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mercoledì, 4 aprile 2007

A CUBA NON SI LEGGE E NON SI SCRIVE POESIA (di Gordiano Lupi)

Gordiano Lupi

A Cuba non è facile comprare un libro e sceglierlo secondo il proprio gusto, anche perché gli stipendi sono così bassi che in pochi possono spendere denaro per la lettura. Di questi tempi è troppo più importante sopravvivere: se investiamo soldi in carta stampata non ne restano per riso e fagioli. I libri costano cari, soprattutto nei negozi di Stato che vendono in moneta convertibile, la carta scarseggia, le produzioni popolari sono ridotte all’osso. Restano i negozi di libri usati che vendono e affittano per pochi pesos vecchi libri ingialliti dal tempo. Negli anni Sessanta e Settanta circolavano molti libri, grazie al lavoro importante di editori come Huracán, Imprenta Nacional de Cuba, Casa de las Americas, Cocuyo y Dragón e molti altri. Tra le mani dei lettori passavano titoli importanti della letteratura mondiale a prezzi modici e in edizioni tascabili. All’inizio degli anni Novanta, con l’arrivo del periodo speciale, la mancanza di carta ha provocato una drastica riduzione delle tirature dei libri e la scomparsa di molti editori.
La Fiera del Libro dell’Avana è diventata l’unica occasione per acquistare libri, che tra l’altro sono sempre più costosi e politicizzati. Quest’anno il libro più venduto durante la Fiera del Libro è stato Cento ore con Fidel di Ignacio Ramonet, ignobile volume pubblicato anche in Italia e che rappresenta uno squallido copia-incolla di vecchie dichiarazioni del Comandante. Un altro libro molto venduto è stato Tinísima, un romanzo della scrittrice messicana Elena Poniatowska basato sulla vita della controversa fotografa rivoluzionaria Tina Modotti.
La Fiera del Libro dell’Avana è stata un evento importante al quale hanno preso parte oltre seicentomila persone che hanno acquistato più di un milione di libri. La maggior parte dei visitatori, però, sono andati soltanto a guardare, perché non possedevano denaro sufficiente per acquistare libri. Un’inchiesta condotta da una rivista di regime come Bohemia riferisce che tra i giovani è diminuita l’abitudine alla lettura, ma non si interroga sui motivi. Uno studente di medicina mi ha confessato: “Qualche giorno fa ho visto in una libreria della calle Obispo un libro di Harry Potter e mi sarebbe piaciuto compralo, ma non ho potuto perché lo vendevano in pesos convertibili e non avevo abbastanza denaro”.  Per chi ha pochi soldi e molta voglia di leggere restano i venditori di libri usati, che spesso possiedono edizioni straniere di autori proibiti come Cabrera Infante e Milan Kundera. Forse non tutti sanno che a Cuba sono molti gli scrittori che il regime toglie dalle librerie e che considera immorali e servi degli imperialisti. George Orwell (come potrebbe Castro far conoscere ai cubani La fattoria degli animali o 1984?), Vargas Llosa (troppe prefazioni a Reinaldo Arenas e molte critiche al regime) e Solgenitsin (a Cuba non esiste Arcipelago Gulag) sono alcuni esempi eclatanti. Purtroppo anche i venditori di strada spesso praticano prezzi in divisa e finisce che anche i libri usati restano appannaggio dei turisti stranieri. Le Biblioteche Indipendenti cercano di diffondere libri gratuitamente, ma vengono osteggiate dal governo e spesso capita che qualche pericoloso bibliotecario si faccia qualche anno di galera soltanto per aver procurato letture non consigliate da Castro. Per fortuna che Gabriel Garcia Marquez è in buoni rapporti con il regime, altrimenti i cubani non avrebbero potuto leggere neppure Cent’anni di solitudine o L’amore al tempo del colera. I libri proibiti circolano grazie ai dissidenti e ai bibliotecari indipendenti, che rischiano la galera per promuovere l’amore per la lettura.

A Cuba è difficile leggere, ma è ancora più complicato scrivere in modo indipendente e libero. Sono molti i poeti che soffrono costrizioni ideologiche dopo il famoso assunto di Castro: contra la revolución nada con la revolución todo. Molti poeti hanno vissuto in galera per opporsi al regime comunista e oggi sono in esilio: Armando Valladares, Ernesto Díaz Rodríguez, Jorge Valls, Ángel Cuadra, María Elena Cruz Varela e molti altri. I poeti cubani incarcerati per motivi ideologici e costretti ad accettare l’esilio e l’allontanamento dalle loro famiglie sono un numero indescrivibile. Ricordiamo ancora: Gastón Vaquero, Augustín Acosta, José Ángel Buesa, Heberto Padilla, Belkis Cuza Malé, Manuel Díaz Martínez, Antonio Conte, Raúl Rivero, Efraín Riverón e Manuel Vázquez Portal. La poesia ha bisogno di libertà per poter cantare e a Cuba per chi non abbassa la testa di fronte al regime non esiste diritto di parola. Pare di sentire nell’aria i versi di Salvatore Quasimodo: E come potevamo noi cantare?/ Pure le nostre cetre erano appese/, oscillavano lievi al triste vento… Cuba è una terra infida per i poeti, se si pensa che persino Pablo Neruda, il più grande lirico sudamericano, è considerato lettura proibita.  Raúl Rivero, considerato il più importante poeta cubano contemporaneo, è un esempio di quanto può essere spietato il regime castrista con gli uomini liberi. Rivero ha scontato alcuni anni di galera e oggi vive esiliato a Madrid solo per aver osato scrivere senza sottostare alla censura. Per conoscere l’opera poetica degli scrittori cubani incarcerati ed esiliati l’unico libro esistente in Italia è Versi tra le sbarre – antologia di poesia cubana dissidente (Edizioni Il Foglio, 2006). Come mai in Italia grandi editori come Mondadori dànno credito alle interviste fasulle e inginocchiate di un pessimo giornalista come Ramonet e soltanto un microscopico editore dà voce agli uomini liberi che si ribellano alla tirannia? La speranza è che certe connivenze con le dittature vengano giudicate dalla storia.

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

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giovedì, 29 marzo 2007

EROI E DISSIDENTI (di Gordiano Lupi)

Gordiano Lupi

In Italia esistono associazioni vicine alla sinistra più radicale che credono di fare il bene di Cuba e invece fanno soltanto il gioco di un dittatore. Voglio sperare che siano composte da gente in buona fede, accecate dall’ideologia, ammaliate dal ricordo di una speranza rivoluzionaria e affascinate dal carisma di un leader. Queste persone che manifestano davanti all’ambasciata degli Stati Uniti per chiedere “la liberazione dei cinque eroi prigionieri dell’impero” forse non conoscono la lettera che Omar Moisés Hernández ha scritto a Ricardo Alarcón dal carcere di Sancti Spíritus. Omar Moisés Hernández  è un poeta – giornalista che sconta una pena infame solo per aver manifestato le sue idee ed è uno degli scrittori cubani che sono contento di aver pubblicato nella raccolta Versi tra le sbarre (Il Foglio, 2006). I cinque eroi prigionieri dell’impero, invece, non sono altro che cinque componenti dei servizi segreti cubani catturati in flagrante azione di spionaggio in territorio nordamericano. In una parola sono cinque spioni presi nell’esercizio delle loro non benemerite funzioni. Provate a immaginare se una nazione confinante (e nemica) inviasse in territorio italiano equivoci personaggi incaricati di spiare segreti militari. Non credo che in caso di cattura saremmo molto tolleranti, anche se nel nostro paese una pena giusta e non contraria al senso di umanità fa parte della cultura giuridica. Pare che negli Stati Uniti non sia la stessa cosa e che per gli spioni catturati in flagrante sia prevista una dura reclusione, visto che i cinque eroi sono alloggiati in una sorta di buco che lascia poca libertà di movimento. Il governo cubano si lamenta nelle sedi internazionali per un trattamento ingiusto che Granma e Cubavision stigmatizzano quasi ogni giorno. Le associazioni italiane filocastriste si mobilitano e sfilano contro Bush e gli USA sotto l’ambasciata e chiedono la liberazione degli eroici spioni. Fin qui tutto bene. Possiamo anche essere d’accordo. Non è una buona cosa fare spionaggio in un paese straniero, ma non è giusto neppure essere maltrattati in galera. A questo punto, però, è lecito chiedersi perché in Italia nessuno parla delle condizioni carcerarie di Omar Moisés Hernández. Come dicono i cubani quien tiene techo de vidrio, no debe tirar piedras al tejado de su vecino e la traduzione penso che sia inutile. Non esiste al mondo tetto fragile come quello della giustizia cubana che fa vivere i reclusi per motivi di opinione in condizioni molto peggiori di quelle lamentate dai famosi cinque eroi. Il buco dove sarebbero tenuti prigionieri gli spioni di Castro, paragonato alle celle di rigore delle prigioni cubane, pare un albergo a cinque stelle. Il buco statunitense è piastrellato con mattonelle, ha una tazza sanitaria, una doccia, un tavolo, una sedia ed è anche abbastanza ampio. Omar Moisés Hernández ha vissuto a lungo in un buco della prigione di Ciego de Avila che era così piccolo da non potersi girare, privo di doccia, con una fossa scavata in terra per i servizi sanitari, senza tavolo e sedie. Fuori dal buco le condizioni sono anche peggiori. Un detenuto per motivi di opinione convive con i delinquenti comuni e sopporta ogni mancanza di rispetto da parte di secondini e reclusi. Le parole di Omar Moisés Hernández  sono pesanti come macigni e quando si ascoltano viene da pensare alla fine che ha fatto la Rivoluzione Cubana. “La cella dove vivo è sei metri per tre, non ha un doccia né una tazza sanitaria, ma solo una latrina biologica in un angolo. In tutta la galera c’è un solo televisore, è vietato comunicare con l’esterno, non possiamo ascoltare la radio, né leggere alcun giornale. Le lettere che ci spediscono vengono aperte e censurate, spesso nemmeno ce le consegnano. I cinque eroi comunicano con chi credono, ricevono visite, si fanno foto con i familiari, possono parlare. Noi siamo dispersi in una galera e nessuno si ricorda che esistiamo. Tutto è vietato. Se i cinque eroi vivono in condizioni disumane, allora cosa dobbiamo dire dei prigionieri politici a Cuba?”. Omar Moisés Hernández, insieme ad altri intellettuali dissidenti, si è macchiato della grave colpa di difendere il diritto sancito dall’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Per questo reato si trova in una galera dove condivide il destino di delinquenti comuni, stupratori, assassini, ladri e rapinatori, in barba a ogni regola di differenziazione delle pene. Ricardo Alarcón è bene che guardi dentro casa propria prima di tirare sassi sul tetto nordamericano. Il suo tetto di cristallo può cadere al primo soffio di vento.   

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

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lunedì, 26 marzo 2007

SORPRESA PER GORDIANO

Gordiano Lupi

*

Gordiano Lupi mi aveva inviato un nuovo pezzo per la sua rubrica Controstorie. E io lo stavo per pubblicare. Anzi, l’avrei già pubblicato se non avessi trovato su YouTube due video molto interessanti che vedono come protagonista proprio il nostro Gordiano.

Cliccando nei quadranti sottostanti sul simbolo play in basso a sinistra (non cliccate sul tasto grande posto al centro altrimenti arrivate direttamente al sito di youtube) vedrete e ascolterete Gordiano che racconta da sopra il palco di un teatro (non so dirvi esattamente dove si trovi, né a che data esatta risalga il video) la storia e gli obiettivi della piccola casa editrice che dirige: Il Foglio.

