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lunedì, 14 aprile 2008

MANITUANA. INCONTRO CON WU MING 4

Tempo fa, in questo post, ebbi modo di accennare all’uscita di Manituana (Einaudi, 2007, pagg. 613, euro 17,50), nuovo romanzo collettivo dei Wu Ming.

 

Oggi approfondiamo la conoscenza di questo libro/progetto grazie all’intervista che Wu Ming 4 ha rilasciato a Giulia Gadaleta in esclusiva per Letteratitudine.

Mi piacerebbe discuterne con voi.

Per favorire il dibattito ho estrapolato alcune frasi pronunciate da Wu Ming 4 (vi invito, però, a leggere con attenzione l’intera intervista) precisando, per dirla come gli stessi Wu Ming, che questo non è un romanzo a tesi, e nemmeno un romanzo-manifesto:

-               Basta sbarazzarsi delle storielle edificanti che ci hanno raccontato a scuola e immergersi nelle cronache, nelle testimonianze dirette, per rendersi conto di quanto il mito fondativo degli Stati Uniti d’America sia frutto di una grandiosa operazione ideologica.

-               L’esito del conflitto fu determinato piuttosto dalla discesa in campo al fianco dei ribelli delle grandi potenze avversarie dell’Inghilterra. Molto più delle “buone ragioni storiche”, furono Francia, Spagna e Olanda, con le loro truppe, navi e casse d’oro, a garantire il successo di Washington e compagni.

-               Nel romanzo un ufficiale britannico pronuncia una frase illuminante: “La guerra non è guerra finché il fratello non uccide il fratello”. Molto più che una rivoluzione, la guerra d’indipendenza fu una guerra civile, tra fratelli, cugini, cognati.

-               Se proprio dovessimo trarre una qualche morale dal romanzo allora sarebbe che il rimpianto non è mai una buona ragione storica. Il rimpianto non ti porta da nessuna parte, anzi, ti porta dalla parte sbagliata, quella che perde.

-               Salgari ha insegnato a noi scrittori una cosa importante, una cosa che probabilmente ha convinto molti di noi a fare quello che facciamo. E cioè che si possono raccontare storie incisive, propriamente politiche, nel linguaggio della narrativa d’avventura, cioè emozionando, divertendosi e facendo divertire. 

Di seguito potrete leggere la recensione di Ibs, l’intervista di Giulia Gadaleta a Wu Ming 4 e le prime pagine del libro.

Ma prima vi invito a gustarvi il book trailer.

Ne approfitto per invitare i Wu Ming a partecipare alla discussione.

Massimo Maugeri

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La recensione di IBS

Il nuovo romanzo del gruppo di scrittori Wu Ming, autori di 54 e prima, col nome di Luther Blissett, del grande successo Q, segna un altro ambizioso momento di riscrittura dei grandi eventi della storia mondiale, riletti attraverso una luce nuova, mai scontata e assolutamente originale. Manituana, titolo che evoca Manitù, il Grande spirito, dio degli indiani d´America, è un romanzo ambientato a fine Settecento, un tuffo nel passato del nord America, con protagonisti i nativi che vissero la guerra di indipendenza dalla parte sbagliata.
Siamo nel 1775, in una vasta estensione di terra al confine attuale tra gli Stati Uniti e il Canada, dove si trova una delle civiltà più straordinarie fiorite nel continente americano, la tollerante e “meticcia” comunità di indiani, irlandesi e scozzesi, che il suo fondatore, sir William, chiamava “Irochirlanda”. Gli Irochesi, ancora oggi studiati dagli storici come precursori dello spirito di libertà della costituzione Usa e del “melting pot” americano, costituivano una società femminista (il potere nel clan era in mano alle donne) e molto “spirituale”: era gente raffinata che, oltre a saper fare la guerra e cacciare, leggeva Voltaire, suonava il violino e aveva doti di retorica e diplomazia. Sono loro i protagonisti del romanzo, con la loro scelta di essere tra i più leali e fedeli combattenti a sostegno della Corona britannica sia contro i Francesi, nella conquista del Canada, e sia contro i coloni ribelli dalla cui insurrezione sarebbero nati gli Stati Uniti d´America. È la guerra a mandare in frantumi quel mondo di pace. La lega delle Sei nazioni, che riuniva le maggiori tribù degli Irochesi, deve scegliere se combattere, e con chi schierarsi. Il capo di guerra irochese, Thayendanega, sceglierà di condurre il suo popolo lontano, oltre il mondo che ha sempre conosciuto e, qui il romanzo rovescia l’immagine canonica del pellerossa, si alleerà con re Giorgio contro i coloni che gli rubano la terra. Thayendanega diventerà noto come Joseph Brant e molti dei più grandi capi irochesi si chiameranno con nomi europei: non erano affatto “selvaggi”, se non nel senso che in guerra, all’occorrenza, utilizzavano metodi del tipo di quelli che il generale Washington avrebbe poi ordinato nei loro confronti: vale a dire bruciare, scotennare, sterminare.

Un romanzo epico, frutto di un grande lavoro collettivo, ricco di effetti speciali, con molta azione. Otto anni fa i Wu Ming, che si firmavano ancora Luther Blissett, per spiegare come si fa a scrivere in gruppo, usarono questa immagine: “È come per il jazz: grande affiatamento, arrangiamenti collettivi e assoli individuali”.

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Intervista realizzata da Giulia Gadaleta

Nel 1775 nel territorio che va dall’attuale Stato di New York alla Pennsylvania le sei nazioni irochesi -Mohawk, Oneida, Cayuga, Onondagam, Seneca e Tuscarora – convivono prosperosamente con i coloni. Hanno combattuto la guerra franco-inglese al loro fianco e l’alleanza con sua maestà britannica ha favorito scambi commerciali ma anche convivenza e integrazione delle due comunità. Quando questa comunità meticcia resta orfana di Sir William Johnson Warraghiyagey, Commissario per gli Affari Indiani, la situazione precipita: è l’alba della rivoluzione che genererà gli Stati Uniti d’America.

Ho intervistato Wu Ming 4 in occasione della selezione di Manituana nella terzina finalista del Premio di letteratura avventurosa Emilio Salgari .

Come è nato Manituana? Quali suggestioni l’hanno messo in moto? Manituana è costruito intorno ad alcuni eventi e figure storiche realmente esistite, che fonti c’erano a questo proposito?

WM: Il romanzo nasce da una suggestione forte per la storia americana e statunitense in particolare. Gli Stati Uniti sono il paese che più di ogni altro influenza e incarna l’immaginario occidentale. Per capire la crisi attuale del cosiddetto “impero americano” abbiamo deciso di provare a raccontarne l’origine, liberandola dalla mitografia. Per farlo abbiamo scelto un punto di vista inusuale e che non si è soliti associare alla guerra d’Indipendenza, cioè quello dei nativi. In particolare quello delle Sei Nazioni irochesi, che vennero coinvolte e travolte da quel conflitto. Il materiale a disposizione è tanto, grazie al fatto che nel mondo anglosassone esiste una grande tradizione di accessibilità alle fonti primarie. Basta sbarazzarsi delle storielle edificanti che ci hanno raccontato a scuola e immergersi nelle cronache, nelle testimonianze dirette, per rendersi conto di quanto il mito fondativo degli Stati Uniti d’America sia frutto di una grandiosa operazione ideologica. Nel nostro immaginario ci sono indiani che cacciano bisonti e vanno a cavallo: è l’immagine ottocentesca tramandata dai fumetti e dal cinema western e fa riferimento al periodo successivo a Manituana.

 Cinema e fumetti hanno avuto un ruolo nello scrivere Manituana e se sì ci fai dei titoli?

WM: Per quanto riguarda i fumetti direi il Comandante Mark (per i membri del collettivo un po’ più grandicelli); ma soprattutto i volumi “americani” di Hugo Pratt, come Ticonderoga e Wheeling. Il cinema hollywoodiano ha affrontato poco e male la guerra d’Indipendenza e già questo è un fatto curioso, forse anche rivelatore di una certa cattiva coscienza. A fronte di decine di film ambientati durante la guerra di Secessione, se ne possono rintracciare davvero pochi sulla Rivoluzione americana (e quasi nessuno valido). Per quanto riguarda poi la questione nativa, in generale il cinema se n’è occupato in relazione alla conquista del West. Così è facile dimenticarsi che la grande corsa verso ovest è preceduta da due secoli e mezzo di storia condivisa.

In effetti i film che più ci hanno influenzato nella scrittura di Manituana non hanno direttamente a che fare con gli eventi del romanzo. Quello che ci si avvicina di più è L’Ultimo dei Mohicani di Michael Mann, ambientato durante la guerra anglo-francese, precedente di vent’anni la Rivoluzione. Poi direi Manto Nero, un film canadese che si ambienta nel XVII secolo e racconta la storia di un missionario gesuita mandato tra gli irochesi. Infine The New World, di Malick, che addirittura parla dei primi contatti tra coloni inglesi e nativi.

Sono pellicole che riescono a dare un’idea dell’impatto che la colonizzazione ebbe sulle popolazioni native americane e del complesso equilibrio che si sviluppò nei primi secoli della conquista.

Mi sembra che la tesi del romanzo sia che la nascita della nazione americana sia legata all’abbattimento dei confini, sia in senso fisico (la frontiera) sia in senso sociale. E’ così? In questo senso si può considerare Manituana un romanzo morale?

WM: Onestamente non lo so. Noi non scriviamo romanzi a tesi. Manituana racconta l’avventura di un clan famigliare meticcio, composto da europei e nativi, che scelgono di combattere dalla parte del re inglese per salvarguardare se stessi, i propri beni e il proprio potere. Racconta anche di come vennero spazzate via nazioni indiane dalla storia millenaria, tutt’altro che primitive e ingenue, ma che convivevano con gli europei da secoli in un sistema di interscambio reciproco, fatto di commerci, alleanze, matrimoni, viaggi diplomatici. E’ un fatto che una delle cause scatenanti della Rivoluzione fu la pressione dei coloni sui confini stabiliti dalla Corona britannica. Per blandi che fossero, quei confini salvaguardavano ancora le terre indiane. Così come è indubbio che l’Indipendenza abolì la nobiltà di nascita e il potere aristocratico sul suolo americano. Non per questo però fu una rivoluzione di classe, come sarebbe stata quella francese. Soltanto una minoranza dei coloni europei si schierò apertamente per una o per l’altra fazione e i pochi che lo fecero si divisero equamente tra le due parti in lotta. L’esito del conflitto fu determinato piuttosto dalla discesa in campo al fianco dei ribelli delle grandi potenze avversarie dell’Inghilterra. Molto più delle “buone ragioni storiche”, furono Francia, Spagna e Olanda, con le loro truppe, navi e casse d’oro, a garantire il successo di Washington e compagni. Ma questa è un’altra delle cose che non si possono dire se si vuole mantenere intatto il mito originario americano. Nei prossimi romanzi vogliamo occuparci specificamente di questo aspetto “globale” della guerra d’Indipendenza.

Rispetto a vostri precedenti romanzi, questo è un romanzo storico in senso stretto, che segue un arco temporale lineare. Non ci sono salti in avanti e indietro. Avete voluto anche qui illuminare le ombre del passato, i passaggi oscuri? Quanto vi siete affidati all’invenzione?

WM: L’andamento lineare della trama è dovuto alla scelta di riprodurre la dimensione del viaggio. In effetti si tratta di un andamento classico: anabasi e catabasi. La prima e la seconda parte narrano il viaggio dalla periferia alla capitale dell’impero; nella terza c’è il ritorno degli eroi e il dispiegarsi della guerra… per poi affrontare un nuovo esodo. Tra i protagonisti soltanto due sono inventati: Philip Lacroix ed Esther Johnson. Tutti gli altri sono storicamente vissuti, ma ovviamente noi li abbiamo interpretati a modo nostro, secondo il nostro sguardo. Se ci riferiamo agli eventi storici e biografici, quindi, di inventato in senso stretto c’è molto poco.

Alla guerra d’indipendenza americana voi attribuite il ruolo di spartiacque: dove prima c’era un sistema di regole che permetteva la convivenza dopo c’è il caos, dove c’era il meticciato dopo c’è la segregazione e lo sterminio, dove prima c’era una guerra regolamentata dopo c’è una guerra senza regole (a un certo punto uno dei personaggi commenta che tra uomini che diffidano l’uno dell’altro, non può esserci altro che una guerra senza regole). Il lettore può restare disorientato e pensare che siete dei nostalgici del colonialismo inglese…

WM: Qualcuno ha provato a farci passare per tali, in effetti… ma temo che si tratti di lettori distratti, per non dire in malafede. Da un certo punto di vista basterebbe pensare alla parte centrale del romanzo, dove la società londinese dell’epoca viene vivisezionata strato per strato, per togliersi ogni dubbio su quanta simpatia possiamo nutrire per l’impero britannico. Ma la verità è che la faccenda è più complessa. I protagonisti di Manituana, bianchi e indiani, sono lealisti, fedeli al re. Rimpiangono la pace che regnava prima della ribellione delle colonie, rimpiangono la scomparsa di Sir William Johnson, lo scaltro amministratore della Corona che governava la valle del fiume Mohawk come un magnanimo padre-padrone. Insomma rimpiangono ciò che non c’è più, e come spesso accade a chi si lascia prendere dalla nostalgia, lo idealizzano. E’ attraverso i loro occhi che il lettore vede quel passato, questo è vero. Ma a leggere bene, quel passato era tutt’altro che perfetto, dato che portava in sé i germi del presente che i protagonisti si trovano a vivere. Ad esempio portava in grembo l’invidia e il rancore dei piccoli coloni, ultimi arrivati, nei confronti dei grandi latifondisti come i Johnson. Gente che se n’era andata dall’Europa per sfuggire alle vessazioni dei nobili e se li ritrovava anche in America col beneplacito di Sua Maestà. Un aspetto questo che nel romanzo emerge con forza fin dal primo capitolo. Per non parlare della concentrazione del potere politico ed economico nella stessa persona, morta la quale, rimane un vuoto difficilmente colmabile. La concezione dinastica e familista del potere, come insegna Shakespeare, è sempre foriera di faide e guerre fratricide. Nel romanzo un ufficiale britannico pronuncia una frase illuminante: “La guerra non è guerra finché il fratello non uccide il fratello”. Molto più che una rivoluzione, la guerra d’indipendenza fu una guerra civile, tra fratelli, cugini, cognati. Manituana racconta anche questo e non fa sconti a nessuna delle due parti in campo: le efferatezze compiute dai lealisti filo-britannici non hanno niente da invidiare a quelle messe in atto dai ribelli, perché sono le stesse persone, figlie della stessa cultura, e condividono lo stesso odio. In definitiva direi che se proprio dovessimo trarre una qualche morale dal romanzo allora sarebbe che il rimpianto non è mai una buona ragione storica. Il rimpianto non ti porta da nessuna parte, anzi, ti porta dalla parte sbagliata, quella che perde. Perché, come diceva il pistolero di Il mio nome è Nessuno, “i bei tempi non sono mai esistiti”. E’ per questo che i nostri eroi sono destinati alla sconfitta senza possibilità d’appello. Se ritroveranno un principio di speranza sarà solo grazie all’idea tutta femminile, portata in seno dalle matriarche della nazione, che tra uccidere e morire esiste sempre una terza via: vivere.

La sfumatura è sottile, ma, come ho detto, noi non scriviamo romanzi-manifesto. Certo sarebbe stato più facile far vedere un Sir William Johnson cattivo, più simile al corrispettivo James Brooke salgariano, e magari i piccoli laboriosi coloni che chiedono agli amici indiani di insegnare loro le tecniche di guerriglia nei boschi, per combattere le perfide giubbe rosse. Così l’ordine delle cose come ci sono state raccontate sarebbe stato mantenuto e le anime belle avrebbero dormito sonni tranquilli. Purtroppo però le cose sono più complesse di così. E a noi le storie complesse piacciono, sono sfide narrative, mentre ci interessa poco il manicheismo di certe visioni ideologiche.

Siete arrivati in finale al premio di letteratura avventurosa Emilio Salgari. Che rapporto c’è tra la vostra scrittura e l’autore de Le tigri di Mompracem? I personaggi di Salgari come il Corsaro Nero e Sandokan sopravvivono al tempo e fanno parte stabilmente del nostro immaginario: si può ancora scrivere letteratura d’avventura e in che senso? Oppure quello che facciamo oggi è ri-scrivere? Ha un rapporto con lo scrivere in gruppo e con il pubblicare in copyleft?

WM: Parto dall’assonanza particolare, strettamente connessa a Manituana. Salgari è stato il primo narratore popolare a stigmatizzare il colonialismo europeo come nefasto e liberticida. Tuttavia mentre trasformava in eroi i pirati e i fuorilegge che resistevano all’impero britannico o spagnolo, non difendeva né il purismo etnico né – diremmo oggi – il relativismo culturale. Basta pensare al ciclo indo-malese, completamente costellato di unioni miste. Sandokan e Marianna, Tremal-Naik e Ada, Yanez e Surama (unioni queste ultime due dalle quali nascono figli meticci), o ancora Darma e Sir Moreland. Credo che per l’epoca in cui si trovava a vivere, questa sia stata l’intuizione più incredibile di Salgari. E cioè che al di là delle giuste guerre di liberazione dal colonialismo, lo scontro di civiltà sarebbe stato superato dalla creazione di una civiltà ulteriore, meticcia, plurale, comunque basata sulla possibilità di convivenza tra diversi. In secondo luogo Salgari ha insegnato a noi scrittori una cosa importante, una cosa che probabilmente ha convinto molti di noi a fare quello che facciamo. E cioè che si possono raccontare storie incisive, propriamente politiche, nel linguaggio della narrativa d’avventura, cioè emozionando, divertendosi e facendo divertire. Questa consapevolezza gli derivava direttamente dalla tradizione del fouilleton francese e – ancora prima – dal romanzo settecentesco europeo. E’ una lezione fondamentale. E’ ciò che ci fa assimilare Sandokan e il Corsaro Nero a Ho Chi Minh o Che Guevara. Con la differenza che, al contrario dei personaggi storici, la Tigre della Malesia e il conte di Ventimiglia non potranno mai deluderci.

Mi chiedi se si potrà sempre scrivere narrativa d’avventura o se piuttosto non facciamo altro che ri-scrivere. A nostro avviso non si tratta di opzioni contrapposte. In parte non facciamo che rideclinare gli stessi temi narrativi dalla notte dei tempi (anche Salgari lo faceva); in parte, quando siamo bravi, riusciamo a plasmare la stessa materia narrativa in nuove forme, attuali ed efficaci. Alla base di una scelta come quella del copyleft c’è proprio la convinzione che le storie siano un fiume inesauribile, patrimonio inalienabile dell’umanità. La sorgente si trova in una grotta sotto il cielo del paleolitico, la foce è un punto ideale sull’orizzonte. Da questo punto di vista non è corretto che qualcuno raccolga un po’ di quell’acqua in una bottiglia stabilendo che è soltanto “sua”. Le storie sono di tutti e tali devono rimanere. Noi siamo convinti di questo e quindi rendiamo liberi i diritti di riproduzione dei nostri scritti, a condizione che restino tali e nessun altro provi ad appropriarsene o a trarne profitto. In questo modo salvaguardiamo i proventi del nostro lavoro e consentiamo alle storie di circolare liberamente.

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Giulia Gadaleta è nata nel 1972. Vive a Bologna. Fa la bibliotecaria e la giornalista. Collabora con Pulp libri, Il tamburo e carmillaonline.com. E’ ideatrice e conduttrice di Mompracem, settimanale avventuroso di letteratura, un magazine settimanale in onda su Radio Città del Capo.

Da un pò di tempo ha inziato una esperienza di lettura in carcere.

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LE PRIME PAGINE DI “MANITUANA” (in copyletf dal sito Manituana)

Prologo

Lago George, colonia di New York, 8 settembre 1755.

