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Archivio di maggio 2008

martedì, 27 maggio 2008

L’ITALIA TRA LA PAURA DELLO STRANIERO E GLI SGUARDI PERPLESSI DALL’ESTERO

audrey-hepburn-2.JPGSul Domenicale de Il Sole24Ore del 25 maggio sono apparsi due articoli molto interessanti e, almeno a mio avviso, complementari.
Il primo porta la firma di Remo Bodei ed è incentrato sulla paura dell’altro, dello straniero, del diverso.
“Da tempo immemorabile”, scrive Bodei, “tutte le comunità umane cercano di mantenere la loro coesione nello spazio e nel tempo mediante la separazione dei propri componenti dagli “altri”. Più una società è debole e insicura, più la formazione del “noi” esige rigorosi meccanismi d’esclusione e, generalmente, d’attribuzione al noi di un qualche primato, reale e immaginario, e, per converso, di degradazione, sospetto e timore riguardo all’altro, al diverso. (…) La direzione della paura è storicamente cambiata. Nel passato, anche recente, era soprattutto il potere statale a incuterla (…). Secondo un detto anglosassone, un Paese è democratico quando chi viene alla vostra porta di primo mattino è il lattaio e non la polizia politica.”
Certo, la situazione oggi, da noi, è diversa. La paura pare provenire più – appunto -dall’altro, dallo “straniero”.
Vi giro le stesse domande che pone Bodei nell’articolo.
Che succede se chi vi entra in casa non è né il lattaio, né il poliziotto, ma un rapinatore che, oltre a impossessarsi dei vostri beni, attenta anche alla vostra vita?
Se vostra figlia viene stuprata a una fermata della metropolitana?

(Urge – è evidente – sicurezza).
Ma quale sicurezza?
Quali misure prendere per evitare una militarizzazione della società, una sua chiusura che la esponga a una sorta di malattia del ricambio, che semini il sospetto, che si pieghi a strumentalizzazioni politiche e che delegittimi l’accoglienza dell’altro, vedendovi solo un potenziale nemico?
Belle domande, vero?
Voi che ne pensate?
L’altro articolo, quello di Alessandro Melazzini, affronta un altro problema (per certi versi speculare a quello evidenziato da Bodei). Come ci vedono dagli altri paesi? (Se vi ricordate ne avevamo già discusso, in parte, in questo post nato a seguito della pubblicazione del noto articolo sul New York Times che etichettava gli italiani come un popolo di depressi).
berlusconi-spiegel.jpg«Questa è la vecchia Italia. Ammirata e guardata con stupore. Soprattutto derisa» scuote la testa lo Spiegel «una terra di commedianti e imbroglioni, di amabili birbanti, ingannatori ed eterni bambini».
Secondo gli occhi dei tedeschi, come scrive Melazzini, l’Italia che emerge è quella che vede “Napoli sommersa dai rifiuti, avanzi di fascismo impenitente à la Ciarrapico in Parlamento, spigliate soubrette innalzate a Ministro, tutto il potere all’incomprensibile Berlusconi (quello dell’indimenticata battuta europea sui kapò), Roma che attacca i campi nomadi, Verona con un sindaco leghista che sposta il ritratto di Napolitano per fare spazio all’effige di un capo di Stato straniero: il Papa.”

Poi, però, vengono riportati pareri positivi (vi invito a leggere l’articolo per intero). Vengono citati “i fatti” di Duisburg e riportate le opinioni di Woller e Ulrich («Sono tutti problemi europei» sostiene lo storico Hans Woller, «basti pensare allo scandalo della Siemens o alla criminalità giovanile in Francia. Marchiare a fuoco lo Stivale è sbagliato: tutta l’Europa a questo riguardo è italiana»).

Da qui si evince che la società tedesca, al di là delle polemiche, sa perfettamente distinguere tra pochi e violenti mafiosi e molti italiani onesti.

Tuttavia, al di là di come ci vedono in Germania, l’immagine dell’Italia all’estero pare un po’… offuscata.

E allora…

Che accade agli italiani? E cosa ne è del loro fascino?

Ma poi… siamo sicuri che il marcio è solo di marca italiana?
Che dire allora degli articoli sulla corruzione, la criminalità e il razzismo di cui si legge in questi giorni sulla stampa tedesca?

Ecco… mi piacerebbe discuterne con voi.
Intanto ne approfitto per ringraziare Remo Bodei e Alessandro Melazzini, nonché gli amici della redazione del Domenicale de Il Sole24Ore che mi hanno concesso la possibilità di riprodurre gli articoli citati.
Li trovate qui di seguito. Riportati integralmente.
Massimo Maugeri
——————-

SOTTO IL REGNO DELLA PAURA di Remo Bodei

Nel 1538 si festeggiava a Città del Messico la pace nella lontana Europa tra Carlo V e Francesco I. Racconta il cronista Bernal Diaz Castillo che all’occasione – nella piazza dove sorgeva il Templo Mayor e dove si stava innalzando al suo fianco la cattedrale – venne allestito uno strano spettacolo. Furono portati migliaia d’alberi, per simulare una selva, immediatamente popolata da villosi selvaggi. Questo ambiente avrebbe dovuto rappresentare il nuovo regno conquistato appena quindici anni prima. Colpisce e meraviglia una doppia incongruità: che nella metropoli circondata (secondo la testimonianza di Cortéz) da quaranta torri alte quasi cento metri, come la Giralda di Siviglia, nel centro di un tessuto urbano monumentale impressionante, si riducessero gli Indios a selvaggi. Ma fa specie, soprattutto, che uomini dal corpo glabro e liscio venissero travestiti ricoprendoli di pellicce. Come era possibile che la realtà venisse alterata sino al punto di negare l’evidenza percettiva? Perché si proiettavano su una nuova esperienza vecchi schemi e pregiudizi, non solo attribuendo il monopolio della civiltà ai conquistatori, ma rappresentando i presunti selvaggi secondo il modello dell’anacoreta villoso – come Sant’Onofrio – che si faceva crescere i capelli nel deserto? La cecità nei confronti delle altre culture è in questo caso evidente ed è mossa dal desiderio e dalla volontà di abbassare gli altri a un livello di primitività che rasenta la vita animale e, nello stesso tempo, di esorcizzare la paura nei loro confronti.
Da tempo immemorabile tutte le comunità umane cercano di mantenere la loro coesione nello spazio e nel tempo mediante la separazione dei propri componenti dagli “altri”. Più una società è debole e insicura, più la formazione del “noi” esige rigorosi meccanismi d’esclusione e, generalmente, d’attribuzione al noi di un qualche primato, reale e immaginario, e, per converso, di degradazione, sospetto e timore riguardo all’altro, al diverso. Eppure, per non soffocare nel proprio isolamento, ogni comunità (specie se evoluta) prevede meccanismi opposti e complementari di inclusione degli altri. In ciascuna permane comunque una costitutiva ambiguità, che può venire efficacemente illustrata a partire da una etimologia. Nel “Vocabolario delle istituzioni indoeuropee” Émile Benveniste ha mostrato come la parola latina “hostis” indichi simultaneamente l’”ospite” e il “nemico”, uniti dalla comune relazione di scambio e di reciprocità: il primo scambia, in positivo, dei doni; il secondo, in negativo, la morte. Lo straniero è così, contemporaneamente, un ponte verso l’alterità e una minaccia per la compattezza della popolazione, un antidoto alla sterile chiusura in se stessi e un condensato di paure.
L’incertezza del vivere deriva oggi, appunto, dalla percezione diffusa che lo straniero costituisce un potenziale nemico piuttosto che un possibile ospite (oltre che una persona che, con il suo lavoro, contribuisce spesso al nostro benessere). Se paura e speranza, nella loro polarità, sono entrambe alimentate dal bisogno di sfuggire ai pericoli del presente e all’incertezza del futuro, viene da chiedersi se non vi sia una proporzione inversa tra il diminuire della speranza in un futuro migliore e la crescita di angosce plurime o senza nome che si catalizzano sullo straniero. I problemi suscitati dall’inserzione impetuosa in altri contesti di milioni di persone di cultura diversa, spinte a emigrare dalla povertà o dalle guerre, certamente non mancano. Pericolosa è tuttavia la generalizzazione di casi singoli (anche se frequenti), il confondere gli individui con un gruppo etnico o religioso o il proiettare su di loro stereotipi o formule ideologiche di comodo.
In un mondo che si restringe e le cui parti divengono interdipendenti non c’è oggi alcuna sensata alternativa all’integrazione, la quale non coincide né con l’assimilazione, né con la creazione di ghetti (e neppure con il cosiddetto buonismo, un alibi per non assumere concrete responsabilità, o con la xenofobia, un acido che corrode la civile convivenza). L’integrazione rappresenta piuttosto un lungo e paziente processo di annodamento delle differenze all’interno di un tessuto sociale che le renda non solo compatibili, ma, in prospettiva, feconde.
La direzione della paura è storicamente cambiata. Nel passato, anche recente, era soprattutto il potere statale a incuterla. Nella filosofia politica veniva messa alla base dei regimi dispotici: dal “phobos”, attribuito dai Greci agli Orientali, i cui sovrani trattano i sudditi come schiavi, sino alla “crainte” che Montesquieu riscontrava al suo tempo dominante nell’Impero Ottomano o in Persia (con l’aiuto della tecnica i totalitarismi del Novecento l’hanno poi resa onnipresente). In maniera più realistica, Hobbes la considerava invece caratteristica imprescindibile di ogni Stato, allorché viene esercitata sia nell’ambito della legge o dell’arbitrio sovrano, sia in quello dell’anarchia, dove si trasforma in terrore o in panico.
Secondo un detto anglosassone, un Paese è democratico quando chi viene alla vostra porta di primo mattino è il lattaio e non la polizia politica. Tale regime è quindi definito dell’assenza o della riduzione della paura, che si manifesta anche nel privilegio accordato all’accettazione del diverso rispetto alla sua espulsione. Le democrazie sviluppano così i semi gettati dal cristianesimo. L’episodio evangelico del Buon Samaritano mostra, infatti, come si venga talvolta aiutati più dagli stranieri che dai propri concittadini. In questo senso, il cristianesimo rappresenta il tentativo più elaborato di abbattere le barriere etniche e statali che separano il “noi” dagli “altri”, il cittadino dallo straniero (il cristiano, del resto, si considera “peregrinus”, “straniero” a questo mondo e “pellegrino” o viandante di passaggio in esso).
Ma che succede se chi vi entra in casa non è né il lattaio, né il poliziotto, ma un rapinatore che, oltre a impossessarsi dei vostri beni, attenta anche alla vostra vita? Se vostra figlia viene stuprata a una fermata della metropolitana? La paura non viene allora più percepita come proveniente dal potere statale, ma, al contrario, da una criminalità che le “forze dell’ordine” stentano a contrastare. L’insicurezza rende gli individui e l’opinione pubblica meno razionali, creando uno stato d’animo di allerta o di psicosi collettiva, che fa di ogni erba un fascio, non tiene conto delle esperienze analoghe nel passato e crea dei capri espiatori.
È evidente che se l’esistenza delle persone fosse resa meno precaria, meno esposta agli imprevisti, la loro tendenza a comportamenti ragionevoli si rafforzerebbe spontaneamente. La sicurezza è dunque indispensabile per restringere l’area della paura. Ma quale sicurezza? Quali misure prendere per evitare una militarizzazione della società, una sua chiusura che la esponga a una sorta di malattia del ricambio, che semini il sospetto, che si pieghi a strumentalizzazioni politiche e che delegittimi l’accoglienza dell’altro, vedendovi solo un potenziale nemico?
Remo Bodei

