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mercoledì, 15 luglio 2020

OMAGGIO A SEBASTIANO ADDAMO

In occasione del ventennale della morte di Sebastiano Addamo (Catania, 18 febbraio 1925 – Catania, 9 luglio 2000) mettiamo in primo piano questo post (con relativo dibattito online) incentrato sull’opera principale dello scrittore catanese: “Il giudizio della sera”

* * *

IL GIUDIZIO DELLA SERA di Sebastiano Addamo

È arduo pensare di riproporre ai lettori di oggi un romanzo uscito senza alcun clamore 35 anni fa. Arduo se non altro perché le novità editoriali sono tante da creare tempeste sui banconi dei librai. Eppure la qualità letteraria di alcuni vecchi libri è tale da giustificare l’azzardo.
Con queste parole Matteo Collura inizia la recensione del romanzo “Il giudizio della sera”, di Sebastiano Addamo (nella foto), ripubblicato da Bompiani nel 2008 a cura di Sarah Zappulla Muscarà (originariamente pubblicato, nel 1974, da Garzanti).
Poi, lo stesso Collura, nella suddetta recensione (pubblicata sul Corriere della Sera del 14 ottobre 2008) conclude: Non è da credere in un successo postumo di questo narratore, che fu preside di liceo e fine intellettuale, ma in una sua giusta collocazione nell’ambito dei valori letterari del secondo Novecento italiano, sì. E va dato atto alla Bompiani di tentarci (…).

Sebastiano Addamo, mio conterraneo, è nato a Catania, nel 1925 e ivi si è spento nel 2000. Non lo so se – riprendo le parole di Collura – il successo postumo arriderà ad Addamo, ma (nel mio piccolo) avverto l’esigenza di fare quanto possibile per divulgare la conoscenza di questo autore e delle sue opere; proprio a partire da questo romanzo: “Il giudizio della sera”.

Sulla nota in quarta di copertina del libro, leggiamo quanto segue: “Narratore, poeta, saggista, Sebastiano Addamo ha percorso un cammino coerente, sostenuto sempre da rigore stilistico e morale. È l’universo siciliano a nutrire l’immaginario dello scrittore, che già pienamente si esprime in questo romanzo di formazione, toccando corde tematiche di grande intensità emotiva: il viaggio di conoscenza reale e simbolico di cinque adolescenti. La Catania di Addamo non è quella “molle e pastosa” che da l’impressione di “camminare in mezzo al sole” di Vitaliano Brancati, né quella aperta sul mare, “luccicante sotto il sole a picco” di Ercole Patti, ma quella misera, squallida, del quartiere della prostituzione, teatro della guerra e del fascismo. Un quartiere che diviene il simbolo del degrado del nostro tempo.”
Vi invito a leggere questo post, e a discutere di questo libro e della figura Sebastiano Addamo, partendo dai contributi che troverete di seguito: la recensione di Laura Marullo (che mi darà una mano a coordinare e a moderare il post), quella – già citata – di Matteo Collura e la prefazione della curatrice del libro: Sarah Zappulla Muscarà.
Inoltre, come sempre, mi piacerebbe avviare una discussione parallela a quella sul libro. Mi colpisce molto il titolo di questo romanzo di Addamo (Il giudizio della sera). Un titolo che – come meglio evidenziato dai contributi a seguire – ha una forte valenza “nicciana”.
A me il giudizio della sera evoca l’immagine di uno specchio in cui ciascuno di noi – volente o nolente – è costretto a guardarsi… alla fine di un giorno della nostra vita, o di un periodo, o di un’esistenza intera.
Vi chiedo di affondare lo sguardo in quello specchio e vi domando (domanda difficilissima): qual è il giudizio della vostra sera?
(chi avrà il coraggio di rispondere?)
E poi (domanda più generica): il giudizio della sera è più un trampolino di lancio o un ostacolo per il giorno (o il periodo) che verrà?
Attendo i vostri contributi.
Massimo Maugeri

* * *

Sebastiano Addamo, “Il giudizio della sera”, a cura di Sarah Zappulla Muscarà, Milano, Bompiani, 2008, pp. 159.

recensione di Laura Marullo


Una deflagrante ansia di annientamento sottende il vitalistico moto di rivolta di cinque adolescenti lentinesi contro la tanatofila “era dei Padri” di una Catania asservita al fascismo e sconciata dal secondo conflitto mondiale nel romanzo di Sebastiano Addamo “Il giudizio della sera”, apparso da Garzanti nel 1974 ed ora pubblicato per i tipi di Bompiani a cura di Sarah Zappulla Muscarà. Un’opera di rilevante interesse nell’ambito della letteratura siciliana di fine secolo per avere indagato, con impietoso mordente demistificatorio, la crisi dei sistemi di valore di una società e di un’intera epoca, la delusione ideologica del Novecento che apre inaspettatamente alla speranza sia pure attraverso la freudiana esperienza, dolorosa ma necessaria, del “parricidio”. Vi riconduce il nicciano titolo che, per il tramite dell’ambigua immediatezza dell’aforisma, forma prediletta perché assiduamente praticata da Addamo, immette nella dimensione dell’attivismo superomistico che invita a superare l’inquietudine esistenziale provocata dalla guerra ed affermare l’esigenza di un radicale rinnovamento etico.
Romanzo di formazione in cui fa incursione l’autobiografia, “Il giudizio della sera” ripercorre il tortuoso itinerario di conoscenza dei giovani protagonisti, Gino, “alter ego” dello scrittore, Pippo, Carletto, Gianni e Morico, in un’avventura vitale alla scoperta del sesso che si contrappone allo scenario di “morte immanente” di cui è espressione il capillare luridume del quartiere a luci rosse di San Berillo, “regno delle prostitute”, dove aleggia “odor di cesso e di piscio di gatto […], odore di putrefazione e di liquami infetti”, funerea metafora del degrado materiale e morale di un “mondo borghese che ancora non sapeva di contemplare la propria morte”. Come sottolinea la curatrice nel lucido saggio introduttivo, “l’istintualità esuberante, il febbrile desiderio di sperimentazione fortemente collide con la sempre più stagnante, fatiscente, truce atmosfera cittadina soffocata dal giogo del fascismo e della guerra”. Immersa nel torpore e nell’indolenza, la “vecchia siciliana malinconia della morte e del disfacimento”, in quell’oblomovismo che afferma l’esistere astenendosi dall’agire, la Catania di Addamo, materica più che immaginifica, esibisce i sintomi di quella letale “malattia che era la guerra” già impressi sui volti di un’umanità derelitta, di esseri disperati preda di un’ancestrale inedia, in cui la reificazione e la mercificazione sanciscono l’alienazione e l’angoscia del nulla. Ne emerge un’antropologia negativa, ritratta con cruda deformazione espressionistica ma sempre con forte partecipazione emotiva, in cui orde fameliche di prostitute sciamano, lasciando echi lugubri e perverse, lungo le vie del sesso, via delle Finanze, via Coppola, via Di Prima, via di Sangiuliano, imbrattate di quel “vasto putrescente addobbo escrementizio” che è a un tempo simbolo e rifiuto della guerra: “Tutto divenne guerra. […] Sopravvenne l’odore di piscio. Inopinatamente, senza alcun preavviso, dilagò, s’impose, si impossessò della città. […] La guerra dilagò con tale odore”. È una ferale sociologia degli odori quella di cui si serve Addamo per mostrare le ferite suppuranti di una città ammorbata e ribadire il suo atto di accusa nei confronti delle distorsioni del potere e dell’abiezione della guerra. Ma la guerra, osserva acutamente Sarah Zappulla Muscarà, “non è quella di lunghe, inespugnabili trincee, di mirabolanti avanzate, di manovre vittoriose propagandate da mendaci bollettini del regime. […] È quella delle ‘carte da lutto’ affisse alle porte delle vedove ridotte alla prostituzione, dei volti sformati, disperati di creature forsennate”.
Accentuando una disposizione analitica favorita dal fertile humus di Lentini, patria di Gorgia, Sebastiano Addamo, “poeta-pensatore” come non a caso lo definì Leonardo Sciascia cui lo unì una comunione d’intenti letterari ed esistenziali, l’impegno civile, la tensione morale, il pessimismo ontologico, armato degli strumenti della riflessione filosofica, evidenti in un tessuto narrativo intramato da un fitto citazionismo puntualmente decriptato dalla curatrice che ne individua la fonte nell’opera di Kirkegaard, Schopenhauer, Nietzsche, Freud, Heidegger, Husserl, Sartre, fra gli altri, ingaggia una strenua lotta di liberazione da tutte le forme di ipocrisia sulle quali ha allignato la civiltà occidentale e la cultura meridionale. Lo documenta la dissacrazione di archetipi a falsi miti di cui è sconcertante metafora l’insano amplesso del giovane Gino con la degenere, laida figura materna della padrona della squallida pensione e infine lo scenario apocalittico del bombardamento aereo su Catania che traduce l’attesa palingenetica di un mondo migliore da quello consegnato dai Padri.
L’ironia provocatoria, il raziocinare pensoso, il moralismo risentito, innervano un impianto narrativo sdoppiato nei piani paralleli della memoria e della riflessione, destrutturando la tradizionale forma romanzesca mediante l’intervento di “chiose spiegative” che, come un manzoniano “cantuccio dell’autore”, danno voce al grido di protesta di quei “chierici traditi”, quegli intellettuali ai quali, ribadisce lo scrittore, bisogna “guardare per sapere quale è la posizione più utile”.
Sospinto da un sentimento di “laica trascendenza” che miri alla rivelazione dell’“oltre” a partire dall’oscurità in cui vive l’uomo moderno in seguito al crepuscolo degli idoli, come il nicciano viandante con la lanterna in mano, Sebastiano Addamo stana, lumeggiandola con i lampi della sua scrittura, la scotofilia di anonimi piccolo-borghesi, sempre animato dal raggiungimento di un superiore imperativo etico che dà corpo alla cifra stilistica di tutta l’opera sua.
Laura Marullo

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Addamo, la Sicilia come filosofia

di Matteo Collura

da il Corriere della Sera del 14-8-2008

È arduo pensare di riproporre ai lettori di oggi un romanzo uscito senza alcun clamore 35 anni fa. Arduo se non altro perché le novità editoriali sono tante da creare tempeste sui banconi dei librai. Eppure la qualità letteraria di alcuni vecchi libri è tale da giustificare l’ azzardo. È il caso del breve romanzo di Sebastiano Addamo dal bel titolo Il giudizio della sera, pubblicato da Garzanti nel 1974 e ora ristampato da Bompiani (pp. 159, 8,60), con una nota critica di Sarah Zappulla Muscarà, cui certamente si deve la riproposta. Addamo racconta di una comunità siciliana negli anni della Seconda guerra mondiale vista con gli occhi di alcuni adolescenti. Una sorta di romanzo di formazione, dove prevale l’ abilità narrativa, senza eccessivi ricami e tuttavia complessa, piena, fortemente evocativa e in grado di restituire il senso di un momento storico in quel particolare luogo, Catania. Niente a che vedere – sia ben chiaro – con Brancati o con Ercole Patti o con Vittorini (e facciamo questi nomi perché il luogo di cui Addamo racconta è una città della Sicilia orientale e perché nella scoperta del sesso, evento centrale nel romanzo, si potrebbe pensare al Garofano rosso); niente a che vedere altresì con i narratori siciliani oggi più presenti nell’ attenzione dei lettori e della critica. Con questo romanzo, Sebastiano Addamo riesce a dare – ecco giustificata appieno la scelta della casa editrice Bompiani – un ritratto primigenio dell’ isola e nello stesso tempo attuale: di una attualità chiarificatrice per chi vuol darsi la pena di capire la patria di Gorgia e di Pirandello, oltre che gustarla nel suo sconcertante esotismo. In questo romanzo troverete inserti o pause esplicative non dico indispensabili, ma certamente utili a meglio comprendere la contorta filosofia siciliana, mostrandola nelle sue semplici impalcature primitive. Un esempio: «Al mio paese, ma in molti paesi, e specie del Sud e della Sicilia, come c’ era un fascismo d’ accatto, miserabile, fatuo e minchionesco, così c’ era un’ opposizione pure d’ accatto, molto misteriosa, quasi inutile, risentita, e sia pure onesta. Ma come il marxismo fu la coscienza del proletariato e diventò la coscienza per la stessa borghesia – il neocapitalismo cosiddetto che cosa è, se non appropriazione e uso del marxismo ma nel senso contrario? -, così, all’ inverso, un sistema ridicolo e imbelle produce un’ opposizione se non ridicola certo imbelle». O ancora: «Nella prevalenza della natura c’ è esattamente il limite della storia. Forse per questo la Sicilia sta ancora attendendo la “sua” storia». Ecco, forse Corrado Alvaro può andar bene se proprio si vogliono trovare apparentamenti all’ autore del Giudizio della sera, o Sebastiano Aglianò, cui dobbiamo la sempre utile inchiesta rudemente intitolata Che cos’ è questa Sicilia?. Anche se nella descrizione delle plebi catanesi e delle prostitute sospinte nel baratro dell’ abiezione si coglie una luciferina cifra narrativa che potrebbe far pensare a Curzio Malaparte. Ma Addamo – e si vedrà meglio se altri suoi libri verranno riproposti – ha lasciato una sua personale impronta letteraria. Alcuni suoi titoli vanno ricordati: Un uomo fidato, 1978; I mandarini calvi, 1978; I chierici traditi, 1978; Le abitudini e l’ assenza, 1982, Palinsesti borghesi, 1987. Carlo Bo, esattamente trent’ anni fa, annotava: «Addamo è uno scrittore che aspetta ancora il suo momento, un momento che forse non verrà mai, data la natura del giuoco letterario predominante e dato anche il carattere estremamente riservato dello scrittore». Non è da credere in un successo postumo di questo narratore, che fu preside di liceo e fine intellettuale, ma in una sua giusta collocazione nell’ ambito dei valori letterari del secondo Novecento italiano, sì. E va dato atto alla Bompiani di tentarci, così come sta facendo con altri autori per fortuna tra noi, come Giuseppe Bonaviri di cui sono appena usciti i racconti fantastici raccolti sotto il titolo L’ infinito lunare (p. 288, 9,20).
Matteo Collura

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Come i neofiti dell’oscuro
di Sarah Zappulla Muscarà

Il giudizio della sera. Chi ripensa all’opera della sua giornata e della sua vita, quando è arrivato stanco alla fine, giunge di solito ad una malinconica considerazione: tuttavia la colpa di ciò non sta nel giorno e nella vita, bensì nella stanchezza. Immersi nell’attività, non abbiamo di solito il tempo per esprimere giudizi sulla vita e sull’esistenza, e neppure quando siamo nel pieno del godimento: ma se una volta arriviamo a far ciò, non diamo più ragione a colui che ha aspettato il settimo giorno e il riposo per trovare molto bello tutto ciò che esiste, – egli ha perduto il momento migliore”. Così Friedrich Nietzsche con la frantumazione, l’ambiguità, l’immediatezza dell’intuizione dell’aforisma che è, osserva Sebastiano Addamo, “come il lampo nella notte: la illumina vivissimamente, ma subito dopo rende il buio più denso e compatto”.
Dettato da acre riflessione critica sulla condizione della società italiana sconvolta dalla drammaticità degli eventi bellici del secondo conflitto mondiale, dall’esigenza di fornire una risposta all’angoscia nichilista e all’inquietudine esistenziale scaturite dal disfacimento etico, ideologico e religioso dell’Occidente, metafora della negazione della cultura dei padri, dell’alienazione e della reificazione, Il giudizio della sera (apparso per la prima volta nel 1974, per i tipi di Garzanti) è dolente allegoria della variegata fenomenologia umana contemporanea sospesa in perpetuo travaglio tra bene e male, luce e buio, slancio vitale e meditazione sul nulla. Una dialettica di antinomie tesa a superare il pessimismo, il male di vivere, la crisi del potere con i suoi frutti avvelenati, per affermare l’esigenza di un radicale rinnovamento, di un energico ribaltamento di valori, contrapporre con Albert Camus al mito di Sisifo l’uomo in rivolta, addomesticare l’“assurdo”, sancire la fine di un’epoca e il palesarsi di un’altra. Per non perdere “il momento migliore”. Fosse pure quello del “parricidio”.
Sorretto da salda cultura filosofica e letteraria, lucida, cartesiana razionalità, sfiduciata visione del mondo, Sebastiano Addamo, d’impervia e contratta malinconia, ripercorre, con occhi invasi di smagato, irredimibile risentimento, il viaggio di conoscenza reale e simbolico di cinque adolescenti siciliani, braccati dai demoni di una città e di un presente di illusori miraggi, che si traduce in una vera e propria discesa agli inferi.
Al Bildungsroman, romanzo di formazione e generazionale, in Il giudizio della sera si affianca, in termini manifesti, la prospettiva dell’autobiografia. Gino, alter ego dello scrittore, Pippo, Carletto, Gianni, e Morico, abbandonata Lentini per seguire gli studi liceali a Catania, avviano un tortuoso processo di crescita attraverso l’impatto con le due traumatiche esperienze della sessualità e della guerra.
Stagliata sullo sfondo delle tiepide atmosfere serotine di un “ridolente autunno”, immota nel pantano di un’atavica, secolare ignavia, sonnecchiante in “quel tempo friabile”, in quella vita “eterna”, ingannata dalle menzogne del fascismo, oltraggiata dalla crescente miseria, violata dalle bombe, Catania, dapprima “tenera e profonda”, poi “tetra e raggomitolata”, è teatro del rituale di morte e risurrezione di una cultura e di una società, scenario apocalittico di una “laica Pasqua” (Vincenzo Consolo), di un canto del cigno di quel “mondo borghese che ancora non sapeva di contemplare la propria morte”. Quel “mondo borghese” che s’accampa con insistenza opaco nella narrativa successiva dello scrittore, da Un uomo fidato a I mandarini calvi a Palinsesti borghesi.
L’istintualità esuberante, l’ebbrezza dionisiaca, il febbrile desiderio di sperimentazione dei giovani protagonisti fortemente collide con la sempre più stagnante, fatiscente, truce atmosfera cittadina soffocata dal giogo del fascismo e della guerra, segnata dal degrado materiale e morale. Ma è un mesto picarismo la brama di conoscenza filtrata dalla spasmodica ricerca del sesso. Alle scorribande notturne, alle ricognizioni fugaci, ai primi acerbi approcci si alternano malinconiche riflessioni, enigmatici dubbi, dilanianti interrogativi da cui erompe l’aspirazione al cambiamento che si fa rabbia, l’energia distruttrice che si fa ribellione, l’apertura alla speranza che si fa attesa palingenetica. La storia “è solo un’occasione, che si tratta di rendere feconda con una rivolta vigile”, ancora con Camus. È il cruento trapasso generazionale dall’“era dei Padri” all’“età del parricidio”. L’acquisizione della maturità – “imparare il mondo” – di Gino si consuma infatti tra le macerie di una umanità corrotta e corruttrice, sotto un bombardamento che si traduce in atto di accusa di ogni totalitarismo familiare, politico, etico, dando corpo all’angoscia di annientamento sottesa al tragico sentimento della “morte immanente”.
Scaturita dall’incandescente rovello filosofico sul disagio della civiltà conseguente alla crisi dei sistemi di valore, l’analitica esistenziale di Addamo, nel solco del pensiero di autori a lui cari, Kierkegaard, Schopenhauer, Nietzsche, Freud, Heidegger, Husserl, Sartre, fra i principali, ma pure intrisa della linfa della consuetudine mediterranea alla riflessione, si dispiega in termini demistificanti. Una demistificazione di pregiudizievoli, vetusti retaggi culturali finalizzata alla conquista del senso autentico dell’individualità al di là di ogni pastoia. È la “lacerazione del velo di Maya” di cui parla Schopenhauer, la necessità di sollevare la spessa coltre di inibizioni, districare l’intricata tramatura di falsi miti che bloccano, mortificandone lo spirito dionisiaco, le pulsioni vitali e la tensione conoscitiva verso l’essenza più profonda dell’uomo.
Si dipana nei meandri della geografia dell’“oscuro” l’itinerario gnoseologico tracciato dall’autore secondo cui l’uomo è “origine e nulla” e la contemporaneità “il luogo per ogni anacronismo”. In un’epoca lacerata dal nicciano grido “Dio è morto”, compito dello scrittore non è “tranquillizzare”, bensì “inquietare”, scuotere dal torpore di metafisiche certezze, ma soprattutto, “contaminandosi con la laidezza quotidiana, fraternamente coinvolta nella rissa giornaliera degli uomini”, rivelare “l’oscurità che è nell’uomo, nei suoi gesti, nel suo tessuto emozionale” e restituire infine “la vigile inquietudine per una realtà altra”. In precario equilibrio sull’incerto discrimine fra narrazione realista e saggio filosofico, percorso da un sentimento di “laica trascendenza”, Il giudizio della sera è animato da quella spinta verso l’“oltre” che è a un tempo deiezione del principio heideggeriano dell’“essere” e dolorosa coscienza del nulla, dell’“essere-per-la-morte”.
Acuita da vigile percezione sensoriale, l’attività euristica dei giovani adolescenti approda alla sinistra consapevolezza del potere “nientificante” della morte. È soprattutto l’odorato ad incidere più profondamente nella sfera psichica penetrando fino alle radici della vita. “Il naso, che è veicolo o tramite” presiede infatti alla scoperta dell’orrore per la condizione stessa dell’esistere. Agente di un processo di trasferimento di senso che rinvia a precisi significati metaforici, l’odore acquista un’importanza primaria nel modello di scepsi delineato da Addamo, che scoperchia il maleodorante quartiere di San Berillo, dove aleggia “odor di cesso e di piscio di gatto”, “odore di putrefazione e di liquami infetti”. L’odore tristo, fetido, turpe, individua “l’evento”, eccita gli impulsi sessuali, palesa la guerra. Ne guizzano funebri lampi di “cedimento, corruzione, abominio, disordine e talvolta anche rivolta” (Oltre le figure). Il puzzo, che già con Dante “’l profondo abisso gitta”, è sublimazione di “terrori senza speranza”. Evoca “l’oscuro, l’infero”. Certifica il decesso. È l’“olor de la muerte” di Ernest Hemingway. Ha valenza teologica, testimoniando il “giudizio di Dio”, secondo Fedor Dostoevskij.
Un nauseabondo, funereo lezzo di decomposizione soffia nel quartiere di San Berillo, “regno delle prostitute”, “vecchie, giovani, scarmigliate e feroci”, “melma oscena, tenebrosa e virulenta di un torrente che però […] nasceva certo dall’Es singhiozzante e spasmodico, ma certo pure dal mondo stesso dove la merce governa più che esservi governata”. Labirinto che si accende nell’oscurità diramandosi in vicoli bui, sordidi, disfatti, via delle Finanze, via Coppola, via Maddem, via Di Prima, via Rapisarda, via di Sangiuliano, pullulanti di protettori, ruffiani, deboli, perdenti, deturpati da immedicabili ferite, ammorbati dalla miseria, dal fetore, dal disordine. “Prima forma di baratto” la prostituzione, secondo l’annotazione di Carl Marx, posta in epigrafe al romanzo. E Walter Benjamin: “L’ambiente oggettivo degli uomini assume sempre più scopertamente la fisionomia della merce”. Fedele all’istanza lukacsiana dell’arte come “rispecchiamento”, Addamo denuncia, con l’incedere serpeggiante della corruzione, la mercificazione, l’alienazione, le distorsioni della logica capitalistica che, come avverte Alain Robbe-Grillet, conducono alla progressiva reificazione ed eclisse della persona di fronte al predominio acquisito, per contro, dalle cose. E così se le “puttane” divengono “oggetti, merce, e mezzi di merce”, gli aranceti, immagine della conquista della verghiana “roba” da parte dei contadini proletari, ma pure “ruolo”, “status”, “filosofia e visione della vita”, perdono l’attributo di prodotti trasfigurandosi in “esseri vivi e volitivi”, in venerati “feticci”, l’odore del loro succo in odore di “sangue, odore di fatiche e di miseria”.
All’universo derelitto, emarginato delle prostitute l’autore guarda con scettico disincanto e implicazione empatica, sempre tuttavia con tormentato sentimento della tragicità della vita e della morte. Quello stesso sotteso alla descrizione, permeata di plastica sensibilità pittorica, della Visita di Henri de Toulouse-Lautrec nel racconto Lo zio Isidoro, confluito nella silloge Palinsesti borghesi: “Le solite puttane che il mostriciattolo sapeva raccogliere. Le puttane stavano con la veste rialzata in attesa della visita periodica: i volti guardai, ma soprattutto le pance delle due donne, dove niente dava adito alla pietà […] e nemmeno all’orrore, ma c’era la giovinezza e la vecchiaia, la ferocia di quel volto di ragazza che non guardava verso nessuna parte sicura soltanto di sé, la sua pancia tesa e tonda come un cocomero che a passarci l’unghia si spacca; e la fine di tutto segnata sull’altro volto, la fine di tutto segnata da quella pancia che sbandava da tutti i lati, la stanchezza d’una memoria che non ha più orizzonti”. Una bruciante pietas, una teologia negativa, in cui l’autore si carica del dramma dell’uomo orfano di Dio, promana dalla pagina di Addamo: “una pietà anche eccessiva vale sempre più della crudeltà assoluta”. Scrive Fedor Dostoevskij: “Uomo, uomo, non si può vivere del tutto senza pietà”. E Georges Rouault, a proposito della potente bellezza che trasuda dalla feroce crudezza del polittico dell’Altare di Isenheim: “Per rifare il terribile crocifisso di Matthias Grünewald, che con le sue mani contratte, i piedi torti, rattrappiti, fa piegare la croce, per rinnovare il dramma in una parola, bisognerebbe avere ancora in cuore una fede simile alla sua”.
Persuaso con Leonardo Sciascia che la letteratura è “luogo di svelamento della realtà anche morale”, in linea con il principio dell’“ethos della scrittura”, cifra di tutta l’opera sua, Sebastiano Addamo, dinnanzi alla decadenza della carne e all’abbrutimento morale, si fa veemente difensore del valore supremo della dignità: “Soltanto avanti negli anni avrei imparato che anche una puttana fa parte della razza umana, ed è questa a secernere se stessa e il proprio contrario, secerne bile e amore e sventura; il terrore e i sogni; la spada e l’ostensorio; il male e il bene; secerne anche dignità, e perciò essa – la dignità – si può trovare dappertutto, innocente sempre e sempre colpevole in ogni luogo”. Con tassativa asciuttezza, ne La metafora dietro a noi: “È il vuoto. L’assenza dell’assenza” la condizione del suo esistere. Anche Pierre-Joseph Proudhon addita nella prostituzione “il sacrificio della dignità umana all’egoismo, alla cupidigia, all’orgoglio, al piacere, a tutte le seduzioni inferiori”. Oggetto di divagazioni oniriche, di “voglie oscure e trepidanti”, di malsana sessualità, le prostitute assurgono ad emblema del “tragico dilemma esistenziale” del catanese: il sesso “dispotico e aspro”, freudiano principio del piacere in cui sembra consistere l’essenza della vita, perseguito con accanimento, voracità, avidità e al contempo velato di malinconie repentine, ansie funeste, “sensi di colpa”, “ancestrale memoria di madri e alvei”, come pure di deterrenti icone di santi. Con la secca perentorietà di quello stile aforistico prediletto da Addamo, Nietzsche annota: “Il cristianesimo, col suo disprezzo del mondo, ha fatto dell’ignoranza una virtù, l’innocenza cristiana, forse perché il più frequente risultato di questa innocenza è […] il senso della colpa”. “Il sesso e l’utilizzo dei suoi strumenti non sono che il compenso del vuoto dell’inedia, della solitudine”, chiosa lo scrittore. Desiderio di morte dietro cui si cela il perenne bisogno di un appagamento che la realtà non può offrire. Irrisione di falsi pudori, stanco filisteismo, l’insano, dissacratore amplesso del giovane Gino con la laida figura materna della padrona infrange archetipi e tabù nel furore iconoclasta che investe istituti familiari e religiosi.
L’atmosfera del romanzo alterna all’iniziale vago senso d’allegrezza, esplicitato attraverso la descrizione dei luoghi “asettici” di via Etnea, con le scintillanti cupole dei Minoriti, della Collegiata, del Duomo, da cui promana il “rumore pulsante della vita”, viale XX Settembre, avvolto da un “silenzio pulito ed elegante”, da una “calma lunga e sicura che si diradava all’intorno come zagara”, il presagio minaccioso, lugubre, ferale della “fine”. Sono, ancora una volta, empiristiche sensazioni, primordiali rielaborazioni dell’esperienza sensibile, di cui l’autore si serve per liberare la ragione da ogni passiva acquiescenza alla tradizione e ad ogni autorità, a veicolare i segni della diffusione, sempre più invasiva, nella vita quotidiana di quella letale “malattia che era la guerra”. Catania come Orano de La Peste di Camus è infettata da un morbo funesto di cui è sintomatico l’afrore del capillare luridume che assedia la città: “Tutto divenne guerra. […] Sopravvenne l’odore di piscio. Inopinatamente, senza alcun preavviso, dilagò, s’impose, si impossessò della città. […] La guerra dilagò con tale odore”. Con Aristotele: “Nihil in intellectu quod prius non fuit in sensu”. E in rapida escalation “dopo l’urina venne la merda”. Ma “l’analità” costituisce a un tempo simbolo e rifiuto della guerra: “lasciti immondi e impuri […] densi quasi di una ideologia […], incaricati – nella loro degradante inerzia di degradazione – d’una speranza che a nessuno era chiara”.
La guerra non è quella di lunghe, inespugnabili trincee, di mirabolanti avanzate, di manovre vittoriose propagandate dai mendaci bollettini del regime. È quella dei marciapiedi imbrattati di un “vasto putrescente addobbo escrementizio”, delle “carte da lutto” affisse alle porte delle vedove ridotte alla prostituzione, dei volti sformati, disperati di creature forsennate. È monito contro l’asservimento al potere, contro la falsificazione della realtà. Per Leone Tolstoj: “la storia sarebbe una gran bella cosa, se solo fosse vera”. Ha radici lontane nel tempo la guerra, è la lotta verghiana per la sopravvivenza, ricerca affannosa di cibo, pugnace desiderio di primitività. Il vero nemico da sconfiggere “la vecchia sorella fame”.
L’amaro disincanto dell’autore nei confronti della storia, “luogo dell’inesistente”, è ferma condanna dell’immobilismo, del trasformismo della politica siciliana. Il ritardo e la diversità s’intitola significativamente la lettera che Sebastiano Addamo indirizza a Pier Paolo Pasolini, dalle pagine della rivista “Nuovi Argomenti” (poi ne I chierici traditi), sottolineando tuttavia in tale binomio una rivendicazione di alterità, il segno peculiare del vivere in Sicilia. La “Sicilia afosa, calda, luminosa, ma dove la troppa luce – abbacina, stordisce, macera […] – diventa spesso densa e oscura nube di scirocco”, generando “una specie di alterazione ottica” secondo cui “le polemiche arrivano già quasi scontate, i clamori attutiti, quasi spenti, chiusi in una soffice nebbia, rarefatti, remoti e quasi incredibili”, dove perciò “il ritardo non sempre implica negatività, ma quasi sempre implica ‘diversità’”. L’isola, dove “l’unica cosa che veramente si muove è la terra quando distrugge il Belice o sono gli emigranti”, ribadisce con forza lo scrittore nel romanzo, “sta ancora attendendo la ‘sua’ storia”.
Con lento ma affilato bisturi, Addamo scava solitudini, piaghe, attossicamenti, intramando all’asprezza del giudizio morale i toni di una smorzata ironia. Alla scrittura il compito di ‘sublimare’ il bottino di sofferenze lasciato dalla guerra. Ma la scrittura, avverte, “può valere non tanto ad accreditare fede nella parola, bensì a tener conto della sua disperata impotenza” (Vittorini e la narrativa siciliana contemporanea). Di fronte alla sofferenza e alla morte la parola si assottiglia, si radicalizza, diviene lamento. O urlo d’inesprimibile dolore. Come quello di Edvard Munch. E infine silenzio: “Il silenzio comincia a essere l’unico modo di parlare, lo spazio del soggetto si restringe, la parola come espressione di reagire e modo di solidarietà, si spezza. Le ragioni dell’individuo collimano con l’afasia” (Oltre le figure).
Moderno aruspice dello scacco storico del nostro tempo, con prosa scettica, a tratti barocca, d’indignata razionalità nelle zone parenetiche, l’autore de Il giudizio della sera, innestandosi in una illustre tradizione siciliana di realismo, se ne discosta in virtù di un’aggressiva dilatazione espressionista che forza il dato reale caricandolo di significati che sfiorano il simbolo. Una galleria di squallidi ritratti di una società in putrefazione accoglie maschere raccapriccianti, dalle sconciature fisiognomiche, dai profili slabbrati, dalle devastazioni crudeli. E sono seni che divengono “otri spenti”, o “molli globi dove le vene azzurre si frastagliavano, quasi la carne si fosse assottigliata sotto quei vermi lunghi che la ingoiavano”, corpi trasfigurati in sacchi pieni di “ossa ammassate e lacerate” o in “carne malata”.
Di forte valenza evocativa la scala cromatica della tavolozza di Addamo. Come la pittura di Renato Guttuso in cui taluni giardini del pittore di Bagheria, intrisi di “serena mestizia”, “celano e svelano nel loro tripudio la vecchia siciliana malinconia della morte e del disfacimento”. L’armonia coloristica di stampo mediterraneo, con le “accese policromie del carretto”, con il “rosso e il giallo dell’arancia, il verde lucente delle sue foglie, oltre al turchino del cielo e del mare”, si spegne nella fredda monocromia dei toni del grigio che appannano la vista come il grigio del fumo derivante dalla deflagrazione delle bombe. Un fumo grigio era, non a caso, l’originario titolo del romanzo.
È la Sicilia a nutrire l’immaginario di Sebastiano Addamo. La sua Catania non è tuttavia quella “città sdraiata a terra, peggio: coricata a terra!”, la cui aria “molle e pastosa” dà l’impressione di “camminare in mezzo al miele”, di Vitaliano Brancati, né quella aperta sul mare, “luccicante sotto il sole a picco”, su cui volano “gabbiani roteanti”, “calma e accogliente” di Ercole Patti. Ma non appare, d’altra parte, la luce della Sicilia ai suoi scrittori soltanto in apparenza dispiegata solarità, costantemente insidiata com’è dalla tenebra? Essa stessa lutto? La luce e il lutto intitola Gesualdo Bufalino una raccolta di articoli che ci restituiscono le due facce contrastanti, ossimoriche dell’isola. Come i “neofiti dell’oscuro” fra bagliori di luce nelle tenebre della notte (Il giro della vite).