I raggi del sole incalzavano il drappello, luce di sangue filtrava nel bosco.
L’uomo sulla barella strinse i denti, il fianco bruciava. Guardò in basso, gocce scarlatte stillavano dalla ferita.
Hendrick era morto e con lui molti guerrieri.
Rivide il vecchio capo bloccato sotto la mole del cavallo, i Caughnawaga che si avventavano su di lui.
Gli indiani non combattevano mai a cavallo, ma Hendrick non poteva più correre né saltare. Avevano dovuto issarlo sull’arcione. Quanti anni aveva? Gesù santo, aveva incontrato la regina Anna. Era Noè, Matusalemme.
Era morto combattendo il nemico. Una fine nobile, persino invidiabile, se solo si fosse trovato il cadavere per dargli sepoltura cristiana.
William Johnson lasciava andare i pensieri, un volare di rondini, mentre i portatori marciavano lungo il sentiero. Non voleva chiudere gli occhi, il dolore lo aiutava a stare sveglio. Pensò a John, il primogenito, ancora troppo giovane per la guerra. Suo figlio avrebbe ereditato la pace.
Voci e schiamazzi segnalarono l’accampamento. Le donne strillavano e inveivano, domandavano di figli e mariti.
Lo deposero dentro la tenda.
– Come vi sentite?
Riconobbe il viso arcigno e gli occhi grigi del capitano Butler. Tentò di sorridere, ottenne solo una smorfia.
– Ho l’inferno nel fianco destro.
– Segno che siete vivo. Il dottore sarà qui a momenti.
– I guerrieri di Hendrick?
– Li ho incontrati mentre tornavo qui. Scalpavano cadaveri e feriti, senza distinzione.
William reclinò il capo sul giaciglio e prese fiato. Aveva dato la sua parola a Dieskau: nessuno avrebbe infierito sui prigionieri francesi. Hendrick aveva strappato la promessa ai guerrieri, ma Hendrick era morto.
Un uomo basso entrò nella tenda, paonazzo, chiazze di sudore sulla giacca.
William Johnson sollevò la testa.
– Dottore. Ho qui una rogna per voi.
Il medico gli sfilò la giubba, aiutato dal capitano Butler. Tagliò le brache con le forbici e prese a lavare e tamponare la ferita.
– Siete fortunato. La pallottola ha toccato l’osso ed è rimbalzata via.
– Sentito, Butler? Respingo i proiettili.
Il capitano borbottò un ringraziamento a Dio e offrì uno straccio a William, perché potesse morderlo mentre il medico cauterizzava la ferita.
– Non alzatevi. Avete perso molto sangue.
– Dottore… – William aveva il volto teso e slavato, la voce era un rantolo. – I nostri uomini stanno conducendo al campo i prigionieri francesi. Tra loro c’è un ufficiale, il generale Dieskau. È ferito, forse privo di sensi. Vorrei che gli prestaste le vostre cure. Capitano, accompagnate il dottore.
Butler e il medico fecero per dire qualcosa, ma William li anticipò: – Posso restare da solo. Non morirò, ve l’assicuro.
Butler annuì senza dire nulla. I due si congedarono. Per impedirsi di svenire, William tese le orecchie e concentrò il pensiero sui rumori.
Vento a scrollare i rami.
Richiami di corvi.
Grida lontane.
Grida più vicine.
Grida di donne.
Un trambusto improvviso attraversò il campo. William pensò fosse Butler di ritorno con i prigionieri.
Guardò fuori dalla tenda. Un gruppo di guerrieri Mohawk: urlavano e piangevano, i tomahawk alti sopra le teste. Trascinavano i Caughnawaga con una corda al collo, le mani legate dietro la schiena. Le donne del campo li vessavano con calci, pugni e lanci di pietre.
Il drappello si fermò a non più di trenta iarde. Nessuno dei guerrieri guardò verso la tenda: erano dimentichi di tutto, ogni senso teso alla vendetta. Il più agitato si muoveva avanti e indietro.
– Non siete uomini. Siete cani, amici dei Francesi! Hendrick vi aveva detto di non alzare le armi contro i vostri fratelli! Vi aveva avvertiti!
Afferrò un prigioniero per i capelli, lo trascinò in ginocchio e recise lo scalpo. Quello cadde nella polvere, prese a urlare e contorcersi. Le donne lo finirono a bastonate.
William sentì il sudore gelare la pelle.
Un secondo prigioniero venne scotennato, le donne lo presero a calci prima di pugnalarlo a morte.
William pregò che tra i morituri non vi fossero bianchi. Finché rimaneva una questione tra indiani, poteva risparmiarsi di intervenire.
Hendrick era morto. Figli e fratelli erano morti. I Mohawk avevano diritto alla vendetta, purché non toccassero i Francesi: servivano per gli scambi di ostaggi.
Il terzo Caughnawaga crollò a terra con il cranio sfondato.
Al quartier generale di Albany i caporioni mandati dall’Inghilterra non volevano capire. Non si poteva combattere come in Europa. I Francesi scatenavano le tribù contro i coloni inglesi. Incursioni, incendi e saccheggi. Petite guerre, la chiamavano. I Francesi avevano un nome per ogni cosa. All’alto comando britannico serviva lo stomaco di reagire con la stessa moneta. Era in gioco il dominio su un intero continente.
L’arrivo di nuovi prigionieri interruppe le riflessioni. Civili bianchi, furieri, maniscalchi e soldati con la divisa lacera. Uno dei guerrieri trascinò fuori dal gruppo un ragazzo. Indossava l’uniforme da tamburino del reggimento.
William era spossato. Coglieva a fatica le parole, ma la sorte del ragazzino era chiara. Un altro guerriero affrontò il primo, che già mostrava il coltello.
Con le penne sul capo e il corpo dipinto, ricordavano due galli in un’arena.

– Porta la divisa dei francesi. Non puoi prendere il suo scalpo!
– L’ho sentito parlare caughnawaga.
– Hendrick ha detto che i prigionieri bianchi spettano ai padri inglesi.
– Guardalo in faccia, ti sembra un bianco?
– Se Hendrick fosse qui ti scaccerebbe.
– Io voglio vendicarlo.
– Tu lo disonori.
– Vuoi aspettare che cresca e diventi un guerriero? Meglio ucciderlo subito, ora che i traditori Caughnawaga sono in fuga e ci temono.
– Stupido! Warraghiyagey si infurierà con te.

William Johnson sentì scandire il proprio nome indiano. Warraghiyagey, «Conduce Grandi Affari». Fece leva sui gomiti, doveva intervenire.
Vide il coltello calare sulla chioma del tamburino. Riempì i polmoni per gridare.
Qualcosa colpì il guerriero al volto.
La pietra rimbalzò per terra. L’uomo lasciò la presa, portò la mano alla bocca, tossì, sputò sangue. Una sagoma piccola e veloce gli fu addosso e lo spinse via.
Un guizzo di pelle di cervo e capelli corvini. Ruggiva contro i guerrieri, che arretravano interdetti.
– Siete senza onore, – gridò la giovane donna. – Dite di voler vendicare Hendrick, ma è il denaro degli Inglesi che volete, dieci scellini per ogni scalpo indiano!
Si avvicinò al guerriero che ancora stringeva il pugnale e gli sputò addosso. L’uomo avrebbe voluto colpirla, ma lei lo incalzò.
– È poco più di un bambino. Non ha sparato un colpo. Potrebbe avere l’età di mio fratello –. Indicò un ragazzo dall’aria attenta, al margine del cerchio di donne che si era radunato intorno alla scena. – Quando avrete incassato la paga, la spenderete per comprarvi il rum. Quelli che oggi si dànno arie da grandi guerrieri, domani rotoleranno nel fango come porci.
Il guerriero le indirizzò un gesto di sdegno prima di ritirarsi.
La donna si rivolse agli altri. – Non pensate che agli scalpi, ma gli scalpi non vanno a caccia, non portano a casa il cibo, non coltivano gli orti. Siete tanto ubriachi di sangue da calpestare le nostre usanze? Oggi molte donne hanno perso figli e mariti. Vanno risarcite con nuove braccia –. Guardò il giovane tamburino dall’alto in basso. – Dobbiamo adottare i prigionieri come nuovi figli e fratelli, secondo la tradizione. La madre di mia madre fu adottata, veniva dai Grandi Laghi. Lo stesso Hendrick divenne un Mohawk in questo modo. Voi lo avreste ucciso!
Le donne si spostarono alle spalle della giovane. Insieme fronteggiarono i guerrieri. Gli uomini scambiarono occhiate incerte, poi si allontanarono con finta indifferenza e molti borbottii.

William Johnson si abbandonò sulla branda.
Conosceva quella furia, l’aveva vista bambina.
Molly, figlia del sachem Brant Canagaraduncka.
Da sola teneva testa ai guerrieri.
Decideva la sorte di un prigioniero.
Parlava come avrebbe fatto Hendrick.

- – - – - – - – - – - -  -

Prima parte

Irochirlanda
1775

1.

Avevano portato anche i bambini, perché un giorno lo raccontassero a figli e nipoti. Dopo molti tentativi, l’asta finì per mettersi dritta. Il Palo della Libertà.
Un tronco di betulla, pulito e levigato alla buona. Un groviglio di corda. Un rettangolo di stoffa rossa tagliato da una coperta. La bandiera del Congresso continentale.
Il comitato di sicurezza di German Flatts approvava il suo primo documento: l’adesione alle rimostranze che l’Assemblea di Albany aveva inviato al Parlamento inglese. Il pastore Bauer ne diede lettura. Il testo si concludeva con l’impegno solenne a «stare uniti, nei valori della religione, dell’onore, della giustizia e dell’amore per la Patria, allo scopo di non essere mai schiavi e difendere la propria libertà a costo della vita».
Il vessillo si preparava a salire, salutato da canti e preghiere, quando un rumore di zoccoli interruppe la cerimonia.
Una squadra di cavalieri apparve sul sagrato. Brandivano sciabole, fucili e pistole. Qualcuno sparò in aria, mentre la piccola folla cercava riparo tra le case. Restarono sullo spiazzo pochi coraggiosi. Teste impaurite facevano capolino da dietro i muri, negli spiragli delle porte e alle finestre della taverna. Un nome volò da una bocca all’altra, in un girotondo di voci.
Il nome dell’uomo che aveva fatto fuoco contro il cielo.
Sir John Johnson.
Intorno a lui, gli uomini del Dipartimento per gli Affari indiani. I suoi cognati Guy Johnson e Daniel Claus. Subito dietro, il capitano John Butler e Cormac McLeod, scherano dei Johnson e capo dei fittavoli scozzesi che lavoravano la terra del baronetto.
Mancava soltanto il vecchio patriarca del clan, Sir William, eroe della guerra contro i Francesi, signore della valle del Mohawk, morto l’anno prima.
Sir John montava un purosangue baio dal pelo lucido, fremente sotto la stretta del morso. Si sfilò dal gruppo e prese a cavalcare lungo il perimetro dello spiazzo, mentre fissava i membri del comitato con aria sprezzante, uno dopo l’altro.
Guy Johnson portò il cavallo a ridosso di una tettoia e si arrampicò là sopra con difficoltà, per via della stazza.
 – Forza, siamo qui per discutere, – disse alle case. – È questo che volete, no?
Nessuno fiatava. Sir John diede uno strattone alle briglie, il cavallo arretrò e ruotò su se stesso, fino a cedere alla volontà del padrone.
Allora qualcuno si fece coraggio. Il gruppo che fronteggiava gli uomini a cavallo si infoltì.
Guy Johnson lanciò un’occhiata severa.
– Indirizzare una petizione al Parlamento è lecito, ma issare una bandiera che non sia quella del re è sedizione. Una cosa vi copre di ridicolo, l’altra manda sulla forca.
Ancora silenzio. I membri del comitato evitavano di guardarsi per timore di cogliere un cedimento negli occhi dei compagni.
– Volete seguire l’esempio dei Bostoniani? – riprese Guy Johnson. – Due fucilate all’esercito del re e si sono montati la testa. Sua Maestà possiede la flotta più potente del mondo. È buon amico degli indiani. Controlla tutti i forti dal Canada alla Florida. Credete che i ribelli del Massachusetts otterranno molto più di un cappio al collo?
Fece una pausa, quasi volesse sentire il sangue ribollire nelle vene dei tedeschi.
– La famiglia Johnson, – proseguì calmo, – possiede terra e commercia più di tutti voi messi assieme. Saremmo i primi a stare dalla vostra parte, se davvero Sua Maestà minacciasse il diritto di fare affari.
Una voce risuonò forte: – I vostri affari non li minaccia di certo. Voi siete ricco e ammanicato. Le tasse del re strozzano noialtri.
Un coro d’assensi accolse quelle parole. Dalla cima della tettoia Guy Johnson individuò Paul Rynard, il bottaio. Una testa calda.
Lo stallone di Sir John scrollò il capo e sbuffò nervoso, rimediando un altro strattone.
Il frustino del baronetto colpì il cuoio dello stivale.
– Le tasse servono a mantenere l’esercito, – ribatté Guy Johnson. – L’esercito mantiene l’ordine nella colonia.
– L’esercito serve a voialtri per continuare a tenerci sotto! – sbottò Rynard.
Gli animi si accesero, qualcuno dei cavalieri alzò d’istinto le armi, ma un cenno di Sir John li trattenne.
– Non ancora, – sibilò il baronetto.
Guy Johnson, rosso in volto, strillò dall’alto: – Quando i Francesi e i loro indiani minacciavano le vostre terre, l’esercito lo chiedevate a gran voce! La pace vi ha reso arroganti e stupidi al punto da desiderare un’altra guerra. Fate molta attenzione, ai morti la libertà non serve.
– Ci state minacciando! – gridò Rynard.
– Tornatene in Irlanda dai tuoi amici papisti! – urlò qualcuno. Un sasso scagliato verso Guy Johnson lo mancò di poco.
Una smorfia di compiaciuto disprezzo segnò la faccia di Sir John: – Adesso.
I cavalli mossero in avanti, il comitato di sicurezza si sciolse seduta stante. Gli uomini corsero in tutte le direzioni.
Il cavallo di John Butler travolse Rynard e lo fece rotolare nel fango. Il bottaio si rialzò, cercò scampo verso la chiesa, ma Sir John gli sbarrò il passo. Il baronetto lo frustò con quanta forza aveva. Rynard si accucciò a terra, le mani sulla faccia. Tra le dita, vide McLeod sguainare la sciabola e partire al galoppo. Strisciò via, invocando la misericordia di Dio. Quando ricevette il colpo di piatto sul fondoschiena, urlò forte, tra le risate roche dei cavalieri.
Mentre Rynard si scopriva ancora vivo, gli uomini del Dipartimento si radunarono al centro dello spiazzo. Guy Johnson rimontò in sella e li raggiunse.
Un leggero colpo di speroni e Sir John fu sotto il Palo della Libertà.
Parlò in modo che tutti lo sentissero, dovunque fossero rintanati.
– Ascoltate bene! Chiunque in questa contea voglia sfidare l’autorità del re, dovrà vedersela con la mia famiglia e con il Dipartimento indiano –. I suoi occhi maligni parvero scovare gli abitanti uno a uno, oltre le finestre buie. – Lo giuro sul nome di mio padre, Sir William Johnson.
Sfilò un piede dalla staffa. Dopo un paio di calci, il Palo rovinò nel fango.


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Scritto lunedì, 14 aprile 2008 alle 23:08 nella categoria EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, SEGNALAZIONI E RECENSIONI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.

207 commenti a “MANITUANA. INCONTRO CON WU MING 4”

Leggete questo post con molta calma.
Leggetelo e assimilatelo. Poi interventite.
Il tempo c’è… anche perché (temo) non potrò aggiornare il blog con nuovi post fino a giovedì sera.

Postato lunedì, 14 aprile 2008 alle 23:17 da Massimo Maugeri


Ringrazio Giulia Gadaleta per avermi inviato l’intervista e Wu Ming 4 per averla rilasciata.

Postato lunedì, 14 aprile 2008 alle 23:18 da Massimo Maugeri


Wu Ming 4 (ma anche gli altri della band) sono i benvenuti qui.
Ragazzi, vi aspetto!

Postato lunedì, 14 aprile 2008 alle 23:19 da Massimo Maugeri


Poi, se non sbaglio, e sempre per Einaudi, è in uscito un nuovo romanzo scritto proprio da Wu Ming 4.
Avremo modo di parlarne.

Postato lunedì, 14 aprile 2008 alle 23:20 da Massimo Maugeri


@ Giulia Gadaleta
Mi raccomando, fatti viva anche tu (il dibattito, data l’ora, partirà da domani). Anzi, Giulia: dammi una mano a moderare questo post… se puoi.

Postato lunedì, 14 aprile 2008 alle 23:21 da Massimo Maugeri


Devo chiudere. Auguro a tutti voi una buonanotte.
A domani!

Postato lunedì, 14 aprile 2008 alle 23:22 da Massimo Maugeri


Con Manituana mi sento a casa!
Più volte, ho citato il libro, qui, su Letteratitudine come esempio di un nuovo modo di scrivere, ma soprattutto per il rapporto “specialissimo” che si crea fra il lettore e gli autori. Manituana, è in rete, si scarica gratuitamente e si può leggere e poi dialogare direttamente con gli autori su un “blog” molto particolare; diviso in due livelli. Il primo introduce e contestualizza la lettura, il secondo, a cui si accede dopo aver risposto correttamente ad una domanda, è uno spazio aperto alla discussione, alla disamina della scrittura. Pagine e pagine di interventi ricchi e preziosi che scavano fra le pieghe dei personaggi e della storia. Interpretazioni, proiezioni, confronti: ai lettori dei Wu Ming non sfugge niente.
Manituana è , in un certo senso, la storia del nostro “spaesamento”; le origini del viaggio intrapreso duecento anni fa che si snodano fra citazioni, suggestioni, pensieri fino ai nostri giorni, pur nei limiti temporali in cui la storia è narrata. E’ più di un libro, è un progetto per il futuro che coinvolge il lettore fin dalle prime righe.
Per ora mi fermo qui.
ciao

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 00:04 da miriam ravasio


Manituana è un libro bellissimo. Un libro avventuroso che approfondisce con coraggio alcune tematiche storiche. Interessante il post, interessante l’intervista.
Seguirò con attenzione.
Smile

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 08:58 da Elektra


Ciao Massimo, ciao a tutti
sono qui, seguo con curiosità gli effetti del sasso gettato nello stagno:-)
giulia

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 09:07 da giulia gadaleta


molto interessante, grazie. tornerò in serata, appena avrò smaltito l’abbuffata di dibattiti post-elettorali

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 09:38 da mark


Da dove deriva l’interesse dei Wu Ming per la storia degli Stati Uniti d’America?

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 10:48 da Antonio C.


Per quanto mi riguarda sarei molto interessato se un’operazione simile a quella di Manituana si svolgesse con riferimento al periodo appena precedente all’unità d’Italia.
C’è la possibilità che i Wu Ming scrivano qualcosa anche su questo?

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 10:51 da Antonio C.


Non ce la posso fare. :-(

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 11:37 da Giuseppe Iannozzi


Mi sembra che la risposta alla domanda su “Da dove deriva l’interesse dei Wu Ming per la storia degli Stati Uniti d’America” sia nella risposta alla prima domanda:
“Gli Stati Uniti sono il paese che più di ogni altro influenza e incarna l’immaginario occidentale. Per capire la crisi attuale del cosiddetto “impero americano” abbiamo deciso di provare a raccontarne l’origine, liberandola dalla mitografia.”

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 11:46 da giulia gadaleta


I Wu Ming stanno già lavorando a un nuovo progetto?

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 12:16 da Lucia


bella intervista, complimenti.
sui personaggi storici e quelli no.
stando a quel che dice e scrive felice pozzo, il più grande salgarologo italiano, recentemente qualcuno (credo una studiosa tedesca) avrebbe appurato che sandokan, cioè un principe pirata che combattè gli inglesi, sarebbe esistito per davvero.
felice pozzo è in contatto anche con gli eredi di salgari.
buona giornata

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 12:23 da remo bassini


Complimenti per l’intervista anche da parte mia. Mi domandavo se il libro è stato tradotto in inglese e commercializzato in America. Ed eventualmente che tipo di riscontri sta avendo.

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 12:37 da Alcor


E’ in corso di traduzione in francese, spagnolo e inglese. Dovrebbe uscire in tutte e tre le lingue tra la fine del 2008 e la fine del 2009. Come verrà accolto? Non ne abbiamo proprio idea. Lo scopriremo solo al momento.

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 12:50 da Wu Ming 1


Mi ha incuriosito.
E mi hanno incuriosito le pagine riporposte sotto un profilo strettamente estetico, per come erano scritte.
Mi farebbe anche piacere sapere se per la stesura di questo testo c’è stato un lavoro anche su delle fonti storiche, perchè immagino che Pratt – non basti. E se si, su quali testi.

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 13:06 da zauberei


Sì, certo. Abbiamo studiato decine e decine di saggi e biografie, consultato archivi, fatto ricerche approfondite. Sono stati tre anni di lavoro, e anche negli ultimi giorni continuavamo a ordinare libri su Amazon per verificare alcuni fatti. Sul “Livello 2″ di manituana.com c’è una bibliografia-linkografia selezionata.
Pratt, più che una fonte, è stato un precedente. Sapevamo che c’era, ma abbiamo deciso di lavorarci intorno anziché sopra. Alcuni di noi – me compreso – hanno deciso di leggere “Wheeling” soltanto terminata la stesura di “Manituana”. Il contributo di Pratt lo vediamo in continuità con quello di Salgari: hanno dimostrato che partendo dall’Italia, in italiano e con un punto di vista italiano – ma non provinciale – si possono raccontare storie planetarie.
[Certo, mutatis mutandis: Salgari si documentava com'era possibile ai suoi tempi (dalle gazzette, in biblioteca) e scriveva di corsa. Era una macchina narrativa a getto continuo e non poteva avere grande attenzione per la lingua. Eppure, per dirla con Evangelisti, "Mompracem resiste ancora".]

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 13:27 da Wu Ming 1


I wuming mi sono piaciuti (a pelle) perché da un punto di vista iconografico mi ricordano uno dei miei gruppi musicali preferiti, ossia i Residents. Quando alla produzione letteraria, da quello che ho letto nell’estratto direi che questo Manituana profuma davvero di Salgari. E mi fa molto piacere che i wuming abbiano riguardo nei confronti di un simile maestro della fantasia. in particolare apprezzo il fatto che, rimandendo in italia, si riesca comunque a sconfinare in plot esotici usando, appunto, le risorse della fantasia

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 13:49 da enrico gregori


Manituana non è solo un testo salgariano; la parte centrale, quella londinese, è un rimando alla tradizione letteraria e artistica europea. In quelle pagine Dickens e Kubrick interagiscono regalandoci una scrittuta forte e lucida, in cui è facile riconoscere la storia sociale del nostro continente. Storia, che per i Wu Ming, è ascia da disseppellire. ( e la citazione è per “54″, altro loro godibilissimo lavoro).
Su Esther e Philip, ci ritorno.

