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venerdì, 21 novembre 2008

LA LETTERATURA DEL TERRORE E SIMONETTA SANTAMARIA

Che rapporti avete con la letteratura del terrore?
Ne siete appassionati? Vi lascia indifferenti?
Vi disgusta?
In ogni caso essa vanta una storia piuttosto lunga, che coincide – più o meno – con la nascita del romanzo gotico classico; ovvero il 1764: anno di pubblicazione de “Il castello di Otranto” di Horace Walpole.
Poi si evolve con il “Dracula” di Bram Stoker, con il “Frankenstein” di Mary Shelley e con l’opera di Edgar Allan Poe. Senza dimenticare il celeberrimo “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde” di Stevenson, che diventa pietra miliare anche del cosiddetto tema del doppio.

Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento bisogna ricordare H. P. Lovecraft (1890-1937), ma anche Gaston Leroux (autore de “Il Fantasma dell’Opera“).

Un filone particolare della letteratura gotica dà vita la cosiddetto genere horror diventato famoso anche grazie ai libri di autori come Stephen King e Peter Straub.

Ulteriori dettagli li potete trovare all’interno di quest’ottima rubrica tenuta da Sabina Marchesi, guida giallo e noir del portale supereva.it. 

In questo post, invece, nell’ambito dell’horror all’italiana presentiamo Simonetta Santamaria e il suo libro “Dove il silenzio muore” edito da Centoautori.

Lo introducono per noi Francesco Di Domenico e Enrico Gregori, che mi daranno una mano a moderare e animare la discussione.

Un post a due binari, dunque:
- la letteratura del terrore, in generale (nell’ambito della quale chiamo a intervenire la già citata Sabina Marchesi)
- e… Simonetta Santamaria (presentata da Francesco Di Domenico e Enrico Gregori)

Siete tutti invitati a partecipare.

Massimo Maugeri
P.s. Vi anticipo che a partire da domani e per tutta la prossima settimana sarò in viaggio di lavoro e mi sarà difficilissimo – se non impossibile – partecipare alle discussioni.

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“Dove il silenzio muore” di Simonetta Santamaria – Centoautori – 2008 – euro 14 – pagg. 224

di Francesco Di Domenico

Simonetta Santamaria ha scritto il suo primo romanzo.
Non un racconto breve come una coltellata, a cui ci aveva abituato con i suoi corti surreali, ambientati in una Napoli attraversata dal mistero, ma un poderoso romanzo horror.
La Santamaria aveva già raggiunto vette altissime con i suoi racconti, fino ad arrivare ad essere incoronata regina italiana all’ XI premio Lovecraft, con “Quel giorno sul Vesuvio”, una narrazione metafisica che lasciava già intravedere un percorso di commistione con il noir. Ora ha meditato una storia lunga, intricata e appassionante.
La signora dell’horror italiano, Simonoir, stavolta ha scritto 211 pagine di non sola inquietudine.
L’undici sembra ritornare periodicamente nelle storie della Santamaria, coincidenza misteriosa o voluta: lei, Simonetta, non me l’ha mai spiegato.
L’11 è il numero atomico del sodio, il tenebroso sale e “Na” (guarda caso) è il suo nome scientifico.
Undici gli endecasillabi, come 11 i suoi racconti nel precedente libro “Donne in noir”.
“11 Parthenope” è il nome dell’asteroide che fu scoperto all’osservatorio di Napoli nel 1850.
Quindi ricorrenti, nelle storie della dark lady, ci sono questo numero misterioso e la sua città, oltremodo presenti. Di Napoli, si sente l’odore; di Napoli vi è raccontato il “come vorremmo che fosse”; la città è lambita dalla scena del libro a “vol d’oiseau ”. E’ la capitale del mezzogiorno che i Tg non rappresentano, ma che esiste, divisa come tanti atomi. E’ una città-libro Napoli, con tante pagine vere o immaginarie, e questa ne è una.
Il film di parole, perché di un autentico movie si tratta, si svolge in un ipotetico borgo, come ce ne sono tanti nascosti nella città della sirena, a Posillipo. Stavolta si evince uno scivolamento verso un horror più morbido, quasi noir, non ci sono mostri sanguinari e il sangue è più calibrato.
Il percorso di Simonoir sembra l’inverso di Dario Argento, che dai gialli sanguigni è sfociato nell’horror puro; la Santamaria, nel suo primo romanzo lungo sembra avere acquisito una cifra di narrazione trasversale tra orrore e noir puro.
E’ un libro d’amore, e come sempre, di lotta tra il bene e il male.
Quel “male” supremo, nascosto nelle pieghe dell’universo che riappare sempre sotto forme diverse.
L’intreccio è del miglior noir; sarebbe un vero e proprio giallo se l’idea di fondo non fosse autenticamente horror, con un antico mistero legato agli inizi della fede, quando tutto ricominciò, quando gli ebrei sbagliarono scommessa al totalizzatore della storia, e apparve il Messia e, in contemporanea, colui che per primo credette nella sua esistenza: il signore degli inferi.
Controindicazioni: da non leggere la sera in un parco, si affaticherebbero gli occhi, ma molto di più il cuore.

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“Dove il silenzio muore” di Simonetta Santamaria – Centoautori – 2008 – euro 14 – pagg. 224

di Enrico Gregori

Horror è un genere che, come tanti altri, serve più che altro ai librai per ordinare gli scaffali.
Avete presente il pulp di Tarantino? O la kermesse vampiresca di “Dal tramonto all’alba”? Beh, dimenticate tutto ciò, perché questo nulla ha a che fare con “Dove il silenzio muore” di Simonetta Santamaria (nella foto, ndr).
Qui l’horror non è splatter, ma inquietudine. E siamo nel Napoletano, con personaggi che tocchiamo e conosciamo.
Certo, c’è una maledizione che viene da lontano; c’è un medaglione simbolico e dai poteri esoterici. Ma il romanzo di Simonetta è vita, passione, quotidianità di gente comune che si imbatte nel mistero.
Non vi aspettate scheletri che appaiono dal nulla, né pioggia di viscere di cadaveri esplosi all’improvviso.
Qui c’è il racconto, scritto alla grande, di persone come noi.
I personaggi, per fortuna non tanti ma definiti molto bene, ruotano tutti dentro una dimora affascinante e in un giardino che necessita di cure continue.
Non si va in cerca di soprannaturale. Anzi, semmai è proprio l’elemento esoterico che all’improvviso piomba a disturbare quella che dovrebbe essere la tranquilla e quasi monotona vita di un borgo.
Pescatori, muratori, intellettuali e fannulloni. Coppie che vanno e coppie che scoppiano. Tutte cose che vediamo per strada o nei palazzi nei quali abitiamo.
Come dire che l’horror può arrivare sempre e comunque.
Non vi aspettate effetti speciali, ma solo cose normali o quasi, alle quali si può credere.
Riporto e sottoscrivo un pensiero di Loredana Lipperini che, una sera, mi disse: “E’ molto difficile scrivere un buon horror perché si racconta di cose che non esistono. E quindi lo scrittore deve essere bravo nel crederci mentre scrive, altrimenti, se non ci crede lui, ancor meno ci crederà il lettore”.
Simonetta crede e spinge il lettore a credere. Ecco perché, il suo horror è venuto bene. Molto bene.

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Le recensioni di Sabina Marchesi: guida “giallo e noir” di supereva

L’Anima Nera di Oscar Wilde Il Grande Ingannatore (Il fantasma di Canterville)
Il personaggio più controverso di tutta la storia della letteratura, che ha saputo con il suo raffinato umorismo, il suo fine sarcasmo, la sua sottile sagacia, mettere alla berlina un’intera società, pur vivendoci dentro, sembra essere a tutti gli effetti, un sapiente bluff, come del resto tutte le sue opere dimostrano, un complicato castello di carte a più livelli, che gli rovinarono poi addosso quando osò troppo e fu abbandonato da tutti al suo destino amaro di outsider.

Difficile coniare una definizione calzante per le opere e l’essenza di Oscar Wilde, forse in assoluto il personaggio più controverso di tutta la storia della letteratura, in molti si sono provati a descrivere con una sola frase il tocco raffinato di questa penna imprevedibile, capace di colpire in poliedriche direzioni, mischiando la satira alle tinte fosche del dramma, nascondendo amabilmente feroci stilettate al cuore dell’aristocrazia e della buona società britannica dietro una prosa leggera e sarcastica, dove la buona letteratura si mescola con sofisticata eleganza alla parodia umoristica.&#nbsp; Innumerevoli descrizioni ci sono rimaste di quest’uomo affascinante, grande ed eccelso conversatore, mente splendida ed acuta, vissuto sempre sul filo del rasoio, in precario equilibrio tra l’acclamazione più sfrenata e il più terribile ostracismo, ma la maniera più calzante per descriverlo è forse quella di attingere ad alcuni dei suoi detti memorabili e immortali destinati ad essere ripetuti e rivissuti dai posteri, a suffragio perenne della sua memoria.
“La Vita Imita l’Arte più di quanto l’Arte non imiti la Vita; ed è proprio così che sono tutte le sue opere, un’imitazione continua di tutto ciò che esiste, o che noi crediamo esista, una rappresentazione speculare di tutte le umane debolezze, dove anche le grandiosità nascondono i dettagli più fragili dell’animo umano.
“Non ho nulla da dichiarare eccetto il mio Genio” che descrive perfettamente il suo intero modo di vivere, quello di un uomo che fece dell’eccentricità un pregio, di nascita Irlandese riuscì ad imporsi all’attenzione della buona società affascinandola con la sua irruente personalità e la brillante conversazione che dominava incontrastata con ingegno ed audacia i salotti londinesi.
“Riesco a resistere a tutto tranne che alle tentazioni” ed è il manifesto di “Dorian Gray”, dove la cultura estetica predomina su tutte le altre virtù, capolavoro assoluto ed unico suo romanzo, che lo consegna alla storia come L’Esteta dell’Arte, colui disposto a tutto sacrificare in nome dell’amore per il bello, portando la passione a dominare su tutto il resto, in bilico sopra un precipizio di insospettabili profondità, separando una volta per tutte l’etica&#nbsp; e la morale, dall’estetica, cosa che l’aristocrazia dell’epoca mai gli perdonò.
Laureato ad Oxford, di raffinata cultura, grande parlatore, fine umorista, Wilde condusse tutta la sua esistenza&#nbsp; al di sopra e al di là delle comuni convenzioni, ostentando uno stile di vita provocatorio e spericolato, amorale ed asociale, sfoggiando un’eleganza stravagante e bizzarra, e per questo fu amato ed odiato da tutta la società vittoriana, facilmente influenzabile dalle mode e dall’eccentricità, vanesia e superficiale, ma terribilmente pericolosa nei giudizi, che erano senza appello e che alla fine lo condussero alla rovina. Il debutto di ciascuna delle sue commedie, da “Il ventaglio di Lady Windermere” a “L’Importanza di chiamarsi Ernesto”, gettavano in subbuglio tutta l’alta società londinese che accorreva in massa, rendendosi poi conto, quando era forse troppo tardi, di essere essa stessa fatta oggetto dell’umorismo al vetriolo e della satira mordente dell’opera; rappresentata, che ne beffeggiava i vezzi e le abitudini.
Snob, narcisista, depravato, vizioso, abbietto, omosessuale, Oscar Wilde era semplicemente un giovane ben nato, dotato di una sottile intelligenza, dalla lingua sciolta, che amava assumere atteggiamenti demodé, ambizioso e narcisista, amante del bello e di se stesso, capace di una ironia caustica che non esitava a usare per il solo desiderio di stupire, e tanto spericolato da fare quello che prima non era mai stato fatto, o da dire quello che nessuno aveva mai osato dire, un eterno giovanottone che bamboleggiava in società, al solo scopo di appagare il suo senso di avventura e di ribellione. Si fece beffe per anni dei migliori salotti vittoriani, in cui però veniva sempre benevolmente accolto, fino a che questo precario equilibrio si spezzò, i suoi stessi vizi tanto ostentati, lo tradirono, e la bella società gli voltò le spalle condannandolo al pubblico ludibrio e a una fine ignominiosa.
Ma fu comunque in assoluto l’uomo con il più grande coraggio di vivere e di osare mai esistito sulla faccia della terra, un borghese che giocava a fare l’anticonformista, un tradizionalista che amava assumere atteggiamenti sconvenienti, un pigro intellettuale che desiderava solo stupire ed ammaliare.
Colpisce il fatto che i suoi aforismi sono giunti fino a noi come esempi di raffinato cinismo e di spietata ironia, quando invece a una lettura più attenta rivelano, come fu per lui stesso e per la sua vita, una certa dose di saggezza, e di comprensione per le umane&#nbsp; debolezze. Se Dorian Gray fece gridare allo scandalo (e in effetti cosa ci può essere di più abbietto di un patto col diavolo che ti renda immune da tutte le conseguenze fisiche e morali delle tue malefatte scagliandole su un quadro immagine e simulacro di tutti i mali del mondo?) perché sembrava incitare le nuove generazioni verso una condotta amorale e sconsiderata, con la certezza di una sicura immunità, esso al tempo stesso rappresenta un momento di profonda riflessione, se letto in doppia chiave. Rivelando al suo interno una sottile dicotomia perché, se sottoposto a un esame più approfondito, denota una chiara disciplina morale, sottintesa con ironia ma visibile, sotto il primo strato di decadente disprezzo.
Fa tutto parte del sottile snobismo di Wilde a cui importavano di certo più la fama e la gloria, che non l’espressione di una morale, ma questo non esclude che ne avesse, e infatti ne aveva. Ci basti pensare ai suoi aforismi, apparentemente dedicati al solo culto del bello, dell’arguto, del sofisticato, del raffinato, ma sempre spietatamente diretti e scritti per colpire al cuore e sottolineare crudamente la verità. Che è poi l’intento primario di ogni artista.
“Non esistono libri morali o immorali … i libri sono scritti bene, o scritti male. Questo è tutto.”
Sembra un’affermazione irriverente, immorale, puramente estetica, ma nasconde invece una sovrana verità che tutti noi aspiranti scrittori dentro di noi conosciamo assai bene.
E’ solo uno dei tanti inganni di quest’anima suadente ed intrigante, che ancora si fa beffe di noi a distanza di un secolo e mezzo, e basta guardare una sua foto per vedere quello sguardo irridente e beffardo di uno che sa di averci sempre imbrogliati, come una delle sue opere più incompresa, Il Fantasma di Canterville, che viene a tutt’oggi introdotta nelle raccolte per ragazzi assieme alle altre favole che Oscar Wilde pare avesse scritto per i suoi due figli, e tuttora si rappresenta nei teatrini scolastici. Ma non è una favola, o se mai lo è, è una favola nera, un piccolo intrigo, un bluff sapiente e misurato tramato ai danni di noi lettori dal più grande ingannatore della storia.
Brillante e spumeggiante come una coppa di champagne questo racconto è tutto imperniato sull’incontro tra due culture agli antipodi, la vecchia solida inamovibile realtà britannica contrapposta con la nuova rampante ed emergente società americana. Il fantasma di per sé è solo un elemento nel contesto, anzi tecnicamente parlando è uno degli oggetti compresi nella compravendita della casa avita, presso la quale dimora.
Esilarante e burlesco, scritto in tono scansonato, con una prosa sciolta e disincantata, umoristico ma non troppo, questo testo, ingiustamente trascurato, racchiude dentro di sé tutto un universo: fatto oggetto di studi approfonditi esso rivela tutta una serie di piani narrativi elegantemente sovrapposti e sapientemente dosati. Ironia e satira nei confronti delle due culture contrapposte: da una parte il solido pragmatismo degli americani, convinti di conoscere la soluzione a tutti i problemi, sicuri di poter dominare il mondo, certi di ottenere la conquista di ogni obiettivo e di conseguire il superamento di tutti gli ostacoli, la nuova aristocrazia, il potere del denaro, la classe emergente, il futuro, dall’altro lato il passato, la vecchia solidità britannica, l’amore per le tradizioni, il mito, la leggenda, la classica imperturbabilità e quel vecchio ancestrale modo di essere sempre uguali a sé stessi in ogni circostanza che hanno fatto degli inglesi il popolo conquistatore e colonizzatore che ha dominato il mondo. Da una parte la vecchia solida Inghilterra dunque, e dall’altra l’America nascente, da una parte la fantasia, la creatività, l’emozione, dall’altra il realismo, lo scetticismo, il pragmatismo, due mondi diversi che mal si conciliano, e ancora una volta la lacerante divisione sempre più sentita tra l’umanismo e il positivismo, tra le tradizioni e il progresso, tra la storia e la scienza, tra la filosofia e la tecnica, in una lettura frizzante e umoristica, condotta con mano leggera e sobrio “sense of humour” che sono tipici di tutta la produzione di Wilde.
La storia in breve narra di un’ antica e solida famiglia britannica in procinto di vendere la dimora avita a una famiglia di americani rampanti, borghesi e arroganti. Vediamo il compunto capostipite Lord Canterville fornire al nuovo proprietario ragguagli circa gli accessori e le pertinenze del bene immobiliare, pare infatti che il distinto ministro americano non stia acquistando solo un antico castello, ma anche il suo intero contenuto, annessi e connessi, dunque comprensivo di mobili, tendaggi, tappeti, vasellame, domestici e …fantasmi. Dunque imperturbabile Lord Canterville sta informando Mr.Otis con distinto “savoir faire” non solo dell’esistenza del fantasma, appartenente alla sua famiglia da generazioni, ma anche dei suoi usi, costumi e abitudini. Chiaro che il ministro americano e la sua famiglia,da buoni appartenenti a una cultura giovane e irridente non prendano la cosa molto sul serio, anzi la considerano come un’ulteriore stranezza da parte dei vecchi Lord Inglesi e come tale la archiviano e la mettono da parte.
E qui assistiamo alla partenza della vecchia famiglia inglese, e all’insediamento della nuova turbolenta famiglia americana, quasi a leggere tra le righe una metafora sui cambiamenti che proprio allora si stavano preannunciando nel panorama mondiale con l’inesorabile&#nbsp; sopravvento della cultura del Nuovo Mondo sulle abitudini sopra le consuetudini e i costumi del Vecchio.
Anche se Wilde con il suo sofisticato snobismo non può esimersi dallo schierarsi dalla parte della solida e nei secoli immutabile realtà vittoriana,&#nbsp; non può nemmeno evitare di schiacciare scherzosamente l’occhio all’ingenua semplicità del popolo americano che pur facendo sorridere esercita comunque un fascino innegabile.
Dunque racconto fantastico, favola nera, testo di potente atmosfera gotica, o satira mondana-sociale che sia, questo racconto incanta e strega, fa sorridere e riflettere, mentre ascoltiamo il ministro americano opulento e saccente dichiarare che se mai un fantasma fosse esistito realmente in Europa i migliori impresari del continente nuovo lo avrebbero sicuramente ingaggiato per farlo lavorare nei loro teatri, come già accaduto con i migliori attori e cantanti, paragonando quindi una leggenda vivente a un mero fenomeno da baraccone. Nel contempo lo sentiamo dichiarare che se una governante sviene rompendo il servizio buono per aver visto un fantasma, è lecito e doveroso addebitarle i danni, e vediamo la distinta e imperturbabile Missis Otis offrire al fantasma sferragliante che percorre i corridoi trascinando le sue catene, un famoso e potentissimo prodotto per oliare gli ingranaggi, e il giovane rampollo della casata pulire la macchia di sangue che da secoli riaffiora nel salotto buono, a memoria di un turpe delitto compiuto in vita dal fantasma, con uno smacchiatore di provata efficacia, mentre i due gemelli, i più piccoli&#nbsp; della famiglia tendono al povero e ormai terrificato spettro ogni sorta di trappole e di trabocchetti tutte le volte che questi tenta di esibirsi in una delle sue famosissime apparizioni.
Ma Wilde strizza l’occhio ancora una volta al lettore inserendo nel racconto un ennesimo imprevedibile dualismo, perché, attenzione sarà proprio Virginia, l’unica figlia femmina della casata americana, a sanare questa ferita apparentemente inguaribile, questo enorme divario tra il vecchio e il nuovo mondo, tra la cultura emergente e quella discendente, riuscendo inaspettatamente a comprendere il fantasma e a soffrire per il suo dramma, venendo così a spezzare una maledizione antica di secoli, che nessuna delle generazioni precedenti, tutte solidamente inglesi, aveva potuto combattere, dando così al fantasma pace e riposo eterno.
Sembrerebbe finire qui, quando però il nostro arguto e imprevedibile ingannatore ancora ha una riserva di sarcasmo, nel mostrarci una Virginia, ormai non più ragazza ma donna sposata, tornare nostalgicamente al castello per rivisitare la sua personale leggenda, portando fiori sulla sua tomba, con indosso i vecchi gioielli di famiglia dei Canterville,i quali, di proprietà dello spettro ormai defunto e facente parte delle pertinenze, annessi e connessi del castello, appartengono ora di pieno diritto agli Otis….e chi ci vuol leggere qualcosa in questo epilogo ne tragga pure la sua personalissima morale…
Senza mancare però di considerare che proprio nel momento in cui il sagace, arguto e sarcastico Wilde ci ha ancora una volta ingannati, e con rara maestria e disinvolta leggerezza per di più, non possiamo non amarlo per l’eternità ripetendo con lui: “Chi intende il simbolo, lo intende a suo rischio e pericolo”.