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(post pubblicato originariamente il 22 settembre 2009)

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Scritto mercoledì, 15 luglio 2020 alle 18:40 nella categoria OMAGGI, RICORRENZE, ANNIVERSARI E CELEBRAZIONI, SEGNALAZIONI E RECENSIONI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.

190 commenti a “OMAGGIO A SEBASTIANO ADDAMO”

Cari amici, vi scrivo da fuori sede per proporvi questo nuovo post dedicato a uno scrittore che stimo moltissimo: Sebastiano Addamo, scrittore catanese classe 1925 e scomparso nel 2000.

Postato martedì, 22 settembre 2009 alle 22:05 da Massimo Maugeri


Qualche mese fa la Bompiani ha deciso di ripubblicare un romanzo di Addamo (curato da Sarah Zappulla Muscarà, che ne ha firmato la prefazione). Si tratta de “Il giudizio della sera”, originariamente pubblicato da Garzanti nel 1974.

Postato martedì, 22 settembre 2009 alle 22:07 da Massimo Maugeri


Ho iniziato il post citando la recensione firmata da Matteo Collura, pubblicata qualche mese fa sul Corriere.
“È arduo”, scrive Collura, “pensare di riproporre ai lettori di oggi un romanzo uscito senza alcun clamore 35 anni fa. Arduo se non altro perché le novità editoriali sono tante da creare tempeste sui banconi dei librai. Eppure la qualità letteraria di alcuni vecchi libri è tale da giustificare l’azzardo”.
Credo che queste parole rendano merito alla Bompiani (e all’impegno di Sarah Zappulla Muscarà) per aver creduto sulla possibilità di rivalutare quest’opera di Addamo dal titolo così evocativo…

Postato martedì, 22 settembre 2009 alle 22:11 da Massimo Maugeri


E ci tengo a mettere ulteriormente in evidenza le parole finali della citata recensione di Collura: “Non è da credere in un successo postumo di questo narratore, che fu preside di liceo e fine intellettuale, ma in una sua giusta collocazione nell’ambito dei valori letterari del secondo Novecento italiano, sì.”
Come ho già sostenuto sul post, non so se è da credere in un successo postumo di Addamo… ma, per quanto mi riguarda, il fatto che questo libro sia stato ripubblicato… in un certo senso è già un successo.

Postato martedì, 22 settembre 2009 alle 22:20 da Massimo Maugeri


L’intento di questo post, dunque, è quello di favorire una discussione su questo libro e sulla figura di Addamo… mettendone in risalto le caratteristiche.
Un po’ come abbiamo fatto per Bonaviri in quest’altro post:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/22/giuseppe-bonaviri/

Postato martedì, 22 settembre 2009 alle 22:21 da Massimo Maugeri


Ripropongo la scheda del libro:
“Narratore, poeta, saggista, Sebastiano Addamo ha percorso un cammino coerente, sostenuto sempre da rigore stilistico e morale. È l’universo siciliano a nutrire l’immaginario dello scrittore, che già pienamente si esprime in questo romanzo di formazione, toccando corde tematiche di grande intensità emotiva: il viaggio di conoscenza reale e simbolico di cinque adolescenti. La Catania di Addamo non è quella “molle e pastosa” che da l’impressione di “camminare in mezzo al sole” di Vitaliano Brancati, né quella aperta sul mare, “luccicante sotto il sole a picco” di Ercole Patti, ma quella misera, squallida, del quartiere della prostituzione, teatro della guerra e del fascismo. Un quartiere che diviene il simbolo del degrado del nostro tempo.”

Postato martedì, 22 settembre 2009 alle 22:24 da Massimo Maugeri


Attendo gli interventi di Laura Marullo (alla quale chiedo di autopresentarsi), che mi darà una mano ad animare e moderare la discussione…

Postato martedì, 22 settembre 2009 alle 22:26 da Massimo Maugeri


Cercherò di invitare alcuni amici scrittori e addetti ai lavori che hanno conosciuto Addamo, ma tutti i conoscitori delle opere dell’autore protagonisti di questo post sono caldamente invitati a dare il loro contributo…

Postato martedì, 22 settembre 2009 alle 22:28 da Massimo Maugeri


Come sempre, mi piacerebbe avviare una discussione parallela a quella sul libro. Mi colpisce molto il titolo di questo romanzo di Addamo (Il giudizio della sera). Un titolo che – come meglio evidenziato dai contributi a seguire – ha una forte valenza “nicciana”.
A me il giudizio della sera evoca l’immagine di uno specchio in cui ciascuno di noi – volente o nolente – è costretto a guardarsi… alla fine di un giorno della nostra vita, o di un periodo, o di un’esistenza intera.

Postato martedì, 22 settembre 2009 alle 22:29 da Massimo Maugeri


Vi chiedo di affondare lo sguardo in quello specchio e vi domando (domanda difficilissima): qual è il giudizio della vostra sera?
-
(chi avrà il coraggio di rispondere?)

Postato martedì, 22 settembre 2009 alle 22:30 da Massimo Maugeri


E poi (domanda più generica): il giudizio della sera è più un trampolino di lancio o un ostacolo per il giorno (o il periodo) che verrà?

Postato martedì, 22 settembre 2009 alle 22:31 da Massimo Maugeri


A proposito di ascendenza “nicciana”… metto in evidenza l’incipit della prefazione di Sarah Zappulla Muscarà:
““Il giudizio della sera. Chi ripensa all’opera della sua giornata e della sua vita, quando è arrivato stanco alla fine, giunge di solito ad una malinconica considerazione: tuttavia la colpa di ciò non sta nel giorno e nella vita, bensì nella stanchezza. Immersi nell’attività, non abbiamo di solito il tempo per esprimere giudizi sulla vita e sull’esistenza, e neppure quando siamo nel pieno del godimento: ma se una volta arriviamo a far ciò, non diamo più ragione a colui che ha aspettato il settimo giorno e il riposo per trovare molto bello tutto ciò che esiste, – egli ha perduto il momento migliore”. Così Friedrich Nietzsche…”

Postato martedì, 22 settembre 2009 alle 22:35 da Massimo Maugeri


Domenica 27 settembre si celebrerà la terza edizione del Premio letterario dedicato alla memoria dello scrittore protagonista di questo post.
Segue il comunicato stampa:
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III EDIZIONE DEL PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE «SEBASTIANO ADDAMO»
COMUNICATO n°3
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Mario Andreose e Salvatore Scalia sono i vincitori della III edizione del Premio Letterario Internazionale «Sebastiano Addamo». Lo hanno reso noto, nel corso della conferenza-stampa al Centro Direzionale Nuovaluce di Tremestieri Etneo, l’assessore provinciale alla Cultura e vicepresidente Nello Catalano e Sarah Zappulla Muscarà (Università di Catania), presidente della giuria composta da Mercedes Arriaga Flores (Università di Siviglia), Alessandro Cannavò (Corriere della Sera), Franco Nicastro (pres. Ordine Regionale dei Giornalisti di Sicilia), Gianni Oliva (Università di Chieti) e Giuseppe Savoca (Università di Catania).
Fra i presenti, anche Rita Carbonaro (direttore Biblioteche Civica e Ursino-Recupero-Catania), Grazia Addamo Cavallaro (pres. Associazione Sebastiano Addamo), Enzo Zappulla (Istituto di Storia dello Spettacolo Siciliano) e Cettina Muratore (pres. Circolo Athena).
Mario Andreose è direttore letterario di RCS libri, Gruppo editoriale operante a livello internazionale e comprendente numerosi e autorevoli marchi italiani (fra gli altri Bompiani, Rizzoli, Fabbri, Sonzogno, Sansoni, La Nuova Italia, Marsilio, Bur). Unica nel panorama editoriale nazionale, la funzione-guida di Mario Andreose sovrintende e coordina il lavoro di svariati direttori letterari. Storico editor di Umberto Eco, raffinato traduttore e apprezzato critico del «Sole 24 ore», ha da sempre avuto un rapporto privilegiato con la Sicilia, promovendo l’opera di Bufalino, Sciascia, Brancati, Patti.
Salvatore Scalia è responsabile da oltre un ventennio delle pagine culturali del quotidiano «La Sicilia», Salvatore Scalia è anche saggista, drammaturgo e romanziere. Fra le sue pubblicazioni: “Il vulcano e la sua anima” (Prova d’autore, 1990), “Il processo a Bixio” (Maimone, 1991), “Appunti” (Sciascia, 2004) “Trilogia del malessere” (la Cantinella, 2002) e “La punizione” (Marsilio, 2006), romanzo che segna l’esordio narrativo. Ricco l’albo dei riconoscimenti conferitigli: fra gli altri il “Martoglio” e il “Vittorini”. Ha appena visto la luce, per i tipi di Marsilio, il romanzo “Fuori gioco” (2009).
Domenica 28 settembre, alle 18.00, presso il Centro Fieristico “Le Ciminiere” di Catania (viale Africa), avrà luogo la cerimonia di premiazione della III Edizione del Premio Letterario Internazionale «Sebastiano Addamo».
La manifestazione è promossa dall’Associazione Sebastiano Addamo con il patrocinio della Provincia Regionale di Catania. Gli intermezzi musicali saranno a cura di Riccardo Insolia. Condurrà Carmelita Celi.
Lunedì 28 settembre 2009, alle 10.30, Mario Andreose incontrerà gli studenti della Facoltà di Lettere e Filosofia di Catania nel Refettorio piccolo delle Biblioteche Riunute Civica e Ursino Recupero (Via Biblioteca 13).

ANDREA TRICOMI
Ufficio Stampa Istituto di Storia dello Spettacolo Siciliano

Postato martedì, 22 settembre 2009 alle 22:39 da Massimo Maugeri


Faccio tanti complimenti per il Premio ai due vincitori, e in particolare a Turi Scalia che è stato gradito ospite di Letteratitudine – con il suo “Fuori gioco” (Marsilio) – in questo post:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/11/fuori-gioco-di-salvatore-scalia/

Postato martedì, 22 settembre 2009 alle 22:43 da Massimo Maugeri


Per il momento mi fermo qui. La discussione si svilupperà nel corso dei prossimi giorni.
Attendo i vostri interventi.
Intanto, ne approfitto per augurarvi una serena notte…

Postato martedì, 22 settembre 2009 alle 22:45 da Massimo Maugeri


“…Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di morte, desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera e di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che voglia scrutare gli enigmi del nirvana…”
Così il principe di Salina al funzionario sabaudo Chevalley che tenta di convincerlo ad accettare la nomina a senatore del Regno d’Italia, in una delle pagine più ferite de “Il Gattopardo”.
Ecco.
Credo che Addamo raccolga questa voce, questa lucidità trasognata solo in apparenza. La luce di cenere che sobbalza e cigola da vecchie carrozze, gli ori ori saraceni pomposi e dimenticati, le rarefazioni di profumi che rimandano al grattare sporco della putrefazione.
Stessa soglia. Lì il passaggio al nuovo stato (il regno d’Italia unito: quasi un evento indifferente per chi – da gattopardo, da leone, da fiera – ha regalmente dominato le groppe dei vulcanni e i mari dei pirati ) , qui il tuonare di bombe che preannunciano guerra su aria che è già di morte, su defunti già sepolti, su lapidi già incise.
Il giudizio, in Sicilia, è sempre della sera.
Il siciliano non attende che l’ultimo giorno, che l’ultima ora. E’ un penitente in bilico tra salvezza e perdizione, un abituato praticante dell’estrema unzione, un viaggiatore che conosce già i suoi pellegrinaggi.
Un amante che ha consumato tutte le notti.
Lo dice ancora il principe di Salina:” Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi”…
Un’altra guerra, un altro misterioso passaggio, un altro albero cavo che fuori germoglia, e che dentro ha tarli secchi, nodosi, caldi come le febbri di quartana delle nostre estati.
Niente di nuovo sotto il sole, niente che non si sia già ripetuto come un destino scritto da un dio ripetente, da schiere di fauni ostinati, da sontuose maschere sostenute da scheletri.
La parola tuona su questa morte. Sia in Salina che in Addamo, anche quando non può che cantare un rantolo funebre, la parola è il fumo disperato – il più irredimibile, forse – che svapora dai bracieri.
La sua forza morale sta in questo, la sua potenza superstite, il suo vano e coraggiosissimo ululato alla luna non è che levarsi – comunque – sui resti. Anche se per farlo ha atteso l’ultimo giorno.
Lussuoso lutto, essere siciliani.

Postato mercoledì, 23 settembre 2009 alle 08:49 da simona lo iacono


Bellissimi testi, Massi: Collura, Muscarà e la carissima Laura. Altissima analisi morale e letteraria. Una testimonianza preziosissima, grazie.

Postato mercoledì, 23 settembre 2009 alle 08:56 da simona lo iacono


Un bacio a Turi Scalia!!! Auguri!!!

Postato mercoledì, 23 settembre 2009 alle 08:57 da simona lo iacono


Non conoscevo Sebastiamo Addamo. Ringrazio Massimo per questo nuovo post e per l’equilibrio con cui ci propone il vecchio e il nuovo. Seempre interessante. Acquisterò Il giudizio della sera.

Postato mercoledì, 23 settembre 2009 alle 09:38 da Amelia Corsi


Le domande sono particolarmente ‘ostiche’ :)
qual è il giudizio della vostra sera?
.
In genere la sera mi scende addosso una malinconia sorda. Non sempre, ma spesso. Non so perché, ma la sensazione è quella del tempo passato e non utilizzato al meglio. Quello che,appunto, si sarebbe potuto fare e non si è fatto. Il giudizio della sera fa male.

Postato mercoledì, 23 settembre 2009 alle 09:42 da Amelia Corsi


il giudizio della sera è più un trampolino di lancio o un ostacolo per il giorno (o il periodo che verrà) che verrà?
.
Neanche qui è facile rispondere. A volte guardarsi dentro, giudicarsi, valutare il proprio operato fa male. Blocca. Forse è più facile non guardarsi in quello specchio, Massimo. Fare finta di nulla. Ma che vita sarebbe una vita con gli occhi chiusi?
Buona giornata a tutti.

Postato mercoledì, 23 settembre 2009 alle 09:45 da Amelia Corsi


non ho mai letto addamo. ringrazio per la segnalazione, ne approfitterò di certo.
ho letto le recensioni e la prefazione e mi complimento con gli autori.
l’approccio nicciano è affascinante: la sera come momento del giudizio.
il mio, di giudizio, è momentaneamente sospeso. e forse dovrei preoccuparmi. grazie anche per l’occasione di riflessione.

Postato mercoledì, 23 settembre 2009 alle 10:02 da amedeo


Meritoria l’intenzione di contribuire a rendere nota la figura di Sebastiano Addamo, autore che ho letto con interesse già in tempi “non sospetti”.

Postato mercoledì, 23 settembre 2009 alle 12:19 da Giacomo Zappalà


Anzi, visto che si parla del ‘Giudizio della sera’ potrebbe essere interessante consentire la lettura di qualche passaggio.
http://addamosebastiano.interfree.it/giudizio_della_sera.htm

Postato mercoledì, 23 settembre 2009 alle 12:20 da Giacomo Zappalà


Siccome ho difficoltà ad aprire il link [ma forse dipende dalla mia connessione precaria, dato che io sono uno di quelli che va ancora a 56k] faccio il copia e incolla del testo.
——————————————————————————–
Il giudizio della sera – Garzanti – Milano 1974

(…) Per le vacanze tornammo in paese. Mio padre venne a prendermi alla stazione, il pomeriggio era umido, grigio, una leggera nebbia di gelo avvolgeva gli edifici. La stazione era affollata, c’erano molti militari che ripartivano e altri tornavano in licenza.

Vidi i magazzini sorti in quegli anni per il commercio delle arance, era accaduto come per i villaggi del West, prima un piccolo deposito poi un altro, poi un magazzino e un altro più grande, e adesso c’erano decine di magazzini, la banca, il bar, perfino il barbiere. Mancava tuttavia l’animazione degli altri anni, i camion e i carri che al tempo di Natale passavano continuamente, pieni di ceste di mandarini e arance da caricare sui treni.

“Non hanno cominciato?” chiesi a mio padre.