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 14:25 da miriam ravasio


Bene, sto libro acquista punti:)
Me conforto un po’.

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 14:25 da zauberei


Un ringraziamento per i vostri commenti e un saluto a Giulia Gadaleta.
Dò il benvenuto a Wu Ming 1.

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 15:20 da Massimo Maugeri


@ Wu Ming 1
A beneficio di coloro che non vi conoscono a menadito, mi permetto di porti una domanda classica (te la sarai sentita rivolgere milioni di volte).
Come si fa a pianificare un progetto narrativo complesso come quello di Manituana dividendosi i compiti tra più autori (voi siete in cinque)? Come vi organizzate? E come fate per rendere omogenea la scrittura?

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 15:23 da Massimo Maugeri


“Manituana” (mi rivolgo sempre a Wu Ming 1) vi ha dato – e vi sta dando – grosse soddisfazioni. Se non ricordo male siete riusciti a scalare la classifica fino a raggiungere la quarta posizione.
Vi aspettavate questo successo?

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 15:26 da Massimo Maugeri


(in aggiunta al precedente commento… e sempre a Wu Ming 1).
Mi pare che con Manituana abbiate raggiunto il miglior piazzamento in classifica della vostra “storia editoriale” (quarto posto, come sopra specificato).
-
Buon pomeriggio a tutti.
Potrò leggervi stasera.

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 15:50 da Massimo Maugeri


Trovo interessantissimo questo punto di vista insolito, la storia dell’indipendenza americana vista dalla parte “sbagliata”, l’azione, il ritmo incalzante, il potere, la rabbia delle donne, la storia che si snoda. Sono solo a metà del libro, ma sento già di amarlo molto. Veramente bello: ottimi Wu Ming, dal 1° al 5°!

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 15:52 da Silvia Leonardi


Manituana è figlia illegittima degli “Indiani Metropolitani”, i cugini bolognesi del filosofo Didò (Francois Didò – Reims 1889/via Toledo…? Celebre divulgatore di filosofie taroccate, tesi di seconda mano e concetti cestinati dei più grandi studiosi prevenuti dell’800 – nel senso che quello che dicevano era già stato detto, a loro toccava confermarlo- famoso per la frase “Non lo dirò mai, e ovemai, non lo ripeterò giammai”, che consacrò Paganini a genio immortale del superfluo e il suo violino alla casa d’aste Sotheby’s.).
Nel concettualizzare il “Pensiero Mediocre”, dottrina a cui tutti avrebbero attinti, dopo il 14 aprile 2008, Didò pensò bene d’individuare le due forme meno atonali della filosofia tardo (sarebbe tardo ottocentesca, ma lui restò sempre nel vago, per evitare conclusioni affrettate, specialmente nella filosofia che è “disciplina in movimento”, come affermava il filosofo americano Jhon Holmes, che per contratto doveva divulgare i suoi concetti in un tempo non inferiore ai 120 minuti con leggere pause per permettere il cambio delle lenzuola nell’aula), nei professori Franz Fermm e Ugo Statt, che sarebbero poi diventati famosi col nome della loro ricerca: “La teoria di Statt-Fermm” o dell’Immobilità Assoluta.

Ne parla cosi Monsieur Didò, nel suo saggio “Perdere la ragione e aprofittarne per giocare a Lotto”:

Il Pensiero Mediocre, celebre cerniera idealistica che nell’Ottocento si frappose tra il Pensiero Forte e il Pensiero Debole, è dovuto alle speculari considerazioni di due grandi filosofi sconosciuti a tutti nello stesso XIX secolo: Ugo Statt e Franz Fermm.
Ugo Statt nacque a bordo di un piroscafo svizzero. La madre, Alsazia Lorena, non riuscì mai a scoprire chi ne fosse il padre; quella notte, nove mesi prima, aveva avuto una brutta mano a poker ed era stata costretta a pagare i vari bluff mal riusciti togliendosi pezzi di biancheria e, finita la lingerie, donando quello che la natura generosa le aveva dato.
Non l’onore: quello l’aveva barattato a quindici anni con un maniscalco in cambio di un cavallo (“Meglio il maniscalco”, dichiarerà più tardi nelle sue memorie). Ma non se ne era mai avuta a male; era stato fastidioso solo lasciare il tavolo ad ogni mano persa, e di mani ne aveva perse molte.
A sette anni Statt già comprese la differenza tra Io e Non-Io chiuden-dosi l’indice nell’anta della dispensa da dove aveva prelevato della marmellata (forse per studiarne la natura fisica).
Successivamente, chiuso in un convitto fichtiano, pervenne alla conoscenza dell’anatomia, dopo averla studiata con severità, grazie ad alcune sue colleghe d’istituto, tra cui Maria Montessori, che era molto meglio della foto sulle mille lire. Scoperto e rimproverato con un nerbo di vacca da una burbera sovrintendente bulgara, mise mano, negli scantinati dell’istituto, al suo primo studio filosofico.
Sua è la prova cosiddetta della “Fuga con le lenzuola annodate”, la quale stabiliva che: “La libertà è facilmente riconoscibile solo dopo che l’evasione è riuscita”.
Recatosi a Napoli per studiare la natura umana di una sua amica bal-lerina al Salone Margherita, incontrò per caso Franz Fermm che lavorava ad un trattato sulla “Essenza del limone nella pratica del limoncello sorrentino”.

Ecco la perplessità: è un’assenza di una dottrina da bancarella che preoccupa in questi giovani figli del grande spirito, partoriti nel teepe e concepiti attorno al fuoco, ma siamo convinti che la formatteranno, l’epoca lo permette.

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 15:53 da francesco di domenico


Il metodo non è mai uguale in tutto, si adatta ai diversi progetti e alle trasformazioni delle nostre vite. Oggi non lavoriamo più come ai tempi di Q, perché le nostre vite sono differenti e più complicate. Posso però disegnare uno scheletro, una struttura invariante.
1. Prima c’è una vaga suggestione, il momento in cui una lettura, una trasmissione televisiva o un film ci accendono una lampadina in testa: “Ma certo! La rivoluzione americana! Quello sì che è uno scenario interessante!”. E allora…
2. …inizia la ricerca storica preliminare, che dura diversi mesi. Ciascuno di noi si documenta e prende appunti su personaggi o episodi da cui si potrebbe partire. Poi c’è…
3. la “tormenta de cerebros”, la fase – della durata di alcune settimane – in cui ci sediamo intorno al tavolo e, ciascuno coi suoi appunti, improvvisiamo intrecci, trame, concatenamenti, finché non emergono alcuni “grumi” narrativi e – ancora più importante – nuclei emotivi, che cerchiamo di fissare sulla carta. Alla fine della tormenta, abbiamo una “scaletta” di massima, una divisione per sequenze narrative, che – attenzione – non sono ancora capitoli. A questa scaletta a volte si accompagnano schede sui singoli personaggi.
4. A quel punto, ciascuna sequenza finisce sotto la “lente d’ingrandimento”, e diventa una serie di sinossi di capitoli, ciascuno dei quali finisce a sua volta sotto la “lente d’ingrandimento”. Al termine di questa fase – procediamo sequenza per sequenza, quindi a gruppi di 3-4 capitoli alla volta – sappiamo con buona approssimazione su cosa dovrà cadere l’accento narrativo di ciascun capitolo.
5. Adesso c’è l’assegnazione di ciascun capitolo a chi di noi si offrirà di scriverlo. Non sempre la scrittura deve essere omogenea: spesso sono previsti salti, dislivelli, scarti improvvisi. Nei nostri libri esploriamo diverse cifre stilistiche. Questo non vuol dire che ciascun membro della band si prenda in “appalto” una singola cifra stilistica: tutti si cimentano con tutto, l’assegnazione dei capitoli da scrivere (parlo ovviamente delle prime stesure) non dipende da una divisione in “sottosegretariati” (X scrive di Cary Grant, Y scrive le scene del Bar Aurora, Z si occupa della sottotrama napoletana).
6. Adesso c’è un lavoro collettivo che consiste nella lettura a voce alta, con conseguenti riscritture, correzioni, rifacimenti, “cestinature” etc. Quando finalmente un capitolo ci soddisfa, lo aggiungiamo al “filone” (si pronuncia “failone”, grande file) che diverrà il romanzo. Dopodiché si torna alla fase 4, e si lavora sulla sequenza successiva.
La cosa più importante è il rapporto faccia-a-faccia, lavorare de visu il più spesso possibile, incontrarsi, vedersi, parlare, cazzeggiare, ordinare le pizze, fermarsi per vedere il TG, discutere del più e del meno e poi riprendere a lavorare. E’ questo spirito di comunità la cosa irrinunciabile del nostro lavoro.

La risposta alla seconda domanda è più semplice: sì, ci aspettavamo che andasse bene, ma verso la fine dell’estate ci eravamo assestati su una previsione cauta (40.000 copie nel periodo marzo-dicembre) e invece è andata anche meglio (52.000).

Ok, ora devo uscire, per ora vi saluto e grazie di tutto.

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 15:58 da Wu Ming 1


caro wu ming1, la vostra organizzazione è quantomeno affascinante. un processo davvero complicato, ma lineare. ma c’è un leader tra voi cinque?
mi sembrate i pooh della scrittura. io adoro i pooh.
lorena da acireale.

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 18:03 da Anonimo


Nessun leader. Ci provò Riccardo Fogli, ma uscì dalla band e oggi è dato per disperso.

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 18:34 da Wu Ming 1


A Wu Ming: Qual è il libro a cui vi sentite più legati? E quale quello che secondo voi vi rappresenta di più?

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 19:41 da Claudio Rufolo


Cari amici di Letteratitudine,
tempo fa ebbi modo di accennare all’uscita di Manituana (Einaudi, 2007, pagg. 613, euro 17,50), nuovo romanzo collettivo dei Wu Ming. Oggi approfondiamo la conoscenza di questo libro/progetto grazie all’intervista che Wu Ming 4 ha rilasciato a Giulia Gadaleta in esclusiva per Letteratitudine. Mi piacerebbe discuterne con voi. Per favorire il dibattito ho estrapolato alcune frasi pronunciate da Wu Ming 4 (vi invito, però, a leggere con attenzione l’intera intervista):
- Basta sbarazzarsi delle storielle edificanti che ci hanno raccontato a scuola e immergersi nelle cronache, nelle testimonianze dirette, per rendersi conto di quanto il mito fondativo degli Stati Uniti d’America sia frutto di una grandiosa operazione ideologica.
- L’esito del conflitto (la guerra d’Indipendenza, ndr) fu determinato piuttosto dalla discesa in campo al fianco dei ribelli delle grandi potenze avversarie dell’Inghilterra. Molto più delle “buone ragioni storiche”, furono Francia, Spagna e Olanda, con le loro truppe, navi e casse d’oro, a garantire il successo di Washington e compagni.
- Nel romanzo un ufficiale britannico pronuncia una frase illuminante: “La guerra non è guerra finché il fratello non uccide il fratello”. Molto più che una rivoluzione, la guerra d’indipendenza fu una guerra civile, tra fratelli, cugini, cognati.
- Salgari ha insegnato a noi scrittori una cosa importante, una cosa che probabilmente ha convinto molti di noi a fare quello che facciamo. E cioè che si possono raccontare storie incisive, propriamente politiche, nel linguaggio della narrativa d’avventura, cioè emozionando, divertendosi e facendo divertire.
Vi invito a intervenire (è prevista la partecipazione di Wu Ming 4):
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/04/14/manituana-incontro-con-wu-ming-4/

Ogni guerra viene decisa dagli aiuti ingenti, non gratuiti, che una nazione può ricevere da altre, come ogni guerra è un uccidere un fratello, inteso come un prossimo.
Guerra è sempre causata dall’incomprensione, intolleranza, violenza, sfruttamento di chi la cerca.
La guerra è anche un meccanismo del processo evolutivo, che nelle menti ristrette di alcuni violenti e sfruttatori trova il suo sbocco naturale.
L’essere umano verrà sempre regolato dalla violenza, quella propria e quella impostagli dalla natura, fino a quando avrà capito che dovrebbe agire diversamente dal suo modo abituale e ristretto.
Avessimo la capacità di considerare il prossimo come nostro fratello, potremmo anche comprendere che la sua uccisione sarebbe anche la nostra.
Il prossimo, così come lo vediamo e consideriamo, non è altro che il rispecchio del nostro “io” su di lui. Questo grazie alla soggettività, alla quale siamo tutti più o meno soggetti.
La soggettività ci divide e ci sprona poi ad unirci, dando il via al processo evolutivo.
Che cosa c’interessa di lui, se non la sua diversità d’individuo, che ci attira ad esplorarla, farla propria, o sottometterla, fino ad eliminarla. Una volta conquistata, volgiamo la nostra attenzione altrove; eppure la sua personalità rimane impressa in noi e tende a mutarci, e così fino al giorno in cui capiremo che siamo simili, non solo nell’apparizione esteriore, ma anche in quella interiore dell’anima.
Credo che questo sia il percorso del processo evolutivo dell’uomo.
Non è così che i popoli primitivi, capaci di vivere insieme in pace, lo fanno perché istintivamente, non avendo un’istruzione, si attengono al principio della solidarietà totale, l’unico comportamento idoneo a farli sopravvivere?
Nella solidarietà, davanti ai rischi della vita, capiamo di avere la stessa sorte e ci solidarizziamo, aumentando le nostre possibilità di superarli.
Saluti
Lorenzo

mi dispiace, ma io lascio navigare il mio interesse su aspetti diversi dai vostri. Nonostante ciò, credo che i miei interventi passino sempre sui temi da voi discussi, allargandoli e approfondendoli.

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 20:01 da lorenzo russo


@ Massimo:
perché non proponi ai Wu Ming che libro avrebbero scelto fra La strada e Everyman ?
:-)

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 21:12 da miriam ravasio


@ Lorenzo
Va benissimo, non ti preoccupare. Ha scritto delle cose molto condivisibili (anche se non necessariamente legate al libro dei Wu Ming).
“Avessimo la capacità di considerare il prossimo come nostro fratello, potremmo anche comprendere che la sua uccisione sarebbe anche la nostra.”
Però non credo che i popoli primitivi abbiano particolari attitudini a vivere in pace. Purtroppo la guerra nasce con l’uomo e prescinde dai livelli di istruzione (anche se rimane la speranza che la cultura e la crescita intellettiva possano valere come antidoti contro la guerra). Cambiano i contesti, le modalità e le armi usate: agli albori c’erano i sassi e le clave, oggi le armi nucleari e le bombe intelligenti (?).
Però non disperiamo. In fondo l’Europa (be’, buona parte di essa) ha vissuto e sta vivendo il periododi pace più lungo della sua storia.
Incrociamo le dita!

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 21:14 da Massimo Maugeri


@ Miriam
Perché non lo proponi tu? Non fare la timida, dài.
:)
Anzi, Miriam… proprio da te mi aspetto molte domande (approfittando della presenza di Wu Ming 1) visto che sei una grande sostenitrice di “Manituana”.

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 21:16 da Massimo Maugeri


@ Lorena
Il paragone con i Pooh mi ha fatto sorridere.
Devo dire che così come i membri del celebre quartetto musicale si concedono saltuariamente la libertà di produrre Cd come cantanti singoli, la stessa cosa accade ai Wu Ming (con i libri, s’intende).
Come ho già accennato è in uscita, per Einaudi, un libro firmato da Wu Ming 4.

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 21:18 da Massimo Maugeri


@ Wu Ming 1
Grazie mille per le risposte. Soprattutto per quella in cui spieghi come lavorate. Molto interessante (e analitica).

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 21:19 da Massimo Maugeri


@ Giulia Gadaleta
Vediamo se ti viene in mente qualche altra domanda da porre a Wu Ming 1…
:)

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 21:20 da Massimo Maugeri


@ Francesco Di Domenico
Il senso del tuo intervento non l’ho capito proprio.
O hai bevuto tu, o sto rincretinendo io.
O entrambe le cose.
:)

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 21:25 da Massimo Maugeri


@ massimo
non chiedo niente ai Ming, perché frequento il blog di Manituana, e conosco domande e risposte. E poi perché non voglio togliere ai lettori di Letteratitudine il piacere di una lettura insolita e la possibilità di accedere ai Livelli 1 e 2 del dibattito. Il loro, è un sito intrigante e denso ma è bello arrivarci dopo aver letto il libro, altrimenti tutto si perde.

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 21:48 da miriam ravasio


@ lorenzo
credo che il discorso di Manituana sia legato a un’idea della storia americana, al mito fondativo della guerra di indipendenza come appunto guerra contro l’Inghilterra. Manituana racconta come questa guerra sia stata invece civile. I Wu Ming sono certamente molto più indicati di me nell’elencare la genealogia letteraria che gli sta alle spalle, ma mi viene da citare Black Flag di Valerio Evangelisti, per dirne una.

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 21:51 da giulia gadaleta


Claudio: intendi libri che abbiamo scritto noi? Non esprimiamo preferenze. O libri genericamente intesi? Impossibile rispondere :-)

Miriam: ehm, non saprei, non ho ancora letto nessuno dei due.

Lorenzo: i popoli primitivi non sono affatto irenici o non-violenti. Il mito del “buon selvaggio”, dell’uomo “buono per natura” che diventa cattivo per colpa di civilizzazione e tecnologia è una favoletta che gli studi di archeologia, antropologia ed etologia hanno spazzato via senza pietà.
Già nelle pitture rupestri del Neolitico si vedono scene di violenza “intra-specifica”, cioè uomini che in gruppo attaccano e uccidono altri uomini, cioè guerra. E sempre al Neolitico risalgono i primi fortilizi, per difendersi dagli attacchi di altre tribù. Ma non è che nel Paleolitico non ci si ammazzasse tra noi. Purtroppo, la violenza intra-specifica è una costante di tutta la nostra vicenda, e anche prima. I primati più vicini a noi, scimpanzè e bonobo, che sono così amabili e simpatici quando li mettiamo in camicia e salopette, in natura sono animali violentissimi.
Quindi, sono più che d’accordo sul fatto che il nostro percorso evolutivo debba portarci a fare a meno della guerra, ma di certo non ci aiuterà coltivare un’immagine da cartolina delle culture primitive, con tanto di apologia del loro essere “senza istruzione” e perciò più capaci di solidarietà (?). Vero, istruzione e civilizzazione, come abbiamo visto, non sono affatto garanzie di pace e concordia, ma senza istruzione né civiltà cosa saremmo? Prigionieri del più angusto tribalismo. La storia della civiltà è anche quella di un lento, accidentato riconoscimento in quanto esseri umani di sempre più uomini e, con una lotta ancor più dura, delle donne. Invece, se fossimo primitivi, considereremmo alieni e non-umani quelli che vivono a mezzo km. di distanza.

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 21:52 da Wu Ming 1


@ Wu Ming
la domanda, sollecitata da Massimo, potrebbe essere questa: nel romanzo raccontate come l’eredità lasciata dalle sei nazioni irochesi loro malgrado sia stata l’idea di “confederazione” come organizzazione statuale. Dove l’avete pescata?

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 21:55 da giulia gadaleta


@ Wu Ming:
Io credo che i romanzi d’avventura siano il modo più completo e affascinante per raccontare.
Perchè nell’avventura c’è tutto: viaggio (e ritorno o esilio), pericolo, precarietà, coraggio. C’è desiderio di arrivare e piantare le tende o sfida dell’ignoto, salto nel buio.
E c’è ricerca. Sulle ragioni del viaggio o dello scontro. Sul desiderio di felicità. Sul perchè male e bene vestano l’uno i panni dell’altro. Nell’intervista dite che non c’è un intento “morale” e che non scrivete “libri manifesto”.
Tuttavia dare a questi, che sono i grandi temi del cuore umano, forma di avventura, vestirli di gesta , o prendere a prestito la storia per raccontarli, credo sia una vecchia vocazione dell’affabulatore. Come Omero. Come chi canta l’andare del tempo volendolo allungare e giustificare, trovargli senso. Infondo anche Ulisse era un grande avventuriero.
Credo che nei libri d’avventura ci sia quindi molta più “filosofia ” della vita di quanto in apparenza non appaia.E’ così?

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 22:41 da Simona


Sono d’accordo con le cose dette su Wu Ming sulla inesattezza del mito del Buon Selvaggio, e sulla “istintività” della guerra e dell’aggressione.
Riconoscere il problema,a volte, è il modo migliore per cominciare a risolverlo.

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 23:14 da outworks110


@ Simona
nel testo emergono figure forti, intense e per certi aspetti, direi addirittura universali, con una caratterizzazione di genere molto forte, materica: le donne e gli uomini, il sangue delle donne e il sangue degli uomini. Il racconto si muove come seguendo una musica, l’ambientazione è data da un linguaggio che sembra adattarsi al contesto, al luogo. E’ una narrazione filmica e al termine del libro si ha la sensazione di essere avvolti in immagini tridimensionali. Ma Manituana, che si presterebbe ad una trasposizione cinematografica, non è un copione, è un esperimento letterario insolito, che piace, soprattutto ai giovani.
Tutto diverso rispetto a “Q”, dove la storia si sviluppa come su una mappa e i personaggi sembrano non avere corpo, ma solo nomi che cambiano, si confondono e si inseguono. Libro amato . Ma erano altri tempi; Q voleva stupire, Manituana vuole conquistare. (Wu Ming, ho detto bene?)