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ACHTUNG, COMMEDIA ALL’ITALIANA di Alessandro Melazzini

«Che accade agli italiani? E cosa ne è del loro fascino?». Simili dubbi serpeggiano da qualche anno tra i media tedeschi. Ma a leggere certe scorate analisi degli ultimi giorni c’è da credere che il nostro Paese appaia ormai agli occhi tedeschi davvero senza più alcuno slancio. Napoli sommersa dai rifiuti, avanzi di fascismo impenitente à la Ciarrapico in Parlamento, spigliate soubrette innalzate a Ministro, tutto il potere all’incomprensibile Berlusconi (quello dell’indimenticata battuta europea sui kapò), Roma che attacca i campi nomadi, Verona con un sindaco leghista che sposta il ritratto di Napolitano per fare spazio all’effige di un capo di Stato straniero: il Papa. «Questa è la vecchia Italia. Ammirata e guardata con stupore. Soprattutto derisa» scuote la testa lo Spiegel «una terra di commedianti e imbroglioni, di amabili birbanti, ingannatori ed eterni bambini». Bambini pericolosi però, come hanno mostrato l’anno scorso i fatti di Duisburg, quando la “Polizei” s’è resa conto che ormai intere zone del territorio tedesco sono in mano alla Camorra, soprattutto a Est. Se fino ad allora la criminalità organizzata proveniente dal Sud veniva osservata come un pittoresco fenomeno esterno, adesso i detective federali hanno fatto ammenda della loro superficialità e prestano molta più attenzione agli avvertimenti dei loro colleghi italiani. Eppure, anziché puntare il dito indiscriminatamente contro il Belpaese, o risfoderare la famigerata copertina dello Spiegel anni Settanta con la pistola sul piatto di pasta, proprio in quel Ferragosto di sangue la società tedesca ha dimostrato di saper scindere perfettamente tra pericolosi elementi criminali e l’onestà dei suoi 600.000 concittadini di origine italiana. Ci ha guadagnato Roberto Saviano, il cui strabiliante Gomorra con un “timing” perfetto è uscito qui in Germania dieci giorni dopo la strage. A visitare i locali italiani poi non risulta che sia venuta meno la passione con cui i tedeschi, dai massimi vertici della politica berlinese alla famigliola di Würzburg, si dedicano alla gastronomia mediterranea. Forse perché, come si scrisse durante la foga dei Mondiali di calcio, «la più grande innovazione italiana è arrivata in Germania ormai vent’anni fa e si chiama: rucola»? Un’accusa, quella dello scadimento nostrano, rinnovata la settimana scorsa dal pubblicista Gustav Seibt sulle pagine della Süddeutsche Zeitung, secondo cui ormai nessuno si fila più la cultura italiana e tutt’al più al Nord giungono solo i vergognosi spettacoli di quei senatori giubilanti a mortadella per la caduta del precedente governo. Sull’indecorosa scena offerta da certi nostri politici difficile obiettare, ma visto l’interesse con cui si traducono Camilleri, Carofiglio e Calasso, si studia Agamben, s’intervista Claudio Magris e al cinema si guarda Mein Bruder ist ein Einzelkind (l’italianissimo Mio fratello è figlio unico di Daniele Lucchetti), è lecito avanzare qualche dubbio sulla totale disfatta della nostra cultura oltralpe. Insomma, l’«estraniazione strisciante tra Italia e Germania» – per usare il titolo di un volume contemporaneamente in uscita presso Il Mulino e la bavarese Oldenbourg Verlag – sta davvero avendo luogo? «Diversamente da Gian Enrico Rusconi» risponde lo storico Hans Woller, curatore dell’opera insieme al collega italiano, «a mio parere le relazioni tra i due paesi sono quelle di una distesa normalità. E sebbene politicamente ci siano state frizioni e allontanamenti, non bisogna dimenticare le ottime relazioni economiche e sociali in corso. Sempre più studenti tedeschi imparano l’italiano, sempre più studenti italiani vengono in Germania. Pensiamo poi a Eco, Muti, Abbado, Renzo Piano: tutti artisti che hanno conquistato celebrità mondiale! Dal primo cappuccino all’ultima grappa l’Italia qui ci accompagna tutto il giorno». Che dire allora degli articoli sulla corruzione, la criminalità e il razzismo di cui si legge in questi giorni sulla stampa tedesca? «Sono tutti problemi europei» risponde Woller, «basti pensare allo scandalo della Siemens o alla criminalità giovanile in Francia. Marchiare a fuoco lo Stivale è sbagliato: tutta l’Europa a questo riguardo è italiana». Secondo Stefan Ulrich, corrispondente da Roma della Süddeutsche Zeitung, occorre distinguere tra politica e società. «Effettivamente in passato tra Italia e Germania c’erano molti più contatti a livello politico. Ai cristiano-democratici tedeschi corrispondeva la DC, il PCI trovava un punto di riferimento nella SPD. C’erano grandi affinità dovute alla comune esperienza di fascismo e nazismo prima, alla ricostruzione democratica poi». Ma oggi il panorama è drasticamente cambiato. «In Germania non esiste un partito come Forza Italia, né un politico come Berlusconi. E la Lega Nord non è paragonabile alla CSU bavarese. Le due classi politiche hanno perso i loro rispettivi punti di riferimento». Detto questo, la fascinazione turistica verso Sud permane ininterrotta. Non a caso Ulrich nel suo divertente Quattro Stagioni, appena uscito in Germania, racconta che uno dei compiti più duri arrivato a Roma è stato quello di contenere lo sciame di connazionali desideroso di fargli visita. «Non sono così vanitoso da pensare che volessero venire tutti a trovare me. Il fatto è che l’Italia è una delle mete turistiche più attraenti del mondo. Quanto alla cultura, anche in Germania film come Gomorra o Il Divo suscitano interesse, l’attività della Scala viene seguita con attenzione e i grandi eventi di Roma e Venezia non passano certo inosservati. Non è possibile affermare che l’Italia sia culturalmente inaridita». Quindi i limoni italiani fioriscono ancora? Non c’è dubbio, eppure sarebbe esiziale, avverte Ulrich, sottovalutare le tensioni a livello politico: «la storia c’insegna che anche quando i popoli si comprendono bene, se la politica crea rigetto si può velocemente andare incontro a situazioni assai conflittuali».
Alessandro Melazzini ( alessandro at melazzini.com)

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sabato, 24 maggio 2008

RECENSIONI INCROCIATE n. 4: Valter Binaghi e Franz Krauspenhaar

Nuova puntata delle “recensioni incrociate”.

