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Archivio di marzo 2008

domenica, 30 marzo 2008

IL RIBELLE IN GUANTI ROSA. CHARLES BAUDELAIRE di Giuseppe Montesano

Parliamo di Charles Baudelaire. E parliamo di uno dei libri più interessanti pubblicati nel 2007 in Italia: “Il ribelle in guanti rosa” di Giuseppe Montesano.
Il fondatore della poesia moderna, il poeta maledetto, il critico della borghesia, il più celebrato cantore degli eccessi (il sesso, gli alcol, le droghe) nella modernità: non è facile scrivere di Baudelaire, raccontarne la strepitosa parabola letteraria e umana senza incorrere nei luoghi comuni da una parte e nelle sofisticate distinzioni degli specialisti dall’altra. Il libro di Montesano cerca questa terza via, conducendo il lettore in una Parigi brulicante di teorie, di rêveries, allucinazioni oscure e illuminazioni abbaglianti, incontra una folla di personaggi insigni e oscuri. E soprattutto, se Baudelaire è il poeta che “si è consegnato a molte maschere”, Montesano cerca di indentificarle tutte, di registrarle minuziosamente per poi strapparle, svelandone ora il sovrapporsi al volto ora il confondersi con la carne e il sangue dell’uomo che vi sta sotto”.
Giuseppe Montesano – che è romanziere, ma si occupa anche di letteratura francese (tra le altre cose è curatore con Raboni dei Meridiani Mondadori su Baudelaire) – sceglie di parlare del “poeta maledetto” attraverso un saggio-romanzo frutto, peraltro, di un lavoro decennale.
Credo che questo post possa essere una buona occasione per discutere di Baudelaire e approfondire la conoscenza (o fare la conoscenza) di questo poeta (ma anche scrittore, critico letterario e traduttore) francese.
Ovviamente siete invitati a dire la vostra.
Di seguito potrete leggere la recensione di Andrea Di Consoli, che pubblichiamo all’interno della sua rubrica “La stanza dello scirocco”.
(Massimo Maugeri)

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recensione di Andrea Di Consoli (nella foto) 

Adesso diranno semplicemente che è uno studioso – “un critico”, per giunta – ma Il ribelle in guanti rosa (Mondadori, 441 pagine, 19,00 euro) di Giuseppe Montesano (Napoli, 1959), autore di fortunati romanzi come Nel corpo di Napoli (1999) e Di questa vita menzognera (2003), è davvero un libro sorprendente e unico, forse uno dei pochissimi grandi romanzi critici degli ultimi anni – un libro che conosce e racchiude tutte le forme e tutti i metodi di camminamento e di discendimento “nel corpo” di un autore e del suo tempo. Come tutti i grandi scrittori novecenteschi, Montesano ha usato, nella sua intensa vita letteraria, più generi espressivi: il racconto, il romanzo, il teatro, la critica letteraria, il romanzo a puntate, la critica musicale e la traduzione (ha tradotto Baudelaire, Villiers de L’Isle-Adam, Flaubert, Gautier), e ha così riconfermato (felicemente) l’assunto che il romanzo è solo la punta di un iceberg in un oceano di cultura e di curiosità.   Saggio, certamente; sicuramente critica stilistica, storica, morale e filosofica; biografia, senza dubbio; ma, infine, e sia detto senza nessun ordine di valore, il grande romanzo di un uomo inafferrabile, di un poeta chiuso nella morsa delle sue contraddizioni: Charles Baudelaire (1821-1867), cantore e nemico di Parigi, demone celestiale e infernale, poeta classico e assolutamente moderno, unione di opposti d’inesauribile complessità.

Il romanzo critico di Montesano è un viaggio teso e inquirente in una selva di segni (poesie, lettere e testimonianze) in cui è impigliata e invischiata la tumultuosa vita di Baudelaire, il re dei “maledetti”; anzi, è una specie di “basso” napoletano colmo di vicoli e sotterranei segreti, in cui Montesano ha camminato in tanti anni di oscura “ossessione”, come un pensoso flâneur, un “amante” assetato con la lente d’ingrandimento, un filosofo che sa svelare i segreti sublimi della lirica, senza perdere mai di vista il duro reale, le strade lerce, i vizi, (“l’erotìa e l’interesse”, direbbe Gadda), l’oro del tempo storico che, sotto un luccichio sfavillante, nasconde il “duro metallo della violenza”.  E, a proposito di “erotìa”, Montesano cerca anche di sfondare il muro misterioso che ci nasconde la bella Jeanne Duval: “[...] Era bellissima. Non abbiamo fotografie, e l’unico ritratto che la raffigura è un quadro di Manet che la dipinse forse a memoria, atrocemente devastata dalla malattia: ma Jeanne era bellissima”. Il Baudelaire di Montesano è un uomo che si diverte a “dare il cattivo esempio”. E’ un poeta malinconico e irascibile, tormentato dai debiti, dalle cambiali, dalle scadenze e dalla gestione controllata del suo patrimonio (tutti sanno l’odio che provava nei confronti del patrigno Aupick). Scrive Baudelaire alla madre: “Quando si ha un figlio come me non ci si risposa”. E’, Baudelaire, un poeta che vive la sua breve esistenza sotto l’ombra dello spleen. Scrive Montesano: “Lo spleen era l’esperienza della distruzione non definitiva, quel calarsi nella ferita della ragione resistendo in essa [...]“. La sua umanità era fatta di prostitute, illuminati, idealisti, ermetici, ubriaconi, artisti e rivoluzionari (“Baudelaire era attratto dai mistici di ogni genere che affollavano mansarde e abbaini delle vie più povere di Parigi”; e ancora: “
La Parigi per la quale si aggirava il giovane Baudelaire con la curiosità di chi cerca l’eccesso pullulava di mistici da baraccone, di insofferenti al pensiero logico e di rivoluzionari pronti ad appiccare il fuoco all’intera società [...]“). E Montesano si cala totalmente con Baudelaire in quest’inferno paradisiaco, e ingrandisce dettagli, svela segreti (l’Ennui non è altro che Napoleone III), sporca le sue mani con il materiale vischioso dell’esistenza del suo poeta e, abitando interamente l’universo baudeleriano, non può fare a meno di diventare anch’egli (in absentia) un personaggio di quella Parigi lì, restituendoci l’immagine di un detective neoplatonico e barocco, irrazionale e sapienzale, rivoluzionario e apocalittico.Il Baudelaire di Montesano è un barricadiero, un rivoluzionario, (non un “democratico da caffè”), uno che ha sposato la causa della rivolta operaia del 1848, solo in apparenza per ragioni “private” (colpire il suo patrigno-generale). In realtà Montesano ci svela che Baudelaire aveva una salda conoscenza “tecnica” del socialismo: “Negli anni in cui non aveva disdegnato la lettura dei mistici del socialismo, Baudelaire aveva letto attentamente un filosofo che non era un mistico ma si vantava di essere un tecnico dell’amara scienza, che per lui come per Marx aveva in Ricardo il suo vero fondatore: quella scienza era l’economia politica, e quel filosofo si chiamava Pierre-Joseph Proudhon”. Scrive Montesano: “Solo chi scende al livello della strada e abbandona l’egoismo può sposare le folle di Febbraio e di Giugno [...]“. E’ strano scoprire questa “faccia” di Baudelaire, un poeta che “traffica” con Blanqui, Proudhon e il socialismo cristiano, e che non è soltanto (o non è più) un parnassiano, il cantore della modernità della città di Parigi, o il restauratore del classicismo e, al contempo, colui che ha minato dall’interno, con la dissonanza, e con l’asimmetria, la perfezione della poesia. Il poeta sublime attacca l’art pour l’art, e si dichiara commosso dalla poesia “vera” di Dupont. Ma, probabilmente, il “socialismo cristiano” di Baudelaire, come scrisse Walter Benjamin a proposito di Blanqui, non presupponeva affatto la fede nel progresso, ma solo la decisione di farla finita con l’ingiustizia del presente. Delacroix, nel 1849, a un anno dai moti del ‘48, annota sarcastico nel suo diario: “Venuto il signor Baudelaire [...] Le sue idee mi sembrano modernissime e davvero sulla via del progresso. Uscito lui [...] Stato d’animo molto triste”. Era troppo difficile capire il sogno di Baudelaire: unire “i pezzi rotti dell’umanità” non nella purezza astratta dello spirito, “ma nella carne e nel sangue, e contro gli idealisti che escludevano l’eros dall’amore”. Tutto sembra perduto: la malattia, i debiti, le sconfitte del ‘48 (e del ‘52). E la pulsione sovversiva non è altro che il ghigno smorfioso dello spleen. “La catastrofe è che tutto continui come prima”, scrive Baudelaire. Ma la vera catastrofe è l’uomo che aspira all’assoluto, al segreto inafferrabile del tempo e dei simboli del mondo; pure, il senso di estraneità che il poeta prova nella sua Parigi. Scrive Benjamin: “Nessuno si è mai sentito così poco a casa propria a Parigi quanto Baudelaire”. Il povero dandy cambiava continuamente domicilio, dormiva su letti “di fortuna” (“Dentro Parigi, il suo deserto vivente, senza fuoco né luogo”, scrive). E’ quasi una premonizione di quei “non-luoghi” teorizzati, molti anni dopo, dall’antropologo Marc Augé. Le Fleurs du mal Montesano le scandaglia con l’ultravista della dimestichezza: “Le grandi liriche delle Fleurs du mal sono scritte in una lingua doppia, una lingua che nasconde sotto la corazza abbagliante delle immagini le verità che non si possono pronunciare”. Non piacevano, le poesie di Baudelaire; anzi, offendevano, indignavano, inducevano alla censura (la storia dell’immediata [non] ricezione delle poesie baudeleriane viene affrontato in apertura di libro, nel capitolo dal feroce titolo Dategli una lezione, a questo poeta infame). Il clima in cui sorsero le fleurs fu impossibile. Ancora nel 1868, a un anno dalla morte, sua madre scriveva a Charles Asselinau: “Vi chiedo di sopprimere la poesia intitolata Le Reniement de saint Pierre. Come cristiana io non posso, io non devo lasciar ristampare questa cosa. Se mio figlio vivesse, sicuramente oggi non la scriverebbe, avendo avuto, negli ultimi anni, simpatie religiose”. L’attraversamento che Montesano fa dei versi di Baudelaire è impressionante; procede per intuizioni, per collegamenti, per rimandi alla più importante Weltliteratur. Scopriamo, per esempio, il legame con Sade, in specie nella pulsione all’oltraggio della natura (nei versi di A’ celle qui est trop gaie).

Ovviamente è impossibile dare minimamente conto di ciò che accade in questo romanzo-mondo, in questa fitta selva di dettagli, di atmosfere, di “fatti”. E’ sicuramente interessante – prima del capitolo finale: il capitolo della paralisi e della morte – accennare al periodo belga di Baudelaire. Già qualche anno fa Montesano aveva curato e tradotto per Mondadori Il paese delle scimmie, “diario” impietoso e risentito contro il Belgio piccolo-borghese, bigotto, senza grazia. Ma perché Baudelaire, nel 1864, andò in Belgio? Scrive Montesano: “[A Parigi] i debiti crescevano, avere soldi in prestito era sempre più difficile, i giornali non lo pubblicavano, Parigi era un carcere, Jeanne paralizzata: bisognava fare qualcosa, spostarsi, agire. E disperatamente, come un animale notturno intimidito dal frastuono, infastidito dai fuochi d’artificio delle feste di regime, sbattendo le palpebre nella luce che cancellava allegra le vittime, Baudelaire partì per il Belgio”. Come molti grandi poeti, Baudelaire è stato un esiliato, in conflitto con il proprio tempo, dilaniato dalle contraddizioni, continuamente richiamato dalla “strada” (dalla vita) e continuamente respinto. E’ stato l’anima di un paese e di una città e, allo stesso tempo, “cittadino” estraneo, espulso, deriso, rifiutato. In Baudelaire vita e letteratura, sovversione politica ed estasi mistica, “alto” e “basso”, verità e menzogna, erotismo e amore, sensualità e razionalità, inferno e paradiso, ordine e disordine convivono come segni tangibili della massima apertura che un’anima terrena possa raggiungere. Perché solo nella contraddizione lacerante è possibile la grandezza (sfiorare il grande segreto del mondo), solo così è possibile durare in eterno, nonostante la paralisi, nonostante la morte che tutto polverizza. Baudelaire era ossessionato che tutto venisse dimenticato. Anche grazie a libri come Il ribelle in guanti rosa la sua stella lucente indica ancora una rotta precisa nel firmamento della letteratura mondiale.

Andrea Di Consoli

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Brano estratto da Il ribelle in guanti rosa. Charles Baudelaire (Mondadori, 2007) di Giuseppe Montesano. Per gentile concessione dell’autore.

Lui era stato gabbato fino in fondo dalla speranza, lui aveva creduto che fosse possibile un’altra vita, lui aveva creduto che fosse possibile ringiovanire, lui aveva creduto che potesse arrivare il nuovo che capovolge i giorni e li fa risplendere: e il dandy che si voleva straniero al mondo aveva dovuto riconoscere nel corpo della paria la fraternità possibile. Ma quando? E dove? Non poteva essere pronunciato né il dove né il quando, ma il possibile brillava come gli occhi delle ragazzine e i seni radiosi della mendicante, e la salvezza della realtà tutta intera era affidata come una visione, in uno specchio e enigmaticamente, alla poesia: “La poesia è ciò che vi è di più reale, ciò che non è completamente vero che in un altro mondo.” La violenza della morte evocata da Baudelaire deve passare, come passa nella Scrittura la figura di questo mondo, il nuovo non può essere pronunciato finché la vittima è inestricabile dal carnefice, il nuovo non arriverà se non quando tutte le lacrime dei massacrati di Giugno e di ogni tempo che gli stanno ancora piantate nella carne non saranno asciugate, il nuovo sarà solo quando il circolo vizioso dell’eterno ritorno dell’uguale si spezzerà: “E Dio stesso sarà con loro e asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e la morte non esisterà più, né lutto, né grida, né sofferenza esisteranno più, perché le cose di prima sono scomparse.” Allora la voce di colui che nell’Apocalisse può dire Ecco, io faccio nuova ogni cosa, pronuncerà la parola tornata materna, la lingua finalmente natale, e dall’abisso “interdetto alle nostre sonde” sorgerà la vita vera: “A chi ha sete darò gratuitamente dell’acqua della vita.”

Ma questo non sarà ora, e non qui. A ritmo di galop come nelle detestate operette, l’enigmatica commedia finale è cominciata, la vita non si lascia dire. Rimprovera la madre per aver scritto “inquieta” con due t, piange sulle privazioni come un bambino, il 26 febbraio la sgrida perché ha dimenticato la sua età: “Altro errore: e questo da parte di una mamma è troppo forte: tuo figlio non ha quarantasei anni. Ne avrà quarantacinque solo fra un mese e qualche giorno.” Ma tra quel mese e qualche giorno lui sarà muto, l’afasia lo avrà ingoiato: ci saranno solo le parole della madre che vuole tenerselo “come un bambino piccolo”, che dichiara che dopo gli attacchi di collera il figlio “ha a volte dei lunghi scoppi di risa che mi terrorizzano”, la madre che ancora gli rimprovera “una cura eccessiva della toilette”, che tacendo le bestemmie rabbiose del figlio lo loda perché quando le suore vogliono fargli fare il segno della croce lui si comporta “con una pazienza ammirevole, chiude gli occhi, o volta la testa dall’altra parte senza infastidirsi”, ma che poi afferma: “Ha una sola idea fissa: non essere dominato…” Allora, nel suo mutismo e nei sorrisi da bestia ferita, ci sarà tempo solo per l’eccitazione di sentire ancora una volta la musica che canta l’indistruttibile Venere, per lo stupore che lo coglie nello scoprirsi vivo. Contro la religione della morte è rimasto sempre sveglio, e l’amore è stato la sua misteriosa protezione. E anche se nei giorni prima della paralisi si muove a fatica, per sentire ancora il profumo dell’altro mondo, il profumo del femminile, la lentezza, l’indugio, il non arrivare, lo spreco, la dolcezza, ritorna nella chiesa di Saint-Loup. E nel ventre accogliente del grande catafalco “ricamato in nero, rosa e argento”, dentro l’ultima figura terrena del “gioiello rosa e nero” che conserva la vita, nel rifugio in cui alita il piacere che spinge gli amanti “mollemente bilanciati sull’ala del turbine intelligente” verso il paradiso, in un freddo profumo d’incenso, tornano le immagini della salvezza: sono i piedi di Jeanne che lui ha cullato come bambini facendoli addormentare tra le sue mani “fraterne”, sono gli occhi della passante in cui “fiorisce l’uragano” e il cui sguardo lo ha fatto “improvvisamente rinascere”, è il corpo di Sarah che il ventenne figlio di famiglia ha leccato “con più fervore che la Maddalena i piedi del Salvatore”, sono i seni della mendicante che si intravedono tra gli stracci “radiosi come occhi”, sono i capelli di Jeanne in cui tuffava le mani per respirare “il vino del ricordo” di una vita anteriore. Troppo tardi? All’uscita da Saint-Loup inciampa su un gradino e sviene, la paralisi comincia a diffondersi, detta ancora una lettera dove corregge una poesia che si intitola Bien loin d’ici, pochi versi in cui nella grana della pelle di Jeanne odorosa di olio e di benzoino compare l’altra vita, poi ammutolisce, come un animale. Esiste davvero questo luogo molto lontano da qui? Il 31 Agosto del 1867, Baudelaire muore. Due giorni dopo  è inumato nel cimitero di Montparnasse, a fianco del generale Aupick. Fa caldo, Parigi è vuota, gli scrittori e gli editori sono in campagna per il fine settimana. Il Ministero non ha mandato nessuno, la Société des gens des lettres non ha mandato nessuno. Niente sembra cambiare, e fino a quando ci sarà l’eterno ritorno dell’ingiustizia, nemmeno i fantasmi troveranno pace. Più d’uno non verrà più a cercare la zuppa profumata, all’angolo del fuoco, la sera, vicino a un’anima amata. Deve essere sempre così? È sempre troppo tardi per qualsiasi cosa? E’ così, e non è vero. I ragazzi di vent’anni ancora sognano di portare rose rosse sulla sua tomba, e vogliono sputare su quella del generale Aupick. Da qualche parte, in una prigione, in un sotterraneo, la voce dell’insurgé, stanca ma non arresa, mormora: il faut recommencer, bisogna ricominciare. C’è tutta la vita che aspetta di essere risvegliata, chiede di essere sciolta dalle bende sacrificali, vuole parlare nella sua lingua natale. Ci sarà davvero quest’altra vita, molto lontano da qui? Lui aveva ripetuto che la bellezza è la promessa della felicità. E’ vero? Non adesso, non in questa realtà, ma adesso, in questa realtà, non ce ne sono altre, la promessa brilla ancora in tutto il suo splendore.