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 23:28 da miriam ravasio


Scusatemi se stavolta entro a occhi chiusi per via della fretta e faccio una domanda – che magari qualcuno ha gia’ posto ma io non lo so non avendo letto i precedenti interventi.
Mi puo’ rispondere ”Wu Ming Chicchessia”. Eccola:
Ancora situazionismo? Perche’ non salvaguardare nomi e cognomi degli scrittori?
Grazie
Sergio Sozi

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 23:33 da Sergio Sozi


Ringrazio tutti coloro che mi hanno risposto.
Wu.Ming 1
Sono perfettamente d’accordo con la tua risposta. Io intendevo, però, i popoli primitivi che vivevano in pace, e che ho messo tra le virgole. So che sono esistiti e forse esistono ancora, fino al momento nel quale il loro territorio diventa interessante per qualche concerno nazionale o internazionale. Da questo momento sono costretti ad abbandonarlo e cercare la loro fortuna nelle città, con pochissime prospettive di riuscirci, data la loro mancanza d’istruzione e specializzazione.
Violenza e guerra vanno insieme e rappresentano il cammino dell’evoluzione o della distruzione finale.
La verità rimane sempre tradita e sfruttata per fini estranei ad essa.
È anche chiaro che la guerra d’indipendenza americana fu causata e sollecitata dagli stati-potenza di allora, sempre in conflitto tra di loro. Hanno anche promesso libertà ai neri schiavi perché erano necessari per l’esercito.
Dopo, la promessa fatta fu dimenticata per decenni, e solo ora e dopo tanti e gravi conflitti civili, sembra che vengano accettati dai bianchi.
Dal punto di vista della popolazione del posto, era una guerra civile, mentre politicamente era una guerra vera e propria, sostenuta e finanziata dalle nazioni coinvolte.
Massimo
Ti ringrazio sempre per la tua ospitalità, sono d’accordo anche con te, ma aggiungo ancora che è sempre la natura che un giorno ci costringerà alla pace.
Come sempre, ogni avvenimento, decisione presa o pensata ha due volti che delineano i limiti della nostra percezione e facoltà d’agire. Un volto ci aiuta al buon fine, mentre l’altro gli si oppone sempre, rappresentando la nostra incapacità di essere solo e sempre buoni.
La speranza è la forza della sopravvivenza, senza la quale noi ci saremmo già eliminati.
Essa è programmata dal progetto universale e segue un corso a noi ancora sconosciuto.
Non ci rimane che sperare per il nostro bene, altrimenti non riusciremmo neanche a intraprendere qualcosa di sensato.
Giulia Gadaleta
Credo di aver già risposto qui sopra alla tua precisazione.
Saluti a tutti e grazie.
Lorenzo

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 23:42 da lorenzo russo


Intervengo “dal basso”… ovvero rispondendo all’ultimo commento pervenuto prima di questo mio.
Sergio, i nomi dei Wu Ming sono tutt’altro che segreti. Tra gli addetti ai lavori li conosciamo bene (ma anche i lettori che li seguono).
Sulla scelta del nome “Wu Ming” e sulla filosofia che ci sta dietro lascio la risposta a Wu Ming 1 (all’anagrafe: Roberto Bui).

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 23:42 da Massimo Maugeri


@ Lorenzo
Grazie a te. Hai pubblicato il tuo commento mentre stavo scrivendo…
Sostieni che: ” è sempre la natura che un giorno ci costringerà alla pace”.
-
Io me lo auguro.
Ti dico anche che “Imagine” di John Lennon è una delle mie canzoni preferite. E non è necessario essere un “dreamer” per sognare.
Bene. Hai lanciato un dibattito nel dibattito.

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 23:46 da Massimo Maugeri


@ Giulia
Brava, Giulia! Ti dedico l’omonima canzone scritta da Vasco Rossi.
Ne approfitto per ringraziare e salutare Simo e Outworks.

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 23:48 da Massimo Maugeri


@ Miriam
Come sarebbe a dire che non chiedi niente ai Ming perché conosci domande e risposte?
Non è che tra qualche tempo ci farai una sorpresa e ti presenterai a noi come Wu Ming 6 (la Wu Ming femmina)!
(scherzo, eh!)
:)

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 23:51 da Massimo Maugeri


@ Wu Ming 1
Scherzi a parte…
Quando Miriam ti ha chiesto: “preferisci La strada di McCarthy o Everyman di Roth ?”, si riferiva a un gioco on line che ho lanciato qualche settimana fa e che ho battezzato “Letteratitudine book award: la parodia di un premio letterario”. Ma era solo un modo per “stare insieme” divertendoci.
In definitiva si trattava di scegliere il miglior libro pubblicato in Italia (poi abbiamo deciso di limitare la scelta agli stranieri) nell’anno 2007.
Sono andati al ballottaggio, appunto, “La strada” e “Everyman”.
Ha vinto “La strada”… dopo quasi 1600 commenti pervenuti.
Ti scrivo il link nell’eventualità in cui volessi dare un’occhiata.
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/03/12/eleggiamo-il-libro-dellanno-2007/

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 23:55 da Massimo Maugeri


Vi ringrazio e vi auguro una buonanotte.
Domani leggerò i nuovi commenti.

Postato martedì, 15 aprile 2008 alle 23:58 da Massimo Maugeri


A Massimo e a Wu Ming:
allora se li sanno tutti, i nomi degli autori del gruppo, a che serve esporre un nome collettivo sul libro? La mia domanda precedente diviene doppia.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 00:02 da Sergio Sozi


Sergio: scusa, ma cosa c’entra il situazionismo? Il nostro modo di porci è del tutto estraneo al culto dell’avanguardia, all’elitarismo, al settarismo, al personalismo e in breve a tutto ciò che caratterizzava i situazionisti, movimento culturale novecentesco del quale non condividiamo nemmeno l’ideologia e le conclusioni teoriche. Noi cerchiamo di stare dentro una dimensione popolare e lavorare in modo critico coi media, la cultura di massa, le tecnologie. Debord teorizzava tutto il contrario. Noi avviamo continuamente processi di collaborazione, interazione coi lettori, scrittura comunitaria. Cerchiamo di essere aperti e orizzontali. Debord espelleva dal gruppo chiunque dissentisse da lui allo 0,2%. Insomma, chiunque conosca un minimo il nostro lavoro e le teorizzazioni dei situazionisti può capire che il nostro percorso è divergente rispetto al loro.
Riguardo ai nostri nomi, non sono segreti dal 6 marzo 1999, quando li rivelammo in un’intervista a “Repubblica”. Oggi sono sul nostro sito, nella pagina “Chi siamo, cosa facciamo”:
http://www.wumingfoundation.com/italiano/biografia.htm
Lì, proprio nelle stesse righe, c’è scritto anche perché abbiamo scelto il nome “Wu Ming” (“anonimo” / “cinque nomi” in cinese).
—-
Simona: sì, è così. I riferimenti agli archetipi, all’epica, a Omero sono in perfetta sintonia col nostro modo di lavorare sull’avventura.
—-
Miriam: hai detto bene. Però quella frase “piace soprattutto ai giovani” mi suona molto Elio e le Storie Tese: “Ed ora un lieto ritornello che / non c’entra un cazzo ma che / piace ai gio-va-ni!” :-)

Giulia: Benjamin Franklin studiò a fondo il diritto irochese, quand’era ancora tipografo/editore, nel 1736, cominciò a pubblicare resoconti di concilii indiani. Uno dei suoi migliori amici era Conrad Weiser, che era stato adottato dai Mohawk. Nel corso degli, incontrò più volte delegazioni di Irochesi per discutere del loro federalismo. In una lettera del 1751 invitò i coloni della Pennsylvania a seguire l’esempio degli irochesi. Due anni dopo presentò il suo “Albany Plan”, un progetto federalista che coniugava elementi europei e irochesi.
Qui:
http://www.ratical.org/many_worlds/6Nations/FF.html
Puoi leggere gratis un saggio storico sull’argomento, si chiama “Forgotten Founders”.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 00:08 da Wu Ming 1


Sergio, ho risposto alla tua domanda precedente ma il commento è in moderazione perché contiene dei link. In attesa che Massimo lo sblocchi domani, rispondo alla tua seconda domanda: “a che serve esporre un nome collettivo sul libro?”. Beh, chiedilo agli U2. I loro nomi li conosciamo tutti, e allora perché usare un nome collettivo. Chiedilo ai Rolling Stones. Perché sui loro dischi, anziché un nome collettivo, non scrivono “Mick Jagger, Keith Richards, Ron Wood & Charlie Watts”? La risposta la puoi ottenere facendo un piccolo esperimento: entri in un negozio di dischi e dici: “Scusi, sto cercando l’ultimo album di Mick Jagger, Keith Richards, Ron Wood & Charlie Watts”. Attimo di smarrimento del negoziante, che poi realizza e ti chiede: “Ah, vuol dire i Rolling Stones!”.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 00:11 da Wu Ming 1


Ri-posto senza link il commento che è in moderazione, così Massimo non ha più bisogno di sbloccarlo e può cancellarlo direttamente.
***
Sergio: scusa, ma cosa c’entra il situazionismo? Il nostro modo di porci è del tutto estraneo al culto dell’avanguardia, all’elitarismo, al settarismo, al personalismo e in breve a tutto ciò che caratterizzava i situazionisti, movimento culturale novecentesco del quale non condividiamo nemmeno l’ideologia e le conclusioni teoriche. Noi cerchiamo di stare dentro una dimensione popolare e lavorare in modo critico coi media, la cultura di massa, le tecnologie. Debord teorizzava tutto il contrario. Noi avviamo continuamente processi di collaborazione, interazione coi lettori, scrittura comunitaria. Cerchiamo di essere aperti e orizzontali. Debord espelleva dal gruppo chiunque dissentisse da lui allo 0,2%. Insomma, chiunque conosca un minimo il nostro lavoro e le teorizzazioni dei situazionisti può capire che il nostro percorso è divergente rispetto al loro.
Riguardo ai nostri nomi, non sono segreti dal 6 marzo 1999, quando li rivelammo in un’intervista a “Repubblica”. Oggi sono sul nostro sito, nella pagina “Chi siamo, cosa facciamo”. Lì, proprio nelle stesse righe, c’è scritto anche perché abbiamo scelto il nome “Wu Ming” (”anonimo” / “cinque nomi” in cinese).
—-
Simona: sì, è così. I riferimenti agli archetipi, all’epica, a Omero sono in perfetta sintonia col nostro modo di lavorare sull’avventura.
—-
Miriam: hai detto bene. Però quella frase “piace soprattutto ai giovani” mi suona molto Elio e le Storie Tese: “Ed ora un lieto ritornello che / non c’entra un cazzo ma che / piace ai gio-va-ni!” :-)

Giulia: Benjamin Franklin studiò a fondo il diritto irochese, quand’era ancora tipografo/editore, nel 1736, cominciò a pubblicare resoconti di concilii indiani. Uno dei suoi migliori amici era Conrad Weiser, che era stato adottato dai Mohawk. Nel corso degli, incontrò più volte delegazioni di Irochesi per discutere del loro federalismo. In una lettera del 1751 invitò i coloni della Pennsylvania a seguire l’esempio degli irochesi. Due anni dopo presentò il suo “Albany Plan”, un progetto federalista che coniugava elementi europei e irochesi.
Se digiti su google “Forgotten Founders”, trovi un saggio storico sull’argomento, integrale e gratuito.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 00:15 da Wu Ming 1


Grazie, Wu Ming 1. Solo che, parlando di Letteratura, questa operazione non si era mai vista prima – eccetto Omero che non si conosce per motivi diversi, non perche’ volesse lui, eventualmente sia esistito. Al massimo si sono sempre trovati degli pseudonimi.
In attesa della tua risposta ”bloccata”, e grazie alla tua disponibilita’ e cortesia, ti porrei ancora una domandina, di altro argomento:
sto portando avanti una proposta per una legge che OBBLIGHI tutti gli editori italiani a pagare cio’ che pubblicano agli autori. Sei d’accordo?
Ancora mille Grazie
Sozi

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 00:18 da Sergio Sozi


@ Massimo
conosco le domande e le risposte, perché da un anno i Ming rispondono ai lettori. Le domande poste a centinaia, sono così complesse, ricche e articolate, che sono state suddivise per temi, personaggi, situazioni; leggere le numerose pagine è come partecipare ad un dottissimo corso di scrittura. Del resto, scrivere, è un atto collettivo.
buonanotte.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 00:20 da miriam ravasio


Il lavoro va pagato. I contratti vanno onorati. Ma non è pleonastico fare una legge che dice: “i contratti vanno onorati”? Non onorarli è già illegale, si firmano per questo. Non mi è chiaro cosa intendi, insomma.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 00:24 da Wu Ming 1


Caro Wu Ming 1, parlo della realta’ dei fatti, permessa dalle leggi vigenti: un editore in Italia NON e’ obbligato per legge a pagare quanto pubblica. Mi sembra cosa di dominio pubblico. Con una legge che lo dicesse esplicitamente, tutto cambierebbe. Spero di essermi spiegato meglio. Basta con gli editori pirati, che dovrebbero divenire tipografi. Pagamento obbligatorio per giornali e quant’altro. Gratuita’ della pubblicazione fuori legge.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 00:29 da Sergio Sozi


Insomma, vorrei una legge che dicesse che non si possono fare contratti che prevedano la non remunerazione. Va approvato un tariffario sindacale (cartella di 1550 battute = tot euro) e varata una legge che dia multe agli editori che non lo rispettino. Semplice. Europeo.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 00:32 da Sergio Sozi


Ancora non riesco a capire a cosa ti riferisci. Agli editori che fanno pagare per stamparti il libro? Quelli sono truffatori, certo.
Ma se invece parli di royalties, di percentuale sul venduto, certo che gli editori (quelli “normali”, che pagano loro per stampare e distribuire il libro) sono obbligati a pagare, se c’è un contratto che lo stabilisce. Che poi non lo facciano, e che spesso si tratti di due lire, e quindi l’autore preferisca non adire le vie legali perché non vale la pena spendere tempo e anticipare parcelle d’avvocato per recuperare due lire, quello è un altro discorso. Insomma, c’è o no un link, una pagina web, qualcosa dove la tua proposta sia spiegata in modo chiaro? Perché dai tuoi riassunti non sto riuscendo a farmi un’idea…

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 00:36 da Wu Ming 1


Ci siamo incrociati coi commenti. Adesso comincio a capire, però io non conosco nessun collega che abbia apposto la propria firma in calce a un contratto che prevedeva la non remunerazione. Non vorrei offendere nessuno, ma uno che fa così mi pare un fesso assoluto…

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 00:37 da Wu Ming 1


I fessi sono la maggior parte, nel campo della scrittura pubblicata. I quotidiani sistematicamente non pagano una cifra enorme di articoli e la maggior parte degli editori possono legalmente proporre agli autori dei contratti che non prevedano alcun compenso, o altre vessazioni. Una legge nazionale, che obblighi gli editori a rispettare un tariffario statale indicante un minimo di pagamento a cartella, sarebbe in Italia un provvedimento necessario e ”rivoluzionario”. Almeno la meta’ degli editori italiani non da’ una lira a nessun autore, Wu Ming Uno. Chiedi pure in giro. E non per scarsa qualita’ degli scritti, ma per la tendenza mafiosa dei medi e grandi editori che escludono chi non sia gia’ loro noto o, soprattutto, chi scriva in maniera diversa da quanto indichino le mode del momento o le ”provocazioni del momento”. Due diverse forme di moda, direi.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 00:46 da Sergio Sozi


Comunque il link e’ questo:
http://libmagazine.eu

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 00:50 da Sergio Sozi


E preciserei che la maggior parte dei giornali ha bisogno di (buoni) articoli per riempire le pagine. Dunque li pubblica, ma senza pagarne gli autori. Strano che questa condizione di sfruttamento modello ”gleba” (”zolla”) sia sfuggito a molta gente pagata onestamente. Ma e’ cosi’: senza una legge regolatoria dei contratti di pubblicazione, si permette agli editori di sfruttare i bravi autori che non abbiano conoscenze personali o quelli che scrivano diversamente dai dettami della moda o della ”non moda”. due dettami diversi ma equivalenti, almeno in Italia.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 00:56 da Sergio Sozi


Il dato di fatto e’ che ogni testata editoriale puo’ pubblicare quel che voglia con o anche SENZA contratto, e possa soprattutto sottoporre contratti di gratuita’ ai pubblicandi. Cosa che va messa FUORI LEGGE.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 01:04 da Sergio Sozi


Ah, quindi includevi nel discorso l’editoria di giornali e riviste, i contratti di collaborazione etc. Lì i meccanismi, però, sono abbastanza diversi. Spesso per il collaboratore esterno non c’è nemmeno un contratto vero e proprio, non c’è menzione di diritti d’autore né di una loro cessione, c’è solo la compilazione di un modulo coi propri dati anagrafici e fiscali da parte del collaboratore, e poi all’articolo viene applicato, volta per volta, il tariffario. Lo so perché ho sempre scritto su diversi giornali e riviste, e non ho mai firmato un contratto, sempre e solo compilato moduli standard. Senza avere mai brutte sorprese, peraltro, ma va detto che ho sempre avuto interlocutori seri.

Per quanto riguarda l’editoria libraria, letteraria etc., se escludiamo chi firma coi finti editori e sborsa di tasca sua per pagare un lavoro che è soltanto di tipografia (e ripeto, sono d’accordo, quelle sono truffe che vanno colpite) io, lo ripeto, non ho mai sentito di nessuno che abbia firmato un contratto con un editore “normale” dove non si prevedevano diritti d’autore di alcun tipo. Mai sentito. Sarà ignoranza mia, non dico di no. Solo che di scrittori ne conosco a centinaia…

Invece è vero che molti autori non riescono a vedere le loro royalties, quello accade pure in presenza di contratti veri, ma per mia personale esperienza e/o testimonianza diretta, l’ho visto capitare più spesso a chi pubblicava con piccoli editori. Alcuni dei quali sono peggio dei grandi, perché hanno tutti i loro difetti senza averne alcun pregio.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 01:08 da Wu Ming 1


Mi scuso per non esser stato chiaro sin dal principio. Adesso spero di esser stato in grado di illustrare a Wu Ming Uno quale sia la condizione italiana di molti bravi autori e quale sia la mia proposta di legge per una messa fuori legge (mi si scusi il bisticcio) dei contratti capestro e dei ”non contratti”.
Grazie
Sergio

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 01:12 da Sergio Sozi


Dunque – dico adesso ho letto quel che mi dicevi in proposito – la legge italiana permette anche dei modulari diversi, con possibilita’ di non remunerazione o di sotterfugi, elusioni, svicolamenti. Di male in peggio. Io dico solo che la cosa andrebbe semplificata per legge. Se una legge dicesse SOLO che TUTTO quanto sia pubblicato va pagato in base al tariffario, non troveresti tutto piu’ equanime e normale, regolato, semplificato? Poi, il tariffario tu lo conosci Wu Ming? Quanto prevede a cartella di 1500 battute spazi compresi? Io no.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 01:19 da Sergio Sozi


Il tariffario cambia da editore a editore, da testata a testata.
Comunque, ho appena letto il tuo articolo, mi sembra che il tuo discorso sia ben intenzionato ma metta insieme troppe cose e situazioni diverse (giornali, libri etc.), non tenendo conto del fatto che fare il cronista e fare il romanziere sono due tipologie di lavoro diverse, addirittura soggette a fiscalità diverse: la prima attività è una prestazione di servizio, la seconda no. Es. i diritti d’autore godono di un trattamento fiscale a parte, non sono soggetti all’applicazione dell’IVA. Inoltre, un romanziere è remunerato in base al venduto, tramite una percentuale del prezzo di copertina, non a cartella. Che senso avrebbe pagare un romanzo a numero di battute? Come si stabilisce il tariffario? Ogni autore farebbe tutto ciò che è umanamente possibile per “allungare il brodo” e scrivere libri lunghissimi, la cui lunghezza non avrebbe alcuna giustificazione estetica o poetica, ma soltanto venale. Dopodiché, la proposta di legge la descrivi molto di fretta, in poche righe, può darsi che sia più complessa di come l’hai buttata giù, ma per ora mi sembra un po’ semplicistica.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 01:37 da Wu Ming 1


Il tariffario nessuno lo conosce: non esiste. In Italia, gli editori non pagano (o possono non pagare), legalmente, gli autori, per contratto, altrettanto legale. Qualsiasi tipo di editore ha delle scappatoie legali per non pagare. Siamo tutti indifesi e serve una semplice legge che imponga un semplice tariffario e commini severe sanzioni economiche a chi non la rispetti. Cosi’: tariffario (esempio): un euro minimo a cartella di 1500 battute; la legge: se non paghi almeno un euro a cartella o frazioni in proporzione aritmetica su qualsiasi cosa pubblichi (sui giornali, sui libri, su ovunque di cartaceo) ti posso elevare una multa di duemila euro. La Guardia di Finanza verifica un qualsiasi libro e telefona all’editore, dicendogli: ”Adesso vengo nel suo ufficio a verificare l’avvenuto pagamento del libro tot. Se non ha le ricevute di versamento a nome dell’autore, Lei si becca una multa di duemila euro.”
Grazie, Wu Ming Uno, per l’interessante discussione.
Lascerei ora il giusto spazio agli altri interventi, scusandomi per aver insistito un tantino su una cosa veramente utile ed attuale.
Sergio Sozi

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 01:37 da Sergio Sozi


Il tariffario esiste, ma a livello di azienda, non nazionale. “Musica Jazz” mi paga €90 per ciascuna puntata della mia rubrica mensile, che è di 4500 battute, e questo avviene in base al tariffario Hachette/Rusconi. Tutti i collaboratori della rivista vengono pagati in base a quello.
Ribadisco: stai confondendo piani (e mestieri) diversi. Nell’editoria di libri non può esserci un tariffario in base al numero di battute. Un romanziere non può essere pagato “a metro”! Questo parametro esiste per le traduzioni, perché è un lavoro diverso (lo so perché sono anche un traduttore), ma non può darsi per la creazione di un’opera originale.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 01:45 da Wu Ming 1


Forse la metto giu’ semplice, ma in ogni Paese europeo, tutto quanto sia pubblicato ha in genere un tariffario canonico – o stabilito per legge sindacalmente mediata, o in base a delle consuetudini che assumono la valenza comune di legge. Non esiste per niente la gratuita’ della pubblicazione. Non esiste. E su questo mi concentro. Eliminare la prestazione gratuita per legge sarebbe gia’ un risultato enorme, in Italia. Vorrebbe dire dire ai truffatori (la maggior parte) esistenti fra gli editori che devono diventare per legge quel che gia’ sono, ossia tipografi. E agli altri che hanno un tariffario unico. Meglio un tariffario unico che l’anarchia attuale.
Chi ”allungasse il brodo”, il furbo, poi, potrebbe esser sempre rifiutato dall’editore, no?

