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Archivio del 17 aprile 2008

giovedì, 17 aprile 2008

NON È UN PAESE PER VECCHI: IL LIBRO, IL FILM

Altre volte abbiamo discusso sul binomio libri-film. Lo abbiamo fatto in maniera approfondita in questo post.


Riprendiamo il discorso per analizzare Non è un paese per vecchi (Einaudi, 2006, euro 17), romanzo di Cormac McCarthy (vincitore del nostro gioco: Letteratitudine book award 2008, con La strada) e film dei fratelli Coen.
Discutiamo sia dell’opera narrativa che di quella cinematografica partendo da due recensioni: la prima, relativa al romanzo, è firmata da Giuseppe Genna (e pubblicata su Carmilla online); la seconda, sul film, proposta da Gabriele Montemagno in esclusiva per Letteratitudine.
Vi invito a dire la vostra: sul libro e sul film.
Poi possiamo discutere sui temi generali connessi alle suddette opere.
Secondo Genna il romanzo di McCarthy è “un attacco formidabile al sistema America, al suo sogno putrefatto, alla sua incapacità di radicarsi storicamente nella sua stessa vicenda”. E aggiunge: “Questo romanzo non è un campanello che squilla: è già la campana a morto di un Paese che, allegorizzato a vent’anni dall’attuale situazione, entra nel ventre molle dell’attualità, e lo squarcia senza remore.”
Secondo Montemagno “si potrebbe pensare che ai Coen non prema tanto mostrare la violenza quanto raccontare un mondo (solo gli Stati Uniti? Solo quelli? O solo la dura legge che vige fra i trafficanti di droga?) in cui l’unico linguaggio appare quello della violenza, in cui è divenuto pienamente consueto e legittimo procurarsi le armi nei negozi, in cui gli uomini sono relegati al rango di animali. Un mondo in cui si preferisce delegare le decisioni al caso o al semplice interesse.”
Vi giro, infine, le domande finali del pezzo di Montemagno:
E’ ormai così pienamente diffuso l’uso della violenza, senza il quale sembra non sia più possibile ripristinare la giustizia? E, comunque, si riesce a ripristinare la giustizia? E’ viva l’importanza attribuita alla vita e alla dignità degli uomini?

E aggiungo queste mie:

Le società di oggi sono più violente di quelle di ieri?

E l’Italia, che è un paese di vecchi… non è un paese per vecchi?
Massimo Maugeri
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Non è un paese per vecchi (il libro) recensione di Giuseppe Genna

A volte gli scrittori hanno problemi – o ne creano ai loro lettori. E’ il secondo caso quello di cui qui si scrive. Sono assolutamente sconcertato dalla inaspettata prova di potenza che Cormac McCarthy, autore della memorabile Trilogia della Frontiera (Meridiano di sangue, Cavalli selvaggi e Città della pianura), offre con questo suo nuovo, chirurgico romanzo, Non è un paese per vecchi. Non è un mondo né per vecchi né per giovani, quello in cui McCarthy ambienta il più classico inseguimento a tre dell’hard-boiled anni Cinquanta, pura occasione narrativa per costruire la premessa maggiore alla conclusione di un sillogismo sorprendente, che ha tappe consimili a un’operazione endoscopica: la spietatezza pura, la spietatezza del tempo in generale e di questo tempo in particolare, e di quest’epoca americana ancor più in particolare.
E ciò nonostante il tutto si svolga agli inizi degli anni Ottanta, fatti i debiti calcoli sull’età del più empatico tra i protagonisti, il trentaseienne Moss, reduce dal Vietnam, di professione saldatore, che sarebbe reduce anche da una sfortunata giornata di caccia all’antilope, se non trovasse, immersi in un silenzio assoluto, alcun SUV con a bordo trafficanti di droga, messicani, morti o quasi. C’è stata una sparatoria. Qualcuno è fuggito coi soldi. Quel qualcuno, Moss, lo ritrova: è morto a poca distanza ed è a lui che l’ormai già ex saldatore strappa di mano una borsa contenente due milioni di dollari. E’ l’inizio di una fuga devastante, che ha per protagonista il vecchio sceriffo Bell insieme a un sicario di professione, l’impronunciabile Chigurh, psicopatico, dotato di un’arma allucinante per potenza e modalità di esplosione dei colpi – un aggeggio ad aria compressa che lo rende estraneo a qualunque contesto narrativo, esattamente come il suo sguardo gelido, descrivendo il quale sembra di avvertire tremare il polso perfino al vecchio cuoiato McCarthy, lo scrittore che, con Ellroy, dispone attualmente dell’immaginario più tenebrosamente implacabile del comparto letterario Usa.
A un ritmo che non è frenetico perché viene calmato dai frequenti dialoghi, spesso monosillabici, ma che rimane velocissimo (esattamente come a uno psicotico si dà il Serenase e questo non muta di una virgola la situazione generale), la fuga si snoda in un on the road cupissimo e al calor bianco, sul confine col Messico: stanze di motel affittate e riguardate come tane di serpenti, auto noleggiate o rubate per viaggi che non sono scorribande ma precisi spostamenti che costruiscono la geometria solida di un inseguimento che non lascia respiro, confronti all’arma non bianca che sono freddissime scene di devastazione organica, un profluvio di sangue congelato dallo stile del geniale autore ritiratosi in Texas. Il corredo c’è tutto. Sarebbe già un gran libro a 2/3, ma a 2/3 il giallo ha la sua soluzione più devastantemente impietosa e lascia aperta una porta che nessuno sarà in grado di chiudere.
E’ a questo punto che McCarthy, improvvisamente, al di fuori di ogni logica canonica, inserisce una sorta di secondo romanzo, che è l’esatto opposto del romanzo di formazione: un romanzo di addio, una narrazione di congedo, la profezia enunciata nel momento in cui si avvera e si consuma. La voce fondamentale è quella del vecchio Bell (ma c’è chi è anche più vecchio di lui, che parla e dice cose pesanti), e non resta che assistere, inebetiti come davanti a un miracolo, a questa anticipazione della disgregazione: personale e civile, sociale e morale. Si cammina sul filo di un rasoio: da una parte c’è il rischio del moralismo reazionario tipico degli Stati del sud, mentre dall’altra parte si rischia l’abisso della verità: si cade da questa parte, credo, si affonda in questo abisso. Il romanzo di McCarthy potrà anche sembrare un atto d’accusa alla modernità in genere, ma è uno specchietto per le allodole: si tratta in realtà di un attacco formidabile al sistema America, al suo sogno putrefatto, alla sua incapacità di radicarsi storicamente nella sua stessa vicenda, come dimostra l’apice poetico del libro, nelle pagine finali: uno scolatoio scalpellato in pietra due secoli prima, che, come scrive McCarthy, poteva durare diecimila anni: ma non durerà tanto.
Occhio raggelante che vede tutto, quello dello scrittore di Non è un paese per vecchi: vede la decadenza americana e la descrive, seppure con brachilogismi magistrali, secondo le metriche delle grandi epopee, quelle che noi europei consideriamo minori, vergate dagli antichi quando gli imperi crollavano. Questo romanzo non è un campanello che squilla: è già la campana a morto di un Paese che, allegorizzato a vent’anni dall’attuale situazione, entra nel ventre molle dell’attualità, e lo squarcia senza remore.