I due autori/recensori invitati sono Valter Binaghi e Franz Krauspenhaar.

I libri oggetto delle recensioni sono Era mio padre di Franz Krauspenhaar e Devoti a Babele di Valter Binaghi.

Due libri diversi che ci vengono qui (reciprocamente) presentati da due scrittori che si conoscono bene e si stimano.

Franz ci racconta la storia di suo padre: un tedesco nato in Italia negli anni Venti, combattente della Wehrmacht, l’armata di Hitler, durante la seconda guerra mondiale.

Valter, nel suo nuovo romanzo, ci presenta uno personaggio molto peculiare: Arvo. Chi è Arvo? Lo scopriremo insieme. 

Vi invito a dialogare con entrambi gli autori (che parteciperanno al dibattito).

Massimo Maugeri

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ERA MIO PADRE di Franz Krauspenhaar, Fazi Editore, 2008, pagg. 281, euro 16,50  di Valter Binaghi 

Franz Krauspenhaar, scrittore milanesissimo eppure di origine tedesca, al suo quarto romanzo. Ma sarà poi un romanzo, un libro interamente dedicato alla memoria del padre dell’autore (“un uomo ormai maturo che ha nel suo cuore ancora questo lutto scosceso che passa per il suo sterno, e talvolta prova ancora dolore”)? Sì che lo è. Ed è il romanzo di ogni uomo, se è vero come è stato detto che la vita spirituale è una lunga, inesausta ricerca del Padre. Non che qui si stia raccontando di uno qualunque: Krauspenhaar senior, combattente tedesco nella seconda guerra mondiale, imprenditore in Italia, ostinatamente onesto come solo certi tedeschi sanno essere, morto in circostanze drammatiche che hanno sconvolto la vita dei familiari superstiti, è in realtà soprattutto per noi un grande personaggio, le cui memorie s’intrecciano a quelle del figlio in uno di quei dialoghi tra vivi e morti che furono impossibili nella vita ma che l’immaginario della vera letteratura restituisce, all’autore e attraverso lui a tutti noi, ché abbiamo nell’Ade i nostri fantasmi senza pace. Krauspenhaar lo sa bene, sa che in questa inestinguibile smania di dipanare le nostre origini, di seguire la polla vitale che è scorsa dal genitore a noi, di riconoscerne la continuità e insieme affermare rabbiosamente la differenza, sta la cifra simbolica di ogni ricerca: “Sì, questo libro è un salvataggio estremo. Un mio bisogno che spero attiri altri bisognosi”. Qui si tratta di evocazione, niente di meno, e di una scrittura che torna ad ammettere la propria origine sciamanica: “scrivo con la matita dell’improvvisatore, ho gli occhi bendati, vago per la notte della scrittura”. E senza tanti fronzoli, prende il lettore per la collottola e lo attira a sé: “Voglio che ti prendi una vacanza dall’intrattenimento, dalle storielle sordide di morti ammazzati di carta, dallo stile ben temperato, dalle passioni inventate di sana pianta, in interni borghesi indecenti di sozzura e pulizie di primavera. …Il romanzo è diventato un genere di conforto, non d’indagine. Io qui sperimento me stesso, io sono il topo da laboratorio che corre drogato per la gabbia, io sono il topo di fiume che viene colpito dai Flobert dei ragazzacci sporchi di dura terra”.

Come si scrive un libro del genere, con questa spudorata fragilità (lo sai, Franz, c’è chi dirà che non sai più cosa inventarti, che ti spogli in pubblico: ma io dirò a questi che ci vuole grande cuore per un grande canto, la falsa modestia è solo dei mediocri), come riescono a convivere la tenerezza del figlio e la freddezza del cronista e creditore? “Papà… non credeva più di tanto nel mio talento. Credo avesse ragione, perchè allora di talento ne avevo davvero poco o punto. Quella dose di talento che detengo come un piccolo premio alla carriera l’ho acquistata dal centro di me stesso dopo la sua morte. E’ allora che ho cominciato a fare un po’ più sul serio, con la scrittura. Come se mi fossi liberato di un testimone scomodo: lui”.

Una cosa è certa: Franz Krauspenhaar ci è riuscito, regalandoci un romanzo che non può entrare in uno dei cassetti del merchandising letterario, e pertanto vi consiglio di ritenere per quello che è: un viaggio lucido e febbricitante nell’anima, a spiare lo stato nascente dell’emozione che si fa offerta di canto, della parola che evoca le fiere del dolore per renderle mansuete con la cetra di Orfeo, un’allegoria pagana dei dialoghi nell’Ade, che si apre alla cristiana rivelazione dell’amore che giunge al perdono: l’unica salvezza possibile. “Io ora cammino con te, mio perduto amore. Ti porto alle giostre ma sei troppo piccolo per salirci. Hai caldo, sudi tutto. Sei stanco. Ti prendo in braccio, bambino mio. Ti guardo negli occhi. Mi sorridi. Ti sorrido. Io oggi, papà piccolo, papà bimbo mai visto… io oggi vorrei tanto che tu fossi mio figlio”.

Valter Binaghi 

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DEVOTI A BABELE di Valter Binaghi, Perdisa Editore, 2008, pagg. 122, euro 12 

di Franz Krauspenhaar 

Chi è Arvo, il protagonista del nuovo romanzo di Valter Binaghi, Devoti a Babele, Perdisa Editore, pagg. 122 euro 12,00? Un ragazzo del ‘77, un sopravvissuto al piombo che cadeva sugli omonimi anni, che noi ragazzi nati all’inizio dei Sessanta o ancor meglio verso la fine dei Cinquanta, come il nostro autore, abbiamo assaggiato a lingua protesa, come cani masochisti affamati di quei tempi duri.

Arvo è un piccolo borghese della grande metropoli del nord, una Milano dove alle undici di sera c’è il coprifuoco e per il resto della giornata, se vai in centro, vi trovi più mezzi della celere che taxi, soprattutto nella molto armeggiata Piazza San Babila dei ragazzi nazi dalle scarpe a punta. E’ un ragazzo del suo tempo che tiene in camera i poster dei Rolling Stones e dei Police (siamo all’inizio degli Ottanta e il rock, con la morte di John Bonham dei Led Zeppelin, è per molti ufficialmente morto assieme alla sua epoca) e per il resto si tira in vena appena può la droga dei tempi, l’eroina della botta e via, la “roba” che non ti fa pensare, la droga di chi vuol rallentare le proprie pene e pure il resto fino a rallentarsi anche gli anni di vita; non certo la polvere bianca d’oggi, la cocaina divenuta per tutti i cani e tutti i porci, che ti ingloba ancor di più nel sistema dell’arrampicata mobile e liquida e ti fa accelerare la corsa verso il successo, fino al bang a testa sotto nel solito baratro, all’ultimo capitolo della tua tragicommedia d’un uomo ridicolo. Arvo lo seguiamo attraverso i suoi buchi, le sue colazioni a base di caffelatte e krumiri rubate alla povera madre vedova, lo seguiamo nei suoi accampamenti a Piazza Vetra alla ricerca della maledettissima roba in cambio di stereo “zanzati”. Nella seconda parte, il ragazzo finisce finalmente in una comunità terapeutica, Castalia. Se prima, all’inizio degli ‘80, siamo alla fine di un’epoca fotografabile tra il multicolor della psichedelia di massa e il nero buco di una Vermicino dove si consuma una morte in diretta del tutto simile a quella che troviamo in uno dei  capolavori “neri” di Billy Wilder, L’asso nella manica (1951) e si prospetta a larghe falde di spot ramazzotteschi fighettismo e berlusconismo strafottuto da bere, deglutire e -perdio- vomitare, ora siamo arrivati alla fine di questo decennio buggerone e  corto, in una succursale fantastica ma anche parecchio brianzola di quel farabuttificio globalizzato che è Dianetics. A seguire il Programma, del quale Arvo diventa sostenitore e in seguito, uscito dal megatraforo della dipendenza, istruttore. Un Programma di normalizzazione ma anche di risucchio dell’anima, cosicchè è vero che si esce dalla schiavitù della droga, ma pagando il prezzo di un abbandono totale della propria indipendenza psicologica, della propria effettiva libertà di scegliere. La terza parte, trattata intelligentemente e abilmente da Binaghi con altro passo stilistico, perchè i tempi lo richiedono per via di un’accelerazione del ritmo della comunicazione, trova Arvo, nel frattempo sposato e inquadrato nella vita piccolo borghese di quasi tutti, alle prese con una nuova, potentissima dipendenza: quella della Rete, delle ossessioni psicodrammatiche del virtuale. Una caduta, la sua, dal virtuale dell’endovena cosmica al virtuale della comunicazione illusoriamente totale, con Arvo – personaggio  simbolico di una generazione di figli dei figli della guerra che in una sorta di effetto rebound hanno sconfessato gli sforzi e il sudore e le lacrime dei loro padri – che chiede amore ed erotismo via blog a una sconosciuta che sempre tale rimarrà, ectoplasma danzante nel liquido fintamente amniotico di una blogosfera megafono di semplici, banali sospiri di desiderio. Sarà la famiglia, banalmente ma realisticamente, a raddrizzare la via del protagonista verso una grigia ma solida salvezza dall’ultima dipendenza.