Gordiano non è al corrente di questa mia iniziativa. Spero solo – ma ritengo di sì (un po’ di pubblicità fa sempre piacere) – che la sorpresa sia gradita.

(Massimo Maugeri)

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venerdì, 23 marzo 2007

DIRIMPETTAI numero 3

Francesca Mazzucato mi ha sorpreso spedendomi una nuova, inattesa e bellissima lettera. L’occasione è stata la recente pubblicazione del mio post intitolato: “La rivoluzione Internet… e Pasolini".

Ho cliccato all’interno del mio account google e la mail si è aperta inondandomi di parole. Delle parole di Francesca.

L’ho già scritto. La Mazzucato sa essere dirompente come un fiume in piena. E quest’ultima lettera lo dimostra.

Ed eccolo il nuovo tassello di questo web-epistolario pubblico/privato. Leggete, se avete tempo e voglia. Non potrete commentare, ma chi vuole potrà scriverci per mail. Francesca e io risponderemo.

Come sempre.

(Massimo Maugeri)

*

La mia foto

*

Caro Massimo

sento la necessità di sovvertire la nostra "liturgia di corrispondenza" perché le cose che scrivi sono estremamente stimolanti e non possono lasciare indifferenti. Quindi, nella maniera che mi/ci è consueta, ti scrivo, ancora una volta, portata su strade e riflessioni dalle tue considerazioni acute, profonde, documentate, sempre capaci di cogliere la duplicità.

Ho letto con molta attenzione il tuo post  e anche la corrispondenza che intrattieni con Marco Minghetti e il bel circolo virtuoso che si è innescato sul libro "Nulla due volte" , da me recensito qui http://scritture.blog.kataweb.it/francescamazzucato/2007/03/nulla_due_volte.html, con un update di Marco Minghetti. Post, il tuo, caro Massimo, che permette una enorme quantità di riflessioni stratificate, profonde, e apre spazio a un nuovo lavorare collettivo assai stimolante.
Non desidero commentare direttamente, ma ti scrivo questa lettera.

Non commentare è  è una delle mie regole diventata abitudine,  avendo vissuto situazioni che mi hanno mostrato l’inutile sadismo, il fastidio, il bla bla senza futuro dei commenti lasciati spesso tanto per fare o tanto per esaltare o tanto per infangare, o tanto per. 

I commenti vanno quasi sempre off topic, oppure attaccano, o distruggono, o esaltano smisuratamente, pongono su piedistalli di paglia, tirano fuori invettive e furori. Se di rado commento, molto di rado, è in "luoghi virtuali" come il blog dell’amico Nardini, (www.factory.splinder.com), blog di persone con cui condivido anche esperienze di conoscenza, di lavoro comune, e anche questo accade pochissime volte e più che commenti sono gli sms che manderei a Nardini, o piccoli residui di una natura provocatoria che in quei luoghi so di potermi permettere.

*

Trovo che il commento al blog, soprattutto nei "lit blog e affini" porti a una "esposizione", alla "messa in scena inevitabile della propria (auto) rappresentazione", sterile, noiosissima, e non è un caso che un esempio che citi nel tuo post, Giuseppe Genna e il lavoro eccellente e stimolante che sta facendo e che seguo a distanza, abbia eliminato i commenti incitando chi "vorrebbe commentare" a produrre contenuti. A darsi da fare autonomamente e produrre contenuti, e se si cercano feedback o risposte, allora utilizzare la mail. Condivido. Condivido COMPLETAMENTE  ed è questa la mia impostazione perché siamo ancora molto lontani da quella rete 2.0 di cui parla la Lipperini e che sicuramente sarà frutto delle nostre fatiche, delle nostre interazioni ("nostre", inteso di chi sta su Internet adesso, nel 2007, e dedica al lavoro on line tempo, impegno, fatica). Anche tu, del resto, consenti i commenti SOLO in alcuni casi e questo vuol dire qualcosa. Almeno… io la sento ancora lontana, forse arriverà, forse c’è qualche barlume in giro. O forse ancora no e chissà se li vedremo quei barlumi. Intanto si può concimare, preparare ognuno per quello che può.

Ti domandi di Pasolini.

Io mi sono domandata spesso cosa avrebbe fatto Glenn Gould o Marguerite Duras con Internet, come sarebbe mutato, cambiato, modificato il loro lavoro già così vicino, tangente se vogliamo (basta pensare alle sperimentazioni cinematografiche di Duras, cosa avrebbe fatto con You Tube a disposizione?).

Forse è inutile, o è un pretesto per un’ottima analisi come quella che tu fai.

Forse dobbiamo lasciar perdere e dire: cosa facciamo noi. Come ci poniamo. Ognuno di noi sceglie un modo come stare dentro Internet e come lavorarci (per me è stato anche faticoso e turbolento arrivare a trovarlo, in qualche modo, e non intendo che rimanga statico).

Forse i blog sono il punto zero di qualcosa, e sono e restano, quelli letterari come gli altri, un modo certo per produrre contenuti ma anche per dominare la solitudine.

Io credo nella solitudine dietro lo schermo. Fu Chiara Gamberale che me lo chiese una volta, facendomi riflettere: "Avere un blog ti fa sentire meno sola?".  Non ci avevo mai pensato in questi termini spicci. "Sì"-

Una solitudine dolorosa che trova nella rete un diversivo, capace di sondare territori di marketing, esperimenti e installazioni letterarie, progettualità, creazione di ponti e di collegamenti, ma c’è di certo – in tutto questo – una dimensione che modifica "necessariamente" la propria percezione con il reale. Con il resto. Sia che si parli di libri, di scambio coppie, di Pasolini, di Don DeLillo, di Vallettopoli. Di Philip Roth. Credo che occorrano confini – io so che devo darmi dei confini – degli elementi entro cui stare. Per ora. Altrimenti questa solitudine emerge e coinvolge una vita e un mondo che non sono differenti, non penso questo, ma hanno esigenze che possono essere facilmente private di presenza e attenzione. Desidero usare Internet e starci dentro senza che questo allontani la consapevolezza dalla mia vita – vita popolata di persone che trascorrono su Internet il tempo necessario a mandare una mail o a fare una breve ricerca, e stop. O di persone che si collegano una volta al mese, ebbene sì ce ne  sono. O che non hanno il collegamento e fanno la coda agli Internet point ogni tanto. La consapevolezza è la chiave. Io a volte sul web  ho faticato a trovarla e ho smarrito briciole della mia in una sorta di effetto lisergico che appariva inebriante. Invecchiando mi interessa molto meno quella ebbrezza e molto più il mantenimento costante della consapevolezza. Voglio conoscere il mondo attraverso Google Earth e anche viaggiando. Voglio leggere una recensione on line e  poi andare a prendermi il libro, voglio collaborare – lavorare insieme – per produrre qualcosa che poi si rifletta nel cartaceo e magari a teatro e magari in qualche altro ambito. FUORI dal video.

Ho un incubo ricorrente:  un mondo di persone che si sentono perennemente connesse, che sentono di produrre contenuti, di  produrre una azione creativa, che sentono di avere un numero smisurato di conoscenze, che parlano degli amici dicendo "ci conosciamo via mail" e poi in realtà sono soli, e girano attorno a residui di periferie metropolitane occupate da templi dedicati alle merci dove altre persone sono coinvolte dalle merci, dalle multisale, dalle architetture tutte simili. (E di questo scenario ho parlato spesso con l’amico scrittore Paolo Mascheri). Beh mi fa paura. Posso sembrare moralista, o fuori centro. Io credo in una rete che – ancora – necessita di certe precise coordinate perché la sua mutazione costante, continua, quotidiana, porti a qualcosa di rilevante (penso al libro di Minghetti, al lavoro che sta facendo Genna, a Wu Ming, al nostro lavoro con i lit blog offerti, aperti, spaziosi, disponibili e a molti altri esperimenti di scritture che si aggregano, di e-magazine che nascono, di avventure letterarie  e di semi che continuano a essere sparsi ma anche dispersi, ancora, purtroppo dispersi – forse una percentuale di dispersione necessaria? Non so. La noncuranza resta uno dei problemi. E quello è dentro lo schermo e non solo).

Ti mando un saluto affettuoso.

Francesca

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venerdì, 9 marzo 2007

DIRIMPETTAI numero 2

La mia foto

Caro Massimo,

l’ultima volta che mi hai telefonato, dopo l’usale e cortese sms in cui mi domandi se sono in un buon momento, se ci possiamo sentire, ero in treno, nel mio consueto puntare verso la frontiera salvo discesa precoce nella stazione destinata a futuro (molto lontano, pare per ora) smantellamento, Imperia Porto Maurizio. Ti ho detto che andava bene, che si poteva approfittare di quei dieci minuti in cui l’intercity plus ferma a Genova. Nessuna galleria e la conversazione possibile. Vedi, finisce che parlo sempre di stazioni, siamo fatti cosi, siamo ossessionati, siamo pieni di manie e da queste manie pretendiamo di partire per creare un mondo, aprire la porta per una narrazione (meglio dire cerchiamo? vaghiamo a tentoni? ci cimentiamo? ci infiammiamo?). Io continuo a girare intorno alle stazioni, in senso letterale e non solo. Conosco queste cose: nella sosta a Genova un amico (tu) mi può telefonare senza il pericolo e il fastidio che cada la linea e che la conversazione venga troncata. So che la stazione di Imperia Porto Maurizio che mi sta diventando così cara e amica, cosi calda e dal sapore di casa, un giorno non esisterà più perché unificheranno le due stazioncine della cittadina del Ponente. E finalmente ci sarà il doppio binario, ma io patirò nel corpo e nei ricordi il lutto dell’assenza. L’assenza di certe pensiline, l’assenza di quel marciapiede dove il mio compagno viene ad aspettarmi quando, dopo il tempo standard trascorso a Bologna (e a Milano, o Modena, o posti similari più facilmente raggiungibili dall’Emilia) ritorno e lui mi corre incontro. Mi correrà incontro altrove, lo so, e il viaggiare sarà più agevole.

Ma sto divagando, A Genova ci siamo parlati e mentre ci parlavamo mi veniva in mente che ho scordato il tuo romanzo a Bologna e che avevo molta voglia di leggerlo ma lo farò al ritorno. Adesso mi accontento – e non è roba da poco- di leggere il blog e mi piace riconoscere concordanze, (certi titoli di libri che amiamo entrambi, come l’ultimo Roth) elementi di discussione, motivi per riflettere. Mi hai parlato delle tue figlie l’ultima volta, nella prima puntata di questa nostra corrispondenza pubblica e privata, e mi sono chiesta una cosa. Le racconti le fiabe, alle tue figlie? Ho idea di sì ma magari non c’è sempre il tempo, sono così difficili questi frammenti di tempo da comporre. Lo sono per noi, redattori di varianti sintattiche, maniacali stilatori di note e dettagli che riteniamo utili a comporre narrativa e percorsi collettivi e individuali di pensiero e storie. E se le racconti, le inventi o le leggi? Scegli dei libri, li sceglie tua moglie, li fai scegliere a loro? A questo pensavo, e anche se nei tuoi libri le tue bimbe hanno mai trovato delle stazioni, hanno mai desiderato di partire, ti hanno mai chiesto di pensare per loro e solo per loro un’avventura di viaggio.

Con questa domanda mi fermo, caro Massimo. Com’è il tuo stato d’animo in questi giorni di clima mite ma di rare mitezze attorno? Io sento nelle ossa nebbie fittissime ma c’è sempre qualche storia, da scrivere o da leggere, che mi concede sollievo.