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 01:45 da Sergio Sozi


Ti garantisco che in nessun paese europeo una casa editrice acquista i diritti di un romanzo pagando l’autore in base al numero di battute. L’autore, tra l’altro, *non* è un dipendente dell’editore, non viene assunto dall’azienda. E’ un investimento che i due soggetti fanno assieme: l’autore ci mette il proprio lavoro creativo, l’editore investe soldi in stampa, promozione e distribuzione. Se il libro venderà, l’autore percepirà royalties. Funziona così e in nessun altro modo.
E quello dei falsi editori è un ulteriore, diverso problema. Io credo che gli strumenti per inchiodarli esistano già: si spacciano per qualcosa che non sono, pescano con le bombe spacciandolo per talent scouting e promettono all’autore cose false (distribuzione in libreria, pubblicità sui giornali).

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 01:52 da Wu Ming 1


In tutta Europa, anche chi scrive dei libri viene pagato alla consegna ad un tot a cartella di 1500 battute. Mia moglie ha pubblicato un libro qui in Slovenia ed e’ stata pagata a cartella. Qualche centinaio di euro (non ricordo esattamente) per un libro di centocinquanta pagine. Anche questo, credo, sarebbe semplice: un editore librario valuta il tuo testo di tot pagine e ti dice: dieci euro a pagina e lo pubblihiamo, ti va bene? Se all’autore la cosa aggrada, si firma e si pubblica. Se no, amen.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 01:54 da Sergio Sozi


L’editore serio europeo – tedesco, sloveno, inglese, ecc. – paga come io pago la mortadella al commerciante, un tot ad etto e frazioni. Le royalties eventualmente possono esser saltate o essere in piu’, ma non certo il pagamento al momento della stampa del testo (dopo la correzione delle bozze). Lo dimostra il fatto che gli altri europei, appena pubblicano qualcosa divengono professionisti e invece noi italiani stiamo sempre a far altri mestieri. Strano.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 02:00 da Sergio Sozi


Scusami, io davvero non vorrei sembrare quello che si crede uomo di mondo perché ha fatto il militare a Cuneo, ma come autore negli ultimi dieci anni ho firmato contratti con editori inglesi, statunitensi, francesi, spagnoli, tedeschi, ungheresi, polacchi, russi, danesi, greci, coreani, brasiliani… E non mi è mai capitato che l’offerta per un mio/nostro romanzo sia stata calcolata sul numero di battute! Cado proprio dalle nuvole. Però la mia esperienza è tutta nella narrativa, nella letteratura. Non so, può darsi che per la manualistica, i testi tecnici e pubblicazioni del genere possa esistere la prassi che dici…

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 02:03 da Wu Ming 1


Dimenticavo:
io stesso vengo pagato ad un tot a cartella, per le postfazioni che ho pubblicato in Slovenia. Una e’ relativa al libro ”Papir in meso” (2005) ed un’altra esce fra pochi giorni insieme alla trduzione slovena di ”Nuova grammatica finlandese”, romanzo di Diego Marani (Bompiani 2000). Io vengo pagato, qui in Slovenia, per qualsiasi cosa pubblichi un qualsiasi editore sloveno. Qualsiasi. In Italia?

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 02:05 da Sergio Sozi


P.S. Aggiungo che la somma che l’autore riceve al momento della firma del contratto (o della stampa del libro) non è una remunerazione in base al lavoro già fatto, bensì un anticipo sulle royalties. Anticipo che poi verrà scalato.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 02:05 da Wu Ming 1


No, Wu Ming Uno: io parlo nazionalmente, non delle traduzioni. Le traduzioni estere hanno un tariffario diverso. Voglio dire: chiunque pubblichi in un Paese europeo un’opera inedita, viene pagato a cartella di 1500 battute. Invece, mettiamo, tu, italiano che vendi i diritti all’estero, rientri in un’altra categoria.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 02:08 da Sergio Sozi


Una postfazione non è un romanzo, è più simile a un articolo. Anch’io vengo pagato di più o di meno se devo scrivere una prefazione di due o di trenta pagine. Ma è un calcolo empirico. E aggiungo che se il calcolo non fosse empirico, guadagnerei molto di meno…

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 02:08 da Wu Ming 1


Ecco perche’ lotto: il lavoro letterario-editoriale, inedito, proprio come la mortadella, andrebbe pagato alla consegna oppure rifiutato. Cosi’ avviene in Europa – col piccolo correttivo che viene valutata l’opera per come e’ al momento della stampa dopo la correzione delle bozze, roba di poco.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 02:11 da Sergio Sozi


Perche’ differenziare: postfazione, articolo, eccetera? Se l’editore lo vuole, lo acquisti, altrimenti lo rifiuti. Ma tutto in base ad un tariffario stabilito ex lege, visto che in Italia non esiste un concetto comune a proposito.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 02:14 da Sergio Sozi


…Altrimenti dovremmo anche cominciare a pagare di piu’ o di meno un libro scientifico o un romanzo, una poesia in metrica o una a verso libero, e via dicendo… Facciamo come gli operai specializzati e quelli con la terza media? Il discorso e’ diverso, invece: il livello dell’editoria va mantenuto alto, altissimo: chi non si adegui a questo livello, faccia altri mestieri, ma non venga preso gratis o a basso prezzo solo per riempire le pagine di giornali e libri. O per altri fini pirateschi (che abbiamo gia’ entrambi, Ming, condannato).

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 02:18 da Sergio Sozi


Tu continui a dire “come in Europa”, e che negli altri paesi i romanzi vanno pagati come la mortadella, a fetta, però io – che cado dalle nuvole – sto guardando siti su contrattazione e contratti standard dell’editoria britannica e americana, e non trovo nessuna menzione di questa faccenda del pagamento a cartella di 1500 battute. Solo articoli relativi a royalties, diritti sussidiari, diritti di traduzione etc. Ed è sempre specificato che la somma che un autore riceve alla consegna è un anticipo sulle royalties:

“One thing that should be included in any trade publishing contract is an advance against royalties. Advances are traditionally intended to support the author financially while they are in the process of writing the book. Advance payments may be split into multiple phases, with a payment for signing and further payments for reaching milestones in completing the contract requirements. Some publishers may spread partial payments over the whole proofing process, even all the way up to the publication date.”

A meno che uno non decida sua sponte di rinunciare alle royalties e scrivere a cartella. A me di certo non converrebbe.

Dopodiché, sono d’accordo sul fatto che oltre all’anticipo sulle royalties potrebbe esserci anche un altro pagamento, relativo all’impegno già profuso per scrivere il libro. Male non farebbe.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 02:25 da Wu Ming 1


Allora forse in Slovenia va diversamente, in maniera che considero piu’ equa: tutti coloro che pubblicano qualcosa vengono pagati un tot a cartella, nessuno escluso. Poi l’editore, giustamente, se la vede con le vendite. Insomma il pagamento di un’opera (inedita e scritta in sloveno) non dipende, qui, da quanto vende, dalle royalties. L’editore liquida gli autori e poi cerca di vendere il ”prodotto”, affari suoi. Mi sembra giusto, perche’ un autore non deve essere incluso in una categoria che non gli appartien, quella del ”co-imprenditore”, come, dici tu, avviene. Scrivo, propongo, se ti piace te l’accatti, altrimenti niente, nisba. Ma mica mi sembra tanto moderno pagare la gente a cottimo anche per le poesie… no? Non e’ medievale, Wu Ming, quanto dici succede? E’ giusto?

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 02:32 da Sergio Sozi


Lo scrittore pensa, studia, inventa, infine scrive. Poi propone all’editore: vuoi vendere questa mortadella? Si’? Costa quel che dice il tariffario per il genere mortadella. Paga e poi facci quel che vuoi. Affari tuoi, sei tu l’imprenditore, non certo io.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 02:34 da Sergio Sozi


Ah, ok, abbiamo circoscritto il campo alla Slovenia. Della Slovenia non so niente. Però, scusa, ma qui se c’è uno che sta proponendo di pagare i poeti “a cottimo”, quello sei tu! :-) Il cottimo è una forma di retribuzione basata sulla quantità prodotta. Comunque, io non ho capito se in Slovenia questa forma di pagamento a cartella è in alternativa o *in aggiunta* al percepimento di royalties e diritti d’autore. Perché se un lavoro mi viene pagato a cartella e basta, io ricevo sì pochi soldi subito, ma poi gli eventuali profitti delle vendite se li pappa solo l’editore. Quelle jolie inculée! Se dieci anni fa Q me l’avessero pagato a cartella, io – pivellino che ero – avrei potuto credere di averci fatto dei bei soldi. E invece no, perché con la partnership autore-editore rappresentata dallo “split” delle royalties, ho guadagnato molto di più.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 02:40 da Wu Ming 1


“Paga e poi facci quel che vuoi.”

Col cazzo! E scusa il francese. Ci fa quello che stabiliamo insieme nel contratto.

“Affari tuoi, sei tu l’imprenditore, non certo io”

Ma proprio no! Sono affari anche miei, e – in senso lato, ma non per questo meno vero – imprenditore sono anch’io. Investo sull’impresa (nel senso anche di “avventura”), e se guadagna lui guadagno pure io. Come la metti giù tu, scusami tanto, è roba da disgraziati.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 02:43 da Wu Ming 1


Come norma contrattuale mi sembra eccellente quella slovena (ma so che e’ cosi’ anche in altri Paesi europei): contrattare ed incassare il prezzo dell’opera, prima che si sappia quanto quell’opera potrebbe esser popolare e venduta. Perche’, se a te e’ convenuto, a mille altri non proprio. Lo scrittore e’ un artista, non un imprenditore, ne’ un co-imprenditore. Questo mi sembra certo. C’e’ poi chi ci perderebbe (tu ci avresti perso) e chi ci guadagnerebbe (per un Wu Ming Uno che ci guadagna, mille altri buoni scrittori ci guadagnerebbero. Pagati per un’opera valutata buona da una legge che tende al rialzo delle remunerazioni).

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 02:47 da Sergio Sozi


Scusa lo sbaglio, volevo dire: per un Wu Ming Uno che ci perda (con il pagamento tutto e subito e nient’altro poi), mille altri ci guadagnerebbero. Per legge, questo obbligherebbe chi non abbia la fortuna di essere un Wu Ming Uno a percepire almeno qualche centinaio di euro per un romanzo, all’atto della pubblicazione, comunque vadano poi le vendite dopo. Ma si potrebbero aggiungere delle clausole che obblighino anche l’editore a pagare ancora per ogni ristampa. Basta ottenere, per me, il minimo per legge all’atto della pubblicazione… il resto sarebbe una altra battaglia da farsi, certo, certo che si’.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 02:52 da Sergio Sozi


Ma insomma, all’osso, dimmelo chiaramente: un autore in Slovenia non riceve una percentuale del prezzo di copertina? Non guadagna un centesimo se l’editore cede i diritti a terzi (radio, tv, cinema, traduzioni estere)? Non vede il becco di un quattrino se l’editore ripubblica il libro in tascabile? Se fosse davvero così, sarebbe un sistema demenziale, contrario agli interessi di qualunque autore. E se davvero fosse così, e tu ti stessi impegnando per introdurre in Italia una roba del genere, l’unica risposta possibile sarebbe: VADE RETRO!

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 02:53 da Wu Ming 1


Se invece mettiamo sullo stesso piano l’editore e l’autore, ecco il capitalismo puro applicato all’arte, il liberismo puro e semplice: tu artista non hai niente di garantito, l’editore, padrone, piu’ forte di te, ti paga a cottimo (le royalties sono il cottimo).
Se invece l’artista venisse garantito ad esser pagato all’atto della pubblicazione, un tot a cartella, con eventuali royalties successive, calcolate in base al numero delle copie vendute, questo sarebbe giusto. Questo era implicito nella mia proposta di legge: ulteriori benefici per l’autore da ottenersi dopo aver ottenuto ALMENO il pagamento dell’opera in quanto tale, all’atto della pubblicazione, ripeto.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 02:58 da Sergio Sozi


Questi particolari sloveni, sulla cessione a terzi, la ripubblicazione in tascabile, eccetera, devo andarli a rivedere, perche’ io scrivo e non ho praticita’ con queste cose. So solo per certo, invece, che ho pubblicato in Italia centinaia di pagine dovunque che, se avessi avuto un contratto, mi avrebbero fruttato dei soldi che non ho. E come me migliaia di Italiani. Te lo assicuro. I morti di fame sono la maggioranza. Qui a Letteratitudine, lo sanno tutti. E scrivono bene. Pubblicano. A gratis. Tutti. Fuori da Letteratitudine, anche. Per uno come te, mille altri bravi come te che fanno altri lavori e non prendono una lira. Una legge per farli pagare a tariffa sindacale mi sembra una grande meta.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 03:06 da Sergio Sozi


Eh, no. Le royalties *non* sono “cottimo”, riguardano la circolazione, non la produzione. Io non vengo pagato di più se vengono stampate più copie, quello è il tipografo. Le royalties sono stima che mi sono guadagnato, sono apprezzamento, sono comunicazione, sono *persone*. Io non mi guadagno da vivere in base alla quantità prodotta, ma in base all’amore altrui per quel che faccio. Campo di scrittura perché Andrea legge un mio romanzo, lo apprezza e decide di regalarlo a Flavia, la sua fidanzata, che a sua volta lo regalerà a Irene, sua madre. Il compenso del mio lavoro dipende dai legami, dalle relazioni, dalle amicizie. Da prestiti, consigli, regali. Da discussioni tra amici sul libro che stanno leggendo contemporaneamente. Da compleanni, feste della mamma, Natale, Pasqua. C’è tutto questo, dietro al fatto che ricevo una percentuale del prezzo di copertina, ok? Non è “liberismo puro e semplice”, non lo ha inventato Milton Friedman questo modello di remunerazione.
Io comunque non ho ancora capito se in Slovenia gli editori si pappano tutto dopo aver dato due sghei all’autore, o se questi ultimi partecipano dei guadagni.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 03:11 da Wu Ming 1


“io scrivo e non ho praticita’ con queste cose”

:-O

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 03:12 da Wu Ming 1


Cerchiamo di capirci: quanti sono gli autori italiani che vedono la propria opera trasposta in una pellicola, o ripubblicata in tascabile? Pochissimi, in fronte alla maggioranza degli autori che non percepiscono una lira. Quanto tu dici va perfettamente secondo il vento attuale che indica nella moda e nella grande popolarita’ l’unico parametro per valutare un romanzo. E le poesie, per esempio? Che fanno, private della possibilita’ remota di divenir pellicola? Le poesie che non vendono, ne’ hanno mai venduto una copia? Di Montale, Carducci, Leopardi? Li facciamo morir di fame, come ”imprenditori” che non erano ne dovrebbero mai essere?

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 03:13 da Sergio Sozi


Grazie per i tuoi esempi, divaganti, ma parliamo di cose pratiche: se tu vendi tre copie, avrai tre royalties, in Italia. Se ne vendi mille, ne avrai mille. Ora, questo secondo me e’ debilitante per chi sia fuori moda, non per te che vendi, mettiamo, trentamila copie. Ed io cerco un provvedimento di legge per tutelare l’opera buona, non la sua popolarita’. In Slovenia, ripeto, putroppo non sono informato, ti diro’ domani.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 03:19 da Sergio Sozi


E adesso, ohibo’, devo augurarti la Buonanotte e salutarti, ringraziandoti per il colloquio, esaustivo, intenso e cortesissimo. A demain e Grazie Mille.
Sergio Sozi

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 03:20 da Sergio Sozi


“quanti sono gli autori italiani che vedono la propria opera trasposta in una pellicola, o ripubblicata in tascabile? Pochissimi”

E quindi? Mi sfugge la logica. Siccome è altamente improbabile che io faccia sesso con Angelina Jolie, meglio optare subito per la castrazione chimica? Devo regalare a un editore possibili guadagni solo perché ho sfiducia di poterli mai realizzare? Devo rinunciare a un mio diritto perché mi sembra troppo lontano il giorno in cui potrò goderne in concreto? Ti rendi conto che se passassero questi discorsi sulla poca importanza delle royalties, nell’editoria lo sfruttamento e le grassazioni aumenterebbero anziché diminuire? Si chiama “eterogenesi dei fini”.

“Quanto tu dici va perfettamente secondo il vento attuale che indica nella moda e nella grande popolarita’ l’unico parametro per valutare un romanzo.”

Vabbe’, va’, addio core… Io mi fermo qui ché ho già fatto il pieno. Buona notte.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 03:23 da Wu Ming 1


Voglio dire solo che un’opera andrebbe pagata dall’editore alla consegna per il valore che un tariffario statale stabilisce a cartella standard, poi, ad ogni (eventuale) successiva ristampa, cessioni varie a terzi, eccetera, altri soldi dovrebbero arrivare all’autore. Se invece ci basiamo solo sulle vendite, succede che chi e’ di moda guadagna tanto e chi vende poco niente. Cosi’ e’. E si chiama liberismo. Puro e semplice. Senza offesa, eh. Ma la pensiamo diversamente.
Buonanotte sul serio, stavolta e grazie ancora, Wu Ming Uno.
Sergio

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 03:33 da Sergio Sozi


Io, prima penso ad avere una normale sessualita’ con me stesso e con le persone normali, che camminano sulla strada come me, e poi, eventualmente conoscessi la Jolie (che tra l’altro non mi piace) andrei a letto con lei. Un in piu’, una benvenuta eventualita’. Ma non vivo e non scrivo certo pensando agli allori: voglio che una vita normale e non da ricchi e famosi sia il criterio per chiedere soldi a chi scommette su di me. Io devo scrivere bene, l’editore deve pagarmi per quanto scrivo, se vuole pubblicarmi, altrimenti ciccia. E la legge lo deve obbligare a pagarmi anche se non sono un superdotato, a prescindere da quante copie io possa vendere in futuro. Io scrittore, lui commerciante. Le royalties, incluse nella contrattazione ma non unico parametro per determinare il mio pagamento. Si paga prima l’opera all’atto della pubblicazione, poi, in piu’, le royalties.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 03:41 da Sergio Sozi


Hai risposto alla mia domanda, mi ritengo soddisfatto. Se quello che proponi è un qualcosa in più anziché qualcosa in meno (una specie di “minimo sindacale”), bene, go ahead, hai la mia benedizione. Ma se vengo a scoprire che il sistema editoriale sloveno da te decantato per decine di commenti è tutto un preferire l’uovo di oggi alla gallina di domani (come accadeva una volta in Italia: Salgari fu rovinato, distrutto e spinto al suicidio dal sistema dei pagamenti “up front” che, non facendogli accumulare royalties, lo costringevano a scrivere sempre nuovi libri), giuro che vengo lì a prenderti, eh! :-) Sono spesso a Trieste, è un tiro di schioppo.

“succede che chi e’ di moda guadagna tanto e chi vende poco niente.”

E’ una falsa antitesi, c’è un’asimmetria tra i due presunti corni del dilemma. Avresti dovuto scrivere “chi vende tanto e chi vende niente”, non “chi è di moda e chi vende niente”. Non è detto che un successo di vendite sia dovuto a una moda effimera. In Italia il più venduto è Camilleri, che ha ampiamente dimostrato di non essere un fuoco di paglia (ha ottant’anni, è diventato romanziere a sessanta e rotti, ha scritto decine di libri). Anzi, se proprio dovessi scegliere, meglio vendere in modo discreto ma continuativamente per molti anni, piuttosto che fare un grandissimo exploit per qualche mese e poi inabissarsi.