Era venuto col calessino che s’era fatto l’anno prima coi soldi delle arance, poiché a Lentini uno che cominciava a essere proprietario doveva avere il calessino. Stava caricando le valigie e non mi rispose; il tonfo di una valigia lanciata con forza e caduta male fece gemere tutte le molle. “Porco mondo,” disse. Capii che era irritato: per tutto il tempo della strada, dalla stazione al paese, non parlò.

Pure in casa non trovai allegria.

Ma che c’é?” chiesi. Temevo fosse arrivata qualche brutta notizia da scuola.

“Hai fame?” mi chiese mia madre. Fiutavo gli odori amici della mia casa: c’era odore di miele e di arance, un odore insieme morbido, acre e familiare di cui erano intrisi i mobili, le pareti, le vesti di mia madre.

“Non ho fame,” risposi.

Mio padre era già andato via. Mi parve strano che non si fosse fermato, e mia madre, “é in piazza a trattare il giardino”, chiarì sotto il mio sguardo perplesso.

Lentini é un paese che vive di arance: per zappare, per potare, per raccogliere, per trasportare, per imballare, per vendere, si può dire che tutta la gente lavora coi giardini.

Perciò si parla sempre di arance, specie se l’annata va male ché in questo caso denaro non ne circola e i debiti si accumulano a dismisura. Nelle strade, in piazza, al cinema, perfino in chiesa, qualunque cosa la gente stia facendo, c’é sempre il momento in cui parla di arance. E da quando a mio padre venne in testa di farsi il giardino, anche in casa mia – da allora – si parla di arance, di annate, di vendita.

Ricordo serate d’inverno, veniva qualcuno a trovarci e si parlava di concime e acqua, della dose giusta dell’uno e dell’altro, di terra, della misura delle conche; lunghe serate che mia madre cuciva in silenzio, io e mio fratello giocavamo senza rumore, e mio padre cascava dal sonno e parlava di arance.

L’albero dell’arancio è delicato, bello, importante.

Senza di esso la Sicilia probabilmente non avrebbe posseduto le accese policromie del carretto – le rebus qui marche, come con gaia ironia lo definì Maupassant -, ché il rosso e il giallo dell’arancia, il verde lucente delle sue foglie, oltre al turchino del cielo e del mare, ne sono i colori fondamentali; né avremmo avuto certi colori della pittura di Guttuso, la serena mestizia di certi suoi “giardini” che celano e svelano nel loro tripudio la vecchia siciliana malinconia della morte e del disfacimento; neppure alcune forme, ancorché embrionali e non prive di caparbia ed estrosa empiricità, di un’economia moderna, tendente se non altro a superare l’individualismo che non é proprio del lavoro dei campi.

L’arancio no. L’arancio per sua natura, esclude il lavoro individuale e richiede un lavoro a squadre, a gruppi, a gomito a gomito come qui infatti si dice, dunque l’indizio di un proletariato agricolo, d’una coscienza collettiva e quasi di classe. E poiché la gran parte dei proprietari proviene dalle file medesime del contadino, questa situazione, unita a quella coscienza quasi di classe, spiega non solo l’asprezza e la vastità delle lotte salariali, ma ci fa intendere la torva alterigia e l’altrettanto torva acrimonia che le contraddistinguono.

Pertanto – e questo é il costituzionale limite di ogni proletariato agricolo – la posizione di tali contadini-proletari verso il padrone rimane duplice e contraddittoria: poiché essi, a causa della condizione – e della coscienza – di subalterni e sfruttati, si pongono é vero contro i padroni; ma l’istanza classista non è mai rivolta al generale e alla totalità, per cui i veri sentimenti animatori del contadino e delle sue lotte sono il risentimento, l’invidia, la ritorsione, tanto è vero che il fine al quale esso aspira non è tanto – non è per nulla starei per dire se si vanno a cogliere le piccole percezioni del subconscio – di sopprimere l’estraneazione mediante la soppressione della causa di questa; e invece l’estraneazione del lavoro cerca di sopprimerla mediante un’altra estraneazione, cioé con la proprietà.

Il contadino-proletario “vuole” diventare proprietario e l’anima sua mediante come dice Proudhon -e come la teoria e la pratica rivoluzionaria dimentica troppo spesso – “é nell’idea allodiale”.

Perciò il giardino, dalle mie parti, ‘u iardinu, é principalmente un ruolo, uno status, e molto meno la fonte di reddito. E essenzialmente potenza, supremazia e gerarchia, una sovranità assoluta sia pure assai circoscritta e spazialmente limitata; se il possesso di esso – del giardino – comporta immediatamente il salto di qualità, il passaggio cioè alla classe dei proprietari; il che, a propria volta, impone tutti gli obblighi inerenti [noblesse oblige] primo fra tutti di non andare a lavorare sotto altri.

Ciò peraltro aiuta a capire perché dalle mie parti se un’annata va male o per gelo grandine mancanza di pioggia estiva che distruggono la produzione o ne fanno calare di molto il peso; oppure per le alchimie del mercato o per capriccio dell’arancia-merce-feticcio, spiega – dicevo – perché al mio paese e negli altri limitrofi, i proprietari – costoro di cui parlo, che possiedono un terreno con duecento-trecento alberi – stanno tutto il giorno a cacciar mosche per le vie, lamentandosi della vita e del destino, e senza un soldo in tasca, non dico per la tazza del caffè – ché il caffè, in un modo o nell’altro riescono a sgraffiarlo – ma per sfamare e vestire la famiglia.

Epperò, se il proprietario [questo contadino-proprietario] non lavora più sotto gli altri, lavora sotto di sé, voglio dire sotto il suo orgoglio di proprietario che prima acquista il terreno [ma più spesso se lo ritrova, o, come per mio padre, gli viene portato dalla moglie: un nudo terreno pietroso tramandato da generazioni], poi libera il terreno dalle pietre, poi acquista l’acqua, poi scava le conche per piantare gli alberi e li pianta, e aspetta dai sette ai dieci anni per cominciare a ricavare i primi veri soldi; nel frattempo, anno per anno, deve concimare, zappare, potare, abbeverare, nutrire d’ogni ben di dio quei feticci dalle spesse foglie verdi.

Di regola, muore prima di riuscire a goderseli i soldi del giardino, stroncato dalle inumane fatiche a cui per anni si é sottoposto.

E nulla sarebbe, se almeno i figli se li potessero godere quei soldi, e invece no; invece no, perché nei figli già ammalati della malattia del padre, si genera una nuova e perversa sollecitudine: quella dell’ingrandimento, onde i guadagni del giardino vengono impiegati ad acquistare la nuova terra e istituire la nuova piantagione, e con in meno questo, rispetto ai padri: che i figli essendo proprietari per discendenza, a essi non compete più di lavorare – poiché soltanto certi filosofi e i poeti senili possono celebrare il lavoro dei campi: nessuno c e come il contadino, sopratutto l’ex contadino, che tanto odia il lavoro e i campi – , ed é agli altri, ai senza terra, che compete l’umiliante incombenza, mentre a essi

- ai figli – solo di pagare e di guardare” [sorvegliare], per cui le cambiali a unirle una all’altra, potrebbero arrivare da Lentini a Roma e anche oltre.

Tuttavia, e talora, il giuoco riesce: voglio dire che c’é gente e ce n’é stata al mio paese e continuerà a esserci, cui le cose vanno bene. E quando il giardino va bene, quando il frutto é venduto al momento giusto, quando nulla sia intervenuto di calamitosi eventi naturali, allora con il ricavato ci si toglie i debiti in un colpo solo e si mettono da parte i soldi per la casa nuova; se le cose continuano ad andar bene, ecco che un mattino, zitto zitto, questo proprietario si fa abbattere la casa vecchia sciorinando al sole le unte mattonelle in creta del pavimento, le pareti calcinate e screpolate, le canne del soffitto nere per fumo e antico luridume, sbattendo in faccia a tutti la precedente miseria poiché, tanto, avrà la casa nuova, coi balconi, la terrazza, i marmi. La casa – coi balconi – é il secondo idolo succedaneo al primo e conseguenza diretta di esso, ed entrambi – giardino e casa – costituiscono la prova provata e tangibile d’un abbrivo svettante che non ha soste.

Quella del giardino é dunque filosofia e visione della vita, e una figlia con giardino é diversa da una figlia senza giardino, quest’ultima certamente condannata a una sterile vita e orbata di prole e coniugali piaceri.

Finita la casa, ripulito il davanti dai resti di calce e terriccio, spudoratamente fatto intravedere ai vicini l’ampiezza dei vani e lo scintillio dei nuovi lampadari, la famiglia resta in pace col mondo per un anno o due. Se le continuano ad andar bene, allora già al quinto anno si può acquistare un altro giardino, e successivamente, col ricavato di entrambi, un terzo ancora.

Le cose, per alcuni, sono andate così. E anno dopo anno, il giardino potrebbe crescere a dismisura, una partenogenesi fagocitante e senza fine, se anche qui qualcosa non intervenisse a equilibrare le dovizie e a sopire le lunghe e sorde invidie: un figlio degenere, speculazioni rovinose, matrimoni di figlie con mariti anch’essi degeneri, insomma un maltusianesimo da giardino, a spezzare questa lunga catena – che però per i pochissimi continua.)

Per mio padre il giardino era tutto questo: era rivalsa e sogno, ingresso nel mondo e consistenza di ceto e censo.

“Senza il giardino uno é niente,” usava dire.
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da Il giudizio della sera – Garzanti – Milano 1974
http://addamosebastiano.interfree.it/giudizio_della_sera.htm
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Postato mercoledì, 23 settembre 2009 alle 12:24 da Giacomo Zappalà


Mi piace come Addamo descrive gli odori, le arance. E soprattutto mi piace come racconta l’ossessione al possesso, all’avere, alla conquista di uno status.
Possedere un calesse, un giardino, una casa. Lottare contro il tempo che passa e la fatica che aumenta. In un contesto del genere il giudizio non può che essere rimandato alla sera, ma forse è troppo tardi.

Postato mercoledì, 23 settembre 2009 alle 12:37 da Giacomo Zappalà


Ecco una citazione di Addamo che mi piace molto:
“È difficile essere uomini, difficile nello stesso tempo essere la terra e il sale della terra, la vita e il senso della vita”.
(da ‘Un uomo fidato’, Garzanti)
Un saluto a tutti.

Postato mercoledì, 23 settembre 2009 alle 15:17 da marilena


Bellissimo il brano inserito da Giacomo Zappalà. Grazie.
Mi è piaciuto molto nella descrizione degli odori di casa e anche quando spiega l’importanza delle arance per la Sicilia.
Senza di esso (l’albero dell’arancio) la Sicilia non avrebbe posseduto certe policromie, non avrebbe i colori dei dipinti di Guttuso.
Bellissimo capire che è vero. Noi siamo parte del nostro territorio e ciò che abbiamo intorno influisce sui nostri pensieri e sul modo di esprimerci.

Postato mercoledì, 23 settembre 2009 alle 16:14 da morena fanti


Anch’io, come Morena, sono rimasto colpito dal brano inserito da Giacomo Zappalà. Non sono un grandissimo lettore dei romanzi dei siciliani, Sciascia a parte. Ma qui ho colto qualcosa che mi ha colpito.
Sono felice di aver scoperto, oggi, a nove anni dalla sua morte, Sebastiano Addamo. Mi procurerò questo libro. Grazie.

Postato mercoledì, 23 settembre 2009 alle 16:22 da Attilio F.


e, venendo alle domande che Massimo ci ha posto:
Vi chiedo di affondare lo sguardo in quello specchio e vi domando (domanda difficilissima): qual è il giudizio della vostra sera?
rispondo:
Ho sempre il desiderio di potermi guardare allo specchio e trovare una persona che mi piace ‘guardare’. Questa cosa mi ha aiutata nei momenti difficili. Ho sempre pensato che dentro lo specchio non voglio trovare una persona ‘ombra’, ma una persona ‘vera’, pur con difetti e mancanze.
Finché la saprò vedere ne sarò contenta.

Postato mercoledì, 23 settembre 2009 alle 16:23 da morena fanti


Sul concetto di giudizio della sera.
In generale è difficile sottoporsi al giudizio in qualunque forma esso si manifesti. Richiede molta maturità e molta umanità. Forse, quando giunge la sera, siamo tutti un po’ più umani. E più maturi.

Postato mercoledì, 23 settembre 2009 alle 16:25 da Attilio F.


seguo il commento di Attilio. I siciliani hanno una grande anima artistica. L’isola porta anche a questo: a sviluppare certe pulsioni verso un’arte molto ricca e piena.
[ha parlato la mia anima di donna del sud]

Postato mercoledì, 23 settembre 2009 alle 16:26 da morena fanti


Mi rifaccio all’incipit e alla conclusione della recensione di Collura e penso che in fondo Sebastiano Addamo, di cui approfondirò la conoscenza, è fortunato, perché le sue opere, certamente con merito, continuano ad essere riproposte da grossi editori, c’è un’associazione, un premio letterario ed è approdato qui, in uno dei più importanti, o forse il più importante, dei blog letterari nazionali.
Penso invece a tutti i talenti ed a tutte le voci che irrimediabilmente rimarranno inascoltate e dimenticate. Per loro il giudizio della sera sarà inclemente: del resto, non c’è giudizio più terribile di un’assenza di giudizio.
Che ne dite?

Postato mercoledì, 23 settembre 2009 alle 16:39 da Vale


Vale, credo che questo valga per la vita in genere e non soltanto per i libri e la letteratura.
Un saluto a Morena ed a tutti i partecipanti di questo bello spazio.

Postato mercoledì, 23 settembre 2009 alle 16:52 da Attilio F.


Non posso che concordare. Meglio un giudizio negativo, che lascia aperta la possibilità di riscatto, piuttosto che l’assenza totale di un riscontro.
Questo pensiero è assimilabile al concetto di guardarsi allo specchio: preferisco avere un’opinione negativa di me stessa ma il coraggio di guardarmi e di esprimerla, piuttosto che non guardarmi.

Postato mercoledì, 23 settembre 2009 alle 16:56 da morena fanti


@Massimo caro, gli interventi sono tutti degni di nota e di riflessione, la scrittura di Sebastiano Addamo sarà un altro vuoto da colmare.
Saluta per me lo scrittore Matteo Collura, che ho avuto il piacere di conoscere qualche anno addietro a Compiano.
Ci chiedi quale è il nostro “Giudizio della sera”?
Poiché il mio non sarà troppo remoto… ho fatto un breve esame interiore:-
Abituata alle quotidiane umiliazioni e a restringere all’essenziale gli umani bisogni, cerco di edificare ogni giorno qualcosa di positivo, mettendo in discussione le piccole abitudini che mi legano, mi irritano e mi rendono schiava dell’oggetto al quale sono particolarmente attaccata….Mi piace immaginare che ogni rinuncia sia un piccolo segno di crescita spirituale.
Mi sforzo, senza troppo riuscirci, di restare culturalmente indenne
dalle lusinghe esose dell’invidia, della gelosia, dalla dipendenza inquinante del denaro e del potere.
Reputo necessario riappropriarsi della individuale capacità di discernimento sugli eventi della nostra inquieta e violenta società.
Cerco di attivare uno spirito di amore fraterno che mi induca alla pace
e alla speranza alimentata dalla paziente Misericordia Divina.
Con intima sincerità.
Tessy

Postato mercoledì, 23 settembre 2009 alle 17:46 da M.Teresa Santalucia Scibona


Tessy, le tue parole sono un esempio… la tua sera sarà un’aurora di luce, ne sono certa. Ma abbiamo ancora bisogno di te per mooolto tempo ancora!
:-)
A Turi Scalia: complimenti!

Postato mercoledì, 23 settembre 2009 alle 18:31 da Maria Lucia Riccioli


Un uomo schivo, che mi ricevette una mattina nel suo studio e prima di rispondere alle domande che avevo in serbo per lui, mi chiese perché fossi interessata ai suoi scritti. Lo domandò con un mezzo sorriso, con l’aria sorniona di chi si aspetta una risposta preconfezionata ed è pronto a smontarla col garbo feroce di chi non vuole essere preso in giro.
Risposi che stavo imparando, che un giorno mi sarebbe piaciuto scrivere un romanzo, che ascoltare l’esperienza di un uomo che i romanzi li aveva già scritti e pubblicati era quanto di più importante in quel momento mi potesse capitare.
Cambiò subito atteggiamento, si fece quasi paterno, volle sapere da dove venivo, dove avevo studiato, che università avevo frequentato. Scoprimmo che il mio professore di Italiano e Latino, al Gargallo di Siracusa, era stato suo alunno: “Un ragazzo molto intelligente ma molto chiuso” disse “di una sensibilità esasperata. Era omosessuale. Non è mai riuscito a vivere con serenità la sua condizione, è stato sempre succube della madre”. Volle sapere che tipo d’insegnante era diventato. “Molto triste, a volte beffardo, spietato con chi non studiava, soprattutto con i maschi, che però sapevano bene come vendicarsi”. Volle sapere perché – con una laurea fresca fresca in Giurisprudenza – avessi deciso di dedicarmi alla scrittura. “Scrivo da anni. E’ un modo per dare un senso a quello che mi capita”. “E poi?”.
Era curioso. Si erano ribaltate le posizioni: ero venuta per intervistarlo e invece mi trovavo a dover imbastire delle risposte: ingenue, ma le uniche che ero in grado, sinceramente, di dargli. Sembrò apprezzarlo molto. E questo lo bendispose. Cominciò a raccontarsi. Disse che quand’era ragazzo non possedeva molti soldi, così andava in biblioteca, prendeva i libri in prestito, li leggeva e prima di restituirli annotava su un quaderno tutti i particolari: dalla trama agli snodi principali ai dialoghi più incisivi. Un modo per conservare quel libro – e riapprezzarlo – anche quando non fosse stato più nelle sue mani. “E’ stato così che, senza saperlo, ho cominciato a scrivere recensioni”. Mentre parlava mimava con le dita il gesto di chi scrive minutamente su un taccuino. E poi conserva. Poi riguarda, rilegge. E quel libro gli diventa familiare, familiare la struttura, il susseguirsi dei capitoli, la costruzione dei dialoghi. Un lungo e inconsapevole apprendistato alla scrittura, quella che poi avrebbe spontaneamente trovato luogo nelle pagine dei suoi romanzi.
Parlava guardandomi negli occhi. Occhi, i suoi, che ricordo chiari, molto intensi e pronti a volgere alla derisione. Ecco, mi sembrava che da un momento all’altro quel signore dall’aria mite si cambiasse in un folletto caustico, che la benevolenza mutasse in ferocia, che l’amabilità si facesse esplicita beffa. Nulla, invece. L’amabilità restò amabilità e la benevolenza diventò confidenza quando, fissando un angolo del foglio che aveva davanti, ammise che con la letteratura non ci si arricchisce, e che – dovendo scegliere tra l’acquisto di un libro e quello di un paio di scarpe per i figli – avrebbe sempre optato per il paio di scarpe.

Postato mercoledì, 23 settembre 2009 alle 18:32 da Tea Ranno


Mia sorella vive a Militello, altro paese d’arance. Mio nonno aveva anche lui il classico giardino. Il suo sangue, il suo sudore, le sue lacrime, dopo anni di mezzadria.
La Sicilia e le sue arance. In “Conversazione in Sicilia”, quei contadini che arrivano a maledirle, perché nessuno le compra, nessuno le vuole.

Leggerò Addamo.

Postato mercoledì, 23 settembre 2009 alle 18:57 da Maria Lucia Riccioli


Tea, che ricordo meraviglioso… grazie davvero di averlo condiviso con noi.
Cara, un abbraccio forte.

Postato mercoledì, 23 settembre 2009 alle 19:08 da Maria Lucia Riccioli


Cari amici, vi scrivo da una posizione impossibile dall’interno della cuccetta di un treno (schiacciato tra il tetto e una specie di lettiga). Mentre il treno caracolla sui binari, con la connessione che va e viene, sono riuscito a leggere i vostri bellissimi commenti. Per il momento vi ringrazio di cuore e vi saluto con affetto.
Sono certo che anche questo post ci donerà una discussione da incorniciare.
A domani, amici.
Auguro a tutti voi una buona notte.

Postato mercoledì, 23 settembre 2009 alle 21:35 da Massimo Maugeri


Il filosofo Manlio Sgalambro è nato a Lentini nel 1924. Ritrovo Lentini, in un sincronismo che avventatamente spesso viene definito “casualità”, nella pagina tratta da “Il giudizio della sera” di Sebastiano Addamo. Il brano seguente di Sgalambro sulla Sicilia è molto noto:
*
“Là dove domina l’elemento insulare è impossibile salvarsi. Ogni isola attende impaziente di inabissarsi. Una teoria dell’isola è segnata da questa certezza. Un’isola può sempre sparire. Entità talattica, essa si sorregge sui flutti, sull’instabile. Per ogni isola vale la metafora della nave: vi incombe il naufragio. Il sentimento insulare è un oscuro impulso verso l’estinzione. L’angoscia dello stare in un’isola come modo di vivere rivela l’impossibilità di sfuggirvi come sentimento primordiale. La volontà di sparire è l’essenza esoterica della Sicilia. Poiché ogni isolano non avrebbe voluto nascere, egli vive come chi non vorrebbe vivere: la storia gli passa accanto con i suoi odiosi rumori ma dietro il tumulto dell’apparenza si cela una quiete profonda. Vanità delle vanità è ogni storia. La presenza della catastrofe nell’anima siciliana si esprime nei suoi ideali vegetali, nel suo taedium storico, fattispecie del nirvana. La Sicilia esiste solo come fenomeno estetico. Solo nel momento felice dell’arte quest’isola è vera”.
*
Prima che giunga il giudizio della sera, spero che ognuno di noi non lasci trascorrere distrattamente il molteplice e infinito “momento migliore”. E in uno di questi attimi ci sia forse anche il libro “Il giudizio della sera”.
Già, la Sicilia.

Postato mercoledì, 23 settembre 2009 alle 22:36 da Subhaga Gaetano Failla


Caro Massimo, ti leggo solo adesso. Buona notte e buon viaggio!

Postato mercoledì, 23 settembre 2009 alle 22:39 da Subhaga Gaetano Failla


Non conosco lo scrittore-amico di cui si parla,ma sono certa che meriti tutto lo spazio del ricordo e della stima,nonchè dell’attenzione per la sensibilità di artista.
Per la domanda di Massimo-carissimo buon viaggio stipato nella tua cuccetta del treno-,mi vengono in mente forse delle banalità…La sera è per me il momento del silenzio,il calore di chi ho accanto nel letto e vorrei avere per sempre,la pace della mia casa e della mia famiglia,la salute dei miei cari,il dono di un altro giorno vissuto con la pienezza della gioia di essere qui,la testa che si arrende all’invasione di mille pensieri,mille progetti perchè domani ci sia un altro domani per me e per chi amo.E’ il momento del ringraziamento alla vita.La sera è il preludio alle ombre dei sogni,all’abbraccio di tutto ciò che potrebbe essere,l’abbandono dei muscoli alla tenerezza del riposo,e il sonno,magico, ristoratore di ogni fatica,di ogni ozio macchinoso,degli incontri e degli scontri.E’ la pausa, necessaria prima di un nuovo movimento della sinfonia della vita.Per me un momento di magia.
buonanotte ai cari amici di letteratitudine

Postato mercoledì, 23 settembre 2009 alle 23:30 da francesca giulia


Ciao a tutti, è bello ritrovare qui in questa piovosa mattina solitaria persone amiche più che per lunga frequentazione per il coup de foudre di una pagina di letteratura, per la gentilezza di cuore di un verso… (ma cos’è poi la letteratura? meno o più del mondo reale? più o meno vera?…). Ciao, carissima Simona, bella, intelligente e generosa come poche; ciao, Massimo, che sai prendere sul serio la letteratura senza gli estetismi vacui alla Sgalambro; ciao, Morena, tu che sperimenti ogni giorno la funzione salvifica della scrittura; ciao Maria Lucia, cara e docile amica del profumo del pane appena sfornato; ciao a tutti gli altri e le altre, scrittori e lettori che hanno qui lasciato altre volte un pensiero sensibile e generoso anche sulla mia celeste Iduzza. Ho bisogno di leggere (e rileggere) Addamo prima di entrare nel fitto delle problematiche qui proproste perchè… i suoi giardini li sento fortemente miei… la sua isola irredimibile ma dolorosamente vera fortemente mia… la sua paradossale ironia spinta fino al sarcasmo fortemente mia… Il giudizio della sera è un titolo di quelli che valgono bene un romanzo: la sera è la dimensione umbratile della letteratura, lo spazio della perdita, della resa dei conti, fa più paura della notte popolata dei mostri dell’inconscio perchè i mostri della sera sono reali, non ombre, sono lì che tu lo voglia o no. Come i nostri Scilla e Cariddi, le nostre Meduse anguicrinite. Ho bisogno di mettere distanza tra me e Addamo e non sono pronta… A dopo! Un caro abbraccio, Marinella Fiume

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 07:57 da Marinella Fiume


molto affascinante, questo post. ho letto le recensioni, la prefazione del libro e il brano estratto. ma soprattutto rimango affascinato da questo titolo, “il giudizio della sera”, rispetto al quale sono state poste domande profonde e introspettive, che inducono alla riflessione.

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 10:01 da lucio


Buon giorno a tutti, felice di partecipare a questo dibattito.
Mi sono svegliato con due quesiti maturati nella notte:
La notte è menzognera come quella di Bufalino, o giudiziosa (sera) come quella di Addamo?

