero, editoriale, letterario e umano. Fu lui, per esempio, a pubblicare I fuochi del Basento (Camunia, 1987) di Raffaele Nigro, aprendo finalmente le porte dell’editoria ai nuovi scrittori meridionali che fino a quel momento erano stati emarginati.

Raffaele Crovi ha lavorato sino agli ultimi giorni della sua vita, nonostante un tumore lo tormentasse da un paio d’anni; questo coraggio implacabile ha il sapore di un insegnamento fondamentale, ché la vita, nonostante tutto, deve trionfare fino alla fine (Crovi amava l’Italia, le cene con gli amici, i viaggi, scoprire gli angoli nascosti del nostro paese, e andare ai premi per stare in compagnia). Questo amore per la vita è la grande eredità che lascia ai figli, ai suoi collaboratori (il più stretto è Andrea Casoli, redattore della Aragno) e ai tanti scrittori e intellettuali che da lui hanno imparato qualcosa. I funerali si svolgeranno sabato mattina a Milano (messa di monsignor Ravasi) e sabato pomeriggio a Cola, paese nel quale verrà seppellito.

Per saperne di più si può visitare il sito www.raffaelecrovi.it

Andrea Di Consoli

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lunedì, 13 agosto 2007

PICCOLA PAUSA D’AGOSTO

Cari amici,

mi prendo qualche giorno di vacanza, ma vi invito – nei limiti del possibile – a continuare a essere presenti sul blog. Come? Magari raccontando le letture estive e – perché no? – riportando una o più frasi del testo con cui si è scelto di condividere tempo ed emozioni.

 Ombrellone

A proposito, che libro state leggendo adesso?

 Non so se avete notato. Sulla colonna destra del blog, in basso, trovate la dicitura “Post permanenti”. Si tratta di alcuni post/sondaggio che vi ho proposto (propinato?) in questi mesi. Molti di voi li conoscono già. I nuovi arrivati, però, potrebbero dare un’occhiata e partecipare con commenti. Naturalmente non è esclusa la partecipazione ai “vecchi”. Anzi. Tutt’altro. Insomma, se potete, aiutatemi a tenere vivo il sito. Come ho sempre scritto – e detto – sin dall’inizio Letteratitudine è un open-blog. La sua vera forza siete voi che ci scrivete, sia come curatori di rubrica che come commentatori. Io sto qui a dirigere il traffico. E lo faccio con vera gioia!

Buon ferragosto a tutti!

Massimo Maugeri

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giovedì, 9 agosto 2007

CLICK JEANS di Barbara Gozzi

Nuova puntata di Giovani scrittori crescono (selezione under 30)”. Stavolta vi presento Barbara Gozzi, che molti di voi conoscono giacché è una frequentatrice assidua di questo blog. Il brano che leggerete è un estratto di Click jeans, pubblicato da Arpanet nell’ambito di CONCEPTS Moda, AA.VV ( euro 15.00). Inoltre vi invito alla lettura di un inedito della Gozzi, intitolato L’altra fame, pubblicato recentemente sul blog “Books and other sorrows” della scrittrice Francesca Mazzucato.

barbara-gozzi.jpgBarbara Gozzi ha 28 anni. È nata a Modena e attualmente vive in provincia di Bologna con la famiglia. Ha pubblicato ‘Progetto Butterfly’ (Editing Edizioni, novembre’06); ‘La casa della nonna’ (Nicola Pesce Editore, aprile’07); tre racconti nell’antologia ‘Scrivi con lo Scrittore’ curata da Ettore Bianciardi (Giraldi Editore, Maggio’07); ‘Click Jeans’ racconto lungo pubblicato su ‘Concepts Moda’ (Edizioni Arpanet, giugno’07). Da giugno’2007 è anche possibile scaricare gratuitamente l’Ebook ‘Spicchi’ (romanzo breve inedito) realizzato dalle edizioni Kult Virtual Press. Collabora con il progetto ‘The Sleepers’ e cura la rubrica ‘Contorsioni’ presso il blog Caffè Storico Letterario e l’EMagazine Historica di F.Giubilei. Entro fine anno uscirà il seguito di ‘Progetto Butterfly’. Ha appena concluso la versione beta di ‘Experiment’, pubblicato in atti sul blog come sperimentazione narrativa flash e ha due testi nel cassetto che attendono revisioni spietate. Attraverso il suo blog (www.progettobutterfly.splinder.com) è possibile rintracciare testi, esperimenti, segnalazioni e composizioni scomposte. E- mail:gozzib@tiscali.it 

CLICK JEANS

di Barbara Gozzi

Ispirato da: i jeans che ho tenacemente portato nel corso delle scuole superiori come unica alternativa al nulla.

IV. Cinque mesi e un giorno dopo (l’inizio)

Quando riesco a tenere gli occhi aperti, l’orologio sul comodino segna le dieci e quaranta. Poco male. Oggi è domenica. Sbadiglio e mi rituffo tra il tepore rassicurante del piumone. Non ho voglia di alzarmi. In effetti, non mi va di fare alcunché. Ripensandoci, mi capita spesso, di recente. Sono stanca di essere stanca. Potrei abbandonarmi a una risata, per via del gioco di parole involontario, ma mi muore in gola. L’anno scorso, mi svegliavo alle sette per andare a correre con Lingualunga, il mio cucciolone la cui lingua perennemente a penzoloni ha fatto storia nel quartiere. Il nome è imbarazzante, me lo dicono tutti, ma non ho saputo dire di no alla bimba della mia vicina.

Mi sono ricordata di lasciargli da mangiare, ieri sera?

Mi alzo in fretta, con il pensiero del povero Lingualunga, affamato da più di dodici ore. Aspetto che la testa smetta di girare, poi mi avventuro lungo le scale per raggiungere il garage e lo apro. Lui è lì, davanti a me, con la coda che disegna figure geometriche e quell’aria felice, quella che ha sempre quando mi vede.

Come può essere contento, se l’ho tenuto a digiuno?

Gli verso una porzione generosa di bocconcini e lo accarezzo, mentre lui divora avidamente ogni pezzetto come fosse l’ultimo. Mi viene la tentazione di scusarmi ad alta voce, ma mi sento una stupida e desisto.

Non si parla con gli animali, è da suonati.

Eppure, ho la netta impressione che lui saprebbe capirmi molto meglio di tanti esseri umani. Quando rientro in casa, vedo la borsetta abbandonata sul divano e una luce si accende nella mia mente. Ieri notte, ero così stanca che mi sono addormentata, dimenticandomi del regalo.

Mi siedo con cautela tra i cuscini imbottiti. La testa mi gira ancora, appena un po’. Dovrei fare colazione, ma la curiosità è più forte. E poi, una tazza bollente con dentro un filtro di tè verde non è poi così allettante, stamattina.

Chissà cosa mi hanno regalato, quelle matte!

Lo libero dalla borsa e strappo la carta colorata, un po’ incerta. Le mie amiche non fanno mai niente per caso. Ma non è il mio compleanno!

Mi ritrovo tra le mani un mini album, di quelli che contengono al massimo dodici fotografie, ma che sono molto comodi perché si possono portare in giro senza ingombrare troppo. La copertina è morbida. Blu e azzurra. Nel centro, ci sono delle onde che si infrangono sulla spiaggia. Le osservo meglio alla luce del giorno e noto che, se cambio angolazione, le onde si muovono. Mi scappa un sorriso. Alzo le gambe e le incrocio sul divano, nel mezzo appoggio l’album e inizio a sfogliarlo. Il passato mi risucchia con la forza di un tornado.

Sono circondata dai compagni di classe e sorridiamo in modo scomposto. Dietro di noi, si intravede il Ponte dei Sospiri. E la prof. di italiano, la signora Rinaldi-tutto-a-memoria. Avevamo diciassette anni ed eravamo in gita. Le mie guance erano tonde.

Abbasso lo sguardo.

Mia sorella si nasconde dietro di me in modo goffo. Stiamo festeggiando il compleanno di mamma nel piccolo salotto di casa. Simona ha quattordici anni. Ed è già più alta e lunga e di me. Anche le sue guance erano tonde. Meno delle mie, ovviamente.

Volto pagina.

Sul lettino, le mie amiche sono sedute sopra di me. Facciamo delle smorfie strane all’obiettivo. Se non ricordo male, stava scattando Maria. Weekend lungo a Riccione. Io avevo superato i venti da un po’. Mia sorella è rimasta in piedi a fissare il mare. Il suo corpo sembra la metà del mio. O di quello di una qualsiasi delle mie amiche.

Abbasso lo sguardo.

Eleonora. Serena. Rossella. Maria. Io. Tutte attorno alla torta, con alcune candeline mezze storte. La mia faccia sbuca da dietro il quartetto con l’accendino, ma qualcuno scatta, prima che io riesca ad accenderle.

Quella sera ci siamo divertite come matte. Non avevo ancora compiuto i trenta.

Volto pagina.

Simona a capodanno. Con i jeans elasticizzati e un top aderente. Si vedono le ossa. Il seno e i fianchi sono scomparsi. Emergono solo i jeans, gli stivali col tacco, il top luccicante e il trucco pesate. Non riesco a trattenere le lacrime. Tre mesi dopo è morta. Aveva ventidue anni.

Abbasso lo sguardo.

Io, all’uscita del solito pub, due settimane fa circa. Un pugno in piena faccia. Non sapevo che le ragazze mi avessero scattato questa foto. Sto pagando il conto alla cassa. Si vede la camicetta corta che ho comprato per l’occasione. Le altre mi sono tutte troppo larghe. Il seno che spunta è il nocciolo di una prugna. C’è un fianco che sporge da dietro il tessuto dei jeans. E il resto della ciccia, dov’è? Sto piangendo e mi si appanna la vista. Ma c’è ancora un’ultima foto dietro. Tremo.

Volto pagina.

 Natale ‘94. Simona e io in giro per il centro con gli amici di allora. Abbracciate. Luccicanti. Spensierate. Bellissime. Le nostre guance sembrano assomigliarsi. Anche il luccichio negli occhi.

Il mio naso cola. Ho la faccia bagnata e i singhiozzi mi fanno sussultare.

Click.

Uno solo, ma sufficiente a farmi perdere un battito. Il secondo punto di svolta in pochi mesi.
Rivoglio quel luccichio. Subito.

E una brioche. Anche senza marmellata. Purché sia calda e croccante.

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lunedì, 30 luglio 2007

GIOVENTU’ LIBRANTE n. 2

max-maugeri.jpgRiprendiamo l’attività di Letteratitudine con un nuovo post per la rubrica Gioventù librante che dà spazio a questa iniziativa lanciata dalla libreria Cavallotto. Il giovane lettore consulente di questo post è la studentessa diciassettenne Alessia Leonardi che ci presenta i seguenti romanzi: Ma le stelle quante sono (di Giulia Carcasi), Chéri (di Gabrielle Colette), Le cronache di Narnia (di C. S. Lewis).

Massimo Maugeri

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Sono Alessia Leonardi, ho 17 anni. Frequento il Liceo scientifico “Leonardo da Vinci” di Catania, V anno. Amo la lettura, e non ho un genere preferito perchè credo che tutti i libri possono insegnarti qualcosa ed aiutare ad ampliare la tua fantasia, a prescindere da quale tipologia prediligi. Per me la lettura è una gioia, non un Dovere.

“Ma le stelle quante sono” di Giulia Carcasi (ediz. Feltrinelli)

Riassunto:“Ma le stelle quante sono” è un romanzo di Giulia Carcasi, che racconta le esperienze di due ragazzi che condividono la stessa storia, che viene raccontata dagli stessi protagonisti.Lei si chiama Alice, una ragazza studiosa amante della poesia, e come tutte le ragazze in cerca del vero amore, che in una prima parte sarà identificato in Giorgio: il classico ragazzo che vuole fare esperienza, un ragazzo che non si ferma ai sentimenti.Lui è Carlo, classico secchione, uno di quelli che non va mai impreparato a scuola. Questo ragazzo si lascerà andare nelle braccia di Ludovica, la tipica ragazza che oggi si definisce “facile”, una di quelle che non si fanno tanti scrupoli in determinate situazioni.Tutti e quattro questi personaggi si intrecciano in una trama amorosa che si districherà solo quando Carlo e Alice riusciranno a confessarsi i loro sentimenti.

Commento:Il romanzo in sé è abbastanza carino, la storia ricorda molto le scene quotidiane di noi ragazzi, sia per gli argomenti trattati( scuola, genitori, feste) sia per i pensieri e le azioni dei protagonisti che sembrano vivere una storia scritta da noi.L’autrice ha avuto la geniale idea di suddividere il libro in due parti, da una la storia raccontata da Alice, dall’altra quella raccontata da Carlo. Da ciò è possibile evincere le differenze che intercorrono fra i due protagonisti, e paragonare come i due affrontino la stessa situazione con soluzioni diverse. È scritto in maniera scorrevole, con intercalari prettamente giovanili, con espressioni colorite che fanno si che il libro appassioni sempre un po’ di più nel corso dei dialoghi che sembrano quasi reali. Dal titolo mi aspettavo di sognare un po’ di più, invece è una storia molto legata alla quotidianità e forse è questo che la rende interessante, però avrei preferito una storia più commovente ed un finale più romantico, magari qualche sogno in più che l’avrebbe reso veramente bello.

“Chéri” di Gabrielle Colette (ediz. Nottetempo)

Riassunto: Chery è il protagonista, un bel ragazzo dai capelli neri dai riflessi blu, prepotente capriccioso. Viziato sia dalla madre che da Lea, una donna di bell’aspetto amica della madre che non ha provato i dispiaceri della vita, quei dolori che si manifesteranno solo alla conclusione del libro. Fra la donna e il ragazzo si istaura un rapporto che verrà interrotto dal matrimonio di lui. Lea con il cuore affranto decide di iniziare a viaggiare pur di dimenticarsi del suo piccolo amore, ma non riesce a toglierlo dai suoi pensieri così come accade anche a lui. Un ennesima e ultima notte, poi qualcosa sarà diverso.

Commento: Il libro è ben scritto, secondo me. Ha numerose descrizioni accurate dei luoghi in cui si svolgono le scene che talvolta si dilungato per troppe pagine; i personaggi sono bizzarri e il loro accostamento è alquanto strano e interessante allo stesso momento. La storia è nuova, suscita infatti la curiosità del lettore. Spesso però le descrizioni diventano piatte, le azioni lente, e i dialoghi sembrano diventare noiose. La scrittura è scorrevole e allegra, la storia è quasi inverosimile, ed è forse questo che spinge maggiormente a leggere il romanzo fino alla conclusione,nella speranza di un lieto fine per un amore impossibile. Il romanzo è dolce, tenero e malinconico insieme…vede il consumarsi di un amore in cui il sentimento spera di sprofondare “in quell’abisso da cui l’amore risale pallido, taciturno e pieno del rimpianto della morte”. Consiglio a tutti la lettura, non è molto lungo ed è piacevole.