Giuseppe Genna
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Non è un paese per vecchi (il film) recensione di Gabriele Montemagno

Bisogna vedere Non è un paese per vecchi, il nuovo ed ultimo film dei fratelli Coen. Bisogna proprio vederlo. Non solamente perché è stato il vincitore all’ultima serata degli Oscar (miglior film, migliore regia, migliore sceneggiatura non originale e attore non protagonista). Anzi, si potrebbe dire che ciò non sia essenzialmente rilevante, poiché è successo che l’attribuzione di premi Oscar non abbia garantito una reale qualità ad una pellicola. Bisogna vederlo, invece, perché questo film si propone come uno sguardo lucido e pienamente disincantato sul nostro presente, a partire proprio dal titolo (che nell’originale inglese suona come quello italiano: No country for old men), che è, come si nota, assertivo. La vicenda, ambientata nel 1980 e che si snoda nei territori al confine fra Texas e Messico, è ispirata all’omonimo romanzo di Cormac McCarthy; ma i Coen sembrano rileggerla attraverso quello stile grottesco ed iperbolico presente nei loro precedenti film. L’inseguimento tra un cacciatore che, giunto su un luogo desertico, teatro di una strage fra trafficanti di droga, trova per caso la valigia piena di due milioni di dollari (vero e proprio bottino del traffico di droga), uno spietato (quanto feroce) killer che insegue detto bottino e vuole uccidere il cacciatore, ed un anziano sceriffo che tenta vanamente di proteggere il cacciatore fuggito con detta valigia, ha momenti di fredda ed implacabile violenza che appare allo spettatore, appunto, iperbolica e quasi non reale. Alcune uccisioni non vengono addirittura raccontate, ma viste nelle loro conseguenze. Si potrebbe pensare che ai Coen non prema tanto mostrare detta violenza quanto raccontare un mondo (solo gli Stati Uniti? Solo quelli? O solo la dura legge che vige fra i trafficanti di droga?) in cui l’unico linguaggio appare quello della violenza, in cui è divenuto pienamente consueto e legittimo procurarsi le armi nei negozi (i frequenti acquisti di armi da parte dei protagonisti), in cui gli uomini sono relegati al rango di animali (nel detto luogo della strage dei trafficanti, giacciono gli uni accanto gli altri i cadaveri degli uomini e quelli dei cani). Un mondo in cui si preferisce delegare le decisioni al caso o al semplice interesse. E tuttavia, un mondo in cui l’essere uomini non pare essere del tutto assente se è vero che il personaggio dello sceriffo (interpretato da un ottimo Tommy Lee Jones) si arrovella nella ricerca del terribile killer per proteggere il cacciatore e la giovane moglie. E si arrovella perché avverte la sua impotenza nel far rispettare la giustizia, il senso dell’importanza della vita degli essere umani, l’assegnazione dei “cattivi” alla legge. Quindi quello che tutti noi pensiamo debba essere “l’ordine” e lo stato delle cose. Ma lui è anziano ed è pervaso da un senso di disincanto circa la possibilità di poter far rispettare tale “ordine”. Appunto, il paese cui appartiene non è più per “vecchi”; non c’è più spazio per quel “vecchio” modo di vedere le cose. Ottimi i Coen che ci fanno riflettere su ciò attraverso una pellicola dura, eccessiva, ma lucida.
E verrebbe da porsi qualche domanda. E’ ormai così pienamente diffuso l’uso della violenza, senza il quale sembra non sia più possibile ripristinare la giustizia? E, comunque, si riesce a ripristinare la giustizia? E’ viva l’importanza attribuita alla vita e alla dignità degli uomini?

Gabriele Montemagno

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Il trailer del film

Pubblicato in SEGNALAZIONI E RECENSIONI   134 commenti »

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