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Archivio del 15 luglio 2007

domenica, 15 luglio 2007

ALI PODRIMJA: LA POESIA CHE VIENE DAL KOSSOVO (di Andrea Di Consoli)

Foto_andreaÈ appena uscito, per i tipi della De Angelis, il primo libro di poesie tradotto in Italia del poeta kossovaro Ali Podrimja (Deserto invasivo, a cura di Blerina Suta, introduzione di Filippo Bettini, che giustamente si sofferma sulla “petrosità” della lirica di Podrimja, considerato uno dei maggiori poeti viventi del Kossovo). Abbiamo incontrato il poeta di Gjacova a Roma, in occasione del festival Mediterranea.

- I Balcani sono un groviglio di culture, etnie, religioni, linguaggi, tradizioni, e molto spesso è difficile orientarsi in questo coacervo. Lei come si definisce?

E’ vero. I Balcani sono un groviglio complicato. Sono accadute, nel corso dei secoli, moltissime assimilazione, su tutti i versanti. Molti albanesi sono stati assimilati dai serbi, anche se non hanno mai perso il senso della “patria albanese”. Io, molto semplicemente, sono un albanese.

- E la religione?

La religione, nel popolo albanese, non ha mai avuto un ruolo determinante. Io mi sento albanese indipendentemente dal nome che ho, che è mussulmano. In materia di religione il popolo albanese è il più tollerante d’Europa. Tagore, scrivendo al suo popolo, disse: “Andate in Albania e imparerete che cos’è la tolleranza religiosa”. 

- Ne è proprio sicuro?

Non è mai successo in Albania che la divisione religiosa sia stata causa di un conflitto. Un esempio è la figura di madre Teresa di Calcutta. Per onorare la figura di questa donna straordinaria, quando c’è stata la beatificazione, sono venuti a Roma tutti i rappresentanti delle tre grandi religioni albanesi: i mussulmani bektashi, i cattolici, gli ortodossi. 

- Come viveva uno scrittore kossovaro nella ex Jugoslavia? Com’era il clima politico quando lei, negli anni Settanta, pubblicò il suo primo libro?

In Jugoslavia, quando nel 1971 ho pubblicato Grido, il mio primo libro, c’era libertà di creatività poetica. Gli autori albanesi che vivevamo e scrivevano in Jugoslavia si sentivano uguali agli altri poeti della ex Jugoslavia. Il grande sviluppo della letteratura lo indicava anche il fatto che c’era una casa editrice in albanese che si chiamava Rilindja. E poi esistevano molte riviste e molti giornali in albanese, non solo a Pristina, ma anche a Shkup e a Podgorica. Non c’è da stupirsi di tutta questa libertà nella ex Jugoslavia, perché noi eravamo la terza popolazione per numero di persone, dopo i serbi e i croati. Dicevano in quel tempo che l’esercito jugoslavo era composto soprattutto da albanesi, perché eravamo il popolo più giovane dell’area. La comunità albanese aveva una varietà di attività letterarie. Davamo, inoltre, molta importanza alla traduzione dei poeti serbi e croati nella nostra lingua.

- Chi traducevate negli anni Settanta tra gli scrittori “occidentali”?

Dante, Petrarca, Boccaccio, Malaparte, Pirandello, Moravia, Buzzati, Ungaretti, Croce, De Sanctis. E poi Dos Passos, Faulkner, Pound.

- E in Albania? Com’era la situazione in Albania?

In quegli anni, in Albania, si leggevano clandestinamente gli autori internazionali che noi traducevamo. Siamo stati una finestra aperta per i poeti dell’Albania. Eravamo aperti anche rispetto alle letterature della ex Jugoslavia. Per appianare i conflitti noi pubblicavamo anche autori che avevano scritto i famosi “elaborati” contro la questione albanese. Il peggiore era Cubrolovic. E Ivo Andric.

- E di Tito cosa ci dice? Proprio tre giorni fa, sul Corriere della sera, Bettiza ha parlato di Tito in termini curiosi, ovvero come di un dandy aristocratico. C’è addirittura una fotografia del 1974 che lo ritrae insieme a Sophia Loren. Lei cosa ne pensa?

Tito era liberale, perciò l’arte non veniva controllata in modo rigido. Personalmente ero molto giovane allora. Comunque anche oggi, sia gli albanesi, sia i macedoni, che componevano a suo tempo l’ex Jugoslavia, hanno un sentimento di rispetto per Tito. Ancora adesso vedo la foto di Tito nelle case e nelle istituzioni statali della Macedonia. Tito ha saputo avvicinare i popoli della ex Jugoslavia. Era cosciente che un tempo sarebbe scoppiato il nazionalismo serbo, perciò aveva un atteggiamento equanime verso tutte le popolazioni. Voleva tenere la tranquillità interna del paese, in quanto da un lato c’era il pericolo del blocco dell’Est, dall’altro c’era l’Occidente. Perciò ha creato questo terzo blocco indipendente con gli Arabi, con l’India, con alcuni paese dell’Africa. Tito era un uomo aperto, perciò si è fatto fotografare con Sophia Loren. Tito, infine, non lo dimentichi, era un croato cattolico.

- A che punto è il Kossovo?