In ogni caso, non ha senso mettere “chi vende” contro “chi non vende”. Non vendere non è una colpa, ma nemmeno vendere lo è. Uno non deve sentirsi in colpa se quel che fa trova riscontro. Non tutti i libri che non vendono una copia sono capolavori incompresi: molti sono schifezze. E non tutti i libri che vanno bene in libreria sono cazzate commerciali: alcuni vanno bene perché lo meritano.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 04:01 da Wu Ming 1


@ Miriam
Hai scritto: “conosco le domande e le risposte, perché da un anno i Ming rispondono ai lettori.”
-
Lo so, Miriam. Stavo solo scherzando.
:)

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 09:24 da Massimo Maugeri


@ Wu Ming 1
Ti ringrazio per la pazienza infinita che hai mostrato nel rispondere a Sergio Sozi su argomenti che non avevano nulla a che fare con questo post (ti ha fatto fare le 4 del mattino!!!).
Ti chiedo anche scusa.
Spero che adesso il dibattito possa tornare su “Manituana” e sul lavoro dei Wu Ming.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 09:26 da Massimo Maugeri


@ Sergio Sozi
Mi avevi chiesto se era possibile avviare il dibattito su questa tua proposta ne “La camera accanto”. E io ti ho detto: “ma certo, Sergio!”
Poi ti sei impossessato di questo post (che trattava un argomento specifico) in maniera impropria.
Diciamo che… non ho gradito moltissimo. Quindi sei amichevolmente ammonito (cartellino giallo).
Ora per farti perdonare dovrai rileggerti con attenzione il post – soprattutto l’intervista di Giulia a Wu Ming 4 – e formulare a Wu Ming 1 domande attinenti a “Manituana”.
-
P.s. tornerò a connettermi dopo pranzo.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 09:32 da Massimo Maugeri


Non ho ancora avuto il tempo per leggere il carteggio fra Ming e Sozi, però Sergio che testardamente si rifiuta di usare il numero uno e si rivolge al Ming con computezza alfabetica, è troppo forte!
Hanno anche fatto le ore piccole!!!!!
:-)

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 09:32 da miriam ravasio


Caro/i Wu Ming, purtroppo avete fatto un errore clamoroso.
Dopo aver scritto “Q” si poteva capire che sarebbe stato impossibile scrivere un nuovo libro della stessa bellezza, intensità e coinvolgimento.
Ed infatti non ho riscontrato nei successivi neppure un pallido avvicinarsi a quelle vette.
Però “Manituana” promette bene. Vedo delle analogie ed anche leggendo i post di chi l’ha già letto mi sembra di capire che sia molto apprezzato e scarsamente criticato.
Certo, il fatto che l’abbia letto e capito anche Enrico Gregori non depone a favore della profondità dell’opera, ma aspetto di leggerlo personalmente per meglio valutarlo.
Però “Q” resta e resterà di sicuro nella mia top ten.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 10:12 da gluck


Mi interessa molto il modo in cui i Wu Ming si sono conosciuti, intesi, messi assieme per scrivere. Per me risulterebbe difficilissimo scrivere a quattro mani, figuriamoci a 10!
“È come per il jazz: grande affiatamento, arrangiamenti collettivi e assoli individuali”.
Come lavorate?
Credo vi abbiano spesso accusato di aver fatto semplice marketing… come rispondete a queste accuse?
In Italia abbiamo spesso avuto gruppi, specie d’avanguardia, che poi si sono sciolti come i Take That. Penso al Gruppo 63 et coetera… Vedete un futuro per il vostro gruppo o lo considerate un’esperienza a tempo? Come si concilia con i vostri lavori individuali?
Grazie…
Anche io ho letto “Q”. Enterteinment a cui però era sotteso un tentativo di interpretazione del mondo… e del passato in funzione del presente.
E Manituana?

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 10:40 da Anonimo


Sono Maria Lucia Riccioli, scusate. Stavo scrivendo da scuola e mi è uscito l’anonimo.
Peccato, avrei potuto firmarmi Wu Ming 6.
Ma io sono MLR1, the one and only…

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 10:42 da Maria Lucia


una cosa che mi ha colpito leggendo Manituana è il riaffiorare di espressioni della cultura iroquese (penso ad esempio a wampum) passate poi al lessico commerciale americano: segno di una sorta di vampirismo linguistico o se preferite di cannibalismo della cultura irochese
ho quasi pensato che i wu ming avessero fatto una operazione di archeologia linguistica, chissà se consapevole

non so se abbia fatto lo stesso effetto a qualcun’altro che l’ha letto…

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 10:44 da giulia gadaleta


Sergio: de gustibus. Avremmo potuto sfruttare il successo di Q continuando a scrivere libri simili o addirittura trasformarlo in una serie, e infatti ci è stato chiesto diverse volte di scriverne il seguito. Cosa che non faremo mai, perché non ci stimola. Abbiamo già dato, e abbiamo deciso di metterci ogni volta alla prova, sperimentando, azzardando. Abbiamo addirittura cambiato nome, cosa che ha turbato profondamente gli editori di riferimento. Ma i lettori ci hanno premiato, e siamo ancora qui. Se il tuo parametro per valutare un nuovo libro di WM è quanto o quanto poco somiglia a Q, il consiglio che ti dò è di non leggere mai più niente di nostro, perché a noi non interessa scrivere cose “sulla falsariga di”. Per quello esistono già tanti romanzieri “seriali” a cui rivolgersi.

Maria Lucia: alla tua prima domanda (“come lavorate?”) ho già risposto sopra in modo molto dettagliato. seconda domanda (“siete solo marketing, come rispondete all’accusa”): rispondiamo col nostro lavoro. Terza domanda: no, non è un’esperienza a tempo. Dopo quasi dieci anni di lavoro, penso che lo abbiamo dimostrato ampiamente. Quarta domanda: anche i nostri romanzi solisti li consideriamo produzioni del collettivo, che escono dal nostro laboratorio e vengono seguite da tutti. Quinta domanda (“E Manituana?”): troppo criptica e/o generica, non è possibile rispondere :-)

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 11:42 da Wu Ming 1


Pardon, ho scritto “Sergio” ma l’interlocutore era gluck.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 12:42 da Wu Ming 1


Avevo capito, grazie per la sincerità della risposta.
Farommene, nel senso di “me ne farò”, una ragione…
Auguri in ogni caso (ma si fanno agli scrittori ? Non è che portano male ?) per il vostro lavoro.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 13:01 da gluck


Sì, si possono fare senza problemi. Thanks.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 13:10 da Wu Ming 1


@ Gluck:
non hai ancora letto Manituana???? E’ diverso da Q, che resta, anche per me, un esperimento unico, anzi : un’opera. Eco li aveva nominati “hacker anabattisti”. Che bei tempi! Poi, quei bischeri cambiarono il nome in Wu Ming: ma sai, avevano fatto Seppuku! Mi ci è voluto molto tempo per abituarmi al nuovo nome, mi suonava male (Ming…minga). In seguito usci “54″, oltre “Asce di guerra” e di WM2 il simpaticissimo , paasilinno, “Guerra agli umani” . Mi sono avvicinata a Manituana, un po’ circospetta, però le loro anticipazioni invogliavano. L’ho letto, e sinceramente dico che anche Manituana è qualcosa di unico e i lettori devono scoprirlo da soli, attraverso quel percorso che è parte del gioco.
E poi di corsa sul blog per “scoprire” i personaggi.
Ciao.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 14:39 da miriam ravasio


@ Maria Lucia
In effetti Wu Ming 1 aveva già raccontato come la band organizza il proprio lavoro nel commento postato martedì, 15 Aprile 2008 alle 3:58 pm

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 15:11 da Massimo Maugeri


@ Wu Ming 1
Se non sbaglio siete stati i primi, in Italia, a applicare il cosiddetto “copyleft”. Il vostro “Manituana”, per esempio, è integralmente – e gratuitamente – scaricabile dall’omonimo sito. Insomma, chi vuole può… leggervi a sbafo.
Ti domando:
1. Perché avete deciso di “adottare” il copyleft? O meglio, cosa vi ha spinto a farlo?
2. Ritieni che il copyleft possa in qualche modo influire sul numero delle vendite dei volumi?

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 15:15 da Massimo Maugeri


Ciao Miriam,
sei la solita diavoletta tentatrice :)
Però per me funziona così: ipotizza che a te piacciano le fragole, ne mangi come e quando puoi, ed hai un fornitore diciamo così di fiducia, che ti ha abituato bene, anzi ti ha proprio viziato. Orbene, un bel giorno quel tuo fornitore di fragole, tra le migliori che tu potessi mai provare, decide che non vuole più produrre fragole ma, che ne so, carrube, perchè s’è stufato delle fragole e vuole sperimentare nuove colture per vedere come gli vengono. Per carità, anche le carrube possono piacere oppure no, ma comunque tu tra il cercare un nuovo fornitore di fragole od adattarti alle carrube penso che cercheresti un nuovo “fragolaro”.
E, come dicevamo qualche giorno fa sul post dedicato alla divulgazione letteraria via internet, oggi come oggi abbiamo la fortuna di poter scegliere tra dozzine di “fragolari”, anzi, si ha l’ansia angosciosa (?!?) che te ne possano scappare alcuni…
Io non so se anche “Q” era frutto di un esperimento ma, nel caso, gli era riuscito proprio bene.
Dopodichè i Wu Ming hanno il pieno e totale diritto di scrivere quello che più gli aggrada, ed essendo bravi resteranno sulla cosiddetta cresta dell’onda finchè lo vorranno.
P.S. non vorrei sia considerato irriverente l’accostamento fragole/libri, nel qual caso me ne scuso anticipatamente.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 15:32 da gluck


Adottare il copyleft è stata una scelta naturale, perché venivamo da un universo underground e di controcultura dove le pratiche no-copyright, la critica alla proprietà intellettuale e gli esperimenti di “riappropriazione” e riutilizzo delle opere dell’ingegno pre-esistenti erano prassi quotidiana e condivisa da tantissime persone. Il Luther Blissett Project nacque all’incrocio tra “arte postale”, punk, reti telematiche amatoriali (pre-web), centri sociali e chissà cos’altro. Tutte queste tendenze avevano in comune un’estetica del collage, della “pirateria” e del do-it-yourself. Il Free Software Movement aveva già inventato la parola “copyleft”. Queste sono le nostre radici fresche.
Sì, permettere il download gratuito dei nostri libri ha fatto molto bene alle vendite. C’è chi scarica per farsi un’idea del libro più chiara di quella che può ricavare dalla quarta e dalle recensioni, legge qualche capitolo e poi decide di comprare il libro vero e proprio. C’è chi scarica, stampa e si legge *tutto* il libro in quella forma, poi decide di regalarlo a qualcun altro e ovviamente per farlo lo deve comprare. C’è chi scarica, legge il libro, non ha in mente di regalarlo a nessuno però lo compra per conservarlo sullo scaffale, o anche solo per ricompensare noi che lo abbiamo messo on line. La casistica è variegata, ma alla fine si arriva lì: il download si affianca all’acquisto (o addirittura lo incentiva), non lo sostituisce.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 15:57 da Wu Ming 1


Grazie per la risposta, Wu Ming 1. Quello che hai scritto è molto interessante.
Dunque Einaudi non ha mai fatto problemi da questo punto di vista! (te lo chiedo).
-
Mi permetto di estrapolare queste frasi:
il download gratuito dei nostri libri ha fatto molto bene alle vendite.

La casistica è variegata, ma alla fine si arriva lì: il download si affianca all’acquisto (o addirittura lo incentiva), non lo sostituisce.
-
Credo che queste frasi valgano come risposta importante a chi è scettico nei confronti del copyleft.
Mi piacerebbe conoscere – in proposito – il parere degli altri.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 16:42 da Massimo Maugeri


Nessun problema da parte dell’editore, che da tempo ha accettato la cosa ed è ben consapevole dei vantaggi.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 16:45 da Wu Ming 1


Wu Ming, avete un nuovo libro in preparazione?

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 17:39 da Lucia


Ho aggiornato il post inserendo il book trailer del libro.
Andate a vedere!
Tornerò in tarda serata.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 17:46 da Massimo Maugeri


Sì, abbiamo diverse uscite in programma, il 2008 è un anno intenso: “Stella del mattino” di Wu Ming 4 esce il 29 aprile:
http://www.internetbookshop.it/code/9788806186944/wu-ming-4/stella-del-mattino.html
Poi all’inizio dell’estate uscirà un travelogue sul Canada (per Rizzoli), collegato a Manituana perché parla del viaggio di WM3 e WM5 sui luoghi del romanzo, poi un nostro racconto nell’antologia “Crimini 2″ dell’Einaudi, e infine un “corto” allegato al Corriere della sera.
E stiamo impalcando il secondo volume del Trittico Atlantico iniziato con “Manituana”.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 18:04 da Wu Ming 1


Due o tre aspetti che mi paiono fondamentali per ciò che mi pare estremamente innovativo nel discorso aperto dai WM, argomenti già accennati, ma che meritano a mio parere maggiore approfondimento:
1) il nome collettivo: Sergio mi pare quasi scandalizzato (in effetti ai tempi di Dante era impensabile, e lo era ancor ieri – parlo di una decina di anni fa e della comparsa di WM allora ancora Luther Blisset). WM1 con estrema naturalezza fa un paragone con i Rolling Stones; però è anche vero quel che dice Sergio: in letteratura mi pare non si fosse mai visto. Non so se esistano precedenti. Un WM a piacere sa rispondermi? Ed esistono oggi altri scrittori in nome collettivo (il vostro caso sta facendo scuola) ?
2) Sempre sul collettivo: i Rolling Stones (tanto per restare in tema) hanno subito modifiche tra i componenti. Tristi decessi a parte gli abbandoni di Bill Wymann, di Mick Taylor (che era già un subentrato…), l’innesto di Ron Wood…. la vostra formazione potrebbe anche subire modifiche in futuro o lo escludete a priori (come se il marchio odierno fosse registrato solo per voi 5)?
3) l’utilizzo di nuovi e moderni sistemi di comunicazione (il libro in rete, il blog e la completa disponibilità a discutere con i lettori). Questo è un altro punto di estrema novità, di interesse e di forza della vostra proposta letteraria, nonchè di promozione del vostro lavoro. Io (forse sarò anche ingenuo) non credo che “nasca” per puro scopo promozionale, ma per genuino intento di svecchiare l’ambiente, smentire l’idea un pò stereotipata (ma presente almeno nell’immaginario collettivo) dell’intellettuale che si isola per scrivere da qualche eremo del mondo, fisico e/o mentale. Insomma, per mettersi anche palesemente in gioco ed a confronto con le idee in circolazione.
Francamente mi aspetto di non essere smentito, ma vi chiedo di rispondere sinceramente se interpreto bene lo spirito del vostro gruppo.
Ho letto “Q” e “54” ma non ancora “Manituana” (dal quale molto mi aspetto) e non ho ancora mai aperto il vostro sito (cosa che farò a breve, molto incuriosito). Se ho fatto domande le cui risposte sono già lì, scusate e passate oltre.
Grazie.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 18:42 da Carlo S.


Oddio, l’accostamento ai Rolling Stone non è male. Evitando, si spera, che la similitudine si spinga fino a un wuming morto annegato in piscina come Brian Jones.
Nel merito ho una mia ingiustificata (lo so) idiosincrasia per i libri scritti a 4 o più mani. O anche solo pensati da più di una testa.
Ciò, non solo mi ha tenuto lontano dai wuming, ma anche da altro.
Però, siccome passo da queste parti anche per imparare, prometto solennemente che prima o poi Manituana me lo sparo. Però, se non suonerà come “Out of time”, rimarrò profondamente deluso.
:-)

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 20:15 da enrico gregori


@ Massi e a WU Ming: il copyleft è stato preceduto in Italia da alcune sentenze rivoluzionarie del tribunae di Roma “anti copyright”.
In queste pronunce si sosteneva che in realtà il copyright è inattuale e che – quando la “pirateria” è finalizzata a far circolare il prodotto tra classi sociali che altrimenti non vi potrebbero accedere (per capacità economica) – non solo non danneggia il produttore o l’autore ma lo agevola. Ai tempi di queste decisioni (era il 2001)la cosa fece un tale rumore da scandalizzare.
Ma si trattava di un’intuizione geniale sulla filosofia che regge le regole della distribuzione e del mercato.
Il fatto poi che il copyleft sia concesso dal medesimo autore che sostanzialmente offre questa opportunità (senza che sia sfruttata a fini di lucro) fa comprendere quanto la rete abbia agevolato lo scambio ponendosi su un piano parallelo che non interferisce con la produttività ma consente ad ampie categorie sociali di accedere comunque alla cultura fruendone.
Già quelle sentenze mostravano una spiccata umanità nei confonti delle “classi deboli”.
Oggi il fatto che siano i medesimi autori a farsene promotori rincuora sulle possibilità dello scambio sano e ricco di stimoli.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 20:43 da Simona


@ Simona
da domani in Francia verrà applicata una legge che “regolerà” la pirateria da internet…e saranno cavoli molto amari per tutti!!! vuoi approfonfire?
Ciao

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 21:09 da miriam ravasio


@ WM
nel 2000, verso settembre (credo) fu pubblicata su Repubblica una vostra foto: unica immagine dei Blissett autori di Q. La ritagliai, la “misi via” così bene che ancora non riesco a trovarla. Ma me la ricordo perfettamente. Eravate su un prato, vi si vedeva in lontananza e ben distanziati fra di voi. A sinistra il più piccolo con impermeabile chiaro, poi , altezza media e fisico asciutto il secondo (con un berretto?), il terzo altissimo e infine il quarto, imponente e robusto con un’aria disordinata. Ricordo male?
Non fu più pubblicata da nessuna parte?
Sono anni che rovisto fra i libri….
Non si potrà più rivedere?
:-)

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 21:25 da miriam ravasio


@ Carlo S.
sì, ci sono altri collettivi di scrittori: i Kai Zen, anche loro pubblicano in copyleft e sono usciti lo scorso anno con Mondadori (La strategia dell’Ariete); e poi c’è il gruppo Paolo Agaraff (che a dispetto del nome è formato da tre membri). La scrittura collettiva è un fenomeno che ha dato vita anche all’Anonima Scrittori
i Wu Ming sapranno essere senz’altro più precisi…

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 21:30 da giulia gadaleta


A Massimo e a tutti,
ammetto di essermi lasciato trascinare dal colloquio con Wu Ming Uno… mi conoscete… se prendo la strada in discesa poi e’ difficile che mi fermi. D’altronde alle tre di notte immagino non ci fosse tanta gente in giro a voler prendere la parola. L’importante alla fine e’ che ci siamo riusciti a capire. Naturalmente non prevedevo che sarebbe durata cosi’ a lungo, e immagino che neanche Wu Ming Uno lo prevedesse. Entrambi, insomma.
Io comunque mi scuso col messer Maugger e con chiunque non abbia gradito il nostro ”carteggio”.
Pertanto faccio ammenda e mi autoinfliggo la punizione di reintervenire sull’argomento all’attenzione del post (ovviamente scherzo, eh?).
Ciao a Wu Ming Uno e Soci.
Sergio Sozi

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 21:32 da Sergio Sozi


P.S.
Maugger Arbiter: chiamalo ”fallo involontario”. Di due giocatori, non di uno, ovviamente. Due cartellini gialli.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 21:34 da Sergio Sozi


(Off topic)
@ Wu Min 1
Meglio gli Stones o i Beatles?
Attento alla risposta. Se indovini prometto che i miei prossimi regali da elargire per compleanni saranno copie di “Manituana”.
:)

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 21:39 da Massimo Maugeri


@ Sergio
Dài, che il mio tono era scherzoso.
(oh, ma allora ti intendi di calcio? non ci avrei scommesso :) )
Sul serio, invece… rileggiti l’intervista. Secondo me offre spunti interessanti.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 21:41 da Massimo Maugeri


@ Simo
Grazie per la tua consulenza… “magistra-le”:)

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 21:42 da Massimo Maugeri


Un saluto a Carlo S. (“caricaturista” ufficiale di Letteratitudine).
-
@ Miriam
Se ritrovi quella vecchia foto potremmo chiedere a Carlo di disegnare le caricatire dei Wu Ming.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 21:44 da Massimo Maugeri


@ Giulia
In aggiunta alle tue indicazioni.
Esiste un altro caso di scrittura collettiva: la “Living Mutants Society”.
A maggio, per Scheiwiller, uscirà “Le aziende In-visibili”.
Credo che sarà un esperimento importante. Ne parleremo.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 21:47 da Massimo Maugeri


@ Enrico
Perché non spararsi “Manituana” con, per es., “Sgt. Pepper”?
-
Domande per Wu Ming 1 (inspirate da Enrico):
Che musica consiglieresti (da mettere in sottofondo) per accompagnare la lettura di “Manituana”?
Mentre scrivete vi capita di ascoltare musica o preferite l’assoluto silenzio?

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 21:52 da Massimo Maugeri


Qualche settimana fa in Francia sembrava quasi pronto un disegno di legge che mirava ad una sorta di legalizzazione del P2P. Ora invece è
stata appena avanzata una seconda proposta di legge, molto rigorosa nei riguardi dei downloaders facenti parte dei circuiti P2P che infrangono la legge sul copyright. Essa prevede pene la detenzione in carcere e obbliga i produttori di software ad aggiungere delle protezioni per prevenire copie illegali. In particolare, chi verrà colto a scaricare contenuti protetti da copyright potrà ricevere fino a 300.000 euro di multa o scontare fino a 3 anni di prigione.
Tuttavia il copyleft è un’invenzione del tutto diversa e si colloca infatti in un ambito diverso.
In base ad esso è lo stesso autore a concedere a “terzi” di poter accedere alle proprie opere. Il suo veto ovviamente riguarda chi si impadronisce dell’opera ( un editore) per proporla ad esempio su un mercato estero.
Al contrario la pirateria riguarda ambiti in cui il prelievo non è autorizzato alla fonte.