Un romanzo compatto e molto ben riuscito, dalla scrittura – tipica di quest’autore – che s’imbeve di una religiosità affannata e del senso di colpa di un’intera generazione che si è fin troppo stordita con cose che meritavano certamente meno attenzione, e nessuna passione; così che i libri di Binaghi, sempre più lontani, passo dopo passo, cioè libro dopo libro, da qualsiasi “genere” codificato, diventano ben strutturati apologhi di una generazione cardine e certamente più interessante di altre, nella quale si trova successo pieno in una società opposta a quella vagheggiata in anni ben distanti, e al contempo continue ricadute nel bisogno di stordimento, nella vecchia droga, sul filo di un istinto di autodistruzione divenuto purtroppo di massa, in certo senso seminato a rattrappite mani alle nuove generazioni.

Franz Krauspenhaar 

Pubblicato in RECENSIONI INCROCIATE   108 commenti »

lunedì, 19 maggio 2008

SI PUO’ LEGGERE UN LIBRO SENZA SAPERE A QUALE GENERE APPARTIENE?

Marco Minghetti mi segnala un post pubblicato sul suo blog.

L’argomento è intrigante e credo che i termini della discussione possano essere racchiusi nelle seguenti domande:

Si può leggere bene un libro senza sapere a quale genere appartiene?

Il lettore ideale (badate, non quello qualunque) deve preoccuparsi dei generi letterari?

Ha ragione Alaistar Fowler quando sostiene che “il genere è molto più un uccello che la sua gabbia”?

Vi invito a partecipare alla discussione dopo aver letto il testo di Minghetti e le opinioni contrapposte di Alberto Manguel e Umberto Eco. E poi a rispondere alle domande proposte dallo stesso Minghetti:

A che genere appartiene Alice nel Paese delle Meraviglie, a quello dei libri per l’infanzia?

E gli Esercizi di stile di Queneau è un mero manuale di retorica?

E i romanzi di Chandler sono riducibili al canone del giallo “hard boiled”?

E le Città Invisibili di Calvino sono dei semplici racconti brevi?

A voi.

Massimo Maugeri

——-

di Marco Minghetti

Che cosa è 1984 ? Un romanzo di fantascienza? Una (anti)utopia? Una storia d’amore? Un racconto sado-maso? La perfetta rappresentazione della vita reale che si svolge oggi in Nazioni come la Birmania? Questa domanda mi frullava in capo mentre ieri sera ascoltavo Hitchens alla Scala presentare il suo ultimo libro La vittoria di Orwell.

Mi si era accesa una sinapsi con quanto avevo ascoltato un paio di giorni prima alla presentazione di un altro libro, Al tavolo del cappellaio matto di Alberto Manguel. In quel caso il relatore era Umberto Eco che, in particolare, si era soffermato su uno dei capitoli del libro, quello dedicato al lettore ideale (ripreso anche in larga parte sul Domenicale de Il Sole 24-ore). Si tratta in effetti di una delle parti più deliziose del testo, di stampo chiaramente borgesiano, in cui si trovano affermazioni del tipo: ” Il lettore ideale non ricostruisce una storia: la ricrea”; “Bisogna essere inventori per leggere bene”; “Il lettore ideale sovverte il testo. Il lettore ideale non dà per scontata la parola dello scrittore”; “Il lettore ideale è un lettore cumulativo: ogni volta che legge un libro aggiunge un nuovo strato di memoria alla narrazione”; “Ogni lettore ideale è un lettore associativo. Legge come se tutti i libri fossero opera di un unico autore eterno e fecondo”.

Eco leggeva e commentava, concordando con l’autore su queste idee, mentre io pensavo a come Manguel avesse perfettamente descritto il lettore ideale del nostro romanzo Le Aziende InVisibili. Ma poi Eco è giunto ad una frase, che ha ritenuto di contestare: “Il lettore ideale non si preoccupa dei generi letterari”. Sbagliatissimo, ha argomentato Eco: è impossibile leggere bene un libro senza sapere a quale genere appartiene. Un giallo è un giallo, una storia d’amore è una storia d’amore, un racconto epico è un racconto epico: se non si conoscono le “regole del gioco” cui ogni testo è sottoposto, le regole cioè del genere cui è stato iscritto dal suo autore, non si può comprenderlo a fondo.

A mio parere Eco qui si inganna: e mi sono permesso di esprimere pubblicamente questa opinione. Prendiamo l’Amleto. Se ci poniamo dal punto di vista di Eco dovremmo leggerlo come se fosse una tragedia, ed un particolare genere di tragedia: la “tragedia di vendetta”, un genere molto praticato ai tempi di Shakespeare. Tuttavia molti critici vedono in Hamlet la prima “detective story” dell’età moderna (Amleto in effetti investiga sulla morte del padre e vuole scoprire l’assassino); Harold Bloom ritiene che Shakespeare (a differenza del Kafka di Borges, che crea i suoi predecessori) abbia plasmato tutti i suoi successori ed in particolare Freud e dunque  vede in Amleto una sorta di dramma psicanalitico; ma naturalmente Amleto è anche una ghost story per eccellenza, è una storia d’amore, è un racconto filosofico. Tom Stoppard ha persino trasformato genialmente la tragedia in una commedia (Rosenkrantz e Guilderstern sono morti).

In sintesi: a me sembra che non solo i grandi libri non possano essere ridotti ad un unico genere letterario, ma che, al contrario, potenzialmente li contengano tutti. Potremmo forse azzardare una sorta di formula: più generi letterari scopriamo in un testo, più è probabile che siamo di fronte ad un capolavoro.

Alcune domande di prova: A che genere appartiene Alice nel Paese delle Meraviglie, a quello dei libri per l’infanzia? E gli Esercizi di stile di Queneau è un mero manuale di retorica? E i romanzi di Chandler sono riducibili al canone del giallo “hard boiled”? E le Città Invisibili di Calvino sono dei semplici racconti brevi?

Dal che si potrebbe forse evincere un’ultima conclusione: ogni grande libro “crea” il suo proprio genere letterario, diventando oggetto di emulazione per schiere di scrittori successivi.

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EXTRAPOST

1. Ringrazio di cuore Valerio Evangelisti per aver pubblicato su Carmilla on line il mio racconto “Mind games”. Vi invito a leggerlo (cliccando qui) e a commentarlo, se vi va, su La camera accanto (4° appuntamento).

Ringrazio Valerio anche per le belle parole spese su “Identità distorte” e su Letteratitudine.

2. Avete un noir o un giallo nel cassetto? Vi ricordo Il Fante di picche, iniziativa segnalata da Enrico Gregori.

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lunedì, 19 maggio 2008

LA CAMERA ACCANTO 4° appuntamento

Il titolo di questo post non si riferisce a un romanzo erotico o a un film spinto.

La camera accanto è la stanza, per l’appunto, posta di fianco a quella ufficiale (letteratitudine).

Se letteratitudine è una sorta di caffè letterario virtuale, la camera accanto è un luogo dove si possono affrontare argomenti di diverso genere. Si può parlare di letteratura – certo -, di libri; ma anche di cinema, sport, televisione, politica, gossip, ecc.

Insomma, si può parlare di tutto ciò che volete. Ciascuno di voi può sentirsi libero di avviare un dibattito o, più semplicemente, scambiare quattro chiacchiere.

Anche qui, però, vige la nota avvertenza (colonna di sinistra del blog); per cui vi chiedo di rispettare persone e opinioni. Vi chiedo, inoltre, la cortesia di evitare litigi e toni eccessivamente scurrili.