Il Kossovo, di fatto, è indipendente. Ultimamente il nazionalismo serbo ha incominciato ad alzare di nuovo la voce, perché dalla loro parte c’è Putin, il quale sogna, proprio come Milosevic, una Jugoslavia identificata con la Serbia. Tutto questo, ovviamente, per rendere più vulnerabile l’Europa. L’Unione Europea si compone di molti stati slavi, e quindi creare tensione è un modo per indebolire l’Europa. Io temo soltanto che succeda qualcosa di grave, perché Putin segue le orme di Eltsin, che in un’occasione ad Atene disse: “Da Atene, passando per Belgrado fino a Mosca, creeremo un grande stato ortodosso”. Questo i nazionalisti lo hanno inteso come un segnale di appoggio alle loro mire.

- Lei odia i serbi oppure odia i nazionalisti serbi?

Non odio i serbi, ho molti amici serbi. La disgrazia dei serbi sono i loro nazionalisti. Le racconto una cosa. Prima di arrivare a Roma ho visto un reportage tedesco dove un giornalista è riuscito a entrare nel “castello” del partito radicale nazionalista serbo. Il giornalista tedesco chiede a un membro di quel partito delle vittime di Serbrenica, e questo nazionalista offende pure gli uccisi e i morti. Infatti dice: “Non è vero che sono stati uccisi ottomila mussulmani. Quegli ottomila mussulmani morti sono stati presi in giro per la Jugoslavia e portati lì”. Questa è una cosa vergognosa, perché offende la memoria dei morti.

- Com’è possibile tutto questo?

La follia dell’egemonia e della sopraffazione sul prossimo, è questo che ha causato il disastro. Gli albanesi del Kossovo non avevano un altro tetto sotto cui abitare. I serbi avevano tutte le armi della ex Jugoslavia. Anche adesso c’è la paura che qualcosa di terribile possa accadere. Io temo a causa del nuovo asse Belgrado-Mosca.

- Come ricorda il bombardamento della Serbia nel 1999?

L’intervento della Nato era necessario, perché prima che questo intervento ci fosse, un milione di kossovari erano diventati profughi. Poi, quando sono tornati, hanno trovato centoventimila case bruciate.

- E di Rugova, prematuramente scomparso, cosa ci dice?

Rugova era un mio collega, abbiamo collaborato molto. Era un critico letterario straordinario. Il suo merito era di dirigere il primo partito democratico che segnava un gran numero di membri al suo interno. Lui era riuscito in modo pacifico a restituire la fiducia al popolo albanese. Dopo aver visto che il pacifismo non portava da nessuna parte, sono sorti i movimenti per la liberazione, i cui componenti erano per la maggior parte intellettuali, studenti e contadini.

- E di D’Alema cosa pensa? L’ex premier italiano, proprio sul Kossovo, si assunse una grandissima responsabilità “morale” e politica.

I kossovari hanno simpatia per chi ha appoggiato i bombardamenti in Serbia, per chi ha appoggiato la causa kossovara. La coscienza europea ebbe un sussulto, con quella decisione. In quel tempo si uccidevano le persone come fossero topi.

- Qual è la differenza tra un kossovaro e un albanese?

Fa parte della letteratura albanese sia chi scrive in Kossovo, sia chi scrive in Albania, sia chi scrive in Calabria presso le comunità arbareshe. Solo i confini fisici hanno diviso gli albanesi. Il nostro Risorgimento letterario ha le radici presso la letteratura arbareshe. Mi riferisco al grande Girolamo De Rada, il nostro Dante. Considero gli arbareshe come un grande ponte tra l’Albania e l’Italia.

- Senta Podrimja, provo a esprimerle una mia riserva. E’ come se voi “poeti dell’Est”, vissuti fino a pochi anni fa sotto il dominio della storia e della politica, aveste difficoltà a svincolarvi da un certo linguaggio politico, da una certa “retorica” dell’impegno civile.

Penso che l’arte, anche se scrive di politica, non può essere vittima della politica se sa cogliere il bello. Saper trovare i motivi, ma soprattutto saper dare dei messaggi, è questo il compito dell’artista. Sarebbe una vergogna, in una realtà così grave, non diventare specchio di quello che succede, non essere impegnato. E’ vietato che la memoria muoia. Si scrivono cose anche su eventi tanto gravi affinché questi eventi non accadano più. Tutta una pletora di scrittori ha testimoniato, dopo la seconda guerra mondiale, quello che è accaduto al tempo dei nazisti. Se uno scrittore chiude gli occhi di fronte a quello che accade, è un traditore.

- Parole forti, le sue. Non pensa, invece, che un giorno lei verrà considerato semplicemente un poeta engagé, magari criticamente, così com’è avvenuto in Italia negli anni Sessanta, quando i neoavanguardisti si scagliarono contro i neorealisti “impegnati” del dopoguerra?

Ogni generazione completa quella passata. La memoria non può essere una cosa che si può superare. La memoria deve esistere. Ogni tempo avrà bisogno della memoria e della coscienza storica. Io penso che ci sarà sempre una parte della letteratura che avrà bisogno di questa memoria. La letteratura ha il suo messaggio. Giocando con le parole non si può fare nessun tipo di arte.

Andrea Di Consoli

Andrea Di Consoli è nato a Zurigo nel 1976 da genitori lucani. Attualmente vive a Roma, dove lavora ai programmi radiotelevisivi della Rai. Collabora inoltre a «l’Unità», a «Stilos» e a varie riviste, inoltre scrive sul «Messaggero» e «Nuovi Argomenti». Ha pubblicato il saggio Le due Napoli di Domenico Rea (Unicopli 2002), la raccolta di poesie Discoteca (Palomar 2003) e i racconti di Lago negro (L’ancora del Mediterraneo 2005). Il romanzo Il padre degli animali (2007) ha vinto il premio Mondello ed è finalista al premio Viareggio-Repàci.

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