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Gli inquieti fantasmi di Henry James ne “Il Giro di Vite”
Cosa c’è di più conturbante di una storia di fantasmi in cui sia implicato un bambino? Semplice: una storia di fantasmi con due bambini coinvolti loro malgrado in una spirale senza fine di terrore … Da qui trae spunto il travolgente inizio di una delle storie di fantasmi meglio narrate nella storia di tutti i tempi, con incredibili risvolti di suspense e angosciosissimi dubbi….

Henry James nasce a New York nel 1843, e come molti suoi contemporanei subisce prepotente il fascino del cossidetto virus europeo che indusse buona parte degli scrittori e degli intellettuali dell’epoca a viaggiare in lungo e in largo per il vecchio continente assumendone e assimilandone la cultura e la storia.
A Parigi viene influenzato dalla frequentazione con Flaubert, Zola e Maupassant, dopodichè si stabilisce definitivamente a Londra, dove dà vita alla maggior parte dei suoi capolavori, tra cui Giro di Vite.
Universalmente riconosciuto come una pietra miliare dello sperimentalismo formale, questo romanzo è basato sulle diverse connotazioni conferite alla narrazione dalla scelta del punto di vista, in grado di rappresentare gli eventi in maniera diametralmente opposta, rispetto alle altre prospettive possibili. Al punto che per la prima volta la storia narrata, non è più LA storia, ma solo UNA delle storie realmente possibili, perché ogni cosa cambia e si trasforma a seconda del punto di osservazione, trama e personaggi sono mutevoli, cangianti, ingannevoli e come fantasmi sembrano dissolversi e rapidamente riapparire sotto multiformi vesti di momento in momento. Tanto che il lettore una volta chiuso il libro, non è più nemmeno in grado di dire egli stesso a quale delle possibili rappresentazioni abbia appena assistito, riuscendo comunque solo a riconoscere che, qualsiasi storia fosse delle tante possibili, ne è rimasto magicamente ammaliato subendone il fascino senza neanche sapere come.
Oltre ad essere un gran romanzo gotico, questo testo si presta a molteplici analisi essendo in esso tutto appositamente studiato per stupire, meravigliare ed irridere. Ogni dettaglio, la pur minima sfumatura, la più sottile percezione, sono stati concepiti per ottenere un determinato risultato, che sorprendentemente muta a seconda della chiave interpretativa con cui viene esaminato.
Vediamo il titolo per esempio, siamo in un’epoca letteraria in cui i titoli sono mediamente molto lunghi e tendono a descrivere l’oggetto della narrazione in maniera esaustiva, tipo Il Giro del Mondo in Ottanta Giorni, Frankestein o il Moderno Prometeo, Alice nel Paese delle Meraviglie o semplicemente ricalcano il nome del protagonista, Jane Eyre, Moll Flanders, Michele Strogoff, Dorian Gray, questo titolo sorprendentemente moderno, Giro di Vite, sembra alludere o precludere a consuetudini letterarie ancora da venire.
A una prima interpretazione il titolo, come spiegato dallo stesso autore nel prologo, anzi nell’antefatto, sta a simboleggiare una situazione aggravante, il dramma che si aggiunge al dramma, la goccia che fa traboccare il vaso: all’inizio della storia, troviamo un gruppo di persone riunite attorno al fuoco intente (come accadde alla famosa compagnia di Byron, Polidori, Percy e Mary Shelley) a raccontarsi storie per passare il tempo, storie intense, storie terrificanti, storie spaventose, insomma storie di fantasmi, e uno dei presenti esordisce dicendo, cosa ci può essere di più orrorifico di una storia di fantasmi in cui sia coinvolto un bambino?
Semplice: una storia di fantasmi in cui appaiono non uno ma ben due bambini. In pratica un giro di vite.
Ed ecco spiegato il titolo, o meglio così iniziamo a credere, ma sarà poi vero? E’ davvero questa l’interpretazione corretta che possiamo dargli? Cos’è in definitiva una vite? Un oggetto metallico costruito ed ideato in maniera tale da conficcasi profondamente nel legno man mano che ruota su se stesso. Se ci soffermiamo su questa immagine cosa possiamo vedere da un’altro punto di vista? Qualcosa che si fissa girando su sè stessa e che penetra lentamente e inesorabilmente nella superficie che ha davanti, un atteggiamento psicologico e pscicotico, una debolezza umana, un attaccamento selvaggio a un’idea fissa, una volontà pervicace, ottusa, ed ostinata.
Siamo nel giusto? Non lo sappiamo, e non lo sapremo mai per tutta la durata del racconto, come non lo sapremo una volta che lo avremo terminato, e come non potremmo saperlo nemmeno se lo rileggessimo altre mille volte.
Ma qual è l’io narrante scelto per realizzare questo innovativo stile letterario?
Molteplice anche questo: uno dei personaggi riuniti attorno al fuoco inizia raccontare una storia, a suo dire riportata da un suo amico, che a sua volta l’aveva letta in un diario.
Dunque un triplo passaggio. E chi è poi questo io narrante?
La protagonista diretta degli accadimenti, colei che è stata presente in ogni momento dello svolgimento, è una persona di tutta prova, di solida moralità, un’istitutrice, sufficientemente colta da non essere facile preda di isterismi o vittima di visioni, essa ci viene presentata, anzi si presenta da se stessa, come un soggetto degno della massima considerazione, tale per cui siamo costretti e quasi obbligati a prestare fede a ciò che dice, ciecamente, senza nulla chiedere né domandare. E pure gli eventi riportati sono di una tale “non credibilità” da lasciarci perplessi, anche perchè quel che ci viene prospettato dalla giovane donna non è tanto la narrazione oggettiva, ma la interiorizzazione dei fatti, la sua visione personale quindi, la sua proiezione singola ed individuale. Allora non ci resta altro che rivolgerci nel dubbio agli altri attori della narrazione scenica per avere conferme da loro sulla realtà dei fatti.
Già, ma chi sono poi gli altri? Abbiamo un capostipite, che però appare distante, lontano nella sua casa di città, che si limita ad assumere un’istitutrice col preciso intento di non essere né coinvolto né disturbato per la gestione delle necessità quotidiane, e che dopo il primo capitolo non compare praticamente più se non per dire, a mezzo lettera “per cortesia non voglio essere disturbato, sbrigatevela da Voi”. Dunque non è un attore quanto piuttosto un “deus ex machina”, colui che mette in moto gli avvenimenti, e poi si mette in disparte ad osservare, e su di lui non possiamo far conto, non interverrà.
Poi abbiamo una governante, e il personale di casa, ma chi sono questi elementi? Personaggi appartenenti a una classe inferiore (il romanzo rivela tra le altre cose anche insospettate connotazioni sociali, se non socialiste), poco affidabili, emotivi, influenzabili, rozzi, ignoranti, chiacchieroni e creduli: che aiuto possiamo mai aspettarci da loro?
Chi altro allora? Ci sono gli altri due protagonisti, i bambini sui quali l’istitutrice deve vegliare, ma sono bambini appunto, creature deboli, in balia degli eventi, inconsapevoli vittime, al centro di un arcano mistero, di cui non hanno consapevolezza, e come potrebbero?
Non ci resta dunque nulla altro che riaffidarci nelle mani della giovane donna, che ci narra la storia, ed assistere con lei ai misteriosi eventi, e con lei schierarci quando essa ne rimarrà coinvolta e drammaticamente sconfitta.
Anche la prosa di James è infida, i suoi stessi passi narrativi traggono in inganno, dicono e non dicono, e al contempo dicono tutto e il contrario di tutto, questo testo, a ben guardare somiglia a un gioco di puzzle montato male, non c’è un pezzo che si incastri bene con gli altri, ma tutti fluttuano vorticosamente senza mai fermarsi, tanto che non riusciamo nemmeno a vederne bene la forma né il colore né la dimensione.
L’istitutrice arriva nella casa di campagna, con il tipico entusiasmo dei giovani, e si accinge a prendere in mano la conduzione della casa e l’educazione dei ragazzi con tranquilla e disinvolta sicumera, certa che le sue fragili spalle siano perfettamente in grado di reggere tale peso, ma ecco che, quasi subito, vede una figura spettrale, oscura e misteriosa, uno sconosciuto che la osserva con malanimo, e poi scompare. Chi è costui? Indagando e chiedendo scopre presto che le fattezze da lei descritte si attagliano perfettamente all’intendente di casa, morto tragicamente anni prima, anzi scomparso…
Bene, non importa: i ragazzi sono graziosi, docili e arrendevoli, apprendono con facilità e si prestano volentieri a collaborare con la nuova maestra, la governante offre il suo valido aiuto, il personale di servizio è efficiente ed affidabile, tutto scorre per il meglio, l’andamento della casa procede a meraviglia, l’educazione dei ragazzi è posta su solide basi, il compito sembra dunque essere più semplice del previsto, se non fosse… se non fosse per quest’uomo subdolo ed oscuro che continua ad apparire e a scomparire.
Ma presto qualcosa si inceppa, il meraviglioso meccanismo perde dei colpi, il pacifico progredire dei giorni esce dai consueti binari della tranquillità quotidiana, le apparizioni si moltiplicano, si insinua prima il dubbio, e poi la terrificante certezza che anche i bambini sappiano, che anche i bambini vedano… ma che per qualche oscuro motivo essi non dicano nulla.
Anche la governante sa, anche la governante vede, e confidandosi narra di malefiche influenze, di oscure malvagità che a tratti affiorano nel comportamento di quelle angeliche creature, di parole irripetibili proferite dalla piccola, di comportamenti indecorosi tenuti dal ragazzo, si insinua presto l’ombra di un maleficio, i ragazzi sanno, i ragazzi vedono, essi sono posseduti, vittime di un maleficio, colpiti da una maledizione.
Ed i fantasmi che appaiono ora sono due, la precedente istitutrice e l’intendente, colpevoli di una bieca relazione amorosa che infrangeva e i limiti di classe e i confini della decenza, fuggiti, morti, defunti, scomparsi, eppure vivi, tornati a prendere possesso dei ragazzi, o forse a rivivere attraverso essi e dentro di loro.
Ma sono veri questi fantasmi? Ci sono davvero? O sono un frutto della mente malata dell’istitutrice?
Forse le troppe responsabilità, il peso eccessivo che grava su di lei, forse la gioventù, l’inesperienza, un supposto amore ideale e impossibile per il suo austero datore di lavoro, un eccesso di romanticismo, il forzato isolamento, forse tutto questo ha avuto ragione del suo equilibrio mentale, e la posseduta, la folle, la visionaria potrebbe alla fine essere solo lei? Ma allora perché questi ragazzi sono così angelici, così perfetti nella loro arrendevolezza, così assolutamente candidi e innocenti, al punto da apparire quasi sospetti? Non sappiamo e mai potremmo dire da che parte sta la verità.
Quando ecco nelle pagine finali il mistero sembra svelarsi, dal fondo del tunnel cominciamo a intravedere una luce, che si avvicina, ora sta per illuminarci, quasi vediamo, quasi crediamo di capire, quasi comprendiamo il macabro gioco di prestigio di cui sicuramente siamo stati vittime ( e vi assicuro che a questo punto nemmeno un allarme antiaereo o un incendio in salotto riuscirebbero a schiodarvi dalla vostra poltrona) e un attimo prima che la soluzione ci venga svelata, o forse giusto un attimo dopo, ricadiamo perplessi nelle tenebre più oscure della più impenetrabile non conoscenza.
Perché alla fine ne sappiamo meno di quanto credevamo di sapere all’inizio, il vento ha girato e ha riportato l’imbarcazione in mare aperto, i flutti e i marosi ci sballottolano di qua e di là, le vele sbattono implacabili contro l’alberatura, gli spruzzi ci colpiscono sul viso, e noi vaghiamo senza meta in questo oceano sconfinato e non troveremo mai la strada. Perché sapete cosa succede alla fine? Che la giovane e coraggiosa istitutrice, colta in fondo anch’essa dal dubbio di essere pazza, decide di uscire allo scoperto, e costringe le piccole creature ad affrontare le inquietanti visioni, di cui ovviamente davanti alla loro possibile o supposta innocenza prima non si era mai parlato, e gli chiede, non senza devo ammetterlo, un certo tono da invasata, allora li vedi? Dimmi che li vedi anche tu… Ottenendo dalla bimba un collasso immediato e una fortissima crisi di febbri epilettiche, che la costringono ad allontanarla e a mandarla sollecitamente dal medico di città accompagnata dalla governante. Fatto questo l’istitutrice resta ovviamente sola col ragazzo, il quale a momenti appare un bimbo sprovveduto ed ingenuo, ancora rivestito dei candidi panni dell’infanzia, a tratti invece appare un semi-adolescente inquieto e spavaldo, quasi in tentazione di sedurla. Messo a confronto anch’esso, brutalmente e con violenza, con l’ennesima apparizione, al reiterato: dimmi che anche tu la vedi… egli crolla folgorato tra le braccia della povera sconsolata avventata folle e coraggiosa istitutrice e, ci dice l’autore, il suo povero cuore ora non batte più.
Potete leggerlo e rileggerlo questo romanzo, e anche copiarlo parola per parola se credete che questo vi possa aiutare, e setacciare tutte le biblioteche alla ricerca di prefazioni, interpretazioni e recensioni, tutto quello che troverete sarà sempre e soltanto un grande, meraviglioso, incomparabile gioco di alchimia letteraria, mai tentato prima, e devo dire, mai eguagliato dopo.
Anche se, ve lo confesso, se solo Henry James fosse stato vivo gli avrei scritto o telefonato, per avere le mie risposte.
Ma chissà che io non possa, forse, dopotutto, evocare il suo fantasma ?

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Frankestein di Mary Shelley
Il terribile mostro che condanna la falsa onniscenza dell’uomo è in assoluto la prima prima pietra miliare che viene posta in letteratura a creare la genesi di tutta una serie di filoni destinati ad avere in seguito grandissima fortuna, dal gotico al noir, dall’horror al thriller, questo romanzo è l’antesignano di tutti i generi “neri”