“Le cronache di Narnia” edizione completa di C.S. Lewis (ediz. Mondadori)

Riassunto: Il libro racchiude in sè tutti e sette i libri di questa raccolta, che proseguono secondo una seguenza temporale dalla creazione alla distruzione di Narnia. I protagonisti non sono gli stessi in tutti i libri , ma l’autore ha ben deciso di cambiarli secondo l’età, da Peter a Jilly.La visita di questi ragazzi a Narnia non è per niente casuale, essi giungono nel regno solo per volere di Aslan, il grande leone che domina quel mondo con grande saggezza. Di volta in volta i ragazzi si troveranno ad affrontare avventure diverse mettendosi a servizio dei successivi re e regine di Narnia che ne invocheranno l’aiuto.

Commento: Trovo questa raccolta dei sette libri “narniani” qualcosa di unico. La descrizione dei luoghi è accurata e dettagliata a tal punto da immaginarli nei minimi dettagli . I dialoghi si susseguono in maniera originale e fluente e la trama non è mai noiosa o scontata, ma sempre particolareggiata e insolita, tanto da invogliare a leggere tutti e sette i libri in una sola settimana, così come è successo a me.Il linguaggio non è mai scontato o puerile, infatti non è un libro di favole per soli bambini, e come lo definisce l’autore stesso :”un libro non merita di essere letto a dieci anni se non merita di essere letto anche a cinquanta.” Oserei abbinare alla raccolta l’aggettivo “fantastico” e non solo per il genere letterario a cui appartiene, ma anche per la sua maestosità nel complesso.

“Il mondo nei tuoi occhi” di Loredana Frescura e Marco Tomatis (ediz. Fanucci)

Riassunto: La storia di due ragazzi, Costanza e Angelo, che si conoscono nella stazione di una piccola città. Vedono il fiorire di un amore che ai loro occhi era impossibile fino a qualche istante prima. Nella vita dei due protagonisti si susseguono numerosi “incidenti di percorso” che riusciranno a mettere in crisi un rapporto dolce come il loro.Così, parallelamente, pagina dopo pagina, i loro pensieri e le loro emozioni saranno unite insieme. Non è sempre rose e fiori la vita dei diciassettenni, così fra tradimenti, litigi e malintesi la loro storia si articolerà a tal punto da ricondurli su quei binari della stazione, dove all’improvviso il loro mondo cambiarà di nuovo, proprio come era successo al loro primo incontro.

Commento: un libro dolcissimo che si avvicina moltissimo alla realtà che viviamo noi ragazzi quotidianamente. Una storia improbabile che nasce dalla vita quotidiana di routine, che capovolge totalmente le aspettative in un solo attimo. A mio parere il libro è appassionante e provocatore di sogni, perchè pagina dopo pagina sono riuscita ad immedesimarmi completamente con la protagonista, e con lei ho vissuto quell’amore sulle rotaie, ho condiviso il rancore e la perdita d’appetito, anche se solo nella mia mente.
Molto romantico, semplice e sincero… Da leggere!

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giovedì, 26 luglio 2007

COMUNICAZIONE DI SERVIZIO

max-maugeri.jpgCari amici,

come vi sarete accorti… qualcosa è cambiato. È successo che Kataweb, a partire da oggi, ha organizzato la propria piattaforma blog avvalendosi di Wordpress abbandonando il precendente fornitore del servizio (Typepad). Intanto ringrazio la redazione e i tecnici di Kataweb per il look personalizzato che hanno realizzato appositamente per Letteratitudine (a proposito vi piace il nuovo logo?).

Naturalmente, come sempre accade con i grossi cambiamenti, è necessario passare attraverso una fase di assestamento pazientando per gli inevitabili inconvenienti. Vi sarete accorti, per esempio, che sono saltati i commenti più recenti e l’ultimo articolo che avevo postato: quello relativo alla “commedia sexy all’italiana” firmato da Gordiano Lupi (mi scuso con Gordiano… ho già chiesto alla redazione di recuperare il post).

Un po’ di pazienza, dunque. Poi vedrete che Letteratitudine ripartirà a razzo.

Nel frattempo provate a commentare questo post. Vi piace la barra/logo?

Massimo Maugeri

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mercoledì, 25 luglio 2007

LA COMMEDIA SEXY ALL’ITALIANA (di Gordiano Lupi)

Nei primi anni Settanta il cinema italiano presenta un numero indescrivibile di attrici che interpretano la nascente commedia sexy. Gloria Guida, Lilli Carati, Femi Benussi, Anna Maria Rizzoli, Carmen Villani, Nadia Cassini, Edwige Fenech, Orchidea De Sanctis, Barbara Bouchet, Laura Antonelli… l’elenco sarebbe interminabile. Mai periodo storico del cinema italiano è stato più affollato di starlette e di attrici affascinanti. La commedia sexy, o commedia erotica, deriva dalla commedia all’italiana e si afferma con l’esaurimento del sottogenere decamerotico. Nel decamerotico abbiamo un modello colto pasoliniano (Il Decameron, Il fiore delle mille e una notte e I racconti di Canterbury) che viene estremizzato da un punto di vista erotico e farsesco. Le tematiche ricorrenti sono quelle dei mariti cornuti, delle mogli traditrici e dei frati impenitenti che a tutto pensano fuorché a pregare. L’erotismo comincia ad andare di pari passo con la comicità e i registi di quelle pellicole raccontano storie divertenti ma piuttosto sboccate. Il sottogenere sfrutta ogni possibile variazione sul tema e si esaurisce nel breve volgere di un paio di stagioni. La commedia sexy unisce l’esperienza della commedia all’italiana con l’eredità del decamerotico e si propone di raccontare storie divertenti e piccanti ambientate in età contemporanea. Sono film che narrano storie familiari a base di tradimenti, equivoci a non finire, scambi di stanze e di coppie, travestitismi e situazioni comiche da avanspettacolo. A tutto questo va aggiunto, come ingrediente fondamentale, un pizzico di erotismo, perché la commedia sexy è soprattutto voyeuristica e basata sul gioco malizioso del si vede – non si vede. Non possono mancare le scene con la bella protagonista seminuda sotto la doccia e l’attore guardone che spia dal buco della serratura. Il regista ricerca l’immedesimazione tra interprete e pubblico, perché chi è seduto in platea osserva la scena con la soggettiva dell’attore che spia dal buco della chiave. Alla base della commedia sexy c’è sempre una comicità di grana grossa, facile, priva di implicazioni politiche e intellettuali. Le trovate da avanspettacolo di ottimi attori come Banfi, Montagnani, Vitali, Buzzanca, Salce, D’Angelo (e molti altri) sono il leitmotiv che accompagna le grazie più o meno esposte delle belle attrici. La commedia sexy lascia grande spazio all’immaginazione, non esibisce ma fa intuire ed è sempre più comica che erotica. In certi casi realizza uno spaccato veritiero della provincia italiana, soprattutto meridionale, e descrive vizi e turbamenti di un’Italia che cambia. Le piazze accolgono gruppi di femministe che contestano e vestono abiti per niente femminili. Al cinema (per contrasto) incontriamo le donne sensuali, il modello di riferimento che gli uomini cercano. È bene dire, però, che in questi film la donna esce sempre vincitrice mentre l’uomo non fa mai una bella figura. Basti pensare alla macchietta del dentista – latin lover interpretata da Lino Banfi ne L’infermiera di notte. La donna è maliziosa, intrigante, spesso è solo una finta oca, ma in ogni caso è il motore che fa girare il film e riveste un ruolo vincente. La commedia sexy rappresenta una variante della commedia all’italiana condita da situazioni equivoche e piccanti ai limiti del paradossale. Non è esagerato dire che simboleggia la voglia di liberazione sessuale di quel periodo storico e che molti film sono capaci di fotografare bene la realtà e di mettere alla berlina un’Italia moralista e bacchettona. Quei film ingenui e a volte un po’ raffazzonati non sono certo roventi storie di sesso, ma raccontano le emozioni e i turbamenti di tanti ragazzini che scoprono il sesso e sognano di diventare adulti. Non trascuriamo il lavoro dei registi della commedia sexy, perché si tratta di validi artigiani che danno vita a personaggi e macchiette indimenticabili. Citerei su tutti Sergio Martino, Mariano Laurenti, Michele Massimo Tarantini, Nando Cicero, e Bruno Corbucci, ma episodicamente incontriamo registi che provengono dal cinema fantastico come Lucio Fulci (La pretora con Edwige Fenech), Umberto Lenzi (Scusi lei è normale? con Annamaria Rizzoli) e Luigi Cozzi (La portiera di notte con Anne Miracle). Da non dimenticare che spesso hanno fatto ricorso a motivi e interpreti della commedia sexy anche registi del cinema alto, della commedia pura, come Ugo Tognazzi, Steno (si veda l’ottimo Fico d’India con Gloria Guida e Renato Pozzetto) e Alberto Sordi. Non dimentichiamo neppure sceneggiatori generosi e prolifici come Francesco Milizia (ferroviere prestato al cinema), Raimondo Vianello e Sandro Continenza. La commedia sexy porta sul grande schermo anche il sottogenere delle professioni con una sfilata di dottoresse, insegnanti, infermiere (la prima è Ursula Andress nell’ottimo L’infermiera di Nello Rossati), soldatesse, tassiste e poliziotte. Nei ruoli professionali primeggia Edwige Fenech, mentre Gloria Guida è perfetta nelle caratterizzazioni da Lolita nabokoviana. Il sottogenere professionale, nella sua variante scolastica, vede
la Fenech impegnata in alcune pellicole come insegnante (diretta da Cicero, Laurenti e Tarantini), mentre
la Guida impersona una conturbante studentessa ne La liceale di Michele Massimo Tarantini. La liceale è la pellicola che decreta il successo della bella meranese nel campo della commedia sexy, un film icona dell’erotico – scolastico, divertente e malizioso quanto basta. Per capire l’importanza di questa pellicola basta pensare che è stato uno dei primi film liberati dalla censura e proiettati nei cinema iracheni dopo la caduta di Saddam Hussein. Gloria Guida esordisce sul grande schermo sotto la guida esperta di Silvio Amadio e Mario Imperoli (1974) e subito si caratterizza come una ragazzina maliziosa che irrompe all’interno di famiglie borghesi. “Silvio Amadio è il regista che più mi ha insegnato il mestiere” dirà in alcune interviste, pure se i film di questo cineasta non sono classificabili come commedia sexy. Amadio predilige i drammi erotici e i peccati in famiglia ispirati a Malizia di Samperi, capostipite del genere e iniziatore di una corrente cinematografica che dà buoni frutti. Film come La minorenne, La ragazzina (di Imperoli), Quell’età maliziosa e Peccati in famiglia sono esempi di puro cinema erotico con un tocco di melodramma finale. Blue Jeans di Mario Imperoli e La novizia di Pier Giorgio Ferretti sono ancora due film erotici che cercano di fare un discorso sui problemi sociali e sulla situazione giovanile. Il solco di pesca di Maurizio Liverani è una pellicola indefinibile, intellettuale e cervellotica, una sorta di inno alle grazie posteriori femminili, diretto da un regista che pizzica corde diverse da quelle giocose di Tinto Brass. Gloria Guida entra alla grande nella commedia sexy con Il gatto mammone di Nando Cicero, dove impersona una servetta tuttofare che dovrebbe dare un erede a un Lando Buzzanca in gran forma. Interpreta ventisei film dal 1974 al 1988, ma il suo periodo d’oro va dal 1975 al 1979: 21 pellicole in cinque anni e quasi tutte sono commedie sexy. Uniche eccezioni il disturbante e a tratti eccessivo Avere vent’anni di Ferdinando Di Leo, il fantastico – orrorifico (ma poco riuscito) Il triangolo delle Bermuda di René Cardona jr e il televisivo Orazi e Curiazi tre a due di Giorgio Mariuzzo. Il 1976 è l’anno d’oro di Gloria Guida nella commedia erotica, perché dopo il lancio di Tarantini ne La liceale, interpreta Il medico … la studentessa di Amadio (una delle poche commedie dirette dal regista), La ragazza alla pari di Mino Guerrini (purtroppo introvabile), L’affittacamere di Laurenti (con un ottimo Luciano Salce) e Scandalo in famiglia di Marcello Andrei. In tutte queste pellicole, Gloria Guida è una ragazzina maliziosa che irretisce il maschio di turno, lo seduce e lo trasforma in facile preda. La commedia sexy mette in scena i soliti stereotipi del marito cornuto, l’amante disponibile e la ragazzina disinibita. Non mancano docce, toccatine furtive, mani che si cercano sotto il tavolo, gonne che si sollevano improvvisamente e buchi della chiave dai quali spiare i movimenti di una ragazza seminuda. La carriera di Gloria Guida prosegue nel 1978 con La liceale nella classe dei ripetenti di Mariano Laurenti, un nuovo scolastico più stanco del primo film di Tarantini, Travolto dagli affetti familiari di Mauro Severino e L’infermiera di notte, ancora di Laurenti. L’infermiera di notte rappresenta la sola incursione di Gloria Guida nel sottogenere delle professioni, campo riservato alla più esperta Fenech. Tra l’altro si tratta di una commedia sexy con una trama gialla appena accennata, pochissimo erotismo e qualche intermezzo musicale della bella meranese che prova a proporsi come cantante. Il film avrebbe dovuto intitolarsi La ragazza della discoteca per via di alcune sequenze ispirate a La febbre del sabato sera e ai balli che seguono la moda lanciata da John Travolta. La pellicola è molto divertente e resiste al passare degli anni, soprattutto per merito di un Banfi in gran forma che ci delizia con alcune battute in rima che chiamano in causa una serie di improbabili santi. Anna Maria Clementi e Paola Senatore aiutano Gloria Guida nella parte erotica, visto che la bionda attrice comincia a non voler interpretare molte sequenze maliziose. La commedia è strutturata secondo il solito clichè della moglie petulante, l’amico goffo e impacciato (Alvaro Vitali), il marito latin lover (Lino Banfi è una macchietta incredibile), la protagonista bella e sexy. In questa pellicola ricordiamo la scena cult di un calorifero impostato alla massima temperatura per far spogliare Gloria Guida davanti alla vetrata, mentre un allupato Lino Banfi assiste esterrefatto. L’infermiera di notte è l’unico film della commedia sexy a non presentare scene di doccia e voyeurismo dal buco della serratura. A partire da questo film la carriera di Gloria Guida si sviluppa sui binari della commedia, anche perché il periodo d’oro del comico – erotico è terminato. La liceale seduce i professori di Laurenti rappresenta il canto del cigno del genere ed è più una farsa con qualche nudo che una commedia erotica. La liceale, il diavolo e l’acquasanta di Nando Cicero è un finto sequel de La liceale e gioca sul titolo per invogliare il pubblico ad andare a vedere un modesto film a episodi. Gloria Guida esperimenta anche il thriller con Indagine su un delitto perfetto di Giuseppe Rosati, interpreta una commedia alta come Fico d’India, diretta da Steno, e infine conosce Johnny Dorelli sul set di Bollenti spiriti di Giorgio Capitani. Appena il tempo di vederla in un ottimo lavoro di stampo classico come La casa stregata di Bruno Corbucci, nel film a episodi Sesso e volentieri di Dino Rissi e nel televisivo Festa di Capodanno di Piero Schivazzappa che la sua carriera cinematografica si conclude. Gloria Guida sceglie la famiglia, il marito Johnny Dorelli, la figlia Guendalina e saluta un pubblico che dal 1988 attende di rivederla al cinema o a teatro. Noi la ricordiamo per un sorriso rassicurante e un’espressione ingenua da ragazzina bionda, ma pure per quel contrasto tra un aspetto angelico e lo sguardo malizioso. Gloria Guida è la seducente ninfetta dagli occhi verdi, la compagna di banco che tutti abbiamo sognato, la sensuale lolita rubacuori che fa innamorare studenti e professori. Merita un posto importante all’interno del cinema comico – erotico degli anni Settanta – Ottanta.