(Massimo Maugeri)

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domenica, 11 maggio 2008

IL TRENO DELL’ULTIMA NOTTE. Incontro con Dacia Maraini

Ho il piacere di presentarvi il nuovo libro di Dacia Mariani: “Il treno dell’ultima notte” (Rizzoli, 2008, pagg. 432, euro 19).

Un romanzo incentrato sugli abissi dei totalitarismi del Novecento. Un viaggio che va dalla Shoah a Budapest, nel 1956: il periodo della rivoluzione. Un viaggio che diventa ricerca.

Quella che segue è una scheda del libro.

Amara Sironi ha 26 anni ed è incaricata dal suo giornale di una serie di corrispondenze dall’Est europeo. Ma un’altra ragione la spinge verso la Polonia di Auschwitz: l’amico con cui ha trascorso l’infanzia, Emanuele Orenstein, figlio di un ebreo austriaco trapiantato a Firenze, è stato deportato nel campo di Lodz e poi è scomparso. Nel corso del viaggio Amara conosce Hans, figlio di un’ebrea ungherese uccisa a Treblinka, col quale va alla ricerca di Emanuele di cui le resta solo un quaderno di lettere a lei indirizzate, che ha ricevuto in un pacco anonimo dopo la fine della guerra. C’è qualche speranza che Emanuele sia sopravvissuto? E che uomo sarà diventato il ragazzo ribelle e pieno di vita che si costruiva le ali per volare come gli uccelli?

Insieme Amara ed Hans vanno ad Auschwitz, sostano a Cracovia e a Vienna e arrivano a Budapest proprio quando scoppia la rivolta popolare contro l’oppressione dei russi. E mentre rivive, attraverso le lettere di Emanuele, gli ultimi giorni disperati nel ghetto di Lodz, Amara vede abbattersi sull’Ungheria il pugno spietato del totalitarismo sovietico. Il treno per Budapest fonde l’avventura umana di una giovane donna con una riflessione sulle tragedie del Novecento: sono i destini esemplari dei personaggi a dare il senso della catastrofe e dell’abisso, e insieme della speranza di un mondo diverso.

Dacia Maraini in queste pagine rende il suo omaggio, di donna libera e impegnata, al secolo appena trascorso, toccando i nodi centrali, i nervi ancora scoperti di una società che ha sperimentato l’orrore della civiltà e che lentamente prova a risollevarsi. Lo fa regalandoci un personaggio femminile ricco di umanità e verità, una donna capace di superare le paure e le convenzioni per vivere in prima persona, toccare con mano, la tragedia che si consuma in Europa e di cui nessuno è ancora consapevole. Una donna carica di un coraggio che solo il desiderio di conoscenza può ispirare, che diventa simbolo di una passione tutta umana per la ricerca. A queste donne Dacia Maraini ci ha abituati in questi anni, ispirando valori che trovano nell’espressione completa della femminilità tutta la loro carica dirompente. Lo fa, anche in questo romanzo, con la classe e la precisione di una prosa perfetta, armoniosa che ricorda i grandi classici della letteratura mondiale.

Un libro che offre una grande storia. Un libro che apre uno squarcio enorme sulle tragedie del Novecento.

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Credo che la Maraini, al di là delle indiscusse capacità di scrittrice, abbia pieno titolo di raccontare quelle tragedie anche per via delle proprie esperienze di vita.

Riporto questo passaggio della biografia di Dacia: trascorse la sua infanzia in Giappone dove la sua famiglia si stabilì dal 1939 al 1946. Lì, dal 1943 al 1946, la famiglia fu internata in un campo di concentramento giapponese, dove patì estrema fame.

Ho contattato Dacia Maraini, la quale – salvo imprevisti - sarà disponibile a rispondere alle vostre domande.

Per saperne di più sul libro vi invito a vedere la video intervista rilasciata a Daria Bignardi nel corso del programma Le Invasioni Barbariche (cliccate qui).

Cliccando qui avrete la possibilità di leggere il primo capitolo del romanzo.

Per il resto vi propongo queste domande per una discussione di carattere generale

Fino a che punto le grandi tragedie del Novecento sono state metabolizzate?

Che segni tangibili hanno lasciato su quest’epoca super-veloce che si è catapulta sui binari del nuovo millennio?

Che rischi ci sono che le grandi tragedie del Novecento possano riproporsi nel futuro più o meno immediato?

Fino a che punto la Storia riesce a imparare da se stessa?

A voi.

Massimo Maugeri

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Dacia Maraini

Il treno dell’ultima notte

La Scala

cartonato con costa telata

14 x 21,5 cm / pp. 432

19,00 / aprile 2008

 

Ogni treno in fondo viaggia verso il regno dei trapassati.

Emanuele è un bambino ribelle e pieno di vita che vuole costruirsi un paio di ali per volare come gli uccelli. Emanuele ha sempre addosso un odore sottile di piedi sudati e ginocchia scortecciate, l’“odore dell’allegria”. Emanuele si arrampica sui ciliegi e si butta a capofitto in bicicletta giù per strade sterrate. Ma tutto ciò che resta di lui è un pugno di lettere, e un quaderno nascosto in un muro nel ghetto di Lodz. Per ritrovare le sue tracce, Amara, l’inseparabile amica d’infanzia, attraversa l’Europa del 1956 su un treno che si ferma a ogni stazione, ha i sedili decorati con centrini fatti a mano e puzza di capra bollita e sapone al permanganato. Amara visita sgomenta ciò che resta del girone infernale di Auschwitz-Birkenau, percorre le strade di Vienna alla ricerca di sopravvissuti, giunge a Budapest mentre scoppia la rivolta degli ungheresi, e trema con loro quando i colpi dei carri armati russi sventrano i palazzi. Nella sua avventura, e nei destini degli uomini e delle donne con cui si intreccia la sua vita, si rivela il senso della catastrofe e dell’abisso in cui è precipitato il Novecento, e insieme la speranza incoercibile di un mondo diverso.

 

 

Dacia Maraini è autrice di romanzi, racconti, opere teatrali, poesie, narrazioni autobiografiche e saggi, editi da Rizzoli e tradotti in venti paesi. Nel 1990 ha vinto il Premio Campiello con La lunga vita di Marianna Ucrìa e nel 1999 il Premio Strega con Buio. Scrive sul “Corriere della Sera”. Nel 2006 è uscito nei tascabili Firme Oro il volume dei Romanzi che comprende Memorie di una ladra (1973), Isolina (1985), La lunga vita di Marianna Ucrìa (1990), Bagheria (1993), Voci (1994), Dolce per sé (1997) e Colomba (2004).

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giovedì, 8 maggio 2008

Fiera del libro di Torino 2008: tra polemiche e bellezza

Si apre la nuova edizione della Fiera Internazionale del libro di Torino (dall’8 al 12 maggio 2008)… tra non poche polemiche per la verità (ne avevamo già parlato qui).

Tra voi c’è qualcuno che avrà la possibilità di andare?

Mi piacerebbe che questo post venisse usato come contenitore dove:

- scrivere le impressioni personali sulla fiera

- inserire articoli o stralci di articoli, ovviamente sulla fiera, pescati in rete (che potremmo commentare).

Inoltre vi segnalo questo post dell’anno scorso.

Buona Fiera del libro di Torino a chi potrà andarci!

Gli altri, tra cui io, la osserveremo da qui.

Segue la nota diramata dall’ufficio stampa della fiera sul tema dell’edizione 2008, che è il seguente: ci salverà la bellezza (?)

Emergono una serie di domande sulle quali potremmo discutere anche noi:

Che cosa può rispondere oggi ai canoni della Bellezza, in letteratura come nelle arti, nella musica, nelle scienze?

Che cosa si richiede a un’opera?

Dove passano i confini del bello e del brutto?

Come sono cambiati nei secoli i criteri estetici, e quali sono i loro rapporti con l’etica?

E quali i rapporti della bellezza con gli oggetti industriali prodotti su larga scala?

La bellezza è lo splendore del vero, diceva Platone: è un anelito alla speciale «verità» umana e poetica dell’arte, che può risultare anche scomoda e difficile, perché implica sempre la tensione insoddisfatta della ricerca. Ma se vedere è un atto creativo, come è stato detto, che cosa siamo capaci di «vedere», oggi?

Quale potrebbe essere oggi il canone del romanzo?

A voi…

Massimo Maugeri

IL TEMA DELL’EDIZIONE 2008:

CI SALVERÀ LA BELLEZZA

La bellezza salverà il mondo? La domanda che un personaggio dell’Idiota pone al principe Myskin, protagonista del romanzo di Dostoevskij implica una sfida: misurarsi con la Bellezza, riuscire a metabolizzarla significa avviare dentro di noi una metamorfosi spirituale, il tentativo di raggiungere una sfera superiore di conoscenza e di autocostruzione.