Influenzato dalla rapida successione di incredibili scoperte scientifiche e tecnologiche e dai primi studi evoluzionistici a firma di Erasmus Darwin, vede la luce nel 1817 il Frankestein di Mary Wollstonecraft Shelley, nel tentativo di spiegare un universo in pieno mutamento e di rappresentare la falsa onniscienza in cui l’uomo all’epoca si cullava, questo romanzo rappresenta la genesi del genere fantastico frutto di una perfetta fusione di elementi gotici e fantascientifici.
La scrittrice inglese nacque il 30 agosto 1797 in un ambiente ricco di stimoli culturali e di pensieri decisamente innovativi, da due genitori letterati ed intellettuali: il padre, William Godwin, fu filosofo, teorico, politico e scrittore appartenete al movimento del razionalismo anarchico, la madre Mary Wollstonecraft, scomparsa prematuramente, viene considerata l’antesignana di tute le femministe, tra le prime a promuovere i diritti della donna, scrisse una serie di testi sul femmismimo, fu attiva militante del movimento, decisamente progressista, fu la fondatrice di un circolo che per la prima volta accoglieva le donne di ogni ceto sociale, tra cui molte scrittrici. A lei si deve il primo manifesto femminista di tutti i tempi, tra l’altro pubblicato anche in Italia nei caldi anni ‘70.
La vita della madre di Mary Shelley fu per molti versi drammatica, e per alcuni aspetti simile e speculare a quella che ebbe poi la figlia, protagonista di una fuga d’amore e di una relazione clandestina dopo aver concepito una figlia fuori dal matrimonio, tentò il suicidio a seguito dell’abbandono dell’amante, e infine lo seguì fino in Scandinavia, scrivendo poi un romanzo su questo inseguimento d’amore, Travel, dove descrive se stessa come un’intellettuale alle prese con le difficile scelte di donna e di madre, nonchè di rivoluzionaria. Di lei ci restano le struggenti lettere d’amore al suo perduto amore, il diario di viaggio, e un successivo romanzo sempre autobiografico dal titolo Maria, or The Wrongs of a Woman pubblicato postumo dal vedovo, il padre di Mary, con cui aveva intrapreso una nuova relazione dopo la precedente drammatica esperienza amorosa, e che sposò solo dopo essere rimasta nuovamente incinta. Morì di febbre puerperali nel 1797 dopo aver dato alla luce Mary.
Mary, invece, sulle orme delle esperienze materne, a soli 16 anni incontra durante un soggiorno in Scozia il romantico, giovane e geniale poeta ribelle Percy Bysse Shelley, e lo segue in una romantica fuga d’amore fino in Svizzera, lo sposa solo nel 1816, dopo la morte per suicidio della prima moglie di lui, Harriet Westbrook, anch’essa giovanissima. Con il marito viaggia attraverso l’Europa in Francia, Germania ed Olanda, ed approda infine in Italia.
Come per le sorelle Bronte la sua vita fu improntata da una serie infausta di tragedie ed eventi lussuosi, succedutisi senza interruzione: nel 1822 muore il marito Percy per il naufragio del suo natante da diporto nelle acque tra Genova e La Spezia, i comuni amici Byron e Polidori muoiono anch’essi giovanissimi, Byron a Missolungi, Polidori suicida, la nipotina Allegra, figlia che la sorellastra Claire ebbe da Byron, fu da questi affidata a un Istituto dove morì di malattia in tenera età, come accadde anche ai figli di Mary e Percy, di cui solamente uno sopravvisse.
L’esistenza di Mary stessa si trascinò tormentata da scandali, amori non corrisposti, e aspre difficoltà economiche fino alla morte, probabilmente per un tumore al cervello, nel 1851.
Tuttavia nonostante le alterne vicende Mary Shelley, a quanto ci risulta,fu in assoluto la prima donna a vivere dei suoi proventi di scrittrice, nonostante fosse stata costretta a dare alle stampe le sue prime opere in forma anonima, o sotto pseudonimo maschile. E il suo romanzo, definitivamente consegnato al mito della storia della letteratura, essendo in assoluto il capolavoro che vanta in tutti i tempi il maggior numero di imitazioni, dimostra una struttura narrativa particolarmente ardita ed innovativa.
Come tutti sanno, la genesi di questo romanzo ebbe inizio durante un incontro, la cui storia appartiene ormai alla leggenda. Nell’estate del 1816 Lord Byron si trovava sul lago di Ginevra, in una suggestiva Villa, la Villa Diodati, che aveva preso in affitto per la stagione, e la sera per ingannare la noia di una lunga serie di giorni piovosi, davanti al caminetto gli ospiti eccellenti di quel soggiorno estivo, dopo aver narrato storie di fantasmi facendo a gara per raccontare la storia migliore, decidono di dar vita a una gara di scrittura, con l’idea di preparare ciascuno una storia attinente al genere gotico-orrorifico.
I presenti erano Lord Byron (padrone di casa), il poeta Percy Bysshe Shelley, accompagnato dalla sua giovanissima moglie Mary Wollstonecraft e il medico John Polidori, e quella fu una notte memorabile per la storia della letteratura.
Byron e Shelley composero due brevi racconti, The Burial e The Assassin, Polidori ideò un romanzo breve Il Vampiro, poi dato alle stampe nel 1819, anch’esso antesignano di uno specifico filone letterario di indiscussa fortuna, sopravvissuto fino ai nostri giorni, e Mary stese una novella ispirata al mito di Prometeo, dal titolo di Frankestein, pubblicata nel 1818 e destinata alla consacrazione eterna nella storia della letteratura.
Pur non essendosi mai cimentata con il genere, l’opera di Mary risultò talmente carica di orrore inespresso, che ella sentì il bisogno di celarsi dietro un immaginario sogno ” a occhi aperti” che, disse, le aveva ispirato il racconto, rivelandosi forse, la prima esperta di Marketing Letterario nella storia.
Difficilmente si riesce a immaginare una trama simile concepita da una mente femminile, ed era certo più semplice trovare riparo nel facile espediente di un evento onirico.
La novella iniziale era molto più breve, e furono necessari anni di rielaborazioni per portarla a compimento nella forma attuale. Sia la trama che la struttura narrativa sono ardite e ardimentose, prospettando dei modelli innovativi per l’epoca e dei contenuti che furono a suo tempo aspramente criticati. Negli anni a venire la critica letteraria ha creduto di rintracciare in quest’opera, dichiaratamente ispirata al mito di Prometeo, influssi e connotazioni comuni con le opere di Milton ne Il Paradiso Perduto, di Omero nell’Iliade e nelle Metamorfosi, di Shakespeare ne LaTempesta e nel Sogno di Una Notte di Mezza Estate, di Stevenson nel celeberrimo Dr. Jekyll and Mr Hyde, e di Oscar Wilde ne Il ritratto di Dorian Gray.
Basterebbero da soli questi parallelismi così eccelsi e tanto complessi per proiettarci in quella che è la reale dimensione di questa opera fondamentale ed unica, anche al di fuori del suo genere.
“I am by birth a Genevese, and my family is one of the most distinguished of that republic. My ancestors had been for many years counsellors and syndics, and my father had filled several public situations with honour and reputation. He was respected by all who knew him for his integrity and indefatigable attention to public business. He passed his younger days perpetually occupied by the affairs of his country; a variety of circumstances had prevented his marrying early, nor was it until the decline of life that he became a husband and the father of a family.”
Questo il sommesso incipit, pur vigoroso, di un testo complesso, svolto su diversi piani temporali, che non predilige nessuna delle forme narrative consuete all’epoca, in questa partenza nulla ci anticipa, nulla ci prepara, nulla ci avvisa del sommesso fremito orrorifico che presto ci pervaderà, e già nella quarta delle lettere che ci introducono, riassumendo, in “media res” ci sentiamo chiedere dallo stesso co-protagonista della vicenda: “…..non senti anche tu ghiacciarti il sangue per l’orrore?…” e non possiamo non concordare con lui, perche’, pur sapendo poco o nulla della vicenda, tuttavia sentiamo serpeggiare nelle nostre vene un indiscusso, irrefrenabile e oscuro fremito di puro terrore.
Sarà l’ambientazione tra i ghiacci, sarà la sensazione che il co-protagonista non è altro in realtà che la “spalla” dell’orrida creatura, vera indiscussa e incontrastata stella dell’intera narrazione, sarà che la vicenda si snoda in una serie di falsi piani temporali e narrativi, ma la magia di questo testo difficlmente è riproducibile, ed effettivamente mai è stata riprodotta, neppure in parte, nelle centinaia di tentativi di imitazione che si sono succedute nei secoli a venire.
Ma vediamo per sommi capi la storia, ovviamente nota a tutti, e la trasposizione narrativa, esaminata nella sua complessa architettura strutturale.
Facendo una rapida sintassi, una specie di Bignami della trama, possiamo dire per sommi capi che si narra di uno studioso di medicina svizzero, che sperimentando tenta di creare la vita dal nulla ed assembla una creatura mostruosa usando pezzi trafugati dai cadaveri nel cimitero, riuscendo ad infondere in essa la vita, ma che poi, terrorizzato dal suo medesimo successo, fugge nell’attimo stesso del suo affacciarsi alla vita, lasciandola ad affrontare da sola le difficoltà della sua esistenza. La creatura orrorifica ed incompleta, dotata di un aspetto terrificante, abbandonata a se stessa tenta di trovare una sua via, ma viene rifiutata e perseguitata a causa del suo orrido aspetto, la sua bramosia di vita si ritorce in odio verso l’umanità in genere e verso il suo creatore in particolare.
Parte così una doppia caccia del mostro in cerca del suo creatore per vendicarsi e del creatore in in cerca del mostro per liberare l’umanità dalla sua fastidiosa presenza, in una rocambolesca fuga attraverso i ghiacci, in cui non si sa più chi sia preda e chi cacciatore, chi vincitore e chi vinto, chi il bene e chi il male.
Questo dualismo è in realtà il filo conduttore di tutta l’opera.
Il primo editore a cui si rivolse, facendo passare il suo manoscritto per quello di un giovane autore, rifiutò il libro, che venne poi pubblicato da Lackington, Allen and Company, nel marzo 1818, non conoscendo un successo immediato se non dopo innumerevoli discussioni e polemiche, che non fecero altro che alimentarne il mito, definitivamente consacrato con la realizzazione delle prime trasposizioni cinematografiche, almeno sei di cui l’ultima celeberrima, senza contare tutta la produzione minore.
Mary Shelly scrisse successivamente biografie, racconti di viaggio, storie della letteratura, articoli di giornali, romanzi futuristici e novelle, ma senza mai eguagliare la sua prima eccelsa opera, morì nel 1851, logorata da un lungo travaglio doloroso, probabilmente a causa di un tumore al cervello.
A tutti gli effetti la Shelly fu considerata la vera madre dell’intero filone fantascientifico e il suo Frankestein continua ad avere un grande successo, tanto che vanta il maggior numero di tentativi di imitazione, ristampe; e trasposizioni sia teatrali che cinematografiche.


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Scritto venerdì, 21 novembre 2008 alle 17:53 nella categoria EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, SEGNALAZIONI E RECENSIONI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.

155 commenti a “LA LETTERATURA DEL TERRORE E SIMONETTA SANTAMARIA”

Come avete notato questo post parte con alcune domande. Ve le ripropongo nel commento successivo…

Postato venerdì, 21 novembre 2008 alle 17:54 da Massimo Maugeri


Che rapporti avete con la letteratura del terrore?
Ne siete appassionati? Vi lascia indifferenti?
Vi disgusta?

Postato venerdì, 21 novembre 2008 alle 17:54 da Massimo Maugeri


Come accennavo in premessa la letteratura del terrore – nelle sue vari declinazioni – ha già una sua storia il cui inizio coincide con le origini del romanzo gotico.

Postato venerdì, 21 novembre 2008 alle 17:55 da Massimo Maugeri


Vi invito a dire la vostra sull’argomento.
E chiedo a Sabina Marchesi – se ne ha la possibilità – di aiutarmi a moderare la parte “generale” della discussione.

Postato venerdì, 21 novembre 2008 alle 17:57 da Massimo Maugeri


Ma il post è anche finalizzato a presentare il romanzo d’esordio di Simonetta Santamaria.
Simonetta parteciperà alla discussione sul suo libro (la quale verà moderata ds Francesco Di Domenico ed Enrico Gregori).

Postato venerdì, 21 novembre 2008 alle 17:58 da Massimo Maugeri


Sabina Marchesi potrebbe farmi pervenire due recensioni su classici della letteratura del terrore.
Spero di fare in tempo per inserirli.

Postato venerdì, 21 novembre 2008 alle 18:00 da Massimo Maugeri


E’ un genere che non mi attira.

Postato venerdì, 21 novembre 2008 alle 18:00 da Renzo Montagnoli


Vi anticipo che nei prossimi giorni sarò assente per motivi di lavoro (nel senso che difficilmente potrò intervenire).
Tenterò comunque di connettermi da qualche Internet point.

Postato venerdì, 21 novembre 2008 alle 18:01 da Massimo Maugeri


@ Simonetta Santamaria
Se ti fa piacere (e se è possibile) potresti inserire tra i commenti alcuni brani del tuo libro.

Postato venerdì, 21 novembre 2008 alle 18:02 da Massimo Maugeri


@ Renzo
Nel senso che ti… terrorizza?

Postato venerdì, 21 novembre 2008 alle 18:03 da Massimo Maugeri


Io ne approfitto per dichiarare una mia vecchia passione per le opere di Edgar Allan Poe e per alcuni dei libri di Stephen King che considero davvero grandi.

Postato venerdì, 21 novembre 2008 alle 18:04 da Massimo Maugeri


@Massimo: No, non mi terrorizza, ma lo ritengo non realistico e infatti non amo anche la fantascienza e il fantasy.
Però, Lo strano caso del dottor Jeckill e del signor Hyde mi è piaciuto moltissimo, e non solo perchè l’ha scritto Stevenson, uno dei più grandi narratori che ci siano mai stati, ma perchè lì in fin dei conti c’è lo sdoppiamento della personalità che, per esigenze letterarie, ha caratteristiche vicine all’horror; non mi sentirei, tuttavia, di accostarlo a Frankestein e a Dracula, dove l’irreale invece domina.

Postato venerdì, 21 novembre 2008 alle 18:16 da Renzo Montagnoli


Amo Edgar Allan Poe: i suoi racconti sono autentiche piante carnovore che ti catturano dal primo rigo e non ti mollano più…
Mi piace Stephen King, specie in “Cose preziose”, “Mucchio d’ossa”, che trovo bellissimo per le sue suggestioni da Melville – leggete anche l’autobiografia ON WRITING!!! – .
Non mi attira lo splatter, ma il thriller sì, le suggestioni, e inquietudini che può offrire.

Postato venerdì, 21 novembre 2008 alle 18:33 da Maria Lucia Riccioli


Ho letto le opere che ricorda Massi – ciao, carissimo! Buon lavoro e tienici d’occhio… :-)
Le ho amate molto. Mi hanno regalato emozioni e brividi, perché un buon libro di genere come quelli citati non è solo effetti ma scende nelle pieghe nascoste dell’animo umano…
GIRO DI VITE di Henry James è qualcosa di terrificante pur nella sua assenza di sangue…

Postato venerdì, 21 novembre 2008 alle 18:38 da Maria Lucia Riccioli


Grazie Mari.
E sì, vi terrò d’occhio.
In caso di problemi fate un fischio (anche via sms).
;)

Postato venerdì, 21 novembre 2008 alle 18:45 da Massimo Maugeri


venero edgar allan poe. adoro la fantascienza (soprattutto p.k. dick). le apparizioni improvvise di giro di vite, le leggo e le rileggo spesso. come scrive maria lucia. non c’è sangue e la prosa di james è calibrata e inquieta perché mi terrorizza con quella sorta di suggestione psicologica. essendo appassionato di neuropsichiatria, m’è sempre piaciuto mescolare i disturbi psicotici e la fantascienza nei miei racconti. il terrore di vedersi apparire una realtà stravolta, dall’interno. magari senza uso di sostanza allucinogene. il terrore della pazzia. e in quella pazzia uno ci deve credere, sennò il lettore faticherà a impressionarsi.
viva l’horror! :)

Postato venerdì, 21 novembre 2008 alle 19:00 da gianluca


ma terrore e horror sono generi leggermente differenti, no?

Postato venerdì, 21 novembre 2008 alle 19:02 da gianluca


Sono arrivati i contributi di Sabina Marchesi e ho aggiornato il post.
Buona lettura!!!

Postato venerdì, 21 novembre 2008 alle 19:04 da Massimo Maugeri


ciao, non mi piace per niente e neppure la filmografia, la trovo veramente assurda e non amo troppo l’assurdo.

Postato venerdì, 21 novembre 2008 alle 19:38 da giuse


Non amo la lettura del terrore, ma ne approfitto per esporre un mio breve commento sul grande Oscar Wilde.

Oscar Wilde:
Come ogni protagonista di rilievo, anche Oscar Wilde fu una necessità per il suo tempo.
Fu un periodo della storia umana, dove la severità e rigididezza dominarono gli istinti dell’uomo, fino a renderlo schiavo di se stesso nel portarlo al limite della paura psicotica su ogni pensiero ed azione da mettere in atto.
Fu un periodo di chiusura mentale assoluta dietro una facciata dettata dalla volontà di insapienti del potere di poter creare ordine ed armonia vietando addirittura di respirare il proprio alito.
Con grandiosa abilità e fantasia Oscar Wilde riuscì a denunciare i difetti del suo tempo e lo fece nascondendosi dietro la satira che all’inizio divertì anche i più rigidi difensori dell’ordine vittoriano. Ma, come era da aspettarsi, prima o poi cadde lui stesso nella trappola da lui posta e dovette subirne le reazioni di un sistema che mai permise la trasgressione delle sue teorie diventate codice di vita.
Fu un grande uomo che lasciò le impronte per una nuova era da venire, così come molti altri personaggi fecero assumendo nella loro epoca che li ha creati il ruolo di ispiratore della libertà espressiva e d’azione, l’unica sorgente del progresso umano, perché comprende che solo attraverso gli errori fatti l’uomo può imparare e raggiungere un po’ di maturità e serenità.
Saluti.
Lorenzo

Postato venerdì, 21 novembre 2008 alle 20:17 da lorenzerrimo


Poe è stato uno dei primi autori che mi hanno affascinato. Poi è venuto Lovecraft, che semplicemente adoro. Poi c’è stata la scoperta di Arthur Machen, autore inglese della prima metà del secolo scorso di vasta erudizione (fu anche traduttore di Rabelais), che al pari di Lovecraft affascinò anche Borges, e che meriterebbe maggior fama.
Di Stephen King ho amato molto “Stand by me (ricordo di un’estate)” il bellissimo film di Rob Rainer dal racconto “Il corpo” e naturalmente “The Shining” (libro e film).
Il libro della Santamaria non l’ho letto, ma Enrico Gregori me ne ha parlato molto bene, prima ancora di recensirlo qui, e credo ci sia da fidarsi. E anche di Francesco Di Domenico.

Postato venerdì, 21 novembre 2008 alle 22:22 da Anonimo


Anonimo ero io
(Carlo)

Postato venerdì, 21 novembre 2008 alle 22:23 da Carlo S


Parto subito con un saluto (chiamata di correo?) per l’amico Enrico Gregori e per la sorellina Simonoir.
L’horror mi ha sempre divertito per il suo lato fuorviantemente umoristico, per il suo essere così irriverente dello stato di cose presenti , da risultare per i suoi rovesciamenti della realtà molto simile alla scrittura comica e allo humour (e ne abbiamo uno splendido, ma non unico esempio in “Frankestein Junior” di Mel Brooks).
Da adolescenti si andava a vedere i film dell’orrore armati di patatine Pai e disincanto, sghignazzando tra noi, ma poi, lasciati gli amici e varcato il portone di casa si facevano le scale a quattro: che fortuna trovare la mamma sveglia che ci sgridava, poi testa sotto le coperte a pensare all’indomani al compito di greco, che ormai non faceva più paura.

Postato venerdì, 21 novembre 2008 alle 22:43 da Francesco Di Domenico


Sperando di non tediarvi (speranza vana) e mentre il dibattito fa il suo rodaggio, vi volevo sottoporre un gioco che sovente faccio alle presentazioni di Simonetta e che scombussola un po’ l’ambiente un po’ tetro degli ospiti che si aspettano seriosi ragionamenti sul mistero.
Tra l’altro, sottoponendovelo, svelo, se non erro, l’incipit del romanzo (Simonoir mi correggerà se sbaglio).

“La Silenziosa” è una villa su cui incombe una terribile maledizione
risalente agli antichi misteri egizi. Quando Sara decide di riaprire quella casa, che era appartenuta ai suoi genitori, si ritrova a piombare in un incubo senza via d’uscita. La maledizione torna a colpire attraverso il suo terribile emissario, l’Ouroboros, il serpente del diavolo. Il mese dei morti. Non c’è mese peggiore per morire. Tutto effonde morte, I giorni, le notti, l’aria stessa, il tempo. La gente si abbandona mesta ai ricordi; non pensa, commemora nel silenzio delle proprie angosce. Tutto è terribilmente triste. Il tempo non sempre è terapeutico. A volte incarognisce le sensazioni.
Simonetta Santamaria

“La Silenziosa” è una villa su cui incombe una terribile maledizione
risalente agli antichi misteri egizi, vi sono stati ritrovati alcuni papiri raffiguranti Calderoli di profilo che racconta barzellette sconce a Nefertiti.
Quando Sara decide di riaprire quella casa (che si trova a Chiaiano, con un’affaccio sulle cave),e che era appartenuta ai suoi genitori, si ritrova a piombare in un incubo senza via d’uscita: qualcuno ha tappezzato il tinello con foto in costume da bagno di Rosa Russo Iervolino.
La maledizione torna a colpire attraverso il suo
terribile emissario, l’Ouroboros, il serpente del diavolo, un esattore di Equitalia che lei trova seduto in soggiorno con in mano l’arma infernale, una penna Aurora e le dice: “Signora, firmi qui o le sequestriamo il motorino!”
E’ novembre, il mese dei morti. Non c’è mese peggiore per morire. Tutto effonde morte, i giorni, le notti, l’aria stessa, il tempo e i peperoni fritti della sera precedente. La gente si abbandona mesta ai ricordi; non pensa, commemora nel silenzio delle proprie angosce. La signora Titina Centoletti, del primo piano ricorda ancora quando, vent’anni prima, si affacciava a fare la spesa in baby-doll e Raffaele, il fruttivendolo col treruote, restava ore guardando insù a commemorare la sua angoscia.
Tutto è terribilmente triste. Il tempo non sempre è terapeutico.
A volte incarognisce le sensazioni, specialmente quando il mattino si scambia per errore il tubetto di crema per le emorroidi con il dentifricio.

Francesco Di Domenico

Postato venerdì, 21 novembre 2008 alle 22:49 da Francesco Di Domenico


Naturalmente le predilezioni e i gusti vanno rispettati e compresi.
Per cui chi afferma “l’horror è un genere che non fa per me”, non dice alcunché di stravagante soprattutto se, per esempio, la persona ha una passione immensa per i saggi storici o le liriche d’amore.
A puro titolo di cronaca, però, vorrei dire che mi sono spesso imbattuto in lettori che, a proposito di romanzi a loro poco congeniali, hanno detto “ah però, ma questo giallo non è solo…giallo”, “e questo noir non è solo…noir”. D’altro canto, è davvero possibile “liquidare” con un catagorico “poliziesco” tutto quello che Simenon ha scritto sul commissario Maigret? Oppure Rex Stout su Nero Wolfe? E Conan Doyle col suo Sherlock Holmes è davvero semplicemente “giallo”?
Ho scomodato paragoni ingombranti solo perché si tratta di autori più o meno conosciuti da tutti. Ma, analogamente, credo che “Dove il silenzio muore” di Simonetta Santamaria sia un horror “ambientale” con molta attenzione alla natura e alla vita dei personaggi più che agli effetti shock.