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

Di seguito avrete modo di vedere e ascoltare due video…

1. Videointervista a Gordiano Lupi sulla commedia sexy andata in onda su Rete4: cliccate qui o sul pulsante play.

2. Canto e danza di Gloria Guida (dal film “L’infermiera di notte): cliccate qui o sul pulsante play.

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giovedì, 19 luglio 2007

MIO FRATELLO È FIGLIO UNICO: MENARSI NEL BUIO (di Gabriele Montemagno)

Mio fratello è figlio unico, l’ultima pellicola di Daniele Luchetti, uscita di recente nei nostri cinema, è un’opera che per il suo contenuto, sembra avere un’ideale parentela con film quali: Pasolini, un delitto italiano (1995) di Marco Tullio Giordana, Buongiorno, notte (2003) di Marco Bellocchio, L’odore del sangue (2004) di Mario Martone e Romanzo criminale (2005) di Michele Placido. E ciò per più motivi. Innanzitutto perché gli anni ’70 costituiscono lo sfondo principale (e l’oggetto) delle loro storie; poi perché la realtà di quegli anni è il loro campo d’indagine; in ultimo, i loro titoli richiamano tutti qualcosa di violento, oscuro, separato. Quasi che quel decennio del nostro recente passato abbia continuato a visitare la sensibilità di alcuni fra i nostri  autori cinematografici, ispirandoli per mezzo dei suoi lati negativi. Per carità, nulla di nuovo o di inaudito: il cinema italiano è sempre stato sensibile alla realtà, al punto da dare vita, col Neorealismo, a quel glorioso periodo su cui molto è stato detto e molto si continuerà a dire, sebbene lì si raccontava il presente e non il passato prossimo. Tuttavia, ciò che qui preme sottolineare (e che può costituire un motivo di interesse e dibattito per i lettori di questo mio intervento) è un aspetto che i film su elencati sembrano suggerire; aspetto che la pellicola di Luchetti pare recepire e far proprio. Infatti, quelle opere non solo raccontano i cosiddetti “anni di piombo” (sebbene il film di Martone sia ambientato ai giorni nostri, ma, come si sa, è tratto dall’omonimo e postumo romanzo di Goffredo Parise, quasi un testamento spirituale sugli anni Settanta) a partire da quei fatti (la morte di Pasolini, il terrorismo e il sequestro Moro, la banda della Magliana) che li hanno maggiormente contrassegnati, ma in esse vi è la consapevolezza che la scomoda ed inquietante presenza di quegli anni non sia, ad oggi, del tutto esaurita. E ciò tanto più, in quanto, in forza della loro accesa efficacia visiva e narrativa nell’evocare le atmosfere cupe di quegli anni, tali film riescono ad esprimere adeguatamente gli effetti che i fatti vissuti dai protagonisti hanno causato nelle loro psicologie individuali (penso, soprattutto a Buongiorno, notte e a Romanzo criminale). Effetti che sono restituiti nella loro integrità ed attualità allo spettatore di oggi.

Mio fratello è figlio unico ha come teatro della vicenda narrata Latina (e come non pensare anche al recente e ottimo film L’amico di famiglia di Paolo Sorrentino, anch’esso ambientato a Latina!), mostrata nella sua realtà di città di provincia e di ricettacolo degli echi di quel mondo, quale quello degli anni ’70 in Italia, complesso ed estremista (ma solo quello?). Echi che appaiono macroscopici e violenti. Viene filmata, infatti, una provincia in cui i conflitti si insinuano persino all’interno delle famiglie, anche di quelle più povere. Come quella dei due protagonisti, i due fratelli Benassi, uno (interpretato da Riccardo Scamarcio che, liberatosi qui, finalmente, dal clichè di “bello e dannato”, ha acquisito uno sguardo che rivela profonde inquietudini e sofferenze) di solida fede comunista, e l’altro, Accio, (reso da un sorprendente Elio Germano, che riesce a dare pienamente corpo a tutta la rabbia e a quella profonda ricerca di verità che anima questo personaggio) prima convinto fascista, e poi anche lui comunista, ma meno puro (e più maturo) del fratello.

In questo film, Luchetti, liberandosi di cavalletti, gru e di tutto ciò che può rendere lineari ed eleganti le inquadrature, muove con sicurezza la sua macchina da presa (tenuta sempre rigorosamente a spalla, cioè ad altezza d’uomo) in modo da mantenere uno sguardo che “pedina” i suoi personaggi, per rivelarne la loro interiorità attraverso immagini che dietro ad un equilibrato realismo non nascondono, a volte, anche un significato metaforico. Si pensi, ad esempio, alla sequenza in cui Accio viene picchiato dai suoi camerati di partito poiché si è rifiutato di bruciare le auto di alcuni comunisti suoi conoscenti (tra cui c’è anche quella del fratello): dentro la sede del partito, che diviene sempre più buia, il piccolo gruppetto di uomini continua a menare le mani con una violenza sempre più incomprensibile, fino a costituire un insieme indistinto in cui si agitano braccia e teste nella controluce di un’unica finestra. Tale sequenza pare proprio racchiudere il giudizio secondo cui gli anni ’70 furono anni di violenza provocata da menti oscurate da passioni confuse e immature. E ci induce a pensare che, forse, quegli anni non siano poi così lontani dai nostri, nei quali alcuni accampano passioni che, spesso altrettanto confuse, possono ingenerare contrapposizioni (politiche, religiose, ecc.) le quali non sono meno oscure e pericolose per la pace e per il progresso civile e democratico. Chissà se, a questo proposito, la narrazione (cinematografica, letteraria o di qualunque altro genere) non ci possa illuminare ogni qual volta ci racconta queste buie ed efferate passioni, rivelandocele per quello che sono. Già, chissà. Se ne potrebbe discutere.

Gabriele Montemagno

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martedì, 17 luglio 2007

PORTARE IL PANE A CASA (di Dora Albanese)

In Italia tra gli addetti ai lavori si dice che uno scrittore è giovane fino all’età di cinquant’anni. Di conseguenza gli under quaranta si possono considerare giovanissimi. E gli under trenta dei veri e propri poppanti delle lettere.

Apro una nuova rubrica qui a Letteratitudine dedicandola proprio agli under trenta della scrittura; a coloro che, in così giovane età, cominciano a muovere i primi passi a livello letterario-editoriale.

La rubrica si intitola Giovani scrittori crescono (selezione under trenta) e ospiterà racconti, o stralci di racconti, o brani di giovanissimi regolarmente pubblicati – o in via di pubblicazione – per i tipi di editori grandi, medi e piccoli.

Inauguro la rubrica presentandovi il bel racconto Portare il pane a casa della ventiduenne Dora Albanese (nella foto). Il racconto farà parte di una raccolta di autori vari che sarà pubblicata da Coniglio editore.

Foto_dora

Dora Albanese è nata a Matera nel 1985. Studia lettere moderne e pubblica racconti su giornali e riviste. Vive a Roma.

PORTARE IL PANE A CASA

di Dora Albanese

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Sono ancora a letto, Vita e Michele, rannicchiati tra le lenzuola, anche se è mattina tardi. I fili di luce si poggiano proprio sul lato destro del loro volto, e sembra non diano alcun fastidio, perché non c’è ribellione – né agitazione contro quel calore.

Vita è sveglia già da un po’, ma resta ferma, e a tratti apre gli occhi e guarda Michele. Lo guarda come si guarda, nei film, la persona amata: con lo stesso amore e la stessa passione – ed è pronta di nuovo a essere sua senza pretese.

Sono le otto di mattina e Michele dovrebbe già essere a lavoro; invece dorme ancora, e Vita non vuole svegliarlo. Decide di tenerlo al suo fianco, prigioniero tra le lenzuola – lui che non sarà mai suo fino in fondo. Adesso Michele stringe la mano destra – “forse sta sognando”, pensa Vita – e nella stretta prende anche un po’ di pelle del seno, perché è li che ha fermato la mano, da molte ore ormai, su di lei, e mugugna un po’ quando Vita, a bassa voce, cerca di svegliarlo; poi nasconde infastidito il volto sotto la mano, lasciando scivolare i raggi di luce sulle lenzuola, che ora s’illuminano. Rafforza la presa, e si aggancia a Vita, come avesse un uncino al posto delle dita – e lei resta ferma con gli occhi spalancati, tra il bianco delle lenzuola.

Vita adesso pensa che sarebbe bello avere accanto quel profilo maschile – sempre lo stesso – per l’intera vita, ed essere la sua confidente, l’amica intima del suo corpo; ma un po’ le fanno paura questi pensieri a cuore aperto: i pensieri del mattino, quelli più veri e più bisognosi d’ascolto, figli dei sogni e dei turbamenti notturni – quelli che non si possono ignorare.

Sono i pensieri che scendono dall’Olimpo, i pensieri del mattino; custoditi dagli Dèi durante il buio; e quando scendono in noi, sono carichi di magia, ed è vero, non si possono ignorare. Poi, con l’andare del giorno, si allontanano, e si smentiscono, ma poi tornano limpidi all’alba, o all’imbrunire, quando le anime raggiungono di nuovo l’Olimpo e fanno il resoconto della giornata, affidando ai custodi del sonno i desideri più veri e irrealizzabili.

Vita si allunga un poco sotto le lenzuola, dopo aver riflettuto a lungo, e bacia la mano di Michele, che ancora dorme.

Lo guarda da vicino e, di nuovo, lo bacia – le tempie, il volto, le labbra secche di sonno e gli occhi che si muovono un poco. “Chissà se in quel movimento di palpebre ci sono anch’io… chissà…” pensa senza parlare, sfiorando con le labbra l’orecchio destro di Michele che, solleticato, sposta un po’ la testa. 

Vita decide di alzarsi. E’ ormai giorno, e non vuole dar fastidio a Michele che dorme. Deve iniziare a organizzare la giornata e decidere quante visite a domicilio sarà costretta a fare. Scosta le lenzuola e si infila le babbucce sedendosi al bordo del letto – e dà, senza pensarci, le spalle a Michele, e non si accorge di quegli occhi quasi aperti che vogliono giocare. Distende le braccia verso il soffitto e prova sollievo a raddrizzare il corpo un poco aggrinzito dalla notte, e si lascia andare a qualche smorfia mattutina del viso, fatta contro il muro, di nascosto – perché il volto del mattino, per chi si ama solo di notte, può rendere imbarazzante il risveglio.

Michele la guarda dallo specchio e sorride di fronte a quell’accortezza, e subito la blocca, mentre Vita sta per alzarsi, e le salta addosso – la solletica e la butta giù, sotto di lui, sul letto ancora caldo.   

Le voci dei bambini che vanno a scuola stanno riscaldando la giornata.

Anche lui dovrebbe andare, uscire e prendersi in mano questa nuova mattinata, invece resta a letto un po’ stordito e un po’ contento di essersi svegliato in un letto a due piazze.

“Ma cosa fai? Stavi dormendo poco fa. Che spavento” dice Vita, sorridente.

“E adesso sono sveglio. Ero già sveglio da un po’, ma mi andava di stare con gli occhi chiusi accanto a te”.

“E cosa penseranno di te i tuoi pazienti? Lo sai che devi aprire lo studio?”

“Penseranno che non sono un medico puntuale, questo penseranno. Ma sta tranquilla, esiste il perdono. Buongiorno Vita!”

“Buongiorno a te” risponde, ma subito pensa: “Perché non mi ha chiamato amore? Sarebbe stato bello” e afferra una ciocca di capelli tra le mani.

Vita è una donna di trentacinque anni, non molto alta, ma bella. Ha negli occhi il colore vivo dei campi verdi lucani, e il rosso dei papaveri tra i capelli, una piccola cicatrice sul collo, il ricordo di una brutta caduta dalle scale, quando era piccola, nella casa di famiglia in montagna, in un piccolo paesino vicino Matera.

Michele, invece, è alto e moro: moro come le olive nere seccate al sole, e ha gli occhi grigi come il pelo dei gatti randagi. 

“Sei in piedi da tanto” dice Michele, sornione, “che hai fatto mentre io dormivo?”

“Ti ho guardato” risponde Vita, di nuovo seduta sul bordo del letto.

“Dai!” risponde Michele, e si fa una risata, nascondendosi sotto le coperte. “E perché? Perché mi hai guardato?”

“Non posso guardarti?”

“Ma certo che puoi” e sbuca fuori con i capelli scomposti, come un bambino dispettoso. “E’ che non sono abituato a tutte queste attenzioni…”.

“Sì, tu le donne le usi. Che stupida sono, a darti ancora retta”.

“Diventi rossa quando ti arrabbi. Dopotutto… dopotutto sono il tuo futuro marito, no?” dice Michele con una smorfia, “ho tutto il diritto di farti arrabbiare”.

“Ma che dici?”

“Vita, ho deciso che mi voglio sposare” e porta, scanzonato, le braccia dietro la testa.

“Che dici? Ma tu… dai, smettila… davvero?”

“Davvero… l’ho pensato stanotte, quando ho aperto gli occhi e ti ho trovata al mio fianco. Sei l’unica donna con cui riesco a dormire… non è poco, credimi, il sonno è importante… ”

“E perché non mi hai svegliata… ti avrei… io ti avrei…”.

“Avrei voluto entrarti dentro, Vita”.

“Come? Ma che dici?”

“Dentro la testa, spiarti da dentro…”.

“Non avresti trovato molto”.

“Invece sono sicuro che avrei trovato tutto: il luogo preciso dove sei caduta e ti sei procurata questa cicatrice sulla schiena, il primo letto dove ti hanno spogliata, il primo paziente che hai visitato… tutto avrei trovato, tutti i tuoi ricordi…”.

“Il passato è passato. E’ roba vecchia, come me”.