Vorrei sapere anche se hai visto Sanremo. Io, la sera della finale, qui a Imperia ero a una serata di musica lirica, una cosa molto diversa talmente vicino a quel tempio del passato rivisitato da un presentatore assai dignitoso ma in fase, a mio parere, di delirio di onnipotenza, per quel poco che ho letto e ascoltato. Questo, per non far mancare al nostro epistolario un accenno di gossip che solo gossip non è. Se solo penso alle cifre di cui si è parlato e alla quantità di gente che vive sotto o nei pressi della soglia di povertà mi indigno.

Ma questa indignazione che nulla porta, in molti la definirebbero demagogia, o retorica di basso livello, Non esiste forse un mercato? Non esiste forse un sistema che regola compensi e flussi di danaro? Oh, esiste nella sua vorace e pervasiva iniquità.

Ti mando un saluto affettuoso.

*

Francesca Mazzucato

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mercoledì, 21 febbraio 2007

IL VOLTO DALL’OSCURITÀ (di Gabriele Montemagno)

Due giovani donne che dialogano, tranquillamente sedute l’una di fronte all’altra, nella penombra che rende confortevole l’ampio salone che le accoglie entrambe. Prima immagine della sequenza. Mano a mano che questa si evolve, si scopre che una delle due donne, la straniera, protagonista del film, sta elencando all’altra, italiana, le sue referenze per poter essere assunta a servizio nell’appartamento di quest’ultima. Lo spettatore, che ha già conosciuto la straniera nelle sequenze precedenti, sa che questa proviene da un passato di torbido sfruttamento, sebbene non ancora pienamente illuminato a questo punto del film; e sospetta che le abilità da lei elencate per essere assunta possano non essere veritiere, bensì facciano parte di un piano che le consenta di poter entrare nell’appartamento dell’italiana in cui deve trovarsi qualcosa di importante, vitale, per la donna straniera. La visione completa del resto della pellicola confermerà il sospetto dello spettatore e aggiungerà (come è ovvio) nuove tessere per completare il complesso mosaico che illustra la travagliata vita di questa donna straniera, protagonista del film. Film che è, come avranno compreso coloro che lo hanno visto, “La sconosciuta”, ultimo lungometraggio di Giuseppe Tornatore, uscito di recente nelle nostre sale cinematografiche. Tuttavia, non è sullo svolgimento della trama che qui ci si vuole soffermare, né sulle possibili componenti e contaminazioni che caratterizzano tale pellicola (giallo, noir, film a personaggio, spaccato sociale, film-denuncia, ecc.) che ha per protagonista una delle tante donne provenienti dall’est e sfruttate ignobilmente come prostitute. L’aspetto che qui interessa è un altro, e occorrerà ritornare sulla sequenza citata per ritrovarlo.

Dopo aver mostrato, con la prima inquadratura,  le due donne all’inizio del loro dialogo, sedute l’una di fronte all’altra, la m. d. p. si avvicina a loro con un lento zoom. Poi entra più approfonditamente nel dialogo che si sta svolgendo, ricorrendo al classico campo e controcampo con cui si osservano frontalmente i due personaggi che dialogano. E qui avviene un significativo scarto rispetto alla tranquilla immagine iniziale. Mentre il primo piano della giovane donna italiana è illuminato dalla debole luce che si espande dietro lei e contorna i mobili e le pareti del salone, la straniera non ha tale luce retrostante, ma solo frontale. Come in un quadro di Caravaggio. Quindi il suo volto pare emergere dal buio in cerca di luce. Ecco (forse) l’immagine che racchiude tutto il film: una donna che vuole emergere dal fondo oscuro del suo passato. Con l’interezza del suo volto di donna e della sua persona.

Un ritratto di donna (e di una ignobile piaga del nostro presente) bello e originale, quello che ci ha saputo mostrare e raccontare Tornatore per mezzo della sua brava attrice protagonista. Davvero un bel ritratto.

Gabriele Montemagno

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P.S. Naturalmente tutti coloro che hanno avuto modo di vedere questo film sono caldamente invitati a dire la loro. (Massimo Maugeri)

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lunedì, 19 febbraio 2007

INVITO CON RIPENSAMENTO (di Roberto Alajmo)

Roberto Alajmo

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Mi invitano a una trasmissione televisiva del mattino, sul canale più seguito del servizio pubblico nazionale. Si tratta di parlare di Padre Puglisi. In studio ci saranno anche il regista Faenza, una suora che ha lavorato con Puglisi e non so chi altro.
Una redattrice mi fa una intervista preliminare, per preparare il copione. Io le spiego quello che penso del ruolo della chiesa in Sicilia e le dico sinceramente che secondo me non possono permettersi le mie opinioni in proposito. Lei ride e risponde che non è così. Restiamo d’accordo.

Dopo mezz’ora mi chiama un altro responsabile, il quale mi spiega che ci hanno ripensato: effettivamente non possono permettersi le mie opinioni.
Grazie lo stesso

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In linea diretta con Roberto Alajmo Blog

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Roberto Alajmo è nato a Palermo nel 1959. Fra i suoi libri: Le scarpe di Polifemo (Feltrinelli, 1998), e Notizia del disastro (Garzanti, 2001), col quale ha vinto il premio Mondello. Con Mondadori nel 2003 ha pubblicato il romanzo Cuore di Madre, finalista ai premi Strega e Campiello. Nel 2004 è uscito Nuovo repertorio dei pazzi della città di Palermo e nel 2005 il romanzo È stato il figlio, finalista al premio Viareggio e vincitore del SuperVittorini e SuperComisso.
Con Laterza, sempre nel 2005, ha pubblicato il saggio Palermo è una cipolla.

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lunedì, 19 febbraio 2007

A DIRLA TUTTA (di Roberto Alajmo)

Roberto Alajmo

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Sono particolarmente felice di poter ospitare Roberto Alajmo qui a Letteratitudine. Roberto, oltre a essere un caro amico, è uno dei miei scrittori preferiti. Inauguriamo, dunque, A dirla tutta, nuova rubrica che conterrà interventi a tema libero dello scrittore palermitano in stretta connessione con il suo blog.

Penso proprio che ne leggeremo delle belle!

(Massimo Maugeri)

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Roberto Alajmo è nato a Palermo nel 1959. Fra i suoi libri: Le scarpe di Polifemo (Feltrinelli, 1998), e Notizia del disastro (Garzanti, 2001), col quale ha vinto il premio Mondello. Con Mondadori nel 2003 ha pubblicato il romanzo Cuore di Madre, finalista ai premi Strega e Campiello. Nel 2004 è uscito Nuovo repertorio dei pazzi della città di Palermo e nel 2005 il romanzo È stato il figlio, finalista al premio Viareggio e vincitore del SuperVittorini e SuperComisso.
Con Laterza, sempre nel 2005, ha pubblicato il saggio
Palermo è una cipolla.

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domenica, 18 febbraio 2007

MARIO BAVA, I MILLE VOLTI DELLA PAURA (di Gordiano Lupi)

Gordiano Lupi

Mario Bava (1914 – 1980) può considerarsi a ragione il padre dell’horror italiano. Non vi fate ingannare se trovate i nomi di John Foam, Marie Foam o John M.Old. Si tratta sempre di Mario Bava sotto pseudonimo anglofono, come usava per registi e scrittori horror negli anni sessanta. Il figlio Lamberto, per una sorta di omaggio al padre, ha spesso utilizzato il nome di John M.Old jr..

Bava ha inventato gran parte dei trucchi cinematografici e delle trasformazioni visive tutt’ora in uso e prima ancora di diventare un artigiano della regia è stato un formidabile maestro della fotografia. La definizione di artigiano fu coniata dallo stesso Bava durante un’ intervista rilasciata a Luigi Cozzi nel 1971 per la rivista Horror. Infatti il cinema italiano di quel periodo disponeva di budget limitati e Bava era un grande economizzatore, un artigiano capace di fare film validi con poca spesa.

Mario Bava

Gli esordi nel cinema lo vedono in sodalizio con l’amico Riccardo Freda prima ne I Vampiri (1957) e poi in Caltiki, il mostro immortale (1959). Soprattutto in Caltiki (dove per esigenze di produzione diventò John Foam) Bava girò gran parte delle sequenze mostruose ponendo un marchio indelebile sull’opera finita. Lo stesso Freda ha sempre attribuito il film a Bava, dicendo che fa parte del suo modo di fare cinema. Di sicuro l’ameba gorgogliante che sommerge e divora esseri viventi fu ideata da Bava che la costruì utilizzando budella di animali.

Il suo primo lavoro da regista è La maschera del demonio (1960), ancora oggi uno dei più celebrati. Si tratta di un film sulle streghe girato in bianco e nero ma dotato di una stupenda fotografia ed è noto che la buona riuscita di una pellicola horror dipende molto dalla fotografia. La protagonista è Barbara Steele che interpreta il doppio ruolo di vergine e strega. La storia è tratta molto liberamente da Il Vij di Gogol e sceneggiata da Ennio De Concini. Il film ebbe un successo incredibile in America e in Francia, fu apprezzato meno in Italia, dove l’horror stentava ad affrancarsi dall’etichetta di cinema di serie B. In Inghilterra passò dei guai con la censura per alcune scene di violenza ed erotismo. Bava rende esplicita sin dalla prima opera la scelta di seguire i canoni del fantastico letterario e anche nei lavori successivi cercherà l’aiuto di sceneggiatori del calibro di Alberto Bevilacqua per trasporre capolavori di Gogol, Maupassant e Merimée. Bava ambienta quasi tutti i suoi primi film in periodi storici che vanno dal 1500 al 1800, rispettando una moda lanciata dalla casa inglese Hammer e dalle case produttrici d’oltre oceano. L’horror anni sessanta seguiva criteri particolari di ambientazione e dovremo attendere Dario Argento per vedere sullo schermo orrori contemporanei. La maschera del demonio fa venire a mente soprattutto la strega che non muore tra le fiamme ma torna in vita e seduce dalla sua tomba nascosta nella foresta. E’ un film impregnato di sadismo e necrofilia, erotismo e sensualità. Per dirla con Teo Mora è il trionfo del fantastico dell’erotismo. In ogni caso la pellicola saluta la nascita di un maestro del genere. Bava sperimenterà anche altri settori come il western, il mitologico-fiabesco, il fantascientifico e persino il sexy prima maniera, però dimostrerà di trovarsi a suo agio soprattutto con le creazioni fantastiche. Inutile dire che i critici italiani stroncarono il film e che hanno riscoperto l’intera produzione di Bava (come è stato per Totò) soltanto dopo morto.

La ragazza che sapeva troppo è del 1962 ed è un thriller alla Hitchcock, non solo perché nel titolo ricorda L’uomo che sapeva troppo del maestro inglese, ma soprattutto per la tensione e le divagazioni umoristiche inserite  ad arte per stemperare i momenti topici della narrazione. Dario Argento lo prenderà a modello per L’uccello dalle piume di cristallo.

La frusta e il corpo (1963) viene ricordato per la irruzione di un malsano erotismo e di un rapporto sadico appena accennato, però quel tanto che bastava per sconvolgere i censori del tempo. È un film notevole, in ogni caso, anche per il finale aperto che lascia lo spettatore esterrefatto.

Un capolavoro di Bava che ha lasciato il segno è I tre volti della paura (1963), un film a episodi che porta sullo schermo tre diversi modi di affrontare la paura. Bava avverte che i racconti sono di Cechov, Aleksej Tolstoj e Maupassant ma non tutti concordano sulla veridicità delle fonti. Per Renato Venturelli, ad esempio, si tratterebbe soltanto di un’esibizione letteraria, in realtà il film sarebbe costruito su una storia di Snyder e una di Maupassant molto adattate. In ogni caso ai nostri fini poco interessa.