Postato sabato, 22 novembre 2008 alle 00:20 da enrico.gregori


Sono d’accordo, Enrico. Credo che l’horror, il giallo, il noir abbiano un valore altissimo a livello narrativo, al di là dei gusti personali.
Sono generi che consentono un affondo netto nei personaggi , a fil di lama, come un lucidissimo occhio interiore. Scrutano le nostre ambiguità senza tacerle, prendendo atto del mistero che ci abita, dello scontro con forze contrapposte.
La straordinaria prospettiva di “giro di vite” ad esempio, è un io narrante solo in apparenza sano, che mostra progressivamente la propria instabilità. E’ un punto di vista geniale, modernissimo, lontano dal narratore onniscente, o dal narratore”distante” che sa mettere uno spazio emotivo tra se’ e i propri personaggi.
Una simile angolatura, di sanità malata, e poi di malattia che scivola nell’immaterialità degli spettri, è quanto di più vicino all’animo umano sia mai stato raccontato.
Proprio come se lo stesso cuore avesse mani per scrivere.

Postato sabato, 22 novembre 2008 alle 09:28 da Simona Lo Iacono


Enrico ha ragione: le etichette vanno bene per i medicinali, ma non per le opere letterarie. Non c’è di solito un libro che rientri perfettamente in una categoria. Tende a debordare e incrociare le altre…
Conan Doyle. Pur con tutto l’arsenale deduttivo di Holmes, era un convinto esoterista… e nei racconti e romanzi c’è un gran gusto per l’esotismo, il mistero, l’avventura… le suggestioni insomma sono più sottili.
Per Lorenzerrimo: adoro Wilde e sono d’accordo con la tua analisi. C’è da dire che Wilde ci dà un fantasma delizioso, quello di Canterville, e lo carica di tutte le paure e attese che erano anche sue: il desiderio disperato di salvezza nascosto dal riso ironico, il mistero della salvezza che è tutt’uno con quello della vita e della morte…
Come vediamo, guai ad etichettare un autore o un genere.

Postato sabato, 22 novembre 2008 alle 10:11 da Maria Lucia Riccioli


Anch’io sono d’accordo con Enrico e Maria Lucia. Etichettare un libro significa ridurne i contenuti. Io in genere non amo i libri gialli, i noir e tutto quello che ha a che fare con il poliziesco, ma se mi capita tra le mani un libro di Sthepen king non riesco più a smettere di leggere. Così come i racconti del grottesco di Poe sono stati determinanti per la mia formazione. E anche Lovecraft. Suspence, orrore e fantastico si assemblano dando vita alle storie, sta all’abilità dello scrittore armonizzarle. Kafka non era forse un maestro dell’orrore? La metamorfosi si legge con l’angoscia, la sensazione sgradevole che ci sia uno dietro che ti soffia sul collo; ti fa provare i brividi, si incunea tra i labirinti della nostra immaginazione come una lama fredda e tagliente. Alla fine quello che conta è riuscire a trasmettere emozioni al lettore, renderlo partecipe delle tue. Auguri a Simonetta e complimenti ai relatori. Didò ma non eri un esperto di letteratura umoristica? Pure di brividi ti occupi? Non salirei sul tuo autobus nemmeno se fossi inseguito dal diavolo.

Postato sabato, 22 novembre 2008 alle 11:27 da Salvo zappulla


Allora partiamo dal principio: adoro l’HORROR, probabilmente perché difficilmente un libro o un film di questo genere riesce veramente a spaventarmi. Sono una fan assoluta di Lovecraft, Stoker, Shelly e Poe. Adoro con tutto il cuore Stephen King fino al bellissimo “Mucchio d’ossa”, poi, vuoi perché ha avuto un grave incidente, vuoi perché per sua stessa ammissione ha smesso di far abuso di alcool e droghe, la sua scrittura si è persa. Fortuna che ci ha dato moltissimo da leggere e rileggere, ivi compresa la surreale saga della Torre Nera che spazia dalla fantascienza, al fantasy, all’horror passando per il western, l’epico e il sentimentale. Un capolavoro in sette libri (mi pare siano sette, adesso non mi va di andare a controllare in libreria) che è valso la pena aspettare, seguire e leggere in molti anni di gestazione. Credo che sia limitante precludersi una lettura in base al genere di appartenenza che, come dice Gregori, serve solo a sistemare i libri sugli scaffali delle librerie. Ma sono scelte.
Riguardo la grande Simonoir, ho letto “Dove il silenzio muore” e ne sono rimasta affascinata. Romanzo bello, scritto benissimo, appassionante. E devo dire grazie a Gregori per avermelo consigliato. E a Simonetta per averlo creato.
Laura

Postato sabato, 22 novembre 2008 alle 11:46 da Laura Costantini


Confortato da alcune opinioni qui sopra riportate da altri, continuo a pensare che la stragrande maggioranza dei libri (a prescindere dalla qualità e dal personale apprezzamento) abbiano molteplici elementi e che quindi l’etichetta di genere riguarda la generale atmosfera del romanzo. Per fare un paradosso, qualcuno se la sentirebbe di dire che l’Inferno di Dante è horror oppure gothic?
Chiaro che ho scomodato un’opera inarrivabile, ma l’ho fatto solo nel tentativo di spiegarmi al meglio. Comunque, tornando al romanzo di Simonetta, sarebbe auspicabile che quanto prima l’autrice postasse un brano del suo libro, magari proprio uno dei tanti dal quale sia possibile rendersi conto che l’horror aleggia ma non è tutto e soltanto ciò che caratterizza “Dove il silenzio muore”.

Postato sabato, 22 novembre 2008 alle 13:28 da enrico gregori


Innanziutto ringrazio Massimo che ha selto di ospitare il mio romanzo, Francesco ed Enrico che mi fanno da “padrini” e tutti voi che state partecipando alla discussione sull’horror.
Purtroppo in questo momento sono fuori Napoli, e senza adsl, per cui sto facendo salti mortali per essere con voi: farò il possibile fino a domani sera, dopodiché potrò ripartire alla grande.
@ Renzo: l’horror ha varie sfaccettature, secondo la classica accezione si ritiene un genere fantastico e poco attinente alla realtà ma da Poe a King, il Maestro, l’horror assume una veste più veritiera, ed è questo che contraddistingue i miei scritti. Come dico spesso, il mio è un horror “quotidiano”: non troverete vampiri e zombie in un contesto fantastico ma esseri fantastici inseriti in un contesto familiare, così vicini al lettore da sembrare quasi reali. Il nostro vicino di casa, la migliore amica di vostra moglie, un’adorabile bambina… E questi sono gli elementi che credo facciano più paura. Se ti lasci convincere e coinvolgere, credo che potresti cambiare idea ;)
@Simona:Brava, hai centrato in pieno la psicologia di scrive horror, e noir; questi generi non sono altro che un affondo nel lato oscuro di tutti noi. Noi diamo voce e vista a quel mostro che vive silente in un angolo recondito del nostro io. Prendiamo una manciata di paure umane, le condiamo con la giusta dose di fantastico e le rendiamo fruibili: molti riescono a immedesimarsi, dipende da come ci si pone di fronte a un libro del genere. E’ come fare un giro sulle montagtne russe: chi sale sa che quando la barra ti inchioderà al sedile, non potrà più scendere. Se accetti, accetti di finire la corsa. Altrimenti non ci sali neppure.

Più tardi cercherò di postare un paio di brevi brani tratti dal mio romanzo, e risponderò a tutti quelli che vorranno colloquiare su questo tema a cui tengo molto, proprio per sfatare il mito dell’horror come genere unicamente fanta-splatter. Il mio non è né l’uno né l’altro: è (o almeno cerca di essere) tensione, Paura, quella che ti fa scrutare nel buio dopo aver chiuso il libro. Ed è italiano, per dimostrare che anche noi lo sappiamo fare. Che anche noi donne lo sappiamo fare. Perché, cari signori uomini, voi non avete idea di quanto possa far paura una donna… ;)
Intanto, per i più curiosi, vi rimando al mio sito, dove troverete qualcosa di più su questa “donna inquietante” che ha deciso di sfidare le firme d’oltreoceano puntando su un genere niente affatto facile, ancora troppo vittima di pregiudizi. L’horror è cambiato, provare per credere!
A più tardi!

Postato sabato, 22 novembre 2008 alle 14:39 da simonetta santamaria


arrivo buona ultima, e in fin dei conti solo per ribadire un concetto già più volte espresso.
i generi sono scatolette ben ordinate ed etichettate in cui è comodo far rientrare tutto. ci sono libri che ci possono più o meno stare, e che non ne risentono in modo particolare.
ma ce ne sono altri che tracimano, e sfuggono.
puoi schiacciare finché vuoi, spingere, saltarci sopra (mi viene in mente la metro di tokio, con gli addetti al compattamento delle masse), ma quelli non ci possono entrare.
perché hanno spessore e densità, perché hanno le ali.
perché la sistematica linneana non è applicabile in letteratura.
e, pensandoci bene, neanche nella vita.
:-)

Postato sabato, 22 novembre 2008 alle 15:04 da gea


apperò, qui si cita carlo linneo come fosse un vicino di casa!
:-)

Postato sabato, 22 novembre 2008 alle 15:19 da enrico gregori


a me paice tutto quanto è fantastico e mi piacciono i thriller psicologici, un po’ meno le cose cruente e sanguinolente.
E di Simonetta avevo letto già alcuni racconti molto inquietanti.

Il mio contributo al nuovo libro è raggiungibile qui http://www.artapartofculture.org/2008/11/21/dove-il-silenzio-muore-un-noir-di-simonetta-santamaria-di-isabella-moroni/

tanto è tutta opera si Simonetta… ;-)

Postato sabato, 22 novembre 2008 alle 15:37 da isabella


la classe non è acqua, baby
:-)

Postato sabato, 22 novembre 2008 alle 15:39 da gea


@ isabella:
quindi concorderai sul fatto che di sanguinolento nel libro di Simonoir c’è poco o nulla. Spesso, salvo esempi ragguardevoli, il calcare la mano su effetti spettacolari nasconde una povertà di contenuti.

Postato sabato, 22 novembre 2008 alle 15:49 da enrico gregori


Ho sempre provato un istintivo senso di repulsione verso ogni forma di categorizzazione, un bisturi nelle mani di chi cerca di sezionare la fantasia.
Nulla può risultare più orrido del quotidiano.
Simonetta Santamaria ha del coraggio. Non tanto perchè sceglie, italiana più che donna, di competere con scrittori d’oltreoceano. Piuttosto per la scelta di esaltare le paure dell’ordinario. E lo fa con una determinazione davvero impressionante, tale da risultare attraente come ogni cosa che ci costringe a negoziare un nuovo rapporto con noi stessi.
Forse dovremo sacrificare qualcosa per una simile lettura. Tuttavia ciò che perderemo sarà solo qualche brandello della nostra sclerotizzata, convenzionale razionalità.
Solo chi ha perso ogni vitale velleità deve avere reale timore. Tutti gli altri possono avere una emozione al modico prezzo di un libro.

Postato sabato, 22 novembre 2008 alle 18:04 da eventounico


Cara Simonetta, che voi donne lo sappiate fare è assodato. Il genere “gothic” non è forse nato anche con il fondamentale contributo di Mary Shelly?
E poi dici ” ..cari signori uomini, voi non avete idea di quanto possa far paura una donna…” Credo che invece che un’idea ce l’abbiamo.
Io almeno ce l’ho.
:-)

Postato sabato, 22 novembre 2008 alle 18:28 da Carlo S


@ evento:
credo tu abbia ragione da vendere. porsi davanti a un libro con la fantasia già condizionata e/o imbrigliata è una cosa negativa.
Si può perdere qualche sorpresa. Io, per esempio, sono senza dubbio orientato verso il genere noir-giallo-poliziesco-thriller-gothic-horror :-) . Ma ho ovviamente letto tanti libri di ben altro genere senza condizionamenti. Libri entusiasmanti.

Postato sabato, 22 novembre 2008 alle 18:39 da enrico gregori


La strage di Verona di ieri, un’ordinaria notte di morte, con tre bambini di tre, sei e nove anni.
La strage di Erba, quattro morti, tra cui un bambino.
Prima, tempo prima (credo nel 1959), ad Holcomb, nell’Arkansas, due balordi, entrati in una casa privata col miraggio di una cassaforte, uccidono quattro persone, inutilmente, consentendo a Truman Capote di scrivere “A sangue freddo”, un capolavoro.
Ecco, la quotidianità di Melania Mazzucco de “Un giorno perfetto”, ma anche degli orrori fantastici della Santamaria, delle fobie di Niccolò Ammanniti . Poco inventato, molto ragionato, tanto vero. L’orrore è talmente vicino, come nel movie “Salvate il soldato Ryan”, che è quasi inutile mettersi ad inventarlo, basta scovarlo nelle pieghe della cronaca.
Non credete?

Postato sabato, 22 novembre 2008 alle 18:45 da Francesco Di Domenico


@ DIDò:
e lo chiedi a me? :-) Se ripenso a tutti gli episodi di cronaca dei quali mi sono occupato credo che ci sarebbe materiale a iosa. Ne citerò soltanto uno, che mi sembra particolarmente in tema e che fu definito “il caso delle mummie di Acilia”.
C’era una piccola comunità di persone, aderenti a una strana setta, che conservava da anni in casa i cadaveri dei congiunti defunti. Nessuna sepoltura, nessun funerale. Ma una quotidiana adorazione in preghiera di quei corpi via via decomposti sempre di più. Quando le forze dell’ordine e i cronisti entrarono in quegli appartamenti trovarono l’Ade. Buio pesto rischiarato solo da piccole candele. Corpi saponificati e personaggi vestiti di nero che pregavano con un sottofondo di musica sepolcrale. Loro stessi, in fondo, erano dei sepolti vivi, sacerdoti di quell’assurda e macabra rappresentazione che, però, era realtà. Null’altro che raltà.

Postato sabato, 22 novembre 2008 alle 19:02 da enrico gregori


@isabella: grazie infinite per aver pubblicato la mia intervista! spero possa essere chiarificatrice per chi ancora non mi conosce :)

@carlos: simpatica risposta! :) mi piace il tuo spirito (non mi rifersco al fantasma!) :)

Postato sabato, 22 novembre 2008 alle 19:27 da simonetta santamaria


Primo round: DOVE IL SILENZIO MUORE – La trama

“Dove il silenzio muore” (Cento Autori) è un romanzo ambientato a Napoli, come tutte le mie storie, in un borgo immaginario ai piedi della collina di Posillipo. Tutto parte da un antico manufatto egizio, l’Ouroboros, il serpente che si morde la coda simbolo di rigenerazione ed eternità, governato da Apopis, dio del Buio, che rivendica il suo potere su Cristo portando scompiglio e morte ai giorni nostri. C’e una villa, “La Silenziosa”, che torna a vivere dopo anni di abbandono e che rivelerà un mistero sepolto nelle sue viscere; c’è Sara che ha il dono, o la maledizione, di vedere, una sorta di capacità medianica fatta di strane visioni che lei stessa dovrà poi decifrare. Ci sono un prete, un archeologo, un ciabattino, un vecchio medico condotto, un pescatore: personaggi dissimili che però andranno a dar vita a un’unica storia. Nella narrazione passato e presente s’intrecciano fino a formare una sola, incalzante e soffocante traccia che porterà all’epilogo. Si parte da un capitolo Zero e si finisce con un capitolo Zero: e tutto riparte dal principio, proprio come per l’Ouroboros.

C’e una villa, “La Silenziosa”, che torna a vivere dopo anni di abbandono e che rivelerà un mistero sepolto nelle sue viscere; c’è Sara che ha il dono, o la maledizione, di vedere, una sorta di capacità medianica fatta di strane visioni che lei stessa dovrà poi decifrare. Ci sono un prete, un archeologo, un ciabattino, un vecchio medico condotto, un pescatore: personaggi dissimili che però andranno a dar vita a un’unica storia. Nella narrazione passato e presente s’intrecciano fino a formare una sola, incalzante e soffocante traccia che porterà all’epilogo.

Postato sabato, 22 novembre 2008 alle 19:34 da simonetta santamaria


Secondo round: DOVE IL SILENZIO MUORE – Un assaggio… (cap 13)

“Ora ti faccio vedere io come i veri uomini trattano le donne come te!”. L’uomo la prende per i capelli e la sbatte per terra
“Noo… Noo!”
poi le salta su a cavalcioni. La guarda, così scarmigliata, con quegli occhi fiammeggianti d’odio. Annusa l’aria come un lupo. Lo sente. È l’odore della paura.
Prima le lega i polsi dietro la schiena col suo foulard di seta, poi le strappa la camicetta. “Sei solo una cagna in calore”
“Lurido bastardo!” Uno sputo in piena faccia.
Schiaffo. “Una troia schifosa”
Lei scalcia come una cavalla selvatica. Lui si eccita di più.
Schiaffo.
aaeeeeii oooouu…
Schiaffo. Schiaffo.
Le strappa gli slip. Lei sanguina dal naso.
aaeeeeii oooouu…
La penetra con impeto, con anelata cattiveria; lei inarca la schiena e urla, lui serra gli occhi in uno spasmo di acuto piacere.
“Stai buona…(colpo di reni) Sì, buona…(colpo di reni)…”. Sente il corpo di lei che, lentamente, si ammorbidisce. “Ti piace, eh, puttana? Dimmelo, che ti piace il mio…”. Ora apre gli occhi, per guardarla ancora.
Ma la donna non è più Sara “Frigida” Mattei. È un’orrenda figura semidecomposta, e gli sta sorridendo. La carne viscida, sotto la pressione delle mani, si disfa mettendo a nudo il biancore delle ossa.
C’è sangue, sangue dappertutto.
L’uomo tenta di liberarsi ma ora è lei che lo blocca tra le sue cosce.
aaeeeeii oooouu…
“Stai buono” gli dice, la voce impastata. “Ora ti faccio vedere io come le vere donne trattano gli uomini come te!”.
L’uomo vede la sua pelle avvizzire, marcire.
“Noo!”
Lacerarsi.
aaeeeeii oooouu
Vermi. Vermi lattiginosi e viscidi che colano come acqua dalle sue carni putrescenti.
“Oooohh!”
Il suo corpo, quello del più bel muratore di Borgo e dintorni, tutto muscoli e testosterone, sta vomitando fiotti di grossi, pallidi, ripugnanti vermi.
aaeeeeii oooouu
“Schifosa… lascia… mi…”
Buio.
“Sono… sono morto.”