E’ più “catanese” Brancati, o Sebastiano Addamo?

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 10:05 da domenico trischitta


per me la sera è sempre occasione di riflessione e di travaglio, il mio giudizio è serio, soprattutto con me stesso, ma non troppo severo, altrimenti quel giudizio diventa sì ostacolo per vivere il nuovo giorno che nasce.
grazie per l’occasione di riflessione.

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 10:06 da lucio


Ottima proposta. Sarebbe bene far uscire dal buio in cui la nostra società, le nostre megalibrerie e i quotidiani nazionali stanno seppellendo – o l’hanno già fatto – libri di autori notevoli, vivi o scomparsi, ma non si sa perché dimenticati. Questo succede anche quando questi autori ancora pubblicano testi di notevole spessore. È come se non esistessero. Anche in questo caso conta più l’anagrafe del valore reale di un autore. Come se si trattasse di concorsi di bellezza… Leggerò e cercherò di esprimere il mio modestissimo parere. Grazie per la segnalazione.

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 10:52 da Desi


Cari amici, buona giornata a tutti.
Il giudizio della sera di ieri, quantomeno dal punto di vista climatico, non è stato molto favorevole.
Vi scrivo dall’interno dello scompartimento del vagone di un treno bloccato alla stazione di Messina.
Il maltempo di stanotte ha causato considerevoli frane in zona Letojanni-Taormina. Messina e Catania sono isolate. Le linee ferroviarie e i collegamenti stradali, bloccati.
Ma io ho qui il computerino con la mia brava chiavetta per la connessione Internet…

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 11:03 da Massimo Maugeri


Strepitoso Massimo, riuscirebbe a connettersi anche durante un lancio con il paracadute.

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 11:07 da Salvo zappulla


Intanto ne approfitto per ringraziarvi per i commenti che avete rilasciato.
Grazie a Simona, Amelia, Amedeo, Giacomo, Marilena, Morena, Attilio, Vale, Tessy, Maria Lucia, Tea, Gaetano, Francesca Giulia, Marinella, Domenico (Mimmo), Lucio, Desi…

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 11:11 da Massimo Maugeri


E Salvo…
(persino dal centro della Terra, ci riuscirei):-))

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 11:12 da Massimo Maugeri


@ Simona
Carissima Simo, mi avevi accennato a una possibile connessione – in riferimento a questo post e al libro di Addamo – con Salvatore Satta e Elsa Morante.
Ce ne vorresti parlare?

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 11:22 da Massimo Maugeri


Dolcissima Tessy, grazie per tuo splendido commento. Siamo compagni di un lunghissimo viaggio. Che le sere – così come di certo sarà – ti siano sempre favorevoli.

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 11:25 da Massimo Maugeri


Tea, cara… che bello il tuo commento/testimonianza. Ti ringrazio di cuore.
Peraltro credo che quell’intervista a cui facevi riferimento sia rintraccibile in Rete. La proporrò tra breve.
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Ne approfitto per ricordare il più recente romanzo pubblicato da Tea Ranno: “In una lingua che non so più dire” (E/O).
Ne abbiamo parlato qui:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/11/19/in-una-lingua-che-non-so-piu-dire-di-tea-ranno-recensione-di-simona-lo-iacono/

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 11:30 da Massimo Maugeri


incontro con lo scrittore: a cura di Maria Paola Fisauli – Tea Ranno
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D. L’inclinazione a scrivere, i primi confronti, le esperienze.

R. Non so se si tratti di inclinazione, o di che altro. In genere, le risposte a consimili domande, sono molteplici, solenni ed enfatiche; qualcuna perfino nobile. Per conto mio, alla domanda: perché scrivere, potrei rispondere perché mi piaceva, oppure: perché non avevo di meglio da fare. In realtà cercavo di conoscere me stesso in rapporto con la società e nell’impatto con l’altro.
La questione più importante mi sembra un’altra. Non perché, o come, si inizi a scrivere, bensì perché si continui.

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D. Perché è rimasto a Lentini?

R. Dapprima per motivi di lavoro. Ci sono rimasto così a lungo forse per abitudine, o perché non trovavo una ragione sufficiente per andarmene, forse anche perché ritenevo che un paese consenta maggiore concentrazione. Certo è che vi ho scritto diversi libri a cominciare dall’Uomo fidato.
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D. C’è stata una breve parentesi di sua residenza milanese, mi pare negli anni ottanta, perché ha interrotto quell’esperienza?

R. Probabilmente per motivi opposti. Avevo ottenuto dall’editore il consenso di lavorare in Casa editrice e perciò restare a Milano. Mi resi conto di correre il rischio di disperdermi, anche se la permanenza mi avrebbe consentito maggiori contatti e, forse. qualche scommessa diversa. Il fatto è che il siciliano ha alle proprie spalle un insieme di atti mancati, di gesti incompiuti. Non escludo nemmeno una forma di masochismo. Comunque, i motivi sono diversi, rientrano nella psicologia e nella confusione.

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D. Mi vuol parlare dei suoi rapporti con altri scrittori siciliani?
R. In genere, sono buoni, anche se non corporativi. I siciliani hanno come caratteristica di non formare una “scuola”; ci sono molti epigoni, ma pochi maestri. Il siciliano, ebbe a scrivere Pirandello, è “isola, e da sé si fa isola”.

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D. Adesso parliamo delle sue opere d’esordio che sono di saggistica e narrativa: “Vittorini e la narrativa siciliana”’ e “Violetta’.

R. In verità avevo già scritto una quarantina di racconti brevi pubblicati su quotidiani e riviste. Per quanto riguarda la scrittura saggistica, essa venne fuori perché ogni libro che, da ragazzo, andavo leggendo (dovendolo fra l’altro restituire) lo annotavo in un quadernetto, affinché di esso mi rimanesse una qualche traccia. Naturalmente, annotavo le mie impressioni. Spesso gli esordi sono casuali e alquanto frastornanti. Avevo scritto un romanzetto che aveva interessato Vittorini per i “gettoni”. Era disposto a pubblicarne una parte, io però non mi trovai d’accordo in quanto ero ancora legato al “mito” del libro. La risultante fu che non venne pubblicato. Il libro di saggi rinacque da una relazione sulla narrativa siciliana, tenuta a Palermo. Poi ci lavorai anche per suggerimento di Leonardo Sciascia, e divenne libro.

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D. Una lunga parentesi, apparentemente di silenzio, tra l’esordio e “Il giudizio della sera” pubblicato da Garzanti nel 1974. Crisi o ricerca?

R. In verità fu una parentesi di duro e bruto lavoro; ma necessario. Lavoro per vivere, intendo. Durante quegli anni mi riuscì di scrivere alcuni racconti lunghi, poi apparsi su “Nuovi Argomenti” nei primi degli anni settanta. Tre di tali racconti, ampiamente rivisti, vennero pubblicati con Scheiwiller nel 1987, e costituiscono il libro: Palinsesti borghesi.

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D. “Il giudizio della sera “e “I mandarini calvi”, una definizione per questi due libri.

R “Il Giudizio della sera”, pubblicato da Carzanti nel 1974, è un libro di formazione, una “educazione sentimentale” vissuta all’insegna del doppio e contemporaneo impatto con il sesso e la guerra. E c’è l’impatto con Catania degli ultimi anni di guerra, le sue strade sporche, il ginepraio dei vicoli, la gente forsennata. La difficoltà che ho dovuto superare è sta ta quella di dover trattare Catania dopo Brancati che potesse avere anche il brancatiano senso di malinconia e di morte, senza però ricondurla a moduli brancatiani. Dopotutto è un libro di speranze, e il “parricidio” con cui il libro si conclude è la metafora della negazione della cultura dei padri, in vista di una nuova cultura (e di una nuova società).

“I mandarini calvi”, pubblicato da Scheiwiller nel 1978, è stato scritto anteriormente al precedente, e affronta un tema a me molto caro, quello del piccolo borghese, nella forma del professore, un tema già affrontato nei racconti brevi (non ancora raccolti in volume) e nei racconti lunghi che sono i tre racconti pubblicati da Scheiwiller. Considero il piccolo borghese il ceto sociale più tragico e il depositario della dimensione estetica e morale fino a rasentare il moralismo e il conformismo più ambiguamente ipocrita; cioè il meglio, direi, il peggio della realtà sociale, come ho scritto in un saggio compreso nel volume Oltre le figure, pubblicato da Sellerio nel 1989. Il libro è la storia di un anno di scuola vissuto attraverso un professore che passa dalle prospettive e dalle passioni culturali, alla delusione esistenziale fino, e sia pure ironicamente, al rientro nella norma; il che significa passaggio dalla disponibilità alla cupa necessità dell’esistenza.

“I chierici traditi”, pubblicato dalla Pellicanolibri nel 1978, vuole nel titolo ironico alludere a una sorta di perdita di ruolo della cultura. Raccoglie saggi e interventi letterari che nella prima parte arieggiano categorie lukassiane, mentre la seconda parte dedicata a poeti, probabilmente prospetta il mio passaggio ad una scrittura linguisticamente più libera. In qualche modo il libro vive nell’atmosfera del romanzo.

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D. “Un uomo fidato” è il romanzo che torna all’indagine del costume politico?

R. Un uomo fidato, pubblicato con Garzanti nel 1978, è libro di ironia e della non speranza, nell’impatto del protagonista con i problemi di una società moralmente e politicamente degradata. Sotto un altro punto di vista, si può trattare di una variante della condizione del piccolo borghese, ma dentro una realtà che non ha altre prospettive se non il potere, l’arroganza, il denaro. E’ perciò un romanzo di disperazione.

Rispetto ai racconti di Palinsesti borghesi (che sono anteriori anche se pubblicati posteriormente) c’è la diversa considerazione del piccolo borghese, il quale nei racconti è visto in relazione a problemi di natura metafisica (come la morte: anzi nella nota dico che i tre racconti sono “tre modi di morte), mentre nel romanzo è visto al livello dei problemi quotidiani.

Aggiungo che i due libri danno una diversa prospettiva di Catania, ciittà nella quale si svolgono le azioni. La Catania dei racconti vuole essere ambiziosamente l’ultimo sguardo sull’ultima Catania “borghese”. Nel romanzo la città ha già perduto i suoi caratteri specifici, è un luogo ormai grigio e ferroso. C’è riflessione, non più rivolta.

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D. “La metafora dietro a noi” sembra inauguri altra stagione nella sua attività di scrittore.. C’è già il manifestarsi d’un altro fondamentale aspetto della sua scrittura, quello della poesia. E’ così?

R. Ne La metafora dietro a noi, pubblicato dalle edizioni di “Spirali” (Milano, 1980), c’è un esperimento di poesia in prosa, condotto sul filo di un linguaggio estremamente metaforico che si realizza come la risultante di un contrasto tra l’adesione alla poesia e l’ironia sulla poesia. E’ vero che nel 1979, in un “Collettivo” di Guanda, avevo pubblicato una breve raccolta intitolata Significati e parabole, ma è La metafora dietro a noi che segna una vera e propria rottura linguistica rispetto alla mia scrittura precedente. E costituisce, per molti aspetti, il sintomo di quella che più avanti può essere denominata “disperazione storica”, che infatti diventerà consapevole nella raccolta garzantiana del 1983: Il giro della vite.

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 11:34 da Tea Ranno intervista Sebastiano Addamo (parte I)


D. Con ‘Le abitudini e l’assenza’ lei si rivolge al privato dei sentimenti, al proustiano indagare della memoria?

R. Le abitudini e l’assenza, pubblicato da Sellerio nel 1982, è il racconto come una delle varianti del rapporto con la madre. Secondo me, pur potendo rientrare nella tematica proustiana della memoria, nella sostanza se ne distacca. Anzitutto, non c’è adesione sentimentale da parte del narratore verso il mondo dell’infanzia, e si tratta di una “memoria critica”, che implica partecipazione e distacco.

E’un libro nato come nascono molti libri, un po’ermafrodito perché ha della prosa e della poesia, caratterizzato come esso è da tagli brevi, da ritmi e da allusioni, da una scrittura a chiazze come un acquarello. E’ il tentativo di unificare prosa e poesia, che riesce una sola volta e perciò può apparire anomalo rispetto alle altre cose mie. In verità, nacque come un insieme di brani, poi divenne racconto, pubblicato su “Nuovi Argomenti” col titolo: Diario con mia madre, subito dopo sviluppato, divenne libro. In questo libro ho adoperato il registro della poesia, come essenzializzazione di mezzi e ampliamento di senso. Perciò il paese appare poco, avendo tra l’altro voluto evitare un recupero folclorico attraverso di esso. Il mio sforzo è stato di interiorizzare una vicenda ed un luogo.

-

D. “Il giro della vite” sorprende i suoi lettori, che scoprono nella sintesi delle sue poesie un mondo rimasto fuori dai suoi interventi di narratore. Vorrei che mi parlasse di questa sua nuova ricerca espressiva e fino ai più recenti esiti di “Le linee della mano”.

R. Qualcosa, in proposito, ho scritto per la rivista milanese Poesia. Capisco la sorpresa; in realtà, sono sorpreso anch’io, poiché, tra l’altro, è alquanto inusitato il passaggio (ma non definitivo) dalla narrativa alla
poesia.

E’ che ad un tratto ebbi a rendermi conto come la logica che presiede alla comunicatività della narrazione, non reggesse più nei confronti del mondo che stava andando in pezzi, mentre surrettizie mi apparivano le categorie sulle quali esso si era sorretto. Come i discorsi filosofici si frantumano nell’Aforisma che agisce come il lampo nella notte: la illumina vivissimamente, ma subito dopo rende il buio più denso e compatto; così è la poesia rispetto alla scrittura in prosa. Tanto, la letteratura (e per fortuna, sia del mondo che della stessa letteratura) non deve trasformare nulla, semmai prestarci uno sguardo, la lucida consapevolezza di un destino da vivere.

In ogni caso, ogni variazione di linguaggio è il risultato di una mutazione di visione.

La mia visione del mondo ebbe a spezzarsi nell’impatto traumatico con Milano, dove ebbi a risiedere variamente e anche lungamente.

Quello di cui mi resi conto è che la grande comunità, questo luogo di civiltà e di cultura, non era che deserto e solitudine, estraneazione ed estrema monadizzazione, assenza e oggettiva crudeltà; le grandi periferie affollate e anonime, oppure svuotate e dure, prive di pietà e perfino di dolore, mentre l’indifferenza si spiaccicava sui volti come smog.

La resultante fu Il giro della vite, che reca le date 1978-81, pubblicato da Garzanti nel 1983. La raccolta garzantiana non parla di Milano, che viene citata una sola volta in un titolo, bensì ricapitola il “senso” di una situazione e lo stato di una deiezione, che continua a sembrarmi inesorabile.

Milano, cioè la condizione metropolitana, rimane, rispetto alla raccolta, come suo alone necessario e interiore fondale. Ma ormai, dopo Leopardi, è difficile (secondo me è impossibile) scrivere di poesia spinti da una qualche passione, anche la passione per la parola; dopo Leopardi, consapevolmente, la poesia va scritta con freddezza e con un po’ d’ironia; quasi senza emozione. Kantianamente, la poesia mi sembra rientrare più tra giudizi di esperienza, che non tra i giudizi empirici. Il poeta che confessa le sue angosce personali, private, qualche volta mi provoca reazioni negativamente viscerali. La Laurá petrarchesca è più una proiezione fantastica, che una realtà. Petrarca è un mentitore, cioè è poeta.

Per tornare alla mia poesia, e più o meno anche alle ragioni di essa, mi sembra che la scrittura in versi possa rendere più conto della situazione che viviamo, poiché il suo non è il linguaggio reificabile della comunicazione, ma della espressività.

Nel Giro della vite mi sono proposto una poesia “oggettiva” voglio dire più attinente alla realtà dell’uomo che non a ragioni strettamente private. Perciò, è un libro che può apparire duro, spigoloso, quasi dogmatico.

Sotto questo aspetto, Le linee della mano, la raccolta pubblicata da Garzanti nel 1990, risulta più disponibile verso le ragioni del soggetto, più cordiale e aperto, e, se si volesse, si potrebbe dire che il rapporto tra le due raccolte è di poetica e di poesia (più o meno quello che la critica stabilisce nel passaggio montaliano da Ossi di seppia a Occasioni).

Mi rendo conto che la poesia è linguaggio, ma non sono del tutto d’accordo con Sartre e K.Kraus, secondo i quali il poeta deve farsi “servo del linguaggio”.

E’ vero che ci si lascia trasportare dalle suggestioni delle immagini, ed è vero che il linguaggio della poesia è linguaggio di simboli, metafore e allegorie, ma è altrettanto vero che non ci può essere una scomparsa di sé nella poesia, in questo senso mi pare di poter riconoscere, attraverso Leopardi, la lezione dell’Estetica di Giovanni Gentile.

-

D. Addamo saggista, collaboratore di giornali, non quello esclusivamente letterario ma quello delle riflessioni politiche e di costume.

R. I chierici traditi e Oltre le figure, sono anche momenti di una ricognizione che vado effettuando su libri e su umori, anche cattivi umori. Non sono stato mai favorevole a quell’indicazione che fa dello scrittore un “direttore di coscienze”. E’ una nozione di intellettuale che io non ho mai condiviso. Tuttavia, ho sempre continuato ad avvertire la necessità che anche lo scrittore debba prendere partito, esprimere le proprie opinioni, non perché siano più certe delle altre, ma in ogni caso, lo scrittore le dice meglio, e quindi possono risultare più incisive.
-
D. Sebastiano Addamo e la sua famiglia.

R. I rapporti coi figli sono buoni. Condizionano certe scelte. Tra un libro e un paio di scarpe, ho scelto sempre il paio di scarpe, a favore della mia famiglia.

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D. Si sente appagato confrontando il bilancio tra energie spese e frutti raccolti fino a questo momento?

R. Mi pare fosse stato Faulkner a scrivere che ogni libro è un fallimento. E io ne sono d’accordo. Tra l’altro, la logica letteraria fa sacrificare qualche idea, non perché essa sia confusa, come dice Croce, ma perché non rientra nel ritmo della scrittura. Ciò vale sia per la prosa che per la poesia. Comunque, il libro diventa, appena fatto, altro da sé. Forse si può leggere anche in questo senso l’espressione che adopera Rimbaud in una lettera: “lo sono un altro”.

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D. Cosa potrebbe suggerire a chi compie oggi vent’anni?

R. Di vivere. Però capisco che si possa vivere anche coi libri.

Molto meno, però, per mezzo dei libri.

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D. Ci sono libri mi riferisco evidentemente a classici che, lei ritiene, abbiano potuto influenzare particolarmente la sua formazione?

R. Potrei dire che i classici io li ho incontrati “dopo”. E’il presente che ci fornisce lo sguardo sul passato, e non è il contrario. Pur avendolo studiato nelle scuole, Dante l’ho incontrato, veramente, vent’anni fa.

-

D. Qualche nome di scrittore del Novecento a lei caro.

R. In questi tempi, Céline. Proust e Dostoevskij da sempre assieme
a Nietzesche e a Montaigne, Baudelaire. Qualche libro di Gadda e di Thomas Mann. Per la poesia, Montale, Sereni, Eliot, Dylan Thomas. Mi vengono in mente poiché mi vengono chiesti. Può darsi che in altre circostanze farei altri nomi.

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D. C’è un tema che l’affascina da sempre, su cui, prima o poi, scriverà un libro?

R Idee e temi corrono su di noi. Ma un tema è tale quando diventa libro. Prima del libro ci sono fantasie e fantasmi. Ma io do meno credito alla ispirazione, e ho fiducia nella tecnica, tanto per la poesia che per la prosa.

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 11:45 da Tea Ranno intervista Sebastiano Addamo (parte II)


Detto-fatto, cara Tea. Brava. Bellissima intervista.
Credo che ci sia tutto Addamo, lì.

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 11:46 da Massimo Maugeri


Cara Marinella, grazie a te. Attendo tue ulteriori riflessioni su Addamo e su questo suo libro, allora.
Ne approfitto per farti i complimenti per il bel booktrailer del tuo “Celeste Aida”. Lo inserirò come aggiornamento al post dedicato al tuo libro.

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 11:50 da Massimo Maugeri


@ Domenica Trischitta
Caro Mimmo, grazie per essere intervenuto.
Ti propongo, in coda al dibattito, di affrontare questa ulteriore discussione (il cui titolo potrebbe essere): dalla Catania di Addamo a quella di Trischitta
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Domenico Trischitta ha pubblicato di recente “Una raggiante Catania” (Excelsior 1881):
http://www.ibs.it/code/9788861580633/trischitta-domenico/raggiante-catania

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 11:54 da Massimo Maugeri


Domenico Trischitta ha anche recensito questo libro di Addamo su Repubblica.
Inserisco la recensione nel commento di seguito.

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 11:55 da Massimo Maugeri


Le luci rosse di San Berillo
Repubblica — 29 luglio 2008 pagina 22 sezione: PALERMO
-
di Domenico Trischitta
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Sebastiano Addamo è stato filosofo e narratore, poeta e fine critico. Usa la sua scrittura saggistica in funzione della costruzione narrativa, come un tagliatore di diamanti. Si inserisce in questo contesto Oltre le figure, già pubblicato da Sellerio, dove tra l’ altro è possibile leggere alcuni ritratti di intellettuali siciliani, che colpiscono per la razionalità dell’ autore. Spicca soprattutto un saggio dedicato a Pippo Fava, senza dubbio la più sorprendente testimonianza dedicata al giornalista e drammaturgo catanese: «Egli è scrittore di fatti, e dunque non ha preoccupazioni formali, non partecipa alle polemiche, attorno a lui in corso, sull’ essere e il proprio della vicenda letteraria. Non è che deliberatamente le rifiutasse, semplicemente ne era fuori. Sotto questo aspetto, egli rimane al di qua della letteratura, ma per stare più dentro la bruciante realtà del giorno». E ancora: «La differenza tra il suo essere giornalista e il suo essere narratore, non sta nella differenza tra una scrittura che riporta, e una scrittura che inventa. Inventare, del resto, significa più propriamente trovare: trovare tra le pieghe della cronaca, nel suo fondo sordido e amaro, quelle verità che essa cela e vanno rivelate, anche se non c’ è alcunché che la sorregga. Il cronista si fa romanziere per la violenza stessa della cronaca. Questa cronaca virulenta e imperversante, per Giuseppe Fava è stata la mafia». Con questo bagaglio tecnico, va riletto lo straordinario romanzo del 1974 Il giudizio della sera, da poco ristampato da Bompiani: è una discesa antropologica e metaforica nel ventre molle di Catania, nel famigerato quartiere San Berillo, sventrato a morte negli anni Cinquanta. Ma questa zona era un agglomerato “lucertola”, la cui coda ricrescerà per insinuarsi continuamente. Addamo, nel raccontare le gesta di Ginetto, non accennerà mai alla distruzione del quartiere. La sua scrittura non ne ha bisogno. La fa vivere e presagire attraverso uno stile onirico e sarcastico. Attraverso quel decadimento respiriamo la crisi di una città intera, prima con gli orrori di una guerra, e poi con la povertà che ne consegue. Il suo è l’ unico romanzo – un grande romanzo – contemporaneo che ha come protagonista Catania. Gino diventa adulto praticando il sesso a pagamento nel grande quartiere a luci rosse, e nel disfacimento esistenziale che colpisce i catanesi dopo i bombardamenti del secondo conflitto. è la crisi di una generazione che spingerà i ragazzi (compreso l’ amico e sodale Manlio Sgalambro) a un appassionato odio nei confronti del fascismo delle false promesse, un atto d’ accusa nei confronti dei padri che in quell’ ideologia hanno creduto. Addamo, non cadendo mai nella retorica, racconta questo dramma attraverso la dicotomia città-campagna, cioè il luogo che lo ospita e il luogo da cui proviene: «Sopravvenne l’ odore di piscio. Inopinatamente, senza alcun preavviso, dilagò, si impose, s’ impossessò della città. Non ci fu difesa, né riparo, né volontà e possibilità, e man mano salendo dai vecchi quartieri di San Cristoforo, dalle miserabili zone del porto e della stazione, dai lerci abituri bordellosi di via Maddem e via Rapisarda, invase le arterie del centro, via Etnea e via Umberto, la zona di via Ughetti, la villa Bellini, il viale» «Tutta la gran vallata al cui fondo è Lentini, ma anche oltre, fino a Carlentini, fino a Francofone, tutta la vasta zona dei giardini, si empì dell’ odore greve e dolciastro d’ arance marce; un odore che stordiva, che nauseava e s’ attenuava solamente nelle ore notturne quando scendeva l’ umido, o al mattino che restava sospeso in mezzo alla nebbia. Appena però questa diradava, l’ odore tornava a dominare, ciecamente penetrava nelle case, avvolgeva uomini e cose». Un autore che merita il giusto riconoscimento, accanto a De Roberto, Verga, Brancati e Patti, i più rappresentativi scrittori catanesi. E quando dico catanesi mi riferisco a quella accezione alta che li distingue come europei, cantori di una provincia che con loro diventa categoria filosofica. Sotto questo aspetto Il giudizio della sera è da considerarsi romanzo decisivo come I Viceré di De Roberto, o Il Bell’ Antonio di Brancati; il libro-manifesto della sua generazione. –
DOMENICO TRISCHITTA

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 11:59 da Le luci rosse di san Berillo (di Domenico Trischitta)


Cara Desi, sono d’accordo con quanto sostieni.
-
Ne approfitto per dirvi che mi ha chiamato Laura Marullo: ha avuto qualche difficoltà a connettersi… ma interverrà presto.