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giovedì, 27 marzo 2008

1982 di Roberto Alajmo

Ogni anno ha il suo fascino. Ogni anno ha le sue luci e le sue zone d’ombra. Eppure ci sono anni che riescono a infilarsi meglio di altri nelle pieghe dell’esistenza. Per Roberto Alajmo il 1982 rientra nella suddetta categoria.
1982” (pagg. 167, euro 10) è il titolo di un volume edito di recente da Laterza e che fa parte dell’ottima collana “Contromano” dove Alajmo, peraltro, è già presente con “Palermo è una cipolla”.
In queste “Memorie di un giovane vecchio”, questo il sottotitolo, l’autore siciliano passa in rassegna il suo personale 1982 per spaziare, poi, dalla politica al cinema, dallo sport alla televisione, dalla musica alla letteratura, disegnando abilmente una fitta rete di incroci tra le esperienze del singolo e fatti e avvenimenti di interesse collettivo.
Non v’è dubbio che in Italia, quando si parla di 1982, il pensiero corre al Mundial spagnolo vinto dalla mitica nazionale di Bearzot. E agli azzurri campioni del mondo è dedicato un importante capitolo, sebbene l’autore del volume – come racconta egli stesso – fu costretto a seguire alcune delle partite più importanti attraverso una misera radiolina “su una torretta a fare la guardia al nulla”. Sì, perché il 1982 è anche l’anno in cui Alajmo presta il servizio di leva; quello in cui i capelli cominciano a incanutirsi e la ragazza gli volta le spalle.
Anno importante, si diceva. Passano a miglior vita gente del calibro di Philip K. Dick, Gilles Villeneuve, Ingrid Bergman, Grace Kelly. Nascono i calciatori Adriano, Kakà, Gilardino, Cassano, la valletta Eleonora Pedron e il motociclista Marco Meandri. Vanno in onda i canali televisivi Italia 1 e Rete 4. Debutta Radio Deejay. Viene al mondo il primo bambino in provetta, va sul mercato il compact disc, mentre la rivista “Time” assegna il titolo di uomo dell’anno – con tanto di foto – a un personaggio particolare: il computer.
Alajmo dimostra ancora una volta che è possibile scrivere ottimi libri affidandosi a una scrittura leggera, frizzante e ironica (persino autoironica). Una scrittura che sa essere lieve anche quando si misura con il racconto di storie dure e traumatiche: dalla guerra delle Falkland a quella del Libano, dall’omicidio di Pio La Torre a quello di Carlo Alberto dalla Chiesa, dallo scandalo del Banco ambrosiano al suicidio di Roberto Calvi.
Notizie, quelle citate, che sfiorano l’autore senza riuscire a coinvolgerlo fino in fondo. Effetto dei risvolti alienanti del servizio militare; almeno fin quando un esaurimento nervoso “salvifico” (“Se mi date un’altra volta un fucile in mano, io mi ci sparo”) non riesce a sottrarlo dalle grinfie della caserma.
“Che poi”, scrive in chiusura Alajmo, “a pensarci col senno di poi, non è stato affatto così tremendo. Malgrado tutto il resto, la mia vita è risultata tutto sommato felice, a partire da quell’anno e per tutti gli anni che sono venuti di seguito, discendendo, per quanto mi riguarda, proprio dal 1982. Ecco, in sintesi, come è andata a finire. O era del mondo, che vi interessava sapere?”
Massimo Maugeri
—-
1982 di Roberto Alajmo
Laterza, Contromano, 2007
pagg. 167, euro 10
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Cari amici,
vi invito a intervenire in questo post:
- dialogando con Roberto Alajmo, in merito al suo libro;
- provando a raccontare il “vostro” 1982 nello spazio di un commento
(cos’è stato quell’anno per voi? avete ricordi particolari? aneddoti o esperienze da raccontare?).


Di seguito avrete la possibilità di leggere il primo capitolo del libro che presentiamo.

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E poi un’anticipazione sul nuovo romanzo di Alajmo che uscirà a breve per Mondadori. Il titolo è: “La mossa del matto affogato”. Un romanzo dove, con implacabile leggerezza e ironia, si racconta la disfatta di un avventuriero, mostrando l’estraneità improvvisa che talvolta possono riservare i rapporti affettivi.
Ho letto qualche brano del libro e vi assicuro che è davvero molto particolare, anche per via della scelta tecnica di improntare la narrazione con l’uso della seconda persona.

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(PER GENTILE CONCESSIONE DELL’EDITORE LATERZA, PUBBLICHIAMO IL PRIMO CAPITOLO DEL LIBRO “1982 – MEMORIE DI UN GIOVANE VECCHIO”, DI ROBERTO ALAJMO)

PROLOGO

NON È UN CAPELLO

In questi casi, il classico dei classici è svegliarti una mattina, andare in bagno, sciacquarti la faccia e scrutare nello specchio. Dopodiché accorgerti di qualcosa e avvicinarti ancora un po’ alla tua immagine riflessa per accertarti di aver visto bene. Non può essere. Sì che può essere.
Sì, effettivamente.
C’è.
Il capello bianco. C’è. Il capello bianco c’è.
Dev’essere spuntato durante la notte. Non c’è altra spiegazione possibile, perché ieri non c’era e oggi invece sì. Cerchi di consolarti pensando che prima o poi doveva succedere. Minimizzi, ti sforzi di prenderla con ironia. Certe volte funziona. Dipende. Rimane comunque da stabilire come regolarsi ora che è successo. Poi verrà il tempo delle eventuali tinture, ma lì per lì l’istinto porterebbe a prenderlo con due dita e cercare di estirparlo, prima che la sua presenza possa contagiarsi agli altri capelli, rinviando così almeno di qualche giorno la svolta psicologica che si prospetta nella tua vita, una soglia paragonabile al compimento dei venti, trenta, quarant’anni. Quando scopri che ti è spuntato il primo capello bianco sei portato a fare riflessioni di un certo spessore, stilare bilanci, formulare propositi. Se non ti viene in mente nulla di significativo da tramandare almeno a te stesso vuol dire che sei davvero povero di spirito. Strano: dai capelli bianchi ci si aspetta che siano forieri di saggezza, oltre che di depressione.
Oppure, se riesci a resistere al primo istinto distruttivo, dopo avere individuato e preso fra due dita quell’unico capello bianco, ti fermi a indugiare sulla sorte che deciderai di destinargli. E alla fine lo lasci vivere, nel ricordo di quella scaramanzia che intima: sette capelli bianchi ricresciuti per ognuno strappato via. La rappresaglia tricologia funge da deterrente, ma i sette capelli bianchi dopo una settimana probabilmente ti spunteranno lo stesso, crudeli come certi nazisti da film, che malgrado il sacrificio dell’eroe, davano ordine di procedere lo stesso con la fucilazione degli ostaggi.
Così succede, di solito. Comunque si voglia reagire, il giorno della scoperta del primo capello bianco è di quelli cruciali, da segnare nel calendario della tua vita a caratteri maiuscoli. Neri e maiuscoli.
Nel mio caso, però, la dinamica è diversa. Niente risveglio, niente specchio, niente soprassalto alla scoperta del singolo capello bianco, né tentazione di strapparlo via. Tutto è successo in un periodo in cui non mi guardavo mai allo specchio. Diciamo quasi mai. Mi trascuravo un po’, o forse la cura dell’aspetto fisico era diventata meno importante. Da qualche mese la mattina avevo ridotto al minimo le abluzioni e persino le funzioni corporali per cercare di guadagnare tempo e presentarmi puntuale all’adunata del mattino. Perché sì: era il periodo del servizio militare. Non che mi piacesse indugiare a letto dopo la sveglia. Tutt’altro. Anzi, quando mi capitava di svegliarmi anzitempo, correvo in bagno e mi lavavo prima degli altri. Questo perché dieci minuti dopo il suono della tromba, nei bagni si creava un ingorgo umano cui cercavo sempre di sfuggire, provando a scansare la pesantezza dei primi scherzi da caserma della giornata.
Il mio sistema consisteva nell’indossare la divisa prima ancora di lavarmi. E solo poi, quando la maggior parte degli altri era intenta alla vestizione, quando l’ingorgo si scioglieva, andavo in bagno e mi immischiavo ai ritardatari ancora in mutande, io che già indossavo persino il basco d’ordinanza, per non lasciarlo in camerata col rischio che me lo fregassero. Si fregavano tutto, pure i baschi. Per non bagnare i vestiti mi lavavo alla meno peggio, limitando al massimo il contatto con l’acqua gelata, oltre che coi commilitoni. Non mi piacevano i commilitoni. Per niente. Né loro, né la situazione in cui mi trovavo. E per la verità, sospetto, nemmeno io piacevo a loro.
Insomma, in quel periodo allo specchio mi guardavo poco, e malgrado l’ora di punta ai bagni fosse passata, mi restava poca voglia di indugiare nella cura del dettaglio estetico personale. Inoltre, per il motivo che ho detto, quando mi capitava di guardarmi allo specchio, il più delle volte indossavo il berretto. Quindi, il giorno in cui il famoso Primo Capello Bianco ha deciso di spuntarmi sulla testa, io me lo sono perso in pieno. Non ho dovuto mai affrontare il dubbio strappo-non strappo, per il semplice motivo che quando me ne sono accorto, i capelli bianchi erano diventati già troppi per essere affrontati in termini di sterminio collettivo.
Non è neppure escluso che possano essere diventati bianchi tutti assieme, magari in un momento di particolare stress. Dicono che succeda. O almeno succede nei romanzi dell’orrore: vedi un fantasma, e all’improvviso ti si imbiancano i capelli. Per quanto riguarda me, tuttavia, non c’è stato nessun fantasma, nessun istante di stress particolare. Si tratta di un momento difficile da individuare, perché tutto quel periodo era di particolare stress. La chimica che presiede a questo genere di mutazioni è imperscrutabile, e difatti non ricordo un inciampo particolare o uno di quegli spaventi che provocano, secondo la leggenda, l’imbiancamento repentino Può darsi che sia stato così: ma non lo so; per il semplice motivo che, non guardandomi allo specchio per lunghi periodi, non potevo accorgermene.
Né potevo sperare che se ne accorgesse qualcuno dei miei compagni d’arme; guardarsi reciprocamente, notare un dettaglio nell’aspetto personale di un altro era non proibito, ma di sicuro fuori luogo, indizio sicuro di effeminatezza. Ergo: né io guardavo gli altri, né gli altri guardavano me. Vivevamo con un paraocchi che ci ostruiva ogni visione laterale. Potevamo vedere solo gli oggetti che ci si presentavano frontalmente, individuare solo i beni di prima necessità e soddisfare solo bisogni primari: bere, mangiare, respirare. Stop: anche gli altri bisogni primari, come vedremo, potevano essere sospesi. Solo esercitando un letargo dell’intelligenza e dello spirito potevamo garantirci l’unico obiettivo possibile, nel contesto, ossia arrivare alla fine dei trecentosessantacinque giorni che ci toccava trascorrere in caserma. Cioè, sopravvivere. Ogni altra attività si configurava come un lusso e dunque, ancora, come indizio di effeminatezza. Leggere era effeminato, ascoltare musica era effeminato, persino andare in chiesa era considerata una manifestazione di effeminatezza. Guardare i capelli degli altri sarebbe stato il massimo dell’effeminatezza. Per cui non so se qualche mio effeminato commilitone si è accorto del fatto che i miei capelli erano diventati bianchi. Di sicuro nessuno mi ha detto niente, finché sono rimasto in caserma. Nemmeno io l’avrei fatto. Se mi fossi accorto di una mutazione del genere su un mio commilitone, me ne sarei stato zitto. Non volevo certo passare per effeminato.
È stata la mia fidanzata di allora, Maria, che se ne è accorta quando mi ha rivisto dopo quasi un mese, in occasione della prima licenza. Mi ha guardato senza espressione e ha detto:
- Hai i capelli bianchi.
Così ha detto. Senza un punto esclamativo alla fine, senza ironia o tenerezza. Senza allarme o compatimento. Come una pura e semplice constatazione. Io sono caduto dalle nuvole:
- Che dici?
Naturalmente sono corso allo specchio più vicino per verificare l’entità del danno. Lei non mi ha seguito, è rimasta ad aspettarmi in soggiorno. Il suo restare, contrapposto all’ipotesi di seguirmi con amore, avrebbe dovuto rivelarmi molte informazioni che per il momento era meglio ignorare. Un problema per volta. Sono andato in bagno da solo e ho guardato i miei capelli. La proliferazione di quelli bianchi era molto più avanzata di quanto potessi immaginare, tanto che mi sono chiesto distintamente come avessi fatto a non accorgermene prima. Ho mosso la testa passando le dita fra i capelli per verificare che non fosse uno scherzo della luce riflessa, ma no: quelli bianchi erano davvero moltissimi. Non proprio maggioranza, ma di sicuro, almeno, minoranza più che qualificata. Spiccavano sul nero in maniera uniforme, senza zone di concentrazione. Impensabile procedere a un’estirpazione individuale.
Ho immaginato che fosse successo la notte prima, ma ho dovuto ammettere di fronte a me stesso che non era affatto probabile. Poteva essere successo una notte qualsiasi del mese precedente, oppure anche un poco alla volta, nell’arco dello stesso periodo. La sostanza non cambiava. La sostanza era che i miei capelli avevano cominciato a imbiancare in maniera drastica.
La scoperta è bastata a rovinare l’incontro con Maria, incontro che pure avevamo (avevo) desiderato con spasmi di passione inediti, se si considerano i precedenti del nostro rapporto. Lei stessa, che nei primi tempi fra noi era quella più innamorata, stentava a riconoscere quella retorica passionale di cui farcivo le lettere che le spedivo dalla cattività. A Orvieto, dove espiavo il periodo del cosiddetto CAR, vivevo in una solitudine animalesca, circondato da creature primordiali, prive di qualsiasi sensibilità umana. In quei trenta giorni mi ero aggrappato al ricordo di Maria in maniera disperata, fino a capovolgere i ruoli consolidati nel nostro rapporto, dove fino ad allora io ero stato la parte più sfuggente. Per forza: lei era tutto ciò che rimaneva del mio passato di essere umano per cultura e sentimenti. Lei era la mia ancora di salvezza. Lei e I., naturalmente. Ma quello di I. è un altro discorso, che affronteremo al momento opportuno.
Quando sono tornato in soggiorno Maria era ancora dove l’avevo lasciata. Io ho detto solo:
- E’ vero, sono tutti bianchi.
Al che mi sarei aspettato che lei rispondesse: Ma no, ma che dici, non tutti, sono solo un po’ bianchi. Invece lei non l’ha detto. Non ha nemmeno abbozzato qualcosa che somigliasse a una forma di consolazione. Mi ha risposto:
- Eh, te l’ho detto.
Dopodiché la conversazione fra noi ha preso altre strade, strade più convenevoli, tralasciando del tutto la scoperta dei capelli bianchi. Col senno di poi, posso dire di non ricordare nulla, di quel che abbiamo detto. Posso anzi dire di non avere mai saputo nulla, di quella conversazione. Non si ricorda, tecnicamente parlando, qualcosa che all’inizio si ricordava: ma non è questo il caso. Lei parlava e io non ascoltavo. Ero distratto. La mia mente era dirottata su quell’unico binario possibile: i capelli bianchi. Mi erano venuti i capelli bianchi.
Nella maniera certo approssimativa dei ventenni, mi rendevo conto di avere appena varcato una soglia biologica impercettibile e fondamentale, però. Il mio corpo aveva cominciato a invecchiare. Stavo mutando. Era cominciata una metastasi incruenta che però sempre metastasi risultava. E il destino di quella mutazione sapevo quale sarebbe stato. Il destino innominabile, lontanissimo, eppure, a partire da quell’indizio che avevo appena scoperto, un po’ più vicino.
Mentre Maria parlava, io pensavo ai fatti miei. Per la precisione: cercavo di capire che cosa avesse provocato quella proliferazione di capelli bianchi. Doveva per forza esserci un motivo scatenante. Doveva esserci e dovevo scoprirlo. A un certo punto la mia ragazza – il mio ingrizzo, si diceva a Palermo in quegli anni – mi ha richiamato all’ordine dei discorsi che stava facendo. Discorsi più che impegnativi, che riguardavano la fine dell’amore e altri dispiaceri di minor conto. Le circostanze mi spingevano ad abbandonare l’indagine sui motivi della canizie. Ma una parte di me, mentre Maria mi stava lasciando, non smetteva di ruminare. Non vale la pena di pensarci, mi dicevo. Ormai è successo, amen. Ora la mia ragazza mi sta dicendo che ha deciso di lasciarmi, concentriamoci su questo. Fin quando, effettivamente, Maria ha ottenuto la mia attenzione ed è riuscita a farmi il discorsetto che si era preparata, alla fine del quale mi sono ritrovato single, oltre che vittima di una canizie già in stato di avanzamento. È stato allora che ho scelto di stabilire delle priorità, lasciando perdere le riflessioni sui capelli e concentrando piuttosto ogni sforzo per rimediare al nuovo stato di solitudine sentimentale.
A distanza di tempo, tuttavia, mi viene il sospetto di aver sbagliato nella selezione delle priorità. Forse, se non avessi lasciato perdere, se avessi proseguito le indagini nell’immediatezza dei fatti, sarei riuscito a scoprire il motivo per cui avevo cominciato a invecchiare. Addirittura, una volta scoperto il movente, avrei potuto intervenire sulle cause e risolvere il problema alla radice, restando giovane ancora per un po’, se non per sempre, come allora credevo possibile. Non l’ho fatto, e ancora me ne dispiaccio.
Arrivano però momenti della vita in cui bisogna tornare indietro e riflettere. Come quando in autostrada si scopre che bisognava imboccare una certa uscita. Ormai è troppo tardi, siamo andati troppo avanti, non si può tornare a marcia indietro. Tuttavia è possibile uscire dall’autostrada successivamente e tornare indietro percorrendo strade secondarie. Strade, certe volte, addirittura divergenti rispetto alla nostra destinazione. Non solo è possibile tornare indietro, ma addirittura bisogna farlo. Non c’è altra possibilità. Chi l’ha detto che ormai è troppo tardi? Non è passato poi troppo tempo. Non stiamo parlando di un passato talmente remoto da non poter essere ricostruito, almeno per sommi capi.
Per cui, ho deciso. È arrivato il momento di portare a termine l’indagine lasciata in sospeso a suo tempo e capire perché i miei capelli sono diventati bianchi proprio allora. Scoprire dove è cominciata la mutazione, e con la mutazione la china discendente. Dove io ho sbagliato a imboccare l’uscita dall’autostrada. E forse non solo io: è il genere umano, l’intero pianeta terra che a partire da quel momento ha iniziato a perdere la sua innocenza. È ora di tornare indietro, al dove, al quando e al perché.
Cominciamo a inquadrare l’anno.
Era il millenovecentottantadue.