Le sentenze che citavo facevano riferimento alla filosofia ispirata alla new economy, al cd “dono autorizzato”.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 21:52 da Simona


Grazie mille, Simo.
Se non ci fossi bisognerebbe inventarti.
;)

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 21:54 da Massimo Maugeri


Grazie, Wu Ming 1: hai risposto alle domande di tutti punto per punto!
Sono stata troppo criptica, hai ragione. Mi spiegherò meglio. “Manituana” da cosa è nato? Come romanzo “storico” sottintende una visione del mondo e della storia particolare? E qual è il suo rapporto con la modernità?

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 23:09 da Maria Lucia Riccioli


@ Massimo Maugeri sulla musica. Su manituana.com c’è un’intera sezione “suoni” che contiene le musiche di vari gruppi o solisti ispirate dalla lettura di Manituana. I Subsonica insieme alle band del loro giro addirittura hanno realizzato una compilation/colonna sonora del romanzo. I Modena City Ramblers hanno composto una ballata folk. Musicisti jazz o elettronici hanno fornito le loro interpretazioni sonore delle atmosfere di Manituana. C’è davvero l’imbarazzo della scelta.
Per quanto riguarda lo scrivere con sottofondo musicale, può capitare, ma non è una norma. Io ad esempio scrivendo il mio romanzo solista ho ascoltato ad nauseam In Rainbows dei Radiohead. Per scrivere alcune scene forti di Manituana mi sono strafatto con la colonna sonora de L’Ultimo dei Mohicani, di Michael Mann.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 23:20 da Wu Ming 4


Caro Wu Ming 4,
intanto ti dò il benvenuto qui a letteratitudine.
Ti ringrazio per la tua risposta… musicale. E per l’intervista rilasciata a Giulia.
Dato che sei qui ne approfitto per chiederti informazioni sul tuo libro la cui uscita è prevista – mi pare – giorno 29.
Il titolo è: Stella del mattino , ed è il tuo esordio da “solista”.
Intanto ti faccio tanti in bocca al lupo.
Parlacene un po’… ti va?
Invito gli altri frequentatori del blog a porti domande.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 23:30 da Massimo Maugeri


Su Ibs ho trovato queste notizie riguardanti per l’appunto Stella del mattino
-
Un romanzo storico e d’avventura, che ricostruisce la vita, tra mito e leggenda, della prima “star” massmediatica contemporanea: Lawrence d’Arabia.
-
Oxford, 1919. Il Primo conflitto mondiale è appena terminato e una schiera di giovani reduci torna sui banchi universitari. Le ombre dei compagni morti popolano le loro notti, la routine accademica non ha risposte da offrire all’orrore vissuto al fronte. Da un giorno all’altro l’austera quiete dei college è turbata dall’arrivo di T. E. Lawrence, il leggendario «Lawrence d’Arabia». Partito da Oxford come archeologo e divenuto ispiratore della rivolta araba contro i turchi, l’uomo d’azione ha ora un nuovo incarico: scrivere il memoriale della propria impresa. Mentre i ricordi prendono vita, la saga di «Lord Dinamite» si alterna alle vicende di tre sopravvissuti al massacro: John Ronald Reuel Tolkien, filologo e scrittore di racconti; Clive Staples Lewis, studente di lettere che dalla guerra ha avuto in dono una doppia vita; Robert Graves, poeta che tenta invano di affrancare i propri versi dall’incubo delle trincee. L’incontro con Lawrence cambierà per sempre le loro vite, costringerà ognuno a confrontarsi con i propri fantasmi e sarà il punto d’origine di nuove memorabili storie.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 23:31 da Massimo Maugeri


@ Wu Ming 4
Una prima domanda (banalissima) te la pongo io.
Cosa ti ha spinto a scrivere di Lawrence d’Arabia, figura senz’altro affascinante?

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 23:34 da Massimo Maugeri


Purtroppo adesso devo chiudere. E domani sarò fuori sede per gran parte del tempo.
Mi affido a Giulia Gadaleta e agli altri frequentatori del blog.
E naturalmente a voi, cari Wu Ming.
Buonanotte!

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 23:36 da Massimo Maugeri


Be’, forse avremo occasione di parlarne meglio quando il libro sarà uscito (sì, la data è il 29 aprile), se non altro per sventare il rischio del monologo. Posso dirti che Lawrence è una figura letterariamente affascinante perché molto ambigua e oggetto di discussione da decenni. Dal mio punto di vista rappresenta un po’ l’archetipo dell’eroe, con tutti i pro e i contro che questa figura porta in sé. E’ uno di quei personaggi storici che più li studi più ti accorgi che non è possibile ritrarla in maniera definita, ultimativa. Per uno scrittore è molto interessante confrontarsi con una figura del genere, è una sfida. E poi mi sono accorto che a fronte di moltissime biografie – spesso contrapposte una all’atra -, di film importanti e documentari, la letteratura, la narrativa scritta, invece si sono confrontate poco con Lawrence.
Credo comunque che il mio romanzo faccia tesoro di molti temi e riflessioni che Wu Ming porta avanti da anni (la valenza della mitopoiesi prima fra tutte). In un certo senso prova quasi a incarnarli a raccontarli narrativamente, appunto, prendendo la vicenda di Lawrence d’Arabia come prisma di rifrazione.

Postato mercoledì, 16 aprile 2008 alle 23:57 da Wu Ming 4


Wu Ming 4: io adoro “L’ultimo dei Mohicani” e la sua colonna sonora! Credo che ti abbia aiutato perché è un film che parla di relazioni tra popoli, di meticci, di famiglie, non dell’indiano e dello yankee stereotipato; il francese fa una fine orribile ma nobile…
Su Lawrence: alcuni esseri umani, come dici tu, sono prismi di rifrazione, o, meglio ancora, catturano in sé, assorbono lo spirito di un’epoca…
Secondo te, ci sono epoche e/o personaggi che attendono la penna “giusta” che li ponga nella giusta luce? E oggi? Come intendete porvi con la contemporaneità? O attendete il distacco necessario per parlarne?

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 00:04 da Maria Lucia Riccioli


Abbiate pazienza: mi avete sparato addosso qualcosa come sedici domande, alcune delle quali del tipo: “Hai carta bianca, parlami un po’ del mondo” :-)

x Carlo S.
1. Alcuni ti hanno già risposto, sì, esistono altri collettivi di scrittura. Non solo di narrativa, ma anche di poesia. Di tutti questi, quelli che finora hanno avuto maggior riscontro sono i nostri cugini Kai Zen (in giapponese significa “miglioramento costante”, o qualcosa del genere), che hanno pubblicato il loro romanzo d’esordio “La strategia dell’Ariete” nella collana Strade Blu di Mondadori.
2. La line-up è questa da nove anni e non abbiamo in mente sconvolgimenti.
3. Sì, la tua descrizione è in sintonia con quello che facciamo.

x Simona:
sì, ho presenti quelle sentenze, ho anche in casa alcuni opuscoli blu elettrico Made in Rome dove vengono sottoposte a militante esegesi :-)

x Miriam:
nel febbraio 1999 accettammo di farci scattare quella foto perché avevamo in mente una cosa alla Pynchon, del quale esiste un solo ritratto preso dall’annuario del college (anno 1963, se non sbaglio), e tutti continuano a pubblicare quella perché non ne hanno altre, solo che lì è ritratto diciottenne mentre oggi ha sessant’anni. Volevamo creare un paradosso simile. Rafforzato dal fatto che… quei quattro non eravamo noi. Poi capimmo che era un errore, un’ironia troppo facile e scontata; inoltre nel frattempo da quattro eravamo diventati cinque, la foto dei quattro carneadi diventava hobbes-oleta, un leviatano che gettava su di noi la sua ombra. Abbiamo comprato dall’agenzia fotografica i diritti di quell’immagine, che così non può più essere pubblicata, ci siamo fatti dare i negativi e li abbiamo bruciati.

x Massimo.
Miglior album dei Beatles: “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”.
Miglior album degli Stones: “Exile on Main Street”.
Tra i Beatles e i Rolling Stones? Gli Who. Miglior album: “Who’s Next”.

x Maria Lucia.
Sto scrivendo un “saggio da battaglia” che parla proprio di questo, dell’allegoria nel romanzo storico e non solo. Dentro spiego anche cosa ci differenzia dal postmoderno. Dovrebbe essere pronto tra qualche giorno e andare on line (come pdf) la prossima settimana. Aspetto che venga letto e discusso.
L’altra gragnuola di domande l’hai rivolta al mio compadre, quindi ti risponderà lui :-)

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 01:24 da Wu Ming 1


Interessantistimo il post di WM4 delle 11.20 pm. di ieri. E’ perfettamente in linea con quanto dicevo io sul post dedicato alla “letteratura della grande rete dopo la rivoluzione digitale”. Non è il mettere in rete un libro che apre nuovi scenari (oddio anche quello, ma non la sento come una vera rivoluzione). E’ il poter sfruttare quello che la carta stampata non può offrire. Un libro in rete con link ad immagini, suoni, musiche, colonne sonore… questa è la rivoluzione che il mezzo offre. E forse il futuro ci può riservare delle opere che “debbano” considerarsi compiute solo nel loro insieme: delle contaminazioni funzionali non solo tra parola e immagine (avevo già fatto gli esempi di Gian Burrasca, di Dino Buzzati, di Sebald e dell’ultimo libro di Filippo Tuena) ma tra ben più ampie possibilità.
Non che un capolavoro debba nascere PER questo, ma potrebbe succedere GRAZIE a questo. Per dirla alla Obama-Veltroni “Yes we can” .

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 09:33 da Carlo S.


A WM chiedo poi perchè non avete inserito musiche di Jim Pepper. Il sassofonista di origini pellerossa fra l’altro è l’autore di un pezzo magistrale come “Witchi-tai-to” del quale esistono bellissime e plurime versioni da parte di Jan Garbarek, degli Oregon, dello stesso Pepper e la bellissima originale degli Everything is Everything del chitarrista Chris Hills (con Pepper) di cui credo di essere tra i pochi a possederne copia (almeno in Italia).

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 09:45 da Carlo S.


Permettetemi di inserirmi anche nel discorso Beatles/R.S.; su Sgt.Pepper nulla da obiettare (salvo forse considerare Revolver quasi alla pari, o almeno a mezzauota). Sui R.S. dissento: Aftermath !!!

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 10:09 da Carlo S.


Ed ancora sui film. Ho sempre adorato Terence Malick, ma The New World, per quanto in possesso di molti pregi, mi è parso di una lunghezza esasperante ed alla fine noioso. Io mi ci sono addormentato.
Peccato.

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 10:20 da Carlo S.


Rispondo alle sollecitazioni di Maria Lucia.

- Come spiegavo nell’intervista di Giulia Gadaleta, sì, L’Ultimo dei Mohicani è uno dei rari film che racconta il meticciato euro-amerindo (meglio di quanto faccia il romanzo da cui è tratto). E’ un film “salgariano” da molti punti di vista.

- Per quanto riguarda Lawrence, credo che la sua figura non catturi soltanto lo spirito dell’epoca (ovvero la crisi del colonialismo ottocentesco e l’avvento del neo-colonialismo novecentesco), ma che, più in generale, rappresenti una sorta di archetipo incarnato e tenga insieme una serie di contraddizioni proprie dell’eroe, del mito dell’uomo provvidenziale che si staglia sopra i destini collettivi. Inoltre Lawrence è stato la prima pop star contemporanea, la cui fama è stata costruita non solo attraverso la letteratura e la propaganda, ma anche dai mass media dell’epoca, incluso il cinema. La sua immagine trovò un’immediata traduzione sul grande schermo nei film degli anni Venti che lanciarono Rodolfo Valentino (Lo sceicco e Il figlio dello Sceicco).

- Non ci sono dubbi che esistano milioni di storie in attesa di essere riscoperte, raccontate sotto una nuova luce. Oggi che l’Occidente conosce una crisi profonda, l’espoldere delle proprie contraddizioni, incalzato dall’emergere degli ex-domini come la Cina, l’India, l’America Latina, è interessante rimettere in prospettiva la nostra storia di conquistatori e dominatori. E’ senz’altro un modo di raccontare anche il presente.
I nostri pregiudizi positivisti sono ancora molto forti e anche se si accompagnano a una coscienza autocritica sul ruolo che le potenze europee hanno avuto nei confronti delle altre culture e civiltà, tuttavia nascondono un sottotesto social-darwinista. Mi spiego: nonostante i mea culpa recitati in Occidente sulla sottomissione e lo sterminio delle popolazioni native americane, africane, asiatiche e australi, sotto sotto nascondiamo una visione consolatoria e fatalista di come sono andate le cose. Ovvero c’è una vocina in fondo al nostro cervello che dice che quando una civiltà tecnologicamente più avanzata ne incontra una più arretrata inevitabilmente la seconda è destinata a soccombere. Questa visione della storia come selezione naturale del più forte finisce per giustificare e quindi assolvere la civiltà “bianca”, le consente di ripresentarsi ancora oggi, spompa e paranoica, come guida dell’umanità ed esportatrice di civiltà e democrazia. C’è un razzismo feroce sotteso alla storia dell’affermazione del mondo occidentale moderno.
Non a caso l’unico sterminio davvero “inaccettabile” per la coscienza occidentale è la Shoah. Perché gli ebrei che vennero chiusi nei lager erano bianchi, erano i nostri vicini di casa, gente uguale a noi, che parlava la nostra lingua. Non abbiamo mai elaborato un senso di colpa così forte per le popolazioni non-bianche schiacciate e sottomesse nel corso degli ultimi cinque secoli, ma tutt’al più un atteggiamento politicaly correct piuttosto ipocrita e fastidioso.
Con questo, sia chiaro, non voglio sostenere alcuna tesi anti-moderna, né esaltare la supposta “bontà” dell’Altro. La questione non è etica, ma storica, antropologica, culturale.
Questo discorso può sembrare una divagazione, ma mi serve a rispondere alla tua domanda sulla contemporaneità. Noi Wu Ming (e certo non solo noi) non guardiamo al passato come a un continuum di vicende che si perde a ritroso alle nostre spalle. Il passato non è alle nostre spalle, ma “sulle” nostre spalle, è tutto qui, nel tempo e nella storia che viviamo, fa parte del nostro bagaglio culturale ed esperienziale. Usiamo la sigla romanzo storico per distinguerlo da un romanzo che si ambienta nella contemporaneità, ma è una definizione di comodo che non deve farci perdere di vista la sostanza, e cioè che ogni romanzo parla di oggi e di noi.
Mi scuso se l’ho fatta lunga, ma fate delle domandone da un milione di dollari :-)

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 10:37 da Wu Ming 4


x Carlo S.

Non abbiamo messo Jim Pepper, non abbiamo messo John Trudell, non abbiamo messo Robbie Robertson, non abbiamo messo il Johnny Cash di “Bitter Tears”, e con loro tanti altri, per un motivo molto semplice da spiegare: non abbiamo i diritti. Possiamo mettere sul sito solo canzoni che sono nel dominio pubblico, o che sono registrate con una licenza creative commons che ci consenta di farlo, o per le quali possiamo esibire un permesso scritto dell’autore.

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 11:50 da Wu Ming 1


x Gluck, una piccola nota.
In quel tuo parlare di frutta ho letto anche il mio spaesamento, ti comprendo e non mi riferisco solo ai temi posti. E’ come un virus che mi assale, ogni tanto e all’improvviso, scapperei dalle parole …e lo faccio, ma poi mi mancano…
Comunque, dovendo scegliere (perché non hai tempo, perché proprio non puoi ecc ecc.) leggi Pennac: Diario di scuola.
:-)

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 12:13 da miriam ravasio


Ritengo Sgt.Pepper, Rubber Soul, Revolver e White double esattamente dello stesso livello. Certo, Sgt Pepper fu un album rivoluzionario sia per la tecnica di registrazione che per la novità dell’album-concept. Inoltre lì compare, a mio avviso, una delle più belle canzoni dei Beatles, ossia “She’s leaving home”.
Quanto ai Rolling ho una passione “marcia” per Their satanic majestic request. Complimenti al wuming che, nel confronto tra i 2, se l’è cavata giudicando come migliori i Who. Democristiano!
:-)

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 13:24 da enrico gregori


vagamente o.t. ma sull’onda di enrico
io, che sono settaria e rompiballe, amo exile sopra ogni altro (con un dubbiolino su let it bleed, sottovalutato secondo me).
e farei qualunque sconcezza per il bianco dei beatles (seguito a ruota da revolver)
e johnny cash in blocco.
torno nella cripta
:-)

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 13:52 da gea


e se una ha un penchant per i kinks, che è?
ok, ok,
scema.
:-)

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 13:54 da gea


No Gea, i Kinks erano splendidi. E Ray Davies un genio. Indi non sei scema.

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 14:02 da Carlo S.


I kinks hanno spesso sparato a salve. Ray Davies è un genio ma troppo narcisista. Spesso grande estetica ma troppo “innocua”. Però “Arthur” è un gran disco e “Schoolboys in disgrace” un lampo di genio.
Il loro inno “You really got me” ha il suo fascino ma non regge il confronto (per esempio) con “My generation” dei Who

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 14:16 da enrico gregori


e mo’ mi uccide.. :-)
http://www.youtube.com/watch?v=Kfw85UeJge4

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 14:23 da gea


Ligabue lo utilizzerei come sottofondo nei dormitori pubblici. Basta, mi rifiuto di continuare a parlare con chi confonde il suono del violino col cigiolio di una carrozza.
:-)

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 14:33 da enrico gregori


nelle suites 5 stelle il sottofondo è deleterio, di solito.
preferisco i dormitori.
e al violino preferisco il sax
:-)
ps
mi hai tolto il saluto? :-(

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 14:42 da gea


@ gea:
prendo atto che ti piace il sax. ammesso che tu sappia distinguerlo dal peto di un rinoceronte.

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 15:09 da enrico gregori


mmmmmmmmmmmmmmmmmmeglio tacere…..
:-)

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 15:12 da gea


A patto di tapparsi il naso con i peti di rinoceronte sono convinto si possa fare grande musica (why not).

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 16:21 da Carlo S.


@ carlo:
grande non so, meglio che gigi d’alessio è ben probabile

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 16:31 da enrico gregori


Ok, chi si assume l’onere di dichiarare la fine di questo thread? :-D
Se volete lo faccio io…

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 17:14 da Wu Ming 1


grazie wu ming1 per la supplenza, sono arrivata adesso…

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 17:28 da giulia gadaleta


beh… non pensavo sortisse questo effetto…

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 18:21 da giulia gadaleta


Wu Ming, Maria Lucia Riccioli, Massimo, ma anche gli altri!!!!
Su Lorenzo d’Arabia si è scritto già molto.
Permettetemi di aggiungere alcune mie riflessioni su questo personaggio, che sa di favoloso, come del resto lo furono molti altri nel corso della storia umana.
Premetto che ogni epoca ha i suoi eroi, come le sue vittime, nelle sue più svariate forme delle eliminazioni, sofferenze, persecuzioni, privazioni.
Non credo che gli eroi siano il prodotto unico dello spirito umano, che troverebbe in loro un terreno fertile per manifestarsi come hanno fatto.
Credo di più, che esista una forza universale, la chiamo così perché non è ancora precisabile nei suoi elementi e natura, che coordini il susseguirsi dei fatti storici, allo scopo finale di realizzare un qualcosa, a noi ancora sconosciuto.
Dal susseguirsi dei fatti, si nota sempre un agire e reagire per correggere le mancanze sorte.
Ritengo, quindi, che sia la storia a possederci, a insegnarci a prendere la decisione migliore, seppure essa sarà ancora limitata a causa della nostra incapacità di comprendere l’intricato sistema che regge tutto il Creato.
Il nostro futuro dipende da quello del Creato intero. È lui che interviene con le sue forze gigantesche a nostro favore o sfavore, scegliendo gli individui nei quali suggerire il comportamento da prendere e sostenere fino al suo compimento.
Non sto qui a elencare i nomi dei prescelti, sono tanti e alcuni in ogni bocca.
Essi agiscono come per perseguire un comando interiore, che li rende decisi e coraggiosi, sentendosi uniti e compresi nel loro intimo, sul quale agisce la volontà superiore.
Il compito assunto viene considerato la missione della loro esistenza, che vogliono così portare al suo fine. I loro timori sono di diversa natura, sanno di trovarsi sulla via delle cognizioni superiori, che dona maturità e saggezza e li libera dalla sorte terrena comune, assicurando loro l’accesso a un’altra forma di vita.
Ognuno che percepisce il senso profondo della sua esistenza, dovrebbe sentirsi in una situazione analoga, pur con le dovute differenziazioni, secondo del livello dei compiti da svolgere: un educatore, un insegnante, un politico, un uomo d’affari, un magistrato, un medico, un lavoratore, un pensionato e così via.
Questi eroi vengono anche criticati, dichiarati folli, maniaci; è la loro sorte, che li rende inaccessibili agli esseri comuni e suscitano in loro invidia e aggressione.
Il mondo intero ha bisogno di loro, per non scendere nel buio della mediocrità.
Attenzione a quelli che seguono i dettami del male, da loro dobbiamo proteggerci, prima ancora che possano agire.
È così che noi veniamo sballottati tra il bene e il male, tanto da non riuscire a distinguerli e orientarci giustamente, e il tutto sembra ridursi a un gioco d’azzardo.
Saluti,
Lorenzo

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 18:28 da lorenzo russo


@ Wu Ming
Ho trovato molto interssante la vostra analisi su Salgari come “primo narratore popolare a stigmatizzare il colonialismo europeo come nefasto e liberticida”. Ho scoperto che questa immagine “resistenziale” e “terzomondista” di Salgari è molto forte tra chi ancora lo ama.
Però mi (e vi) chiedo: come è sfuggito all’esotismo? e voi vi siete posti il problema nel delineare i vostri personaggi?