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 12:15 da Massimo Maugeri


Bene. Per il momento passo e chiudo.
Sono ancora qui, bloccato su un treno nella stazione di Messina. E’ probabile che ci faccia sera. In tal caso dovrò ricondurre il giudizio sui giusti binari.
Mi vado a rileggere il brano di Addamo su odori, arance, giardini, case.
Un caro saluto a tutti.

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 12:17 da Massimo Maugeri


…Odori, arance, giardini, case… e muri. E scritte murali.
Sebastiano Addamo in Sicilia Illustrata, anno I, n. I, afferma al riguardo:
“La scritta murale non implica attribuzione possibile. E’ di tutti e di nessuno. Tra l’altro non ha nemmeno la pretesa della durata, non aspira a un futuro che è, sotto sotto, la speranza patetica di chi mette la propria firma alla fine di una pagina stampata: basta infati un colpo di spugna per farla andar via. L’effimero è il suo regno poiché si consegna al nulla, sta tutta nel’espressione, ha riferimento molto meno col significante e molto più col significato che di per sé è transitorio. Dice soltanto quello che dice. Non ha cascami psicologici, né la pretesa di autorevolezza o di nobiltà che facilmente e inconfessatamente l’autore è solito accreditarsi. Eppure è un lampo nella notte, essa scava il tempo, incide il quotidiano, s’imprime nella mente (…)”.

La speranza patetica di chi mette la propria firma alla fine di una pagina stampata… C’è tutto Addamo in questa espressione.

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 13:47 da Tea Ranno


Leggerò il libro che mi era sfuggito nella prima edizione.
Alla mia età, che è sera di un’intera vita, il giudizio della sera diventa esercizio, se non quotidiano, almeno settimanale. Ma non è un vero e proprio giudizio e nemmeno un bilancio. Quelli si fanno in età più tenera, quando ancora esiste la superstizione di un possibile “cambiamento”, la speranza che in qualche modo le cose possano cambiare e i desideri mutarsi in realtà. Diciamo che è piuttosto una sana presa di coscienza dei propri limiti ed una rasserenante certezza di non aver più voglia di tentare di violentarli.
Il delicato compito della sopravvivenza, alla mia età, non è più quello di capire se si è fatto o meno quello che si era ritenuto di dovere o poter fare o se si sarebbe dovuto far di più o si sarebbe potuto far di meno e non è nemmeno un “guardarsi” allo specchio della propria epoca, ma – più semplicemente – quello di gestire con garbo ed ironia la struggente bellezza ed attrattiva della vita, così come capita di gustare quelle meravigliose tonalità di violetto che sopraggiungono dopo il rosso-oro e l’arancione del tramonto. Non è neppure rassegnazione, ma semplice godimento dei bocconi, dei baci e dei sorsi di vino che l’esperienza condisce in maniera perfetta e sorprendente…
E con quanto detto, credo di aver risposto, sia pure indirettamente, all’altro quesito con il quale il diabolico (nel senso vigoroso della parola) Massimo Maugeri c’induce in tentazione filosofica: nè trampolino di lancio, nè ostacolo per la vita che verrà, giacchè i tuffi che valeva la pena di fare si sono già fatti e si è appreso da un pezzo come superare (o evitare) gli ostacoli.

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 13:58 da Claudio Biondi


Sicilia Illustrata. Tea mi ha fatto venire un pizzico di nostalgia. E’ proprio in quella rivista che ho pubblicato il mio primo articolo. E credo che anche Tea abbia esordito lì. C’erano anche Sebastiano Addamo, Manlio Sgalambro, Gesualdo Bufalino. Belle cose. Se ne fanno di cose belle in sicilia.

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 14:26 da Salvo zappulla


Grazie, Tea. Bellissima citazione.

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 16:20 da Massimo Maugeri


@ Claudio Biondi
Caro Claudio, grazie per il tuo intervento: bello e condivisibile. Spero che tu abbia la possibilità di leggere questo romanzo di Addamo.
Ti saluto con diabolico affetto. :)

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 16:22 da Massimo Maugeri


Tea, Salvo…
citate “Sicilia illustrata” fondata da Mario Grasso (ne approfitto per salutarlo con affetto).
E a proposito del numero I… guardate un po’ qui (invito tutti a dare un’occhiata al sito, in generale):
http://www.mariograssoscrittore.it/index.php?option=com_content&view=article&id=65&Itemid=80
Ci siete anche voi, insieme a tanta altra bella gente.

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 16:25 da Massimo Maugeri


Peraltro, la casa editrice “Prova d’autore” (diretta proprio da Mario Grasso: la stessa casa editrice che ha pubblicato il mio “Identità distorte”) ha pubblicato questo bel libro di Addamo: “Sugli scrittori siciliani. Interventi di letteratura contemporanea” (2004, Prova d’Autore)
http://www.provadautore.it/scheda.php?ID=00050
-
Lo trovate su ibs, qui:
http://www.ibs.it/code/9788888555416/addamo-sebastiano/sugli-scrittori-siciliani.html
-
Chi fosse interessato può anche provare a richiederlo direttamente presso la casa editrice:
http://www.provadautore.it/contattaci.php

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 16:30 da Massimo Maugeri


Dimenticavo: il treno, alla fine, è giunto a destinazione.
E questa è una notizia. ;)

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 16:31 da Massimo Maugeri


Complimenti, Massimo, come sempre riesci a dar vita a interessanti dibattiti.
Mi sono ritrovata nelle tue parole perchè anche per me il giudizio della sera evoca l’immagine dello specchio in cui dobbiamo guardarci, o alla fine di ogni giorno o in un periodo della vita, che prima o poi arriva sempre, in cui dobbiamo e sentiamo la necessità di fare un bilancio.
Infatti, alcuni anni fa scrissi una poesia in cui l’incipit è proprio in sintonia con la tua domanda.
Mi permetto di trascriverla tutta :

Quando odo il respiro della sera,
nella muta attesa della notte,
affondo le mani
nelle pieghe del tempo.
Adagiate su briciole di stelle
gocce di ricordi,
come lacrime di pioggia,
inondano i silenzi
di questa mia inutile esistenza.
Negli angoli nascosti
delle stanze del cuore
frammenti di sole e temporali
ricompongono il mosaico della vita.
E, inesorabile il tempo,
come un torrente
precipita a valle.
Allora cercherò
con impazienza
le vecchie ali sgualcite
che ancora,
col soffio del pensiero,
volare mi faranno.

Il giudizio della mia sera è sempre severo perchè non mi ritengo mai soddisfatta ma, non per questo, deve essere un ostacolo per il giorno dopo o per la vita futura, anzi, come la chiusa della poesia, dovrà darci la speranza e la forza di volare ancora .
mara faggioli

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 16:33 da mara faggioli


Carissima Mara, grazie a te per l’intervento e per la poesia. I dibattiti diventano interessanti solo (ed esclusivamente) per i vostri ottimi contributi.
E di questo, nel salutarvi, vi ringrazio tutti di vero cuore.

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 16:36 da Massimo Maugeri


Intrecci di immagini, contributi e riflessioni davvero affascinanti. Un ricordo recente (circa un mese e mezzo fa): sfogliavo per la prima volta una copia di “Sicilia illustrata” (non ricordo quale numero fosse) consegnato nelle mie mani da Salvo, il quale mi guidava sapientemente attraverso le preziose pagine della rivista.
Ho cercato oggi di procurarmi “Il giudizo della sera”. Spero di poterlo leggere domani.
Ringrazio Massimo per questa ulteriore occasione di lettura, così importante; grato inoltre a tutti coloro che stanno animando la discussione.

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 17:15 da Subhaga Gaetano Failla


Caro Massi,
sì. “Il giudizio della sera” evoca prepotentemente “Il giorno del giudizio” di Salvatore Satta.
Stesso chiamare a convitto i fantasmi. Stesso evocarli nell’opacità serale, quando l’ombra incede e la verità trasluce.
Dice Satta: “In questo remotissimo angolo del mondo, da tutti ignorato fuori che da me, sento che la pace dei morti non esiste, che i morti sono sciolti da tutti i problemi, meno che da uno, quello di essere stati vivi”.
E poi ancora: “Tutti si rivolgono a me, tutti vogliono deporre nelle mie mani il fardello della loro vita, la storia senza storia del loro essere stati. Forse mentre penso la loro vita, perché scrivo la loro vita, mi sentono come un ridicolo dio, che li ha chiamati a raccolta nel giorno del giudizio, per liberarli in eterno dalla loro memoria”.
Nella notte che incede, i morti gli sfilano innanzi. Carnefici, vittime, ostaggi della verità, bugiardi, cuori senza felicità e felicità in cerca di un ripostiglio. Raccontarli è come redigere un rendiconto finale e irrimediabile, conclusivo, che ricompone il senso della vita celebrando la morte.
Sono fantasmi insepolti, richiamati senza date e senza lapidi, suggeriti dalla necessità e dalla sete di dargli esistenza. E’ un popolo ammutolito che ha bisogno di un pubblico ufficiale, per il quale Satta non può che allestire, da notaro esperto delle carte e dei fascicoli, un verbale di parole dette, suggerite, un verbale redatto con incedere di requiem. E tuttavia, pur nella registrazzione da cancelliere dei destini, da verbalizzante di carne, Satta trasmigra nei morti, compie con loro l’esilio, si unisce al coro delle ombre.
Nessun eroismo, nessuna impresa li ha esaltati in vita; queste anime, tutte diverse, pure sono indifferentemente impastate della stessa ostinazione: non rasegnarsi a essere dimenticate.
In comune con Addamo c’è dunque il valore morale della parola, dell’unico mezzo, direbbe Jorge Louis Borges, capace di procurare delle crepe all’ostinato oblio.
Queste crepe sono il nostro passato, la nostra traccia, il nostro transito fragile e provvisorio, nel quale resistiamo alla furia del tempo e a quella degli uomini, dei vivi. “Bisogna svolgere la propria vita sino al momento in cui si cala nella fossa. E anche allora bisogna che ci sia uno che ti raccolga, ti resusciti, ti racconti a te stesso e agli altri come in un giudizio finale”.
Il giudizio, per Satta, lo formulano le storie.

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 17:27 da simona lo iacono


…ops…registrazione…

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 17:29 da simona lo iacono


Invece il paragone tra giudizio e notte (o sogno) emerge dai diari di Elsa Morante.
Dice Elsa: “I sogni sono dei processi notturni delle colpe della giornata. Come ci si accusa, ci si condanna. E ci si scopre, ogni giorno di più. Oggi conosco certe mie viltà, certe bassezze meglio di ieri”.
Qui il giudizio è formulato dal sogno che restituisce non solo colpe, ma anche conoscenza, perchè il giudizio, infondo, non è che questo:un percorso di conoscenza. Un pellegrinaggio in se stessi.
Per Elsa è lo stesso pecorso che dal sogno porta alla narrazione: “Basta una parola, uno sguardo della giornata per spingere verso gli indicibili cammini, gli avventurosi viaggi del sogno. E’ come un filo esile che si ricompone in un fiabesco ricamo. Che il segreto dll’arte sia qui? Ricordare come l’opera si è vista in uno stato di sogno, ridirla come si è vista, cercare soprattutto di ricordare. Chè forse tutto l’inventare è ricordare”

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 18:06 da simona lo iacono


Salve,
ritengo che questo spazio aperto dal sig. Maugeri meriti un link sul sito dedicato allo scrittore.
Paolino
_____________________________________________
http://addamosebastiano.interfree.it/
link: “copertine”

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 18:57 da Paolino Ruggiero


Carissimo Gaetano, sono io che ringrazio te. Facci conoscere le tue impressioni, dopo che avrai letto “Il giudizio della sera”.

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 22:30 da Massimo Maugeri


Carissima Simo, grazie per i tuoi splendidi contributi. Gli accostamenti con Satta e la Morante mi sembrano azzeccati e di estremo interesse.

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 22:34 da Massimo Maugeri


@ Paolino Ruggiero
Caro Paolino, intanto benvenuto su Letteratitudine.
In effetti il sito dedicato allo scrittore era già stato linkato all’inizio del post. Ci si arriva cliccando sul nome di Sebastiano Addamo (o anche cliccando suassociazione Addamo), ma hai fatto benissimo a metterlo in evidenza in maniera ancora più chiara. È unsitoche fornisce moltissime informazioni sullo scrittore protagonista di questo post.
Ti ringrazio molto e aspetto tuoi ulteriori contributi.

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 22:38 da Massimo Maugeri


Auguro una serena notte a tutti.

Postato giovedì, 24 settembre 2009 alle 22:43 da Massimo Maugeri


Gentile Massimo,
temo ci sia un malinteso, ed in effetti rileggendomi mi rendo conto di essere stato poco chiaro.
Sono il curatore (web master mi pare eccessivo) del sito dedicato ad Addamo e ti comunicavo
di aver inserito nel sito il link di spazio letterario così interessante e articolato.

Buone cose.

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 00:03 da Paolino Ruggiero


Desideravo ringraziare per la segnalazione. Riprendo in mano con tanta nostalgia le belle pagine di Sebastiano Addamo. Grazie.

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 10:54 da Maria Verro


bello il titolo. quanto alle tue domande… il giudizio della sera per me è sempre stato sereno e saldo, anche quando è stato velato di tristezza. credo sia così per chiunque abbia un cuore puro.

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 11:23 da Tjuna Notarbartolo


@Grazie Maria Lucia Riccioli, mi scuso anche con i cari amici che mi avevano scritto nel precedente blog. Non vorrei essere trascurata, sono lenta e tarda come una tartaruga e non ho fatto a tempo a rispondere.
@ La scrittrice Tea Ranno è davvero formidabile, sia per il ricordo vivo e palpitante che ci ha descritto, sia per l’interessante intervista dalla quale
emerge l’affettuosità di Sebastiano Addamo come – buon padre di famiglia – e la grandezza dello scrittore schivo e sagace.
Ho riletto con più calma e diletto, l’esauriente articolo dell’ avvolgente scrittrice @Sarah Zappulla Mascarà e ho riprovato le prime indimenticabili
impressioni del mio primo viaggio a Valguarnera (Enna). Quando l’amore per la benedetta terra sicula, si è radicata per sempre nel mio cuore. Le sono veramente grata per tale inaspettato dono.
@Simo.. e Morena, amiche care e preziose, vi scriverò presto, a parte.
@ Massimo caro, non solo – Le ire di Poseidone – non ti bloccano, ma nemmeno Giove Pluvio riesce a fermarti…. Trascrivo un pensiero di un autore che amo, credimi, ti sembrerà un vero siciliano anche lui:-
°°°°°°°°°°°°°°
“Tu non puoi capirlo dovresti esserci nato. In realtà essere del Sud è una
cosa complessa. Comporta un’eredità di grandezza e di miseria, di conflitti interiori e di fatalità, è un privilegio e una maledizione.
Vi è il senso aristocratico dell’onore e dell’orgoglio.” Faulkner
Grazie Tessy

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 12:37 da M.Teresa Santalucia Scibona


spero di fare cosa gratita scrivendo l’incipit del romanzo “il giudizio della sera” di sebastiano addamo.
§ § §
IL GIUDIZIO DELLA SERA
Il liceo che a Lentini mancava, andai a farlo a Catania. La casa dove venni ad abitare era brutta, scura e umida, su una strada stretta e sporca: un posto triste specie di sera quando vi passavano le prostitute che andavano a passeggiare nei dintorni, e pei gatti che a notte ne facevano il loro regno, orde fameliche e numerosissime che chi sa da dove uscivano e stavano fino all’alba miagolando, raspando ogni mucchio, inseguendosi tra i tetti in perenne reciproca rissa.

Un luogo quasi sordido, me ne avvidi ben presto, con la strada che poi era un vicolo, con il sole che entrava soltanto per qualche ora ed era stentato e sempre debole come s’annoiasse a visitare luoghi del genere; con la stanza dove stagnava un odor di cesso e veniva dalla casa, dalle scale, dallo stesso vicolo, da tutto. il quartiere, era odor di cesso e di piscio di gatto che è più acido e greve del piscio umano, odore di putrefazione e di liquami infetti, odore anche di agglomerati umani, quell’odore che è nauseabondo e repellente per questo: perché nostro ed emanato da noi e intanto contraddicente a quanto catechismo e prediche pasquali e pastorali ci hanno insegnato che noi siamo, noi com’è noto essendo spirito, anima, ragione, tutte cose che non fanno odore; era l’odore di un quartiere che ha odore, poiché ci sono quartieri senza odore, c’erano allora a Catania, asettici, silenziosi, raggomitolati in sé, separati e pignolescamente puliti.
(…)

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 13:31 da biagio


cosa “gradita”, non “gratita”. chiedo scusa per il refuso.

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 13:34 da biagio


di nuovo gli odori.
la scrittura di sebastiano addamo è intrisa di odori, così come si evince anche da quest’incipit. non è facile rappresentare gli odori con la scrittura. addamo ci riesce bene.
ci tenevo a segnalarlo.
complimenti per questo post e per la discussione che ne è nata.

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 13:36 da biagio


@Tessy cara, ti aspetto a braccia aperte!
@Marinella: un bacio grande e la promessa di riabbracciarci presto!

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 15:17 da simona lo iacono


lo sto leggendo: splendido.

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 16:10 da marco salvador


“Cu tarda ma nun manca nun si chiama mancaturi” scriveva Luigi Pirandello della cui citazione faccio scudo mentre chiedo scusa per il mio tardivo intervento. Desidero, innazitutto, rivolgere un caro saluto al padrone di casa, Massimo Maugeri (che in altra sede ho definito “ulisside della blogosfera” e “funambolo della parola”), al quale esprimo la più viva gratitudine per aver dedicato questo post a Sebastiano Addamo, scrittore fra i più significativi della letteratura contemporanea, in occasione del Premio a lui intitolato che è conferito a due personalità illustri della cultura: Mario Andreose, direttore letterario del gruppo RCS LIBRI, e Salvatore Scalia, responsabile delle pagine culturali de “La Sicilia” nonché amico di Sebastiano Addamo. Un grazie di cuore a Simona Lo Iacono, vestale dei segreti della “Parola”, cui mi riconduce una parentela letteraria per il tramite di Suor Francisca Spitalieri, brontese (come me) ladra di “parole belle” che hanno il salvifico potere di allontanare la morte. Un saluto e un ringraziamento va anche a tutti gli intervenuti che hanno proposto spunti di riflessione sempre fecondi e stimolanti: Tea Ranno (per la sua testimonianza preziosa), Mimmo Trischitta (per la bella recensione), Salvo Zappulla, Giacomo Zappalà, Maria Luisa Riccioli, Marinella Fiume, Mara Faggioli, M. Teresa Santalucia Scibona, Gaetano Failla…… etc. etc.

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 17:54 da Laura Marullo


L’ho acquistato anch’io, grazie a questa segnalazione, e lo sto leggendo. Davvero notevole.

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 17:57 da Annalisa


Nel mio romanzo “Una raggiante Catania” omaggio tre grandi scrittori del Novecento italiano: Giuseppe Berto e Giuseppe Pontiggia (con due citazioni), e alla fine del racconto Sebastiano Addamo (l’atmosfera delle pagine finali si rifà al disfacimento esistenziale e fisico de “Il giudizio della sera”). Come in un grande intreccio di rimandi letterari e geografici…

Grazie Massimo per avermi dato l’opportunità di rinnovare la stima nei confronti di uno dei più grandi scrittori siciliani.
(La vedova di Addamo è commossa per questa discussione sul blog).

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 18:18 da domenico trischitta


@ Simona cara, speravo di farmi viva stasera invece è in arrivo la mia nipotina Gaia. Spero di riuscirci domani, intanto ti penso.
@Marco Salvador, Le sono grata per essersi ricordato anche di me e per
l’empatica vicinanza.
@ Massimo e le amiche, gli amici di vecchia data un saluto al volo e il solito
aforisma:- ” Lavorare a ben pensare: ecco il principio della morale” B. Pascal – Meditate gente, meditate -
Tessy

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 19:04 da M.Teresa Santalucia Scibona


“At cur aliud in historiis, aliud in vita judicium?” Erasmo da Rotterdam si era chiesto perché il giudizio della vita è altro dal giudizio della storia.
La sera, appena cominciava a fare buio, tutti i componenti della famiglia rientravano a casa, seduti attorno al braciere acceso, e i più piccoli ascoltavano il nonno o la nonna che li educavano con proverbi e massime di saggezza, invogliandone la creatività, la fantasia: “haju un cannistreddu di’nzalori, cciù li tuoccu, ciiù ti doli” (ho un cestino di ’nzalori, più li tocco, più ti fanno male). È un antico indovinello di Chiaramonte Gulfi per definire il braciere. Lo scrittore Sebastiano Addamo condivedeva con Elio Vittorini il ricordo di un frutto autoctono della Sicilia: le «’nzalori» («Stilos», Catania, II, 16, 2 agosto 2000, pp.14-15.). L’azarola è una nespola attraente, color rosso, ma dal sapore acidulo. E spesso è così la biografia di un Uomo, attraente e aspra, racchiusa in una sequela di notizie sui luoghi e le attività svolte, sulle sue frequentazioni, sulla parentela e sui luoghi. Tutte queste notizie permettono il “giudizio della Storia” nel cui excursus l’Autore viene collocato. Ma quando leggiamo l’opera di Sebastiano Addamo, particolarmente un suo romanzo di formazione come “Il giudizio della sera”, emerge nitido il “Giudizio della Vita” che l’Autore formula, inconsapevolmente, ripercorrendo gli anni della “sua” adolescenza in quel momento storico, a Catania, nel triste dopoguerra italiano, inabissato in luoghi sordidi e torbide esperienze di un percorso verso l’età adulta.
Consiglio di leggere o di rileggere il libro alla luce del nobile messaggio educativo che porta dentro di sé: psicologicamente si cresce attraverso la sofferenza, il dolore, talvolta il disgusto di fronte alla scoperta della fallacia di una esperienza alla quale si era prestata speranza e valore. “Quella malattia chiamata vita” (p. 153) permette di considerare siffatto mondo, assolutamente positivo e dialetticamente realistico, decalogo e strumento indispensabile al “giudizio della vita”, superamento e processo evolutivo che si produce non senza dolore.
Sprofondarsi nella lettura di questo libro consente di accostarsi a “un’insalata chiamata pure vita” (p.153) di colui che, dalle sofferenze del crescere, ha saputo comunicare un messaggio autentico.
ANDREA TRICOMI

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 19:18 da Andrea Tricomi


@ Massimo, complimenti per la tua iniziativa che vedo sempre ricca di partecipazione ed entusiasmo. Sono felice di essere tra i tanti.

@ Laura Marullo un caro saluto e a tutti gli altri arrivederci a domenica, qui a Catania, alle Ciminiere.

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 19:31 da Andrea Tricomi


salve a tutti sono la figlia di Sebastiano Addamo, leggervi mi riporta ad un tempo denso di memorie.
Talvolta la notte mi svegliavo e nel silenzio ascoltavo il ticchettio della olivetti, “papà sta lavorando” mi dicevo e il rassicurante battere dei tasti mi accompagnava verso sonni tranquilli. Domenico Trischitta ha già segnalato la commozione di mia madre, ma è proprio lei col suo tenace impegno che io e mia sorella dobbiamo ringraziare se, a distanza di nove anni dalla scomparsa di mio padre, oggi su questo blog possiamo leggere una così interessante e vivace discussione.
Grazie a voi tutti Vera Addamo

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 19:56 da vera


Caro Massimo
Come ha già sottolineato Matteo Collura nella sua accurata recensione, e come anche tu hai giustamente notato all’inizio del post, va dato merito alla casa editrice Bompiani, da sempre attenta agli scrittori siciliani, di aver pubblicato il romanzo di Sebastiano Addamo, “Il giudizio della sera”, sottraendo all’oblio un’opera di fondamentale importanza nel panorama nazionale. Una felice scelta editoriale fortemente sostenuta dalla Prof.ssa Sarah Zappulla Muscarà, di cui mi pregio di essere allieva, alla quale si deve la dotta, lucida introduzione, che svolge una benemerita attività di valorizzazione del ricco patrimonio letterario siciliano, pubblicando con la casa editrice Bompiani “Tutto il teatro in dialetto” di Luigi Pirandello, “Un bellissimo novembre”, “Giovannino”, “Roma amara e dolce” e “Gli ospiti di quel castello” di Ercole Patti, “Silvinia” e “L’infinito lunare” di Giuseppe Bonaviri, “Un posto tranquillo” di Enzo Marangolo e ancora, recentemente, un autore di straordinario interesse, Stefano Pirandello, figlio primogenito di Luigi di cui ha visto la luce “Tutto il teatro”. Autori di cui cui favorisce la diffusione, insieme all’avv. Enzo Zappulla, Presidente dell’Istituto di Storia dello Spettacolo Siciliano, in ambito internazionale attraverso mostre documentarie, convegni, seminari tenuti nelle maggiori università del mondo. Un’attività di promozione che prosegue su questo bellissimo lit-blog di cui, caro Massimo, ti siamo veramente molto grati.

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 20:10 da Laura Marullo


“L’esorcismo degli odori”,<>, Catania, 13 aprile 1988:

<>.

“Nudi di tutto”, <>, Catania, 6 febbraio 1991:

<>.

“Il sesso in testa”, <>, Catania, 22 maggio 1989:

<>.