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martedì, 25 marzo 2008

DIARIO DI SCUOLA di Daniel Pennac

Quando Miriam Ravasio mi ha chiesto di discutere qui a Letteratitudine del nuovo romanzo di Pennac, Diario di Scuola (Feltrinelli. 2008, pagg. 241, euro 16), magari coinvolgendo alcuni dei frequentatori abituali di questo blog, io le ho detto subito di sì. E le ho dato carta bianca.

Ne è venuto fuori, come vedrete, un ottimo lavoro di gruppo… sulla base del quale sarà possibile avviare – ne sono convinto – un interessante dibattito.

Prima di lasciare la parola ai “quattro moschettieri di Letteratitudine” (così si sono autodefiniti per “bocca” della Ravasio) vi fornisco, con l’aiuto di wikipedia, una breve scheda biografica di Pennac.

Daniel Pennac, pseudonimo di Daniel Pennacchioni (Casablanca, 1944), è uno scrittore francese.

Nato in una famiglia di militari, passa la sua infanzia in Africa, nel Sud-Est asiatico, in Europa e nella Francia Meridionale. Ha vissuto in Etiopia, Algeria, nell’Africa Equatoriale. Ha fatto anche il mozzo lungo la Costa d’Avorio. Pessimo allievo, solo verso la fine del liceo ottiene buoni voti, quando un suo insegnante comprende la sua passione per la scrittura e al posto dei temi tradizionali gli chiede di scrivere, a puntate settimanali, un romanzo. Ottiene la laurea in lettere all’Università di Nizza, diventando contemporaneamente insegnante e scrittore. La scelta di insegnare, professione svolta per vent’otto anni a partire dal 1970, gli serviva per aver più tempo per scrivere durante le lunghe vacanze estive. Da subito,però, Pennac si appassiona alla professione di insegnante. Inizia l’attività di scrittore con un pamphlet contro l’esercito (Le service militaire au service de qui?,1973) in cui descrive la caserma come un luogo tribale che poggia su tre grandi falsi miti: la maturità, l’eguaglianza e la virilità. In tale occasione, per non nuocere a suo padre, militare di carriera, assume lo pseudonimo Pennac, contrazione del suo cognome Pennacchioni. Abbandona la saggistica in seguito all’incontro con Tudor Eliad, con il quale scrive alla fine degli anni 1970 due libri burleschi di fantapolitica (Les enfants de Yalta, 1977 e Père Noël, 1979) di scarso successo commerciale. In seguito decide di scrivere racconti per bambini. Nel 1980 si reca per un anno in Brasile dove abbozza metà di un romanzo di cui riprenderà anni dopo le idee scrivendo Messieurs les enfants (1997). Ma soprattutto scopre il romanzo giallo, leggendo Louis Berretti di Henderson D. Clark. Successivamente, scommettendo contro amici che lo ritenevano incapace di scrivere un romanzo giallo, scrive Au bonheur des ogres (Il Paradiso degli Orchi) pubblicato nel 1985 in una nota collana di romanzi gialli, e dal quale nasce involontariamente la serie di Belleville. Successivamente i romanzi gialli sono stati spostati dalla casa editrice (Gallimard) dalla collana di romanzi polizieschi alla collana di narrativa. È sposato dal 1979 con Juliette, architetto, con cui ha due figli, e vive nel quartiere di Belleville.

Pennac è diventato noto con i romanzi che girano attorno a Benjamin Malaussène, (di professione capro espiatorio) alla sua inverosimile e multietnica tribù (composta di fratellastri, sorelle veggenti, madre sempre innamorata e incinta) e a un quartiere di Parigi, Belleville. Nel 1992 Pennac ha ottienuto un grande successo con Come un romanzo, un saggio a favore della lettura.

« L’uomo costruisce case perché è vivo ma scrive libri perché si sa mortale. Vive in gruppo perché è gregario, ma legge perché si sa solo. La lettura è per lui una compagnia che non prende il posto di nessun’altra, ma che nessun’altra potrebbe sostituire ».

(Massimo Maugeri)

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Diario di scuola di Daniel Pennac

Presentazione di Miriam Ravasio (autrice de L’Occhio alato)

miriam.JPGCanto della somaraggine o della sofferenza condivisa del somaro, dei genitori e degli insegnanti, quella “sofferenza di non capire e i suoi danni collaterali”. Pagine vibranti di amore dolce e furioso per gli esclusi, che Pennac definisce i “passionari del fallimento” e per gli insegnanti “salvatori”, quelli che non mollano mai, artisti nella trasmissione della loro materia. “Nessuno è più pronto a cazziarti di un professore insoddisfatto di sé stesso”, ma “è sufficiente un professore – uno solo! – per salvarci da noi stessi e farci dimenticare tutti gli altri”.

Una magistrale lezione pedagogica, divisa in parti che voglio riassumere così: il somaro, la somaraggine, l’amore. Pagina dopo pagina il lettore ripercorre tutte le tappe di Pennac, Daniel Pennacchioni,  bambino che andava male a scuola “non capivo, ero più indietro del cane di casa”. Testimonianze, analisi, riflessioni e prese di posizione nette e anche provocatorie che non mancheranno di sollevare polemiche: un testo dirompente, da leggere e studiare. Un testo sull’organizzazione del sistema scolastico francese, dalla sua istituzione ad oggi. Dallo “zio Jules”, Jules Ferry che assicurò l’istruzione pubblica obbligatoria, al “bambino cliente” e alla sua “Nonnaccia Marketing”.

E’ quasi impossibile, anche con la disamina più attenta, comprendere i temi del libro, perché Pennac ci offre il cuore, la sua professionalità e lo spirito critico dello scrittore, attento al mutare delle abitudini e delle classi sociali. Per riuscire nell’intento  ho chiesto aiuto agli amici del blog:  Carlo Sirotti (detto Speranza) che con me coordinerà il dibattito, Simona Lo Iacono ed  Enrico Gregori interverranno con approfondimenti relativi alle loro rispettive competenze: tutela dei minori e informazione.

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DIARIO DI SCUOLA di Daniel Pennac

recensione di Carlo Speranza (nell’autocaricatura in basso)

carlo.JPG

C’è una visione un po’ tradizionalista dello studio visto come duro lavoro e sacrificio: l’immagine è quella dell’Alfieri che si fa legare alla sedia per imporsi lo studio dei classici (sarà poi vera o frutto dell’aneddotica ?); comunque una concezione dell’impegno allo studio fatto di sudore e lacrime che si è abbattuta inesorabilmente su generazioni intere di studenti. Personalmente mi ha sempre terrorizzato e forse è per questo che non ho mai amato l’Alfieri. Anzi, debbo confessare che continuo a detestarlo ancora oggi.

Daniel Pennac già nel suo precedente “Come un romanzo” esponeva un decalogo di diritti del lettore che capovolgeva questo concetto asserendo: 1 – Il diritto di non leggere; 2- Il diritto di saltare le pagine; 3 – Il diritto di non finire il libro; 4 – Il diritto di rileggere; 5 – Il diritto di leggere qualsiasi cosa; 6 – Il diritto al bovarismo (malattia testualmente contagiosa); 7 – Il diritto di leggere ovunque; 8 – Il diritto di spizzicare; 9 -  Il diritto di leggere ad alta voce; 10 – Il diritto di tacere.

Leggere (e per estensione studiare) è quindi innanzitutto un diritto e dovrebbe pertanto essere anche un piacere. E compito di un buon maestro (per estensione anche quello della scuola) quello di insegnare ad apprezzare tale godimento. Con questo suo recente “Diario di scuola” Pennac, fedele a questa impostazione, racconta con bravi flash vicende autobiografiche di una vita trascorsa al di là e al di qua della cattedra, e ce le narra sia dal punto di vista dello studente “somaro” (perché il Daniel Pennacchioni della vita ne è stato per sua stessa ammissione un caso tipico e apparentemente senza speranza), sia dell’insegnante (professione poi da lui effettivamente esercitata), che della famiglia, la sua. E poi c’è la scuola, questo istituto a torto o a ragione così sempre più bistrattato al giorno d’oggi, che torna in queste pagine ad assumere talvolta una dimensione umana: perché in fondo ben prima dei programmi ministeriali, dei giochi della politica e delle sue riforme, la scuola è innanzitutto una comunità fatta di allievi ed insegnanti, che si devono continuamente confrontare tra di loro, che devono imparare a conoscersi a fondo e ad accettare di svolgere ognuno il proprio ruolo per permettere a tutti di “diventare”.  Perché poi nella vita ognuno “diventa” qualche cosa: e in qualche modo, grazie a tre o quattro insegnanti non necessariamente consci dell’opera salvifica che stavano svolgendo, la scuola alla fine ha permesso anche al “somaro” e pluriripetente Daniel Pennacchioni di “diventare” magicamente il professore e lo scrittore Daniel Pennac.

Perché la scuola alla fine dipende solo dagli insegnanti: ci sarà sempre quella dei bravi maestri che riescono a salvare i “somari” da una mancanza di prospettive e di un futuro e quella che per tali studenti senza speranza sarà sempre un incubo, una prigione della propria anima, un’entità ostile, fonte di malessere e di alternative compensatorie che talvolta possono sfociare nella violenza, nell’asocialità, talvolta nella delinquenza; sicuramente nell’ignoranza e nella facilità a rimanere acriticamente strumenti e vittime del consumismo e dei mali della nostra società.

E privi della capacità di apprezzare il piacere della conoscenza, perché in fondo il segreto è tutto lì: l’insegnante che non riesce a trasmettere ai suoi allievi la propria passione, il proprio “amore” (ah, questa parola che sembra così inappropriata nel contesto scolastico, quasi scandalosa!), sarà destinato a trasmettere solo nozioni e solo a chi è pronto a recepirle, a quelli che sono i “bravi” della classe, quelli che ne hanno meno bisogno perché alla fine andranno avanti comunque.

La conoscenza del non sapere (l’essere stato asino) si rivela quindi uno strumento in più per l’insegnante, ma non sufficiente se priva di una certa forma di amore. Il libro si chiude con una bellissima metafora sulle rondini che vanno a sbattere sui vetri, e quelle rondini sono gli studenti, gli allievi meno capaci.  “ Sono i nostri studenti. Le questioni di simpatia o di antipatia per l’uno o per l’altro (questioni quanto mai reali, ci mancherebbe!) non c’entrano. Nessuno di noi saprebbe dire il grado dei nostri sentimenti verso di loro. Non di questo amore si tratta. Una rondine tramortita è una rondine da rianimare, punto e basta”.

Un libro di ricordi e di riflessioni, ma fatto essenzialmente di piccoli dettagli che suggeriscono anche grandi temi pedagogici (la diversa percezione del tempo tra un grande ed un bambino, il diverso senso del presente e del futuro, l’importanza dell’autostima e della fiducia in se stessi, il senso di piccoli ma importanti rituali come l’appello mattutino in classe, …ecc.), che dovrebbero essere materia di interesse per gli insegnanti, per i genitori, per gli studenti, ma poi anche al di fuori di qualsiasi categoria, perché lo stile è quello del Pennac di sempre, leggero e frizzante come quello dei romanzi della saga del signor Malaussène e della sua stramba famiglia. Uno stile che vuole rispettare il diritto al piacere della lettura seminando qua e là gli elementi che possano costituire una seria materia di riflessione. Se il lettore vorrà coglierli: è pur sempre solamente un suo diritto.

Carlo Speranza

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L’evoluzione legislativa in tema di tutela dei minori.

di Simona Lo Iacono (nella foto in basso)

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La storia dei bambini ha gambe corte.  Fiato di sogni. Salti di gambero.E’ una storia piccola e soffiata in vasi di vetro. E’ una storia breve, anche, a volte percorsa dal tempo con balzi di lepre.

Storia, poi, non è neanche. Piuttosto voce. Tradita, a volte. Mal compresa, affogata in apparenze.E comincia tardi. Perché prima del XX secolo neanche esisteva. Solo col nascere  della famiglia borghese e della rivoluzione industriale, infatti, si afferma una cultura di protezione del bambino.

Ma tutto è ancora lasciato alla famiglia, senza nessun riscontro giuridico esterno. Il primo organismo internazionale che si occupi di bambini, il Comitato di Protezione per l’Infanzia, fu costituito dalla Società delle Nazioni solo nel 1919. Al 1924 risale invece la prima Dichiarazione dei Diritti dell’Infanzia che precisa la responsabilità degli adulti nei confronti dei minori.E nel 1946  nasce l’Unicef, una struttura creata dall’ONU, specializzata per l’infanzia, che nel 1953 diventa una organizzazione internazionale permanente. Nel 1959 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite proclama all’unanimità la Dichiarazione dei Diritti dell’Infanzia. E nel 1989  sancisce la  “Convention on the Rights of the Child”,  approdo di una graduale evoluzione della coscienza giuridica e origine delle successive iniziative legislative  all’interno dei singoli stati.

I suoi principi infatti sono stati inseriti nel testo di 14 costituzioni nazionali, e sono stati immessi nei programmi di studio di vari paesi. Ad essa fanno esplicito riferimento
la Convenzione europea sull’esercizio dei Diritti dell’Infanzia (1996), la Carta africana sui diritti e il benessere dei bambini, la Convenzione dell’Aia per la tutela dei minori in materia di adozioni internazionali (1993), la Dichiarazione di Madrid sugli aiuti umanitari (1995), la Dichiarazione di Stoccolma contro lo sfruttamento sessuale dei bambini (1996), la Convenzione ILO n. 182 sulle peggiori forme di sfruttamento minorile (1999), la Risoluzione del Parlamento europeo sul traffico dei bambini (maggio 2001).  Il testo della convenzione salvaguarda il diritto del bambino di vivere, essere accudito, rispettato, amato nella sua identità e nelle propensioni che manifesta.

Preserva dagli attacchi dell’indifferenza il suo inviolabile diritto ad essere istruito.

Proclama con forza la sua minorità e in ossequio ad essa lo tutela dallo sfruttamento e dall’abuso.

Sottolinea che ogni suo diritto è paritario e non ve ne sono alcuni sovraordinati ad altri. Inneggia a gran voce all’interesse supremo del minore, non subordinabile ad alcuno.

Eppure.

Nella pratica quotidiana del tribunale vivo faide sanguinarie tra genitori scissi e in battaglia. Campo di sterminio è il cuore dei figli, la loro aspirazione all’unità e al sogno.

Talvolta me li vedo sfilare innanzi infagottati e incappucciati. Lo zaino barcollante sulla schiena. Le mani sporche d’inchiostro. Gli occhi cespugliosi e abbacinati dal pressare di un pensiero. E allora mi dico che è vero, sì, che oggi il bambino è un soggetto giuridico attivo, centro di imputazione di inviolabili interessi. Che può immaginare il proprio futuro, anche se non in tutte le parti del mondo. E ha colori variopinti come la coda di un pavone, e carte stampate con tanto di bollo in cui è scritto che esiste.

Ma  la sua voce è  ancora flebile perché dipende  dal destino di un adulto.