Boris Karloff introduce la pellicola e ci accompagna sino alla fine con la sua presenza da voce e immagine fuori campo. Il telefono è il primo episodio e Fabio Giovannini lo definisce un piccolo capolavoro del brivido a base di coltellate e strangolamenti in una stanza da letto claustrofobica. Noi non ne siamo così entusiasti e lo riteniamo il più debole dell’intera opera, però la tensione è ben espressa e si affrontano temi nuovi per il cinema italiano (per esempio l’amore lesbico tra le protagoniste). I wurdalak vede Boris Karloff nelle vesti del vampiro-zombie della tradizione slava e la sua interpretazione fa dimenticare alcuni dialoghi che risentono tutto il peso degli anni (le scene d’amore tra Sdenka e Wladimir su tutte). L’atmosfera di terrore è però notevole e i colori cupi della fotografia contribuiscono a rendere realistica una storia fantastica. Infine La goccia d’acqua è davvero un piccolo capolavoro. Il padre di Bava, Eugenio, scolpì la maschera della morta, la vera protagonista dell’episodio che tormenta sino alla fine l’autrice di un furto sacrilego. Il terrore quotidiano è reso molto bene e l’intervento del soprannaturale si innesta soltanto alla fine in una storia ben congegnata per tensione  e ritmo. I protagonisti dei tre episodi si trovano in un luogo chiuso alle prese con le loro paure. Sorprendente il finale con Boris Karloff a cavallo di un manichino che svela agli spettatori i trucchi di scena, quasi per voler tranquillizzare. I tre volti della paura ebbe un grande successo negli Stati Uniti, dove uscì come Black Sabbath, ed è sempre stato considerato un cult movie.

Per fortuna adesso è così anche da noi.

Sei donne per l’assassino (1964) è di pochi mesi dopo e segna il ritorno al giallo anticipando alcune tematiche tipiche di Dario Argento. La fotografia dai colori brillanti e violenti è il dato caratteristico della pellicola ed è un vero e proprio thriller orrorifico. Per uccidere si cominciano a usare normali oggetti del quotidiano come coltelli e rasoi, il killer si aggira con un impermeabile nero e viene rappresentato come un signore del male con cui è impossibile lottare. Dario Argento per girare Profondo Rosso si ispirerà molto a questa pellicola.

Terrore nello spazio (1966) rappresenta un’incursione nel fantascientifico che si avvale della sceneggiatura di Alberto Bevilacqua, Callisto Cosulich e Antonio Romano. Gli effetti speciali però sono tipici del cinema fanta-horror e il  notevole colpo di scena finale vale da solo l’intero film. La pellicola fu girata davvero in economia, utilizzando  rocce di plastica, zampironi fumogeni e scenografie di fortuna. Il risultato  raggiunto sa di miracolo e il film in alcune sequenze ricorda Alien, una volta tanto anticipando un prodotto americano ancora di là da venire.

Operazione paura (1966) segna il ritorno di Bava all’horror puro. La storia è una raffinata vicenda gotica calata in un’atmosfera fantastica e resa in un’ambientazione settecentesca assai credibile. Il regista lo giudicava il suo film migliore e quando ne parlò con Luigi Cozzi, nel corso della citata intervista, si rammaricava per il plagio perpetrato da Federico Fellini. Il regista romano infatti riprese per il suo Toby Dammitt la scena della bambina fantasma che gioca a palla. Operazione paura è il classico horror anni sessanta a base di cripte, notti ventose, castelli maledetti e donne vampiro. Anche Operazione paura è girato in economia e soltanto la maestria di Bava è riuscita a rendere realistici scenari realizzati in studio.

Stessa cosa per Diabolik (1968) dove la produzione De Laurentiis obbligò il regista a realizzare il film con duecento milioni di spesa. E pensare che era il periodo del boom dei fumetti neri e che l’operazione doveva essere soprattutto commerciale… Bava ricordava l’esperienza di Diabolik come uno degli episodi più allucinanti della sua carriera. Dovette girare un film a base di modellini e fotografie ritagliate al momento e utilizzate per ovviare allo squallore della scenografia. Tant’è vero che rifiutò con decisione di lavorare alla seconda parte del film, quel Diabolik alla riscossa che la produzione gli aveva subito proposto. Perché Diabolik nonostante tutto ebbe un notevole successo di cassetta. È sempre stata una caratteristica di Mario Bava quella di far rendere al massimo il poco che i produttori gli mettevano a disposizione. Era un grande artigiano del cinema e una volta guadagnata questa fama tutti pretendevano che se la mantenesse.

In tema di cinema fantastico non dobbiamo dimenticare che, tra il 1968 e il 1969, Bava curò lo stupendo episodio di Polifemo per la riduzione televisiva dell’Odissea. Lo sceneggiato fece furore e contribuì a divulgare la conoscenza del poema epico nelle case di milioni di italiani. Polifemo è un eroe tragico e muove a sentimenti di compassione e pena, ma il regista lo realizzò con una maschera davvero terrificante. E per quel che riguarda il trucco sappiamo che Bava era davvero un maestro.

Il rosso segno della follia (1969), che Bava con modestia definiva la storia del solito pazzo, è in realtà uno dei suoi film più studiati e forse meglio riusciti. Anticipa i futuri thriller di Dario Argento e approfondisce molto la psicologia contorta dell’omicida. Il protagonista è un assassino dalla sessualità repressa e deviata. Cinque bambole per la luna d’agosto (1969) invece è la rilettura di Dieci piccoli indiani di Agata Christie ed è un film da dimenticare, girato in fretta e poco ispirato. Lo stesso Bava lo definiva il peggiore da lui diretto. Diceva che lo aveva fatto soltanto per soldi.

Reazione a catena (1971), conosciuto anche come Ecologia del delitto e Antefatto, è di grande importanza perché rappresenta un’incursione nello splatter iperviolento e un’anticipazione di quello che sarà Venerdì 13 di Sean Cunningham. Non sempre il cinema italiano si è ispirato a quello americano, in rari casi è accaduto il contrario. In questo film i delitti sono centrali alla storia e quasi la sostituiscono, quel che conta è soprattutto come morirà la prossima vittima. Siamo in pieno cinema macelleria e le vittime vengono fatte fuori a colpi di coltelli, asce e lame d’acciaio affilato.

Gli orrori del castello di Norimberga (1972) è ancora un film gotico vecchio stile, una favola paurosa. Una sorta di omaggio al cinema fantastico degli anni cinquanta e sessanta, girato con cura e attenzione ai particolari. 

La casa dell’esorcista (1975) arriva in pieno boom da Esorcista, quando i peggiori mestieranti si cimentavano in squallide copie del film di William Friedkin. La pellicola di Bava doveva intitolarsi Lisa e il diavolo e la sua struttura originale era colta e raffinata, tant’è vero che venne presentato al Festival di Cannes nel 1973. Nessuno volle produrla perché ritenuta inadatta al pubblico italiano. Per metterla sul mercato si procedette al suo massacro sistematico: il titolo venne cambiato, molte scene modificate e altre inserite ex novo.  Bava si rifiutò di stare al gioco e ripudiò il film che uscì nelle sale del tutto diverso dall’idea originale. Quello che poteva essere uno dei migliori lavori di Bava divenne una delle cose da dimenticare.

Cani arrabbiati (1976) è tratto da un romanzo di Ellery Queen ed è un buon film, purtroppo ancora inedito in Italia. Si tratta della storia di quattro banditi mascherati che rapinano un portavalori, ammazzano due guardie e nella fuga uno di loro rimane ucciso. I tre rimasti prendono due donne in ostaggio in un garage, una finisce sgozzata, l’altra continua a servire per proteggere la fuga. Durante la fuga prendono un uomo come ostaggio e accadono diversi colpi di scena che rendono il film interessante fino alla parola fine. Un thriller sui sequestri di persona duro e inquietante, molto esplicito e diretto come contenuti e scene di sangue. Il film non ha mai trovato un distributore durante la vita di Bava ed è stato messo in circolazione in Italia soltanto nel 1995 come Semaforo rosso.

Shock è del 1977 ed è l’ultimo film di Bava. Un vero e proprio omaggio all’allievo più geniale, quel Dario Argento che aveva riempito le sale con Profondo Rosso. Shock segna il simbolico passaggio di consegne e la fine di un modo di fare horror tipico del decennio precedente. Protagonista è Daria Nicolodi, regina dell’horror italiano anni settanta, attrice prediletta di Dario Argento e anche sceneggiatrice di molti film. Shock è un capolavoro di tensione, un racconto angoscioso girato quasi tutto in interni, una raffinata storia di fantasmi che ricorda molto il vecchio La frusta e il corpo. Ebbe un gran successo in Giappone, mentre in Italia è passato inosservato.

La carriera di Mario Bava si conclude nel 1978 con il telefilm del mistero La Venere d’Ille, girato in collaborazione con il figlio Lamberto. Protagonista è ancora Daria Nicolodi, però il risultato finale non è dei migliori. Come eredità fantastica di Bava preferiamo ricordare Shock, un film che ha influenzato tutta l’opera successiva di Dario Argento e degli altri autori horror italiani.

Maro Bava è l’unico regista italiano ad aver lavorato con le principali star del cinema horror inglese e americano, attori del calibro di: Christopher Lee, Boris Karloff, Vincent Price, Barbara Steele (lanciata da Bava come dama nera del gotico anni sessanta) e Joseph Cotten. Non solo, ci sono attori scoperti da Bava e consacrati a futuri ruoli nel cinema horror italiano. Basti per tutti l’esempio di Nicoletta Elmi ne Gli orrori del castello di Norimberga che ritroveremo in Profondo Rosso di Dario Argento e in Dèmoni di Lamberto Bava nel ruolo di demoniaca bigliettaia.

Alcuni giornalisti dell’epoca affibbiarono a Mario Bava l’epiteto di Hitchcock di Cinecittà, anche prendendo spunto da titoli di film come La ragazza che sapeva troppo. In realtà Bava ha un suo stile e con il grande maestro del giallo ha soltanto debiti di ispirazione. Bava ereditò dal padre scultore la passione per i colori e per le immagini, voleva fare il pittore ma approdò al cinema, un mezzo artistico che ha utilizzato in modo originale. E’ vero che le sue scelte di regia sono state sempre subordinate al successo di cassetta dei film americani, ma era il mercato dell’epoca a imporlo. Non si poteva contraddire la casa inglese Hammer o ciò che riscuoteva consenso oltre oceano. Si pensi alla abominevole saga delle indemoniate e delle ossesse che funestò gli italici schermi dopo l’uscita de L’Esorcista. Come abbiamo visto lo stesso Bava ne fece le spese con uno dei suoi ultimi film.

Concluderei riportando una valutazione di Pascal Martinet.

Bava crea un’estetica della morte e del crimine. Al diavolo la logica. Importa solo la descrizione grafica della violenza. Carni torturate, graffiate, bruciate, catturate dalla crudeltà della macchina da presa che si diverte a precedere l’attimo in cui l’assassino colpisce. Assassino senza volto, primo di una lunga tradizione e la cui assenza di fisionomia rimanda ai nobili incubi archetipici. Aggiungiamo noi (con Fabio Giovannini) che Bava riesce a  rendere il paesaggio mediterraneo credibile per ambientarvi storie orrorifiche. Ed è uno dei primi a farlo, insieme al Pupi Avati di capolavori come La casa delle finestre che ridono. Il gusto per il terrore puro è un’altra sua caratteristica ed è ben rappresentato dall’utilizzo frequente di coltelli e pugnali per gli omicidi, particolare che Dario Argento spingerà all’eccesso. La lama è cinematografica, dirà lo stesso Bava.