Gli odori, la guerra e il sesso al centro de “Il giudizio della sera”, ma anche elementi costanti della scrittura dell’autore, non soltanto letteraria.
Ho “scovato” questi articoli presso l’archivio del quotidiano catanese <>, giornale con cui Addamo ha collaborato per tutta la vita, salvo brevissime interruzioni, occupandosi di cronaca, politica, recensioni, rilfessioni e del ricordo di alcune tra le più importanti personalità del mondo della cultura.
Allontanandosi da quella oggettività che viene posta come condizione fondamentale per svolgere la professione giornalistica, l’autore si è rivelato un intellettuale impegnato, attento alle questioni sociali e civili, capace di riflettere su tematiche scottanti che hanno poi trovato spazio in opere di più ampio respiro.
Lo scritto giornalistico mi ha permesso di conoscere più a fondo la personalità di questo intellettuale solitario e schivo, che è stato sicuramente un “maestro di stile” e punto di riferimento per tutta una generazione di giornalisti sicilani che, più di ogni altra cosa, ha imparato da lui ad interrogarsi sul rapporto tra giornale e vita.

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 20:13 da Valentina Miraglino


Un saluto speciale rivolgo a Grazia e Vera Addamo che ringrazio per il loro intervento e la testimonianza vibrante di tenere memorie e di una mai interrotta “corrispondenza di amorosi sensi”.

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 20:23 da Laura Marullo


Il giudizio della notte? Sempre implacabile.

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 20:34 da Giancarlo Marino


Un affettuoso benvenuto a Valentina Miraglino che a “Sebastiano Addamo giornalista” ha dedicato una bella tesi di laurea, premiata con una meritata lode, nella quale ha approfondito la collaborazione al quotidiano “La Sicilia” che rappresentò per la società siciliana una sicura guida nel tentativo di superare la crisi dei sistemi di valore del Novecento ed aprirsi, come ne “Il giudizio della sera”, alla speranza in un futuro migliore.

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 20:45 da Laura Marullo


Ciao Andrea, “ladro di luce” ed “inventore di sogni”, come Gesualdo Bufalino ebbe a dire dei fotografi.

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 20:50 da Laura Marullo


Cari amici, vi ringrazio tutti per i nuovi commenti. Noto con piacere che la discussione sta beneficiando di una piacevole impennata…

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 21:34 da Massimo Maugeri


Cara Laura, grazie a te per essere intervenuta nonostante gli impegni imprevisti che sono sopravvenuti (come hai avuto modo di riferirmi).

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 21:43 da Massimo Maugeri


@ Paolino Ruggiero
Caro Paolino, scusami se ho frainteso (ma ieri sera ero proprio “cotto” dalla stanchezza).
Ti ringrazio per aver inserito, nel sito dedicato a Sebastiano Addamo, il link a questo post (per trovarlo basta cliccare su “copertine”… ho visto).
E complimenti a te… il sito è davvero ben curato e ricco di informazioni.

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 21:47 da Massimo Maugeri


Un ringraziamento a Maria Verro, Tjuna Notarbartolo (scrittrice, critica letteraria, nonché direttrice del Premio “Elsa Morante”), a Biagio e ad Annalisa per i loro interventi.

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 21:52 da Massimo Maugeri


@ Marco Salvador
Caro Marco, grazie per aver acquistato il libro. Sono felice che tu lo stia trovando “splendido”.
Ci tengo molto al tuo parere di scrittore friulano.
-
(Per chi non lo sapesse segnalo che abbiamo incontrato Marco Salvador – scrittore edito dalla casa editrice Piemme – nell’ambito di questo dibattito sul “romanzo storico”:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/07/26/dibattito-sul-romanzo-storico-andrea-ballarini-rita-charbonnier-marco-salvador-cinzia-tani/ )

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 21:55 da Massimo Maugeri


Ciao, Lauretta! Che bello leggerti qui! Per chi non lo sapesse, Laura Marullo, dottoressa in ricerca presso la facoltà di lettere dell’università di Catania, brontese, è studiosa appassionata della parola, delle sue fluorescenze, dei suoi misteriosi ribaltamenti. Ed è un’amica cara, una stella che ho incrociato in un equinozio di primavera.
Un bacio

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 21:56 da simona lo iacono


@ Maria Teresa Santalucia Scibona
Cara Tessy, ancora grazie per i tuoi interventi. Hai ragione: nemmeno Giove Pluvio riesce a fermarmi:-)
Ho provato a scriverti in privato, cara Tessy, per congratularmi con te (ma hai la casella di posta piena e la mail torna indietro)… così ne approfitto di questo spazio e ti faccio tanti complimenti per l’assegnazione (notizia di oggi) del Premio di poesia “Idilio Dell’Era” alla carriera.
Segue la motivazione del Premio:
-
a Maria Teresa Santalucia Scibona…
Raffinata e apprezzata poetessa senese, innamorata della vita, nonostante sia costretta da anni da una grave malattia a condurre una vita da disabile, ha profuso nella poesia la sua ardente vitalità con versi armoniosi e limpidi, resi veri da un’intima sofferenza, sempre accompagnata da una tenace forza interiore e da un’incrollabile fede religiosa.
Nel corso della sua vita, ha raggiunto notevoli risultati artistici, attestati dalla pubblicazione di numerose raccolte di poesie e da ambiti riconoscimenti e premi, in Italia e all’estero.
Nel duemila è stata insignita di medaglia d’oro dal Concistoro del Mangia di Siena, per alti meriti culturali.
In questi anni ultimi ha continuato, con impegno encomiabile, ad alimentare il dibattito culturale, con incontri e conferenze, contribuendo a diffondere, come presidente del MOPOEITA, i valori alti della poesia.
IL PRESIDENTE
Francesco Rossi

-
Bravissima, Tessy cara. Ancora tanti complimenti per il meritato premio.

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 22:01 da Massimo Maugeri


@ Simona
Simo, grazie per la precisazione a favore della nostra Laura…

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 22:03 da Massimo Maugeri


Un ulteriore saluto e ringraziamento allo scrittore Domenico Trischitta per il suo nuovo intervento.
(Caro Mimmo, ti ribadisco che in coda a questa discussione ne apriremo una parallela sul tuo romanzo).

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 22:06 da Massimo Maugeri


Ringrazio anche Valentina Miraglino per il suo intervento: temo che sia stato “registrato” in maniera incompleta a causa di questi segni (in matematica indicano “minore di” o “maggiore di” )… che – non ho mai capito perché – da un punto di vista tecnico il blog non accetta. Eventualmente, cara Valentina, se puoi, prova a riproporre il testo sostituendo quei segni con le classiche virgolette (“…”).

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 22:10 da Massimo Maugeri


@ Tessy, bravissima!!! Un premio in mani e cuore di pura poesia! Un bacio grandissimo dalla tua Simo

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 22:11 da simona lo iacono


Un saluto e un ringraziamento anche e all’amico Andrea Tricomi, che con piglio artistico riesce a immortalare, nelle sue fotografie, importanti momenti letterari.
Grazie, Andrea.
—-
E grazie anche a Giancarlo Marino per il suo commento.

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 22:12 da Massimo Maugeri


Infine ci tengo a salutare e a ringraziare Vera Addamo.
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Cara Vera, il ticchettio della olivetti di tuo padre ritorna oggi, risuonando tra le parole belle spese all’interno di questo luogo virtuale chiamato Letteratitudine.
Un abbraccio a te, a tua sorella e a tua madre.

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 22:19 da Massimo Maugeri


Mi permetto di trascrivere questo brano, tratto da “Il giudizio della sera” di Sebastiano Addamo (edizione Bompiani, pag. 154)
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Il giorno seguente fu domenica. Giorno di sole caldo e forte. Mi ero alzato tardi, ero voluto restare a letto anche da sveglio. Udivo i rumori della casa, i tiepidi suoni delle mattine. Udivo i passi della padrona lungo il corridoio e in cucina; gli altri rumori che venivano da fuori: voci di gente, richiami, il suono lontano e polveroso del tram che transitava da via Coppola. I miei compagni s’erano già alzati, stavano sul balcone, le loro voci e le loro risate filtravano dalle imposte, forse stavano ricordando l’avventura della sera avanti. Allegri perché era il giorno in cui sarebbero arrivati i loro genitori: avrebbero portato altra roba e altri soldi. Mio padre – sapevo – non sarebbe venuto, mi aveva scritto che aveva troppi affari, ma mentiva, in realtà non aveva soldi e stava male. Guardavo le sottili strisce di sole che trapelavano dalle imposta, le guardavo senza altri pensieri.
M’alzai che il giorno era avanzato. Non mi chiedevo nulla della sera avanti. Non m’importava.

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 22:46 da Massimo Maugeri


@ Vera Addamo
Mentre trascrivevo questo brano ascoltavo il rumore ritmico della tastiera del mio pc, e ho immaginato il ticchettio della olivetti di tuo padre mentre fissava sui fogli bianchi queste stesse parole.
M’alzai che il giorno era avanzato. Non mi chiedevo nulla della sera avanti. Non m’importava.
Parole e suoni che ritornano e che uniscono, al di là del tempo e dello spazio.
Ancora grazie per il tuo intervento.

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 22:52 da Massimo Maugeri


Auguro a tutti una serena notte.

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 22:53 da Massimo Maugeri


Simona carissima, che gioia ricordare il nostro speciale equinozio di stelle che si riflettono su un bianco manto di neve! Grazie ancora per averci ricordato che le “parole belle” salvano!

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 23:12 da Laura Marullo


Non conosco Sebastiano Addamo ma dagli interventi critici e dai vostri post ho inteso riconoscere in lui la pregevole razza degli scrittori siciliani che amo e ammiro (tra questi l’adorato Tomasi di Lampedusa, Consolo, Bufalino, Brancati, il mito Pirandello), per cui leggerò “Il giudizio della sera”. Condivido il primo intervento di Simona Lo Iacono (il fascino del mondo siciliano, della sua letteratura risiede molto, a mio avviso, nello storico dialogo tra il principe di Salina e il sabaudo Chevalley ed è questa passionalità unita ad un crescente senso della morte che innalza gli scrittori siciliani ) e la ringrazio per aver citato “Il Gattopardo”, romanzo che ha accompagnato a lungo il mio sentire letterario. Mi intriga anche la domanda di Massimo Maugeri, che saluto. Il mio giudizio della sera è difficile da esternare, caro Massimo, è un giudizio che dovrebbe andare oltre l’inquietudine e il malessere che spesso accompagnano i nostri giorni. Però è anche fatto di vita, di solchi quotidiani ed è questo, infine, che dobbiamo accettare e sul quale meditare se vogliamo esprimere altri mondi e altre vite. Delia Morea

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 23:28 da delia morea


Simona, Massimo
che come Sebastiano Addamo confidate nel potere della parola, nella capacità degli intellettuali di guidare le coscienze, vi trascrivo una “chiosa spiegativa” del romanzo affinchè accompagni i sogni di questa notte:
“(E anche questo rimane alle nostre spalle. Rimane alle nostre spalle l’antifascismo dei professori, dei poeti, la ‘religione della libertà’ dei filosofi, una gloria, forse una nobiltà, o l’alibi della buona coscienza, una tristezza. L’allegoria del professore Sanfilippo; l’allegoria di Benedetto Croce e della sua Storia. Una gloria, certo: se la letteratura sarà mai ribellione o non semplicemente l’abito voluttuoso della inetta speranza; se l’Arcadia sarà mai rivoluzione; se il silenzio valga la parola; se la parola possa davvero essere azione; se la letteratura del ‘nulla da dire’ sarà stata una scelta, o non una fuga. Se, insomma, la scaltra coscienza dell’intellettuale valga le rozze mani del cafone; se essi – i professori, gli intellettuali – sono avanti o sono indietro.) La cartina di tornasole. Ma forse bisognerà sempre guardare a loro: gli intellettuali. Guardare i loro movimenti così spontanei, i piccoli impercettibili movimenti e mutamenti, le loro angosce così pure e dure, così capziosamente liberali, così untuosamente liberali; a loro guardare per sapere quale è la posizione più utile”. (pp. 89-90, ed. Bompiani.)

Postato venerdì, 25 settembre 2009 alle 23:35 da Laura Marullo


Non conoscevo Sebastiano Addamo né la Sicilia raccontata da lui. Nessuno me ne aveva mai parlato e io non mi son mai preso la briga di spulciare i vecchi cataloghi delle case editrici. Ma sono tanti gli scrittori poco conosciuti se non del tutto sconosciuti che hanno detto mille cose, descritto mille vite, anche le più umili e imbarbarite, e denunciato mille vizi, mille atrocità. Tanti. Come tanti sono gli scrittori che Ermanno Cavazzoni in un suo “manualetto bizzarro e surreale” definisce inutili.
Addamo non è certamente inutile e benissimo hanno fatto Sarah Zappulla Muscarà e la Bompiani a riproporcelo. Anzi, a riscoprirlo, a farcelo leggere per osservare e cercar di capire una Sicilia che – ditemi se esagero -, incapace di reagire alla diffusa misera morale, “maledice” persino il suo magnifico sole.
Cordialmente.

Postato sabato, 26 settembre 2009 alle 03:33 da Ausilio Bertoli


@Ausilio.
Non condivido l’ultima frase, che mi sembra troppo forte. Nel Sud in generale, dove miseria e ignoranza sono preponderanti rispetto alle città del Nord, è più facile che si ramifichino il malaffare e gli intrecci politico-mafiosi. Anche perché non esiste libertà di voto quando si è schiavi del bisogno e la gente si offre al miglior offerente finendo con il lasciarsi rappresentare dalla classe dirigente peggiore. Ma “la diffusa miseria morale”, se mi permetti, è un “patrimonio” nazionale. Basti vedere lo spettacolo indecente che stanno dando ultimamente i nostri rappresentanti di governo. Tornando al Sud, è anche vero che là dove maggiore regna lo scempio, più forte si leva il grido di dolore dei suoi figli migliori, gli intellettuali veri, i cani da guardia, coloro che non si rassegnano al ruolo di vinti. Ed ecco che fioriscono scrittori del calibro di Verga, De Roberto, Bufalino, Addamo. Là dove più forte è il malessere, più forte è lo spirito di ribellione. Credo sia un fatto fisiologico, anticorpi che si creano per difendere il territorio.

Postato sabato, 26 settembre 2009 alle 08:37 da Salvo zappulla


INTERVISTA A SEBASTIANO ADDAMO PUBBLICATA SUL SETTIMANALE “CENTONOVE” (1996).
E’ FORSE L’ULTIMO INTERVENTO SULLA SUA POETICA

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Il suicidio, per la sua grande valenza mataforica, ha sempre rappresentato la morte poetica per eccellenza. Anche il non dire, oltre alla lettera o il messaggio lasciato ai propri cari, ha una comunanza di significato con la simbologia estrema della poesia: il vuoto, il nulla. E poco tempo fa si lanciava nel vuoto dalla sua abitazione romana Amelia Rosselli, poetessa. Oggi, che senso ha scrivere poesie? Ne abbiamo parlato con uno dei maggiori scrittori siciliani: Sebastiano Addamo.

domanda: Qualche sera fa Alda Merini, Giuseppe Conte e Maurizio Cucchi, tre poeti, commemoravano in Tv Amelia Rosselli. Ci si ricorda della poesia solo quando un poeta muore ?
Addamo: Assolutamente no, era giusto che se ne parlasse. Io stesso ho scritto un articolo sulla Rosselli.
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domanda: Si può affermare che la poesia non viene presa molto in considerazione in questo paese?
Addamo: La poesia ha gli spazi che deve avere, non ne possiede molti,ma li ha e questo è un dato di fatto. La nostra poesia è da leggere e non da ascoltare.
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domanda: Che ruolo ha la poesia alle soglie del duemila?
Addamo: Io stesso potrei chiedere: che ruolo hanno la filosofia, il cinema o la narrativa? Io, per esempio,trovo la narrativa noiosa. La poesia ha degli elementi eroici. I giovani che si accingono a scrivere versi sanno in partenza che non troveranno gloria o successi. La poesia è condannata all’insuccesso: non ci sono editori e non c’è pubblico. Ma d’altro canto esiste una rivista specializzata che si chiama “Poesia” che ha un suo pubblico e non è cosa da poco.
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domanda: Un autore che si è cimentato come lei nella narrativa e nella poesia, ha trovato (se ce ne sono) differenze di motivazione?
Addamo: Diverso tempo fa scrissi su “Poesia” del perchè io sia passato dalla narrativa alla poesia. Ora non riesco più a pensare a libri di narrativa. E’ vero che qualcuno ha affermato che i siciliani sono per la prosa mentre i settentrionali sono per la poesia, quando invece il nord ha avuto uno scrittore come Carlo Emilio Gadda.
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domanda: I siciliani in questo secolo si sono rivelati dei grandi affabulatori. Forse, allora, che a causa di ciò non sia loro congeniale il verso?
Addamo: Non credo. Quasimodo è un grande poeta. E’ vero, ci sono stati Verga, Pirandello, Sciascia. C’è una corrispondenza fra l’indole dei siciliani e il racconto, ma la narrativa non può essere racchiusa in un trattato di sociologia.
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domanda: Negli ultimi anni sono venute fuori molte autrici. Come si spiega questo fenomeno? E’ forse una condizione di riscatto rispetto al clichè della donna tradizionale siciliana?
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Addamo: Potrei rispondere con una battuta di uno scrittore tedesco: “Perche’ non hanno niente altro da fare”. Non penso che le donne abbiano il bisogno di riscattarsi con la pagina. Oggi, in tutta Italia, molte donne scrivono. In Sicilia le donne hanno avuto la possibilità non solo di scrivere ma anche di farsi leggere; tanti anni fa non accadeva,le scrittrici erano poche. Si pensi , per esempio, che cinquant’anni fa la donna frequentava le scuole pubbliche e si ritirava due mesi prima di conseguire il diploma. Perché, appunto, si diceva, che la donna studiasse per bellezza, per cultura personale, e non per fini professionali. Nella poesia oggi avviene un livellamento tra uomini e donne. Nella narrativa ci vuole più tempo, una poesia si strappa e si rifà, con i romanzi è più difficile. Non è certo una casualità che la donna tende sempre di più a forme immaginative ma non penso che ciò rappresenti una forma di riscatto.
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domanda: Che tipo di autore è Sebastiano Addamo?
Addamo: Io non riesco più a scrivere in prosa, mi sono giovato in passato del racconto per costruirmi negli anni un’intonazione poetica. Io ho molto lavorato sulla pagina e con la pagina. Io oggi scrivo poesie solo perchè la narrativa non mi interessa più. Ma non rinnego il mio passato, è solo che oggi prediligo i versi, non credo più nel romanzo.
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domanda: Possiamo dunque concludere affermando che per lei la narrativa è stata la formazione, l’iniziazione?
Addamo: Non credo, di solito avviene il contrario, si comincia con la poesia e con la poesia io concludo.
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Domenico Trischitta

Postato sabato, 26 settembre 2009 alle 09:14 da domenico trischitta


Ciao a tutti,
non conoscevo Sebastiano Addamo e leggendo tutti i commenti e i brani riportati e le interviste mi è venuta una gran voglia di conoscerlo. Dunque comprerò il libro. Grazie a Maugeri di avermelo fatto scoprire!
Mi hanno molto colpito i passaggi di Addamo dove descrive gli odori, e i gatti che si rincorrono sui tetti, si tratta di “schizzi” ma sembra proprio di vederli e di sentirli quei gatti. E gli odori descrivono così bene il quartiere di Catania che l’autore vuole descriverci, o meglio vuole suggerirci. Incredibile come gli odori possono farci immaginare case, e vicoli e stradine ecc… Eppure l’odore delle cose è “cosa” ben diversa dall’immagine di quelle stesse cose. Molto affascinante a pensarci bene. Non so perché leggendo mi è ritornato alla mente un brano de “Il tropico del Capricorno” dove, attraverso gli odori, Henry Miller descrive il quartiere di Brooklyn dove era cresciuto. E ho anche pensato a ciò che ho letto recentemente in “On Writing – autobiografia di un mestiere” dove Stephen King afferma che la scrittuta instaura una telepatia tra autore e lettore. Beh, nel caso di Addamo è proprio vero!
Un caro saluto a tutti
Claudia Marinelli.

Postato sabato, 26 settembre 2009 alle 09:22 da Claudia Marinelli


Sebastiano Addamo ammirato da scrittori e poeti.
Riportiamo un giudizio del poeta Dario Bellezza su i quattro grandi della letteratura siciliana

Domanda:Cosa pensa degli scrittori siciliani?

Bellezza: Amo Sciascia. Ammiro la prima produzione di Consolo; Bufalino mi sembra uno scrittore degli anni trenta. Ho rispetto per la scrittura di Addamo.

Postato sabato, 26 settembre 2009 alle 10:25 da domenico trischitta


Ripropongo le parti mancanti degli articoli da me citati in precedenza:

“L’esorcismo degli odori”, La Sicilia, Catania, 13 aprile 1988

“Ogni puzzo è immondo e ripugnante, scombina l’ordine, introduce coefficienti di alterazione e di sospetto. Inarrestabilmente, senza riparo e difese, penetra ovunque, viola l’isolamento dell’individuo, costringe ad adattamenti e convivenze disgustose e frustranti. E’ contagio pestifero, evoca l’oscuro, l’inferno, segnala il male e l’orrore.
Eppure, fa un po’ paura venire a conoscere, dai giornali, di certi esperimenti che in Giappone si vanno conducendo diretti a eliminare il puzzo dagli escrementi espulsi dall’uomo. Fa paura questa igiene portata fino all’osso. Fa paura la prospettiva di una società millimetrica, assideratamente asettica, tutta ordine e calma, regole e antidoti, capace di entrare dappertutto, fin dentro l’uomo, nelle sue stesse viscere”.

“Nudi di tutto”, La Sicilia, Catania, 6 febbraio 1991

“La guerra è sempre un trauma, un’ inquietudine, un’angoscia sottile e persistente. Ciascuna ha i suoi motivi (palesi e occulti), però ben presto, quando la guerra sarà fitta e cieca, i motivi si sperdono, c’è soltanto il combattere e il sopravvivere. Non è per caso che Albert Camus abbia elaborato la nozione dell’ “assurdo” negli anni 1940-41; cioè dentro il cuore della Seconda guerra mondiale, in mezzo alle atrocità e alle efferatezze che una guerra comporta.Si esce da una guerra come nudi e spogliati di tutto. Le categorie e i valori che hanno sorretto individui e popoli, saltano, diventano vecchi e vuoti.
Gli adulti possono discutere sul giusto e sull’ingiusto, possono capire e comprendere. I bambini no: essi non sanno, vivono al di qua del bene e del male, e rispetto a loro qualsiasi guerra è ingiusta e illegale”.

“Il sesso in testa”, La Sicilia, Catania, 22 maggio 1989

“I puri pensatori, non tutti per loro fortuna, trascurano certe cose, che i poeti invece afferrano. Baudelaire in un luogo dei suoi Diari sostiene che quando si pensa non si hanno spasimi sessuali. William Blake, pur nel suo misticismo, lega assieme non solo cielo e inferno, ma anche la carne e lo spirito. Plotino è mistico, egli cercò l’estasi, che è abolizione di ogni alterità. Secondo Cartesio l’uomo non ha da fare con la donna, come lo spirito non ha da fare con la materia e i corpi e tutti gli istinti. Kant precluse all’uomo la possibilità di poter andare nel fondo delle cose, cogliere la realtà in sè. Spinosa, da impotente com’era, riconobbe la netta separazione tra l’ordine delle idee e l’ordine delle cose, due parallele che solamente in Dio si congiungono. Ma non nell’uomo”.

Ci tenevo a fornire un “assaggio” dell’Addamo giornalista, di un intellettuale impegnato, attento alle questioni sociali e civili, capace di discutere sui problemi del suo tempo, cercando di stimolare tutti alla rilfessione e a trovare il coraggio di prendere delle decisioni al fine di migliorare la società, soprattutto per ridare speranza alle giovani generazioni.

Postato sabato, 26 settembre 2009 alle 11:23 da Valentina Miraglino


La sera, come atto finale del giorno, induce inevitabilmente alla riflessione. Per me è sempre un’occasione a cui non volterò mai le spalle, per non rischiare di dover affrontare il giorno che verrà con minore consapevolezza.
Tanta fortuna a questo libro di Sebastiano Addamo.

Postato sabato, 26 settembre 2009 alle 14:43 da Leonardo


@ Salvo Zappulla

Ci ho riflettuto: è vero, hai ragione. Perfettamente ragione.
Un saluto cordiale, A. B.

Postato sabato, 26 settembre 2009 alle 18:18 da Ausilio Bertoli


Ho conosciuto Sebastiano Addamo a metà degli anni novanta. Un uomo asciutto, di grande rigore, nemico di ogni vezzo compreso quello di “fare l’artista”: infatti lui era DAVVERO Sebastiano Addamo.
Ho collaborato con lui per adattare per la scena alcuni suoi testi tra cui il racconto “Fine di una giornata” (in “Non si fa mai giorno”, Sellerio, 1995). Il monologo ha debuttato nel 2005 ed è stato pubblicato nel 2008 dalla casa editrice La Cantinella. Il pezzo che segue, apparso come articolo sul quotidiano “La Sicilia” nel 2005, è stato ristampato nel volumetto come postfazione.