C’è una storia non scritta in alcuna convezione né in alcun codice. C’è un sussurro che non appartiene alle statistiche ufficiali e alle sentenze che pronuncio in nome del popolo italiano. Ed è quella della solitudine dei bambini: non nasce dal riconoscimento di alcun diritto, né dalla proclamazione di testi legislativi. E’ storia di tutti i giorni. E dipende da noi.

Simona Lo Iacono

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Il parere di Enrico Gregori

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Pennac, a mio avviso, ha sempre avuto il pregio di comunicare pensieri profondi quasi sempre con leggerezza. E forse la lievità è proprio lo strumento adatto a trasmettere i pensieri più “ostici”. Mi interessa molto la riflessione sulla scuola. Forse gli istituti scolastici non sono sempre adeguati alla formazione, ma è molto più facile che la natura criminogena sia insita nell’individuo a prescindere dalla sua frequentazione scolastica.

Molto più spesso, direi, l’insegnante e la materia possono essere un salvagente per chi non ha mai visto altro che la bruttura e la disperazione. La cultura, a volte, funge da redenzione sincera anche per chi si trova ristretto in carcere. Quindi è ben possibile che possa funzionare come riscatto nei confronti di un giovane “incensurato”.

Quanto ai media credo che non vadano esaltati ne demonizzati. Ritengo che vadano accettati come forma di comunicazione. Se questa è corretta (purtroppo non sempre è così), fornisce gli strumenti per accostarsi ai fenomeni. Ma su questi, poi, è necessario che uno lavori e rifletta con la propria sensibilità. Se, invece, si lascia guidare da slogan e frasi fatte come fossero bastonate sul groppone, allora la condizione di “somaro contemporaneo” diventa inevitabile.

Era il 1967 quando scoppiò il “caso Zanzara”. Questo il nome del giornale scolastico del nobile” liceo milanese “Parini”, “colpevole” di aver pubblicato una piccola inchiesta sulla sessualità dei giovani.

Un articolo che, oggi, farebbe ridere persino i ragazzi della scuola media.

Eppure all’epoca fu una bomba, se non altro perché il maggio francese era ancor di là da venire. Tv e giornali si gettarono a corpo morto sulla notizia. Ovviamente ciò che fu sottolineato fu lo scandalo, il folclore, il colore.

L’atteggiamento di chi guarda la scuola con piglio severo e cattedratico.

Nel corso degli anni, fino ad arrivare a oggi, non sembra che siano trascorse 41 primavere.
Il “68″, la “pantera”, le occupazioni, i problemi didattici continuano a essere analizzati da un punto di vista superficiale e senza entrare nel merito.

In pieno 2008, quindi, se un alunno delle elementari crea una statuetta o compone un disegno, si è portati a considerare la manualità, l’impegno e la bravura tecnica. Sorprendendosi, magari, di come un bambino di 8 anni possa fare certe cose.

Si indaga poco, poco si considera ciò che ha condotto il bambino alla sua creazione. Il cuore, i pensieri, l’anima passano in secondo piano.E invece, probabilmente, sono questi elementi da tenere in considerazione. Per comprendere, se si vuole, piuttosto che giudicare.

Enrico Gregori

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Il somaro, la somaraggine, l’amore

di Miriam Ravasio

IL SOMARO

Il somaro di Pennac, è un disadattato senza fondamento storico,  senza ragione sociologica, perché lui figlio di laureati era somaro come altri  “un archetipo senza unità di misura”. Un escluso, elemento di disturbo per l’istituzione scolastica e incompreso a casa. Al punto che la madre, nell’epilogo, messo ad introduzione del racconto, non gli riconosce nemmeno il successo: Il mio avvenire le parve subito talmente compromesso che non è mai stata davvero sicura del mio presente. Perché il somaro si racconta ininterrottamente la sua somaraggine: faccio schifo, non ce la farò mai. Per loro, la scuola è un club di cui si vietano, da soli, l’accesso. Giorni e ore di scuola e di fatica per comprendere quelle parole, così facili per gli altri, e che lui ripeteva instancabilmente, come bocconi masticati senza inghiottire fino alla totale decomposizione del sapore e del senso. Sofferenza e comicità,  momenti di abbandono e voglia di riscatto, impotenza e compiacimento, perché “il somaro oscilla fra lo scusarsi di essere e il desiderio di esistere nonostante tutto”.

LA SOMARAGGINE

La somaraggine, è lo stato di solitudine e impotenza che pervade il somaro; un insieme di sentimenti e reazioni che cristallizzano l’inettitudine in odio, e in lotta aperta contro “il mostro scuola che vuole mangiarmi il cuore”. La somaraggine è anche un rapporto che muta, che vive di condizioni e nuove difficoltà. Pennac ricostruisce, per noi,  attraverso i suoi ricordi di allievo e poi di docente, la nuova condizione del somaro. Dal vendicatore solitario, un po’ alla Gian Burrasca, al “renitente” contemporaneo che non è più bambino, nemmeno adolescente ma ha gli aspetti di una nuova categoria: è un consumatore, un bambino cliente. Mentre il somaro di ieri provava una gioia cupa  nel sentirsi incomprensibile ai privilegiati del potere, lasciando comunque aperto uno spiraglio al recupero; oggi, il somaro-cliente, forte della sua maturità commerciale si preclude ad ogni intervento. Perché dovrebbe abbandonare questa sua “veste” per la posizione dell’allievo obbediente, che lui reputa infantilizzante? “Per quanto somaro sia in classe, non si sente forse padrone dell’universo quando, chiuso in camera sua, è seduto davanti alla sua consolle?”

L’AMORE

L’amore è liberare il somaro dal suo pensiero magico, che come in una fiaba lo inchioda in un eterno presente. E’ l’amore degli insegnanti che non  si lasciano ingannare dalle ammissioni d’ignoranza. Diario di scuola si conclude con un dialogo filosofico fra Daniel Pennac, docente e scrittore di successo, e  Daniel Pennacchioni, somaro. Sono domande e risposte sul Sapere e l’Ignoranza; il Sapere comprende l’Ignoranza o ne ha già elaborato il lutto? “Lo studente che va male, non ha mai la sensazione di essere ignorante. Io non mi trovavo ignorante. Io mi trovavo coglione” Pennacchioni  risponde con sicurezza all’incalzare delle domande, rifiutando le risposte che lo scrittore suggerisce. Nessuna empatia e nemmeno comprensione, nemmeno i metodi, nemmeno la psicologia; l’ignorante chiede al sapiente, che sia inclusa fra i saperi anche quello dell’ignoranza; che sia quella la base per organizzare il lavoro di  insegnare ad impegnarsi. L’ex somaro avrebbe la risposta che sta tutta in una parola. “Una parola che non puoi assolutamente pronunciare in una scuola, in un liceo, in una università, o in tutto ciò che le assomiglia…se tiri fuori questa parola parlando di istruzione ti linciano.”Puntini e puntini di sospensione per l’ultima parola  … “L’amore.”

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martedì, 18 marzo 2008

A CIASCUNO IL SUO

Ho il piacere di presentarvi due racconti molto interessanti.

Naturalmente siete invitati a leggerli e a commentarli.

Il primo racconto, intitolato “A ciascuno il suo”, (titolo sciasciano) è firmato da Veronika Simoniti. E lo trovate in questo stesso post.

Il secondo, “I semi delle fave”, è di Simona Lo Iacono. E lo trovate qui.

Preciso subito che Veronika è la moglie del “nostro” Sergio Sozi.

Entrambi i racconti sono preceduti da una breve nota biografica.

Buona lettura.

(Massimo Maugeri)

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Veronika Simoniti (1967, nella foto) vive a Lubiana, dove lavora, soprattutto per conto di grandi case editrici, come traduttrice letteraria dal francese e dall’italiano (Camilleri, Marani, Buzzati, Calvino, Pazzi, Tabucchi, Vassalli, ecc.), oltre che come Lettrice d’italiano presso
la Facoltà di Lettere e Filosofia di Lubiana.In quanto narratrice ha esordito in Slovenia nel 2005 con Zasukane štorije – raccolta di racconti brevi, segnalata dal Premio Esordio dell’Anno 2005 e due volte inclusa tra i finalisti del premio per la migliore raccolta di prosa breve, Fabula 2006 e Fabula 2007. Ha vinto premi o ricevuto segnalazioni anche per singoli racconti (per l’Italia ricordiamo la segnalazione del Premio Teramo). Pubblica per diverse riviste letterarie slovene e per Radio Slovenia. Alcuni suoi racconti sono stati tradotti in inglese, tedesco, ungherese, croato e italiano.Il racconto Egeo è incluso nell’antologia di scrittori sloveni nati dopo il ‘60, in inglese, A Lazy Sunday Afternoon, pubblicata dall’Associazione degli Scrittori Sloveni (Lubiana 2007) oltre che, in traduzione italiana, nell’antologia Cromografie (ed. bilingue ita/slo, 2007). Finora ha tenuto incontri letterari su invito a Budapest (Fiera del Libro – aprile 2006), Francoforte (Fiera del Libro – ottobre 2006), Roma (Università la Sapienza – maggio 2007), Torino (Salone del Libro – maggio 2007) e Berlino (Literatur Werkstatt – febbraio 2008). È membro della giuria del premio del Festival Letterario Internazionale Vilenica, dell’Associazione degli Scrittori Sloveni e dell’Associazione dei Traduttori Letterari sloveni.

Va infine precisato che il racconto A ciascuno il suo, tutt’ora inedito in Italia, ha ricevuto il personale apprezzamento di Claudio Magris.

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A CIASCUNO IL SUO

Abdul non sapeva dove sbattere la testa. Non sapeva che fare. In un anno che stava in Italia ancora non aveva combinato niente. L’unica cosa buona era aver incontrato Madjid. Madjid non era curdo come Abdul, era berbero. Comunicavano in un italiano zoppicante, con quelle poche parole che avevano imparato durante il loro breve soggiorno senza permesso in Italia.

«Abdul, cosa fare noi oggi?»

«Che ne dici di andare a vedere se troviamo qualche motorino?»

«Ah, ah, Abdul, motorino per girare, brrruumm, brrruumm, ah, ah…»

E cosí Abdul il Curdo e Madjid il Berbero in quella tiepida sera settembrina si misero a cercare «qualche motorino». Si avviarono per le vie del centro storico pordenonese, senza badare alle bellissime facciate delle case rinascimentali, senza degnare nemmeno di uno sguardo le arcate che proteggevano i maestosi portoni dei palazzi signorili, senza sentire i colpi dell’orologio municipale, senza accorgersi degli affreschi rosso-marrone in restauro. Il loro passo era diretto verso l’immediato futuro perché del passato e della storia che ancora attualmente opprimevano i loro rispettivi popoli non ne potevano più. 

II 

Silvano e la sua fidanzatina salparono troppo tardi. Quella tiepida ma piovosa sera settembrina la loro macchina sembrava piú una nave che un veicolo stradale. In più, la sua fidanzata, nonostante l’aspetto magro, smilzo e indifeso, quella tiepida sera settembrina era anche un bel po’ stronzetta. Tra gli scrosci che si sentivano mentre le ruote navigavano da una pozzanghera dell’autostrada all’altra, non smetteva di rimproverargli di essere partiti troppo tardi per colpa sua, per colpa di Silvano.

«Chi dorme non piglia pesci. Se sai che il giorno dopo devi fare duecento chilometri in macchina e che l’incontro è fissato per le sei e mezza, non parti mica alle quattro del pomeriggio».

Il naso della fidanzata sembrava allungarsi per l’offesa.

«Senti, stanotte stavo ancora rileggendo la cosa. Lo sai che non sono molto sicuro che tutto vada bene».

«Ma certo che va bene, Silvano! L’abbiamo rivista chissà quante volte. Lo sai che meriterebbe di essere pubblicata».

«Lo pensi davvero?»

«Certo, amore».

Il naso della fidanzata era tornato corto come prima.

«Il fatto è che oggi funziona tutto con le conoscenze. Se non stai nel giro, se non lecchi i piedi a nessuno, non combini niente».

«Ce la farai, amore, ce la faremo», rispose la promessa sposa come rispondono le regine che dietro le quinte tengono i fili del regno del marito.

Splash, splosh… oddio, è andata la gomma!  

III 

«Abdul, piacere a te quello motorino?»

No, a Abdul non piaceva perché stava troppo vicino al baretto, e davanti al baretto c’era della gente seduta che, sorseggiando il caffè o il refosco friulano, avrebbe potuto vedere il furto da vicino e dunque reagire.

Il curdo e il berbero erano stanchi. Si sedettero sugli scalini davanti a un negozio chiuso per le tarde ferie.

«Sta per cominciare a piovere», disse Abdul.

«Da noi non piovere mai. Tutto secco», aggiunse Madjid.

«Da noi raramente. C’è anche una leggenda sulla pioggia. È una leggenda molto bella».«Dimmi la leggenda, Abdul».

«Un giorno un giovane principe vaga per i campi e avvista una  pastorella. La pastorella si chiamava Leila e pascola una sola pecorella… Il principe Najad si avvicina alla pastorella e vede che lei è molto bella…»

«Bella come Naomi Cambel, ah, ah…»

«Bella come Naomi Campbell. Ma vede anche che la pastorella Leila piange. Allora le chiede: ‘Pastorella, perché piangi?’»

In quel momento davanti ad Abdul e Madjid passò un elegante signore in giacca e cravatta che, scambiando il berretto di Abdul per un contenitore elemosiniaco, ci gettò la nuova moneta da mille lire.

Abdul e Madjid si scambiarono gli sguardi e sorrisero con complicità. 

IV 

Il professor Jagris già da tempo soffriva di quello che negli ambienti letterari viene definito il «vuoto creativo». Dopo l’ultimo libro, Il Tagliamento, una riuscitissima metafora del «taglio» tra due mondi, quello italiano e quello «furlan», era rimasto avvolto in un vacuum e gli sembrava di stare sotto una campana di vetro. Non lo poteva consolare né l’attenzione che gli recavano gli intellettualetti provinciali né gli inviti di cui era bombardato da ogni parte della regione né le lettere, piene di lodi e complimenti, che riceveva tutti i santi giorni. Non ne poteva piú di sparpagliare la propria conoscenza tra i commensali accidentalmente occasionali nelle tavolate dopo le sue conferenze, quella  gente che gli succhiava il midollo mentre lui buttava il suo sapere come le perle ai porci. Solo che i porci tornavano a casa tutti orgogliosi e arricchiti, e lui rientrava del tutto esausto e vuoto. Il  professor Jagris era disperato. Il contratto lo obbligava a consegnare un nuovo libro entro la fine dell’anno. Era autunno, era una tiepida sera settembrina, gli rimanevano ancora tre mesi e nell’orfano file del suo computer non figurava neanche una frase completa. Gli abbozzi delle idee gli giravano sí nella testa, ma nessuna di esse era degna di essere approfondita. Il tema del suo saggio letterario avrebbe dovuto aggirasi intorno alle leggende antiche e moderne orientali e occidentali. Il professor Jagris negli ultimi mesi aveva letto tanta di quella letteratura scritta sull’argomento, ma non riusciva a sviluppare un proprio punto di vista. E quella sera doveva andare all’Auditorio, per un’ennesima conferenza su Il Tagliamento. Sapeva a memoria già le domande che gli avrebbero fatto e le risposte che lui avrebbe dato. Erano le sei, bisognava avviarsi verso la sala, stava nella piazzetta sotto il corso. E poi ha fatto bene ad aver lasciato il motorino nel vicoletto lí vicino, sarà facile tornare a casa. Pensieroso, il professor Jagris passò davanti a due extracomunitari gettando una nuova moneta da mille lire nel berretto che giaceva davanti a loro. Chissà da dove vengono questi due, pensò, e chissà come sono le leggende del loro Paese. 

Il carro attrezzi dell’ACI partí e Silvano e la sua fidanzatina tirarono un sospiro di sollievo. La gomma era a posto e dopo aver fatto la pipí nell’orrendo ed anonimo autogrill continuarono il viaggio verso Pordenone. Silvano diventava nervoso perché si stava facendo tardi; la gomma gli aveva preso un’ora del suo prezioso tempo.

«Se fossimo partiti prima…», ricominciava la fidanzata col naso sempre piu affilato.

«Se fossimo, se fossimo… fatto sta che non siamo partiti prima!» alzò la voce Silvano.

«Per colpa di chi?»

«Uffa!»«E che fai???» urlò lei.

«Cosa adesso?»

«Hai appena fallito l’uscita per Pordenone!»

«Come? Non è possibile!»

«Ma sí, certo, se sorpassi il camion nel momento in cui ti sta coprendo il cartello indicatore!»

Anche il naso di Silvano diventò lungo. E per di piú, rosso.

La fidanzata stese la cartina sulle ginocchia.

«Adesso dobbiamo fare la strada statale che è molto piú lunga». 

VI 

«Allora le chiede: ‘

Pastorella, perché piangi?’

‘Piango perché prima avevo un gregge numeroso.’

‘E dove sono andate le tue pecore?’ chiede il principe.

‘Le ha rubate il Dio della Pioggia.’

‘E dove le ha portate?’

‘Stanno nel suo Regno delle Nuvole.’

‘E perché te le ha prese?’

‘Perché si sentiva solo e vuoto.’

‘Non puoi chiedergli di ridartele?’

‘Ho paura.’

Il principe Najad che pian piano si innamora della pastorella decide di andare dal Dio della Pioggia e chiedergli di restituire le pecore a Leila».

«Abdul, lei bella come Naomi Cambel?»«Sí, bella come Naomi Campbell». 

VII. 

Quando arrivarono a Pordenone erano le sette e mezza. Prima che trovassero la sala dell’Auditorio si erano fatte le otto meno dieci.