“Vecchia… e perché vecchia? ”

“Perché ho già raggiunto l’altare una volta, perché so tutto… conosco il prezzo da pagare… in cambio di un bel matrimonio… e il mio è stato bellissimo… ma non è servito a molto… non mi è servito a niente l’abito bianco, non certo a far durare il mio matrimonio. Ho venduto tutto, dopo il divorzio, a un mercatino dell’usato, compresa la giarrettiera rossa contro la iella. Michele… io l’ho già pagata la mia parte…”.

Vita si allontana dal letto, poggia la schiena all’armadio e, con i polpastrelli, raggiunge la cicatrice dietro la spalla. E’ felice che Michele l’abbia notata, che abbia toccato quella ferita, anche se era buio e avevano bevuto.

“Adesso non mi va più di credere alle belle parole, siamo adulti… è meglio che le cosi restino così!”

Michele le chiede di raggiungerlo sul letto.

“Vita, io non dormo con tutte le donne che… insomma…”.

“Con tutte le donne che ti scopi? ”

“No, no… con te ci riesco, ci riesco a chiudere gli occhi”.

“Ma davvero vuoi sposarmi? Perché se è vero… se è vero… mi sembra di sognare… che bel risveglio… dobbiamo organizzare tutto allora… ma non preoccuparti… lo sai no… sono esperta… ritentare non è poi così impossibile… allora adesso dobbiamo…”.

“Frena, piano. Piano, Vita. Hai visto che alla fine hai ceduto… sono proprio un uomo da sposare… Sei buffa… mi fai sorridere. Sei così legata all’amore che non ti rendi conto che ti sto prendendo in giro. Diventi una bambina, di fronte a certi argomenti.”

“Cioè… che vuoi dire?… non capisco…”.

“Vita, lo sai, ci conosciamo da tempo, hai capito come sono fatto, no? Davvero credi che io possa sposarmi?” e si solleva dal letto, serioso e un po’ turbato. “E’ stato solo uno scherzo, scusami, non volevo ferirti”.

“Sì, certo, solo uno scherzo… l’hai fatto… mi hai ferita…  per avere la conferma narcisistica che volevi. Povero! Tutte le donne sono pronte a sposarti, ti fa piacere? Ma chi ti credi di essere? Sei solo un uomo che ha paura… paura di mettersi in discussione… tu vivi il dietro le quinte della vita… non capisci davvero niente… sei un povero vigliacco… giocare coi sentimenti della gente… la verità è che ti manca il coraggio… sposarsi è una cosa seria…”.

Michele si infila il jeans, perché la situazione si sta facendo pesante, e prova imbarazzo a restarsene in mutande, di fronte a Vita, e si sente un po’ bambino ad aver fatto quello scherzo. Lei subito si copre il petto con una t-shirt – un abito lo può fare: può marcare le distanze; e basta coprirsi il petto, o indossare un paio di mutande  dopo aver fatto l’amore, per annullare la convivenza intima dei corpi. Vita, nervosamente, mette addosso le prime cose che trova, come per ristabilire i ruoli, e mantenere le distanze.

“Che stupida, avrei dovuto immaginarlo” – e sbatte i pugni sul tavolo –  “come fa uno come te a parlare di cose serie!” – e getta uno sguardo distratto in cucina.

“Il caffè è nella moca, basta accenderlo. Io vado a lavorare.”

Si aggiusta la maglietta e prende le chiavi dal tavolo, poi va via, sbattendo la porta.

“Grazie. Poi magari ti chiamo da studio” dice Michele, imbarazzato.

“Comunque non è vero che sei l’uomo che amo. Per me è solo sesso” grida dal portone, prima di scendere di corsa, e con il batticuore, le scale di casa.

“Mi piaci quando cerchi di fare la dura!” risponde Michele, alzando la voce, ma Vita è già lontana, e lui si sente ridicolo. La porta però, dopo qualche secondo, si riapre. Vita è tornata con la scusa di aver dimenticato il cellulare.

“Io non sono come te… ai miei pazienti ci tengo, io… non voglio che il telefono squilli a vuoto… sono un medico vero, io… me lo ricordo sempre che sono un medico, io… e comunque non ti sopporto più… vai al diavolo”.

E, questa volta, va via per davvero.

Michele parla da solo, e forse ignora di essere davvero solo.

“Rovino tutto, hai ragione… Vita cara… ma solo perché ho paura, ho paura…” confessa Michele alla casa vuota; poi si alza dal letto e guarda l’orologio. Accende il cellulare, che subito inizia a suonare.

“Che suoni pure a vuoto, io non sono perfetto, sono un uomo, un semplice uomo”.

Butta il telefono sotto le coperte e va verso la cucina. La moca è sul gas e l’accende. “L’avrà preparata stanotte, mentre io dormivo” pensa Michele, pentito di aver rovinato quel risveglio. “Quanto è premurosa, lo è sempre stata… e io… io… non l’ho mai trattata bene… sarebbe davvero bello vivere con lei… condividiamo tutto da molto tempo, anche questa casa… la sento mia, questa casa… basterebbe così poco, invece resto fermo, paralizzato come uno stupido…”.

Vorrebbe non averlo mai fatto, questo scherzo. Ma Vita è via, immersa nei rumori della città – lontano da lui.

“Le scriverò una lettera… mi farò perdonare… sono un uomo di cinquant’anni… lei capirà tutto”.

Michele si siede e inizia a scrivere sulla carta gialla del pane – è l’unica carta che riesce a trovare in casa.

.

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Matera, sette novembre ‘97

Per Vita

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Cara Vita, ho pensato a lungo alla discussione fatta, non meriti di soffrire, e non è giusto che io distrugga tutto ogni volta che riesco a creare con te una certa armonia; hai ragione tu quando dici che sono detestabile, ma non voglio perderti… ti racconterò tutto.

Giocavo allegramente con le gambe delle donne quando ero un bambino. Perché mia madre era una sarta, e casa mia era sempre piena di colori, vestiti, pizzi e donne, tante donne. Avevo solo cinque anni, ma ricordo tutto ciò che mi accadde, come fosse ieri.

Mi piaceva aggrapparmi stretto a quelle gambe un po’ pungenti, come una scimmia al suo ramo, ed ero considerato da tutte un figlio.

Mi piaceva spiare le donne in intimità fra di loro.

Mi piaceva guardare in alto e trovare orli di mutandine bianche che si intravedevano dalle sottovesti e, anche se ero piccolo, lo trovavo divertente.

Spesso rimanevo in un  angolino della casa, in silenzio ad ascoltare, anche se non li capivo, i sogni di quelle donne. Ricordo che si parlava di matrimoni e di doti.

Un pomeriggio Giacinta, la mia dirimpettaia zitella, intima amica di mia madre, mi chiese di andarle a comprare una pagnotta. Lei frequentava casa mia tutti i giorni, e rimaneva spesso a pranzare da noi, perché era sola e a mia madre dispiaceva. Era una di casa, insomma, una vera zia. Mi disse di comprarle il pane, perché avrebbe mangiato a casa sua quel giorno, e con i soldi restanti avrei potuto comprare delle caramelle, come ricompensa  per il favore.

Accettai la proposta, soddisfatto di essere stato scelto per un servizio così importante – io che avevo solo cinque anni, per la prima volta mi trovavo tra le mani dei soldi da gestire, come un vero capo famiglia.

Dovevo portare il pane a casa, e questa cosa mi faceva sentire un piccolo uomo. Quanto mi piaceva, Vita!

A testa alta camminavo per la via del ritorno, portando in una mano la busta bianca del pane e, nell’altra, la ricompensa: dieci caramelle. Era la prima volta che non dovevo condividere nulla con gli altri miei fratelli. Ero felice.

Raggiunsi correndo il portone grande della signora.

Lo aprii con tutta l’energia di quegli anni, e correndo verso il corridoio, raggiunsi la casa di Giacinta, e trovai la porta aperta.

Ero  riuscito a fare tutto. Credimi Vita cara, ero felice.

Entrai, come fossi il padrone, e chiamai la signora per nome, anche se lei non mi rispose.

La casa era vuota, e io non capivo.

Dopo poco la signora mi chiamò, era nel bagno che si stava lavando la faccia. Così mi disse da lontano, ma io non la vedevo.. Mi disse di raggiungerla, e io obbedii.

La raggiunsi, e la trovai tutta nuda seduta sul bidè. Subito mi voltai, ma lei mi prese… prese la mia mano… ancora lo ricordo… mi prese la destra, quella che stanotte hai tenuto sul tuo seno.

Dalla tasca sinistra mi caddero le caramelle… e poi mi usò… mi ha usato a suo piacere… mi capisci?

Voglio riprovare, di tempo ne è passato. E se ti va ancora di sopportarmi, voglio riprovare a portare il pane a casa senz’avere paura… sì, io voglio portarti il pane a casa… e questa volta non per gioco. 

Tuo, Michele.

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domenica, 15 luglio 2007

ALI PODRIMJA: LA POESIA CHE VIENE DAL KOSSOVO (di Andrea Di Consoli)

Foto_andreaÈ appena uscito, per i tipi della De Angelis, il primo libro di poesie tradotto in Italia del poeta kossovaro Ali Podrimja (Deserto invasivo, a cura di Blerina Suta, introduzione di Filippo Bettini, che giustamente si sofferma sulla “petrosità” della lirica di Podrimja, considerato uno dei maggiori poeti viventi del Kossovo). Abbiamo incontrato il poeta di Gjacova a Roma, in occasione del festival Mediterranea.

- I Balcani sono un groviglio di culture, etnie, religioni, linguaggi, tradizioni, e molto spesso è difficile orientarsi in questo coacervo. Lei come si definisce?

E’ vero. I Balcani sono un groviglio complicato. Sono accadute, nel corso dei secoli, moltissime assimilazione, su tutti i versanti. Molti albanesi sono stati assimilati dai serbi, anche se non hanno mai perso il senso della “patria albanese”. Io, molto semplicemente, sono un albanese.

- E la religione?

La religione, nel popolo albanese, non ha mai avuto un ruolo determinante. Io mi sento albanese indipendentemente dal nome che ho, che è mussulmano. In materia di religione il popolo albanese è il più tollerante d’Europa. Tagore, scrivendo al suo popolo, disse: “Andate in Albania e imparerete che cos’è la tolleranza religiosa”. 

- Ne è proprio sicuro?

Non è mai successo in Albania che la divisione religiosa sia stata causa di un conflitto. Un esempio è la figura di madre Teresa di Calcutta. Per onorare la figura di questa donna straordinaria, quando c’è stata la beatificazione, sono venuti a Roma tutti i rappresentanti delle tre grandi religioni albanesi: i mussulmani bektashi, i cattolici, gli ortodossi. 

- Come viveva uno scrittore kossovaro nella ex Jugoslavia? Com’era il clima politico quando lei, negli anni Settanta, pubblicò il suo primo libro?

In Jugoslavia, quando nel 1971 ho pubblicato Grido, il mio primo libro, c’era libertà di creatività poetica. Gli autori albanesi che vivevamo e scrivevano in Jugoslavia si sentivano uguali agli altri poeti della ex Jugoslavia. Il grande sviluppo della letteratura lo indicava anche il fatto che c’era una casa editrice in albanese che si chiamava Rilindja. E poi esistevano molte riviste e molti giornali in albanese, non solo a Pristina, ma anche a Shkup e a Podgorica. Non c’è da stupirsi di tutta questa libertà nella ex Jugoslavia, perché noi eravamo la terza popolazione per numero di persone, dopo i serbi e i croati. Dicevano in quel tempo che l’esercito jugoslavo era composto soprattutto da albanesi, perché eravamo il popolo più giovane dell’area. La comunità albanese aveva una varietà di attività letterarie. Davamo, inoltre, molta importanza alla traduzione dei poeti serbi e croati nella nostra lingua.

- Chi traducevate negli anni Settanta tra gli scrittori “occidentali”?

Dante, Petrarca, Boccaccio, Malaparte, Pirandello, Moravia, Buzzati, Ungaretti, Croce, De Sanctis. E poi Dos Passos, Faulkner, Pound.

- E in Albania? Com’era la situazione in Albania?

In quegli anni, in Albania, si leggevano clandestinamente gli autori internazionali che noi traducevamo. Siamo stati una finestra aperta per i poeti dell’Albania. Eravamo aperti anche rispetto alle letterature della ex Jugoslavia. Per appianare i conflitti noi pubblicavamo anche autori che avevano scritto i famosi “elaborati” contro la questione albanese. Il peggiore era Cubrolovic. E Ivo Andric.

- E di Tito cosa ci dice? Proprio tre giorni fa, sul Corriere della sera, Bettiza ha parlato di Tito in termini curiosi, ovvero come di un dandy aristocratico. C’è addirittura una fotografia del 1974 che lo ritrae insieme a Sophia Loren. Lei cosa ne pensa?

Tito era liberale, perciò l’arte non veniva controllata in modo rigido. Personalmente ero molto giovane allora. Comunque anche oggi, sia gli albanesi, sia i macedoni, che componevano a suo tempo l’ex Jugoslavia, hanno un sentimento di rispetto per Tito. Ancora adesso vedo la foto di Tito nelle case e nelle istituzioni statali della Macedonia. Tito ha saputo avvicinare i popoli della ex Jugoslavia. Era cosciente che un tempo sarebbe scoppiato il nazionalismo serbo, perciò aveva un atteggiamento equanime verso tutte le popolazioni. Voleva tenere la tranquillità interna del paese, in quanto da un lato c’era il pericolo del blocco dell’Est, dall’altro c’era l’Occidente. Perciò ha creato questo terzo blocco indipendente con gli Arabi, con l’India, con alcuni paese dell’Africa. Tito era un uomo aperto, perciò si è fatto fotografare con Sophia Loren. Tito, infine, non lo dimentichi, era un croato cattolico.

- A che punto è il Kossovo?

Il Kossovo, di fatto, è indipendente. Ultimamente il nazionalismo serbo ha incominciato ad alzare di nuovo la voce, perché dalla loro parte c’è Putin, il quale sogna, proprio come Milosevic, una Jugoslavia identificata con la Serbia. Tutto questo, ovviamente, per rendere più vulnerabile l’Europa. L’Unione Europea si compone di molti stati slavi, e quindi creare tensione è un modo per indebolire l’Europa. Io temo soltanto che succeda qualcosa di grave, perché Putin segue le orme di Eltsin, che in un’occasione ad Atene disse: “Da Atene, passando per Belgrado fino a Mosca, creeremo un grande stato ortodosso”. Questo i nazionalisti lo hanno inteso come un segnale di appoggio alle loro mire.

- Lei odia i serbi oppure odia i nazionalisti serbi?

Non odio i serbi, ho molti amici serbi. La disgrazia dei serbi sono i loro nazionalisti. Le racconto una cosa. Prima di arrivare a Roma ho visto un reportage tedesco dove un giornalista è riuscito a entrare nel “castello” del partito radicale nazionalista serbo. Il giornalista tedesco chiede a un membro di quel partito delle vittime di Serbrenica, e questo nazionalista offende pure gli uccisi e i morti. Infatti dice: “Non è vero che sono stati uccisi ottomila mussulmani. Quegli ottomila mussulmani morti sono stati presi in giro per la Jugoslavia e portati lì”. Questa è una cosa vergognosa, perché offende la memoria dei morti.