Si svegliò in un bagno di sudore, scosso dai tremiti. Istintivamente, con la mano destra si tastò il corpo: c’era tutto. Poi, a tentoni riconobbe il suo letto.
Un incubo. È stato solo… un fottuto incubo, pensò.
Ma un senso di forte oppressione al torace gli impediva di respirare a sufficienza. Non riusciva a muovere il braccio sinistro: un piombo.
Fame. Fame d’aria.
All’improvviso il dolore gli esplose nel petto con la violenza di una granata.
Oddio… oddio, mi scoppia il cuore! Non riesco a parlare… Che dolore! Non respiro!
Cercò di toccare sua moglie, ma arrivò solo a schiaffeggiarsi la spalla sinistra. Lilia che dormiva raggomitolata su se stessa, o forse no, forse stava solo pregando la Madonna che lui non la toccasse più, non per quella notte, meglio se per sempre. Lilia, che non avrebbe più dimenticato suo marito che all’improvviso si era trasformato in una bestia. All’inizio le era anche un po’ piaciuto ma poi la sua foga l’aveva spaventata; così l’aveva supplicato di smetterla, di slegarle i polsi ormai dolenti ché quel gioco non le piaceva più ma le sue ritrosie, i suoi lamenti, pareva l’eccitassero maggiormente. E quello strano vecchio medaglione che oscillava sul suo petto, oscillava, oscillava, e lui che non faceva altro che ripetere vocali, vocali.
Aiutami… ti prego… non ti farò più male, mai più… rispondimi…
Troia schifosa, allora l’aveva chiamata. E l’aveva schiaffeggiata. Poi aveva preso da sotto il letto un arnese da lavoro, qualcosa con un grosso manico, e con quello le aveva fatto davvero tanto, troppo male. Ma l’amore non dovrebbe essere mai dolore, questo insegnano i giornaletti e le soap opera.
Dolore… terribile… non riesco più… a respirare… sto morendo, sto…
Buio. Nero, pastoso, profondo. Buio di tomba.
aaeeeeii oooouu
Davvero.

Postato sabato, 22 novembre 2008 alle 19:39 da simonetta santamaria


Terzo round: DOVE IL SILENZIO MUORE – Se vi è piaciuto… un altro assaggio! (cap 50)

Nella notte, in quella notte, nulla e nessuno era tranquillo.
Nella notte, un vecchio dottore incapace di prendere sonno fissava il soffitto della sua camera da letto guardandosi bene dallo svegliare la moglie che gli ronfava affianco, pensando a quello che sarebbe stato il domani.
Nella notte, un uomo solo e malinconico che nella vita aveva fatto il ciabattino, sedeva sotto il portico della sua casa guardando il temporale che si avvicinava. Come poteva, un povero solachianiello ignorante, trovarsi ad affrontare una cosa tanto più grande di lui? L’uomo non seppe darsi una risposta né gliene importava, in fondo. Tanto ormai non aveva più importanza. L’unica cosa che lo angustiava era che se fosse finito all’inferno non avrebbe più rivisto la sua Annarella.
Nella notte, un giovane uomo con la passione per l’archeologia rileggeva antichi testi. Non tutto ciò che è antico è morto, pensò massaggiandosi lo stomaco afflitto dai crampi. Lui lo aveva constatato di persona. Ma questo, sui libri, non si trova scritto.
Nella notte, un prete col cuore malandato pregava il suo Dio per i suoi amici. Nel silenzio della rianimazione, chiese per l’ultima volta perdono.
Nella notte, un altro uomo e la sua donna stavano passeggiando stretti nelle loro giacche sul piccolo lungomare di un borgo disorientato e ventoso. Discorrevano del più e del meno, si sfioravano appena. C’era imbarazzo nelle loro voci, e lunghe pause tra un argomento e l’altro pesanti come pietre tombali, riempite soltanto dagli scrosci di un mare che minacciava tempesta. Tra poco sarebbero tornati a casa. In realtà, entrambi avrebbero voluto essere già a domani. A quando si sarebbero finalmente confessati di non amarsi più.
Nella notte, un’altra donna si aggirava nel buio come uno spettro, in direzione della scogliera. Il desiderio si era fatto pressante, imperativo: lei non l’aveva mai avuta, una casa grande col giardino. Ci avrebbe piantato rose e buganvillee e limoni. E pomodori ciliegini. Avrebbe vissuto tra i fiori e il verde come una ninfa dei boschi e la sua mente si sarebbe quietata, allora. Un corvo nottambulo gracchiò. La Silenziosa la stava chiamando, le stava comandando di entrare e prenderne possesso. E lei avrebbe obbedito. A qualunque prezzo.
Nella notte, un rombo di tuono squarciò il silenzio mentre nuvole nere si addensavano minacciose sul paese. Sì, su Borgo Marina Piccola stava per abbattersi un brutto temporale.

Postato sabato, 22 novembre 2008 alle 19:41 da simonetta santamaria


Qualche incipit:
***
La campana del convento suonava appena da cinque minuti, e già la chiesa dei Cappuccini era gremita di gente. Ce n’era dappertutto, perfino sulle ali dei cherubini. San Francesco e San Mauro portavano ciascuno il loro carico d’uomini.
.
(M. Gregory Lewis – Antonin Artaud, “Il monaco”)
***
L’avvocato Utterson era un uomo dall’aspetto rude, non si illuminava mai di un sorriso; freddo, misurato e imbarazzato nel parlare, riservato nell’esprimere i propri sentimenti; era un uomo magro, lungo, polveroso e triste, eppure in un certo senso amabile.
.
(R.L. Stevenson, “Lo strano caso del dottor Jeckyll e del signor Hyde”)
***
La luce della luna batte in fondo al mio letto. Vi si posa sopra come una pietra enorme, piatta e lucente.
Man mano che il cerchio della nuova luna si rimpicciolisce, e il suo lato sinistro comincia a svanire – così agisce l’età su un volto umano, lasciando la sua traccia di rughe prima su una delle due guance che si vanno incavando – la mia anima diviene preda di una vaga inquietudine. Essa mi tormenta.
.
(G. Meyryink, “Il Golem”)
***
“Che cosa vi fa pensare che potrei essere utile in questo caso?” domandò il dottor John Silence, osservando un po’ scettico la signora svedese dinanzi a lui.
“Il vostro cuore sensibile e la vostra competenza in occultismo”.
.
(A. Blackwood, “John Silence, detective dell’occulto”)
***
Un assolato pomeriggio d’autunno un bambino si allontanò dalla sua rustica casa, in un piccolo campo, ed entrò inosservato nella foresta.
.
(A. Bierce, “Chickamauga”)
***
Quando il signor Peter Knoppert cominciò a studiare le lumache per hobby, non aveva la più pallida idea che i suoi pochi esemplari sarebbero diventati centinaia in un battibaleno.
.
(P. Highsmith, “L’uomo che guardava le lumache”)
***
I cannot, for my soul, remember how, when, or even precisely where, I first became acquainted with the lady Ligeia.
.
(E. A. Poe, “Ligeia”)
***
The ‘Red Death’ had long devasted the country. No pestilence had ever been so fatal, or so hideous. Blood was its Avatar and its seal – the redness and the horror of blood.
.
(E. A. Poe, “The masque of the Red Death”)
***

Postato sabato, 22 novembre 2008 alle 21:17 da Subhaga Gaetano Failla


ciao simonetta, qui #Stai buona…(colpo di reni) Sì, buona…(colpo di reni)…”. Sente il corpo di lei che, lentamente, si ammorbidisce. “Ti piace, eh, puttana? Dimmelo, che ti piace il mio…”.# e qui #Dolore… terribile… non riesco più… a respirare… sto morendo, sto…
Buio. Nero, pastoso, profondo. Buio di tomba.
aaeeeeii oooouu
Davvero.#
bello!
mi sembra che un po’ di teatralità ci sia, molto fisicità. le vocali, poi, mi fanno pensare ad una sorta di metacoscienza linguistica.
è così?
in effetti la fisicità, la carnalità e la ’sanguignità’ di molto horror, strizza l’occhio a un certo tipo di teatro, non quello borghese, di parola, ma quello che, appunto, lavora sul corpo facendone un campo di forte semantizzazione e ibridazione tecnologica. Questi assaggi mi ricordano molto questo aspetto.
sbaglio?

Postato sabato, 22 novembre 2008 alle 21:22 da gianluca


“L’incubo potrebbe essere una prova dell’esistenza dell’Inferno.
Ero visitato dagli incubi due volte la settimana ed era molto spiacevole.
Sono così orribili i miei incubi che non oso raccontarli, troppo disgustosi.
C’è gente che non sogna, gente che non conosce gli incubi: tanto meglio per loro, io ne conosco fin troppi!
La parola è strana: in spagnolo è molto brutta – ‘pesadilla’ – vale a dire ‘piccola pesantezza’, mentre in inglese è bella – ‘nightmare’ – che non ha niente a che vedere con i capelli ma piuttosto con il demone della notte ‘Mara’, ‘Nichte Mara’, o forse ‘fiaba della notte’ nel senso della parola tedesca ‘marchen’, racconto di fate.
Anche in francese è una parola molto bella – ‘cauchemar’ – in cui si può scoprire un legame con ‘nightmare’. In tedesco è inoltre ‘alp’, cioè l’elfo che dorme sul nostro ventre, il cosiddetto succubo.
Shakespeare ha impiegato la parola ‘incubo’ una sola volta, pensiamoci, una volta sola nella sua vasta opera…”
.
(J. L. Borges, “Testamento poetico letterario”)

Postato sabato, 22 novembre 2008 alle 23:02 da Subhaga Gaetano Failla


Shakesperare, evidentemente, non aveva il desiderio di angosciare il suo prossimo.

Postato domenica, 23 novembre 2008 alle 02:26 da Sergio Sozi


…oppure il vero incubo è proprio quello al quale non riusciamo a dare un nome

Postato domenica, 23 novembre 2008 alle 07:02 da eventounico


A Edgar Allan Poe è attribuita la frase: “Se guarderai a lungo nell’abisso, anche l’abisso vorrà guardare in te.”
* * *
Chi scrive del “terrore”, chi racconta attraverso le parole e le immagini di terrore può essere disturbato mentalmente?
* * *
Di Poe si narra che lo fosse, Lovecfaft oltre ad avere un padre psicotico era a sua volta sofferente.
* * *
Ho la fortuna di conoscere personalmente Simonetta Santamaria e, viceversa, è una persona solare e allegra, l’unico elemento di follia in lei è la sua amicizia per me.

Postato domenica, 23 novembre 2008 alle 08:49 da Francesco Di Domenico


Guardare nell’abisso che siamo, nel mistero che siamo non è pazzia. Non è malattia.
E’ coraggio.
E la scrittura si nutre di coraggio.
Coraggio nel dirsi la verità su se stessi. Coraggio nel non tacersi che siamo male. E bene. E ancora male. E ancora bene.
La scrittura non offre risposte, se non quella di trasformare la vita in parola. Ma aiuta a formulare le domande. O a resistere a chi vorrebbe importi di non formularle.
Non fuggire la domanda. Questo è coraggio.
D’altra parte l’horror non credo abbia a che fare col fantastico. Ma con la realtà interiore dell’uomo.
C’è un romanzo “Cigni Selvatici” di Jung Chang che parla della storia di tre generazioni di donne cinesi dall’epoca imperiale fino a Mao. E’ un libro non fantastico, ma vero. Parla di esecuzioni. Bastonate. Torture.
C’è un passaggio che può far pensare a un horror e invece è un ricordo.
Ed è quando Chang racconta dell’arresto di sua madre, accusata di essere antirivoluzionaria e sottoposta a interrogatori duri e ininterrotti.
Le carceriere dormivano nel suo letto per controllare se piangesse nel cuore della notte.
Il pianto era infatti considerato “borghese” e sarebbe stata una prova delle sue colpe.Chang pensa che sua madre resistette all’incubo, all’orrore, alla violenza, scrivendo mentalmente. Scagliando parole contro l’oscurità. Contro la gabbia che la cingeva e cercava di penetrare dentro di lei.
Non è diverso da ciò che fa un racconto horror: scagliare parole contro i nostri incubi.
Ricordando che quelli peggiori,di incubi, non li partorisce la fantasia.
Ma l’uomo.

Postato domenica, 23 novembre 2008 alle 10:24 da Simona Lo Iacono


shakespeare, evidentemente, non aveva bisogno del vocabolo specifico per parlare di incubi, di cui la sua opera è piena.
il buon willie è il padre di tutto l’orrore psicologico seguente.
mani che grondano incancellabile sangue, padri fantasma che chiedono vendetta, vecchi accecati e perseguitati..
al limite dello splatter, direi.
:-)

Postato domenica, 23 novembre 2008 alle 11:24 da gea


oddio, in effetti “il macbeth”, per esempio, non mi pare un cinepanettone. ma quello che ho letto di shakespeare (quasi tutto) mi sembra profondamente permeato di atmosfere che (oggi) chiamiamo gothic o orror. Peraltro anche il dr Faust…che ne dite?

Postato domenica, 23 novembre 2008 alle 11:37 da enrico.gregori


tutto il dramma elisabettiano, peraltro, deriva dalla tragedia classica latina.
seneca in primis.
la quale di suo era trucida assai..
:-)

Postato domenica, 23 novembre 2008 alle 11:39 da gea


Gea credo sia l’ennesima conferma, ove mai servisse, che le categorizzazioni non solo sono inutili, ma anche dannose. In molte opere potremmo trovare tracce di terrore, così come ha tentato di dire anche Enrico. Volevo introdurre anche Walt Disney, ma mi sembrava di sparare sulla croce rossa… :-)
Per fortuna la scrittura gode di maggiore libertà di quella che gli uomini vorrebbero conferirle.

Postato domenica, 23 novembre 2008 alle 11:57 da eventounico


Personalmente non mi sono mai cimentata con l’horror, ma mi attrae, parecchio (come autrice, intendo). Sarà che fin da piccola ho avuto una straordinaria capacità di autosuggestione nel creare mostri dalle ombre, dalle macchie… Condivido con King la capacità di autoterrorizzarmi al pensiero di lasciar pendere una mano o un piede al di fuori del letto, in piena balia della cosa che vi si nasconde sotto, da sempre. E che attende silenziosa di colpire quando la razionalità ti ha ormai convinto che non c’è niente da temere…
Ecco, tanto per ribadire il concetto che per scrivere di horror un qualche disturbo mentale può essere oggettivamente utile :-) )))

Postato domenica, 23 novembre 2008 alle 12:40 da Laura Costantini


Laura mi hai convinto :-)

Postato domenica, 23 novembre 2008 alle 12:47 da eventounico


Chi ama il pericolo, perirà in esso, dice la Scrittura…
In effetti c’è una vicinanza pericolosa tra scrittura e disturbi psicologici. Gli incubi di Poe o Lovecraft erano espressione e proiezione e rielaborazione dei vissuti e delle lacerazioni interiori… catarsi?
Ma scrivere horror può anche essere terapeutico nel senso che può dare voce e sfogo alle energie profonde e magari nascoste che serpeggiano sotto la superficie… qui la specialista è Zauberei!
Anch’io come Laura immagino “film” e “mostri” che traspaiono dalla superficie della realtà, il cui filo razionale si spezza ogni secondo se uno ha immaginazione.

Postato domenica, 23 novembre 2008 alle 14:06 da Maria Lucia Riccioli


Grazie Gaetano per aver citato Borges che ADORO!!!
Anche in Borges serpeggia un’aria inquieta, a volte da incubo…

Postato domenica, 23 novembre 2008 alle 14:09 da Maria Lucia Riccioli


@ Francesco Di Domenico
Io sapevo che la frase sull’abisso attribuita da te a Poe, molto citata, fosse invece di Nietzsche. Boh… bisognerebbe vedere, casomai, se Nietzsche, cronologicamente successivo a Poe, si sia impadronito d’una sua frase.
***
E su Poe lascio un contributo tratto da un importante libro scritto da Julio Cortàzar, “Vita di Edgar Allan Poe”:
.
“Quanto rimaneva delle sue forze (visse altri cinque giorni in un ospedale di Baltimora) bruciò in terribili allucinazioni, nella lotta con le infermiere che lo legavano, nell’invocazione disperata a Reynolds, l’esploratore polare che aveva influenzato la composizione di ‘Gordon Pym’, e che ora, misteriosamente, si tramutava nel simbolo finale di quelle terre dell’aldilà che Edgar sembrava stesse vedendo, così come Pym aveva intravisto la gigantesca immagine di ghiaccio nell’ultimo istante del romanzo.
Né ‘Muddie’, né Annie, né Elmira gli furono accanto, perchè ignoravano tutto.
Pare che in un intervallo di lucidità abbia domandato se rimaneva qualche speranza. Poichè gli dissero che era molto grave, rettificò: ‘Non voglio dire questo. Voglio saere se c’è speranza per un miserabile come me’.
Morì alle 3 del mattino del 7 ottobre 1949. ‘Che Dio aiuti la mia povera anima’, furono le sue ultime parole.”

Postato domenica, 23 novembre 2008 alle 14:29 da Subhaga Gaetano Failla


Ciao Maria Lucia. Abbiamo un amore condiviso. Per molti anni ho vissuto a pane e Borges… In Borges c’è la gioia pura della scrittura; per lui letteratura e vita erano inscindibili.
Un abbraccio e buona domenica,
Gaetano

Postato domenica, 23 novembre 2008 alle 14:36 da Subhaga Gaetano Failla


@Subhaga Gaetano Failla
Borges, mio Dio ragazzi! Se c’è un paradiso il vecchio Jorge Luis starà confutando delle tesi all’Altissimo.
Quelli del Nobel ad un certo punto hanno avuto paura di conferirglielo, paura che lo rifiutasse.
Si, Gaetano, ci sono dubbi sulla frase.
Come sull’ultima frase di Poe, sembra sia stata:”Aiutatemi, le volte del cielo mi stanno seppellendo!”
* * *
Ma le leggende sembrano aleggiare su tutti gli autori dell’horror.
Anche su Simonetta c’è l’aneddoto (vero) che posso riportare.
Alla presentazione del suo precedente libro “Donne in Noir”, in una dolce sera d’estate (l’estate dell’uragano Katrina), un uragano terrificante spazzolò Napoli, ma più che altro l’area della libreria Evaluna – mitica libreria delle donne partenopee- un’ora prima del reading, sradicando alberi ottocenteschi.
Da quel tempo, oltre che Simonoir, il suo secondo pseudonimo è “L’uragano Filomena”, in memoria di un suo personaggio.

Postato domenica, 23 novembre 2008 alle 14:55 da Francesco Di Domenico


ma sì, evento. mi vengono in mente alcune situazioni dei Promessi Sposi.
l’innominato
la monaca di monza
la pestilenza
vogliamo definire noir il romanzo manzoniano? oddio….volendo :-)

Postato domenica, 23 novembre 2008 alle 15:01 da enrico gregori


No Enrico, ci mancherebbe. Piuttosto per me è da “lista nera”, ma questo è altro tema.
Siamo riusciti a far scappare Simonoir. Non è che ci arriva addosso qualche uragano virtuale ?
p.s.
Didò, Gaetano anche voi, dunque, vi siete fatti di Borges. Ora capisco certe affinità…

Postato domenica, 23 novembre 2008 alle 15:17 da eventounico


@ Francesco
Sì, sarebbe interessante andare a fondo nei documenti, soprattuto per quanto riguarda grandissimi autori come Poe (e per tornare a Borges, Poe era uno degli autori da lui considerato, insieme a Stevenson e pochi altri, un esempio ecccelso di stile letterario).
Concludo la citazione di Cortàzar, con queste righe che seguono, sulla morte di Poe, a quelle da me prima citate:
“Più tardi biografi entusiasti gli avrebbero fatto dire altre cose. La leggenda ebbe inizio quasi subito, ed Edgar si sarebbe divertito, se fosse stato presente, a collaborare, a inventare cose nuove, a confondere la gente, a mettere la sua impagabile immaginazione al servizio di una biografia mitica.”
(J. Cortàzar, “Vita di Edgar Allan Poe”, Le Lettere, 2004)

Postato domenica, 23 novembre 2008 alle 15:24 da Subhaga Gaetano Failla


simonetta è in giro per l’italia. si collegherà stasera

Postato domenica, 23 novembre 2008 alle 15:25 da enrico gregori


Ringrazio Gaetano Failla per la bellisima serie di incipit postata ieri.
Io vi aggiungerei questo, splendido esempio per entrare in atmosfera horror con rara maestria:
“Quando un giorno che secondo voi dovrebbe essere mercoledì, vi sembra fin dall’inizio domenica, potete stare certi che qualcosa non va. Ebbi questa impressione fin dal primo momento, svegliandomi.”
(John Windham: “Il giorno dei trifidi”)

Postato domenica, 23 novembre 2008 alle 20:37 da Carlo S.