Come abbiamo detto Bava si cimentò in quasi tutti i generi cinematografici in voga a Cinecittà negli anni sessanta – settanta, sempre seguendo i grandi successi che venivano dall’Inghilterra o dagli Stati Uniti. Nella presente trattazione non abbiamo citato i film di argomento mitologico, fantascientifico, favolistico, western e sexy. Per completezza ci limitiamo a elencarli. L’appassionato di Mario Bava troverà così un’esauriente catalogo dell’opera del regista. Le fatiche di Ercole (1957), Ercole e la regina di Lidia (1958), La battaglia di Maratona (1959), Ercole al centro della terra (1961), Gli invasori (1961), Le meraviglie di Aladino (1961), La strada di Fort Alamo(1965), I coltelli del vendicatore (1966), Le spie vengono dal semifreddo (1966), Raycolt e Winchester Jack (1969) e il censuratissimo Quante volte… quella notte (1969 – 73).

Riferimenti bibliografici:

Fabio Giovannini “Serial Killer-i grandi assassini del cinema”, Macabro Show e-book 2002

Antonio Tentori “Lo schermo insanguinato” – Solfanelli, 1990

Renato Venturelli “Horror in cento film” – Le Mani, 1997

Intervista a Mario Bava, a cura di Luigi Cozzi, in Horror 13 – Sansoni 1971

Pascal Martinet “Mario Bava” Film n.6 – Ediling Paris, 1984

Luigi Cozzi – Mario Bava, i mille volti della paura – Profondo Rosso, 2001

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giovedì, 8 febbraio 2007

UN CASO DI OMONIMIA…

Ci tengo a precisare che il Massimo Maugeri citato sul Corriere-Magazine di oggi 8 febbraio 2007 (pag. 95), all’interno della rubrica Cammeo di Antonio D’Orrico non sono io. Si tratta di un semplice caso di omonimia. Ho pensato di scriverlo in questa sede giacché mi sono pervenute diverse mail in proposito. E pure qualche sms da parte di amici scrittori.

Quel Massimo Maugeri scrive a D’Orrico: “Eppure sarebbe bello conoscere la sua opinione sui libri più tristi e desolati, come le chiede il signor Morabito da Tivoli. Sono triste anch’io. E ho sempre utilizzato il metodo di compensare la mia angoscia con l’angoscia altrui. La letteratura come consolazione. Lo faccia se può.”

*

A parte che, con tutto il rispetto che nutro per il dottor D’Orrico (che mi tengo buono visto che è stato capace di rivoluzionare la vita – e il conto il banca – di più di uno scrittore), riuscirei a sopravvivere anche senza conoscere la sua opinione sui libri più tristi e desolati, vi assicuro che non sono per nulla angosciato e che per me la letteratura è gioia e non consolazione.

Giusto per precisare.

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venerdì, 2 febbraio 2007

DIRIMPETTAI

Tempo fa Francesca Mazzucato mi scrisse una mail dal titolo: a Massimo da Francesca.

Vi riporto parte del testo di quella mail che – vi confesso – custodirò gelosamente nel mio scrigno delle corrispondenze magiche.

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Ciao,

non ci siamo mai conosciuti e neppure incrociati via web e da qualche tempo mi circolava in testa un’idea.

Seguo il tuo blog da quando è nato anche se non lascio commenti. Come forse ti sarà capitato di vedere, nel mio Books preferisco, per varie ragioni, interagire via mail con le persone piuttosto che attraverso i commenti, e naturalmente rispondo a tutti.

*

Pensavo, che ne diresti di una – come dicono con la solita orrenda parola – sinergia fra i nostri due blog, entrambi blog d’autore di kataweb?

*

Io pensavo a una cosa: ti piacerebbe "Dirimpettai?"

La mia foto
Francesca Mazzucato

È così che è nata l’idea. A me è piaciuta subito. E mi sono sentito molto, ma molto onorato che a propormela sia stata proprio Francesca Mazzucato… scrittrice che stimo tantissimo da tempi non sospetti.

Francesca, è una forza della natura. La sua energia è piacevolmente tempestosa e positivamente prorompente. Come la sua scrittura.

Ed ecco Dirimpettai. Una rubrica epistolare che rimbalzerà mensilmente tra Letteratitudine e Books and other sorrows.

Ed è proprio dal blog di Francesca che si parte. Se avete voglia, cliccate qui.

A presto.

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martedì, 30 gennaio 2007

GORDIANO LUPI SU RADIO RAI UNO

Ci tenevo a segnalarvi che il "nostro" Gordiano Lupi lunedì pomeriggio (29 gennaio 2007) è stato a Radio Rai Uno, ospite della trasmissione L’Argonauta a parlare di Cuba.

Gordiano Lupi

Chi volesse può ascoltare la registrazione della puntata cliccando qui (si aprirà la pagina web de L’Argonauta, poi dovrete cliccare su "ascolta").

Vi riporto anche il testo della mail divulgativa che Gordiano ha fatto circolare:

(…) Una Cuba priva di libertà, dove per andare in galera basta essere in disaccordo con il regime. Fidel Castro è un dittatore e Cuba è uno Stato di polizia dal quale la gente scappa alla ricerca della libertà. Il mio libro (“Almeno il pane, Fidel”, Stampa Alternativa) e i precedenti articoli sono costati a mia moglie il divieto di rientrare a Cuba e l’obbligo a rimanere all’estero "illegale" come controrivoluzionaria. Sono stati pochi i mezzi di informazione italiani che lo hanno scritto. In compenso sbucano da ogni parte promozioni sui libri dei soliti personaggi che raccontano la favola di un regime cubano in piena sintonia con la popolazione. Ascolto programmi radiofonici dove non comprendo se il comico è un popolare intervistatore che imita un personaggio innamorato di Cuba o il personaggio in questione che ci racconta l’ennesima storiella caraibica. Per accorgersi che sono balle basta leggere nell’ordine: Reinaldo Arenas, Gullermo Cabrera Infante, Zoé Valdés, Carlos Franqui, Pedro Juan Gutierréz, Ena Lucia Portela… Da parte mia posso solo dire che il mio libro è scritto col cuore. Per Cuba. Per i cubani.

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martedì, 23 gennaio 2007

A TEMPO DI ROCK (racconto di Alejandro Torreguitart Ruiz – traduz. Gordiano Lupi)

Alejandro Torreguitart Ruiz è un giovane scrittore cubano che ha già pubblicato in Italia un romanzo con Stampa Alternativa (Machi di carta, 2003), la sua ultima opera è Vita da jinetera (Il Foglio, 2005). Nel corso del 2007 pubblicherà il romanzo erotico Casa particular – Sesso all’Avana per Stampa Alternativa. Ho tradotto questo suo recente racconto che è molto indicativo della attuale situazione cubana.

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Gordiano Lupi

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A TEMPO DI ROCK

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El Barrio è al gran completo per le prove che si tengono alla Casa della Cultura di Guanabacoa. Paco dice che vuole preparare un concerto, ma una cosa diversa dal solito, una cosa importante…

“Questa volta facciamo musica rock”.

“Guarda che suoniamo alla Casa della Cultura” ribatto.

“Mi sono rotto le palle di salsa e merengue….”

Paco canta come pochi ed è lui che scrive testi e musica per il gruppo. Sceglie canzoni, raccoglie vecchi ritmi, seleziona il materiale. El Barrio non esisterebbe senza Paco. Però da un po’ di tempo a questa parte gli è presa una fissa rockettara che non mi piace per niente, ché può creare qualche problema. Il rock è musica deviazionista, pure se adesso fanno i finti tolleranti e hanno messo una statua di John Lennon in Centro Avana, quella che gli hanno rubato gli occhiali, che poi cosa se ne faranno di un pezzo di bronzo mica lo so. 

“Paco, lo sai come funziona alla Casa della cultura. Son, merengue, salsa, tanto tanto bachata e regettón, allargati a qualche bolero, ma la musica dev’essere nazionale. Se no s’incazzano…”

“Che s’incazzino. Io ce n’ho le palle piene di questa salsa”.

“Sì, ma non te lo far sentir dire…”

Alla fine arrivano pure Manuel e Armando che dicono la loro.

“Paco, non ci stai con la testa. Che t’è preso?”

“Proprio ora ti fai venire la fissa del rock? Ma ti pare il momento?”

Pablo suona la chitarra in un angolo e scuote la testa. Sorride. Imita la voce di un commentatore televisivo, uno con due baffoni neri spioventi che pare un pistolero messicano: “La Rivoluzione è sempre più solida e forte. Cinque controrivoluzionari arrestati mentre suonano Cat Stevens alla Casa della Cultura di Guanabacoa. Le condizioni di salute del Comandante sono in via di miglioramento. Presto tornerà a guidare il suo popolo contro gli imperialisti”. 

Paco si convince. Forse comprende che non è il caso.

“Un pezzo però te lo facciamo fare. Nascosto in mezzo a parecchio son tradizionale alla Benny Moré. Magari Lou Reed che mica parla di politica, canta in inglese… tu cerca di darlo poco a vedere…” dico.

“Grazie. Tu mi capisci. Non posso fare il musicista se mi dicono sempre cosa devo suonare. Devo sentirmi libero…” risponde.

Eh sì, Paco. Magari fosse solo questo il problema. Magari ti dicessero solo che musica devi suonare. Qui ti criminalizzano la vita e come prendi un’iniziativa fai qualcosa di illegale. Se vivi secondo la legge muori di fame. Hanno ridotto le pagine alla tessera del razionamento alimentare, tanto mica servivano tutti quei fogli bianchi per un po’ di riso e due sacchetti di fagioli. Se non c’è chi ti manda denaro dall’estero non sopravvivi. Altro che musica, Paco. 

Queste cose le penso soltanto, però. Mica le posso dire a voce alta. Siamo dentro la Casa della Cultura di Guanabacoa e anche le mura hanno orecchie. I chivattones sono a ogni angolo. Spie del regime che ti vendono per un piatto di riso e fagioli e dopo son cazzi da cacare. Finisci dentro e chi ti rivede. Soprattutto adesso che Lui non c’è più e il suo posto l’ha preso uno Speedy Gonzales un po’ frocio, uno che i coglioni li ha tirati fuori solo per mandare i ragazzi a far la guerra in Angola. In che mani siamo finiti…

“Sentirsi libero. E questa cosa da quando t’è venuta?”.

“Non so. Credo che sia importante poter fare delle scelte”.

È importante sì, caro Paco. Solo che qui non le abbiamo mai fatte. C’è chi decide per noi. Forse è meglio suonare, guarda, pure se ci chiedono la solita musica di sempre, ché tanto di Arturo Sandoval ce n’è stato uno, El Barrio non cambierà la storia della musica cubana. Forse è meglio suonare, guarda. Basta che non venga fuori il solito italiano stronzo a chiedere Hasta siempre, ché un giorno o l’altro la batteria gliela suono sulla testa a questi comunisti che sanno un cazzo cos’è il comunismo. 

“Paco, noi facciamo le nostre scelte. Sarà un gran concerto, credi a me. Salsa a tempo di rock. Musica vera” dico.

“Non mi prendere per il culo, Alejandro”.

Sorrido. Provo la batteria e pesto con forza sui piatti di ottone per sfogare la rabbia che tengo dentro. No che non ti prendo per il culo, Paco. Sapessi quanta gente c’è in giro che ci prende per il culo. Juliana se n’è andata e adesso dice che vive da signora, le manca la sua terra ma può fare quello che vuole, muore di nostalgia ma non deve andare alle parate organizzate dal partito in Piazza della Rivoluzione, ha una casa e una famiglia e non deve fare la puttana per campare. Non sono io che ti prendo per il culo, caro Paco.