- Com’è possibile tutto questo?

La follia dell’egemonia e della sopraffazione sul prossimo, è questo che ha causato il disastro. Gli albanesi del Kossovo non avevano un altro tetto sotto cui abitare. I serbi avevano tutte le armi della ex Jugoslavia. Anche adesso c’è la paura che qualcosa di terribile possa accadere. Io temo a causa del nuovo asse Belgrado-Mosca.

- Come ricorda il bombardamento della Serbia nel 1999?

L’intervento della Nato era necessario, perché prima che questo intervento ci fosse, un milione di kossovari erano diventati profughi. Poi, quando sono tornati, hanno trovato centoventimila case bruciate.

- E di Rugova, prematuramente scomparso, cosa ci dice?

Rugova era un mio collega, abbiamo collaborato molto. Era un critico letterario straordinario. Il suo merito era di dirigere il primo partito democratico che segnava un gran numero di membri al suo interno. Lui era riuscito in modo pacifico a restituire la fiducia al popolo albanese. Dopo aver visto che il pacifismo non portava da nessuna parte, sono sorti i movimenti per la liberazione, i cui componenti erano per la maggior parte intellettuali, studenti e contadini.

- E di D’Alema cosa pensa? L’ex premier italiano, proprio sul Kossovo, si assunse una grandissima responsabilità “morale” e politica.

I kossovari hanno simpatia per chi ha appoggiato i bombardamenti in Serbia, per chi ha appoggiato la causa kossovara. La coscienza europea ebbe un sussulto, con quella decisione. In quel tempo si uccidevano le persone come fossero topi.

- Qual è la differenza tra un kossovaro e un albanese?

Fa parte della letteratura albanese sia chi scrive in Kossovo, sia chi scrive in Albania, sia chi scrive in Calabria presso le comunità arbareshe. Solo i confini fisici hanno diviso gli albanesi. Il nostro Risorgimento letterario ha le radici presso la letteratura arbareshe. Mi riferisco al grande Girolamo De Rada, il nostro Dante. Considero gli arbareshe come un grande ponte tra l’Albania e l’Italia.

- Senta Podrimja, provo a esprimerle una mia riserva. E’ come se voi “poeti dell’Est”, vissuti fino a pochi anni fa sotto il dominio della storia e della politica, aveste difficoltà a svincolarvi da un certo linguaggio politico, da una certa “retorica” dell’impegno civile.

Penso che l’arte, anche se scrive di politica, non può essere vittima della politica se sa cogliere il bello. Saper trovare i motivi, ma soprattutto saper dare dei messaggi, è questo il compito dell’artista. Sarebbe una vergogna, in una realtà così grave, non diventare specchio di quello che succede, non essere impegnato. E’ vietato che la memoria muoia. Si scrivono cose anche su eventi tanto gravi affinché questi eventi non accadano più. Tutta una pletora di scrittori ha testimoniato, dopo la seconda guerra mondiale, quello che è accaduto al tempo dei nazisti. Se uno scrittore chiude gli occhi di fronte a quello che accade, è un traditore.

- Parole forti, le sue. Non pensa, invece, che un giorno lei verrà considerato semplicemente un poeta engagé, magari criticamente, così com’è avvenuto in Italia negli anni Sessanta, quando i neoavanguardisti si scagliarono contro i neorealisti “impegnati” del dopoguerra?

Ogni generazione completa quella passata. La memoria non può essere una cosa che si può superare. La memoria deve esistere. Ogni tempo avrà bisogno della memoria e della coscienza storica. Io penso che ci sarà sempre una parte della letteratura che avrà bisogno di questa memoria. La letteratura ha il suo messaggio. Giocando con le parole non si può fare nessun tipo di arte.

Andrea Di Consoli

Andrea Di Consoli è nato a Zurigo nel 1976 da genitori lucani. Attualmente vive a Roma, dove lavora ai programmi radiotelevisivi della Rai. Collabora inoltre a «l’Unità», a «Stilos» e a varie riviste, inoltre scrive sul «Messaggero» e «Nuovi Argomenti». Ha pubblicato il saggio Le due Napoli di Domenico Rea (Unicopli 2002), la raccolta di poesie Discoteca (Palomar 2003) e i racconti di Lago negro (L’ancora del Mediterraneo 2005). Il romanzo Il padre degli animali (2007) ha vinto il premio Mondello ed è finalista al premio Viareggio-Repàci.

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martedì, 26 giugno 2007

LE VALLI MALEDETTE DI MARIO RIGONI STERN (di Andrea Di Consoli)

Andrea_di_consoliDietro le quinte del teatro “Persiani” di Recanati, in attesa che Mario Rigoni Stern venga chiamato da Paola Pitagora, conduttrice del premio letterario Recanati (che ha vinto Mario Rigoni Stern), e presentato da Ernesto Ferrero (che dice, non appena lo chiamano: “Parlare di Mario è come essere a casa, come arrivare a baita”), il grande scrittore de Il sergente della neve e del recente Stagioni se ne sta seduto da solo su una sedia e guarda buono, con le mani in grembo, verso il palcoscenico. Gli domando se da Asiago è venuto in macchina o in treno. “In macchina” mi dice, “mi sono venuti a prendere”. Mi fa cenno di sedermi al suo fianco e mi domanda, con estrema semplicità, il nome (non mi domanda chi sono, ma come mi chiamo), mi chiede da dove vengo e, quando sente che sono lucano, lui subito mi parla della Basilicata, e mi dice che è stato a Bernalda, a Matera e, quarant’anni fa, a Metaponto: “A Metaponto ci sono stato a ferragosto. Non c’era nessuno. C’eravamo soltanto io e i grilli. Era come stare fuori dal mondo”. Adesso, invece, a Metaponto, a ferragosto, è impossibile trovare un angolo non turistico. E gli domando del Sud (a lui che è così indissolubilmente legato a un’idea forte di Nord): “Il Sud è bellissimo” mi dice, “ma più di tutto amo la Sicilia. La Sicilia è meravigliosa”.

Il teatro è caldo, sudiamo, ma per non fare rumore siamo sempre più vicini, parliamo fitto fitto; a bruciapelo gli domando se la neve – che lui ha “cantato” in tutti i modi – sia guerra o pace. Rigoni Stern curva la mano e la posa sull’orecchio – forse, per l’imbarazzo, ho parlato troppo a bassa voce. Gli rifaccio la domanda. Mi guarda e risponde con sicurezza: “La neve non è né buona né cattiva. Non è mai colpa della neve. E’ sempre colpa degli uomini se la neve è cattiva”.

Ma si può impazzire in guerra? Cosa è stata la campagna di Russia? E si può amare la neve dopo averla vista azzannare le gambe dei propri compagni? Nel giro di pochi minuti ci troviamo lontani dalla festa letteraria di Recanati e immersi in una strana intimità pensosa. Mi dice Rigoni Stern: “Certo che si impazzisce sul fronte. Soprattutto per il poco dormire. Ci provi a non dormire per otto giorni. Io forse ero impazzito. Mi ero sdoppiato. In quei giorni mi sembrava che un altro Mario mi dicesse le cose che dovevo fare. La vera guerra è stata in Russia”. Prima di essere chiamato sul palco dalla Pitagora ci diamo appuntamento per la mattina successiva, nella sala colazioni dell’albero dove Rigoni pernotta.

Durante la notte, prima di addormentarmi, penso allo strano destino critico di Mario Rigoni Stern, uno scrittore che è sempre rimasto schiacciato tra due categorie abbastanza anguste (“scrittore di guerra”, o “di testimonianza”, e “scrittore della natura”; eppure “guerra” e “natura” non sono sempre topoi logori e prevedibili); penso, invece, alla durezza della sua narrativa poetica, al suo guardare sempre in faccia il dolore e, direi, il controdolore – non c’è niente di “naif” nella sua scrittura, anche perché la natura non dà mai davvero risposte consolatorie, anzi, è più “muro” del “muro” del pensiero filosofico – anche la guerra è un “muro” nel pensiero. Rivedo, prima di prendere sonno, il viso buono di sua moglie, e risento le parole di Rigoni Stern su Roma: “Roma me la sono goduta nel 1973, quando c’è stata la crisi petrolifera. Non circolava neanche una macchina. Me la sono girata tutta a piedi. Quel giorno andai anche a trovare Walter Binni e Emilio Lussu”.

La mattina mi sveglio in ritardo e scendo di corsa. Lo trovo che beve un caffè al bar. Mi saluta e mi indica un tavolo all’aperto. Accendo una sigaretta e gli domando se ha mai fumato. “In guerra fumavo le ‘Makorka’, le sigarette dei kulaki. Ho fumato tantissimo, ma poi ho smesso, perché ho avuto problemi di cuore. Ho avuto un arresto cardiaco. Quel giorno sentivo i medici che dicevano che ero morto. Non è stata una brutta sensazione. La morte non è brutta. E’ la sofferenza che fa paura”. A Recanati c’è un dolcissimo vento che ci scompiglia i capelli. Bevo un caffè e, mentre apro il taccuino, Rigoni mi dice che a Recanati c’era stato altre volte: “E’ un grande poeta, Leopardi, ma la sua opera più importante è Lo Zibaldone. Tanti anni fa, visitando la sua casa, mi attardai di sera nella sua biblioteca. Per me fu una grande emozione rimanere lì nella penombra”.

I ricordi di Rigoni si sciolgono: “La mia famiglia era abbastanza benestante prima della guerra. A casa nostra di libri ce ne sono sempre stati. C’era dimestichezza con i libri. Mio fratello maggiore ha anche pubblicato un libro di poesie: sonetti enigmistici”. E in guerra? Serve la letteratura in guerra? Davvero può aprire un varco di salvezza come nel “Canto di Ulisse” di Primo Levi? Rigoni Stern non ha dubbi: “Certo che serve la letteratura. Io avevo con me la Divina Commedia e L’Orlando furioso. La letteratura aiuta a superare i momenti brutti. Quando ero in Albania c’era un compagno militare, che faceva il pastore, che mi diceva ‘dai Rigoni, fammi contento, leggimi la Divina Commedia’.

La guerra è l’ossessione di Rigoni Stern: “I russi stavano attaccando. Avevo la responsabilità di 70 uomini. Li ho riportati vivi in Italia. E’ stato il più grande capolavoro della mia vita. C’era un sergente che ricevette una lettera dalla sua fidanzata. Eravamo sul Don. Nella lettera la fidanzata gli diceva di non amarlo più, e di aver trovato un altro uomo. Dopo aver letto questa lettera il sergente fece azioni di guerra disperate. Cercò la morte. L’ha cercata con tutto se stesso, la pallottola che lo ha ucciso. Si chiamava Achille, quest’alpino. Lui almeno è morto per amore. Noi, per quale amore siamo morti noialtri?”

“Natura” e “guerra” s’intrecciano come due serpenti poco pacificati; e sono due serpenti che ora sembrano nemici, e ora si avvinghiano in amore (un amore vischioso): “La natura non ha sentimenti, la natura dobbiamo accettarla. Dobbiamo salvarla, dobbiamo rispettarla. Non possiamo piantare il frumento al Polo. Però non c’è solo la rosa, non c’è solo la valle fiorita, ci sono anche le valli maledette. La nostra fortuna è stata quella di aver perso la guerra, così è finito il nazismo e il fascismo. Ma chi ricorda la grande battaglia del 1943 in Russia? Ci pensa? Un milione contro un altro milione di soldati. Milioni di persone morivano e nessun giornale ne parlava”.

E dopo? Dopo la guerra? Dopo c’è stata la prigionia in Austria, nel 1944, in una miniera di ferro (“era quasi bello stare in miniera, dopo la guerra, ma è stato anche duro, con quel poco che ci davano”); ci sono stati i libri da Einaudi, ma anche l’impiego come diurnista di terza categoria presso l’amministrazione finanziaria dello Stato, e poi la famiglia, la moglie, i tre figli, le passeggiate nei boschi, “fare legna”.

E la morte? Rigoni Stern è lapidario: “I giovani muoiono meglio dei vecchi, perché i giovani hanno tanta vita. I vecchi, invece, sono attaccati fino alla fine all’unico barlume di vita che rimane”.   

La tranquillità domenicale di Recanati – la sua ritrosia indecifrabile e suggestiva – è spezzata, nella mia mente, dalle dure parole di Rigoni (il racconto degli arti congelati dei soldati); eppure c’è, nonostante tutto, una possibilità di tranquillità nello stare al fianco di Rigoni (nel suo correre in albergo alla ricerca della moglie, nel far giocare mio figlio con la sua barba bianca, nel suo fare colazione con pane e formaggio). E’ una tranquillità che colpisce per l’estrema semplicità. Poi, però, non appena si parla dell’uomo in pericolo, della guerra, della natura, il volto di Rigoni Stern diventa “freddo” e solenne. In certi momenti è normale pensare a Omero. 

Andrea Di Consoli

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Andrea Di Consoli è nato a Zurigo nel 1976 da genitori lucani. Attualmente vive a Roma, dove lavora ai programmi radiotelevisivi della Rai. Collabora inoltre a «l’Unità», a «La Sicilia» e a varie riviste, inoltre scrive sul «Messaggero» e «Nuovi Argomenti». Ha pubblicato il saggio Le due Napoli di Domenico Rea (Unicopli 2002), la raccolta di poesie Discoteca (Palomar 2003) e i racconti di Lago negro (L’ancora del Mediterraneo 2005). Il romanzo Il padre degli animali (2007) ha vinto il premio Mondello ed è finalista al premio Viareggio-Repàci.

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lunedì, 25 giugno 2007

LA STANZA DELLO SCIROCCO (di Andrea Di Consoli)

Sono lieto di inaugurare questa nuova rubrica che sarà curata da Andrea Di Consoli.

(Massimo Maugeri)

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Foto_andrea La stanza dello scirocco è la stanza dove i siciliani riuscivano a evitare i giorni più caldi dell’estate. L’unica utilità di questa stanza è la frescura. Nessun segreto, in questo sotterraneo. Solo un po’ di
benessere, in compagnia dei libri, quando il respiro si fa d’affanno.

Nella stanza dello scirocco, quando le cose buttano male, basta gridare tre volte per sfasciarla interamente.

Ma le cose, tutto sommato, vanno ancora bene.

Andrea Di Consoli

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Andrea Di Consoli è nato a Zurigo nel 1976 da genitori lucani. Attualmente vive a Roma, dove lavora ai programmi radiotelevisivi della Rai. Collabora inoltre a «l’Unità», a «La Sicilia» e a varie riviste, inoltre scrive sul «Messaggero» e «Nuovi Argomenti». Ha pubblicato il saggio Le due Napoli di Domenico Rea (Unicopli 2002), la raccolta di poesie Discoteca (Palomar 2003) e i racconti di Lago negro (L’ancora del Mediterraneo 2005). Il romanzo Il padre degli animali (2007) ha vinto il premio Mondello ed è finalista al premio Viareggio-Repàci.