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 18:44 da giulia gadaleta


La risposta è semplice: Salgari *non* è sfuggito all’esotismo, e nemmeno all’orientalismo.
Salgari era molto, ma molto figlio del suo tempo, e non poteva risolvere da solo, dal buco di deretano della provincia e senza aver mai viaggiato davvero, un problema di cui allora, in piena sbornia colonialistica, quasi nessun europeo era conscio. Nemmeno Conrad, che pure le altre culture le aveva conosciute e frequentate, fu immune dai difetti dello sguardo eurocentrico, tanto nel 1975 Chinua Achebe tenne una lezione su di lui alla University of London e lo definì “a bloody racist”!
Eppure, come diceva WM4, nell’approccio salgariano all’avventura esotica (o almeno nel ciclo indo-malese) ci sono anticorpi interessanti, ad esempio la pratica del meticciato, cosa che in Europa faceva ancora orrore (figuriamoci, fa orrore anche adesso, vedi i casini in Olanda sull’islamofobia, vedi i nostri risultati elettorali di 3 giorni fa!).
Per quel che riguarda noialtri, chiaramente noi veniamo un secolo dopo, viviamo in un paese trasformato, dove gli indiani – pakistani compresi, perché per i contemporanei di Salgari erano tutti indiani, non c’era stata la separazione – li incontri ogni giorno o almeno li incroci per strada…
E poi, noi scriviamo dopo trenta-quarant’anni di spostamenti dello sguardo, di studi post-coloniali, di letterature post-coloniali, di dibattito su “Orientalismo” di Edward Said… E’ chiaro che siamo consapevoli del problema, il che non significa che l’abbiamo risolto. E poi, noi stessi ci riteniamo, a modo nostro, “autori post-coloniali”:
http://www.carmillaonline.com/archives/2006/03/001712.html

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 19:21 da Wu Ming 1


Lorenzo, mica lo sapevo che eravate arrivati anche in Italia :-/
http://tinyurl.com/57tc65

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 19:23 da Wu Ming 1


Wu Ming, scusami, ma l’inglese non mi piace e per questo non l’ho imparato che a scuola decenni fa. Non esiste una traduzione in italiano o tedesco, dato che abito in Austria, del contenuto di tinvurl.com
Ti sarei anche grato, se tu mi chiarissi che cosa intendi affermare esattamente con la tua risposta. Aggiungi, per cortesia, qualcosa in più.
Grazie e saluti, Lorenzo

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 20:18 da lorenzo russo


Cari Wu Ming Tutti,
e’ mia convinzione che l’Italia sia un Paese che si e’ ”autoimposto” la colonizzazione statunitense – in principio avviata nel ‘45 per via della nostra sconfitta bellica e poi proseguita per scarsa autoconsiderazione e pigrizia mentale. Come la pensate a riguardo?
Grazie
Saluti Speciali al vostro Numero Uno!
Sergio Sozi

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 21:44 da Sergio Sozi


Rientro adesso. Scusate l’assenza.
Intanto ringrazio tutti per i nuovi commenti.

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 21:49 da Massimo Maugeri


PARLIAMO DELLA NOSTRA STORIA, DEL NOSTRO MITIZZATO RISORGIMENTO!

Certamente si possono, anzi si devono raccontare storie politiche nei modi della narrativa. E’ probabilmente l’unico modo per sbarazzarsi delle storielle edificanti che ci hanno raccontato a scuola. Vi ricordate delle Mie prigioni? Tutto da rivedere… E’ uscito di recente un bellissimo romanzo di FAUSTA GARAVINI, In nome dell’Imperatore (cierre edizioni,Verona) che, utilizzando documenti diretti anche inediti, rovescia i miti del nostro Risorgimento e mostra come si svolsero in realtà i fatti e i processi dei nostri cosiddetti “eroi” (Silvio Pellico,Federico Confalonieri ecc.). Miti fondativi dell’unità d’Italia, frutto anch’essi di un’edificante operazione ideologica, che ci riguarda assai più da vicino di quella costruita negli Stati Uniti d’America.
Fausta Garavini ha già pubblicato i romanzi Gli occhi dei pavoni, Diletta Costanza, Uffizio delle tenebre, oltre a vari racconti usciti in rivista e noti saggi critici. C’è da augurarsi che questo suo quarto romanzo ci aiuti a ripensare, divertendoci, il nostro passato, e a liberarci dalle favole che gli storici di professione non sono riusciti (o non hanno voluto) smascherare.

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 21:50 da maria


@ Wu Ming
Una curiosità tecnica: quanto tempo è durata la fase di scrittura di “Manituana”?
In genere vi impegna di più la fase di studio e ricerca o quella di scrittura?

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 21:50 da Massimo Maugeri


@ Maria
Per presentare libri (soprattutto quelli che non c’entrano granché con i post) è meglio utilizzare questo spazio:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/category/presentazioni-di-libri-ed-eventi/

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 21:53 da Massimo Maugeri


Tra un po’ pubblichero un nuovo post, dedicato a “Non è un paese per vecchi”: il romanzo di McCarthy e il film dei fratelli Coen.
Ma qui, se volete, il dibattito continua.

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 21:56 da Massimo Maugeri


[...] impazza il dibattito su Letteratitudine l’open-blog di Massimo [...]

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 22:14 da SPECIALE PREMIO EMILIO SALGARI-prima puntata — MOMPRACEM BLOG Archive


Rispondo a Massimo Maugeri sui nostri tempi di “produzione”. I nostri romanzi collettivi ci impegnano di solito per circa un triennio. La documentazione viene svolta in gran parte prima di mettersi a scrivere e dura diversi mesi, ma poi continua anche durante la fase di stesura del testo. Per Manituana abbiamo continuato a documentarci fino a poche settimane dalla consegna, anche perché svariati saggi consultati sono di recentissima pubblicazione. Abbiamo iniziato a elaborare l’idea nel 2004 e lo abbiamo consegnato alla fine del 2006.

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 22:59 da Wu Ming 4


Grazie Wu Ming 4.
Considerato che l’opera è gargantuesca (per obiettivi, ambizioni e per… pagine scritte) direi che siete stati tutt’altro che lenti.

Postato giovedì, 17 aprile 2008 alle 23:41 da Massimo Maugeri


x Lorenzo: spiegare le barzellette è cosa ben triste. Rinuncio al compito, facciamo finta che non ho scritto niente :-/

x Sergio: preciserei che nel ‘45 la sconfitta fu nazifascista, non italiana tour court, e fu sacrosanta. A combattere contro gli Alleati c’era la Repubblica di Salò, non più l’esercito italiano. L’esercito italiano non era più nemico degli Alleati dall’8 settembre del 43. Anzi, al Nord molti suoi ufficiali, sottufficiali e soldati semplici combatterono nella Resistenza, e furono tra i vincitori, non tra gli sconfitti.
Detto questo, dopo il ‘45 non sarebbe bastata la pigrizia mentale di cui parli. La subalternità all’America non è solo un problema culturale e di mentalità. Non dobbiamo mai dimenticare che gli USA ci occupano militarmente. E’ un’occupazione “soft” e poco visibile (a parte in certe zone), ma c’è eccome, e a volte episodi come il Cermis ce lo ricordano nel modo più sinistro. Sul nostro territorio pullulano basi americane, alcune con denominazione NATO e altre semplicemente… americane. Come ha fatto notare qualcuno, se la NATO fosse davvero un’alleanza esisterebbero basi italiane o tedesche in Texas, ma siccome non esistono, non è un’alleanza, bensì un’occupazione, che soltanto oggi, terminata la guerra fredda ormai da vent’anni, e terminata la seconda guerra mondiale da più di sessanta, si rivela nei suoi precisi contorni.
Detto questo, vorrei precisare che noi rigettiamo l’antiamericanismo, lo riteniamo dozzinale e poco sensato. A parte che la cultura americana è figlia nostra, dell’Europa, noi tutti siamo *impregnati* di cultura americana che consideriamo nutrimento per le nostre vite. Io ho scritto un romanzo che è un atto d’amore per il jazz. Già durante il Ventennio il jazz e la letteratura americana furono ventate d’aria fresca, prepararono i cervelli al risveglio. Anche per questo ci gettammo tra le braccia degli americani, disposti ad “americanizzarci” (solo in parte, però: io in Texas ci sono stato e ti assicuro che non è affatto come qui, e per fortuna!)

Postato venerdì, 18 aprile 2008 alle 00:06 da Wu Ming 1


Desideravo ringraziarvi tutti per aver partecipato a questo dibattitio.
Un ringraziamento particolare a Giulia Gadaleta per l’intervista, e ai Wu Ming per la disponibilità mostrata.

Postato venerdì, 18 aprile 2008 alle 15:35 da Massimo Maugeri


@ Wu Ming 4
Incrociamo le dita per il tuo nuovo libro (il primo da solista) in uscita.

Postato venerdì, 18 aprile 2008 alle 15:36 da Massimo Maugeri


Il post rimane comunque aperto per ulteriori commenti e/o considerazioni.
Buon pomeriggio e buona serata.

Postato venerdì, 18 aprile 2008 alle 15:37 da Massimo Maugeri


Io mi sento Italiano e, dopo, Europeo. La ricostruzione storica di Wu Ming Uno e’ del tutto condivisibile. Non capisco, pero’, continuo anzi a non capire, perche’ SOLO gli Italiani si siano cosi’ tanto americanizzati. Dopotutto anche i Tedeschi hanno perso la guerra, ma restano se stessi. Sulla perdita della Guerra credo pero’ non ci sia da discutere: l’abbiamo persa, perche’ l’armistizio dell’8 settembre fu sancire la sconfitta. Dopo l’8 settembre del ‘43, dunque, la parte dell’Italia sotto al Governo legittimo (quello di Badoglio) venne di fatto occupata e lo e’ tutt’ora, in maniera abusiva, grazie alle suddette basi ”NATO” o ”USA” (come dici tu: dov’e’ la differenza? Sono solo soldati Statunitensi.)
Grazie per le risposte, Wu Ming Uno e Saluti Cari
Sergio Sozi

Postato venerdì, 18 aprile 2008 alle 15:48 da Sergio Sozi


Beh, la differenza c’è, ed è nella resistenza. Una parte del paese è stata sconfitta, l’altra ha combattuto dalla parte giusta. Non è certo roba da poco.
Ma siamo sicuri di essere gli unici tanto più “americanizzati” degli altri? Non sarà che la pensiamo così per una questione di sguardo, di punto di vista? Non sarà che noi, da quaggiù, vediamo i tedeschi molto… tedeschi, mentre là si percepiscono come “americanizzati”? Noi, da lontano, siamo in grado di cogliere certe sfumature? Abbiamo tutti gli elementi per capire cosa dello stile di vita tedesco è uguale a una volta e cosa invece è un prodotto dell’ibridazione con l’America? Possiamo stabilire percentuali, per cui noi siamo americanizzati al 51% (maggioranza relativa) mentre loro solo al 49%? I tedeschi sono stati occupati quanto e più di noi, e sconfitti (loro sì, completamente, non avendo avuto nemmeno una resistenza), e colonizzati, e smembrati… Io so che gli austriaci, che parlano un tedesco più conservativo, prendono in giro i tedeschi perché “fanno gli americani” e infilano nei discorsi un sacco di parole inglesi non necessarie. Che è esattamente la stessa critica che noi facciamo a noi stessi.

Postato venerdì, 18 aprile 2008 alle 17:03 da Wu Ming 1


Wu Ming 1 e 4, grazie!
Siete stati puntuali e gentilissimi nel rispondere a domande tipo “Hai carta bianca, parlaci del mondo”!
:-)
Non tutti gli scrittori si sottoporrebbero al ring di Letteratitudine!

Postato domenica, 20 aprile 2008 alle 17:53 da Maria Lucia Riccioli


Caro Wu Ming, non è sempre così, che alcuni si trovano all’opposizione ed altri no.
In Germania non fu possibile organizzare una resistenza con successo.
I nazisti tedeschi, sempre metodici e precisi, non lo permisero.
Tutti i tentativi fallirono; a volte per pura fatalità, altre per la tremenda e spietata persecuzione dei servizi segreti, sempre presenti dappertutto.
Sembra, quasi, che una forza superiore avesse deliberato che accadesse tutto ciò che purtroppo successe.
I martiri, sono quelli che dettero alla loro vita un senso unico e liberatorio, almeno per sè stessi, li ammiro tutti e li considero un esempio da seguire.
L’austriaco era, anche lui, involto nei movimenti nazisti. Anche oggi ne esistono molti.
Interessante da notare è che furono abilissimi a occupare di nuovo i posti di alta responsabilità nella nuova amministrazione repubblicana, come se non si fossero incolpati di nulla.
Di nuovo un segno che il nuovo stato aveva bisogno di loro, perché esperti nelle loro competenze e quindi necessari.
Dal punto di vista della lingua, il tedesco austriaco contiene molte differenze dall’altro, è più morbido nelle sue espressioni fonetiche, ma soffre anche lui dell’inflazione degli anglicismi, oggi purtroppo imperante anche qui.
I motivi sono di carattere economico. L’economia globale abbisogna di una lingua semplice e chiara, e l’inglese si adatta più facilmente a questi criteri.
Gli austriaci, solitamente, si dichiarano differenti dai tedeschi, li considerano cugini e, secondo dei casi, buoni o cattivi. Di solito, ciò che viene deciso in Germania, viene introdotto in breve tempo anche in qui.
Il tempo d’occupazione delle forze alleate fu, nel suo insieme, buono; soprattutto gli americani, gli inglesi e i francesi aiutarono la popolazione, provata duramente dalla guerra, con rifornimenti di viveri e oggetti di prima necessità; solo i russi furono temuti, perché indisciplinati e violenti contro le donne.
L’austriaco comune è diventato diffidente e timoroso; la storia gli ha insegnato che i regni non si tengono a lungo e i pericoli dal fuori possono sorgere sempre di nuovo.
C’è però da notare ancora, che la generazione dei giovani è più aperta all’Europa di quella degli anziani, sulle quali pesa il passato scuro.
La maggioranza considera il movimento europeo d’unificazione come una continuazione della politica asburgica. Non manca lo scetticismo, derivante dal fatto, che l’unificazione dell’Europa si presenta maggiormente come una decisione presa dai concerni per valutarsi meglio nel mondo globale, trascurando, però, i diritti e le necessità dei suoi popoli.
Come sempre, il cittadino pagherà il conto finale di un sistema dettato dai soliti affaristi scaltri e ipocriti, e la storia si ripeterà come per esprimere una volontà fuori di noi.
Saluti,
Lorenzo

Postato domenica, 20 aprile 2008 alle 20:16 da lorenzo russo


A Wu Ming Uno,
be’, sono molti gli indicatori che ci segnalano la ”frattura” intervenuta a dividere l’Italia pre e postbellica; tali fratture, pur non essendo un germanista, non sono cosi’ evidenti nella Germania attuale. Qualche motivo per dire cio’:
1) La tv e la radio nazionali tedesche danno tutt’ora spazio anche molto alle produzioni tedesche o non statunitensi (in Italia chi vede piu’ Monica Vitti o Tognazzi in tv?);
2) Lo stile di vita medio di un Tedesco e l’organizzazione statale sono ancora legati ad un’efficienza e ad uno Stato Sociale frutto di scelte politiche del tutto tedesche (assistenza sociale, sanita’, eccetera). In Italia Stato e privato (cittadino privato e azienda privata) fanno a gara a chi privatizza prima e a chi e’ piu’ liberista.
3) L’Italiano e’ la lingua europea piu’ (spesso inutilmente) contaminata dall’inglese – guardiamo i giornali: basta confrontare la FAZ e il Corriere della Sera per coglierlo. Leggiamo una pagina web tedesca ed una italiana: idem. Sentiamo come parla la gente da noi e sentiamo i Tedeschi.
Poi, e’ ovvio che le lingue si trasformino. Come noi non parliamo piu’ alla maniera di Leopardi, i Tedeschi non parlano piu’ come Goethe. Ma noi siamo proprio in balia dell’inglese, e’ un utilizzo sfrenato ed eccessivo. Loro stanno un po’ piu’ tranquillini… per non dire dei Francesi, che ammiro sinceramente.

Postato domenica, 20 aprile 2008 alle 20:38 da Sergio Sozi


Sergio, ultima e poi non posso più, sono in partenza.
Sul punto 1: guarda che negli ultimi dieci anni il quadro è mutato drasticamente, la tv italiana trasmette una marea di programmi e di fiction a produzione italiana. La preponderanza di roba “nostrana” nei palinsesti è difficile da negare, dai “Cesaroni” a “Don Matteo”, dalla fiction su Riina a quella su Provenzano, da “Distretto di polizia” a “La Squadra”, da “Un posto al sole” ai vari neo-sceneggiati tipo “Guerra e pace”, “Caravaggio” etc. Il problema è che molta di questa roba è sbobba terrificante, costruita solo e unicamente per intercettare il presunto “gusto medio” del ceto medio. Non sono un protezionista culturale, se una cosa italiana fa schifo e una americana è di alta qualità, preferisco la seconda.
Sul punto 2: questo è vero, però non dimentichiamoci che il welfare europeo che abbiamo conosciuto era anche una conseguenza del Piano Marshall. Quando gli americani invasero la Germania erano grandi paladini dello stato sociale, venivano da dieci anni di New Deal e politiche keynesiane, e rimasero keynesiani per altri trent’anni. E’ con l’elezione di Reagan che inizia la nuova voga. Lo dico per scongiurare dicotomie del genere: il welfare state è una cosa europea, le privatizzazioni sono una cosa americana. Il liberismo nasce in Europa, dopotutto.
Sul punto 3: se poi pensi che chi usa l’inglese in realtà non lo parla né lo capisce, e così si sentono degli sfondoni pazzeschi, o si assiste all’invenzione di parole che in inglese nemmeno esistono…. Io, comunque, da linguista dilettante quale sono, non posso non trovare intrigante qualunque processo di “pidginizzazione” della lingua :-) Le cose che davvero non sopporto sono le cose tipo “Election Day”, “Family Day” etc. A Trieste qualche anno fa ribattezzarono la sagra della sardina (che là chiamano “sardòn”)… SARDON DAY. Roba da fucilazione.

Postato lunedì, 21 aprile 2008 alle 00:09 da Wu Ming 1


@ Wu Ming 1 (sul punto 1):
bisogna registrare anche un significativo ritorno dei film/commedia italiani anni Settanta (quelli della c.d. commedia sexy).

Postato lunedì, 21 aprile 2008 alle 00:21 da Massimo Maugeri


Tutto giusto, Wu Ming Uno: pero’ i soldi del Piano Marshall da noi se li sono mangiati senza fare un cavolo, in Germania li hanno usati per fare lo Stato Sociale eccetera. Vedi che sono meglio di noi? Ammettiamolo e cresciamo vedendo anche il modello tedesco.
Lingua: ognuno parli la propria che, in Italia, molti manco sanno l’italiano. Di tedeschi altrettanto ignoranti ne trovi pochissimi.
Buon Viaggio!
Sergio
P.S.
Stavolta sono stato rapido. Piu’ dei treni – spero di no…

Postato lunedì, 21 aprile 2008 alle 00:34 da Sergio Sozi


Giusto (son d’accordo) quel che dici sulla qualita’ delle pellicole e del teatro, ecc., in tv: allora dove stanno De Sica e Fellini, Rossellini, Albertazzi, De Filippo, Sordi, Magnani? Solo la monnezza italiana e la monnezza statunitense, possiamo vedere sulla RAI che paghiamo noi?

Postato lunedì, 21 aprile 2008 alle 00:36 da Sergio Sozi


… motto della tivu’ italiana (privata e pubblica): ”Se nun e’ monnezza nun la volemo!” (E questo detto da una controfigura di Sordi). Pensiamoci… andrebbe bene come slogan da proporre a viale Mazzini…

Postato lunedì, 21 aprile 2008 alle 00:38 da Sergio Sozi


P.S.
Pero’, tornando seri, sono sicuro che uno Stato Sociale perfetto come quello tedesco, in America neanche Keynes o Roosvelt lo avrebbero mai nemmeno ipotizzato. E la Svezia, inoltre… eeh… roba mai vista in tutto il mondo.

Postato lunedì, 21 aprile 2008 alle 00:42 da Sergio Sozi


[...] cercando di esprimere da anni. Infine, nel 2007, ci fu l’uscita in simultanea del nostro Manituana e di Nelle mani giuste di Giancarlo De Cataldo. Nel memorandum è descritta la sensazione provata [...]

Postato mercoledì, 25 febbraio 2009 alle 00:45 da Kataweb.it - Blog - LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » Blog Archive » NEW ITALIAN EPIC. Incontro con Wu Ming 1



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