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LA PROVINCIA INQUIETA

Sebastiano Addamo mi accoglieva con uno dei suoi sorrisi cordiali ma cauti. Di lui avevo letto quasi tutto e non facevo fatica a identificare in quell’uomo minuto e provato da un brutto male, l’artefice delle pagine che avevo amato. Nel suo caso la distanza tra l’uomo e l’opera era minima. Era la metà degli anni novanta.
A Catania Addamo era nato nel 1925, ma vi si era trasferito da pochi anni. L’infanzia e l’adolescenza le aveva
trascorse a Carlentini, in provincia di Siracusa. Dopo aver insegnato per tanti anni filosofia al liceo, «per non avere più un preside» era diventato preside a sua volta.
Pur vivendo in provincia e avendo scelto la provincia come punto di osservazione del mondo, in Addamo non c’era niente di provinciale. Del resto per lui la provincia non era stata un destino da scontare. Quando negli anni settanta Livio Garzanti gli propose di trasferirsi a Milano per lavorare nella sua casa editrice, Addamo scelse di restare a Lentini, preferì continuare a fare il preside. Temeva, abbandonando la provincia con la sua piccola borghesia, di perdere una delle principali fonti d’ispirazione.
Amante della sintesi e delle forme brevi, nei suoi versi ha cantato il malumore, l’amarezza, il furore di chi anelando a una qualche forma di chiarezza finisce per trovare solo verità negative. Anche le sue pagine narrative sono attraversate dai risentimenti dell’uomo di fine novecento, spaesato negli scenari della tarda modernità. Per i suoi personaggi Addamo sembra non vedere speranze, li reputa condannati a un destino di solitudine e di nichilismo. Eppure ci ha regalato anche pagine piene di incanto come quelle raccolte in “Le abitudini e l’assenza”, libro della nostalgia per la provincia che fu.
Addamo non era un uomo dal carattere facile. Polemico, severo, pretendeva dagli altri il rigore che imponeva a se stesso. Superata però l’iniziale diffidenza diventava un conversatore appassionato. Io ero poco più che un adolescente e ascoltavo affascinato i suoi giudizi e i suoi aneddoti intorno a mezzo secolo di cultura siciliana. Mi parlava della sua ammirazione giovanile per Elio Vittorini e degli incontri palermitani con Leonardo Sciascia, delle liti furibonde con il poeta Bartolo Cattafi e del dispiacere per la fine della cinquantennale amicizia col filosofo Manlio Sgalambro.
Amava ripetere che alla professione letteraria aveva sempre anteposto i doveri familiari. «Tra l’acquistare un libro o delle scarpe nuove per mia figlia, non ho mai avuto dubbi». Era difatti per una letteratura fedele alle ragioni della vita più che al compiaciuto esercizio di se stessa.
Lavoravamo a uno spettacolo che non riuscì ad andare in scena, uno spettacolo fatto tutto di testi suoi. Tra i pezzi c’era il monologo “Fine di una giornata”, versione teatrale dell’omonimo racconto che realizzai con la sua supervisione. Quando “Fine di una giornata” ha infine debuttato nel 2005, Sebastiano Addamo purtroppo non c’era più.

Postato sabato, 26 settembre 2009 alle 21:19 da Massimiliano Perrotta


Cari amici, vi ringrazio tutti per i nuovi commenti pervenuti.

Postato sabato, 26 settembre 2009 alle 21:41 da Massimo Maugeri


Ringrazio intanto lo scrittore e regista Massimiliano Perrotta per essere intervenuto.
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Caro Massimiliano, se è possibile potremmo riprodurre un brano tratto dal monologo teatrale qui di seguito tra i commenti. Che ne dici?

Postato sabato, 26 settembre 2009 alle 21:44 da Massimo Maugeri


Ci tengo a ringraziare – per i loro interventi – la cara Delia, Claudia Marinelli (grazie a te, Claudia), Valentina Miraglino (grazie per aver inserito la versione completa del precedente contributo), Leonardo, lo scrittore Ausilio Bertoli.
Un ringraziamento ulteriore a Domenico Trischitta per averci offerto questa bella intervista pubblicata su Centonove (Mimmo, l’ho “sistemata” graficamente evidenziando in grassetto le domande).

Postato sabato, 26 settembre 2009 alle 21:49 da Massimo Maugeri


Vi ricordo che domani, domenica 27 settembre, alle 18.00, presso il Centro Fieristico “Le Ciminiere” di Catania (viale Africa), avrà luogo la cerimonia di premiazione della III Edizione del Premio Letterario Internazionale «Sebastiano Addamo».

Postato sabato, 26 settembre 2009 alle 21:50 da Massimo Maugeri


Per chi volesse cimentarsi con ulteriori risposte, ripropongo le “domande” del post:
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- qual è il giudizio della vostra sera?
-
- il giudizio della sera è più un trampolino di lancio o un ostacolo per il giorno (o il periodo) che verrà?

Postato sabato, 26 settembre 2009 alle 21:53 da Massimo Maugeri


Auguro a tutti un buon sabato sera e una splendida domenica.

Postato sabato, 26 settembre 2009 alle 21:53 da Massimo Maugeri


AGLI AMICI SICILIANI: DUE O TRE COSE CHE SO DI VOI

Come ho già avuto occasione di dire, in Sicilia ho trascorso gli anni del liceo. Un’età importante e un periodo, la seconda metà degli anni ’50, nel quale si verificavano le prime grandi contaminazioni della cultura giovanile. A descriverne l’intreccio tra sussulti liberatori e residui ancestrali ci vorrebbe la grazia ironica e, ahimè anche un po’ nostalgica, di Giuseppe Tornatore. Ma rischio di prenderla alla lontana. E devo invece essere breve, nello stile di un blog e delle mie “lucciole”, presenti ed ignorate in questo sito, ma non per ciò meno ricche, come si conviene nel loro piccolo, di palpiti e luci intermittenti.
Partirò dalla cosiddetta insularità, addotta da Sgalambro a spiegazione di una vocazione alla cultura di morte dei miei amici siciliani. Semplifico, è chiaro, ma proprio per mostrare che ridotta al suo concetto essenziale la verità della tesi si commenta da sola. Ci sono isole che hanno fatto della propria insularità l’occasione per dominare i mari e Venezia, che davvero ha dovuto contendere all’Adriatico la propria esistenza, ha trovato in ciò la conferma vitale del suo destino. Più in generale e per restare più vicini ancora alle sponde della Magna Grecia, credo basti ricordare le celebri isolette carezzate dalla spuma di Venere e rese feconde dal suo sorriso. Immagini di vita e del suo momento aurorale, del tutto opposte a una cultura di morte.
Quando dunque si sostiene il legame di cui sopra, magari per un improvviso cedimento di una naturale criticità, ecco la prima cosa che mi sento di dire: un tratto distintivo della cultura siciliana è il gusto dell’iperbole. Poco importa se l’affermazione sia falsa o vera: conta invece la sua capacità suggestiva o per meglio dire onirica. Come gran parte della cultura barocca, l’iperbole nasce da un dubbio o un’opposizione insanabile del reale e porta, essa sì al proprio interno, una vocazione mortale. E’ un aspetto che quando giunge alla coscienza dei grandi narratori siciliani si trasforma in arte. Ma accade solo a pochi. Il che non sorprende, visto che un tale esercizio, per non degenerare in mania richiede costante capacità di dislocazione: Pirandello, per tutti, è il maestro esemplare. E Sciascia? In un certo senso è l’iperbole di segno opposto: la scrittura ripulita sino al fantasma essenziale, cui fa sempre da contrappeso l’indagine di una verità imprendibile.
E veniamo così alla seconda cosa che mi sento di dire. Il gusto del fantastico, variamente mescolato ai dati della memoria, è un tratto distintivo della cultura araba. Per un arabo, mi spiegavano decenni fa, quando mi addentravo nei loro territori, il passato non sta alle spalle, come accade agli occidentali, ma dinanzi agli occhi. Il passato non permane dietro ma davanti a noi: cominciate un po’ a pensarci e farete i primi passi nell’anima di un siciliano. Il passato non passa mai.
Terribile? Dipende. Per l’arabo il passato è anche una promessa di futuro. E perciò non c’è da stupirsi se la gran parte di loro non solo sogna ma crede fermamente nel ritorno dei fasti dell’Islam. Per il siciliano invece il passato è una rovina splendente, senza connessione con il futuro e per larga parte indecifrata. Il passato non tornerà e c’è persino da dubitare che sia mai esistito. Le culture fiorite in Sicilia, secondo quella magnifica iperbole che è il principe di Salina, sarebbero tutte straniere. Un po’ come il pastore che mirava sul colle, tra i rovi, i resti solitari di Segesta. E credo sarebbe inutile spiegare al principe, innamorato com’è della sua iperbole, che tolti i fenici, i greci, i romani, i bizantini, gli arabi, i normanni, i francesi, gli spagnoli…e prima di loro i vari sussulti e continui incroci delle culture mediterranee, tolti tutti questi apporti non resterebbero più neppure i siciliani. E viceversa senza la Sicilia e i siciliani le civiltà sopra ricordate sarebbero mutilate di una parte vitale. In realtà il principe da bravo gattopardo coccola tra le unghie il suo sogno di immobilità, guardandosi bene dallo spingere il proprio pessimismo sino a negare, come dovrebbe essere logica conseguenza, i suoi quattro quarti di siciliana nobiltà.
Vengo così alla terza e ultima cosa: il gusto dell’inazione. L’immobilità mortale, assaporata insieme al profumo degli aranci, ai dolci troppo dolci, ai versamenti del sesso, agli ippogrifi della mente. Non a caso Lampedusa adorava i francesi e quanto Baudelaire, mi verrebbe da dire per quel gusto d’iperbolico che un poco mi è rimasto, c’è in ogni siciliano… Ma qui conviene seguire passo passo Sciascia e, lasciati i territori della letteratura, di per sé sempre un poco ambigua, ricordare che il guaio del siciliano si chiama famiglia, assunta a sostituto dello stato, ed estraneità non solo alla religione cattolica ma alla forma di ogni pensare o intimo sentire religioso. Esasperando un poco l’analisi di Sciascia si è tentati di dire che ogni idealità rischia di apparire a un siciliano autentico come un cavallo alato. Ci sono gli eroi, certo. Ma che altro sono se non scontri di latta agli occhi di un inguaribile puparo.
La mia città era Messina, di poco posteriore al periodo della guerra, e non la Catania descritta da Sebastiano Addamo. Ma i segni della fatiscenza c’erano ancora, aperti come ferite in vari luoghi della città.
Oggi le forme sono mutate ed altre sono le ferite. Forse non c’è più nemmeno quell’iperbole assoluta che per noi era il sesso. Non la donna, si badi bene, e nemmeno i suoi attributi femminili. Di amore non è il caso di parlare. Ma un organo genitale maschile trasfigurato, sontuoso, da paragonare alle irruzioni laviche e alle folli fioriture: la Minchia, il tropo di ogni discorso, l’alfa e l’omega di un continuo peregrinare. Sino ai margini delle caserme e ai fuochi di puttane. Sembrava che tutto dovesse trasformarsi in tributo al suo dominio. Una divinità? Macché. Niente di più estraneo. Un sogno di morte? Un giovanile cupio dissolvi? Non so. Di certo nulla sembrava rispondere al nostro strazio quanto un abbraccio frettoloso e il fatto di percepirci nell’istante dello spasimo delusi e sconfitti. La Minchia trionfava su di noi. Ed era, inutile dirlo, una Minchia atavica e surreale. Fu tra i motivi per cui decisi di tornare al Nord. Ero straniero e quel gioco o rito che fosse non valeva per me nemmeno lo strofinìo di un fiammifero.
Addamo per quanto ne so decise di restare. Non conosco il suo lavoro, ma se devo leggere tra le righe della pagina proposta su letteratitudine mi sembra che l’iperbole nel suo caso abbia assunto la forma di un fiume in piena, che dilaga oltre il romanzo nei territori dell’analisi sociale e della riflessione filosofica. Un modo anche questo di cercare nel muro del silenzio un punto di rottura. Mi auguro che ci sia riuscito.
Chissà. Forse qualcuno contemplando da laggiù la sua perenne sera vedrà queste parole insieme a tante altre disperdersi tra bagliori e nubi veleggianti sopra il fuoco. Non so dargli torto. Ho amato anch’io i tramonti siciliani. Ma la mia sera è un’altra. E ripercorro con i versi amati le orme che ancora vanno al nulla eterno. Pensando a questa magnifica contraddizione tra il nulla che non è e l’eterno che è per sempre. Una contraddizione feconda, che sempre mi richiama alla vita. E non c’è giudizio alcuno. Grazie a Dio non tocca a me giudicarmi.

Postato sabato, 26 settembre 2009 alle 22:15 da Antonio Bianchessi


grazie a dio non tocca a noi giudicarci, certo. è questa è una gran bella comodità che però non ci impedisce di giudicare gli altri, vero?
come ho scritto nel commento del 23 settembre il mio, di giudizio, è momentaneamente sospeso, e forse dovrei preoccuparmi. ma apprezzo chi ha il coraggio di giudicarsi rinunciando a sentenziare sugli altri.
prima o poi, forse, ci riuscirò anch’io.
grazie ancora per l’occasione di riflessione.

Postato sabato, 26 settembre 2009 alle 22:58 da amedeo


Ho appena terminato ‘Il giudizio della sera’.L’ho trovato di estrema qualità, con una scrittura molto efficace.Mi piacerebbe leggere altro di questo autore

Postato domenica, 27 settembre 2009 alle 03:23 da Lorella Valeri


@Antonio Bianchessi: non trovo che le tue “lucciole” rimangano inascoltate in questo sito. Forse a volte non c’è una risposta immediata, ma il contributo che si offre a una discussione non risiede nel voler avere un riscontro. Solo nel confluire, nell’unire il proprio sguardo.
Nella gratuità.
Poi, si viene sempre letti. Come ti ho letto io, ricordo, in un lontano commento sul post di Camon…se non erro.
Il primo ippogrifo da sfatare credo dunque sia quello del commercio, del fare una cosa solo per ottenerne un’altra, là dove , in questo blog, non viene chiesta che una voce.
E una voce esiste per pura necessità. Per puro dono.
Passando poi alle tue osservazioni sui siciliani, visti da una prospettiva altra e da un tuo tuffo adolescenziale, posso dire (da maschio e da settentrionale ) che la Sicilia non fa tutto da sè (tanta questione meridionale non sarebbe altrimenti sorta). Non c’è autocompiacimento nel “non fare”, nel lasciarsi accalorare da visioni di membri maschili…ma dolore.
Il sesso, in Addamo, come nel siciliano, è il sogno ribaltato, la pietà e la forza traumatizzata, non è solo “minchia”.
E sarebbe d’altra parte riduttivo pensare solo a una sensualità materiale, quando in Addamo la sensualità è dello spirito e del cambiamento, della paura, della fragilità innanzi alla distruzione.
Senso del destino che si dilata e che non è solo dell’isola.
Ma del mondo tutto. Dell’uomo tutto quando vede da lontano arrivare la morte. Quando si percepisce per quel che è…poca cosa innanzi a uno sconfinato e mai indagato mistero.
Non si spiegherebbe altrimenti l’impatto di tanta letteratura meridionale sull’immaginario collettivo nazionale e mondiale…(a partire, in ultimo, da Camilleri)…se non pensando che i temi toccati sono eterni e che è insulare solo la prospettiva (ma l’angolazione dello sguardo, la sua trasversalità, è un arricchimento per l’arte).
Forse i siciliani, a partire dall’isola, sanno interpretare il cuore di ogni uomo.

Postato domenica, 27 settembre 2009 alle 10:27 da trevisan gianmaria


@dimenticavo…ho vissuto anche io in Sicilia!

Postato domenica, 27 settembre 2009 alle 10:31 da trevisan gianmaria


Qual è il giudizio della vostra sera?
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Un giudizio, che a volte, fa tremare i olosi. Ma sono d’accordo con chi ha scritto in precedenza che è meglio provare a guardarsi dentro, anche se fa male, piuttosto che far finta di nulla.

Postato domenica, 27 settembre 2009 alle 10:34 da Vanni


fa tremare i polsi

Postato domenica, 27 settembre 2009 alle 10:34 da Vanni


Più che giudizio parlerei di bilancio per me. Abbiamo sempre così tanta fretta di giudicare, invece potremmo semplicemente guardarci alle spalle e considerare il passato in un’ottica positiva e con la coscienza di aver agito in buona fede. Ciò che abbiamo fatto bene ce lo riproponiamo per il futuro, ciò che invece non ci ha soddisfatto beh lo potremmo analizzare per agire in fututo in modo migliore. Senza rimpianti che portano via tante di quelle energie!
Il bilancio della sera o il giudizio della sera io lo concepisco così.
Un saluto a tutti
Claudia.

Postato domenica, 27 settembre 2009 alle 11:04 da Claudia Marinelli


@ Carissimi Simo.. e Masssimo, grazie per la gentilezza di aver segnalato
un mio premio. Sono alquanto confusa e commossa, mi sento un misero
ed artrosico nulla in confronto al grande scrittore che stiamo celebrando.
A Lui e solo a Lui e alla Sua famiglia, devono essere rivolti tutti gli elogi e gli onori per essere divenuto, con rigore ed onestà, la coscienza storica dell’amata Sicilia e un attendibile testimone di quel tormentato periodo che anch’io ho vissuto sulla mia pelle di bimba.
Affettuosamente grata.
Tessy

Postato domenica, 27 settembre 2009 alle 12:10 da M.Teresa Santalucia Scibona


Cari amici, buona domenica a tutti. Ho poco tempo, ma cercherò di interagire con qualcuno di voi.

Postato domenica, 27 settembre 2009 alle 12:20 da Massimo Maugeri


Carissima Tessy, il premio alla carriera andava senz’altro segnalato. Ti rinnovo gli auguri e i complimenti e ne approfitto per salutarti con l’affetto di sempre.

Postato domenica, 27 settembre 2009 alle 12:22 da Massimo Maugeri


@ Antonio Bianchessi
Caro Antonio, mi rifaccio al commento di Gianmaria Trevisan: mi ricordo anch’io di un tuo intervento su un post dedicato a Ferdinando Camon (La malattia chiamata uomo). Me ne sono accorto in ritardo anche perché si trattava una discussione conclusa da tempo… ma poi ho scritto qualcosa in seguito al tuo corposo commento. Qualcosa di molto stringato, in verità. Credimi, faccio del mio meglio per interagire con tutti… ma non sempre il tempo disponibile è sufficiente per replicare in maniera analitica, come mi piacerebbe fare.
In merito al tuo iperbolico commento rilasciato in questo post, mi trovi senz’altro d’accordo nel riconoscere Pirandello come il maestro esemplare.
E ti preannuncio che – quanto prima – dedicherò un post proprio a Pirandello (e al figlio Stefano).
Tanti saluti alla tua iguana brasileira ghiotta di mortadella.

Postato domenica, 27 settembre 2009 alle 12:32 da Massimo Maugeri


Un caro saluto anche ad Amedeo, Lorella e Vanni.

Postato domenica, 27 settembre 2009 alle 12:32 da Massimo Maugeri


@ Gianmaria Trevisan
Grazie mille per il tuo intervento, che condivido in pieno.

Postato domenica, 27 settembre 2009 alle 12:34 da Massimo Maugeri


@ Claudia Marinelli
Hai ragione, cara Claudia: prendere il meglio delle esperienze pregresse e utilizzarle come base per migliorarsi. Sono d’accordo.

Postato domenica, 27 settembre 2009 alle 12:36 da Massimo Maugeri


Avevo preannunciato che, in coda alla discussione, avrei aperto una finestra sul romanzo di Domenico Trischitta, “Una raggiante Catania” (Excelsior 1881).
Pubblico, nel commento di seguito, la postfazione al libro firmata da Tommaso Labranca.

Postato domenica, 27 settembre 2009 alle 12:44 da Massimo Maugeri


Una raggiante scrittura*
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Visto al telegiornale, nei giorni dei suoi imprevisti ritorni all’attività, l’Etna è una massa nera che si accende del rosso della sua lava. Ho ripensato subito a quelle immagini, leggendo per la prima volta questo romanzo di Domenico Trischitta. Perché mi ha fatto cambiare idea sui colori di Catania che per me era una città in bianco e nero. Il bianco e nero delle immagini di film importanti come Divorzio all’italiana o Il bell’Antonio. Il bianco e nero della canzone quasi omonima di Carmen Consoli. Leggo Trischitta e riga dopo riga Catania diventa una città-specchio del vulcano che la sovrasta e di cui imita i colori: la osservo passare dal nero della politica al rosso del sangue, dal nero di una città violenta al rosso brillante di una città raggiante.

Il romanzo di Trischitta narra proprio della metamorfosi di una città che procede di pari passo con la crescita interiore di un ragazzo. Il ragazzo forse è lui stesso, ma non importa. Anche perché Trischitta entra ed esce dal personaggio, facendolo diventare alternativamente narratore e oggetto della narrazione, con salti dalla prima alla terza persona che sono soggettive che poi si aprono in ariose panoramiche.
Alla seconda, alla terza lettura del libro sono affiorate altre suggestioni, altri paralleli. Per esempio con Berlin, il concept album di Lou Reed. Anch’esso dedicato alla rappresentazione di una vita attraverso una città. Una vita più tragica di quella di Trischitta, con toni da melodramma mentre questo romanzo catanese ricorda piuttosto un ciclo di Lieder. Nella grande contaminazione di generi, nella meravigliosa cancellazione delle barriere espressive tipica del Novecento, Berlin è un disco che pare quasi un libro allo stesso modo in cui Una raggiante Catania è un romanzo che sembra quasi un cd.

Ma non per certi banali trucchetti usati in tanti piccoli e dimenticati romanzi degli anni Novanta, ammiccanti a un giovanilismo di maniera in cui gli editor ribattezavano tracks i capitoli e credits i ringraziamenti. Il parallelo è molto più profondo. Trischitta narra con i tempi e i metodi dei migliori concept album del rock.
Racconta le origini in un preludio quasi sinfonico, con echi del passato e interventi corali del quartiere dove tutto sta per iniziare. Continua dedicando capitoli (o canzoni) più intimisti a personaggi che hanno lasciato il segno nella sua anima. Scatena energie da classico del rock nella narrazione delle avventure in Germania dei giovani catanesi. Crea temi ariosi di melodia e speranza quando intravede la luce nella rinascita della città negli anni Ottanta. Compone un lamento cupo e soffocante quando descrive le sconfitte della sua vita adulta. Ma sa chiudere con la ripresa del tema sinfonico con cui aveva aperto, cadenzato ora in una marcia lenta e solenne alla quale si uniscono tutti, chi c’era e non c’è più, chi è rimasto, chi è andato via e non è più tornato.

Non è facile scrivere un romanzo che voglia andare al di là della semplice narrazione di una storia meccanica. Domenico Trischitta ci è riuscito. È stato in grado di scrivere una storia che da corale diventa a solo e lo ha fatto con una dote rara nella lettaratura più recente: l’attenzione allo stile.
Sarò formalista, ma per me lo stile, l’invenzione, la particolarità della lingua sono caratteristiche irrinunciabili, più dell’originalità della trama. Domenico Trischitta non si limita a mettere una parola dopo l’altra. Lui scrive davvero.
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*postfazione di Tommaso Labranca del romanzo di Domenico Trischitta “Una raggiante Catania” (Casa editrice Excelsior 1881).

Postato domenica, 27 settembre 2009 alle 12:46 da postfazione di Tommaso Labranca del romanzo di Domenico Triscitta "Una raggiante Catania" (Casa editrice Excelsior 1881)


Chiedo all’amica Rosa Maria Di Natale – se mi legge – di inserire qui la sua recensione al romanzo di Domenico Trischitta.

Postato domenica, 27 settembre 2009 alle 12:47 da Massimo Maugeri


Buon pomeriggio e buona domenica sera a tutti.

Postato domenica, 27 settembre 2009 alle 12:48 da Massimo Maugeri


Caro Massimo, inserisco di seguito l’inizio del monologo.
A breve dovrebbe tornare in scena…

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VOCE FEMMINILE: Poi si parte, generalmente in treno. Per evadere, per fuggire, per cambiare aria, ma non più per viaggiare, dappertutto ormai si trovano le stesse cose lasciate, cemento, plastica, cocacola, le medesime musiche ad ogni cantone. Forse i veri viaggi restano sempre quelli intorno alla propria stanza.

Ecco il signor Ficarotta, un distinto quarantenne catanese. Siede in uno scompartimento ferroviario vuoto, accanto al finestrino. Indossa un impermeabile stropicciato e ha lo sguardo stanco. Di tanto in tanto osserva il paesaggio.

SIGNOR FICAROTTA: Ecco, mi dico, la fine di una giornata. Oppure l’inizio, dato che il sole sta spuntando. Sto lasciando Catania, non so per quanto, di tanto in tanto scorgo il mare sotto di me e mi arriva il suo lezzo putrefatto.
Ci sono mattini qualsiasi, come il mio di ieri che avrebbe dovuto scorrere sugli ovvi binari del quotidiano: una sosta dal pizzicagnolo, un’altra all’edicola, ritorno a casa, lettura del giornale, infine il colloquio con Marco che perentorio aveva fissato il luogo e l’ora. Non avendo nulla da fare, ho promesso di andarci. Un mattino qualsiasi, tuttavia, può diventare imprevedibile, disubbidire alle regole.