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mercoledì, 13 giugno 2007

CUBA PARTICULAR – Sesso all’Avana (di Alejandro Torreguitart Ruiz )

Cubaparti Alejandro Torreguitart Ruiz (L’Avana, 1979) è un giovane autore cubano che ha pubblicato tre libri in Italia. In patria scrive poesie e racconti fantastici per la rivista El Barrio, è poeta repentista, cantante rock per il gruppo Esperanza. Ha esordito in Italia con Machi di carta – confessioni di un omosessuale (Stampa Alternativa, 2003) che ha avuto un buon successo di critica e di pubblico. A gennaio 2004 ha pubblicato il romanzo breve La Marina del mio passato (Edizioni Nonsoloparole – Napoli) e a maggio 2005 il romanzo di ampio respiro Vita da jinetera (Edizioni Il Foglio – Piombino) sul mondo della prostituzione. Alcuni dei racconti contenuti nell’inedito Bozzetti avaneri sono stati pubblicati su rivista e in alcuni siti internet (si veda www.tellusfolio.it). Adesso esce questo Cuba particolar – Sesso all’Avana, che nella versione spagnola è intitolato La casa di Isa – notti di sesso all’Avana, storia di vita quotidiana nella Cuba del periodo speciale tra jineterismo e arte di arrangiarsi. Il romanzo è scritto in terza persona con uno stile piano e colloquiale, poco letterario e vicino alla lingua parlata, ma l’autore realizza efficaci momenti poetici quando pizzica le corde del rimpianto e del tradimento rivoluzionario. I fatti si svolgono nel 2003, periodo in cui viene scritto il romanzo, ma i problemi sono attuali, pure se invece dei dollari adesso i cubani maneggiano pesos convertibles.

Il romanzo si dipana tra avventure di sesso e disperazione, miseria e nobiltà, sogni e speranze tradite che vedono come scenario la casa particular gestita da Isa. Storie di vecchi cacciatori di sesso venuti dalla vecchia Europa che se la fanno con ragazzine in cerca di una via di fuga. Incontri che durano lo spazio di una notte o di una breve vacanza, menzogne che illudono e passioni che svaniscono in fretta. In una Cuba dove il sogno rivoluzionario è caduto a pezzi e il primo prosseneta è Fidel Castro, la casa di Isa è il regno delle illusioni erotiche, del sesso per turisti, delle avventure impossibili. Nonostante tutto, a volte, fa capolino anche l’amore.

Alejandro Torreguitart cerca di far conoscere il vero volto della sua terra e anche se molti non vorrebbero sentirselo raccontare non è possibile fuggire dalla realtà. La traduzione del romanzo, come dei precedenti lavori editi in Italia, è opera mia. Leggiamone alcune parti per comprendere stile e situazioni narrative.

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Fine estate all’Avana tra gente che va e gente che viene. Non ci sono famiglie, non ci sono turisti da spiaggia. Ottobre è il mese dei cicloni e dei cacciatori di sesso. Tempeste di vento e avventure, soltanto questo è l’autunno all’Avana, il mese peggiore dell’anno. Cadono fronde di palme sotto i colpi del vento, va via la corrente per ore, si abbattono pali di luce e telefono, la gente corre per strade allagate da sconquassi di pioggia. Il paesaggio d’autunno all’Avana, come in un giallo del Conde di Padura Fuentes, è il paesaggio d’un porto cadente e del mare che tracima la vecchia balaustra del Malecón. E noi qui fermi ad attendere il peggio, giorno dopo giorno. Aspettiamo la burrasca che porti via il tetto d’una casa in Centro Avana, che faccia cadere una vecchia ceiba o una statua decrepita. Volano le bandiere nazionali davanti alle scuole e i busti di José Martí. Volano mentre Isa le osserva che si strappano sotto i colpi del vento. Anabel va a scuola, come ogni giorno, l’accompagna Paco e poi se ne torna lesto a  casa. Per uscire si esce poco. Non è stagione. Si sta tappati in casa ad attendere la fine della tormenta. Ottobre è il mese dei cicloni e dei ricordi, ci si chiude in casa e si racconta il passato, storie di vecchie storie senza tempo. A casa di Isa, in ottobre, c’è soltanto Mario che viene. Solo lui non ha paura dei cicloni e sfida pure le tempeste di vento. Quel che ha da fare non ha niente a che vedere con il mare, né con la scoperta dei luoghi della rivoluzione. Il padre chiude gli alberghi a fine settembre e Mario parte subito per Cuba a caccia di donne e avventure, che poi per lui sono la stessa cosa. Isa e Paco lo sanno e tengono libera la sua camera per l’intero mese.

La fine di ottobre e gli ultimi colpi di vento, le palme che si lasciano flettere dalla forza della natura sconvolta, i rami delle ceibas divelti, le banchine del vecchio porto in disarmo ancora più tristi. E Nueva Vedado avvolta nei rumori d’una giornata di pioggia, le strade allagate dalla bufera, la solita tempesta tropicale che sorprende e lascia esterrefatti in attesa di un nuovo squarcio di sole. Fa pure freddo quest’anno all’Avana e la notte ci vogliono persino pigiama e coperta. Mario torna a casa portandosi via i soliti ricordi di tristi avventure pagate in dollari, torna alla solita vita fatta di menzogne e solitudini. Mario fa lo scrittore, in Italia. Mario vive alle spalle del padre, soprattutto. Forse rivedrà Manuela. Forse no. Isa spera soltanto di non vederlo più, pure se i suoi soldi le servono, inutile negare. Isa spera che qualcosa cambi, prima o poi, pure se lo sa che le sue speranze sono illusioni e che l’unico cambiamento possibile è la fuga. Lei però non scapperebbe mai, è troppo vecchia e troppo legata alla sua terra anche soltanto per pensarlo. 

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

Alejandro Torreguitart Ruiz

CUBA PARTICULAR

Sesso all’Avana

Stampa Alternativa – Euro 10,00 – Pag. 144

Collana Eretica – www.stampalternativa.it

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Seguono le prime pagine del romanzo

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Prologo

La vita di Isabel scorre per calle veintitrés, così crede lei almeno. Di sicuro da quando suo padre è approdato su quest’isola e ha deciso di metterci radici. Fuggiva da qualcosa, come tutti quelli che allora sbarcavano a Cuba. Da cosa però Isabel non lo ha mai saputo.

“Non me ne andrò mai da questo posto, bambina mia” le diceva “dove potrei trovare di meglio per la mia vecchiaia?”.

E lei se lo ricorda bene suo padre con il bicchiere di rum e il sigaro acceso al fresco della sera, e lo rimpiange. 

Quando eri vivo tu, papà, erano altri tempi.

Ma il tempo passa e c’è poco da fare.

I motivi del padre non ci sono più, volano via con il vento d’una rivoluzione che scompare come un triste arcobaleno dopo un giorno di pioggia. Resta soltanto la sua casa e almeno quella a Isabel non gliela può levare nessuno. Una casa che fa da rifugio per notti inclementi, che conserva ricordi del passato.

Aveva ragione lui, neppure io la lascerei questa terra, pensa Isabel. 

Amo ogni angolo sudicio di strada, i palazzi che cadono a pezzi, i tornados che si abbattono impietosi, il vento tropicale che fa impazzire nei giorni d’agosto. Amo il tempo che passa e non lo senti pesare, i silenzi del giorno, la musica della notte. Amo Cuba e i cubani con quel carattere sincero e sorridente. Amo la mia terra perché sono una di loro. Cubana hasta la muerte.

Però non è sempre così e Isabel lo sa. Più spesso la odia e la maledice quella terra. Vorrebbe fuggire. Vivere una vita normale, promettere un futuro a sua figlia, lavorare e pensare che serve, smettere una volta per tutte di tirare a campare.

La vita di Isabel scorre all’Avana, nonostante tutto. Anche se attende cambiamenti impossibili. Anche se ha smesso da tempo di credere. La sua vita è in calle veintitrés, Nueva Vedado, un quartiere elegante dove una volta vivevano i vecchi padroni. Possiede una bella villa che le ha lasciato suo padre, che tutti le invidiano perché la può affittare ai turisti. Isabel è padrona di una casa particolar. Non è da tutti a Cuba. È una nuova ricca, come dice la televisione, una privilegiata che vive maneggiando dollari. Ma lei non ha voluto questo privilegio, a lei andava meglio prima, quando ci credeva. Ha una laurea in giornalismo presa all’Università dell’Avana e tanti anni fa lavorava per Tele Rebelde, al servizio della rivoluzione. Ideava programmi, faceva interviste, conduceva inchieste, commentava le nuove idee. Era soddisfatta di quel che faceva. Dava il suo aiuto alla causa rivoluzionaria. Suo padre ci aveva creduto. Sua madre pure. Erano gli anni Settanta, quelli prima del muro. L’Unione Sovietica teneva Cuba per mano, lo zucchero era presente e futuro, non serviva altro. C’erano gli yankees di là dal mare, ma dopo Playa Giron se ne stavano buoni a leccarsi le ferite. Non erano loro a fare paura. Fidel infondeva coraggio con la sola presenza. Isabel si fidava di lui, sapeva che il Comandante non li avrebbe mai abbandonati. D’un tratto tutto è finito. Il periodo speciale ha fatto cadere speranze e certezze. A Isabel è rimasta una casa particular in calle veintitrés.

E in quella casa succede di tutto, da un po’ di tempo.   

Lei si rintana in una piccola stanza con la figlia e il marito e il resto lo lascia ai turisti, padroni di Cuba.

Ero giornalista e adesso gestisco un bordello, pensa.

Capitolo Primo

Il Portoghese

Il Portoghese viene all’Avana a fine anno, quando chiude la sua azienda per le feste di Natale. Capita anche in altri periodi, ma la fine d’anno a Cuba è diventata un rito. E all’Avana la sua casa è in calle veintitrés, da Isabel. Considera la villa coloniale immersa in un giardino di palme come casa propria. Si sente in famiglia. Paco, il marito di Isabel, lo va a prendere all’aeroporto con la vecchia Chevrolet rosso mattone e subito iniziano le solite confidenze.

“Come va, vecchio porco?” domanda il Portoghese e gli dà un colpetto sulla spalla.

“Scusami amico. Non mi è ancora arrivato il Ferrari. Per ora ancora Chevrolet. Però è solida. Ho appena cambiato le gomme”.

È un vecchio gioco quello che fanno. Ogni volta la solita storia del Ferrari che deve arrivare. Un modo per sorridere e rompere il ghiaccio. Il Portoghese si chiama Luis ma siccome viene soltanto lui dal Portogallo a casa di Isabel è il Portoghese, c’è poco da fare. Come sempre c’è anche Carlo, un frocio che Paco e Isabel hanno soprannominato el maricón. Lo sopportano poco ma pare molto amico del Portoghese. E il Portoghese paga bene, in dollari contanti, quindi c’è poco da fare i sofisticati. Paco sorride anche al frocio, pure se a lui i froci lo fanno andare in bestia, ma i dollari cambiano il nero in bianco, figurarsi le idee. Paco mette in moto e parte alla volta della casa.

“Cazzo se fa caldo” dice il Portoghese.

“A Lisbona è più freddo?” sorride Paco.

“Tre gradi sotto zero. Ci voleva una vacanza a Cuba”.

Chicas y playas, como siempre!”.

“Più chicas che playas” precisa il Portoghese.

Ridono di gusto. Dalla radio una musica di Willy Chirino ripete ossessiva Cuba que lindos son tus paysajes. Il motore scoppietta e l’auto affanna tra buche e strade sterrate d’una capitale in abbandono. Il frocio non dice una parola. L’argomento chicas non lo riguarda. Fuori dal finestrino passano ragazzi niente male e lui se li divora con gli occhi. Pensa che deve levarsi un po’ di voglie durante il soggiorno. L’aria calda del dicembre avanero gli porta alla memoria tanti ricordi. Lui sai che qui tutto è permesso e bastano pochi dollari per comprare anche i sogni.

Casa di Isabel calle veintitrés.

Non c’è il tempo di riposare che si parte per l’avventura della notte. Il Portoghese e il suo amico mangiano in fretta un piatto di congrís con del maiale, bevono cerveza Bucanero di quella forte. Isabel ha preparato poche cose. Banane fritte e un po’ di boniato, yuca in salsa. Tutto qui. Sa bene che non è per la cucina che vengono da lei i turisti che frequentano casa sua. Mai che venisse una famiglia. Lei almeno non se ne ricorda una. 

“Vogliamo andare in casa particular perché così si sta a contatto con la gente. Si vede Cuba con gli occhi dei cubani” è la scusa che ripetono. Forse vogliono convincersi pure loro.

Isa lo sa perché vengono in una casa particular, magari poco pulita, scomoda e con i condizionatori rumorosi, lontana da spiagge e attrattive turistiche. Isa lo sa e si sente come una vecchia maitresse. Una matrona che deve tenere il bandolo a tutti, combinare appuntamenti e talvolta cercare ragazze.

Se almeno lo dicessero chiaro: “Veniamo qui per scopare tranquilli. Perché se portiamo una ragazzina di quindici anni non succede niente. Perché negli alberghi di Fidel non potremmo mai cambiare donna ogni notte e fare festa sino all’alba”.

“Portaci a fare un giro” dice il Portoghese a Paco dopo mangiato.

“Dove volete andare?” chiede lui.

“Ci fidiamo di te”.

Paco lo sa dove vogliono andare. Non occorre molta immaginazione. Fidel ha emanato leggi restrittive, ha chiuso discoteche e ha proibito i contatti con gli stranieri. Però Paco lo sa dove si può ancora fare qualcosa senza rischiare troppo. La vecchia Chevrolet rumoreggia nella notte in direzione della Villa Panamericana. 

La discoteca della Villa non è niente di speciale. Una comune discoteca al piano terra di un grande albergo. Accanto c’è una piscina per turisti dove si esibiscono gruppi di musica tradizionale. Poco lontano las Playas del Este, una volta luogo di facili incontri, adesso campo di battaglia tra polizia e ragazzine che provano a rimorchiare. La discoteca però è tranquilla. Ci sono pochi controlli, sia dentro che fuori.

“Questo è un buon posto” dice Paco.

“Tu non entri?” chiede il Portoghese.

“No, preferisco dormire un poco”.

Paco ha messo il ribaltabile ai sedili della Chevrolet. Se lo è costruito da solo. È utile il ribaltabile quando si portano fuori i turisti con un taxi particular. Si può riposare mentre loro si danno da fare con le ragazze.

Paco è innamorato di Isa, almeno così pare. Per quanto può essere fedele un uomo cubano lui prova a esserlo. Almeno fino a quando dura l’amore. 