La porta dell’ingresso si aprí e uscí un grappolo di signori con la barba, c’era chi intellettualmente si accendeva la pipa, le donne ridevano con discrezione, i giovani dirigevano lo sguardo verso l’uscita della sala da dove dovrebbe da un istante all’altro venire il celebre personaggio. C’era chi, alla bancarella di uno studente stile sessantotto, comprava Il Tagliamento e c’era chi un po’ piu avanti con il libro già comprato in una mano e la penna nell’altra aspettava l’illustre docente per farsi fare l’autografo. Era questa la scena nel momento in cui giunsero Silvano e la sua fidanzata.

«Forse ci riusciamo».

«Ma come faccio a dargli la mia copia, guarda!»

Dal portone uscí un altro grappolo appiccicato al professor Jagris. Sembrava un plotone di guardie del corpo. La piccola folla si eccitò e circondò la scorta.

«Aspetta, si libererà di loro prima o poi, no?»

E infatti, dopo qualche minuto, i fan cominciarono a diradarsi, finché non restò solo il primo nucleo che accompagnò il professor Jagris attraverso la strada.

«Seguiamoli!» si entusiasmò la fidanzata di Silvano.

«Ma che sei pazza?»

«Lo vuoi pubblicare il libro o no? È un’occasione che non possiamo perdere. E poi abbiamo fatto tutta questa strada!»

Il corteo jagrisiano si avviò verso l’osteria dell’Antico daino e si sedette a un tavolino fuori, sotto la tenda. La fidanzata trascinò attraverso la strada Silvano, paralizzato dalla paura. I due si sedettero due tavoli piú lontano. Sulla panchina di legno, Jagris era schiacciato da altri incravattati che guardavano solo lui e assorbivano ogni parola dalle sue labbra. Il professore stava scomodo e anche se avrebbe dovuto un’altra volta gettare le perle ai porci era contento poiché almeno per una sera gli facevano dimenticare il «vuoto creativo»…  

«È imbarazzante», disse Silvano.

«Come faccio, vado lí mentre parla e gli ficco le bozze sotto il naso? Che, gli dico: Professor Jagris, ecco il mio libro, che ne dice di leggerlo e mettere una buona parola per me presso qualche casa editrice?»

«E allora perché siamo venuti? Perché abbiamo fatto duecento chilometri? Dimentichi che per tornare ne faremo altri duecento?»

«E poi lo sai, non sono nemmeno sicuro che il titolo vada bene».

«Ne abbiamo parlato tanto, Silvano: perché Il Regno del Sole non andrebbe bene? È un saggio letterario, ci vuole un titolo un minimo misterioso».

«Forse non traspare bene il contenuto: tratto delle leggende».

«Ma l’hai scritto nel sottotitolo: Il Regno del Sole, Leggende antiche e moderne dell’Occidente e dell’Oriente».

«Forse sarebbe meglio A ciascuno il suo o Le cose cambiano. Cosí si capirebbe subito il messaggio dell’intercambio delle culture, delle ricchezze che si regalavano i popoli durante la storia, spesso senza rendersene conto».

«Sei troppo autocritico».

«E forse non ho fatto abbastanza ricerche sulle leggende ancora sconosciute con cui illustrare il mio saggio. Mi manca il materiale».

I commensali del professor Jagris si alzarono e si misero a stringersi la mano.

«Adesso, vedi, sta per attraversare la strada, seguilo!» 

VIII 

«Abdul, a te piacere questo motorino?»

«Hm, questo potrebbe andar bene. Senti, tu ti metti un po’ piú avanti, a quell’angolo e osserva. Se viene qualcuno, fischia».

«Fischia? Fiu-fiu, cosí?»

«Cosí».

Abdul cominciò a occuparsi della catena intorno alla Vespa rossa.

Il professor Jagris attraversava la strada quando sentí una voce fioca dietro di lui: «Professore, professore, scusi un attimo». Jagris si voltò e vide un giovanotto che stendeva la mano verso di lui porgendogli un fascicolo giallo. Ma la scena che aveva visto un secondo prima gli tornò davanti agli occhi, la scena di due extracomunitari che stavano aprendo la catena di un motorino. Di un motorino rosso. Della sua Vespa! Il professor Jagris non badò al giovane invadente ma corse verso i due delinquenti. In certe situazioni il nostro cervello ha delle idee geniali. Il quel momento il cervello di Silvano ebbe l’idea di acquistare la simpatia del professore salvandogli la moto. Si buttò in una corsa sfrenata dietro ai due ragazzi  che nel frattempo erano riusciti a liberare il veicolo dall’abbraccio della catena, saltarci sopra e fuggire. Si buttò allora, seguito dalla fidanzata, in una gara rocambolesca per essere pubblicato, per diventare un giorno famoso come il professor Jagris, gettando per terra la cartella gialla con dentro il suo saggio. Il professor Jagris si fermò, rimanendo immobile in mezzo alla strada. Ancora non aveva capito cosa gli fosse successo. I suoi accompagnatori erano già andati via e non avevano visto l’indescrivibile avvenimento. La pioggia sgocciolava sulla cartella gialla. Il professor Jagris si inchinò e la raccolse. Aprí il cartone e lesse il titolo: Il Regno del Sole, Leggende antiche e moderne dell’Occidente e dell’Oriente. Un sorriso malizioso gli attraversò il viso. 

 IX 

Dicono che quando uno alle cose ci tiene, riesca a attraversare mari e monti. Silvano, che teneva tanto a conoscere il professor Jagris e a pubblicare il suo saggio, riuscí a prendere i due mascalzoni e la moto del celebre intellettuale. L’ambizione gli dava un tale coraggio che se ne accorsero e si spaventarono anche Abdul il Curdo e Madjid il Berbero.

«Prego, prego, non fare male, noi poveri», supplicava Madjid.

«Non chiamare la polizia, per favore», lo pregava Abdul.

«Adesso torniamo dal legittimo proprietario, gli ridiamo la moto e voi vi scusate direttamente con lui!» era accanito Silvano che teneva le giacche dei due ragazzi sulla loro nuca mentre la fidanzata tirava la Vespa.

«Noi fare tutto, ma non dire polizia!»

Quando imboccarono la strada del furto, il professor Jagris non c’era più. Tornarono al luogo esatto del delitto e non c’era nemmeno la cartella gialla. Silvano lasciò i colletti di Abdul e Madjid, si sedette disperato all’orlo del marciapiede e, sull’orlo delle lacrime, si mise la testa tra le mani.

«Vedete cosa avete fatto, imbecilli!» disse la fidanzata abbracciando Silvano.

«Cosa? Il signore è già andato via, forse lui se ne frega della moto».

«Idioti, ho perso il mio saggio!»

«Saggio? Cosa saggio?» chiese Madjid.

«Sí, ciao, a spiegarlo a voi, cos’è un saggio. E cosa sono le leggende e cos’è la storia del Regno del Sole», singhiozzò Silvano.

«Abdul, questo come tua storia regno di nuvole».

«Sí, adesso non è piu il regno del sole, è il regno delle nuvole», ironizzò la fidanzata.

«La leggenda curda racconta che un giorno un giovane principe erra per i campi e incontra una pastorella, Leila, che pascola una sola pecorella… Il  principe Najad si avvicina alla pastorella e vede che lei è molto bella…»

«Bella come Naomi Cambel…» aggiunse Madjid.«Bella come Naomi Campbell», ripetè Abdul e continuò: «Ma vede anche che la pastorella Leila piange. Allora le chiede: ‘Pastorella, perché piangi?’

‘Piango perché prima avevo un gregge numeroso.’

 ’E dove sono andate le tue pecore?’ chiede il principe.

‘Le ha rubate il Dio della Pioggia.’

‘E dove le ha portate?”Stanno nel suo Regno delle Nuvole.’

‘E perché te le ha prese?’

‘Perché si sentiva solo e vuoto.’

‘Non puoi chiedergli di ridartele?’

‘Ho paura.’

Il principe che pian piano si innamora della pastorella decide di andare dal Dio della Pioggia a chiedergli di restituire le pecore a Leila.

Quando arriva al Regno delle Nuvole vede che le nuvole non sono nuvole bensí le pecore che pascolano sul cielo. Le pecore sono molto tristi perché non stanno piú con Leila. E le loro lacrime sono le gocce della pioggia.

Il principe va dal Dio della Pioggia e gli dice:

‘Dio della Pioggia, ridai le pecore alla pastorella Leila, perché lei è triste.’

‘Ma come faccio a essere il Dio della Pioggia se non mando la pioggia sulla Terra?

‘Allora il prinicipe Najad ha un’idea: ‘Senti,’ gli propone, ‘a ogni luna piena io ti porto cento barili di acqua dal fiume che scorre per il mio paese: tu dopo puoi rovesciarli sulla Terra come pioggia. E tu dài le pecore a Leila, lei non piangerà piú, si innamorerà di me e ci sposeremo.

‘Al Dio della Pioggia piace questa soluzione e cosi è ancora oggi: piove regolarmente e il principe Najad vive felicemente sposato con la pastorella Leila. A ciascuno il suo».

Il viso di Silvano si rasserenò. Prese la testa di Abdul tra le sue mani e lo baciò.

«Grazie, grazie, tu mi hai salvato, questa leggenda farà perfettamente da filo conduttore nel mio saggio Il regno del Sole! Grazie, grazie!» 

La macchina dei fidanzati cantanti divorava allegramente i duecento chilometri. Quella stessa sera, qualche passante infreddolito poteva intravedere attraverso una finestra del pianterreno di un palazzo liberty un professore felicemente assorto e chinato sopra un testo dalle copertine gialle.

«Bella come Naomi Cambel, vero, Abdul?» sorrise sognante Madjid.

«Bella come Naomi Campbell», rispose Abdul, tirando la motocicletta rossa nella fredda notte settembrina. 

Veronika Simoniti

Pubblicato in EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, LETTERATURA È DIRITTO... È VITA (a cura di Simona Lo Iacono), SEGNALAZIONI E RECENSIONI   123 commenti »

lunedì, 17 marzo 2008

REMARE SENZA REMI. UN LIBRO SULLA VITA E SULLA MORTE

Quando Chiara Tiveron, dell’ufficio stampa Marsilio, mi accennò all’uscita di questo libro, io dissi: sì, ne parlerò sul blog.
Il libro si intitola: “Remare senza remi” (Marsilio, 2008, pagg. 203, euro 15), l’autrice è Ulla-Carin Lindquist. Il sottotitolo è Un libro sulla vita e sulla morte.
Per certi versi torniamo all’argomento già trattato nel post letteratura e malattia, letteratura e morte.
Ora, voi potrete dire (e con ragione): ma che vuoi da noi?
Perché ci devi tediare con argomenti simili?
(Sono quasi certo che qualcuno lo farà).
Vi spiego. Non so se vi capita, ma – a volte – ho come l’impressione di vivere nel mezzo di una corsa… una corsa senza meta.

Vi capita?

Chi si ferma è perduto: lo disse anche Totò. Vero. Ma ogni tanto credo che fermarsi sia salutare. E libri come questo, in tal senso, possono essere d’aiuto.
Questo, almeno, è ciò che io penso.
Olivier Sacks, autore di L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello ha definito il libro della Lindquist “emozionante, bellissimo, terribile e allo stesso tempo rassicurante.”
Secondo il Financial Times “la Lindquist scopre – e mostra con eleganza – come la mortalità e la gioia possono essere collegate”. Per The Daily Mail “nel trascrivere le sue impressioni sulla morte imminente, l’eredità della Lindquist è un inno alla vita.”
Per Il Foglio “Remare senza remi è una magnifica e umana risposta all’idea dell’eutanasia.”
Di seguito vi presenterò Ulla-Carin Lindquist. E poi riporterò (e ringrazio Marsilio per aver concesso l’autorizzazione) alcuni estratti del libro.
Vorrei che li leggeste e che scriveste qui – se vi va – le vostre impressioni (sul libro, sul tema), magari anche contraddicendo le motivazioni che mi hanno spinto a scrivere questo post.
Insomma, utilizzate questo spazio… come pagina bianca (giusto per citare il mio amico Pasquale).

Massimo Maugeri

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Ulla-Carin Lindquist (nella foto in basso), la più importante giornalista televisiva svedese, ha cominciato ad avvertire i primi sintomi della malattia il giorno del suo cinquantesimo compleanno. Da quel momento la sua vita è cambiata e presto la diagnosi è diventata terribilmente chiara: sclerosi laterale amiotrofica (SLA), la peggiore tra tutte le malattie neurologiche. Non esiste una cura, non c’è miglioramento e la morte avviene rapidamente.
Remare senza remi è stato scritto durante questo breve periodo di malattia. Ulla-Carin racconta la sua esperienza faccia a faccia con la morte. Descrive i momenti ordinari come gli incontri con i medici, le conversazioni con le figlie che studiano al college, i pomeriggi passati con il marito e i due bambini più piccoli, ma anche quelli straordinari come il doloroso declino delle sue abilità fisiche.
Una storia commovente scritta da una donna coraggiosa che lotta con la morte incombente, e ci illumina sulla condizione fondamentale dell’essere umani: esistere, e sapere che non è per sempre.
Un libro indimenticabile che esplora il terrore, l’imbarazzo e il dolore della malattia e contemporaneamente affronta i temi universali della vita, della morte, dell’amore e dell’importanza della famiglia.

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Estratti dal libro “Remare senza remi” (Marsilio, 2008, pagg. 203, euro 15)

Questo è il mio debutto e il mio finale.
E si riferisce al mio finale.
Non si tratta di un libro di ricordi nel vero senso del termine. È più un diario che riporta pensieri e tuffi nella memoria. E anche diverse interviste e osservazioni di fatti.
“Nel mezzo della mia vita” sono stata invasa da una malattia poco comune, SLA, “sclerosi laterale amiotrofica”.
È una malattia che si sviluppa rapidamente e aggressivamente. Esiste un unico esito: la morte. Nessuna cura. Nessun miglioramento.
Cosa succede a un essere umano in questo caso?
Un anno fa lavoravo a tempo pieno come reporter per la tv. Oggi non sono più in grado di mangiare, di camminare o di lavarmi da sola.
Provo un profondo senso di dolore per tutto quello a cui non potrò assistere. E ancora di più perché presto dovrò lasciare i miei quattro figli.
Allo stesso tempo provo una grande gioia e mi sento fortunata per tutto quello che accade in questo momento.
Ogni giorno, la mia casa si riempie di risate.
Sembra strano?
Kråkudden, gennaio 2004

[…]

Cosa ho fatto di male per essere colpita da una malattia incurabile? Perché sono punita?
Dopo la diagnosi, provo un senso di vergogna. Per me le cose sono andate troppo bene. E non ho dimostrato sufficiente gratitudine. Esiste ancora un legame fra la malattia e il castigo per i peccati.
La parola inglese per dolore è “pain”, deriva dal greco “poinè” che significa castigo.
Credo profondamente che si debba essere puniti.
E tutto va bene se si è gentili, con le guance rosa e non si calpesta il pane.
«L’essere umano deve essere felice e buono in attesa della morte». Questa frase ricamata e incorniciata era appesa alla parete della cucina della mia bisnonna.
A chi non ho dimostrato abbastanza gratitudine?

[…]

Le parole rimangono impigliate nel naso. È come se si fosse formata una sporgenza di gomma. Come se il velo del palato si fosse afflosciato. La lingua ha un aspetto un po’ villoso e la punta non vuole più allungarsi come un serpente. Invece, lì c’è una piccola fossa di serpenti. Sono gli spasmi nervosi sulla lingua. E la bocca bofonchia nasalmente suoni incomprensibili.
È come un disco che gira alla velocità sbagliata. La SLA mi ha privata delle mie parole parlate. La mia voce. L’attrezzo del mio lavoro. Oggi nessuno ha sentito quello che ho detto. Rabbia.
Nella mia testa, le parole sono più chiare che mai. Sento la mia voce, la mia voce vera dentro di me. Una voce melodica e un’intonazione che sono state una parte importante del mio lavoro. Ma poi la voce passa attraverso la laringe, il filtro della SLA, ed esce soltanto un suono. Come un asino che raglia.
La SLA mi ha già sottratto la mano destra. Resta a riposo per l’eternità. Bluastra come un filetto di manzo ben frollato. Nella sinistra, tre dita riescono a muoversi sulla tastiera del computer. Ma sono rigide e l’acido lattico si forma rapidamente.
«Avresti potuto darmi due gambe paralizzate, invece!»
«Buon Dio, sii gentile con le mie tre dita e la mia lingua.»
La SLA è una risata sardonica e maligna.

[…]

Avere il tempo di qualcuno. Che qualcuno mi dia il suo tempo.
È un dono così grande, così enorme.
Un collega è venuto e mi legge un romanzo con una bella voce. È seduto sul letto dove sono distesa mentre il cibo viene pompato nel mio stomaco. C’è una candela accesa e io vorrei che il romanzo non finisse mai. Un altro collega mi chiede se può venire in compagnia di un’amica. «Ti farà bene incontrarla.»
Ho la possibilità di conoscere una donna con una grande esperienza della vita. Ho letto due dei suoi libri e ne sono rimasta affascinata. Adesso è seduta qui con me e io le prometto di comprare una macchina per il caffè espresso per la sua prossima visita.
(…)
Parla di due vie diverse da seguire: la paura e l’amore. Mi dico che forse è stato così che ho pensato quando ho deciso di non cedere all’amarezza, non lasciare che la malattia corrodesse i miei pensieri. Quando ho deciso di vivere giorno per giorno.
Parliamo di assaporare il buio, vederlo, toccarlo. Il buio è reale, ma non è tutto.
«Posso essere nel buio, ma non sono al centro del buio. Io sono molto di più» mi dice. «Io so che c’è altro; posso ritrovare un profondo senso di accettazione e posso aprirmi per il presente e per l’amore.»
Così mi dice Anita Goldman, che sta bevendo il mio caffè, e io penso le stesse cose.
Sta scrivendo un libro su Etty, una donna che è stata assassinata ad Auschwitz. Nel suo diario, Etty ha scritto:
Soffrire non è al di sotto della dignità umana. Quello che voglio dire è che si può soffrire con dignità umana e senza dignità umana. Quello che voglio dire è che gli occidentali non capiscono la capacità di chi soffre e invece si lasciano prendere da mille diversi tipi di angoscia.
[...] Dobbiamo accettare che la morte è parte della vita, anche la morte più orrenda. E non viviamo forse ogni giorno una vita completa, e quale importanza può avere se viviamo qualche giorno di più o di meno?