@ carlo:
sì, questo lo ricordavo. mi è sempre sembrato di un’efficacia portentosa

Postato domenica, 23 novembre 2008 alle 20:44 da enrico gregori


Quanto a Borges la sua ammirazione non era solo per Poe, ma anche per Lovecraft e per Arthur Machen. A proposito di quest’ultimo, autore irlandese del “Grande Dio Pan” e di “I Tre Impostori”, che mai raggiunse la fama che meritava, sia da vivo che da morto, tra l’altro dice:
“In quel volume della sua autobiografia che si intitola The London Adventure ricrea a memoria il mirabile racconto The Figure in the Carpet di Henry James; il breve riassunto di Machen, alleggerito di inutili tratti melodrammatici, è molto più commovente del laborioso originale.”

Postato domenica, 23 novembre 2008 alle 20:50 da Carlo S.


ARIECCOMI!!
Scusate, sono appena rientrata a Napoli e sono felice di vedere tanti post!
@Eventounico: e quando scappa, Simonoir? ;) No, niente uragano virtuale, io sono una buona, in fondo…
@ Gianluca: le vocali. Questo è uno dei punti enigmatici del romanzo. Non vorrei anticipare qualcosa a coloro che, benevolmente, vorranno provare a leggerlo, ma copincollo un brano tratto dal cap. 29 che chiarirà un po’ la cosa:

α α α α α α α
ε ε ε ε ε ε
η η η η η
ι ι ι ι
ο ο ο
ω ω
υ
«È greco» disse Miranda inforcando gli occhiali. «Alfa, epsilon, eta, iota, sì… omicron, omega, ypsilon.»
«Esatto. I suoni vocalici in greco. Secondo le teorie più accreditate, gli Egizi del periodo pre-tolemaico trovarono nell’alfabeto greco il sistema per estrarre e trascrivere le vocali che la loro scrittura non contemplava; essi furono letteralmente affascinati dai suoni che tali vocali isolate producevano, tanto da attribuirgli grandi poteri magici come quello di “respirare la vita”. Se noti bene, Luigi, la sequenza non è corretta: vedi, la ypsilon è scritta dopo l’omega. È per dare più forza ai suoni.»
«Non ci arrivo, spiegati meglio» fece il dottore.
Filippo si accomodò meglio sulla sedia. «La epsilon produce una e breve, l’eta una e lunga; insieme producono un suono continuo più durevole, una sorta di eee… Lo stesso vale per l’omicron e l’omega: è per lo stesso motivo che sono state scritte in sequenza. Ooo. È chiaro, ora?»
Miranda lo guardò da sopra le lenti a lunetta. «Chiarissimo. E allora?»
«L’Ouroboros con questa particolare incisione venne forgiato dagli Apofiti come portatore di rigenerazione e rinascita. Respirare la vita, ricordate? Provate a pronunciare le vocali in sequenza: aa eeee ii oooo uu…»
Ognuno dei presenti provò generando senza volerlo una sorta di coro mistico.
«Sentite come si espira? Come si emette fiato? Ecco cosa intendevano gli Egizi per respirare. Ora, nel caso di questa incisione» e puntò il dito sul foglio di carta, «il suono delle vocali pronunciate in questa sequenza da una sorta di portatore avrebbe catturato l’essenza vitale da un individuo per donarla al dio Apopis. È per lui che il Triangolo Magico, contrariamente a quello usato nei comuni rituali, ha il vertice puntato verso il basso. Verso gli Inferi.»

Postato domenica, 23 novembre 2008 alle 21:11 da simonetta santamaria


“Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà.”
(Shirley Jackson)

Questo per dire che l’irreale fa parte del nostro reale più di quanto s’immagini. Dice King: “Di quante cose abbiamo paura? Abbiamo paura di spegnere la luce con le mani bagnate. Abbiamo paura di quello che può dirci il medico quando la visita è finita; o quando l’aereo precipita improvvisamente in un vuoto d’aria. Quando nostra figlia promette di essere a casa per le undici ma è ormai mezzanotte e un quarto…”
Tutto questo per dire che la paura esiste, e che lo scrittore di horror non fa altro che tirarla fuori e rimaneggiarla. Lo stesso Poe, come giustamente dice anche Maria Lucia, giocava ai limiti di una razionalità in crisi , e faccio riferimento a racconti come Il cuore rivelatore e Il gatto nero.

@Laura: validissimo il supporto di un eventuale disturbo mentale! :) La capacità di creare autosuggestione è forse il più importante di tutti. Perché sì, dobbiamo crederci prima noi scrittori se vogliamo sperare che ci credano anche i lettori. E io ci credo, credo in tutto quello che scrivo, credo che quei pensieri infilati nella testa dei miei personaggi possano essere davvero pensati, partoriti da una mente sana.

@Carlo: bellissima la citazione di Windham!

@Eventounico: mica sbagliavi tanto a citare Disney, come pure Andersen o Grimm… Niente di più terrorizzante di una strega che mette all’ingrasso dei bambini per poi mangiarseli, o un lupo che divora la tua nonnina e poi si magna pure te (immaginate il bambino che si figura tra i denti del lupo, metre lo mastica…)

@Didò: amicizia? Ma il nostro non era amore??? :)

Postato domenica, 23 novembre 2008 alle 21:32 da simonetta santamaria


Ehilà, bella gente!!!
Vedo che procedete bene.
Ne approfitto per mandarvi un saluto dalla polare e innevata, ma sempre bella e affascinante, Strasburgo.
Sarebbe bello ambientare qui una storia del terrore. La città si presta.
E d’inverno si battono i denti anche senza paura…

Postato domenica, 23 novembre 2008 alle 22:04 da Massimo Maugeri


Un saluto speciale alla nostra Simonetta.

Postato domenica, 23 novembre 2008 alle 22:05 da Massimo Maugeri


Provo a buttare lì una domanda delle mie.
Decidete se raccoglierla o no… non importa.
-
Se doveste scegliere il libro più rappresentativo della letteratura del terrore (nelle sue varie declinazioni)… quale scegliereste?
E perché?
Tu quale sceglieresti, Simonetta?

Postato domenica, 23 novembre 2008 alle 22:09 da Massimo Maugeri


Vi auguro buona prosecuzione.
Un saluto a tutti.

Postato domenica, 23 novembre 2008 alle 22:09 da Massimo Maugeri


Simonetta??
Dichiarazioni pubbliche così sconcertanti?
Certo che è amore, ma Diego tuo marito continua a fare il chirurgo e conosce centinaia di modi per uccidere, dai…continuiamo a parlare d’amicizia, è più salutare per me!

Il libro più terrificante, Massimo? Bhè, non c’è dubbio: Pinocchio!
Da bambino avevo paura d’incontrare un amico che potesse rivelarsi un “Lucignolo”, sarà per questo che ho solo amiche donne?

Postato domenica, 23 novembre 2008 alle 22:54 da Francesco Di Domenico


grazie simonetta,
e dell’influenza teatrale? che dici? c’è nel tuo libro il corpo ‘maciullato’ come campo di significati quotidiani?
ciao!

Postato lunedì, 24 novembre 2008 alle 00:41 da gianluca


appunto. massimo sa perfettamente di aver posto una delle sue classiche domande impossibili. lui, peraltro, suscita il dibattito ben sapendo che una risposta è altrettanto impossibile. io, quindi, faccio un esempio. considerato l’ambiente “terrificante”, la qualità della scrittura, lo svolgersi della storia e il fascino dei personaggi, potrei suggerire “Il mastino del Baskerville” di sir Arthur Conan Doyle.

Postato lunedì, 24 novembre 2008 alle 11:54 da enrico.gregori


@Massimo: ma ciao! Ricambio il saluto speciale! :)
@Gianluca: francamente? Se c’è, è un parallelismo inconscio. Diciamo che in quella scena, che io ho postato apposta perchè forse è la massima espressione della descrittività orrorifica dell’intero romanzo (questo per appoggiare Enrico, Isabella, Laura e Didò che sostengono che nel mio romanzo non c’è splatter), l’uso del corpo è associato alla violenza spicciola, quella fisica e carnale, quella che fa più male, dentro e fuori. La teatralità forse è evocata dall’intreccio serrato fra dialogo ed evento, tra parole e suoni.
Quando scrivo lascio che la storia mi porti con sé, che si racconti. Io parlo al monitor, ascolto il suono delle parole, la cadenza delle frasi, e se mi trasmettono quello che voglio trasmettano, allora è ok. Sarà un metodo un po’ terra terra come il conto della lavandaia ma è l’unico che mi sento nelle corde.
E, IN RISPOSTA AL DOMANDONE DI MASSIMO: sarò di parte ma Frankenstein di Mary Shelley secondo me è un capolavoro. Partorito dalla mente geniale di una donna quando le donne si figuravano solo davanti a un focolare a fare la calzetta, mette a fuoco diverse sfaccettature terrificanti della mente umana, dal desiderio di potere alla presunzione di poter sconfiggere Dio e la Morte e quindi potersi paragonare a Dio stesso, al tema della diversità, della paura che suscita il cosiddetto “diverso.” L’ambientazione cupa, il taglio gotico, l’angoscia latente. C’è tutto ciò che io considero il meglio di un romanzo horror.

Postato lunedì, 24 novembre 2008 alle 13:02 da simonetta santamaria


Condivido la scelta di Frankestein. Tuttavia se si potesse votare per una serie di racconti non avrei dubbi su Edgar Allan Poe.

Postato lunedì, 24 novembre 2008 alle 13:14 da eventounico


#Io parlo al monitor# questa è una frase bellissima. anche io lo facevo quando avevo i miei blog. lasciarsi portare dalla storia. ho un groppo alla gola. quanta volte le storie mi trascinavano via! che bei tempi, l’infanzia dei sogni. poi la realtà orrorifica mi tranciò di netto le mani e i moncherini senza sangue, come due rami potati, si misero a ciondolare ai lati del corpo. le mani rimasero aggrappate alla tastiera con le dita che continuavano a battere e contorcersi sui tasti come le code di due lucertole impaurite. niente sangue. dieci di scrittura? niente affatto. deliri di uno psicotico morto convinto di essere vivo.
ciao simonetta!
:)

Postato lunedì, 24 novembre 2008 alle 13:33 da gianluca


@Evento: infatti sui racconti non ho dubbi: Poe. Il suo horror “psicologico” lo sento molto. E King, my Master, ai tempi d’oro di A volte ritornano e Stagioni diverse.

@Gianluca: ummaronna, mo’ lo fai venire a me il groppo… ;)

Postato lunedì, 24 novembre 2008 alle 18:34 da simonetta santamaria


@ Gea: quanto hai ragione in merito a Shakespeare. Ma lui non ha avuto etichette da portare addosso o sulle copertine dei suoi libri.

Il fatto è che l’etichetta ancora non ce la siamo tolta di dosso, noi che ci cimentiamo nella cosiddetta (a torto) “letteratura di genere”… Conquistare un lettore è ogni volta un traguardo faticatissimo. Ottenere attenzione è un traguardo faticatissimo.
Qualcuno di voi saprà che il mio romanzo (ora lo posso anche dire visto che le votazioni sono in chiusura) è stato selezionato al premio Giorgio Scerbanenco: un’altra conquista incredibile, il giallo e il noir che aprono le porte all’horror… Qualcosa sta cambiando? Me lo auguro. Potremo sperare di vedere un romanzo “di genere” candidato magari allo Strega? Speriamo. Perché non sta scritto da nessuna parte che i grandi premi debbano essere ghettizzati.

Postato lunedì, 24 novembre 2008 alle 19:10 da simonetta santamaria


Sono con Simonetta, e con Evento: Frankenstein della Shelley (forse proprio il più rappresentativo). E E.A. Poe per i racconti.
Ma trovo altrettanto memorabili:
La Storia del Sigillo Nero (Arthur Machen – 1897)
La Casa sull’abisso (William Hope Hodgson- 1907)
La Maschera di Innsmouth (H.P. Lovecraft – 1936)

Postato lunedì, 24 novembre 2008 alle 20:09 da Carlo S.


“Potremo sperare di vedere un romanzo “di genere” candidato magari allo Strega?”
* * *
@Simonetta, e gli altri amici che hanno parlato di abbattimento dei generi, colgono in pieno il senso di un mio ragionamento che estrapolo pari pari da un mio brano pubblicato sull’ultimo numero di “Viadellebelledonne”, la delicata rivista web curata da @Morena Fanti & Co.
* * *
“Poi è venuta la televisione che ha ucciso un po’ tutto. Molti scrittori, invece di fare il grande salto per tentare di passare dal racconto umoristico al romanzo pieno (estremamente faticoso per un umorista riuscire a tenere ritmo e percussione della battuta comica oltre le 50 pagine), si sono ridotti a scrivere battute, quasi barzellette, per i cabarettisti televisivi. Piccoli fenomeni isolati, come la brava Littizzetto, contano poco; c’è richiesta di letture brillanti e allegre ma vi è carenza di proposte (un autore sa che non arriverebbe mai al Campiello con un’opera comica).”
Purtroppo esistono ancora gli scaffali nelle librerie.

Postato lunedì, 24 novembre 2008 alle 20:34 da Francesco Di Domenico


@ Carlo: già, e tutti e tre gli autori hanno incursioni nel fantahorror…

Ma qui ci siamo rimasti solo noi? :(

Postato lunedì, 24 novembre 2008 alle 20:34 da simonetta santamaria


Vorrei aggiungere che anche Stephen King (che piaccia o non piaccia è indiscutibilmente la figura di maggior spicco oggi in questo genere) parla di tre capolavori immortali, quasi tre archetipi dell’horror, nel suo saggio “Dance macabre (anatomia della paura)”: Frankenstein, Dracula e Dr. Jekyll &Mr. Hyde, escludendo “Giro di vite ” di James perchè “..con la sua prosa elegante e da salotto e la logica psicologica di cui è fittamente intessuto, ha avuto scarsissima influenza sul corso della cultura di massa americana.”
@Simonetta
Sì, forse siamo rimasti in pochi, ma cattivi.

Postato lunedì, 24 novembre 2008 alle 21:10 da Carlo S.


@Simo? Piantala con Carlo: è un marpione!
Ha letto tutti quei libri per fare acchiappanze, li conosco questi “posapiano”…
Non sarò geloso?

Postato lunedì, 24 novembre 2008 alle 21:52 da Francesco Di Domenico


@ simonetta:
un romanzo “di genere” allo Strega? possibile, perché no.
l’anno in cui le grosse case editrici non si saranno messe d’accordo prima sul vincitore. l’anno in cui non si candiderà uno che ci mette solo la faccia (da cazzarellone) con un libro scritto da altri. l’anno in cui la selezione sarà ad ampio spettro e non sempre e solo sulle case editrici che fanno mercato.
insomma, nel 2009 ancora no
:-)

Postato lunedì, 24 novembre 2008 alle 22:09 da enrico.gregori


Francè, puozzi perde e ‘rrecchie, a che servirebbe sennò tutta sta cultura?

Postato lunedì, 24 novembre 2008 alle 22:33 da Carlo S.


@ Enrico: però se trovassi due amici della domenica disposti a metterci la faccia, io un libro “di genere” glielo farei arrivare, a quelli dello Strega. Sarebbe una bella sfida, non ti pare? Però valli a trovare…

@ Carlo: però King ha ragione, almeno per quanto riguarda la prosa elegante di Giro di vite: in certi generi una prosa più “realista” è maggiormente d’effetto. Non bisognerebbe aprtire dal presupposto di voler scrivere un capolavoro ma semplicemente una storia d’effetto.

@ Didò: e come lo convinco, Carlo, a leggere il miol libro, sennò? :)

Postato lunedì, 24 novembre 2008 alle 22:56 da simonetta santamaria


Un ricordo personale: nel 1992, mi trovai a vivere nel Sudest londinese (Lambeth road, SE11, linea marrone della Metro. Vicino alla William Blake Estate perche’ l’autore dei ”Canti dell’innocenza” era vissuto li’ quando quella zona era ancora un paesino) e a frequentare una libreria a meta’ prezzo che stava nelle vicinanze. Ecco: li’ acquistai ”The turn of a screw” di Henry James (”Giro di vite”). Non l’ho mai letto completamente, ma capii subito che James era di un’eleganza vera, profonda, non ‘’salottiera” come dicono certi americani sovracitati – certo che l’America non ne e’ stata influenzata, lo si vede dal basso tenore di quel che in genere producono.
Insomma, l’eleganza, l’umorismo e la vena ”nera” tutti assieme sono secondo me un modo raro e difficile, sublime, per togliere i fatti barbarici che vengono a comporre un’opera ”horror” dal loro proprio naturale contesto selvaggio, orribile e condannabile, ed inserirli in un discorso piu’ ampio e civilizzante, a volte addirittura poetico – vedasi Shakespeare, Properzio, Virgilio, Omero stesso. Ma va sottolineato che cio’ accade solo se il fatto di sangue rimane marginale o tutt’al piu’ complementare e non centrale rispetto all’intera narrazione.
Sono certo che, infatti, che la nostra epoca non e’ capace di esprimere delle narrazioni che restino in un sano equilibrio, saldamente morale, pur mostrando delitti, assassini o apparizioni metafisicamente spietate. L’episodio di Palinuro nell’Eneide, ad esempio, e’ un ammirevole uso strumentale, per fini poetici, di una ”reincarnazione” di defunto in albero. La nostra modernita’, non avendo gran sensibilita’ (insomma: noi, scarsamente sensibili), non puo’ invece, purtroppo, ”manovrare” con gusto e per fini artisticamente encomiabili la violenza e/o derivati e conseguenze di essa.
Sergio Sozi
P.S.
Ho citato Shakespeare per i drammi, Properzio per alcune elegie di angosciante intonazione funebre, Virgilio anche per i duelli dell’Eneide ed Omero per il puntiglioso ”grand guignol” pervadente molti passi dell’Iliade: il tutto e’ perfettamente giustificabile per la profonda religiosita’ dell’uomo antico. I ”nostri” noir, invece, cos’hanno dentro di altrettanto profondo e riverente? Quale filosofia, sentimento, dolcezza a farne da sfondo o contraltare, o fine inespresso ma presente? Nessuno, credo io.

Postato lunedì, 24 novembre 2008 alle 23:27 da Sergio Sozi


@ Sergio: forse stiamo spostando il discorso su un piano differente, stiamo citando autori che non possiamo paragonare (almeno non dal punto di vista stilistico) ai nostri attuali: troppi anni ci dividono, il modo di scrivere è cambiato, nel bene o nel male è cambiato. E non credo che noi “moderni” siamo meno sensibili anzi, forse lo siamo anche di più perché viviamo una realtà molto più cruda di allora. Facciamo costantemente i conti con una vita violenta, fatta di sangue e morte, la affrontiamo diversamente, meno poeticamente perché è dura ed è così; la mettiamo nei libri per esorcizzarla, per fingere che sia plasmabile, per poterci illudere che saremo noi a scrivere la parola fine quando e come vorremo. E se continueremo a paragonare la nostra letteratura (se mi passi il termine alto) ai mostri sacri d’altri tempi senza lasciare alcuno spiraglio, allora ci vedo poco scampo.
Perché, se scrivo un noir, o un giallo, o un thriller, o un horror, dovrei (o vorrei) fare della filosofia? Io non voglio fare della filosofia, non è mio compito, ma a guardar bene potrei anche trovarcela. Idem per la dolcezza. Forse nel più cruento degli splatte potrebbe (e dico potrebbe) essere così ma, per fortuna, non è il nostro caso.