Passa poco tempo, ma non abbastanza per riposare davvero e recuperare le forze. Paco viene svegliato di soprassalto dalla risata stridula di una ragazzina. Poi la voce del Portoghese.

“Portaci a casa, Paco” fa.

Missione compiuta.

Il Portoghese stringe tra le braccia un bel pezzo di mulatta che avrà poco meno di vent’anni, gambe lunghe scoperte da una minigonna rossa e seno piccolo, sorriso malizioso tra le grandi labbra.

El maricón è insieme a un ragazzino che pare il fratello della mulatta.  Lui è imbarazzato mentre il frocio lo tocca un po’ ovunque e gli accarezza il pene tra le pieghe dei pantaloni. 

Paco accende il motore e la Chevrolet si mette in moto diretta a Nueva Vedado. La casa di Isa è pronta ad accogliere una notte d’amore, anche se la parola amore pare sprecata.

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giovedì, 7 giugno 2007

GIOVENTU’ LIBRANTE

Apro questa nuova rubrica – Gioventù librante - dedicandola ai giovanissimi, con l’obiettivo di contribuire ad avvicinarli alla lettura e al mondo dei libri.

Ho in testa un progetto che spero di attuare dopo l’estate. Ve ne parlerò al momento giusto. Per adesso Gioventù librante ospiterà questa iniziativa lanciata dalla libreria Cavallotto.

L’iniziativa prevede il coinvolgimento di un giovane lettore consulente.

La prima consulenza è della studentessa Chiara Pappalardo e riguarda i due seguenti libri pubblicati da Fanucci (che per la verità non conosco, ma che mi sembrano andare nella direzione dei libri di Moccia).

Massimo Maugeri

Il mondo nei tuoi occhi

di Loredana Frescura e Marco Tomatis (Fanucci editore)

Riassunto

Angelo e Costanza sono due ragazzi di sedici anni. Un giorno le loro vite si intrecciano, quando, alla stazione frequentata da entrambi, il ragazzo aiuta la ragazza a rialzarsi dopo una brutta caduta. Fra i due è colpo di fulmine e i ragazzi si scambiano i numeri di cellulare in modo alquanto bizzarro, infatti Costanza lo scrive sul finestrino del treno sul quale Angelo è già salito. Ma è costretta a scriverlo al contrario, così che lui possa facilmente leggerlo. Dopo varie titubanze per la vergogna, al secondo appuntamento i due si baciano e passano splendide ore in un luogo di incanto. Ma presto torneranno a fare i conti con la vita di tutti i giorni: Costanza scoprirà che la sua amica d’infanzia, Chiara, è incinta, mentre Angelo riceverà dalla più carina della scuola un invito, che deciderà di accettare. Ma proprio mentre Angelo è fuori con la ragazza, avrà un incidente con il motorino e all’ospedale, fatalmente, verrà scoperto da Costanza. Dopo una lunga lontananza, un regalo inatteso per il compleanno di Costanza la porterà a rivalutare la situazione e a seguire Angelo alla stazione. Proprio lì, per recuperare il biglietto sfuggito dalle mani del ragazzo, Costanza rischierà di essere investita da un treno. All’ospedale ritroverà Angelo e i due si dichiareranno il loro amore reciproco.

Commento

La storia è rivisitata sia dal punto di vista di Costanza, sia da quello di Angelo. La narrazione inizia alla stazione, con Costanza che attraversa le rotaie per recuperare il biglietto del ragazzo; poi un lungo flashback ci racconta la lora vicenda dall’inizio, dal primo loro sguardo. La scrittura scorre attraverso il flusso dei pensieri, ora di lei, ora di lui, mostrando come ragazzi e ragazze vedano le cose con occhi diversi. Un affondo nel mondo giovanile, costituito da tranquilli ed eterni sognatori, che a volte si vedono piombare addosso realtà scomode, come un tradimento o una gravidanza inattesa.

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Un anno dopo, l’amore

di Loredana Frescura e Marco Tomatis (Fanucci editore)

Riassunto

È passato un anno dall’inizio dell’amore tra Angelo e Costanza, dalla loro prima volta, così densa di emozioni. Chiara ha già partorito il piccolo Pietro, decidendo di andare a vivere da sola. L’amore dei due giovani prosegue spensierato, anche fra il sorgere di primi dubbi e incertezze, fino ad una sera, al termine della quale era prevista una notte indimenticabile a casa di Costanza, vista l’assenza dei genitori. Ma una telefonata sconvolge i piani: Roberto, il migliore amico di Angelo ha bisogno del suo aiuto. Angelo e Costanza corrono da lui e lo trovano ferito e senza motorino. Il ragazzo è stato picchiato da alcuni trentenni ubriachi, che tornano per picchiare anche Costanza e Angelo, ma una trovata del ragazzo, preoccupato principalmente che qualcuno potesse far male alla sua ragazza, mette in fuga i tre. I giovani riescono a raggiungere casa di Chiara, dove ottengono ospitalità; qui tutti i dubbi sull’amore dei due, le gelosie tenute nascoste vengono a galla, e la grande adrenalina accumulata nella notte porta ad un enorme litigio. Dopo la separazione, Angelo deve fare i conti con la dichiarazione di Roberto, che ha scoperto di essere attratto maggiormente dagli uomini che dalle donne. Passano due mesi prima che Angelo e Costanza ammettono di sentire la necessità l’uno dell’altra. Angelo si precipita con il motorino, sotto un forte acquazzone, all’ospedale, dove Costanza si sta esibendo come clown da corsia. L’amore rinasce ma sembra essere minacciato dalla notizia dell’improvvisa partenza di Angelo per l’Australia, dove passerà i due mesi estivi. Entrambi però sanno che dopo questi mesi saranno pronti a riabbracciarsi e a continuare a vivere il loro amore.

Commento

In questo libro ritroviamo i personaggi de “Il mondo nei tuoi occhi” e l’alternanza dei punti di vista di Angelo e Costanza. La struttura è più o meno la stessa del precedente romanzo: anche stavolta interviene qualcosa che provoca la rottura tra i ragazzi, ma l’amore ben presto si ristabilisce. Stavolta l’amore presentatoci ha i toni di una favola, è perfetto, sembrando persino lontano dalla realtà. L’analisi dei pensieri dei protagonisti è profonda, e crescendo entrambi si trovano ad affrontare sempre nuovi problemi.

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mercoledì, 30 maggio 2007

CENTOCHIODI: LA SILENZIOSA NARRAZIONE DELLE IMMAGINI (di Gabriele Montemagno)

Il fiume Po

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Può sembrare alquanto contraddittorio scrivere su Centochiodi, l’ultimo film di Ermanno Olmi,  in un blog letterario. Il motivo è ben presente a chi ha visto la pellicola. L’immagine di questo film che colpisce maggiormente lo spettatore è proprio quella dei tanti libri aperti e inchiodati al suolo di una biblioteca da grossi chiodi. A realizzare questo “sacrilego” gesto è un giovane e brillante docente universitario, protagonista del film. Egli ha compiuto tale atto simbolico dopo essere giunto alla conclusione che i libri sono stati incapaci di togliere il male dal mondo, pur essendo detentori di culture e saggezze millenarie. “Tutti i libri di questo mondo non valgono un caffé con un amico”, affermerà poi verso la fine del film, quasi a volere suggellare il suo gesto compiuto contro i libri.  A cui segue la sua decisione di fuggire via dall’università e dalla sua città. Una fuga che ha termine  in un piccolo paese alle rive del Po, abitato da gente semplice con cui il docente stringe profonda amicizia, divenendo solidale con loro e con i loro piccoli problemi. Proprio per questo verrà da loro ritenuto un novello Cristo. Di fronte a tutto ciò, quanti amano i libri (compreso chi scrive) potrebbero giustamente insorgere.

Eppure non sembra essere il rifiuto dei libri, tout court, ciò che il regista ha voluto comunicarci attraverso la sua ultima pellicola. Olmi, infatti, ha affermato di non essersi voluto scagliare contro i libri, che ama, bensì contro quella cultura (anche religiosa) che, esclusivamente libresca, può imprigionare, “inchiodare”, ciascun uomo, incasellandolo in codici precostituiti e privandolo della mutevolezza e sacralità della sua vita vissuta. E tuttavia tale affermazione può costituire motivo di riflessione (e di turbamento) ogni qual volta ci si accosta ai libri ed al loro mondo.

Ad un esame più attento, però, in questo film Olmi pare volerci principalmente narrare la storia di un profondo cambiamento, di una “conversione”, che scaturisce da una crisi interiore. E lo fa partendo dal contatto col  buio esistenziale del suo protagonista. Ad un certo punto del film, un primo piano dal basso racchiude il volto del giovane professore mentre, in silenzio, osserva da un ponte l’acqua del Po fluire di sotto: il suo volto è profondamente serio e intento, ed è illuminato dalla fioca luce crepuscolare che richiama la fioca luce del suo animo. Sembra la scena di un suicidio. Eppure, dopo qualche istante di silenzio, il professore getta la sua carta d’identità nel fiume insieme al suo lussuoso giubbotto e li osserva allontanarsi, trascinati dalla corrente. Abbandona poi ogni altro suo avere e, dopo aver trovato una piccola casetta diroccata posta sulla riva, in mezzo alla vegetazione, la elegge a sua dimora, ristrutturandola. Inizierà così la sua nuova esistenza in una solitudine agreste alternata dal contatto con gli abitanti del piccolo borgo della Bassa mantovana. Però da qui la trama sembra proseguire verso sviluppi scarsamente efficaci, perché la “morale” diviene didascalica e un po’ di maniera. A conclusione del film si ha l’impressione che quanto era stato promesso non sia stato mantenuto e sia ancora lì, irrisolto. Peccato. Eppure restano le immagini. Il fiume, la campagna, i tramonti, la vita quotidiana del borgo, i balli nella balera al fresco della sera: tutto questo è osservato e narrato con cura, attenzione e rispetto dall’obiettivo della macchina da presa. Non semplice “sfondo” scenografico o esercizio calligrafico, bensì –appunto- narrazione. Narrazione silenziosa. Giacché silenziose sono le immagini che raccontano questo piccolo mondo osservato e vissuto dal giovane professore. Viene da pensare ai film di Terrence Malick.  Viene anche da pensare che, forse, quanto c’è di poco convincente ed irrisolto in questo film, troverà una sua continuazione nelle realtà raccontate dai futuri documentari a cui Olmi vuole interamente dedicarsi, avendo deciso di abbandonare il cinema di finzione. Non resta, allora, che augurargli di mantenere quel suo sguardo carico di sensibilità verso la realtà profonda delle cose.

Gabriele Montemagno

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venerdì, 11 maggio 2007

CUBA SECONDO IL NIPOTE DEL CHE (di Gordiano Lupi)

CUBA SECONDO IL NIPOTE DEL CHE

La Rivoluzione cubana è un volgare capitalismo di Stato

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Fa un po’ impressione aprire La Nueva Cuba dell’8 maggio e leggere un articolo firmato da Máximo Tomás che riporta le impressioni sulla Rivoluzione Cubana di Caneck Sánchez Guevara, nipote maggiore del Che. Caneck è nato a Cuba trenta anni fa da Hildita, primogenita di Ernesto e della prima moglie Hilda. Oggi vive a Oaxaca, è cittadino messicano, lavora come disegnatore grafico e scrittore.  Le sue parole sono dure come il marmo e gettano alle ortiche quel poco che sembrava di dover salvare della esperienza rivoluzionaria.

“La Rivoluzione a Cuba non è mai stata democratica e neppure comunista, ma ha sempre rappresentato un volgare capitalismo di Stato chiamato fidelismo” afferma senza mezzi termini.

L’intervista di Caneck è stata pubblicata dal settimanale messicano Proceso e suona come una critica aspra e una condanna senza appello alla politica di Fidel Castro, definito “un vecchio tiranno che ha falsificato un nobile ideale”.

“La Rivoluzione è sempre stata antidemocratica, ha prodotto solo una borghesia corrotta, degli apparati repressivi e una burocrazia incredibile che l’hanno allontanata dal popolo” prosegue Caneck. Il suo ragionamento continua con accusa ancora più pesanti e circostanziate. Fidel è il responsabile della trasformazione di un’idea rivoluzionaria in una sorta di religione della quale sembra il sommo sacerdote. Il leader maximo ha appoggiato l’installazione di una rigida borghesia socialista, fintamente proletaria, che ha sempre perseguitato omosessuali, hippyes, liberi pensatori, sindacalisti e poeti.

“La Rivoluzione ha fallito i suoi obiettivi da molti anni, è stata assassinata da chi doveva difenderla, proprio per evitare che il popolo si rivoltasse contro il potere. La borghesia rivoluzionaria è asfissiata dalla burocrazia, dalla corruzione e dal nepotismo imperante” continua Caneck.

Il nipote del Che non esita a definire il regime di Castro come una dittatura e accusa il comandante di aver tradito gli ideali originari della Rivoluzione.

“È vero che Fidel ha liberato Cuba dalla tirannia di Batista, ma con il passare del tempo si è rivelato anche lui uno spietato dittatore” continua Caneck.

“Tutte le mie critiche a Fidel Castro partono dal suo allontanamento dagli ideali libertari, dal tradimento commesso contro il popolo cubano e dalla spaventosa vigilanza stabilita per difendere lo Stato dalla sua gente” afferma.

Il nipote maggiore di Che Guevara segnala che la repressione che si vive a Cuba è soffocante, perché gli individui vengono controllati in maniera rigida e le associazioni sono proibite.

“La Rivoluzione è soltanto un volgare capitalismo di Stato che morirà con Fidel” afferma Caneck.

(Non sono ottimista come Caneck, speriamo che i fatti gli diano ragione, mai come adesso vorrei sbagliarmi… nda)

“Un giovane ribelle come in passato è stato Fidel Castro, nella Cuba di oggi sarebbe immediatamente fucilato” aggiunge.

La conclusione è ancora più amara.

“Il marxismo è soltanto una materia scolastica che nella realtà cubana non viene assolutamente messa in pratica”.

Niente di nuovo sotto il sole per chi come noi va dicendo e scrivendo queste cose da anni. Se Che Guevara fosse ancora vivo sarebbe il primo a imbracciare il fucile contro una Rivoluzione tradita sin dai principi fondamentali che animavano la guerriglia sulla Sierra Maestra. 