[…]

L’alba, il giorno prima della vigilia di Natale del 2003, sono sorpresa. La condensa fra i doppi vetri è gelata e attraverso i fiori di ghiaccio vedo i vapori del gelo levarsi dal mare.
È così straordinariamente bello.
Il cielo è colorato di rosa e porpora, e questa e quella stella risplendono ancora vagamente. Quando il sole si alza al di sopra della foresta di pini si forma un arcobaleno e i gabbiani sembrano più bianchi del solito.
Sono nuovamente a casa dopo quattro giorni nell’ospizio, una clinica per i malati terminali. La degenza media è di venti giorni. Metà dei pazienti muoiono lì.
«Posso vedere la camera ardente?» chiedo quando l’irrequietezza mi coglie.
Un po’ sorpresa, l’infermiera mi spinge in una stanza con una sorgente gorgogliante. Le pareti sono gialle, su una le nuvole sono dipinte con i colori della terra.
In un angolo c’è un angelo. Il pavimento è di piastrelle di terracotta e io sono convinta che sotto c’è un pozzo che mi fa ricordare la culla dove mio fratello, io e tutti i nostri bambini sono stati adagiati.
Però è molto più lungo. E senza fondo.
La stanza è tappezzata con un tessuto scuro, color ruggine, che arriva fino al pavimento. Mi fa pensare al mio nonno paterno e a quando mangiavo caramelle ai lamponi da lui invece di andare alle lezioni di piano da Anna Palmér in Nya Kyrkogatan a Kristinehamn.
Ancora oggi non sono brava a suonare il pianoforte.
Quando l’immagine di mio nonno che è morto si ritira, riesco a dire con voce nasale: «Perché?»
«Ti stai chiedendo perché è così piccola? Non c’è un letto. C’è posto per una bara.»
La stanza ha tre porte. Una è quella da dove siamo entrate, la seconda porta a una cella frigorifera e la terza a una rampa speciale all’esterno.
Ho difficoltà a calmare il pianto. C’è così tanto – così tanti – nella stanza. E lo spazio per la bara mi ha spaventata.
Ma sono felice di averla vista, la camera ardente.
La clinica è molto bella e mi ha fatta sentire gravemente malata. Cosa che di per sé è una realtà da molto tempo. Eppure, quando sono a casa posso dimenticare quei brevi momenti.
Il Natale è arrivato, e un anno fa quando cercavo di fare i pacchi maldestramente lo spettro mi aveva detto che era il mio ultimo Natale.
Si era sbagliato.
Le mie figlie e i miei figli mi sono vicini. Adesso sappiamo che è una cosa seria. Averli qua, pelle contro pelle, mi rende così felice che non ho bisogno di provare gioia.
I miei quattro figli, mio marito, Mimmi, suo figlio Hugo e io celebriamo il Natale insieme. Il tavolo natalizio è imbandito con aringhe marinate, prosciutto al forno, janssons frestelse, salmone, cavolo rosso, cavolo bianco, ravizzone, salsicce, polpette di carne, stoccafisso in umido, crêpe allo zafferano e sgocciolatura di arrosto che soltanto mia suocera assaggia. La stanza è piena di piccoli Babbo Natale e io sento l’odore del cumino, del melograno e dell’assenzio.
«Non capisco come tu faccia a rimanere seduta a tavola senza avere neppure la possibilità di assaggiare qualcosa» dice Mimmi.
Può sembrare strano, ma mi fa bene. Assaporo gli odori e ricordo le polpette speciali della mia infanzia preparate dalla cuoca della nonna paterna, con carne di vitello tritata e panna acida. Ricordo il prosciutto di Natale che veniva marinato con un misto di sale, zucchero, salnitro, peperoncini spagnoli, zenzero, lauro, cipolle rosse e pepe già alla prima domenica di Avvento per poi essere cotto alla vigilia di Natale. Bastava fino all’Epifania, e quando si formava un leggero strato scuro lo si rimetteva nel forno e lo si considerava nuovamente fresco.
Così allora. Adesso allacciamo un nastro di seta rosso intorno al tubo sterile della mia sterile soluzione nutritiva, e adorniamo con ghirlande argentate lo strumento.
Sono due mesi che non mangio un pasto normale, che non bevo. Il minimo sorso d’acqua finisce nel posto sbagliato. Ho problemi a inghiottire la mia stessa saliva, e quasi ogni sera l’assistente mi fa un’iniezione di morfina che blocca il muco e la tosse.
Un giorno arriva il pastore che spargerà la terra, mi porta una lanterna e un piccolo albero di Natale che ha ornato con biscotti allo zenzero che ha preparato lei stessa. Quando ci voltiamo, il labrador marrone di Mimmi li ha mangiati. Tutti meno uno.
«Il mio Rufs ha fatto la stessa cosa» mi consola il pastore e poi legge un brano del Vangelo seduta sul bordo del mio letto.
Molti vengono a farmi visita per Natale. È divertente, ma si comportano in modo diverso. Adesso non riesco più a parlare, ed è per questo che alzano la voce e articolano le parole il più chiaramente possibile. Ho perso una parte della mia mimica, e per questo, a volte, i lineamenti del volto sono contorti. Se dico qualcosa, anche se non dovrei, devo fare un tale sforzo da sembrare arrabbiata.
«Perché gridi in quel modo?»
E adesso mi fanno carezze sulle guance oppure, ancora peggio, sulla testa, come a una bambina. Lo detesto. Quella commiserazione con aria di superiorità.
Così lontana dalla compassione e dalla simpatia.
A Natale si può esprimere un desiderio, e io so quello che non posso avere a sufficienza.
Vicinanza, calore, verità e fiducia.
Voglio tanto che ricordiamo insieme cose e avvenimenti.
Non provare pietà per me. Sussurra segreti nel mio orecchio. I tuoi segreti. I nostri.
Lo dico seriamente.
Non sfuggire da me. Non avere paura.
Non è così pericoloso.
Siamo solo io e te.

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Ulla-Carin Lindquist è nata nel 1953 e ha avuto quattro figli, due femmine e due maschietti. Ha iniziato a lavorare nel 1988 come conduttrice a «Rapport», il telegiornale della sera svedese, diventando subito molto popolare. Nel 2000 si è trasferita in Canada con la famiglia ritornando due anni dopo come reporter. Il suo ultimo giorno di lavoro per la televisione svedese è stato nella primavera del 2003. È morta nella sua abitazione in marzo del 2004.
Questo libro è stato un best seller in Svezia, con più di 200.000 copie vendute. È già stato tradotto in: Inghilterra, Stati Uniti, Germania, Francia, Spagna, Norvegia, Danimarca, Finlandia, Ungheria, Olanda, Polonia, Slovenia, Corea, Cina, Grecia.

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giovedì, 13 marzo 2008

MAURIZIO DE GIOVANNI, FILIPPO TUENA

In questo post presentiamo i due libri italiani più votati nell’ambito del gioco “eleggiamo il miglior libro dell’anno 2007”. Si tratta di “Il senso del dolore” di Maurizio De Giovanni (Fandango, pagg. 256, euro 10) e “L’ultimo parallelo” di Filippo Tuena (Rizzoli, pagg. 352, euro 18).

Presentiamo di seguito due recensioni. La prima, relativa al libro di De Giovanni, già pubblicata sul sito del Premio Napoli, porta la firma di Luigi Pincitore. La seconda, per il libro di Tuena, è stata pubblicata su Diario da Gian Luca Favetto.

I due autori sono caldamente invitati a partecipare al dibattito sui loro libri.

Gli amici di Letteratitudine sono invitati a esprimere le loro considerazioni e ad accogliere i due autori con la massima cordialità.

(Massimo Maugeri) 

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Il senso del dolore di Maurizio De Giovanni

Tolstoj diceva che le famiglie felici sono simili le una alle altre. Talvolta capita che i libri felici siano simili l’uno all’altro. Ai lettori succede di scoprire un punto, anche piccolo – una pagina oppure una semplice immagine – che magicamente richiamano alla mente pagine o immagini di altri libri che pure si sono amati. Leggendo l’esordio di Maurizio De Giovanni (Il senso del dolore – Fandango) viene in mente quello straordinario racconto che è I Morti, scritto da Joyce a chiusura di Gente di Dublino. Due libri diversissimi, appartenenti a due scrittori altrettanto diversi. Uno, italiano, alle prese con un giallo solido e dall’impianto tradizionale, con protagonista principale un commissario di polizia impegnato nello scoprire l’assassino di un noto tenore. E qui il lettore più consumato può tranquillamente storcere il naso, dal momento che giallo e noir, per l’abuso che se n’è fatto negli ultimi anni, possono provocare una naturale crisi di rigetto. Senza contare quella distinzione che certa critica traccia tra letteratura alta e letteratura bassa, o di genere. Dimenticando che l’unica vera distinzione andrebbe fatta tra libri che emozionano e libri che non emozionano.Ma il gancio con il genio di Joyce c’è. E’ in quel lento cadere della neve, che scende sulla città di Dublino all’alba di un primo gennaio, e che sempre lentamente va a posarsi ovunque, su tutti i vivi e su tutti i morti; e paralizza lo sguardo di Gabriel, il protagonista del racconto, costretto a rimettere a fuoco quella cosa strana che chiamiamo realtà, e che nasconde sempre porzioni che ad un primo sguardo ci sfuggono. Nel libro di De Giovanni è il vento a cadere, letteralmente, sulla città. Un vento inusuale; non è lo scirocco africano che ci ricorda che Napoli è città mediterranea. E’ un vento freddo, australe, e anche qui cade sui vivi e sui morti. E ci fa scoprire che la città è davvero piena di morti. Più di quelli che un occhio qualunque possa normalmente vedere. Mentre il commissario Ricciardi li vede. E soprattutto li sente. Ha qualcosa, un potere, il fatto lo chiamo lui. E questo fatto, che non è potere parapsicologico da thriller americano, lo mette in comunicazione con i morti assassinati, di cui percepisce il dolore, di cui rivive nella carne e nello spirito l’agonia che diventa la sua. E così va avanti, senza poter raccontare ad alcuno di questo suo segreto, perché una volta ci provò, ragazzino, ma non fu creduto. Va avanti mescolando il suo dolore originario con quelli che vede e assorbe, antenna terminabile di un unico grande dolore che accomuna tutti i vivi e tutti i morti.

Ecco che salta subito all’occhio la componente cristologica del romanzo, il protagonista è condannato ad un eccesso di empatia verso l’umanità. E questa empatia, se da un lato gli permette di scavalcare l’immagine più semplice e banale del cadavere che ha di fronte, dall’altro lo condanna a scendere ogni volta in quel cuore di tenebra che ci portiamo dentro e che nell’istante della morte probabilmente illumina in un’ultima smorfia il nostro volto. Destino segnato il suo, perché evidentemente solo commissario poteva diventare uno che percepisce con tanta violenza emozionale il trapasso degli altri. Ma non c’è nessuna filosofia in questo fatto, Ricciardi non interroga forzatamente la propria identità. Oramai la accetta. E’ la sua nausea, e fa parte di lui. Egli è solo un povero Cristo, e ha la sua croce, e forse accettando di portarla silenziosamente sulle spalle aiuterà l’umanità dolente ad espiare.

Da questo punto di vista siamo nei territori dell’hard boiled, con la figura del detective solitario e a suo modo eroico. Che ha un amore inespresso che abita a pochi metri di distanza. Che ha occhi spesso socchiusi, perché la realtà è una luce che ferisce. E che incide dentro. Potrebbe bere whisky e fumare sotto la pioggia. Ma non siamo nell’America anni quaranta, ma, e qui c’è l’altro elemento di originalità del libro, siamo nella Napoli degli anni trenta. In pieno ventennio fascista. Quel vento che spazza le strade della città sembra alludere al vento del consenso, che spianava tutte le divergenze, gli alti e bassi, ammutoliva la gente entrando con forza in bocca, perché all’esterno fosse presentata un’unica facciata tersa e accogliente.
Romanzo quindi, questo di De Giovanni, in cui scorre sottopelle una cifra politica. Il segreto del commissario Ricciardi, all’esterno uomo del potere, emanazione di questori e potestà, allude al segreto di quanti in quegli anni erano costretti al silenzio e alla macerazione interiore, pena l’esilio e il confino. E così mentre indaga per ricomporre i tasselli che lo porteranno allo scioglimento del giallo, si immerge in quell’altro grande enigma narrativo e antropologico che è Napoli. Città da sempre problematica da raccontare. In questo romanzo l’autore opta per un’iconografia organica, presentando il dedalo di vicoli, il sovrapporsi di quartieri alti e quartieri bassi, con la folla spesso silenziosa e inerte che sciama per le strade, alla stregua di un reticolato di arterie e vene, dove scorre sempre molto sangue.

Quindi in una struttura di genere, basata sulla triade omicidio-indagine-interrogatori, si inseriscono alcuni piani che tendono a sbilanciare la narrazione, a farla uscire dai perimetri consolidati e canonici. L’autore sembra puntare soprattutto a costruire un mood, un’atmosfera che si faccia carico di sottolineare il non detto della vicenda, i momenti di sospensione e di precarietà.

Se nell’hard boiled chandleriano la solitudine di fondo del detective Marlowe era controbilanciata dalla secchezza dei dialoghi, dal machismo insistito e quasi autocompiaciuto di un certo stile di vita, qui siamo in un territorio diverso. Nonostante il vento Napoli si fa sentire, e batte sulla pelle del protagonista incidendola con la sua radice marina. Aleggia in queste pagine la solitudine salina di Montale, il detective creato dal grande scrittore francese Jean Claude Izzo. I dialoghi virano dal duro al malinconico. E la città nonostante non sia al centro della narrazione, se non durante i tragitti che il commissario compie, spostandosi in tram o a piedi, è in realtà sempre presente. Si direbbe anzi, che il mood del romanzo è in questa sospensione tra malinconia del protagonista e malinconia della città. Entrambi fuori posto, entrambi preda di un destino più grande. L’uomo schiavo del fatto, che ne regola il percorso biologico e umano. La città schiava della sua impasse storica e di un fascismo che non si accorda con il suo cuore segreto.
Potrebbero fondersi questi due eroi – uomo e città – ma non è possibile, se non in brevi e fulminanti momenti. A volte si incontrano, quando la morte di un uomo famoso cristallizza la scena. Altre volte si vivono uno addosso all’altro, ma poi ognuno torna sulla propria strada. Ricciardi si lascia alle spalle il teatro San Carlo entrando nel vento furioso che spazza Napoli. E Napoli va in quello stesso vento che però non la spinge mai abbastanza oltre.

Luigi Pingitore

Il romanzo uscito nel 2006 per un piccole editore napoletano come Graus, ha avuto un locale ma fulmineo successo. Immediatamente adocchiato da un grande editore come Fandango, è stato ripubblicato per essere riproposto ad una platea più ampia. http://www.premionapoli.it/2007/dolore.html 

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L’ultimo parallelo di Filippo Tuena

Alla fine, ma nemmeno troppo alla fine, già quando ci sei in mezzo fra pony, cani, tende, marce, cartine e ghiaccio, tanto ghiaccio, solo ghiaccio e neve, non pensi più che sia solo un libro. Mentre lo leggi, è un’avventura, un’esperienza. Sei lì che spii. Come fossi in un diario intimo, dentro una confessione, la confessione di un’ombra che racconta.Racconta che hanno giacche a vento di cotone e scarponi di cuoio, sci di legno pesantissimi e fragili, stivali di pelle di foca, due o tre paia di calzettoni di lana grezza, due o tre maglioni o camicie o maglie di cotone, grandi guanti di pelle di foca e sotto ancora guanti di lana, e poi slitte cariche e ingombranti. Hanno una missione, un’impresa, un sogno, un’ambizione, che poi è un’ossessione, un incubo, una solitudine: raggiungere il luogo che non c’è, un’idea di luogo, l’idea di un luogo, una metafora geografica, il cuore del deserto di ghiaccio. Raggiungerlo e piantarci una bandiera. Arrivarci per primi e poi tornare. Anche tornare, vogliono, questa è l’ambizione.Non ci riescono. Muoiono. E passano alla storia. E la storia passa su di loro. Passando su di loro, inchiodandoli nel ghiaccio, li restituisce immortali. Si chiamano Scott, Wilson, Bowers, Oates, Evans. Dal gennaio 1911 al marzo 1912, insieme a un’altra quindicina di uomini si sono trasferiti a Sud, all’estremo Sud, in Antartide, per cercare di conquistare il Polo. Ma come si può conquistare il nulla? E infatti è il nulla a conquistare loro, se li prende e li trascina con sé.Robert Falcon Scott è l’inglese arrivato il mese dopo, il 17 gennaio 1912. Prima di lui, il 15 dicembre 1911, nel centro del nulla aveva piantato tenda e bandiera il norvegese Roald Amundsen, e gli aveva lasciato anche una lettera personale. Anche Scott lascia una lettera, ma è una Lettera al pubblico. La scrive nella tenda in cui muore di freddo e di fame. Sulla via del ritorno. Stremato dai ricordi e dagli errori.Di freddo, di fame e di stenti sono già morti i quattro compagni che hanno provato l’ultimo attacco al Polo, i prescelti, dopo che tutti gli altri, a poco a poco, in varie occasioni, sono stati rimandati al campo base: Edward Adrian Wilson, dolce sguardo misuratore, esperto di alambicchi e pozioni; Henry Bowers, capitano della Indian Navy, che sapeva fare quasi tutto; Lawrence Oates, capitano dei dragoni, zoppo, costruttore di pessimismo; Edgard Evans, marinaio, il gigante che sembrava indistruttibile. Gli altri compagni si sono salvati – se ci può essere salvezza, in fondo.La Lettera di Scott è il resoconto di un viaggio solitario durante il quale gli esploratori si perdettero. Queste parole, così come le stringate definizioni degli uomini della spedizione, così come una straordinaria poesia che ha forza epica e narrativa, le trovi nell’Ultimo parallelo di Filippo Tuena: non un romanzo, non un saggio, non un’indagine storica, ma un bel modo per non fare passare il tempo e viverlo, non spenderlo, ma guadagnarlo attraverso una storia emozionante e una scrittura alta.Quasi prendi gli occhi di colui che procede incappucciato avvolto in un mantello bruno, l’uomo in più, quello che gli esploratori, al limite insopportabile della fatica, credono di scorgere al proprio fianco, la loro ombra silenziosa. Che è poi la voce narrante di questa storia.
Quasi diventi gli occhi di Edward Atkinson, chirurgo di marina, che ha raggiunto i cadaveri degli amici e per primo ha letto i loro diari. Come lui, l’uomo della riserva, tu leggi per primo i loro diari attraverso l’Ultimo parallelo. Sono le parole e la storia dei vinti, ma non sconfitti, di quelli che stanno sempre sulla battigia fra oblio e memoria. Ma quando ci arrivi anche solo una volta, alle loro imprese, al loro destino, non li dimentichi più. È il miglior regalo che ti possa fare un libro: dare la struggente sensazione di essere scritto per te.