I nostri sguardi valgono più di tante parole.

“Attacca Alejandro” mi fa.

“Attacco Paco” rispondo.

E si parte.

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Alejandro Torreguitart Ruiz

17 gennaio 2007


Alejandro Torreguitart Ruiz (L’Avana, 1979) scrive poesie e racconti per la rivista El Barrio, è poeta repentista e cantautore. Suona in un gruppo rock chiamato El Barrio. Ha esordito in Italia con Machi di carta – confessioni di un omosessuale (Stampa Alternativa, 2003) che ha avuto un buon successo di critica e di pubblico. A gennaio 2004 ha pubblicato il romanzo breve La Marina del mio passato (Edizioni Nonsoloparole – Napoli) e a maggio 2005 il romanzo di ampio respiro Vita da jinetera (Il Foglio – Piombino) sul mondo della prostituzione. Nel corso del 2007 uscirà per Stampa Altrnativa il romanzo erotico Casa particular – Sesso all’Avana, storia di vita quotidiana nella Cuba del periodo speciale tra jineterismo e arte di arrangiarsi. Sono in attesa di pubblicazione i Bozzetti avaneri, una raccolta di racconti che non sono racconti e il romanzo fantastico Mister Hyde all’Avana. Alcuni suoi racconti di impronta politico-esistenziale sono stati pubblicati da quotidiani e riviste. Tra questi: Il Tirreno, Il Messaggero, La Comune, Container, Progetto Babele, Il Filo, L’Ostile, Happy Boys. Gordiano Lupi è il traduttore e il titolare per lo sfruttamento dei diritti sulle sue opere in Italia e per l’Europa.

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Gordiano Lupi (Piombino, 1960). Direttore Editoriale delle Edizioni Il Foglio. Ha tradotto i romanzi del cubano Alejandro Torreguitart Ruiz: Machi di carta (Stampa Alternativa, 2003), La Marina del mio passato (Nonsoloparole, 2003) e Vita da jinetera (Il Foglio, 2005). I suoi lavori più recenti sono: Nero Tropicale (Terzo Millennio, 2003), Cuba Magica – conversazioni con un santéro (Mursia, 2003), Cannibal – il cinema selvaggio di Ruggero Deodato (Profondo Rosso, 2003), Un’isola a passo di son – viaggio nel mondo della musica cubana (Bastogi, 2004), Quasi quasi faccio anch’io un corso di scrittura (Stampa Alternativa, 2004 – due edizioni in un anno), Orrore, erotismo e pornografia secondo Joe D’Amato (Profondo Rosso, 2004), Tomas Milian, il trucido e lo sbirro (Profondo Rosso, 2004), Serial Killer italiani (Editoriale Olimpia, 2005), Nemici miei (Stampa Alternativa, 2005), Le dive nude – vol. 1 – il cinema di Gloria Guida e di Edwige Fenech (Profondo Rosso, 2006) e – in collaborazione con Fabio Zanello – Il cittadino si ribella: il cinema di Enzo G. Castellari (Profondo Rosso, 2006).  Il suo ultimo libro è il saggio Almeno il pane Fidel – Cuba quotidiana (Stampa Alternativa, 2006). Pagine web: www.infol.it/lupi. E-mail per contatti: lupi@infol.it *

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martedì, 16 gennaio 2007

DUE VIAGGI CINEMATOGRAFICI (di Gabriele Montemagno)

Un viaggio può rappresentare, nella vita di ciascuno, un’occasione ottimale per conoscere e incontrare gli altri e ciò che è diverso da noi; ma anche per conoscersi. Quel senso di precarietà che si insinua in ogni viaggio (breve o lungo che sia), a causa della momentanea lontananza dal luogo nel quale viviamo e che conosciamo, e dalle persone con cui abitualmente trascorriamo il nostro tempo, ci può rendere più sensibili a farci coinvolgere dall’altro e a misurarci con noi stessi e la nostra identità. Queste semplici considerazioni sul viaggio sono state stimolate in me dalla visione di due recenti film italiani usciti all’inizio della stagione 2006-2007: Nuovomondo di Emanuele Crialese e La stella che non c’è di Gianni Amelio, entrambi, registi di origine meridionale.

Una famiglia di poveri contadini che parte, all’inizio del Novecento, da un paesino povero della Sicilia profonda, per andare in America in cerca di una vita migliore, è la protagonista della pellicola di Crialese. Amelio, invece, filma le peripezie di un ingegnere italiano nella Cina contemporanea, perché spinto dal senso del dovere che gli impone di dover sostituire un pezzo difettoso di un altoforno, venduto ai cinesi e da lui stesso progettato. Due film, due viaggi, ambientati in tempi e contesti diversi: l’emigrazione verso l’America nel primo Novecento e la Cina dei giorni nostri che si affaccia prepotentemente nell’economia mondiale. Due storie che sembrano incrociarsi fra loro e poi allontanarsi. Se infatti, in entrambe, i protagonisti appaiono desiderosi di partire e carichi di fiducia, al loro arrivo dovranno fare i conti con la nuova realtà dei paesi in cui giungono. Infatti, la famiglia siciliana, dopo il definitivo allontanamento dalla sua Sicilia e l’avventuroso viaggio, pur pervenendo in un freddo e labirintico centro accoglienza immigrati di Ellis Island, retto da poliziotti, medici e assistenti che agiscono come tanti burocrati, permane pienamente salda ai propri valori e identità; invece il povero ingegnere sembra comprendere la propria pochezza e piccolezza e finisce per perdere ogni suo riferimento interiore. La Cina gli appare così vasta, multiforme e intenta ad inseguire lo sviluppo, da non curarsi dei traumi provocati da una (modernissima) alienazione, simboleggiata da palazzoni-alveari che svettano folti nelle sue fredde e grigie megalopoli. Questa Cina lo coinvolgerà, sconvolgendolo profondamente nell’animo e negli affetti.

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domenica, 14 gennaio 2007

FOTOGRAMMI IMPRESSI (di Gabriele Montemagno)

Cari amici, Gabriele Montemagno è un critico cinematografico che scrive su alcune riviste/magazine.

Gabriele gestirà qui a Letteratitudine una rubrica di cinema e letteratura che si chiamerà, appunto, "Fotogrammi impressi).

Vi lascio alla seguente nota di benvenuto firmata da Gabriele.

(Massimo Maugeri)

Fotogrammi impressi

Fotogrammi impressi nella pellicola, come le parole nelle pagine di un libro. E come le parole scritte ci possono restare impresse nella memoria, così anche i fotogrammi, le immagini di un film. Che, spesso, mantengono in vita il ricordo dei film visti e le sensazioni che hanno comunicato. 

Salve a tutti! Mi chiamo Gabriele Montemagno e, periodicamente, vi scriverò di film presenti, passati e… futuri.  Spero, carissimi lettori-cinefili, di poter vedere anche vostri commenti e/o interventi, che non faranno altro se non arricchire questo spazio cinematografico di Letteratitudine.

Non mi resta che ringraziare il caro Massimo Maugeri e voi tutti che vorrete dare un’occhiata. E adesso… motore, azione, ciak…

Benvenuti in Fotogrammi impressi!!

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lunedì, 1 gennaio 2007

CUBA DOPO CASTRO (di Gordiano Lupi)

Inauguriamo il 2007 aprendo una nuova rubrica che avrà come titolo CONTROSTORIE e che sarà curata da Gordiano Lupi: scrittore, traduttore e direttore editoriale della casa editrice Il Foglio.

Gordiano Lupi

CUBA DOPO CASTRO

José Hugo Fernández, giornalista indipendente cubano, scrive: “I cubani sono abituati a non godere di nessun diritto. In questo momento non possono neppure avere notizie sullo stato di salute del loro dittatore”. C’è chi dice che Fidel non si fa vedere in pubblico perché non ha più capelli in testa e ha la barba rada. Altri affermano che gli manca la voce, altri ancora sostengono che è in coma irreversibile o che è malato di cancro allo stadio terminale. I più fantasiosi raccontano che sarebbe morto da tempo e gli esponenti del regime attenderebbero il momento propizio per dare la notizia. Di fatto nessuno conosce la verità e allora i cubani danno libero sfogo alla fantasia. José Luis Garcia Sabrido – il medico che ha operato Fidel Castro all’intestino – afferma che il Comandante si sta riprendendo e presto potrebbe tornare a svolgere attività di governo. “Non ha una neoplasia allo stato terminale, come si sente dire da qualche commentatore statunitense” ha concluso. Garcia Sabrido non è il massimo della attendibilità perché sono note le sue simpatie castriste, così come non sono degni di fede i giornalisti statunitensi che attendono come avvoltoi la data della morte. 

In questo clima di incertezza i maggiori esponenti politici cubani non parlano di successione e si limitano ad attendere. Raúl Castro è l’erede designato, ma ha settantacinque anni, e non credo possa essere l’uomo capace di traghettare Cuba verso il futuro. Restano personaggi come Carlos Lage, Felipe Pérez Roque e Ricardo Alarcón, che rappresentano quanto di meglio è capace di produrre il Partito Comunista Cubano.

“Fidel è insostituibile. Possiamo portare avanti il suo insegnamento soltanto restando uniti, ciascuno rivestendo il ruolo che gli compete. Il posto di Fidel può essere preso solo dal Partito Comunista Cubano”, ha detto Raúl davanti a migliaia di giovani. Raúl ha approfittato dell’occasione per aggiungere che è arrivato il momento di cedere il passo alle nuove generazioni. Non è un caso, allora, se il congresso del Partito Comunista Cubano ha riesumato nel mese di luglio (mentre operavano Fidel) la Segreteria del Comitato Centrale, organo di governo soppresso nel 1991.

La Segreteria comprende dodici membri: i fratelli Castro, un paio di vecchi ideologi del regime e otto persone sotto i cinquant’anni, la seconda e terza generazione della Rivoluzione. Alla morte di Fidel Castro il potere potrebbe passare nelle mani della Segreteria del Comitato Centrale. Per questo motivo sia Perez Roque che Carlos Lage dicono che a Cuba non ci sarà successione ma continuità. Al potere carismatico di quello che è stato un grande protagonista del ventesimo secolo si sostituirebbe il potere della burocrazia. Se le cose stanno davvero così non si prospetta un bel futuro per l’isola caraibica.