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

Gordiano Lupi (Piombino, 1960). Capo redattore de Il Foglio Letterario e Direttore Editoriale delle Edizioni Il Foglio. Ha tradotto i romanzi del cubano Alejandro Torreguitart Ruiz: "Machi di carta" (Stampa Alternativa, 2003), "La Marina del mio passato" (Nonsoloparole, 2003), "Vita da jinetera" (Il Foglio, 2005), "Cuba particolar – Sesso all’Avana" (Stampa Alternativa, 2007). I suoi lavori più recenti sono: "Nero Tropicale" (Terzo Millennio, 2003), "Cuba Magica – conversazioni con un santéro" (Mursia, 2003), Cannibal – il cinema selvaggio di Ruggero Deodato (Profondo Rosso, 2003), "Un’isola a passo di son – viaggio nel mondo della musica cubana" (Bastogi, 2004), "Quasi quasi faccio anch’io un corso di scrittura" (Stampa Alternativa, 2004), "Orrore, erotismo e pornografia secondo Joe D’Amato" (Profondo Rosso, 2004), "Tomas Milian, il trucido e lo sbirro" (Profondo Rosso, 2004), "Le dive nude – vol. 1 – il cinema di Gloria Guida e di Edwige Fenech" (Profondo Rosso, 2005), "Serial Killer italiani" (Editoriale Olimpia, 2005), "Nemici miei" (Stampa Alternativa, 2005), "Il cittadino si ribella: il cinema di Enzo G. Castellari" – in collaborazione con Fabio Zanello – (Profondo Rosso, 2006), "Filmare la morte – Il cinema horror e thriller di Lucio Fulci" (Il Foglio, 2006) e "Orrori tropicali – storie di vudu, santeria e palo mayombe" (Il Foglio, 2006). Il suo ultimo libro è il saggio "Almeno il pane Fidel – Cuba quotidiana" (Stampa Alternativa, 2006). Di prossima pubblicazione: "Dracula e i vampiri" (in collaborazione con Maurizio Maggioni – Profondo Rosso, 2007), "Il cinema di Luigi Cozzi" (Profondo Rosso, data da stabilire) e "Il cinema di Sergio Martino" (in collaborazione con Fabio Zanello – Profondo Rosso, da stabilire). Pagine web: www.infol.it/lupi. E-mail per contatti:  lupi at infol.it Ha preso parte ad alcune trasmissioni TV come Cominciamo bene le storie di Corrado Augias (libro Serial killer italiani), Uno Mattina di Luca Giurato (libro Serial killer italiani), Odeon TV (trasmissione sui Serial killer italiani) e La Commedia all’italiana su Rete Quattro (dove ha parlato di Gloria Guida e di commedia sexy). È stato ospite di alcune trasmissioni radiofoniche per i suoi libri e soprattutto per il saggio su Cuba intitolato Almeno il pane Fidel che sta facendo discutere. I suoi libri sono stati oggetto di numerose recensioni e segnalazioni che si possono leggere al sito www.infol.it

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lunedì, 30 aprile 2007

UNA NUOVA STAGIONE PER L’HORROR ITALIANO ”NYMPHA” di IVAN ZUCCON

Nympha NyMpha è il nuovo horror del promettente regista Ivan Zuccon che abbiamo avuto modo di apprezzare nel claustrofobico e allucinato Bad Brains (2006) e nei precedenti The Shunned House (2003) e The Darkness Beyond (2000) ed è un vero peccato che certe pellicole abbiano mercato soltanto negli Stati Uniti. In Italia il nome di Ivan Zuccon non è noto perché i grandi produttori non rischiano con una pellicola horror nostrana e certi film sono realizzati da produzioni indipendenti. Sono finiti i tempi della Filmirage di Aristide Massaccesi e la factory di Dario Argento non è decollata, se mai qualcuno avesse avuto davvero intenzione di metterla in piedi. Michele Soavi, unico frutto di quella scuola, adesso gira film televisivi su San Francesco e Nassiria, dopo aver prodotto opere interessanti come “La Setta”, “La Chiesa” e ,”Dellamorte Dellamore”.

Il nuovo film di Zuccon è girato interamente in inglese e sottotitolato in italiano, sia perché la storia parla di una ragazza inglese che deve farsi suora, sia perché in questo modo è più facile venderlo oltreoceano. NyMpha è un interessante tonaca – horror che a tratti ricorda La monaca nel peccato di Joe D’Amato, ma che ha una sua precisa originalità. Il film racconta la storia di Sarah (un’affascinante ed espressiva Tiffany Shepis), una ragazza inglese che vuole farsi suora di clausura in Italia nel convento del Nuovo Ordine. Sarah è costretta a incontrare Dio in modo orribile, attraverso operazioni chirurgiche effettuate da un medico prezzolato che la priva di udito, vista, tatto e parola. Non è certo Dio l’entità misteriosa che governa le sorti del convento e che spinge un gruppo di suore allucinate a compiere azioni inquietanti. Zuccon è molto bravo a tratteggiare i caratteri dei protagonisti e a spingere lo spettatore dentro una spirale orrorifica che si dipana con grande tensione e scene a effetto. Sarah soffre per le torture praticate e rivive visioni relative al passato del convento, ma soprattutto ripercorre la triste sorte di una ragazza di nome Nympha. Per correttezza nei confronti dello spettatore è bene non rivelare la parte che vede protagonista un nonno vittima di una follia religiosa che lo porta a compiere atti orrendi. Nympha viene educata al timore di Dio, crede che nella soffitta di casa ci sia un’entità misteriosa affamata di carne umana, vede il sangue uscire da porte e finestre, sente dentro di sé il terrore del passato. Le scoperte di Nympha e di Sarah sconvolgeranno le loro vite ma pare scontato che per entrambe resta una sola via d’uscita. NyMpha è una storia horror a sfondo religioso, scritta e sceneggiata da Ivan Zuccon e Ivo Gazzarrini, che sfrutta effetti speciali interessanti, atmosfere cupe e claustrofobiche già viste nel precedente Bad Brains ed effetti gore e splatter che seguono la lezione del miglior Fulci. Il film si pone come continuatore della tradizione horror italiana e miscela parti orrorifiche a parti erotiche, soprattutto a sfondo lesbico. È interessante ricordare il sogno di Sarah mentre immagina di far l’amore con Nympha in una scena molto ben girata e recitata con grande naturalezza. La fotografia è cupa, il colore dominante è un verde scuro, la maggior parte delle azioni si svolgono di notte. Gli effetti speciali sono ben realizzati, soprattutto le scene di sangue che filtra dalle pareti, le feroci mutilazioni praticate su Sarah e le sequenze dove sciami di mosche volano su cadaveri decomposti. Un horror angosciante e cupo, basato sui ricordi e girato con la tecnica del flashback resa da continue e brusche dissolvenze. Nella pellicola sono presenti citazioni da vecchi horror italiani, forse inconsapevoli e frutto del background culturale di regista e sceneggiatore. La mente va a Dario Argento sia nella scena con la piccola Nympha che vede accanto un cavallo a dondolo, così come si pensa a Phenomena durante la sequenza con lo sciame di mosche. Alcune parti girate al convento ricordano Joe D’Amato (La monaca nel peccato, Immagini di un convento), ma pure il taglio della lingua, efferato e credibile, fa venire a mente una scena di Caligola interpretata da Michele Soavi. Sono presenti anche suggestioni dall’opera di Lucio Fulci, vero poeta del gore e dello splatter, il regista italiano che meglio ha saputo filmare la morte. NyMpha è tutto girato in interni ma in alta definizione e verrà distribuito sul mercato Home Video. Le ultime notizie raccolte da fonti sicure dicono che Bad Brains uscirà a luglio per Mikado e NyMpha verrà proiettato il 30 maggio al Salento Fearfest in anteprima, in concorso.

Scheda tecnica di NyMpha

Diretto da: Ivan Zuccon.

Scritto da: Ivan Zuccon, Ivo Gazzarrini.

Cast: Tiffany Shepis, Allan McKenna, Caroline DeCristofaro, Michael Segal, Alessandra Guerzoni, Francesco Primavera, Giuseppe Gobbato, Caterina Zanca, Federico D’Anneo.

Anno: 2007

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

Gordiano Lupi (Piombino, 1960). Capo redattore de Il Foglio Letterario e Direttore Editoriale delle Edizioni Il Foglio. Ha tradotto i romanzi del cubano Alejandro Torreguitart Ruiz: Machi di carta (Stampa Alternativa, 2003), La Marina del mio passato (Nonsoloparole, 2003), Vita da jinetera (Il Foglio, 2005), Cuba particolar – Sesso all’Avana (Stampa Alternativa, 2007). I suoi lavori più recenti sono: Nero Tropicale (Terzo Millennio, 2003), Cuba Magica – conversazioni con un santéro (Mursia, 2003), Cannibal – il cinema selvaggio di Ruggero Deodato (Profondo Rosso, 2003), Un’isola a passo di son – viaggio nel mondo della musica cubana (Bastogi, 2004), Quasi quasi faccio anch’io un corso di scrittura (Stampa Alternativa, 2004), Orrore, erotismo e pornografia secondo Joe D’Amato (Profondo Rosso, 2004), Tomas Milian, il trucido e lo sbirro (Profondo Rosso, 2004), Le dive nude – vol. 1 – il cinema di Gloria Guida e di Edwige Fenech (Profondo Rosso, 2005), Serial Killer italiani (Editoriale Olimpia, 2005), Nemici miei (Stampa Alternativa, 2005), Il cittadino si ribella: il cinema di Enzo G. Castellari – in collaborazione con Fabio Zanello – (Profondo Rosso, 2006), Filmare la morte – Il cinema horror e thriller di Lucio Fulci (Il Foglio, 2006) e Orrori tropicali – storie di vudu, santeria e palo mayombe (Il Foglio, 2006). Il suo ultimo libro è il saggio Almeno il pane Fidel – Cuba quotidiana (Stampa Alternativa, 2006). Di prossima pubblicazione: Dracula e i vampiri (in collaborazione con Maurizio Maggioni – Profondo Rosso, 2007), Il cinema di Luigi Cozzi (Profondo Rosso, data da stabilire) e Il cinema di Sergio Martino (in collaborazione con Fabio Zanello – Profondo Rosso, da stabilire). Pagine web: www.infol.it/lupi. E-mail per contatti:  lupi at infol.it

Ha preso parte ad alcune trasmissioni TV come Cominciamo bene le storie di Corrado Augias (libro Serial killer italiani), Uno Mattina di Luca Giurato (libro Serial killer italiani), Odeon TV (trasmissione sui Serial killer italiani) e La Commedia all’italiana su Rete Quattro (dove ha parlato di Gloria Guida e di commedia sexy). È stato ospite di alcune trasmissioni radiofoniche per i suoi libri e soprattutto per il saggio su Cuba intitolato Almeno il pane Fidel che sta facendo discutere. I suoi libri sono stati oggetto di numerose recensioni e segnalazioni che si possono leggere al sito www.infol.it

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venerdì, 27 aprile 2007

QUEL GENIO COSTRUITO DI JOHN COLTRANE (articolo di Roberto Alajmo)

Roberto Alajmo

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Su una cosa concordano tutti gli amici d’infanzia e i compagni di scuola, persino i parenti di John Coltrane: non era una cima. Eufemismo classico per mascherare lo sbigottimento di vedere un mediocre trasformarsi in genio universale conclamato.

John Coltrane

D’accordo, nessuno è un grand’uomo per il suo cameriere (e per i suoi compagni di scuola, e per certi parenti); ma nel caso di JC siamo di fronte a un fenomeno esemplare di genio costruito con la forza della volontà. Altro che Mozart: a parte la morte prematura, con Mozart c’è poco talento naturale in comune. Anche i primi amici musicisti non lo ricordano come un gran che. JC viene fuori poco alla volta, come una specie di diesel, ascoltando gli altri e facendo osmosi. Esercitandosi in maniera ossessiva, cercando la propria strada, sbagliando in continuazione e correggendosi ogni volta. È la prova vivente della convinzione di Hemingway: il genio è al cinque per cento ispirazione e al novantacinque per cento traspirazione. Intesa come fatica, sudore della fronte. Niente infanzia prodigiosa, niente talento innato, per JC. Lui fa marchettoni nei locali, suona nelle bande militari, monta in piedi sul banco dei bar per fare spettacolo, soffre di complesso di inferiorità quando le prime volte Miles Davis lo chiama a suonare con lui, e per giunta gli fa delle gran cazziate. Anche a suonare il sax tenore ci arriva per caso, quando un collega dimentica lì il suo strumento e lui comincia a soffiarci dentro. Usa sempre un certo tipo di ancia rigida, ne prova un’altra, cambia idea e sale di un altro gradino sulla scala della genialità. Ecco, un gradino dopo l’altro JC sale la sua scala fino in cima. Supera i diversi piani dell’autodistruzione e ne esce incolume. Diventa persino vegetariano e mezzo mistico senza smarrire il furore che anima la sua musica, una contraddizione che fa impazzire Ravi Shankar. Poi, a quarantun’anni gli viene un cancro, bum, e muore nel giro di qualche settimana. Sale, sale, sale. Un gradino dopo l’altro, con enorme fatica. Dopodichè la scala finisce e sotto c’è un precipizio. Come la fatica di Sisifo: solo che oltre a essere Sisifo, JC è anche il macigno che precipita dall’altra parte.

Roberto Alajmo

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Roberto Alajmo è nato a Palermo nel 1959. Fra i suoi libri: Le scarpe di Polifemo (Feltrinelli, 1998), e Notizia del disastro (Garzanti, 2001), col quale ha vinto il premio Mondello. Con Mondadori nel 2003 ha pubblicato il romanzo Cuore di Madre, finalista ai premi Strega e Campiello. Nel 2004 è uscito Nuovo repertorio dei pazzi della città di Palermo e nel 2005 il romanzo È stato il figlio, finalista al premio Viareggio e vincitore del SuperVittorini e SuperComisso.
Con Laterza, sempre nel 2005, ha pubblicato il saggio Palermo è una cipolla.

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Questo video di John Coltrane lo offre la ditta. Cliccate (un paio di volte) sul simbolo play in basso a sinistra del quadrante se volete rimanere in questa pagina. Massimo Maugeri

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venerdì, 20 aprile 2007

DIRIMPETTAI n. 4

Su Books and other sorrow potete leggere la nuova "puntata" – la quarta – dell’epistolario on line che lega me e Francesca Mazzucato (e i nostri blog).

La mia foto

Francesca Mazzucato

Scriveteci le vostre impressioni se ne avete voglia. Gli indirizzi e-mail li conoscete. Risponderemo a tutti.

Intanto ne approfitto per augurare il meglio alla nuova creatura letteraria di Francesca. MagnificatSi intitola "Magnificat Marsigliese", edizioni Creativa: Tre storie d’amore. Tre storie sui corpi, sull’intimità e il dolore. L’anoressia e il fallimento, l’adozione, l’epilessia. Storie di donne che non soccombono, che amano, che portano avanti il loro sogno, qualunque sia. Storie che avvengono in frontiere estreme. Amori senza speranza ma pieni di palpiti e desiderio. Storie nelle quali non potremo non riconoscere un pezzo di noi, un barlume della nostra esperienza.

Con richiami a Jean-Claude Izzo, Louis Brauquier, Samuel Beckett e Kurt Nimmo.

Buon week end.

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OMAGGIO A ZYGMUNT BAUMAN

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OMAGGIO A TULLIO DE MAURO

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RATPUS va in scena ratpus

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Ricordiamo VIRNA LISI con un video che è uno "spot" per la lettura

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