«Signor Facarotta» ripenso con un brivido. Il volto roseo del pizzicagnolo, da dietro il banco, ha pronunciato il mio cognome con un farfuglio. Ho sempre soprasseduto, ho accettato di essere tolto dall’imbarazzo. «Fica» correggo senza badargli, «Ficarotta». Vorrei aggiungere qualche altra cosa, cercare qualche variazione di scherzo, ma mi arresta l’improvviso silenzio degli astanti. Impietriti, come se l’ala della morte li avesse sfiorati. Per un attimo l’immobilità è assoluta: il nome del sesso li ha gelati, il termine «rotta» ha fatto il resto.
Silenzio e stupore. Silenzio. Orribile stupore. Silenzio.

Sebastiano Addamo
FINE DI UNA GIORNATA
versione teatrale di Massimiliano Perrotta
La Cantinella – 2008

Postato domenica, 27 settembre 2009 alle 19:19 da Anonimo


Ho dimenticato di firmarmi…

Postato domenica, 27 settembre 2009 alle 19:28 da Massimiliano Perrotta


Grazie mille, caro Massimiliano. Facci sapere quando tornerà in scena.

Postato domenica, 27 settembre 2009 alle 22:30 da Massimo Maugeri


Caro Massimo,

grazie per l’invito a parlare di Sebastiano Addamo, la cui assenza è grande, grandissima, in un tempo, come il nostro, di totale scissione tra etica ed estetica, giustizia e bellezza, intelletto e passione.
Che in Sebastiano erano assolutamente inscindibili, sempre creativamente interferenti; finalizzati a una scrittura che non si chiude in un genere: coniugando invece saggio, narrazione, poesia; che non si rassegna all’esistente: continuamente riaffermando l’ineludibilità dei valori di un mondo a carattere antropocentrico; che resiste in modo intransigente a ogni compromesso: politico, intellettuale, espressivo;
che, infine, costitutivamente rivendica la necessità dell’utopia per legittimarsi, trovare un senso che oltrepassi la finitezza dell’esistenza, proiettandosi verso il futuro.
Una dimensione quasi profetica attraversa la sua scrittura (una scrittura, poetica e narrativa di una straordinaria tensione e bellezza espressiva); il romanzo Un uomo fidato, scritto negli anni settanta è una tremenda, lucida anticipazione della confusione etica, politica, ideologica della contemporaneità.
E della disperazione storica di molti di noi -o forse pochi- davanti alle prove generali di un regime.
Maria Attanasio

P. S. Ti mando la mia recensione a Il giudizio della sera, uscita su La Sicilia

Sebastiano Addamo IL GIUDIZIO DELLA SERA
(Tascabili Bompiani, 2008) E. (8,50

Un ribuffo di nostalgia. Una scossa alla mente. E, insieme, la consapevolezza dell’invalicabile distanza da una dimensione espressiva –e da una visione del mondo- in cui netta era la distinzione tra vaniloquio e verità: quella, ad esempio, che struttura tutta l’opera di Sebastiano Addamo a partire da Il giudizio della sera -dopo trentaquattro anni dall’edizione garzantiana e otto dalla sua morte- ripubblicato da Bompiani, con una penetrante introduzione di Sarah Zappulla Muscarà; salutare reimmersione dell’intelletto e dell’immaginario in una scrittura che, coniugando passione del sentire e spessore del pensiero, continuamente si interroga sulla funzione della scrittura e sul ruolo degli intellettuali “che cadono sempre all’impiedi come gli eroi della leggenda”.
Romanzo di formazione, fortemente autobiografico, Il Giudizio della sera racconta la storia di cinque adolescenti che, per continuare gli studi, nell’autunno del 1940 si trasferiscono da Lentini a Catania, scenario di una traumatica metamorfosi conoscitiva per Gino, il protagonista. Da microcosmo compatto ed esattamente identificabile con i suoi palazzi di morbida arenaria, e la particolare caratterizzazione dei suoi abitanti -il senso della morte, l’ironica ilarità, e l’ossessione di un sesso, più vagheggiato che vissuto- con l’avanzare della guerra essa si trasforma in un’impietosa e caotica bolgia. Il progressivo degrado fisico e morale della città e dei suoi abitanti viene restituito dallo scrittore attraverso il crescendo espressivo di una dilatata e visionaria sensorialità –dell’olfatto soprattutto; se l’odore di una tazzina di caffè diventa lo spartiacque tra la guerra e la pace, quello dell’urina, delle feci, dei rifiuti che invadono strade, case, piazze, rappresenta, per il protagonista, il passaggio obbligato per una discesa agli inferi –i bombardamenti, i morti in guerra, i vivi sotto le macerie- che lo porterà alla consapevolezza di sè e del mondo. Al giudizio sulla storia dei padri: il fascismo, la guerra; e al deciso rifiuto di quella storia. Sebastiano Addamo rivisita la storia passata anche per riportarne esperienza e senso all’interno dell’acceso dibattito culturale e ideologico che caratterizzò la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta, gli anni della stesura del romanzo. Nonostante l’uso della prima persona, la narrazione non resta chiusa nella definizione spazio-temporale dei personaggi. Ponendosi all’esterno degli eventi narrati, lo scrittore infatti spesso interviene a problematizzarli e contemporaneizzarli con inserti quasi saggistici; senza allentare il ritmo narrativo, essi dilatano ancora di più il respiro profondo della scrittura: quello spessore di pensiero che caratterizza sempre la grande letteratura.
Che, però, è quasi sempre assente da molta produzione contemporanea: da quella scrittura-spazzatura tutta superficie, spesso -per ragioni di mercato editoriale- da premi, critici e classifiche mediaticamente gabellata per letteratura.
Maria Attanasio

Postato domenica, 27 settembre 2009 alle 23:00 da Maria Attanasio


Carissima Maria, grazie di cuore per il tuo splendido intervento e per la recensione.
Etica ed estetica, giustizia e bellezza, intelletto e passione: sono valori a cui bisogna assolutamente tendere (e credere), oggi più che mai. Ancora grazie.

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Per chi non l’avesse ancora fatto, consiglio di leggere il bellissimo romanzo “Il falsario di Caltagirone” (Sellerio), una delle più recenti opere della poetessa e scrittrice Maria Attanasio:
http://www.ibs.it/code/9788838921841/attanasio-maria/falsario-caltagirone.html
http://it.wikipedia.org/wiki/Maria_Attanasio

Postato domenica, 27 settembre 2009 alle 23:48 da Massimo Maugeri


Auguro una serena notte a tutti e un buon inizio di settimana.

Postato domenica, 27 settembre 2009 alle 23:50 da Massimo Maugeri


Turi, la musica e la Catania nera
di Rosa Maria Di Natale
-

Una storia che scorre veloce e ribelle come la gioventù, nel corso di un ventennio. E’ possibile leggere Una raggiante Catania come se fosse un racconto musicale, o ascoltarlo come una colonna sonora di parole scolpite una ad una. La nostalgia di una generazione, la letteratura come vita.

Aprire una narrazione con un’immagine aspra: quella di un fico d’india siculo dalle spine dolorose e invisibili. E chiuderla con quella del sole alto e violento che brucia il vecchio quartiere San Berillo.
In mezzo una storia che scorre veloce e ribelle come la gioventù, nel corso di un ventennio.
Una raggiante Catania è il romanzo che Domenico Trischitta ha consegnato ai tipi di Excelsior 1881, la casa editrice milanese dal catalogo raffinato e fuori dai soliti schemi commerciali.

Ma è possibile leggerlo come se fosse un racconto musicale, o ascoltarlo come una colonna sonora di parole scolpite una ad una. Il lavoro di Trischitta è il tipico esempio di come una narrazione felice possa passare più dalla scrittura che dalla storia. Senza per questo scadere in manierismi sorpassati.

Eppure, in Una raggiante Catania, ci sono tutti gli ingredienti di un romanzo “giusto”: personaggi descritti con cura, storie di vita, di sesso e di morte, sogni e tradimenti, e la città dell’Etna che finalmente si rivela per quello che è: una fimmina buttana, nera nella faccia e nell’anima, e per di più pericolosamente bella.

Turi è figlio di don Saro Bruscia, ed è anche figlio di San Berillo, il quartiere dove capita di incontrare una pasionaria che di nome fa Fimminedda, “quello che comandava tutti i puppi di via delle Finanze” e dove da piccoli, il 2 novembre, si gioca la battaglia dei morti con le pistole lanciarazzi. Per poi ritrovarle quelle battaglie, qualche anno più tardi, fatte con pistole vere, con i ragazzi sciolti nell’acido, le teste mozzate sotto la statua di Garibaldi e gli omicidi dal barbiere. E rendersi conto che i tuoi compagni di gioco un giorno potrai ritrovarli dalla parte opposta alla tua, come quando da bambini lo scontro era tra quelli di largo Basilicata e largo Calabria.

Sarebbe però un errore pensare che tutto si risolva lì, tra il barocco e la mafia, il dialetto e i fascisti di provincia. C’è anche un fondamentale intermezzo, a Stoccarda, dove la passione per le donne e per la musica brucia proprio come le percosse “a levapilu” della propria terra.
Il ritorno a casa coincide con la speranza, la Catania raggiante dei Rem e delle estate catanesi di Battiato e di Sgalambro, della Catania del sindaco Bianco e di Carmen Consoli.

Turi racconta, Turi delira, Turi pulsa di musica e di vita e ricorda tanto lo scrittore Trischitta. Ma la letteratura è vita e finzione. E l’autore lo sa, mettendo insieme esistenza e sogno.
A libro finito risuona da qualche parte un disco dei Deep purple, ma non per via del metallo freddo e corroborante di certa musica. Suggella invece la nostalgia di una generazione e di una cultura non ancora compresa sino in fondo. Che è poi il senso di questo romanzo, decisamente bello e nuovo.

Postato lunedì, 28 settembre 2009 alle 14:43 da "Una raggiate Catania" di Domenico Trischitta (recensione di Rosa Maria Di Natale)


@ Gianmaria Trevisan, essere letti non significa essere ascoltati e il tuo commento purtroppo ne è un chiaro esempio. Accade a tutti noi di fraintendere o essere fraintesi. Proprio per questo sarebbe bene evitare sviolinate: e non ti dico quali perchè spero che tu possa rintracciarle da solo.
@ Massimo, sei sempre gentile ma non devi dire di essere d’accordo quando non lo sei: rischi di offendere l’intelligenza dell’altro. La frase “Pirandello è un maestro esemplare” è generica se privata del contesto che la motiva. Io mi riferivo alla capacità di dislocazione e non credo che tu possa condividere il mio giudizio, visto che condividi quello di Trevisani. La differenza di opinioni, espressa con sincerità, non è pregiudizio ma condizione dell’amicizia.
@ Adamo e altri, ho l’impressione che si confonda l’esame di coscienza, sempre doveroso, con il giudizio. La frase “Grazie a Dio non tocca a me giudicarmi” significa cristianamente: la misericordia di Dio è più grande dei miei peccati. E quanto alla comodità che ne seguirebbe è forse il caso di ricordare che fede e speranza si nutrono di preghiera. Richiamo che mi sembrava necessario visto il contesto nicciano, progressivamente perso di vista, da cui era partito “Il giudizio della sera”.

Postato lunedì, 28 settembre 2009 alle 15:06 da Antonio Bianchessi


Dimenticavo: il lagarto in questo periodo dell’anno continua a dormire. E vista l’aria che tira mi sa che l’ha indovinata.

Postato lunedì, 28 settembre 2009 alle 15:09 da Antonio Bianchessi


chi crede nella fede, nella speranza e nella preghiera intanto dovrebbe fare attenzione a non storpiare il nome degli altri. mi sa che c’è chi dorme insieme ai lagarti.
ribadisco, con ancora più convinzione, quanto detto prima, correggendo anche il refuso: grazie a dio non tocca a noi giudicarci, certo. e questa è una gran bella comodità che però non ci impedisce di giudicare gli altri, vero?

Postato lunedì, 28 settembre 2009 alle 15:32 da amedeo


Un grazie a Rosa Maria Di Natale per la segnalazione: uno splendente e non retorico invito alla lettura.

Postato lunedì, 28 settembre 2009 alle 15:39 da antonio_bianchessi


inoltre, bianchessi, le cose che scrivi sono intrise di grassa retorica. questa è la mia opinione e sono certo che la accetterai. nulla di male poi, se non ti piacciono la sicilia e i siciliani. andantone credo che hai reso un buon servigio a salvaguardia di ogni sicula “minchia”. e te lo dico con geografica distanza, visto che abito a viterbo.

Postato lunedì, 28 settembre 2009 alle 15:46 da amedeo


Carissimo Antonio Bianchessi,
perchè le mie sarebbero sviolinate e le tue opinioni personali da rispettare? Le une e le altre sono solo espressione del mostro modo di vedere l’arte e la vita. Aderire a una ragione piuttosto che a un’altra non mi pare che faccia dell’uno uno sviolinatore e dell’altro un giusto non compreso.
La verità sta nel confronto e nel rispetto reciproco. E forse sta anche in quel mare di mezzo che separa l’isola dal continente. Necessità di attraversare. Di tendere una mano.
Grazie dell’occasione di riflessione.

Postato lunedì, 28 settembre 2009 alle 16:52 da trevisan gianmaria


Cara Maria,
che piacere leggerti qui… concordo sulla schizofrenia dei tempi moderni che si riflette nella narrativa a volte disconnessa dall’etica nella ricerca di bellurie…
I tuoi libri sono un richiamo alla ricerca di verità, di quell’ethos che diventa Bellezza proprio per la sua tensione verso l’Assoluto, il Bene. Non astratti ma incarnati nella vita di persone e personaggi.

Postato lunedì, 28 settembre 2009 alle 17:13 da Maria Lucia Riccioli


Amedeo, scusa per la svista. M’irriterei anch’io. In effetti dormicchiavo. Quanto al resto…che dire? Mi pare che la tua reazione sia perfettamente in linea con il contenuto delle mie osservazioni. Pazienza.

Postato lunedì, 28 settembre 2009 alle 18:21 da antonio_bianchessi


no. la mia reazione non è intrisa di grassa retorica. buona dormita.

Postato lunedì, 28 settembre 2009 alle 18:55 da amedeo


Carissimo Gianmaria Trevisan, per la mia formazione la sintesi presuppone l’esperienza del contrasto. E mi sembra edulcorata, cioè una sviolinatura, ogni visione armonica che vorrebbe prescindere dalla durezza di un’opposizione. Certo che tutte le opinioni sono espressioni del nostro modo di vedere l’arte e la vita. Ma da ciò non discende l’obbligo morale di una concordia universale:proprio qui, in una specie di abbraccio aprioristico, sta a mio avviso la nota stonata e la sviolinatura. E mi spiace che tu mi attribuisca il pensiero d’essere un giusto incompreso. Giusto è una parola che mi guardo bene dall’usare. Ritenere d’avere ragione credo invece sia un obbligo per entrambi: altrimenti staremmo perdendo tempo. Ma grazie per la mano tesa. Lo stretto l’ho attraversato e riattraversato diverse volte. E le due sponde, credimi, le ho sempre nello sguardo. Quanto alle lucciole c’è davvero stato un fraintendimento, tuo e di Massimo. Ogni mio intervento di una certà complessità lo inserisco nel mio blog di kataweb, che si chiama appunto lucciole. A quel blog e non a queste pagine io mi riferivo: venendo dai miei appunti a qui non riesco a tenere il corsivo. Ed ecco perchè il tuo commento, nella parte iniziale, mi è sembrato presupporre un giudizio e mi è apparso stonato.

Postato lunedì, 28 settembre 2009 alle 19:02 da antonio_bianchessi


Come si suol dire, si sono scambiate lucciole per lanterne. Su, datevi una stretta di mano virtuale e piantatela qui. Altrimenti Sebastiano Addamo s’incazza e il suo fantasma verrà a perseguitarvi per il resto delle vostre notti.

Postato lunedì, 28 settembre 2009 alle 19:47 da Salvo zappulla


Ho appena concluso la lettura del romanzo “Il giudizio della sera”.
Sono stato trasportato, attraverso una scrittura di notevole forza drammatica, di feroce eleganza, che trasuda terra e sangue e umori, nella rivelazione, nello squarcio – in quella violenza – che anticipa la nascita.
“(…) un’età era finita per sempre,” scrive Addamo. “(…) entravo nell’età violenta, nella ferrea, dura, chiara età del parricidio.”
“Il giudizio della sera” è un percorso verso la conoscenza dell’Ombra. Un viaggio di iniziazione. Il primo segnale della manifestazione è dato dal disfacimento:
“Tutta la gran vallata al cui fondo è Lentini, ma anche oltre, fino a Carlentini, fino a Francoforte, tutta la vasta zona dei giardini, si empì dell’odore greve e dolciastro d’arance marce; un odore che stordiva, che nauseava (…)”. A esso segue il disordine degli escrementi disseminati, dell’esercito delle cimici, del corpo che richiede invano nutrimento, della fame dunque. E nel furore della conoscenza l’affanno talvolta s’attenua, il pensiero meccanico, associativo, trova per un attimo quiete, come nell’episodio dell’incontro con il giovane soldato tedesco:
“Hans però non pensava alle donne, o non nel modo come noi intendevamo: le volte che stava con noi, quasi sempre gli piaceva parlare del suo paese, della sua famiglia, in questi casi aveva una dolcezza quieta e quasi di donna.”
Il disfacimento – la fine – si congiunge naturalmente con l’inizio: la forza primordiale della sessualità, della radice. Gli adolescenti protagonisti del romanzo, avviluppati nella foga guerresca, nel momento storico supremo di stordimento fascista, ricercano questo inizio da febbricitanti, ignorando d’essere sulla soglia della rivelazione esistenziale più grande, che unisce circolarmente l’alfa e l’omega.
“Il silenzio. Era torvo, solido, pesante, immemore scacco della nostra esistenza, una nostalgia di ancestrale congiunzione più che di coito e copula (…)”.
Un libro molto importante, a mio parere, il romanzo “Il giudizio della sera” di Sebastiano Addamo. Per me una scoperta. E un viatico in questo tempo di stordimento, di smarrimento, di profonda corruzione morale e di guerra civile fatta di sangue rappreso.

Postato lunedì, 28 settembre 2009 alle 20:28 da Subhaga Gaetano Failla


Eccomi qui. Buona sera a tutti e grazie per i vostri nuovi interventi.

Postato lunedì, 28 settembre 2009 alle 22:25 da Massimo Maugeri


@ Antonio Bianchessi e Amedeo
Cari Antonio e Amedeo, non vogliateme se indirizzo questo commento a voi. Se lo faccio è solo perché frequentate questo blog da pochi giorni.
Ne approfitto dunque per spiegare a voi (e ai nuovi frequentatori) qual è la mia linea (di tanto in tanto lo faccio: credo sia utile).
-
Qualche precisazione:
Antonio, io non ho detto di essere d’accordo con tutto quello che hai scritto, ma solo che “mi trovi senz’altro d’accordo nel riconoscere Pirandello come il maestro esemplare” (con o senza dislocazione, per quanto mi riguarda). E ho estrapolato il riferimento a Pirandello per anticipare l’uscita (non so ancora quando) di un post (forse due… sto pensanso a una “settimana pirandelliana”) a lui dedicato.
Di seguito, dichiarando di sostenere le opinioni di Trevisan (che sono diverse dalle tue) ho manifestato in maniera palese di essere in disaccordo con te. Dunque, non credo di aver corso il rischio di offendere la tua intelligenza (in caso contrario ne sarei molto rammaricato, perché di certo non era nelle mie intenzioni).
Per quanto riguarda il discorso relativo al “fraintendimento” sulle “lucciole”… be’, come facciamo a sapere che hai creato un blog che si chiama “Lucciole” se non inserisci il link nel commento o non lo dichiari apertamente? (Negli ultimi commenti hai inserito il link, ma in quegli altri no). In ogni caso ne approfitto per fare tanti in bocca al lupo al tuo neo-blog.
Poi… non sono “gentile”… cerco (e mi sforzo) di essere cordiale.
Il sottotitolo del blog è “luogo di incontro”, non “di scontro”.
Nella “netiquette” del sito…
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/category/aaa-nota-legale/
… è spiegato abbastanza bene:
“Letteratitudine nasce fondamentalmente come luogo di incontro. Per tale motivo si basa sui principii dell’accoglienza e della cordialità. Il creatore e gestore del blog ringrazia anticipatamente tutti coloro che, con i loro interventi, daranno un contributo a mantenere un clima di accoglienza e serenità”.
Da qui la mia “cordialità”. Anche se poi aggiungo…
“Naturalmente, nell’ambito delle discussioni proposte, è ammessa la polemica… purché sia sensata, utile e costruttiva; ma sempre entro i limiti dell’assoluto rispetto di persone e opinioni”.
Non cerco una concordia universale, o una specie di abbraccio aprioristico (ti cito), ma nemmeno un’opposizione dura a tutti i costi: ci si scambia le proprie opinioni rispettando quelle degli altri (ovvero, senza doverle necessariamente imporre agli altri).
Questa linea può essere condivisibile, oppure no (c’è chi ritiene che l’approccio “rissoso” o di “dura contrapposizione” sia più utile)… ma è quella che io proprongo qui a Letteratitudine. Anche per questo sono molto vicino al pensiero di Trevisan.
-
Amedeo: Antonio si è scusato per aver sbagliato il tuo nome; può capitare (a me mi chiamano sempre Maurizio!). Un po’ di pacatezza in più, via…
Stretta di mano virtuale per tutti, dunque (per dirla come Salvo)… a prescindere dal fatto che ciascuno rimanga delle proprie opinioni!
(ma senza escludere che si possa cambiare idea).

Postato lunedì, 28 settembre 2009 alle 23:05 da Massimo Maugeri


Gaetano, molto bella la tua recensione. Grazie (e grazie per aver letto il libro).

Postato lunedì, 28 settembre 2009 alle 23:06 da Massimo Maugeri


Chi volesse saperne di più sul romanzo di Domenico Trischitta, “Una raggiante Catania”, è invitato ad ascoltare questa radio-intervista andata in onda su Fahrenheit (Radio Rai Tre):
http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/mostra_libro.cfm?Q_EV_ID=277276

Postato lunedì, 28 settembre 2009 alle 23:11 da Massimo Maugeri


Il giudizio della sera è un bel tema da trattare ma se devo guardarmi allo specchio, vedo una donna in trasformazione: ogni fase della nostra vita prevede incontri, cambiamenti e soprattutto adattamenti in una società come la nostra che quando si ferma ha paura e allora ricordo una frase di un romanzo a me caro “Il rifugiato” di A. Grunberg che recita così:”le cose che uno si rimprovera sono i ricordi con cui si addormenta e si risveglia”, credo che esprima bene ci si guarda, ci si specchia anche senza mezzi concreti, anche nel buio e nel silenzio dove nessuno può sfuggire alla sua voce. Vi lascio allora una mia poesia questo è il mio giudizio della sera: Lo specchio
Non togliermi la pazzia
potrei morirne
disse il mio cuore…
decisi di ascoltarlo
il silenzio
poi udii la sua voce

Questo vuole essere un invito ad ascoltare e ad ascoltarsi solo così si può essere in grado di dare un giudizio.
ciao a tutti
Simona

Postato martedì, 29 settembre 2009 alle 10:46 da Simona Ratto


@ Simona Ratto
Cara Simona, grazie anche a te per il tuo contributo.

Postato martedì, 29 settembre 2009 alle 22:37 da Massimo Maugeri


Grazie a Voi e sopratutto a Massimo per darmi questa possibilità, purtroppo pur seguendovi non riesco mai a scrivere il tempo è tiranno in una vita da precaria che mi costringe a fare lavori che non mi assomigliano ma mi prometto di partecipare più spesso è un modo per essere orgogliosa del mio percorso letterario anche se in concreto non mi ha portato molto ma non lo cambierei per niente al mondo !! ciao a tutti e a presto
Simona

Postato giovedì, 1 ottobre 2009 alle 12:30 da Simona Ratto


Sul “Corriere della Sera” di oggi, nella pagina della cultura, in un lungo articolo si parla (anche) di Letteratitudine. E inoltre, nella stessa pagina, c’è un trafiletto dedicato al premio letterario “Sebastiano Addamo”.

Postato giovedì, 1 ottobre 2009 alle 14:22 da Subhaga Gaetano Failla


L’articolo segnalato da Subhaga Gaetano Failla è disponibile qui: http://www.fpcgilbari.com/macondo/corrieresera.pdf

Postato giovedì, 1 ottobre 2009 alle 16:14 da oronzo macondo


Grazie per la duplice segnalazione, caro Gaetano. Domani, in effetti, sarò in partenza per “Oronzo Macondo”. Prima di partire pubblicherò
un apposito post.
(Speriamo bene, per le condizioni climatiche. Qui, nel catanese, c’è una specie di tempesta con tanto di tromba d’aria in corso… )

Postato giovedì, 1 ottobre 2009 alle 22:51 da Massimo Maugeri


[...] per un’autore che ha lasciato il segno e di cui abbiamo avuto modo di occuparci su Letteratitudine con un ampio dibattito dedicato alla ripubblicazione della sua opera più importante “Il giudizio della sera” [...]

Postato giovedì, 9 agosto 2012 alle 20:05 da UNA PIAZZA PER SEBASTIANO ADDAMO « letteratitudinenews


[...] Su Letteratitudine, il dibattito su “Il giudizio della sera” [...]

Postato venerdì, 30 novembre 2012 alle 07:35 da IL GIUDIZIO DELLA SERA, di Sebastiano Addamo « letteratitudinenews



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