La Bellezza, motivo conduttore dell’edizione 2008, è uno sviluppo di quello del 2007, i Confini. Abbiamo più che mai bisogno di ridefinire territori, disegnare nuove mappe, di capire il confine che separa il bello dal brutto, il buono dal cattivo, perché l’estetica è strettamente connessa all’etica.

La Bellezza sfugge alla definizioni (Picasso respingeva con fastidio la sola domanda), ma quando ci sorprende la riconosciamo immediatamente, con emozione e gratitudine. Perché gli uomini hanno sempre sentito la necessità di dare un senso alla loro esistenza attraverso qualcosa che li superi, quel «più» che solo la letteratura, l’arte, la musica, la filosofia possono esprimere.

Che cosa può rispondere oggi ai canoni della Bellezza, in letteratura come nelle arti, nella musica, nelle scienze? Che cosa si richiede a un’opera? Dove passano i confini del bello e del brutto? Come sono cambiati nei secoli i criteri estetici, e quali sono i loro rapporti con l’etica? E quali i rapporti della bellezza con gli oggetti industriali prodotti su larga scala? La bellezza è lo splendore del vero, diceva Platone: è un anelito alla speciale «verità» umana e poetica dell’arte, che può risultare anche scomoda e difficile, perché implica sempre la tensione insoddisfatta della ricerca. Ma se vedere è un atto creativo, come è stato detto, che cosa siamo capaci di «vedere», oggi?

A queste domande risponde una fitta serie di «lezioni magistrali», di conversazioni e di dialoghi che vedranno impegnati filosofi come Remo Bodei (l’uomo di fronte agli spettacoli naturali), Sergio Givone (la difficoltà di pensare e vivere la Bellezza, oggi), Giovanni Reale (che prende a paradigma una tavola di Grünewald), antichisti come Luciano Canfora e lo storico dell’arte Paul Zanker in dialogo con Franco La Cecla, antropologo e architetto; maestri dell’architettura come Mario Botta, scrittori come Raffaele La Capria (l’arte moderna si configura come un abuso di potere?), Erri De Luca e Domenico Starnone («La parola, la tagliola»), l’etologo Danilo Mainardi. Vittorio Sgarbi dimostrerà che il bello non coincide affatto con quel che piace. Silvia Ronchey e Giuseppe Scaraffia si interrogheranno sull’uso improprio della Bellezza. Verterà sulle bellezze della lettura la conversazione dello scrittore argentino Alberto Manguel. Quale potrebbe essere oggi il canone del romanzo? Ne discuteranno Alfonso Berardinelli, Andrea Cortellessa, Giorgio Ficara, Filippo La Porta, con Paolo Mauri.

Valerio Massimo Manfredi racconterà i canoni della Bellezza del mondo greco-romano, mentre Khaled Fouad Allam, il filosofo algerino Shaker Laibi e l’antropologa tunisina Lilia Zaouali ci parleranno della Bellezza nell’arte e nella letteratura islamica.

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lunedì, 5 maggio 2008

LETTERATURA E OBESITA’: KADDISH di Francesca Mazzucato

La letteratura, soprattutto la letteratura recente, ha affrontato più volte il problema dell’anoressia. Un po’ meno quello dell’obesità.

Eppure l’obesità è un fattore di rischio per la salute. E quando diviene eccessiva può essere causa o aggravante di malattie: tra cui disfunzioni cardiocircolatorie, diabete, problemi alle articolazioni, sindrome da apnea notturna.

Recenti studi hanno dimostrato l’esistenza di predisposizioni genetiche. Ma le cause “vere” sono più che note: alimentazione disordinata (e eccessiva) e stili di vita sbagliati.

Negli Stati Uniti il “problema” si percepisce un po’ più che da noi. Nei giorni scorsi ho appreso, per esempio, che grazie a una decisione della corte federale, per i fast food di New York sarà obbligatorio informare i propri clienti sull’apporto nutrizionale di ogni singolo piatto. Un decisione che non stupisce più di tanto, giacché l’obesità colpisce oltre il 30 per cento degli americani.

Nel 2015, secondo uno studio pubblicato in agosto dalla John Hopkins University, le persone sovrappeso saliranno al 75 per cento, mentre gli obesi rappresenteranno il 41 per cento della popolazione statunitense.

Queste le previsioni negli Stati Uniti.

E da noi?

Certo, il regno della pastasciutta e della pizza è un po’ meno “grasso” di quello delle patatine fritte e degli hot dog. Ma la sensazione è che ci stiamo uniformando anche in questo.

La letteratura recente, scrivevo in premessa, non credo abbia affrontato adeguatamente la questione dell’obesità. Lo ha fatto, invece, Francesca Mazzucato (mia collega e “dirimpettaia” di blog d’autore del Gruppo L’Espresso) con la pubblicazione del suo nuovo romanzo per i tipi della giovane casa editrice romana Azimut.

Il romanzo s’intitola Kaddish profano per il corpo perduto (Azimut, 2008, euro 12,50, pagg. 200). Un romanzo che affronta – appunto –  il tema dell’obesità (la protagonista è una scrittrice obesa), che parla di Budapest e che è in parte ispirato dal premio Nobel per la letteratura Imre Kertész.

Di seguito avrete la possibilità di leggere una nota sul libro e le prime pagine, gentilmente offerte dall’autrice e dalla casa editrice Azimut (che ringrazio).

Organizzerei questo post nel modo seguente. Chiedendovi di:

1. Interagire con Francesca Mazzucato, che parteciperà al dibattito (ponetele domande sul libro)

2. Discutere della piaga dell’obesità (cosa ne pensate? Siete d’accordo sul fatto che qui in Italia non si presta la dovuta attenzione a questo problema?)

3. Budapest (la conoscete? Ci siete mai stati? Provate a verificare se le vostre impressioni su questa città combaciano con quelle della Mazzucato e della protagonista del libro.)

4. Imre Kertész, premio Nobel per la letteratura 2002 (lo conoscete? Lo avete mai letto?)

A voi…

Massimo Maugeri


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Questo romanzo parla di un corpo.
Il corpo di una donna obesa. Di una scrittrice obesa.
Ogni corpo ha una storia e ha una voce. Ma, raramente, hanno una voce i corpi obesi.
E gli scrittori grassi, poi, sono impresentabili.

Con implacabile precisione, con una scrittura potente, Francesca Mazzucato ci porta fra le pieghe di questo corpo perduto, debordante, di questa carne socialmente inaccettabile.
Ci porta fra i suoi desideri, i bisogni, le memorie, gli amanti, e un’assenza mai dimenticata.
Questo romanzo parla anche di Budapest: città sinfonica, lisergica, forse irreale, città dove la protagonista compie il suo necessario viaggio per capirsi meglio, per avvicinarsi ad antiche ferite, a tremendi e sepolti dolori.

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Budapest è una musica tzigana, una messinscena, un fondale da teatro. Budapest è una città lisergica e cangiante, è splendore e grumi di rabbia. Budapest brilla, ipnotizza e trabocca di incontri, di visi, di storie. Soprattutto quelle. Lei è una scrittrice, una donna realizzata, benestante, occidentale, colta, che ha vissuto con furia, passione e fretta. Troppa fretta. A Budapest ci è andata per caso con un ex amante rimastole amico negli anni. È partita in un agosto troppo caldo per restare in città.A Budapest le accade qualcosa. A Budapest lei si ferma. Si ferma sul serio, capisce, si arrabbia. A Budapest fa i conti con cose che aveva lasciato in sospeso, e soprattutto col suo corpo.

È obesa. Lei è una donna obesa di mezza età. La vita le sta scorrendo come sabbia fra le dita, il tempo si accorcia. Lo capisce lì, lo dice, lo ripete, lo urla. Il suo corpo adesso pretende di essere visto, la mistificazione è finita. Il riflesso sulle vetrine la imbarazza, il riflesso è quello di un corpo spento, ingombrante, un corpo perduto, grasso, diverso, infelice.Ha 42 anni e per tanto tempo ha portato maschere e offerto la sua carne. Si è sentita protetta da quei chili, da quella pancia, da quel seno enorme che ha usato per sedurre e catturare uomini. Uno dietro l’’altro, l’’aiutavano il tempo di una brutta notte in un motel. Adesso riconosce quel disagio remoto che arriva dall’’infanzia e da ricordi sofferenti e rassegnati. Una donna, un corpo grasso e diverso, una città traboccante di nuove e vecchie seduzioni, un possibile amore che torna, o che definitivamente va via.Con un debito e un omaggio al premio Nobel Imre Kertész, questo romanzo è un kaddish (una delle più antiche preghiere ebraiche) carnale e dolente, un indecente ed eccitante viaggio fra luoghi, seduzioni, amori e antichi dolori seppelliti con violenza nel corpo, tanto da permetterne la perdita. Chissà dove, chissà come.