Postato martedì, 25 novembre 2008 alle 01:19 da simonetta santamaria


@Simonetta…non ci siete solo voi! Io vi sto leggendo! Bravi tutti!

Postato martedì, 25 novembre 2008 alle 08:51 da Simona Lo Iacono


Sono antagonista per natura agli editori, compreso il mio. Però, per l’appunto il mio, fa spesso un’osservazione che ritengo giusta paragonando la letteratura anteguerra a quella dopoguerra, osservazione che coinvolge quindi anche l’horror.
EGLI sostiene che anni fa fosse indispensabile dedicare due pagine (per esempio) alla descrizione di un lugubre castello, in quanto la diffusione delle immagini era scarsa o confinata nelle illustrazioni. Oggi, grazie soprattutto alla televisione, più o meno tutti hanno avuto modo di vedere come è fatto il lugubre castello, quindi due pagine dedicate alla sua minuziosa descrizione rischiano di essere solo esercizio di scrittura e nulla più. chi scrive oggi, insomma, deve puntare più sullo stile e sull’emozione, piuttosto che sulla elaborata descrizione di uomini e cose.
Proprio non vorrei, giuro, ma temo di essere d’accordo con il mio editore.
:-)

Postato martedì, 25 novembre 2008 alle 11:34 da enrico.gregori


Perché, se scrivo un noir, o un giallo, o un thriller, o un horror, dovrei (o vorrei) fare della filosofia? Io non voglio fare della filosofia, non è mio compito, ma a guardar bene potrei anche trovarcela.

Faccio mio il pensiero di Simonetta, in tutto e per tutto.

Postato martedì, 25 novembre 2008 alle 11:54 da Laura Costantini


@ Enrico: sono perfettamente d’accordo con te… e il tuo editore. E’ chiaro, lo stile letterario cambia, il modo di scrivere e di percepire è influenzato dai tempi e dalle tecnologie di cui disponiamo… Dico che non bisognerebbe restare ancorati a certi archetipi ma lasciare uno spiraglio anche ad altro. Altrimenti noi (intesi come nuova letteratura) dovremmo considerarci sconfitti in partenza.
Ma perché uno che scrive La solitudine dei numeri primi (che, consentitemi, tratta argomento trito e ritrito…) viene accolto ci tappeti rossi e vende migliaia di copie e noi che scriviamo di altre emozioni ma pur sempre tali (tristezza e angoscia: Giordano scatena le lacrime, noi i brividi) dobbiamo penare tanto?? :(
Enri’, ma sarà che ce le vogliamo proprio cercare, le rogne? ;)

Postato martedì, 25 novembre 2008 alle 11:55 da simonetta santamaria


@ Enrico: ogni riferimento e’ puramente voluto?

Postato martedì, 25 novembre 2008 alle 11:55 da Laura Costantini


Ma perché uno che scrive La solitudine dei numeri primi (che, consentitemi, tratta argomento trito e ritrito…) viene accolto ci tappeti rossi e vende migliaia di copie e noi che scriviamo di altre emozioni ma pur sempre tali (tristezza e angoscia: Giordano scatena le lacrime, noi i brividi)

SIMONETTA FOR PRESIDENT!!!!

Postato martedì, 25 novembre 2008 alle 11:56 da Laura Costantini


Che poi La solitudine dei numeri primi e’ uno di quei romanzi che io, a lettura finita, definisco inutili.

Postato martedì, 25 novembre 2008 alle 11:57 da Laura Costantini


Mentre per restare in tema noir, ho scoperto in questi giorni “In nome di Ishmael” di Giuseppe Genna e vi assicuro che e’ libro che:
a) fa pensare
b) fa tremare
c) non ti fa staccare dalla pagina.
Non so come siano andate le vendite quando e’ uscito, ma io non lo conoscevo ed essendo una che frequenta le librerie… dubito abbia avuto pile e cataste come Giordano, Vespa e similia in previsione delle strenne natalizie.

Postato martedì, 25 novembre 2008 alle 11:59 da Laura Costantini


@ Laura: grazie, la solidarietà di una lettrice, prima di tutto, mi rincuora assai!
Vedete, Laura io non la conosco, se non per via virtuale. Lei ha trovato me, ha letto il mio romanzo. Il romanzo di una sconosciuta. Ha investito 14 euro e pare che non li rimpianga perché poi mi ha scritto…
Io ho subito comprato il secondo libro di Enrico (il primo l’ho letto quest’estate) e compro una quantità industriale di libri di autori italiani emergenti: se andate sulla mia libreria Anobii che sto riempiendo a poco a poco troverete forse un solo titolo americano nonostante io legga anche moltissimi autori stranieri. Perché la nostra editoria emergente ha bisogno di supporto.
Quanti sarebbero disposti a investire 14 euro o a regalare un libro per Natale che non sia il solito bestseller? Mmm, non so… Magari poi chi lo riceve potrebbe pensare “ma che m’ha portato, questo? Io volevo Faletti…”
E invece no, cari signori. Lo dico sempre e lo ripeto: non è sempre necessario comprare un bestseller per avere una buona lettura.

Postato martedì, 25 novembre 2008 alle 12:10 da simonetta santamaria


@ Laura: SIMONETTA FOR PRESIDENT!!!! Ma se non sono riuscita neppure a mantenermi nei primi cinque posti allo Scerba: sono settima, pensa che sfiga… Ma ho preso nota del libro di Genna e lo comprerò. Madonna, se vedessi quant’è lunga quella lista… :)

Postato martedì, 25 novembre 2008 alle 12:14 da simonetta santamaria


Molte grazie per la risposta, cara Simonetta,
ovviamente non mi riferivo a Lei o ai presenti: il mio e’ un discorso generale, non particolare. Mi sembra infatti che proprio questa scarsita’ di profondita’ umana, di escavazione e di propositivita’, in breve di poesia – affinche’ la Letteratura faccia qualcosa per rendere piu’ sereno e sognante il nostro mondo – insomma questa scarsita’ di vitalita’ reale e speranzosa nel nostro prossimo, nell’uomo contemporaneo, mi sembra che siano ”la differenza” con il passato, col quale evitare un serio confronto sarebbe la nostra, se posso permettermi, ”tomba” creativo-letteraria. Credo che paragonarsi coi Grandi sia, infatti, l’unico modo per crescere noi stessi.
Saluti Cordialissimi!
Sozi

Postato martedì, 25 novembre 2008 alle 14:45 da Sergio Sozi


@ Sergio: ma non è più bello darsi del tu? No, lo so che non c’erano riferimenti personali ma anche il mio era un tentativo di aprire in te una piccola breccia in favore di questa “nuova letteratura” (in cui senza onori mi ci ficco anch’io: hai visto mai che un giorno ti convincessi a leggere un mio libro?)
;)
Certo, i grandi autori devono essere i nostri riferimenti, un po’ come un genitore per un figlio. Ma poi questo figlio deve saper e poter crescere con le proprie gambe, seguendo il proprio istinto, e mai tentando di diventare un clone di chi lo ha generato.

Non sarà che la letteratura di oggi si è maggiormente “compartimentata” rispetto al passato?

Postato martedì, 25 novembre 2008 alle 18:18 da simonetta santamaria


@ Sergio
Di Henry James voglio citare un racconto lungo, un esempio raro di stile e di bellezza: “The Beast in the Jungle” (il titolo ha un paio di traduzioni nelle edizioni italiane: “La bestia nella giungla”, “La tigre nella giungla”).
E lascio, in relazione forse piuttosto generica al tuo ultimo commento, questo piccolo contributo:
***
“Oggi tutti gli uomini sotto il cielo sono in dubbio sull’affermazione e la negazione e incerti sul vantaggio e lo svantaggio. Quando quelli che hanno l’identica malattia sono molti, nessuno se ne accorge.”
.
(Lieh-tzu, “Il vero libro della sublime virtù del cavo e del vuoto”)
.
Un abbraccio affettuoso,
Gaetano
.
Tantissimi auguri al libro di Simonetta Santamaria “Dove il silenzio muore”.

Postato martedì, 25 novembre 2008 alle 19:27 da Subhaga Gaetano Failla


@ simonetta:
essere usciti dallo Scerba non è esattamente come essere usciti dalla lista d’attesa per un trapianto di cuore. chissenefrega, direi

Postato martedì, 25 novembre 2008 alle 20:31 da enrico.gregori


@Sergio Sozi,che scrive”I ”nostri” noir, invece, cos’hanno dentro di altrettanto profondo e riverente? Quale filosofia, sentimento, dolcezza a farne da sfondo o contraltare, o fine inespresso ma presente? Nessuno, credo io.”
Sì, oggi manca la COMPASSIONE.Il patire per ed insieme all’altro.Presente persino nelle società pre-alfabetiche, la cui narrazione(meglio definirla poesia)era carica di sentimento, realista e corale.Un coacervo di voci espresse dalla persona loquens.Voci calde che sacralizzavano la morte, che bruciavano di vigore bellico, che supplicavano i loro dei, che invogliavano all’eros, che si difendevano dagli insulti oppure mutuavano atti e pensieri e davano vita a nuove forme organizzative; voci cariche di kratos(potere) positivo, il cui valore etico scaturiva dalla viscerale e spirituale necessità di vivere intensamente la propria vita. Quanta poesia nelle parole che Euripide mette in bocca a Medea!La poesia sta nell’incalzare del ritmo, che proprio perché incalzante spinge a pensare e nel riflesso del pensiero, come nello scudo di Penteo in cui era riflessa la Gorgone,vediamo ciò che ad occhio superfluo non é dato vedere.Grazie. Lucia

Postato martedì, 25 novembre 2008 alle 20:49 da Lucia Arsì


Non ho letto il libro, ma conto di leggerlo presto. I vostri discorsi mi hanno incuriosito. E comunque in bocca al lupo a Simonetta.lucia arsì

Postato martedì, 25 novembre 2008 alle 20:52 da Lucia Arsì


“…chi scrive oggi, insomma, deve puntare più sullo stile e sull’emozione, piuttosto che sulla elaborata descrizione di uomini e cose.”

Maledetto @Gregori, pure a freccette mi batteresti, dovevi “morire di latte”, come diciamo a Napoli.
Hai, pari pari (e sono convinto che non lo sapevo o non te lo ricordavi) rifatto il ragionamenteo che Jerome K. Jerome fa in “Tre uomini a zonzo”, solo che lui parla di fotografia al posto della tv.
* * *
Rispetto al “Siete rimasti soli?”, bhe vi siete rimasti un nocciolo atomico, io non riesco a starvi appresso, dovrei vivere due vite per recuperare le vostre letture, ma maledizione, siete tosti!

Postato martedì, 25 novembre 2008 alle 21:39 da Francesco Di Domenico


Didò non preoccuparti…ti tengo in gioco io.

Postato martedì, 25 novembre 2008 alle 22:16 da eventounico


Bella. la domanda – che accolgo sperando non fosse ”retorica” – di Simonetta (con la quale sin da ora mi daro’ ben volentieri del ”tu”). La copio qua sotto:
-
”Non sarà che la letteratura di oggi si è maggiormente “compartimentata” rispetto al passato?”
-
Poi provo a rispondervi:
Mi sembra proprio di si’, visto che la ”compartimentazione” (ma preferisco chiamarla, senza delicatezze, ”isolamento”) e’ una moda sociale e culturale che potrebbe ben rappresentare la nostra era a cavallo fra i secc. XX e XXI; di conseguenza, le ricadute artistiche sono le seguenti: fine delle scuole letterarie e di pensiero (in quanto aggregazioni fra sodali); emersione di libri ed autori nuovissimi quanto spesso esterni a qualsiasi ambiente letterario o accademico – due cose diverse, ovviamente, ma entrambi aggreganti i letterati fono a trent’anni fa circa.
Insomma: oggi, da quale nucleo sociale di interesse condiviso fuoriesce alle stampe lo scrittore di grandi e piccoli editori? Nessuno. Solo individui in una societa’ individualistica, o meglio individualizzata, deregolamentata in senso assoluto, ovvero ”polverizzata”, ”atomizzata”.
I lati positivi di questo fenomeno contemporaneo (in Italia) sono delle migliori possibilita’ di accesso all’editoria nazionale per tutti gli autori – una democratizzazione, insomma. I lati negativi stanno nel rischio di veder pubblicati troppi libri aventi una selezione a monte scarsa, insufficiente o arbitraria – mentre invece i caffe’ letterari, le associazioni spontanee dei ‘’salotti” eccetera, una volta offrivano una pratica/selezione/praticantato letteraria che garantiva una certa qualita’ di partenza, alla quale si aggiungevano, dopo, altre selezioni da parte dei lettori degli editori (i quali valutavano le opere proposte per la pubblicazione spesso in forma partecipata o collegiale). Questi filtri oggi sono caduti, come molti ponti col passato. Bene. Ma la qualita’ e’ aumentata?
-
Saluti Cari
Sozi

Postato martedì, 25 novembre 2008 alle 22:30 da Sergio Sozi


Lucia Arsi’,
condivido appieno. Lettura magistrale del passato. Ci resta solo di farlo continuare coi fatti… letterari!
Ciao cara
Sergio

Postato martedì, 25 novembre 2008 alle 22:35 da Sergio Sozi


P.S. per Lucia Arsi’.
pero’ ”pathos” equivale anche a ‘’sentire”, non solo ”patire” come per l’italiano. Ecco: dobbiamo sentire di piu’. Solo sentendo si ama. E l’amore e’ la conditio sine qua non della Letteratura, assieme all’alfabetizzazione.

Postato martedì, 25 novembre 2008 alle 22:37 da Sergio Sozi


@ didò:
la cosiderazione che ho riportato (e che io condivido) l’ha fatta il mio editore. ora, effettivamente io non lessi “tre uomini a zonzo”, ma probabilmente lo lesse il mio editore anche se non credo si sia ispirato a Jerome del quale, comunque, ricordo bene “tre uomini in barca”.

Postato martedì, 25 novembre 2008 alle 22:50 da enrico.gregori


Gaetano mi ha letto nel pensiero – nel senso che ha colto il senso ultimo di quel che dicevo ieri sera. Voglio riportarne qui la citazione, di cui purtroppo devo condividere l’analisi:
”“Oggi tutti gli uomini sotto il cielo sono in dubbio sull’affermazione e la negazione e incerti sul vantaggio e lo svantaggio. Quando quelli che hanno l’identica malattia sono molti, nessuno se ne accorge.”
.
(Lieh-tzu, “Il vero libro della sublime virtù del cavo e del vuoto”)”
Ciao, Gaetano, grazie et multos abbraccioni!
Sergio

Postato martedì, 25 novembre 2008 alle 23:29 da Sergio Sozi


Certo che rispondere al magister Sozi è un problema.
Ma, fossi tu, divin Sozi, fuori dal tempo?
Fosse cambiata la letteratura? E se le lettere e i lettori sono altro da quello che ” è ” stato nel ‘900?
Se le parole si sono evolute?
Baricco un po’ l’ha detto ne “I nuovi Barbari”, stanno accadendo “cose”. Non dobbiamo essere appresso alle “cose”; ma intercettarle?
Possiamo comprenderle?
Bukovsky, che molti di voi hanno glorificato, e io sempre detestato, non è stato uno dei primi a stravolgere la letteratura yankee, rendendola urbana e senza regole?
Prima cercate lo sperimentalismo e poi ve ne dolete?

Postato martedì, 25 novembre 2008 alle 23:41 da Francesco Di Domenico


“Domani è un altro giorno: ci penserò domani.”
Rossella O’Hara

Postato martedì, 25 novembre 2008 alle 23:44 da Francesco Di Domenico


Io credo che sia impossibile prescindere dal passato (in generale e in letteratura).
L’importante è che il confronto con il passato offra un’opportunità, e non una prigione.
E con questa “massima” – o “massimata” – vi rinnovo i saluti da Strasburgo e vi auguro buona prosecuzione. ;)

Postato martedì, 25 novembre 2008 alle 23:49 da Massimo Maugeri


Ciao, Massimone! Torna presto!
-
Dido’:
Bukovski? Ne ho letto un libro – brutto – e poi non l’ho piu’ visto manco in fotografia. La colpa e’ degli editori d’un certo tipo e degi critici di un certo tipo – lo stesso ”tipo” di sovente. Una tipologia alla quale, come ben sai, io non appartengo affatto. Per me gia’ Baricco e’ troppo sperimentale.

Postato mercoledì, 26 novembre 2008 alle 00:00 da Sergio Sozi


(In ogni caso le ”cesure storiche o temporali”, Dido’, sono un’invenzione bella e buona come l’Orcobubu’ o lo sperimentalismo assoluto: tutto continua dentro di noi, la Storia e’ un fiume, non una serie di dighe).

Postato mercoledì, 26 novembre 2008 alle 00:04 da Sergio Sozi


In soldoni: l’isolamento degli scrittori di cui parlavo sopra con Simonetta non e’ cosa ”nuova” nella Storia, si tratta solo di piccoli particolari appena diversi… la cornice e’ differente, il quadro non cambia – rispetto per esempio all’epoca Augustea e l’appiattimento, l’individualita’ esasperata dell’epoca in cui, comunque, nacquero alle Lettere Virgilio, Orazio e altri grandi. Solo che oggi l’isolamento e’ anche sociale, ed allora un po’ meno!

Postato mercoledì, 26 novembre 2008 alle 00:10 da Sergio Sozi


Laura Costantini,
prima di tornare a leggere il mio libro – me ne vergogno un po’: per rilassarmi sto sulle ”Pantere di Algeri” di Salgari: roba cruenta, perdinci! – vorrei tanto sapere da te perche’ si debba escludere alcuni fra i tanti possibili significati profondi della scrittura (fra questi parlavamo della filosofia). Perche’, Laura? Andare al fondo delle cose e’ un’operazione ”naturalmente filosofica”, direi, mica una trattazione scientifica in senso stretto. Filosofia piccola piccola, magari. Perche’ no? Infatti, in Letteratura, i sentimenti e le emozioni piccole piccole tutti li ammettono; cos’avrebbe allora di ”diversamente piccolo” che non va la filosofia?

Postato mercoledì, 26 novembre 2008 alle 02:05 da Sergio Sozi


DEVO una difesa in favore di (e si scrive così!) Bukowski! Prima di tutto: non fa letteratura sperimentale. E’ sulla scia della tradizione della grande letteratura americana (il riferimento principale è il primo Hemingway). I suoi debiti letterari – i suoi autori preferiti – sono Dostoevskij, Celine, Hamsun, Fante, ecc. Non c’entra nulla con la beat generation. In musica è ispirato dalle opere di Mahler. Grande autore, dotato di raffinatissimo stile nei dialoghi, di autoironia, di compassione (nel senso etimologico del “sentire” l’altro, precisato da Sergio). Equivocato come cattivo scrittore a causa della sua vita lontana dalle accademie e vicina alla strada. L’ultima sua opera, “Pulp”, un ennesimo tributo a Celine, è “Dedicata alla cattiva scrittura”, come si legge nella prima pagina. Il suo racconto “Come amano i morti” in “A Sud di nessun Nord” è tra i più belli che io abbia mai letto. Il sesso e le sbornie sono elementi della sua letteratura come lo possono essere gli spettri e gli spiritelli campestri per Shakespeare. L’analisi dei singoli elementi non ci fa cogliere la bellezza d’un’opera.
Abbraccioni a Sergio e a Didò (e leggete il grande Hank! Ehm… Si capisce che sono un suo fan…?)
Gaetano

Postato mercoledì, 26 novembre 2008 alle 15:11 da Subhaga Gaetano Failla


Urca, Gaeta’! E se tu fossi esistito ai tempi di Cristo contro Barabba la Storia sarebbe cambiata: Cicerone in confronto a te e’ un avvocato d’ufficio! Mi documentero’ meglio. Come avevo specificato all’inizio, infatti, io ho letto solo un libro di Bucoschi… ehm di Bukowski – ”Panino al prosciutto” che, appunto, non mi piacque. Se mi ravvedo, pero’, Gaetano mi spedira’ a Lubiana l’Opera Omnia bucoschiana (compresi gli idilli, le ballate, i sonetti e le odi, vero?).
Eh eh eh…
Ciaobello!
Sergius Spiritosus

Postato mercoledì, 26 novembre 2008 alle 20:06 da Sergio Sozi


Caro Gaetano, debbo confessare che anche io il bukowsky non l’ho mai approfondito come forse si dovea. Lo si associa troppo volentieri a Burroughs ed altri beat, facendo di tutto un fascio. Io lessi a suo tempo le storie di ordinaria follia (doppo aver visto il film di Ferreri) e non è che mi rimanesse molto impresso: lo trovai anzi noiosino. Ma il tuo commento incuriosisce..e invoglia a riprenderlo fra le mani.