A mio parere Fidel Castro, così come hanno fatto i grandi dittatori della storia, eserciterà il potere fino all’ultimo respiro. In questo momento il fratello Raúl è un uomo nelle sue mani, un semplice esecutore della sua volontà che si limita ad ascoltare ed eseguire. Raúl non è capace di esprimere una volontà propria, come non lo ha mai fatto in passato quando la sua opinione era diversa da quella del fratello. Quando Raúl dice che Fidel è insostituibile e che il governo del futuro sarà collegiale, parla perché sa che il fratello lo ascolta. Raúl si comporta ancora da numero due senza personalità propria ed è in virtù di questo atteggiamento che si è mantenuto per tanti anni al governo. Non è un caso se tutti gli altri eroi della Rivoluzione che avevano una personalità spiccata e delle opinioni personali sono stati eliminati, in un modo o nell’altro, da Fidel Castro. Per questo sono convinto che Raúl resta un enigma totale che sarà possibile sciogliere solo dopo la morte dell’ingombrante fratello. Non conosciamo il potenziale politico di un uomo che è sempre vissuto all’ombra di Fidel ed è presto per dire se si muoverà all’interno del solco tracciato o se darà vita a una perestroika cubana verso la democrazia. Le cose da fare sarebbero molte per dare inizio a un effettivo processo di cambiamento, ma alcuni punti sono davvero imprescindibili. Permettere il lavoro por cuenta propria e porre fine alla persecuzione di ogni tipo di iniziativa privata. Mettere al Ministero degli Esteri una persona che rappresenti davvero il paese. Destituire i dirigenti più odiati dal popolo come Juan Escalona e Ricardo Alarcón. Riabilitare persone valide ma cadute in disgrazia sotto Fidel Castro come Carlos Aldana e Humberto Perez. Permettere l’uscita dal paese a tutti coloro che sono obbligati a rimanervi come prigionieri (insegnanti, medici, persone che il regime non vuole far uscire). Abolire il permesso di uscita (la famigerata tarjeta blanca) che limita la libertà di circolazione. Eliminare il permesso di entrata per i cittadini residenti all’estero, che vieta la possibilità di rientrare in patria ai cubani invisi al regime. Rimpiazzare i funzionari incompetenti con tecnici efficienti. Mettere da parte figure storiche incapaci di governare come Almeida, Guillermo García, Machado Ventura, Ramiro Valdés… veri fantasmi del passato. Abbandonare i Comitati di Difesa della Rivoluzione, la Federazione delle Donne Cubane e le Brigate di Risposta Rapida. Liberare i prigionieri politici e di coscienza. Tollerare i dissidenti, permettere un libero scambio di opinioni e un’effettiva libertà di stampa. Lavorare in modo concreto per realizzare un’economia indipendente che risolva i problemi di undici milioni di cittadini cubani.  Trattare con gli Stati Uniti la fine dell’embargo. In poche parole si tratta di portare libertà politica, iniziativa economica privata e diritti civili in un paese che non ha mai conosciuto niente di tutto questo. Mi pare un programma complesso per un uomo di settantacinque anni dotato di scarsa personalità e pochissimo ascendente nei confronti del popolo.

Non è possibile avere certezze sul futuro di Cuba. Di sicuro è eccessiva la fiducia ottimistica in una rapida perestroika cubana, così come sono troppo cupi gli scenari dipinti da qualche commentatore che vede un futuro di violenze e guerra civile. Per il momento è importante continuare a denunciare le cose che non vanno e le limitazioni ai diritti umani. Per esempio è notizia di questi giorni – e in Italia nessuno lo dice – che Reporter senza frontiere assegnerà al giornalista Guillermo Fariñas il Premio Ciberdissidente in prigione. Fariñas è un prigioniero politico che lotta con le armi non violente dello sciopero della fame e cerca di ottenere il libero accesso a internet per i cubani. La sua salute è cagionevole e nei mesi scorsi ha rischiato di morire per attirare su di sé l’attenzione internazionale. In Italia se n’è parlato poco e male. In compenso si preferisce dar credito alla novella raccontata ad arte sul fatto che Reporter senza frontiere sarebbe nel libro paga della Cia. Tutti coloro che si sforzano di far sapere le cose che non funzionano a Cuba prima o poi si trovano cucita addosso questa accusa infamante. Per fortuna che il pubblico legge e si informa e non crede più a una vecchia e monocorde campana che da anni suona sempre la stessa nota.

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

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Gordiano Lupi (Piombino, 1960). Direttore Editoriale delle Edizioni Il Foglio. Collabora con Mystero e con la Casa Editrice Profondo Rosso di Roma. Collabora con Stilos, X Comics, Blue e Underground Press.  Ha tradotto i romanzi del cubano Alejandro Torreguitart Ruiz: Machi di carta (Stampa Alternativa, 2003), La Marina del mio passato (Nonsoloparole, 2003) e Vita da jinetera (Il Foglio, 2005). I suoi lavori più recenti sono: Nero Tropicale (Terzo Millennio, 2003), Cuba Magica – conversazioni con un santéro (Mursia, 2003), Cannibal – il cinema selvaggio di Ruggero Deodato (Profondo Rosso, 2003), Un’isola a passo di son – viaggio nel mondo della musica cubana (Bastogi, 2004), Quasi quasi faccio anch’io un corso di scrittura (Stampa Alternativa, 2004 – due edizioni in un anno), Orrore, erotismo e pornografia secondo Joe D’Amato (Profondo Rosso, 2004), Tomas Milian, il trucido e lo sbirro (Profondo Rosso, 2004), Serial Killer italiani (Editoriale Olimpia, 2005), Nemici miei (Stampa Alternativa, 2005), Le dive nude – vol. 1 – il cinema di Gloria Guida e di Edwige Fenech (Profondo Rosso, 2006) e – in collaborazione con Fabio Zanello – Il cittadino si ribella: il cinema di Enzo G. Castellari (Profondo Rosso, 2006).  Il suo ultimo libro è il saggio Almeno il pane Fidel – Cuba quotidiana (Stampa Alternativa, 2006).

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domenica, 22 ottobre 2006

BIBLOS CAFE’ 2006

Biblos_0Cari amici,

ho il piacere di segnalarvi un interessante evento culturale che si terrà a Floridia (Sr) nei prossimi giorni. Si tratta di Biblos Cafè 2006 e il piacere è davvero “particolare” giacché, nell’evento, è coinvolto il mio "Identità distorte".

Il programma dell’iniziativa, organizzata dal semiologo prof. Salvatore Sequenzia, lo trovate cliccando qui (retro del pieghevole) e qui (fronte); e anche qui.

Vi riporto la presentazione dell’evento a firma dello stesso prof. Sequenzia:

<<La forza comunicativa della parola narrata che gioca con la suggestione evocativa delle note jazz, con i linguaggi dell’arte, le suadenze della poesia e del vino. Tutto ciò dal vivo, nella magica ed intrigante atmosfera delle settecentesche sale di un cafè d’altri tempi.

Questo è il “Biblos cafè”, rassegna letteraria giunta al suo terzo ciclo, dedicato quest’anno alle “contaminazioni”.

Nata nel 2002 da un’idea dell’Associazione Shalom O.N.L.U.S., la rassegna “Biblos cafè”  continua a crescere radicandosi sempre più sul territorio nazionale come iniziativa innovativa di promozione dei libri e della lettura, offrendo sette incontri di  contaminazione tra musica, editoria, cinema, arti figurative e teatro, all’insegna della libera circolazione dei saperi e con l’apporto di partner pubblici e privati che credono nella cultura come investimento di promozione del territorio, momento di sviluppo e concreta  risorsa condivisibile.

Eventi culturali completi e ben coordinati, incontri tra culture, competenze e linguaggi diversi. Grandi spettacoli in cui trovano forza le parole, dimensione i suoni e spazio le emozioni più vere.

In fondo, “Biblos cafè” da’ vita a una magia antica, che si coagula in un insieme di eventi che tocca corde profonde, per ritrovare – nella libertà della creazione – calore, spazio, partecipazione, confronto, concreta occasione di affermazione delle proprie esperienze, della propria voce e del proprio vissuto.

“Biblos cafè” raccoglie scrittori, musicisti, artisti, attori, esperti di comunicazione, enti pubblici e privati, a livello locale  e globale, accomunati dal talento, dalla sensibilità e dal piacere di circumnavigare la contemporaneità.

In tal senso, “Biblos cafè” è un progetto completo: non semplice reading, non solo musica, non  mostre tradizionali: è un concerto, un racconto concerto, una rapsodia di immagini e di sollecitazioni. Un incontro di attori e musicisti che parallelamente raccontano, grandi artisti di fama nazionale ed internazionale che si incontrano al crocevia della vita, nell’antro incantato di una notte di fine autunno, facendo rivivere il sogno dell’arte e di una civiltà progredita nel cuore di una piccola città di provincia.

Grandi talenti per dare forza ad un approccio culturale nuovo e antichissimo: la fusione della parola scritta in spettacolo, con l’assoluta originalità di essere non solo contaminata e “inseminata” da linguaggi altri, ma completamente attraversata da esperienze meticcie, molteplici ed estravaganti, e tuttavia legate da una unica tensione civile ed intellettuale.

Scrittura, musica, immagini, percorsi “enoici”, installazioni e performance video sono e restano anche un’intensa esperienza individuale, alimentata da un soffio vitale, intenso ed eterodosso, che percorre la via della condivisione e dell’incontro nell’unico luogo possibile: quello della letteratura.

Perché questa è l’unica liberta che oggi  ci è concessa.>>

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domenica, 8 ottobre 2006

PUBBLICARE SU RIVISTE

(Post lungo, ma assolutamente da leggere. Fidatevi!)

Qualche giorno fa ho ricevuto l’e-mail di Luca, un giovane aspirante scrittore in cerca di consigli. Luca sta lavorando a un romanzo. Sa bene che pubblicare è difficile, dunque ha deciso di procedere a piccoli passi. Per il momento, infatti, si accontenterebbe di vendere un paio di racconti a riviste letterarie. Per farla breve Luca mi chiede a quale rivista può inviare i suoi racconti, precisando che – nel caso in cui venissero valutati positivamente – accetterebbe di essere pagato “anche con cifra modica”.

Ho scritto a Luca e gli ho dato appuntamento su queste pagine. Anziché rispondergli direttamente, però, cedo la parola (rigorosamente scritta) allo scrittore Roberto Alajmo. Considera, Luca, – è importante – che Roberto Alajmo è uno scrittore che ha pubblicato libri di pregio (cito solo Cuore di madre e È stato il figlio) vincendo prestigiosi premi letterari (come il Mondello, il SuperVittorini, il SuperComisso), oltre a essere stato finalista allo Strega, al Campiello e al Viareggio.

Leggi qui di seguito, Luca – giusto per farti un’idea -, cosa scrive in merito Roberto Alajmo (che ringrazio di cuore per aver concesso il “pezzo”).

Funziona così.

Ti telefona un amico. Oddio, amico: un conoscente. Uno che dopo nome e cognome sente il bisogno di specificare un riferimento editoriale. Tipo: – “Sono Pinco Palla”. Pausa. – “Della rivista Signum“.

(Ora, se davvero esiste la rivista Signum, mi scusino i suoi redattori; loro non c’entrano). Sentendo il nome della rivista tu fai un verso di consapevolezza: ah, Signum. Certo che conosci la rivista Signum. Come potresti aver dimenticato Pinco Palla? Certo. Non sei così rimbambito da non ricordarti delle persone, né tanto ignorante da non leggere la rivista Signum. L’aspetti ogni mese, incalzi l’edicolante pur di non perderti nemmeno un numero della rivista Signum. Nella conversazione telefonica segue una pausa, perché una volta avvenuto il riconoscimento si tratta di entrare in argomento. E’ un momento difficile.

Ma tu sai già qual è l’argomento. Lo sai perché i Pinchi Palla hai imparato a riconoscerli a orecchio, quando telefonano. Già sai anche quale sarà l’andamento della telefonata, fatto di richieste e pretesti, insistenze e rifiuti. Ma intanto non dici niente perché il gioco delle parti prevede che sia lui a scoprirsi e fare la sua richiesta. Segue magari qualche altra tergiversazione; ma tu sai, e lui sa che tu sai, che prima o poi la domanda arriva. Ecco che arriva. Sta arrivando. E’ arrivata:

- “Non è che scriveresti qualcosa per la nostra rivista?”

E anche se lo sapevi benissimo dove Pinco Palla voleva andare a parare, anche se hai mille scuse pronte, anche se lui è la persona più gentile del mondo tu a questo punto ti incazzi, perché sai perfettamente che scrivere per la rivista Signum significa scrivere gratis. Pinco Palla è un Committente di Racconti Gratuiti.