Francesca Mazzucato
scrittrice, giornalista free-lance e traduttrice, è editor e consulente di case editrici.
Ha scritto per il teatro e tiene corsi di scrittura creativa.
Ha pubblicato tra gli altri: Hot Line (Einaudi 1996), Relazioni scandalosamente pure (Marsilio 1998), Amore a Marsiglia (Marsilio 1999), Diario di una blogger (Marsilio 2003), Enigma veneziano (Borelli 2004), L’’Anarchiste (Aliberti 2005), Confessioni d’’un alcolista (Giraldi 2007), Magnificat Marsigliese (Creativa 2007).
Ha vinto il premio Fiuggi. Fa parte del Who’’s Who Italy 2007.
È tradotta in Francia, Germania, Grecia e Spagna.
Sulla sua opera sono state scritte alcune tesi di laurea.

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Le prime pagine del romanzo

 

ORLO

Le mie labbra danzano un twist inutile e ripetitivo, bisbigliano e ritmano frasi, incastrano ritornelli, parole dette così, per riempire.

Parlare a vanvera serve da doppiaggio per i movimenti sgraziati della mia ondeggiante impalcatura. Verso me stessa vivo un’odissea di avversione.

Mattine in cui maledico la mia immagine prima ancora di lavarmi il viso. Giorni così.

Cosa resta a parte il disagio di questo corpo trascurato e straniero?

Poco. Sdraiata sul tappeto guardo le stelle adesive che formano una costellazione sul soffitto. Mi abbandono a emozioni depravate e inquiete.

Mi rimane questa esagerazione fisica che pare cemento. Vertigine di ciccia. Piramide di adipe smagliato. Vergognosa, patetica fisionomia in controluce che tutto ha perduto tranne vaghi filamenti, un brandello in più del niente.

I rumori del nulla, dentro. Che angosciano, stridono, segnano; per questo parlo da sola, avanti la tiritera. Sono un enorme involucro che contiene un cratere. Negli interni ripeto parole infantili, catechesi filastrocche rimbrotti, rime e quant’altro per celare la mia paura, il terrore di percepire la pena degli occhi che guardano il grasso debordante, che osservano i fianchi e il doppio mento, che pesano e provano schifo: ripeto, a memoria, a manovella, storpio mezze frasi, le rimo, le lancio come stelle filanti. Affogata di grasso, soffocata di inerzia e paura, non bella, non leggera. Parlo per confondere e divagare e lascio che la mia vita sia tutta testa, tutta cervello, tutta mistificazione e finzione, seppellisco il cuore, magari in giardino.

Vorrei urlare il mio disagio che sale come un calore inatteso e poi invade la casa, le cose, le mie tracce, le impronte che lascio, le azioni maldestre composte di gesti inadatti, voraci e sconvolti: urlando svuoterei di ben poco questo contenitore che si riempie adagio preparandosi a debordare, a raggiungere l’orlo. Ci sono sull’orlo? Ci sono vicino, arrampicata a cavalcioni pronta per la discesa? Non lo so.

La mia vita? Una questione gonfia e sbalorditiva. Una cosa tipo schiuma. Realtà capovolta, crepe, sfilacciature. Cerco di riparare, di aggiustare, di mimare una soddisfazione che non esiste, una felicità che non conosco. Posso farlo. I grassi devono: irritano, disturbano ma all’occorrenza mostrano buona volontà, imbottiscono, agiscono.

Tirano fuori l’energia possente del loro BMI esagerato. È nemesi e dovere. FINE

* * *

Rileggo.

Un altro racconto per mistificare e scompaginare le cose. Se fossi capace di mettermi a nudo, se fossi in grado di non nascondermi dietro la sintassi artefatta, se sapessi rendere la verità con le parole, dovrei raccontare della prima volta che li vidi. Quei dadi di carne rosea e gigante. Ero in bagno, lasciai scivolare la schiuma e mi feci avvolgere dall’accappatoio morbido e profumato: ogni cosa era coperta dal vapore, non volevo guardare ma lo feci. Sapevo che non erano come quelli delle mie amiche, come quelli intravisti sui giornali. Piccoli e uniformi puntini rosei piacevoli al tatto e allo sguardo. Capezzoli perfetti. O almeno giusti, proporzionati. Nel mio caso tutto era molle e cadente, tutto era striato e deforme e loro erano smisurate forme con escrescenze laterali. Anormali, troppo evidenti.

Non ce la faccio a scriverlo, ci provo da tanto, ho detto e non detto, e questa volta mi sono nascosta come al solito. Ripasso la scritta fine in grassetto. Allego il racconto alla mail e invio alla rivista letteraria che lo attende. Mi hanno commissionato una storia da far uscire il prossimo mese e da scrivere in tempi rapidi. Pagata pochissimo. Il solito niente che non riesce più a diventare lusinga, a farmi sentire appagata, a proiettarmi scenari futuri di riconoscimenti creativi. Tutta carta destinata a logorarsi e ingiallire. Polvere e ancora polvere.

Me ne frego.

* * *

Scrivere e tradurre sono attività ingrate e in fondo ingiuste.

Siamo tarlati e maldestri noi che lo facciamo, che l’abbiamo creduta una sfida possibile, spendibile ed esplorabile. Che continuiamo a farlo nella fatica e nell’oblio dei più, tranne quei pochi fortunati che aggrappano ribalte di prestigio e le mantengono.

Avremmo dovuto correre altrove fino a far esplodere i polmoni e ridimensionare le speranze, noi che con pervicacia scriviamo dopo anni di parole che hanno conosciuto fortune migliori, fortune mediocri e sfortune neanche troppo tragiche.

Siamo incerti e squilibrati. Lo squilibrio è evidente nel decidere comunque, al di là di ogni coraggio e ragionevolezza, di ricominciare ogni mattina oppure ogni notte, di chinarsi a riempire pagine e far stare in piedi le storie (quando non sono racconti inediti dove si utilizzano lemmi in equilibrio rapsodico per stupire i redattori più giovani di una rivista che paga poco e di scarsa diffusione).

Siamo, noi che scriviamo, va detto, malati. Lo siamo tutti in qualche forma, se la patologia non si trova sui manuali, occorrerà segnalarlo anche se una diagnosi precoce non porterebbe nessun vantaggio. Alle nostre paure improvvise, all’insicurezza e allo sbandamento siamo affezionati, attaccati, quasi incollati.

Non abbandoneremmo i sintomi, il malessere e la fatica per nessuna terapia di provata efficacia, consapevoli che curerebbe e cancellerebbe anche la manifestazione del nostro problema, la scrittura, come si fa con le pustole della varicella, con lo sfogo di una dermatite. E senza scrittura non potremmo vivere e lo sappiamo. Sappiamo che è così e basta.

Nel mio caso poi. La malattia è doppia e ambigua. Con un corpo che deborda da tutti gli schemi, tre cifre sulla bilancia, che non mutano, che non fluttuano, non oscillano, tre cifre

grosse e grasse che sanciscono una condanna emarginante.

* * *

Io sono malata a prescindere, la parola che mi definisce ha tante vocali ed è grassa anch’essa, nominandola sgocciola unto come quando si mangia un kebab. Obesa. Credere di poter essere una scrittrice obesa e continuare a farlo è stata una folle rapina a tutte le scrittrici magre capaci di scivolare leggere nel mondo patinato che circonda e seduce, che si inchina e che per qualche manciata di istanti promette e concede una notorietà da raccontare al vicinato e, più tardi, ai nipoti. Le pattinatrici scrittrici magre e adatte boicottano le scrittrici obese in appositi forum carichi di veleno dove, nascoste da nickname riconoscibili, esprimono forte il loro disgusto partendo dal corpo e sul corpo, non lesinano nomi e cognomi e sottolineano implacabili che una grassa è anche brutta e pesante e noiosa ed inutile, facendo combaciare i lembi dilatati del corpo obeso con le copertine dei libri, con le pagine scritte. Qualcuna afferma che una grassa dovrebbe occuparsi della sua sciatteria evidente e disturbante invece di fare critica letteraria e addirittura scrivere romanzi. Ma guarda che audacia, che imperdonabile errore.

Mi sconcertano. Non ho un complesso di persecuzione, non mi sento lapidata dalle parole degli altri quando già ci pensa il mio corpo a lapidarmi, ogni chilo una pietra, ogni sbirciata allo specchio una frustata che lascia la pelle segnata di rosso.

Eppure il rispetto non è un’opzione variabile anche se lo sembra, a volte. Tanto che importa, a chi frega? Il tempo dei magri e lindi, dei platinati e perfetti, dei denti impiantati, della vecchiaia sparita, delle rughe riempite di cerone, delle labbra giganti e dei ventri piatti come il marmo, dei corpi di cellophane, dei capelli estesi, delle pelli tirate e della perfezione ostentata dà ragione a loro e forse ce l’hanno, chissà.