Postato mercoledì, 26 novembre 2008 alle 22:08 da Carlo S.


@ Sergio, gustosissimo il tuo commento tra Barabba e Cicerone…
@ Carlo
So che alcuni hanno associato Bukowski alla beat generation, ma, come dicevo prima, non c’entra proprio nulla. E per quanto riguarda Burroughs (che conosco molto bene e ho avuto la fortuna anche di incontrare durante il famoso festival di Castelporziano del 1979) è da lui ancora più distante. Nel film “Storie di ordinaria follia” di Ferreri recitava anche un mio amico, un attore del Living Theatre. Il film era pessimo (con una stucchevole Ornella Muti) e Bukowski dice di essersi alzato urlando prima della fine del film e di non aver mai ricevuto un soldo di diritti d’autore. C’è il bellissimo libro-intervista di Fernanda Pivano “Quel che mi importa è grattarmi sotto le ascelle” come introduzione a Bukowski.
.
Buonanotte a voi, Sergio e Carlo, scusandomi con Simonetta per il fuori tema.

Postato mercoledì, 26 novembre 2008 alle 22:36 da Subhaga Gaetano Failla


Gentile Massimo,

sono poco – per non dire pochissimo – interessato all’horror e al giallo, però riconosco che il genere non è affatto da relegare in un cantoncino della narrativa – come pretendono più di un lettore e di un critico – specie se la trama è costruita con profonda sapienza (conoscenza) psicologica e con l’intento di divulgare messaggi dai contenuti antropologici, non necessariamente positivi.
Horror o giallo, quindi, che riprendano fatti o vicende accadute nella realtà in modo che mi possa confrontare con i protagonisti, il loro vissuto, i loro mondi. Soprattutto i loro mondi.
Fa indubbiamente bene alla psiche addentrarci nelle pieghe degli animi dei protagonisti per smascherarli e punirli, o magari esaltarli, sfogando i propri istinti e sentimenti, o mettendoli alla prova.
Ma ci vuole un’indole (vocazione?) attirata dalle immersioni totali nel mistero o nell’irrazionalità, anche la più greve. E io quest’indole (vocazione?) non la possiedo. Mio malgrado.
In bocca al lupo,
G. Ausilio Bertoli

Postato giovedì, 27 novembre 2008 alle 02:03 da giuseppe ausilio bertoli


Sto rileggendo “Il mago” di Somerset Maugham.
Insuperabili i racconti di Poe, poi adoro Dracula e Frankenstein, i racconti di Lovecraft vi daranno incubi da qui al 2100…
Rispondo a Bertoli: vero è che questo tipo di letteratura tratta dell’irrazionale e del mistero, ma rappresenta anche la lotta della ragione e della luce contro il buio delle paure, dei terrori, dell’inconscio.

Postato giovedì, 27 novembre 2008 alle 10:40 da Maria Lucia Riccioli


Sapete ho pensato a Mario Vargas Llosa e il “la zia Julia e lo scribacchino” un grandissimo romanzo ma anche una meravigliosa riflessione sulla scrittura e la scrittura di genere. Dove si fronteggiano una vera storia – la storia di Llosa con la sua zia:) che più in la gli procuerò una causa – e i racconti di un autore di radioromanzi rosa. Letteratura vs genere – con tutto sommato il medesimo soggetto, cioè una storia d’amore.
La questione è non tanto il genere tout court ogni genere può essere un ottimo trampolino di lancio. Ma lo scribacchino di Vargas llosa e prigioniero di una specie di perversione chomskiana, una grammatica generativa del linguaggio della narrazione che ha delle regole fisse, personaggi fissi svolte fisse. L’altro è l’uomo che scrive vivendo, scrive flirtando con la vita reale scrive con l’imprevisto e la complicaizone della concretezza. Si guardano, si specchiano e ognuno ha qualcosa dell’altro – in fondo l’appartenenza a uno stesso orizzonte di trama. Pure rappresentano i poli opposti della cattiva e della buona letteratura.
E in ogni codice narrativo – dall’horror in poi ci sono questi due estremi.

Postato giovedì, 27 novembre 2008 alle 12:15 da zaub


di tutti quelli segnalati ho letto solo “il Dr. jekill e mr. hide” che all’epoca fece veramente scalpore – vedendo anche il film, con il bravo spencer tracy….era veramente sconvolgente..tenendo anche conto degli effetti speciali di allora…… – oggi veniamo sconvolti molto meno….abbiamo visto di tutto….. –
un altro romanzo che ultimamente e’ riuscito a impaurirmi fu IL SILENZIO DEGLI INNOCENTI – anche se non viene nominato in questa sede – fu eccezionale !! ed eccezionale fu la trasposizione in film –
sono daccordo con giuseppe ausilio bertoli quando dice che addentrarci nella psiche dei protagonisti….fa indubbiamente bene – a volte ci fa apprezzare di piu’ la nostra semplice realta’ -
saluti a tutti – anna di mauro

Postato giovedì, 27 novembre 2008 alle 12:25 da anna di mauro


@ bertoli & di mauro:
le vostre osservazioni sono secondo me condivisibili. a bertoli in particolare vorrei dire che un romanzo, un qualunque romanzo, può risultare sminuito se andiamo sempre e comunque a cercare un messaggio o un insegnamento. o meglio, se pensiamo sempre che l’autore si sia sforzato di dirci qualcosa tra le righe. trovare, scoprire è compito di chi legge. questo, quindi, vale tanto per i romanzi d’amore quanto per l’horror.
ad anna di mauro vorrei invece dire che ha perfettamente ragione quando afferma che oggi è più difficile sconvolgerci perché abbiamo visto di tutto.
questo, secondo me, è il motivo essenziale per cui chi scrive (a prescindere dal genere) deve avere una forza comunicativa, uno stile, una identità che, in qualche modo, renda “originale” e godibile il già conosciuto.
Il romanzo di Simonetta, secondo me percorre questa strada. Poi ovviamente ogni lettore deciderà se è riuscita ad arrivare a destinazione.

Postato giovedì, 27 novembre 2008 alle 13:23 da enrico.gregori


Capperi, manco un solo giorno e guarda che caos! Ma come sono contenta, l’horror ha scatenato un allegro casino!!
@ Massimo: bella, la tua riflessione sul passato. E’ vero, dev’essere un momento di raffronto ma mai di prigione. E questo credo valga per tutto, non solo in letteratura.
@ Anna: hai ragione anche Il silenzio degli innocenti è un libro molto “carico”; poi ho letto Le origini del male e ci sono rimasta malissimo: secondo me fa cag… (oddio, non so se si può dire ’sta parola, o finisce che maugeri mi banna…) Ma avete capito.
@ Enrico: mi trovo con te in pieno. La forza comunicativa: è questo che io cerco in un libro! E forse è proprio perché abbiamo visto di tutto e di più che ce n’è bisogno in dose maggiore rispetto a prima. Nel campo dell’horror, ma anche del thriller e del noir, spaventare è diventato molto più difficile, il lettore non si scompone più come una volta accadeva davanti ai racconti di Poe. E’ difficile, gente, molto più difficile.

Postato giovedì, 27 novembre 2008 alle 13:48 da simonetta santamaria


Ah, volevo approfittare per invitare tutti gli amici di MILANO domani VENERDI 28 alla libreria Mondadori OCCASIONI D’INCHIOSTRO, via Ettore Ponti 21, alle ore 21, dove presenterò il mio romanzo DOVE IL SILENZIO MUORE.
Mi farà da relatrice la grande Paola Barbato, sceneggiatrice di Dylan Dog. Ci sarà un reading musicale, e un buffet a fine serata. Non vi aspettate le canoniche presentazioni accademiche e pallose: dove ci sono io questo non accade MAI! :)
Ingresso libero, ovviamente!
Sarebbe un’occasione carina per incontrarsi e conoscersi, e magari per capire meglio di che si tratta.
Perciò, FORZA AMICI DI MILANO!!

Postato giovedì, 27 novembre 2008 alle 13:53 da simonetta santamaria


Mi dispiace di non essere di Milano, e di non poterci stare domani. Reading musicale e buffet sono molto allettanti (specie se con ingresso libero). Oltre che il poter conoscere di persona Simonetta e la “cellula milanese” di questo sito di pericolosi sovversivi letteratitudiniani.

Postato giovedì, 27 novembre 2008 alle 14:09 da Carlo S.


@ Carlo :) Mi piace, essere una sovversiva…

@ Enrico: per lo Scerbanenco l’ultima parola spetta ancora alla giuria, anche se so che non sarò certo io a finire in cinquina, proprio perché scrivo horror… ;)

Postato giovedì, 27 novembre 2008 alle 17:03 da simonetta santamaria


@ Gaetano: ben vengano i fuori tema come il tuo! Confesso di non aver letto niente di Bukowski perchè anch’io mi feci influenzare dal pessimo film (non vedo mai unl film prima di leggere il libro, ma quella volta andò così…) però Pulp mi ha incuriosito e lo aggiungo alla lista dei libri da comprare.
Però lui si faceva ispirare da Mahler, io spesso dall’hard rock e dal metal… Ossignore, sono grave? :) )

Postato giovedì, 27 novembre 2008 alle 17:52 da simonetta santamaria


@ Simonetta
“Pulp” è un romanzo (l’ultimo di Bukowski) affascinante, ironico, commovente che gioca con il genere hard boiled alla Chandler e alla Hammett.
Per quanto riguarda la musica ispiratrice, tu la ascolti nel momento stesso in cui scrivi? E inoltre: hai delle ore della giornata, che tu preferisci, da dedicare alla scrittura? E infine: senti una “musica interna” che percorre le tua pagine, c’è la ricerca d’una sorta di colonna sonora?
In bocca al lupo per la presentazione di domani (peccato, abito un po’ distante da Milano, in Toscana).
Un caro saluto,
Gaetano

Postato giovedì, 27 novembre 2008 alle 19:16 da Subhaga Gaetano Failla


@ Gaetano: ascolto spesso musica, ma quando scrivo preferisco quella “pura”, solo strumentale, senza testo, altrimenti mi distraggo. L’hard rock (come King, guarda che combinazione) e il metal (solo symphonic e prog, però, quello troppo duro non mi piace) mi ispirano prima, nel momento in cui mi passano pensieri che devono essere tradotti in scrittura. Spesso l’ascolto quando vado in moto (io giro su una Yamaha 250 rosso sangue, con un casco nero con su un paio di teschi sulla mentoniera e sulla nuca e il logo del mio sito.)
Per le ore, sono una nottambula perciò preferisco le serali, dalle 17 in poi; sarei capace di tirare l’alba, come a volte accade, ma spesso devo cedere alle esigenze di famiglia tipo cena, tv e quant’altro, se non voglio che mio marito (povero martire, mio prezioso consulente macabro-scientifico – è chirurgo, lui le vite le salva, non le sopprime come faccio io) mi butti fuori dal letto… ;) Già è difficile convivere con una matta come me: lui dorme con un occhio solo… :)

Postato giovedì, 27 novembre 2008 alle 19:30 da simonetta santamaria


Simonetta è ironica e sembra molto simpatica… buon per lei e per il marito… che per prudenza dorme con un occhio solo!
:-)
Chi dorme con un artista non può stare tranquillo perché l’immaginazione è l’arma più pericolosa…
“Lo strano caso del dottor Jekyll e di Mr. Hyde” è un libro meraviglioso sul tema del doppio, dell’inconscio vittoriano in lotta con la repressione… bella anche la trasposizione con Julia Roberts nei panni della cameriera del dottore…

Postato giovedì, 27 novembre 2008 alle 19:48 da Maria Lucia Riccioli


@ Maria Lucia: grazie! Sì, l’ironia è una mia caratteristica. Ricordo quando ho pubblicato Donne in Noir: l’allora direttore di collana mi cancellò tutte le parti ironiche dicendomi che queste “incursioni” se le possono permettere solo i grandi scrittori… A questo punto chiamo in causa Dodò: lui può testimoniare sul mio essere!
Dr Jekill e Mr Hide è un libro fantastico, che io amo tanto proprio perché affronta il tema del doppio che trovo affascinante. Non so più dove l’ho detto, ma ricordo ancora la serie tv con Albertazzi, era il ‘69, io avevo 7 anni ma non l’ho più dimenticato.

Postato giovedì, 27 novembre 2008 alle 19:59 da simonetta santamaria


Cari amici, mi appresto a partire alla volta di Milano. Tornerò sabato sera e spero di trovarvi ancora tutti qui.
Non mollate, mi raccomando, vi farò sapere se il mio romanzo riuscirà a conquistare le nebbie nordiche… ;)
Un bacio a tutti!!

Postato giovedì, 27 novembre 2008 alle 20:33 da simonetta santamaria


Desidero ringraziarvi tutti per i commenti fin qui pervenuti (anche se confesso che non ho ancora avuto modo di leggerli tutti). L’impressione è che ne sia venuto fuori una discussione interessante (che spero possa continuare).
Il prossimo post lo pubblicherò sabato (credo).
E magari vi racconterò delle mie peripezie tra gli aeroporti di mezza Europa, vissute grazie ad Alitalia.
Quasi più terrificante di un horror!:)

Postato giovedì, 27 novembre 2008 alle 21:36 da Massimo Maugeri


M’ha chiamato Dodò, sono gli effetti che fa il Greg sulle donne, appena lo conoscono mi cassano dalla memoria.

Ragazzi guardate che Simonoir è anche una brava umorista, infatti ci siamo conosciuti 5 anni fa quando abbiamo pubblicato insieme nella I° antologia degli umoristi napoletani.
“La sindrome di Nonna Papera” era uno dei racconti più gustosi.

Conoscere Simonetta e sapere che fa la “Horror” ti fa un attimo sghignazzare: “Dai e io sono Nilla Pizzi”.
E’ una ragazza (?) talmente solare, con due pretoriani rock come figli, perchè non lo ha raccontato ma le belve santamariane sono prodigi emergenti del rock duro.
Quel povero esile e raffinato chirurgo che ha avuto la sorte di prenderla nel talamo, e che oltre a dormire con un occhio aperto porta sotto il cuscino un bisturi (hai visto mai?), ritrovandosi al mattino con qualche taglietto nella mano (lo impugna al contrario), è lui il martire.

Ma la follia ha tanti figli.
Pensate che, per presentare il mio indecente libraccio surreal-psicotico (chiamare umorismo le mie sconcezze fa vergognare Benni & Serra) ho chiamato Simonetta, e lei senza dire sensatamente:”Scusa Didò, ma che c’azzecco io?” mi ha detto subito di si.
Cosa faremo il pomeriggio del 16 dicembre al Maschio Angioino, dove si presenta: “Storie brillanti di eroi mediocri” di Francesco Di Domenico – CentoAutori Editore, Dio solo lo sa (almeno lui)!

Postato giovedì, 27 novembre 2008 alle 21:44 da Francesco Di Domenico


Un saluto a Maugger, prima di uscire di casa per andare alla festa ”natalizia” della Casa Editrice lubianese Studentska Zalozba, dove forse incontrero’ anche l’editor trentino Giuliano Geri.
Una domanda al nostro Massimone: riuscirai a presentare alla Fiera del Libro di Roma ”Piu’ libri piu’ liberi” il libro letteratitudiniano?
Abbraccioni
Sergio

Postato venerdì, 28 novembre 2008 alle 21:11 da Sergio Sozi


P.S.
Mi scusino tutti per il fuori tema.

Postato venerdì, 28 novembre 2008 alle 21:12 da Sergio Sozi


Sono tornata!! Giornata da tregenda, quella di ieri: neve, vento bufera, treni in tilt, strade bloccate… Dovevo salire io a Milano per far scatenare tutto questo!
Bella presentazione, una ballerina ha danzato sulle mie parole, un’attrice bravissima ha interpretato i miei incubi in modo splendido. Ma la prossima volta ci salgo in primavera (e guarderò prima le previsioni del tempo.)

@ Didò: quel Dodò è un refuso (quella i accanto alla o…), come potrei cassarti dalla memoria, visto che mi hai pure chiesto di presentarti?

Alla fiera di Roma Più libri più liberi ci sarà anche il mio editore (CentoAutori) perciò chi di voi volesse osare e provare a leggere DOVE IL SILENZIO MUORE lo troverà lì.
:)

Postato sabato, 29 novembre 2008 alle 20:19 da simonetta santamaria


Ti faccio ancora tanti in bocca al lupo, Simonetta.

Postato domenica, 30 novembre 2008 alle 01:14 da Massimo Maugeri


@ Sergio
Sarò a Roma, per partecipare alla Fiera, venerdì 5 (tutto il giorno) e sabato 6 (solo la mattina).
Presenteremo “Letteratitudine, il libro (vol. I)” presso lo stand della Azimut.
Vi terrò informati con un apposito post.

Postato domenica, 30 novembre 2008 alle 01:16 da Massimo Maugeri


Detesto la splatter e sull’horror ho qualche perplessità, non tanto perchè mi impressioni, ma quanto perchè mi riesce difficile individuare lo stile per valutarlo. Ho piantato a metà, tanto tempo fa, un libro di Stephen King.
Detto questo, Lo strano caso di Doctor Jeckill e Mr. Hide è e resta un grandissimo capolavoro!

Postato mercoledì, 3 dicembre 2008 alle 12:31 da Lorenza Caravelli


Massi sei tutti noiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii!
In bocca al lupo anche a Simonetta e a tutti gli autori che sono passati da questo blog-salotto…
A tutti i lettori, a tutti noi che amiamo leggere e scrivere, è proprio vero che un libro ci rende pìù LIBeRI…

Postato mercoledì, 3 dicembre 2008 alle 15:25 da Maria Lucia Riccioli


[...] LA LETTERATURA DEL TERRORE E SIMONETTA SANTAMARIA [...]

Postato lunedì, 5 gennaio 2009 alle 21:56 da Kataweb.it - Blog - LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » Blog Archive » RECENSIONI INCROCIATE n. 5: Francesco Di Domenico e Enrico Gregori


[...] parliamo in maniera approfondita con lo stesso autore e con Simonetta Santamaria e Francesco Di Domenico, che ha recensito il libro e mi aiuteranno ad animare e moderare la [...]

Postato venerdì, 24 aprile 2009 alle 16:11 da Kataweb.it - Blog - LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » Blog Archive » NON SONO MAI PARTITO, di Pietro Treccagnoli


[...] ho invitato alcuni ospiti speciali: – Simonetta Santamaria (altresì nota con l’appellativo di Simonoir), scrittrice di romanzi horror, la quale ha di recente pubblicato un sanguigno saggio edito da [...]

Postato lunedì, 1 marzo 2010 alle 16:46 da Kataweb.it - Blog - LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » Blog Archive » DIBATTITO SULLA LETTERATURA DEI VAMPIRI



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