Con i datori di lavoro gratuito tu combatti una guerra matta e disperatissima fin dall’inizio della tua carriera. Ancora conservi il primo assegno che il Giornale ti mandò. Era il corrispettivo di una recensione per la quale ti preparasti per una settimana, rileggendo il testo e informandoti sulla biografia dei singoli attori. Andasti fino a Erice e tornasti nel cuore della notte per distillare quaranta righe di purissima cronaca teatrale. Totale: duemilatrecento lire. Un assegno che a lungo hai pensato di far mettere sotto cornice.

Con quel Giornale hai collaborato a lungo, traendone parecchi assegni per importi non molto superiori. Tanto che a un certo punto ti sei stufato e hai fatto causa portando al giudice quella rubrica umoristica che ogni anno l’ordine dei giornalisti allega alle sue pubblicazioni, intitolata “Tariffario dell’Ordine”. Il giudice la prese e assieme all’avvocato del Giornale ci confezionò un ideale aeroplanino di carta che idealmente fece volare via dalla finestra assieme al tuo anelito di giustizia sociale. Dal giorno della sentenza i tuoi familiari hanno da parte una busta chiusa con le tue disposizioni testamentarie. La voce numero uno recita: – Nessun necrologio sul Giornale.

Questo perché, conti alla mano, ne basterebbe anche uno solo per restituire all’editore, con gli interessi, tutti i compensi ricevuti per anni e anni di collaborazioni. Da allora hai messo nel conto di passare per venale (e stronzo, e misantropo), specialmente se paragonato a tutta l’umanità formata dagli idealisti disposti a regalare il loro lavoro ai giornali. Ormai questo credono che tu sia: venale, stronzo e misantropo.

Per ovviare a questo inconveniente d’immagine, qualche anno fa, quando telefonava un CRG, per un certo periodo rispondevi in maniera ipocritamente disponibile e poi gli proponevi un racconto intitolato “La morte”. Era un esercizio di stile scritto appositamente per risultare iettatorio fino allo spasimo. In questo modo il CRG, saputo l’argomento, improvvisamente declinava, rinviava.

Diceva: – Vediamo nel prossimo numero, magari. Oppure se ti viene in mente qualcos’altro…

Ma a te non veniva in mente altro. Ci mancherebbe. O “La morte” o niente. E il CRG spariva, immancabilmente. Il rischio, certo, era di passare per menagramo. Ma tu te ne fregavi. Hai adoperato questo racconto iettatorio come argomento deterrente standard per diversi anni, per scoraggiare una serie di Pinchi Palla. Durò fino a quando non successe l’imprevedibile: un famoso CRG accettò di pubblicarlo sul serio. Fine dell’argomento deterrente standard, fine delle scuse.

Le scuse non bastano mai perché il Committente di Racconti Gratuiti ha diverse varianti antropologiche. Può configurarsi come Committente di Prefazioni Gratuite, per esempio. In questi casi Pinco Palla è di solito un poeta che ti chiede, in nome della vostra amicizia – e tu pensi: amicizia? Quale amicizia? -, di scrivere l’introduzione della sua ultima silloge di versi.
Altra variante: il Committente di Letture Gratuite. Stavolta Pinco Palla è uno spettatore venuto a sentire la presentazione del tuo libro. In quel caso si avvicina alla fine del dibattito e tenta di mollarti un manoscritto di mille pagine chiedendoti se gli fai il favore di leggertelo, perché sua madre sostiene che si tratta di un capolavoro. Di solito la premessa del Committente di Letture Gratuite è: “Non ho avuto ancora il tempo di leggere il suo libro…”.

In sostanza lui non ha trovato il tempo di leggere il tuo romanzo, ma tu hai senz’altro tempo a bizzeffe per leggere il suo. Anche perché c’è quell’ancora che dovrebbe farti sperare: non è sicuro, né lui promette niente, tuttavia esiste ancora la possibilità, se tu leggerai il suo, che lui si degni di leggere il tuo.

Ma dall’approccio telefonico tu ti rendi conto che Pinco Palla appartiene stavolta precisamente alla categoria dei Committenti di Racconti Gratuiti. Quello vuole da te: un racconto. Ti domanda se per caso ne hai qualcuno nel cassetto. Non sa di essere arrivato tardi, quando i tuoi cassetti sono stati saccheggiati da decine di altri CRG arrivati prima di lui, che si sono aggiudicati tutti i racconti che avevi scritto fin dai tempi del liceo. Soprattutto non si rende conto che siccome ormai sei diventato cattivo, a forza di sentirtelo chiedere, tu hai esaurito ogni forma di onesta dissimulazione. Non fingi più, non cerchi pretesti. Non adoperi le mille plausibilissime scuse che potresti adoperare. No. Gli rispondi invece in maniera diretta: “Volentieri. Quanto pagate?”

E godi, veramente godi a sentirlo annaspare:

“Ma sai… le riviste… la cultura… soldi non ce ne sono mai, per questo genere di cose…”.

A questo punto tu hai una parabola che hai messo da parte apposta per quando telefona Pinco Palla o uno come lui. E’ la storia del tuo elettricista, di quando ti ha rifatto l’impianto di casa scoprendo che abiti in affitto, e ti ha detto:

- Dottore, lei ancora in affitto è? Io sono alla terza casa!

E certo che è alla terza casa. Al mio elettricista mica telefona mai Pinco Palla della rivista Signum per chiedergli di rifargli gratis l’impianto elettrico della redazione. Se Pinco Palla vuole rifatto l’impianto elettrico lo paga, lo paga caro e lo paga anche in nero, di modo che l’elettricista possa costruirsi i suoi appartamenti in serie e prendere per miserabile un povero cristo come te che cerca di sbarcare il lunario facendo il mestiere di scrivere.

Uno scrittore di medio calibro come te potrebbe campare solo di presentazioni di libri altrui, prefazioni e racconti per le riviste, se questo genere di lavoro intellettuale fosse appena appena retribuito. Ma al sud, specialmente in Sicilia, il lavoro intellettuale non si paga mai. Per questo tu t’inalberi quando senti che in Sicilia non c’è lavoro per gli intellettuali. Non è vero, di lavoro ce n’è fin troppo: sono gli stipendi che mancano.

Ora tu capisci che di tanto in tanto si possa scrivere gratis per il giornale della parrocchia, o per la fanzine del centro sociale. Puoi regalare un racconto per finanziare Emergency. La rivista Signum però non è legata a nessuna parrocchia, a nessun centro sociale. Non finanzia Emergency né alcuna altra organizzazione no-profit. Anzi: alle spalle ha un editore sì-profit. Molto-profit. Moltissimamente-profit. Oppure ha una veste grafica ultra patinata, viene stampata su carta pesante dieci grammi a pagina. Per cui si capisce che almeno la tipografia e un grafico la rivista Signum può permetterseli. E siccome anche grafici e tipografi – al pari degli elettricisti e di ogni altra categoria lavorativa al mondo, tranne gli scrittori – pretendono di essere pagati, significa che un po’ di soldini circolano, dalle parti della rivista Signum. E allora perché grafici, tipografi (ed elettricisti) sì, e tu no? Che hai tu in meno di loro? Non hai forse un lavoro remunerato che pretende e giustamente ti porta via la maggior parte del tempo? Non sei stressato perché non hai mai un minuto da perdere? Non hai una famiglia che vorrebbe trascorrere assieme a te il fine settimana? Non hai un figlio che non vede mai il suo papà perché il suo papà lavora sempre?

Tu non ce l’hai con Pinco Palla. No. Pinco Palla, ora che ti sei ricordato le circostanze in cui vi siete conosciuti, ti è persino simpatico. Non è peggiore di tutti quelli che cercano di separarti dal tuo vero lavoro, dalla famiglia, da tuo figlio, dal libro che stai scrivendo. Persino da Age of Empires, il gioco elettronico che assorbe buona parte delle ore che trascorri al computer. Pinco Palla è in buona fede. Non immagina che tu abbia una vita privata. Non è neppure il peggiore della razza dei Committenti di Racconti Gratuiti.

Il CRG peggiore che ti sia mai capitato di incontrare è uno scrittore – dunque un apostata della categoria. Uno scrittore di Parma. Uno scrittore che una volta ti chiese di scrivere un racconto per una raccolta di scrittori under quaranta. E siccome lo scrittore parmigiano ti ispirava gran simpatia, tu il racconto glielo scrivesti, e ti venne anche bellino. I patti erano chiari e l’amicizia lunga: non c’era da aspettarsi una lira. La formula era:

- “Se poi il libro va bene…”

Insomma: campa cavallo. Passarono diversi mesi dalla consegna, perché i CRG hanno sempre una gran fretta di farsi consegnare il tuo racconto, ma poi la pubblicazione avviene mesi, certe volte anni dopo che hai finito di scrivere di fretta per rispettare la scadenza pattuita. Finché un giorno ti telefonò una gentile signorina che chiamava a nome dell’editore, il quale si scusava per non averlo potuto fare personalmente. La signorina voleva sapere quante copie del libro di racconti tu fossi intenzionato a comprare. Te lo sei fatto ripetere diverse volte, fino ad arrivare quasi allo spelling, per essere sicuro di non aver capito male. E la signorina sillabò:

- Quante – copie – è – intenzionato – a – comprare?

In sostanza, l’editore in questione aveva previsto – bontà sua – di fare un prezzo di favore agli scrittori che avevano collaborato alla raccolta. Cioè: dopo aver scritto senza compenso, tu dovevi secondo lui pure comprarti il libro. Come se la fiat pretendesse che i suoi operai lavorassero gratis e poi per giunta acquistassero tutte le automobili invendute.

Devi ammettere che quella volta non sei stato molto educato con l’impiegata della casa editrice. E anche la simpatia che provavi per lo scrittore parmigiano è sfumata. I suoi libri non li hai voluti più leggere.

È stato dopo questo episodio che ti sei messo al computer e coi caratteri più grandi possibili (Times New Roman 72) hai fabbricato una specie di striscione che hai appeso al muro davanti alla scrivania, in modo che ogni volta che alzi gli occhi dal lavoro non puoi fare a meno di leggerlo:
PRIMA PAGARE, POI SCRIVERE.

PS: Questo racconto è stato scritto gratuitamente. La rivista su cui compare non paga le collaborazioni. Questo racconto è stato proposto come argomento deterrente standard a diverse riviste che chiedevano di pubblicare gratuitamente un racconto. Tutte, fino a oggi, ne avevano rifiutato la pubblicazione.

—————–

Capito l’antifona, Luca?

Ringrazio ancora una volta Roberto Alajmo per aver concesso gratuitamente il pezzo (ehi, però io non sono un CRG; ci tengo a precisarlo, eh?). So che leggerà questa rubrica e che è pronto a rispondere a eventuali vostri commenti. Ne approfitto infine per segnalarvi un esperimento stimolante: connettendovi al blog di Roberto Alajmo, troverete… be’, sapete che faccio? Anticipo qui di seguito il messaggio che troverete (un saluto a tutti. Massimo Maugeri).

Cari amici del Blog,

questo post è un piccolo regalo che io faccio a voi e un grande regalo che voi potete fare a me. Si tratta del Primo Capitolo del mio nuovo romanzo. Siccome a un certo punto le idee hanno bisogno di prendere aria, ho pensato di fare assieme a voi, se lo vorrete, una specie di editing pubblico.

Consideratelo materiale provvisorio, soggetto a tutti i cambiamenti che saranno necessari, e ricordatevi che in questa fase i complimenti sono ben accetti, ma le critiche sono infinitamente più utili. Siate spietati, dunque. Fermo restando che ad avere l’ultima parola è sempre l’autore.

Qualcuno ha voglia di giocare a questo gioco?

Roberto Alajmo

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