Ho avuto momenti di visibilità esagerata alternati a momenti più calmi e il tutto ha seguito le fluttuazioni della bilancia. Mi hanno invitato a trasmissioni di prima serata, ho esibito scollature per mostrare la cosa migliore di questo corpo budinoso e massiccio, la parte voluttuosa, inattaccabile e persino invidiabile, il seno così felliniano, gigantesco e materno: ho sedotto e mi sono lasciata sedurre sentendomi viva. Ho il ricordo di stanze d’albergo dove spargevo tracce per sentirmi a casa, dell’attrito violento di corpi ansiosi di ritornare bambini baloccandosi con queste mie tette smisurate e invitanti. Durante questi amplessi rapidi e affamati pensavo ai libri che avevo tenuto in mano e mostrato alla telecamera. Oggetti, di carne o di carta, che permettevano di dimenticarmi, di sorvolare sulle mie scontentezze, sulle insicurezze, sul veloce oblio in cui finiva ogni riconoscimento, ogni soddisfazione. Avevo dieci anni di meno. Se sei abbondante, grossa e formosa, il tempo che scorre gioca a tuo sfavore con violenza inaudita, ti travolge e ti sfregia con intensità potenziata.

Adesso ho 42 anni. La tv tentenna nei miei confronti, la capacità dialettica è stata importante all’inizio ma l’obesità ha battuto la buona volontà dei miei argomenti dieci a zero: a volte mi invitano ancora a talk show stantii non certo in prima serata, spese non rimborsate, niente trucco, studi introvabili alla periferia di Milano, o in qualche quartiere di Roma affogato nel cemento. Studi da raggiungere con ascensori simili a tombe dove mi attendono prime assistenti platinate e distratte, alle quali per un tempo lunghissimo non risulta il mio cognome (e adesso che fanno, chiamano la sicurezza?) e, infine, lo trovano e con un sospiro e un dito laccato mi indicano l’angolo dove mi sistemo, seduta accanto a vecchie cantanti con la permanente color topo che adesso reclamizzano padelle e paiono davvero passarsela alla grande. Non sono obese ma grassocce e a volte il presentatore, frustrato dall’audience minore di quando televendeva doghe in legno su una qualsiasi delle tivù generaliste, tenta qualche battuta del tipo: vi piace, eh, mangiare?

Sono televisioni locali, Abbiategrasso TV, Badia Polesine TV, posti così. Probabilmente non le guarda nessuno se non qualche anziano con l’artrite e il telecomando puntato come una pistola, casalinghe stanche pronte a cambiare canale o qualche studente svogliato: penso alla fatica di questo lavoro ingrato, alla popolarità in caduta libera, non trattenibile ma così facilmente modificabile mentre un po’ cupa scendo dal treno e cerco la metropolitana. Tutto fa, ti dici quando accetti, e poi ti penti se alla battuta maldestra non puoi alzare il tuo pur voluminoso culo e lasciare il palcoscenico alla ex cantante rotonda e appagata fra le sue padelle che risponde di sì con foga, che dice di essere davvero felice del fatto di non negarsi niente, del fatto di mangiare bene e di cuocere tutto nelle sue superfonde in acciaio inox.

Ci resto e annuisco sembrando sostenuta e un po’ snob in un ambiente dove essere snob è letale, risulta patetico e assurdo, imperdonabile a livello di immagine.

Un tempo, diciamo cinque anni fa, durante le notti solitarie negli alberghi, fra una trasferta e l’altra, riuscivo a rilassarmi, a toccarmi e a provare un piacere solitario e potente accompagnandomi a fantasie reali, rammentando episodi vissuti in quelle escursioni nei salotti veri, le ospitate per presentare i libri in quel breve periodo di visibilità nazionale. Adesso ho poche cose su cui fissare le mie fantasie: invento e fatico ad arrivare all’orgasmo. Resto ferma. Assaporo l’odore di pulito delle lenzuola.

Il corpo è distante, pare volare via. Aspetto. Cos’altro puoi fare in certi casi? La vita si trasforma in una interminabile attesa. Aspetti fatti reali su cui fantasticare. Aspetti una mail

da qualcuno che ti ha cancellato dai suoi contatti. Aspetti un bonifico che tarda e che devi sollecitare. Aspetti chiamate di altro genere per rinverdire una fama che tende a sbiadire come lenzuola troppo colorate dopo tanti lavaggi. La tv nazionale però latita. Chiama scrittrici fotogeniche e snelle che inquadrate risultano adatte, più credibili, più belle e quindi comprabili. È successo questo ai miei libri? Sono diventati come me, un affare in perdita? Un mucchio di cocci poco attraenti? No, quelli si vendono a prescindere. Non tanto ma abbastanza, più di altri, meno di certi volumi massicci e ambiziosi che affollano classifiche e scaffali di ipermercati: i miei libri hanno una loro considerazione e un loro posto, fluttuante, certo, in quel gioco di pesi e misure che appartiene alla vita e ai suoi rischi. Li vedo nelle librerie, li sfioro, mi si stringe il cuore un istante immaginandoli perduti in un territorio così affollato poi non li prendo neanche in mano ed esco ma i rendiconti parlano (se la loro parola è sincera, o se lo è fino a un certo punto). Ho lettori che scindono il prodotto dall’autore. Rari e preziosi, in un tempo che invece li vuole uniti, autore e prodotto, incollati, in un tempo in cui spesso si compra l’autore mentre il prodotto rimane indietro, obliquo. Guscio vuoto di un niente abusato, etilico, strangolato.

Funzionano certe tipologie. L’autore o l’autrice quasi mai over 30 coi capelli lunghi e luminosi, una taglia XS, abbigliamento da copertina di Vanity Fair, linguaggio da Rolling Stone mischiato alle Invasioni barbariche con qualche voluta e sapiente puntata nel kitsch dei reality e dei grandi fratelli per essere subito cool. Un passato di mediattivismo o di selezionate collaborazioni con prestigiose riviste. Pochissimi racconti in quelle antologie da recensioni a grappoli, tutte positive.

Perfetti esempi di cacciatori alla ribalta. Sono tanti, autori o autrici con l’agente giusto e i giusti interessamenti di chi poi farà il film o la fiction e darà lustro al prodotto e moltissimo

lustro splendente al conto corrente non più in caduta libera (il loro, non certo il mio).

Io somiglio al mio estratto conto ridicolo e sussultorio come un rivelatore di terremoti impazzito. Io non sono comprabile, non sono plausibile, come si fa nel 2008 a essere grassi, enormi, giganteschi ammassi di adipe non solo trascurato ma anche alimentato con carboidrati dopo cena, con pane, toast e schiacciatine?

Me li infilo letteralmente in bocca aiutata dal dito e morbidamente si disfano in un istante.

Il racconto per la rivista non è perfetto. Non ho altro da fare e rileggo. Rileggo ad alta voce, mi fisso su ogni dettaglio. Non mollo la presa anche se potrei. Lasciare che le cose siano pasticciate, sciatte. Nessuno ci farebbe caso. Adesso riscrivo dicendo che devo cambiare, ho trovato un refuso causato dalla fretta.

Vado sempre di fretta, una fretta impetuosa, come se rincorressi qualcosa che non c’è, che non c’è ora e non c’è mai stato, ma io rincorro smarrendo lucidità a ogni passo, contraendo le labbra per lo sforzo, io dietro al nulla piena di patetiche speranze e aspettative, sudando e seminando una scia di qualcosa che non somiglia a sudore normale ma a un rivolo purulento.

Forse lo producono solo gli obesi ed ancora da studiare e analizzare, tanto la ricerca se ne frega.

Quanti libri sull’anoressia. Vanno per la maggiore. Ragazze anemiche e bianche, magrissime e infelici. Quell’infelicità è rappresentabile. Si trova su cartelloni e sulle passerelle di moda. Per questo si può definire infelicità modello. Giovinette che piangono all’improvviso, compatite e compatibili, piccole principesse con corpicini tutti ossa e maglie che a stento coprono i fianchi. Attillate nella mente e nel look. Perseguono un controllo totale, un preciso svuotamento, incolpano società e famiglia, narrano il loro raro piacere enfatizzando il pathos della loro scarna narrazione, indugiano sulle ossa sottili, quella

pelle talmente priva di grassi che quasi combacia, che le rende bambole di plastica intercambiabili, asessuate e inconsapevoli.

Si sono messe a scrivere tutte insieme, i loro libri hanno creato un filone privo di contrappasso, agli obesi niente. Non c’è traccia di parola data. Di narrazione diventata moda.

L’obesità è l’assedio ai codici a barre della forma perfetta.

L’obesità è circondata da un simbolico fosco e colpevole. Anzi, raccontarla, persino se ha radici ereditarie e quindi con una piccola attenuante generica, è un azzardo.

 

 

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