Gian Luca Favetto 

da Diario 

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mercoledì, 12 marzo 2008

ELEGGIAMO IL LIBRO DELL’ANNO 2007

libri-2007.JPG

LETTERATITUDINE BOOK AWARD  2008

la parodia di un premio letterario

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Vi propongo un gioco di gruppo finalizzato a eleggere il libro dell’anno 2007.

Ci state?

Pensate alle vostre letture riguardanti libri editi l’anno scorso. Qual è stato il migliore, a vostro avviso?

Mi riferisco a libri di qualunque genere: narrativa, saggistica, poesia. Non importa se di autori italiani o stranieri.

Potremmo organizzarci in questo modo.

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I FASE

Chiunque vorrà giocare dovrà indicare il titolo del libro e spiegare la motivazione della scelta. E su queste scelte potremmo discutere cercando di convincerci reciprocamente. La prima fase del gioco si concluderà mercoledì 5 marzo.

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II FASE

Da giovedì 6 marzo si procede alla votazione. I due libri più votati andranno al ballottaggio. Questa fase del gioco si concluderà mercoledì 12 marzo.

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III FASE

A partire da giovedì 13 marzo i partecipanti al gioco voteranno i due libri prescelti. Il libro più votato sarà il libro dell’anno 2007 per Letteratitudine. Questa terza fase si concluderà mercoledì 19 marzo, giorno in cui si proclamerà il libro vincitore.

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Ripeto, è solo un gioco… il cui successo, ovviamente, dipenderà dalla vostra partecipazione.

A proposito c’è un volontario o volontaria disposto(a) a tenere la contabilità della votazione?

Il post sarà aggiornato alla fine di ogni fase.

Mi raccomando, partecipate in massa.

E fate partecipare i vostri amici. I miei blogger friends potrebbero diffondere il comunicato nei loro blog.

Massimo Maugeri

P.s. Non è consentito votare per libri propri o pubblicati da amici

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6 marzo 2008 – FASE DUE – REGOLAMENTO
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Dalle ore 00.00 di giovedì 6 marzo alle ore 24.00 di mercoledì 12 marzo si vota per eleggere il libro dell’anno 2007, con le seguenti modalità:

la votazione ha luogo su base giornaliera; ogni partecipante può votare UNA SOLA VOLTA AL GIORNO per un qualunque libro ritenga meritevole in assoluto.

Si possono nominare libri usciti per la prima volta in Italia nel corso del 2007. Sono dunque escluse ristampe, riedizioni ecc. Sono invece compresi libri in precedenza usciti all’estero ma inediti in Italia.

Si può cambiare idea anche ogni giorno, volendo. Ovviamente non nell’ambito della medesima giornata. Non verranno presi in considerazione i voti anonimi.Vi chiediamo come cortesia di esprimere il voto (ed esclusivamente quello) IN MAIUSCOLO, in quanto ciò ci facilita notevolmente il compito.

Per votare si consiglia di procedere scrivendo nel modo seguente:

IN DATA X/3/08 TIZIO (indicare nome, cognome, o nickname) VOTA PER IL ROMANZO “XXX” DI CAIO EDITO DA (indicare la casa editrice).

Alla fine di ogni giornata verranno fatti i conteggi, parziali e totali, che verranno resi pubblici non appena possibile.

I voti delle differenti giornate si sommeranno alla fine della settimana per ricavarne i due titoli più gettonati, che andranno al ballottaggio nei tre giorni seguenti.

Restiamo a disposizione per chiarimenti.

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I DIARCHI-NOTAI GEA & CARLO

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III FASE

Per una serie di circostanze, che capirà chi avrà la pazienza di leggersi tutti i commenti del post, si è deciso di anticipare la chiusura del gioco alla mezzanotte di mercoledì 12 marzo 2008 procedendo alla votazione dei due libri ammessi al ballottaggio.

Intanto si attribuisce una menzione speciale ai libri di autori italiani che nel corso del gioco hanno ricevuto più voti: “Il senso del dolore” di Maurizio De Giovanni (Fandango), che ha potuto beneficiare di un vero e proprio plebiscito, e “L’ultimo parallelo” di Filippo Tuena (Rizzoli).

I due libri saranno oggetto di dibattito nell’ambito di un apposito post a loro dedicato. I due autori saranno invitati a partecipare.

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Vengono ammessi al ballottaggio i due libri di letteratura straniera pubblicati in Italia che nel corso del gioco hanno ricevuto più voti: “Everyman” di Philip Roth (Einaudi) e “La strada” di Cormac McCarthy (Einaudi).

I due libri potranno essere votati seguendo le regole della II FASE fino alla mezzanotte di mercoledì 12 marzo 2008. Terminata la fase di conteggio dei voti si procederà alla proclamazione del libro vincitore del gioco.

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La strada - Cormac McCarthy - copertinaAGGIORNAMENTO di giovedì 13 marzo 2008

Dopo una gara intensa e senza esclusione di colpi, in considerazione della relazione e del conteggio finale dei voti, opera dei diarchi/notai Gea e Carlo, io sottoscritto, Massimo Maugeri, comunico che il libro che si aggiudica la prima edizione di questo premio virtuale è il seguente…

VINCE IL LETTERATITUDINE BOOK AWARD 2008 (la parodia di un premio letterario)… lo scrittore americano CORMAC MCCARTHY con il romanzo LA STRADA” (EINAUDI)

(Massimo Maugeri)

Seguono i versi festosi, allegri e ironici della sostenitrice del vincitore, la scrittrice Simona Lo Iacono

Ma davvero pensavate
con fiducia tutta pia
che vi liberavate
dell’ostinata mia poesia?
Illusi! E proprio ora
che coronammo di vittoria
il capo, il piè, e il core cinto
d’un alloro mai così avvinto?
Abbiam detto senza posa:
“la strada è vittoriosa”,
e se alfin talun discorda
con umana voluntate
ratto è tratto in una corda
di umilissima pietate.
Ora null’altro – direi- resta
che ‘l sigillo in su la testa
e menar festeggiamenti
di gente sicula affollati
che da quei lidi altrimenti
saremmo invano approdati.
Ci vediamo con bandiere
o pennoni o con lumère
nell’augusta capitale
per potere festeggiare?
Tanto è d’uso ed è costume
- e di certo non perdona -
che chi perde sempre paga
e la cena si fa a Roma.
Orsù dunque con acume
non mancate alfin l’evento
me l’han detto in un orecchio:
pure Roth ne è contento.

Simona Lo Iacono

(vincitrice della competizione in versi parallela al gioco)

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martedì, 11 marzo 2008

I MIEI BLOG DA DIECI E LODE

Le splendide Laura Costantini e Loredana Falcone, coppia di ottime scrittrici, altresì note come Laura et Lory, hanno deciso di nominare Letteratitudine nell’ambito dell’iniziativa Blog da Dieci e Lode (BDL). Io le ringrazio di cuore e do seguito alle segnalazioni (devo indicare altri cinque blog) risparmiandovi la solita tiritera della serie “avrei voluto nominare ciascuno di voi” (anche se è così).

Seguono le mie cinque nomination con relative motivazioni. 

- LA POESIA E LO SPIRITO

http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/

Blog letterario di gruppo, di altissimo di livello, che seguo da tempo e con il quale è in corso una sorta di gemellaggio con Letteratitudine 

- BARBABLOG di Daria Bignardi

 http://bignardi.style.it/

Perché è il blog collegato a una delle pochissime trasmissioni televisive che seguo 

- IL RINGHIO DI IDEFIX di Luciano Comida

 http://lucianoidefix.typepad.com/

Perché è il ringhio più docile e simpatico di tutto il web 

- SCENE DIGITALI di Vittorio Zambardino

http://zambardino.blogautore.repubblica.it/

Perché mi aggiorna e fornisce sempre informazioni utili

- LE AZIENDE IN-VISIBILI di Marco Minghetti

 http://marcominghetti.nova100.ilsole24ore.com/

Perché è il blog di un grande e valente sperimentatore della scrittura 

Dalla regia mi dicono che ciascuno dei nominati, possibilmente, dovrebbe nominare altri cinque blog.

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Ne approfitto per organizzare uno dei soliti dibattiti.

Il tema è il potere dei blog. È vero, ne abbiamo già parlato… ma la rete e la blogosfera si evolvono. Molto velocemente.

Secondo voi si può davvero parlare di “potere”, quantomeno persuasivo, dei blog e della blogosfera? E in prospettiva futura? Qual è la vostra percezione?

Segue un articolo di Repubblica che cita il britannico The Observer.

(Massimo Maugeri)

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La blogmania non aveva mai raggiunto livelli così dilaganti. Oggi un blog può contribuire all’elezione di un presidente o aprire dibattiti infiniti sulle nostre piccole manie quotidiane, parlare delle vicissitudini del principe Harry in Afghanistan o della rivolta dei monaci birmani. Strumenti di potere, in molti casi, ai quali il britannico The Observer dedica una classifica mettendo in fila i cinquanta blog più “powerful” del momento. In testa c’è l’Huffington Post ma – sorpresa – fra i primi c’è anche quello di Beppe Grillo: nono posto per il “popular italian comedian and political commentator, long persona non grata on state Tv”.
Il quotidiano britannico si dedica a un reportage che prende in analisi i cinquanta blog (e bloggers) più influenti del mondo, e parte da un presupposto: la storia del blogging “politico” si divide in due periodi, pre-Huffington e post-Huffington. Com’è cambiato, cioè, il mondo dei bloggers da quando la milionaria mondana Arianna Huffington ha deciso di buttarsi nella mischia del Web, dedicando a un blog tempo, denaro e soprattutto i suoi contatti nel mondo dei media. Fino a quel momento, sostiene The Observer, i bloggers si consideravano un gruppo di crociati con la missione di attaccare le elite dell’establishment dai computer di casa, lavorandoci a notte fonda, magari in piagiama. Chiaro che la discesa in campo della Huffington, nel 2005, ha fatto storcere il naso ai puristi del blog, che in coro si sono detti: “Ma questa, chi si crede di essere?”. Di chi fosse, se ne sono accorti presto. Quando cioè nel giro di poco tempo l’Huffington Post è diventato uno dei più influenti e popolari giornali del Web, con la collaborazione di bloggers che in realtà sono commentatori di rango e varie celebrità. La milionaria ha sparigliato, insomma, dimostrando che certe vecchie regole, e rigidità, della comunità dei blogger potevano essere superate. In questo contesto trova posto anche il blog di Grillo, “fra i più visitati del mondo” scrive The Observer, del quale si citano caratteristiche salienti e leit motiv. “Il blog – spiega il giornale – invita satiricamente, ma neanche tanto, le popolazioni di Napoli e della Campania a dichiarare l’indipendenza, chiede alla Germania di fare guerra all’Italia per aiutarne la gente o informa sulla campagna, lanciata dal comico, a favore di una legge di iniziativa popolare che rimuova dalle loro funzioni tutti i parlamentari con condanne penali”. Una curiosità: nel capitolo dedicato al blog di Beppe Grillo, The Observer commette due errori: spiega che Grillo ha attribuito a “Mario Mastella”, “leader of the Popular-Udeur-Centre-Right-Party”, il nomignolo di “Psiconano”. Che invece è l’appellativo con cui Grillo definisce Silvio Berlusconi, e non Clemente (tanto meno “Mario”) Mastella. (9 marzo 2008)

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mercoledì, 5 marzo 2008

I CENT’ANNI DI ANNA MAGNANI

Se fosse ancora viva, tra un paio di giorni (il 7 marzo) Anna Magnani compirebbe cent’anni. Dedichiamo questo post a lei: una delle più grandi attrici italiane di tutti i tempi, un’icona del nostro cinema.

Nel post vi presenterò un libro edito da Minimum Fax e scritto da Giancarlo Governi, che uscirà per l’appunto giorno 7 marzo in occasione del centenario.

Giancarlo Governi, scrittore e giornalista (tra i fondatori del secondo canale Rai), è autore e presentatore di trasmissioni di successo come Supergulp!, Il pianeta Totò, Ritratti, Laurel & Hardy: due teste senza cervello, e ha pubblicato una ventina di libri tra biografie e romanzi.

Il titolo del libro è “Nannarella”(pag. 250, euro 16), il sottotitolo è “Il romanzo di Anna Magnani”.

Seguirà un scheda del libro, un brano estratto dal capitolo dedicato alla realizzazione del film “Roma città aperta” e un articolo sulla figura della Magnani pubblicato su La Stampa e firmato da Masolino D’Amico.

Troverete inoltre un paio di video: il primo offre alcune scene del film citato sopra, il secondo è un omaggio musicale per la Magnani che vede come protagonisti Celentano e la mia concittadina Carmen Consoli.

Giancarlo Governi parteciperà al dibattito e sarà a vostra disposizione per rispondere a domande e curiosità su Nannarella (libro e attrice).

Lancio un paio di domande per avviare il dibattito.

La Magnani ha avuto mai una vera erede?

A vostro avviso che cos’è che ha reso (e rende) questa attrice così speciale?

Ritenete che tra le attrici italiane di oggi ce ne sia qualcuna che, in un modo o nell’altro, faccia pensare alla Magnani?

(Massimo Maugeri)

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Perché dopo tanti anni si parla ancora di Anna Magnani? Perché è stata l’attrice simbolo del cinema italiano del dopoguerra, il cinema della ricostruzione e del riscatto, e una delle più grandi attrici di tutti i tempi, capace di comicità sfrenata e di profonda drammaticità. Di lei gli italiani, da più di cinquant’anni, hanno nella mente, negli occhi e nel cuore quella corsa disperata dietro il camion tedesco che metteva la parola fine al suo più grande personaggio, ma anche la sua risata ora irridente, ora canzonatoria, ora gioiosa: la risata di Nannarella.

Questa biografia – uscita con grande successo nel 1981, ora riveduta e integrata da nuovi documenti e testimonianze – narra i suoi amori drammatici, esclusivi, travolgenti; i suoi dolori laceranti, le sue gioie sfrenate, le sue improvvise voglie di giocare e il suo drammatico disincanto.

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Brano estratto dal cap. 5 : UN FILM PARTORITO CON DOLORE (Roma città aperta, n.d.r.)

(…)

Mancano i generi alimentari, mancano i trasporti (i romani viaggiano aggrappati a sgangherate camionette) e manca anche la pellicola. La gente della troupe viene sguinzagliata per Roma alla ricerca di qualche spezzone. Rossellini è costretto a risparmiare, molte scene vengono girate una sola volta e non vengono stampati i «giornalieri», non c’è possibilità di controllare ciò che è stato girato giorno per giorno. Il rischio è molto grosso, perché se una scena non è venuta bene non può essere più girata, anche perché non c’è la possibilità di ricostruire la situazione su cui si basa.A un certo punto cominciano a scarseggiare anche i soldi. Rossellini ha iniziato a girare perché sa, per esperienza, che spesso nel cinema l’importante è dare inizio alle riprese e poi, quasi sempre, tutto si aggiusta. Jone Tuzzi, che di Roma città aperta fu la segretaria di produzione, racconta: «Roberto era sempre attaccato al telefono della latteria vicina a cercare soldi. Ogni tanto finivano i soldi e si smetteva, poi ne arrivavano un po’ e si girava qualcosa… Una volta aveva cinquantamila lire e le aveva messe in banca, e poi aveva fatto quasi duecentomila lire di assegni… C’era ancora il coprifuoco.

Giravamo a via Rasella, dov’era successo quello che era successo, e dove eravamo vicinissimi a un casino, quello degli Avignonesi. Al primo piano di dove lavoravamo c’erano delle ragazze, delle ragazze un po’ passate, delle “segnorine” che andavano coi negri. Quando giravamo, anche la notte, veniva sempre gente, venivano questi militari che vedevano le luci, e venivano lì, perché volevano scopare, ci avevano presi per il casino! Allora gli indicavamo il casino vero e li mandavamo da queste ragazze. Bisogna dirlo, fino a quel momento Rossellini era considerato uno di serie b, per cui facendo il film io non l’ho fatto neanche con la stessa passione con cui lavoravo di solito, l’ho fatto perché non ci avevo altro da fare, ero convinta che il film non sarebbe mai finito. Tant’è vero che, prima che finisse, io lasciai la lavorazione per tornarmene con Soldati, che stava preparando un’altra cosa. Chi avrebbe immaginato il film che ne è venuto fuori?»

Lo scetticismo nei confronti del film di cui parla Jone Tuzzi lentamente comincia a serpeggiare in tutta la troupe, un po’ perché il film è fatto veramente in condizioni miserevoli e frammentarie che non permettono di prevedere il risultato finale; ma anche perché è veramente un film diverso, molto lontano da quelli che il cinema italiano ha prodotto prima e durante la guerra.

Molte scene, talvolta le più importanti, quelle che rimarranno impresse nella mente degli spettatori di tutto il mondo, nascono per caso. Come la scena dell’uccisione del personaggio interpretato da Anna Magnani: la donna che viene falciata dai mitra tedeschi mentre si getta all’inseguimento del camion che porta via il suo promesso sposo.

Sergio Amidei racconta che la scena, non prevista dal copione con questa dinamica, gli fu suggerita da un’ennesima lite – una delle ultime – fra Anna e Massimo Serato, che era andato a trovarla sul set.

«Una volta che avevamo girato una scena», racconta Amidei, «con la Magnani, Fabrizi e un tedesco, grazie a un prete trafficone che ci aveva fatto girare di notte, dietro la caserma dei carabinieri a Trastevere, la Magnani aveva litigato con Serato, che era il suo uomo di allora, e Serato era scappato di corsa, saltando su una camionetta della produzione che aveva fatto mettere subito in moto. La Magnani corse appresso a questa camionetta, gridando i peggiori insulti di cui era capace, frocio, magnaccio, roba del genere! È stato questo il complemento del primo episodio: la Magnani dietro il camion dei tedeschi che le portano via il suo uomo». È, comunque, una scena che Anna vive con una passione e una verità inedite nel cinema di tutti i tempi.

Anna, nonostante le difficoltà, si appassiona al film, lo capisce e sente che la farà uscire dal bozzettismo popolaresco e farà scoprire agli spettatori e al cinema che, sotto quella potentissima maschera comica, c’è una maschera drammatica altrettanto potente. E poi laguerra, perlomeno l’ultima parte, quella terribile dell’occupazione nazista, Anna l’ha vissuta con rabbioso orrore.

(…)

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Anna Magnani non ritirò l’Oscar per “La rosa tatuata”

Articolo di Masolino D’Amico, pubblicato su La Stampa del 23 febbraio 2008

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L’Oscar che Hollywood assegnò ad Anna Magnani nel 1955 per La rosa tatuata non fu solo l’omaggio a un’icona del neorealismo italiano, la cui rivelazione, subito dopo la guerra, era ancora recente, ma anche e soprattutto il tributo a un modo di recitare che solo allora il cinema americano si stava attrezzando per accogliere. Non che i seguaci della spontaneità fossero sconosciuti, ma gli attori del cosiddetto «Metodo» erano ancora confinati in teatro – il clamoroso esordio di Marlon Brando a Broadway è della fine degli Anni 40 – e il grande schermo fu lento a dar loro spazio. Questo, anche per ragioni tecniche. La presa diretta imponeva agli attori movimenti molto rigidi per non allontanarsi dai microfoni piazzati in alto (nel suo primo film Orson Welles inquadrò provocatoriamente i soffitti delle stanze, cosa che non si faceva mai), il che dava alle loro prestazioni, quasi sempre, un carattere freddo, solido, manierato. In Italia invece si doppiava, cosa allora enormemente meno costosa, quindi l’attore era libero di muoversi e anche di improvvisare: la voce veniva aggiunta in un secondo tempo, da lui o se necessario da un altro più bravo di lui. Questo era particolarmente congeniale ad Anna Magnani (di cui ricorre il 7 marzo il centenario della nascita, celebrato in questi giorni a Hollywood in occasione dell’Oscar), attrice nata per il cinema se mai altra ve ne fu, e non soltanto per ragioni di fotogenia – occhi enormi, carnagione pallida che la luce accarezzava – ma anche di temperamento. Artisticamente era una tigre o una leonessa, animali che dormono tutto il tempo ma poi di colpo si svegliano e sfoggiano riflessi micidiali; e l’attore di cinema passa tutto il tempo aspettando sul set quei 30, 40 secondi in cui è chiamato a dare il massimo. Sto parlando di indole, beninteso, non di mestiere (esistono anche i grandi attori solo di cinema), perché naturalmente
la Magnani veniva dal teatro, dove aveva fatto tutto, accademia e gavetta, e quindi la sua preparazione tecnica era impeccabile. È solo che non amava la routine, la monotonia del teatro: non a caso sulle scene diede il meglio di sé nelle esplosioni della rivista, dove negli «ad libitum» tenne testa perfino a un mostro come Totò. Spinta da Tennessee Williams, che venerava Anna e scrisse tre o quattro commedie pensando a lei senza mai riuscire a convincerla a recitarle dal vivo, Hollywood importò la diva ma non riuscì a annettersela, proprio per le ragioni caratteriali di cui sopra. Diventare una star del cinema americano avrebbe comportato una disciplina che Anna non si sentiva di affrontare: studiare l’inglese come si deve, prendere molti aerei, adeguarsi alle scelte della casa di produzione, e via dicendo. Non andò nemmeno a ritirare l’Oscar. Per fare simili violenze al suo carattere ci voleva un’ambizione che Anna non possedeva, a differenza di colei che avrebbe raccolto il testimone di ambasciatrice del nostro cinema negli Usa e alla quale proprio lei idealmente lo consegnò. Quando Carlo Ponti, che aveva comprato La ciociara di Moravia, la incalzava perché voleva produrlo per gli americani con lei come la madre e Sophia Loren nella parte della figlia, Anna finalmente (d’accordo, giocò anche il fatto che si sentiva ancora troppo giovane, perlomeno sullo schermo, per una figliolona grande e grossa come quella) gli disse: «Ma perché non fai fare la madre a Sophia, e le prendi una bambina vera?». Il resto, come si dice, è storia. Non che gli americani rinunciassero mai del tutto all’attrice. Due anni dopo l’Oscar, Anna ebbe un’altra nomination con Selvaggio è il vento di George Cukor, e in seguito ci fu un secondo Tennessee Williams, diretto da Sidney Lumet, e proprio con Marlon Brando: Pelle di serpente, in cui le due star ormai viziatissime e in cagnesco reciproco fecero a gara di capricci e manierismi, dando vita a un’antologia di imitazioni di loro stessi che fu vinta da quello che giocava in casa e che, finito il film, poco cavallerescamente dichiarò: «Ne farei un altro con lei solo a condizione di avere in mano un sasso e poterglielo dare in testa ogni tanto». Finirono così i faticosi spostamenti in piroscafo e treno per guadagnare i set di Los Angeles. Ma il cinema statunitense le affidò ancora almeno una parte di popolana italiana in un kolossal, Il mistero di Santa Vittoria, un film post-post neorealista all’americana su un immaginario paesino che si coalizza per impedire ai tedeschi occupanti di mettere le mani sul suo prezioso vino. Quando l’Oscar arrivò, Anna era ancora un grande e rispettato nome nel cinema italiano, ma in patria non aveva più molte occasioni – Bellissima di Visconti non era stato un successo, Rossellini era passato alla Bergman, il pubblico chiedeva intrattenimento e non drammi, e molta comicità, monopolio (ancora) degli interpreti maschili. E voleva le maggiorate. Alla notizia io e un mio amico quindicenne e cinéphile come me le mandammo un telegramma di congratulazioni che diceva tra l’altro: «Abbasso le bone». Lei ci rispose con un altro: «Grazie ragazzi, ma alla vostra età ci vogliono anche quelle».

Il video qui sopra (tratto dalla trasmissione di Rai Uno "La situazione di mia sorella non è buona") ha come protagonisti Carmen Consoli e Adriano Celentano. Insieme cantano "Anna Magnani", scritta dalla "cantantessa" per il nuovo disco del "molleggiato" su testo di Vincenzo Cerami.

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lunedì, 3 marzo 2008

LA DONNA CHE PARLAVA CON I MORTI di Remo Bassini

Il 12 settembre 2005 lessi questo articolo di Piero Colaprico pubblicato su Repubblica.it.

Vi riporto l’incipit.

Sarà stata un’intuizione. O forse sarà davvero che esiste una medium che ascolta con le proprie orecchie le voci dei morti. Ma non c’è dubbio che ieri mattina, molto presto, una donna di 55 anni abbia guidato un corteo di subacquei sulla riva del lago di Como e abbia detto: “E’ qui”. E là c’era davvero l’auto, inabissata, di una trentenne scomparsa da tempo. Un robot con telecamera ne ha letto la targa. La stessa telecamera ha inquadrato l’interno, ed ecco il giubbotto beige. Ogni dubbio è sparito e questa mattina si cercherà di recuperare quello che resta di Chiara Bariffi, inghiottita nel nulla nella notte tra il 30 novembre e il primo dicembre 2002.

Come ha fatto la donna, che si chiama Maria Rosa Busi, 55 anni, a dire: “E’ qui”?

Lei sostiene che gliel’ha detto la ragazza morta: “Voleva essere trovata”.

Ecco. Quando ho letto per la prima volta il titolo del nuovo romanzo di Remo Bassini, La donna che parlava con i morti (Newton Compton, Roma, 2007, pp. 238, euro 9,90) ho pensato subito a quell’articolo. E quella donna: Maria Rosa Busi.

La donna che parla con i morti.

Su Books and other sorrows di Francesca Mazzucato, Leandro Piantini – riferendosi a questo romanzo – scrive che Bassini “si slancia nel mondo tenebroso dell’occulto, del paranormale, dei morti che non sono morti del tutto ma ritornano, e con cui si può entrare in comunicazione”.

Su Queer (Liberazione), Franz Krauspenhaar ne parla così:

“Remo Bassini non è solo uno scrittore di valore, è anche un prodigio e una macchina – umanissima – da scrittura: è direttore de La Sesia, storico bisettimanale di Vercelli e provincia, collabora con Il Corriere Nazionale, commenta sul suo seguitissimo blog e ne La poesia e lo spirito,- il blog letterario multiautore fondato da Don Fabrizio Centofanti – scrive romanzi di buon successo. Per il suo ultimo libro, quarto di una fortunata serie, ha scelto un titolo d’inquietudine un pò anni 70, La donna che parlava con i morti, (…) un romanzo giallo di tinte (come da copertina) ma dai sapori popolari e al contempo raffinati. La storia inquietante di una donna e della provincia italiana profonda nella quale vive, una serie di personaggi difficilmente dimenticabili. E soprattutto la scrittura felice di Remo Bassini: a volte vorticosa, sempre funzionale e fatta spesso di pennellate veloci, precise, multistrato. Godibile ma anche capace di strapparti un replay, per ricatturare – felicemente- un momento, una sfumatura particolarmente interessante”.

Su Famiglia Cristiana Laura Bosio scrive di questo romanzo evidenziandone l’ambientazione nella provincia italiana: “La provincia ha una grande, sotterranea vitalità. Non è soltanto un luogo fisico: è un luogo dell’anima, la “provincia” che tutti noi ci portiamo dentro, con i nostri sogni, i nostri fallimenti, le nostre aspirazioni e le onde della nostra vita più segreta. E’ una provincia di risaie, di campagne umide e di piccole città, quella raccontata nel suo ultimo libro, “La donna che parlava con i morti” (Newton Compton), da Remo Bassini: romanziere civile, ruvido e dolce, capace di illuminare con la sua scrittura precisa, veloce, a tratti vorticosa, un’Italia minore e insieme “esemplare”, dove il passato ramifica le sue radici inquiete in un presente disorientato. E con il passato fanno i conti tutti i personaggi del suo romanzo, a partire dalla protagonista, Anna Antichi: esistenze spezzate da lutti familiari, tormentate da rimpianti e rimorsi, e turbate da un fantasma insanguinato che torna a pretendere attenzione e affetto. Un giallo, a voler assecondare sempre più labili definizioni di genere, ma soprattutto una coinvolgente storia di morte e amore che ricuce gli strappi della memoria per ritrovare i fili di un possibile futuro.

Vi propongo un dibattito su due linee. La prima è in riferimento all’articolo di Colaprico di cui sopra, la seconda è più strettamente legata al romanzo di Bassini.

Così vi domando:

Cosa pensate dei cosiddetti medium? Credete a chi dice di parlare con i morti? Avete aneddoti da raccontare, in proposito?

E poi… Remo Bassini è ospite di questo post ed è pronto a dialogare con voi.

Seguono degli estratti gentilmente concessi dall’autore e dalla Newton Compton.

(Massimo Maugeri)

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Incipit

Si parlava poco di lei. Quando se ne parlava i vecchi dicevano, ma solo in certe occasioni, banchetti funebri, domeniche nebbiose trascorse tra amici e parenti a mangiar castagne, dicevano, questi vecchi, che era «come una santa». Santa Nunzia del bosco. O dei castagni.
Aveva poco più di vent’anni quando lasciò il Palazzone per andare a vivere come in clausura nel cascinale in fondo alla valle, costruito in una sola estate dai muratori venuti da lontano con muli e cavalli da tiro, in fretta, e un capomastro che urlava, e gente armata su cavalli e mule, a controllare.

E di lei per anni e anni si disse, ma si seppe poco. Si seppe, ma si disse poco del suo peccato: aveva tradito il marito, tre volte più vecchio di lei, per un giovane, bel fattore che poi fu trovato morto, dissero per disgrazia, in un torrente.

La pena per Nunzia la decisero, con la benedizione del marito disonorato, i suoi due cognati; clausura a vita, controllata a vista da due contadine, carceriere spietate in cambio di un piatto di minestra, vino buono, un letto per dormire e per altri piaceri, chissà.

* * *

Seconda parte

Lo scrittore maledetto

Aveva il mondo in tasca e non lo sapeva. Ma quella notte di marzo, piovigginosa, che sapeva di glicini in fiore, Mario ebbe la percezione, chiara, quando imboccò il piccolo viale alberato che puntellava la sua bella villa, che il suo mondo non era più quello di prima.
La villa era l’ultima. Ancora trecento metri. Sembrava più vicina, però. Perché illuminata, da una luce che non sembrava vera. Una luce, irreale, implacabile, che annuncia il dolore più grande, il peggio del peggio del peggio. Erano le quattro del mattino ma c’era gente attorno a quella luce. Che abbagliava, quasi. E un’ambulanza e due pattuglie dei carabinieri, anche.

Si mise a correre, lui, come un pazzo. Non aveva preso l’auto, uscendo, dopo cena.
Il corpicino di Giuliano era già stato avvolto in un lenzuolo. Corse e si fermò quando intravide, circondata dai vicini, Margherita, seduta sui gradini, con la bocca spalancata e le labbra che sembravano paralizzate da una smorfia eterna, nel tentativo disperato di immettere aria nei polmoni incapaci a respirare. Il corpo impazzisce e non dà retta più quando un figlio piccolo muore, suicida.

L’aveva trovato lei. Impiccato con un lenzuolo, nella sua stanzetta. Sul letto l’ultimo libro che aveva scritto suo papà. Con la dedica: “A Giuliano, che capisce il suo papà”.
Mentre correva, Mario, per un attimo, ma poi cacciò quel pensiero, ripensò e rivide una moneta: per terra, che non aveva raccolto, ore prima, quando era uscito. Non era nella sua tasca, quella moneta.

Avrebbe dovuto: se lui non si fosse dimenticato chi era.

Nell’altra tasca, invece, ballonzolava il cellulare. Con un messaggio, che non lesse mai Mario: di Chiara, l’ultima fiamma: “Sei il mio stallone, mi hai fatto vedere le stelle stanotte”.

Vedeva altro, lui, ora. Che chiudevano il portellone dell’ambulanza. Con rabbia.

* * *

In mezzo a queste due maledizioni c’è Anna Antichi, la protagonista

* * *

«Allora, signorina Anna Antichi, lo mettiamo su questo ufficio di investigazioni private?»
«Mi scusi, invece di dire stronzate mi dica piuttosto chi le ha dato il numero del mio cellulare».

Non le sto dicendo stronzate, le sto facendo una proposta…»

«Non sono molto intenzionata a farmi scopare da lei, mi dice chi le ha dato il numero o…».

«E la smetta, chi crede che me l’abbia dato? Fabrizio no?».

Il quasi urlo di quell’omone alto, coi capelli bianco-neve, lo sentì anche una donnina che stava uscendo dal camposanto e che si girò a guardarli. Anna si accese una sigaretta.

«Mi dà fastidio, può spegnere, ce la fa a resistere dieci minuti? Sia gentile».

«Negativo. Se lo scordi, senta mi sono rotta, dica quello che deve dirmi».

«Mi ascolti. Ho un enfisema, spenga quella sigaretta per favore, glielo sto domandando per favore, la prego».

«E non si decidono a mandarla in pensione?», disse Anna lanciando lontano la sigaretta, con l’arte dell’indice che fa pressione sul pollice.

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