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martedì, 17 marzo 2020

CENT’ANNI DI SOLITUDINE di Gabriel García Márquez (Leggerenza n. 18)

imagedi Gianni Bonina

L’incipit di Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez è oggi un crisma della letteratura di ogni tempo: “Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendia si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio”. Un repentino balzo temporale in avanti seguito da un vertiginoso salto nel passato tra prolessi e analessi entro un’antinomia di sorpresa e nonsenso che accosta inopinatamente il plotone di esecuzione e il ghiaccio.
Una delle tante sorprese, in un romanzo nato in stato di grazia nella sola culla possibile, il Sudamerica del realismo magico, arriva quando l’autore dapprima rivela che Aureliano Buendia sarebbe morto di vecchiaia e successivamente narra come il colonnello fosse invece riuscito a scampare alla fucilazione. Si tratta di un andamento attentamente e argutamente studiato. In tutto il romanzo infatti l’ordine cronologico degli avvenimenti lascia sempre il posto a quello diacronico in un vorticoso rovesciamento diegetico nel quale non solo l’esito di una vicenda anticipa anche di molto il suo svolgimento, ma la stessa successione degli eventi risponde agli scarti propri di una mossa del cavallo, favorendo svolte impresagite e risultati d’effetto. Quando per esempio Aureliano Buendia dichiara che non sono tempi per pensare ai matrimoni, il lettore non immagina quali siano i tempi certamente drammatici che facciano da impedimento agli eventi più lieti fin quando García Márquez non dà conto dell’adesione di Aureliano al partito dei liberali in guerra contro i conservatori: ponendo peraltro in questo modo la questione pubblica come prioritaria rispetto a quella privata e offrendo altresì una ulteriore bipolarità che sotto traccia lega la storia di una famiglia e di una comunità che cresce attorno ad essa ai destini di un Paese travagliato dai torbidi della guerra civile.
In questa prospettiva Macondo si trasforma da posto paradisiaco, teatro fiabesco di avvenimenti straordinari e meta di figure oltremodo stravaganti, in un inferno di guerra, piazzaforte della rivolta liberale e campo di sterminio di tremila lavoratori, fra cui anche donne e bambini, buttati cadaveri a mare da un treno di duecento vagoni, a stare almeno alla testimonianza di José Arcadio Secondo al quale nessuno però crede, come non sarà creduto Aureliano, l’ultimo dei Buendia, quando molto tempo dopo, esattamente cento anni, narrerà del colonnello Aureliano Buendia e delle sue trentadue guerre tutte perse o anche della presenza a Macondo della compagnia bananiera yankee: quasi ad affidare a una palinodia l’intero ciclo di generazioni e vicissitudini di una famiglia che vive e scompare in simbiosi con il villaggio cui ha dato vita, dividendone l’astrazione col fare del tempo una dimensione metafisica, un piano di assorbimento e concentrazione di fatti che sembrano avvicendarsi più che succedersi in un continuo presente. Cosicché le escursioni tra passato e futuro sono non a caso funzionali all’uso prevalente di un tempo, l’imperfetto, che è il più narrativo e il più appropriato per fissare un’esperienza in un’epoca indistinta dove il passato diventa un tapis roulant dagli effetti di un cosmorama.
Tale è appunto la funzione del ghiaccio, che più volte l’autore evoca per ricordare un’epifania remota vista come un’illusione o un sogno, tanto che José Arcadio Buendia, il primo dei “ventuno intrepidi” decisi a trovare il mare sviscerando la sierra verso ovest e arrivati a fondare Macondo, tiene sopra il ghiaccio portato da Melquiades la mano “per diversi minuti, mentre il cuore gli si gonfiava di timore e di giubilo al contatto col mistero”. Il ghiaccio, di cui l’ecista fa la sconcertante ed entusiastica scoperta, è il correlato della scienza che via via arriva anche in un villaggio sperduto nella palude del nord della Colombia caraibica dove non si muore neppure di morte naturale, sicché manca pure il cimitero: nel segno di un credo per il quale non si è di nessun luogo fino a quando non si ha qualcuno sottoterra.
Lo stupore di mistero che strega José Arcadio Buendia alla vista del ghiaccio e che tanto colmerà il figlio Aureliano da essere il suo ultimo pensiero davanti ai fucili puntati, si trasmetterà a tutti gli abitanti di Macondo nel tempo a venire, con il progresso delle invenzioni scientifiche e il loro arrivo nel villaggio, al punto che cinema, grammofono e telefono susciteranno come una malìa collettiva, giacché “nessuno poteva sapere con cognizione di causa dove erano i limiti della realtà”, trattandosi di “un guazzabuglio di verità e di miraggi”. Gli abitanti si sentono persino presi in giro quando al cinema vedono storie che credono vere ma poi scoprono che un personaggio morto e sepolto in un film torna vivo e da arabo in un altro.
L’insieme di verità e irrealtà, che integra il misto manzoniano di storia e invenzione, è appunto la cifra che regge dalle fondamenta questo poema in prosa al quale l’ultima cosa da chiedere è la rispondenza al principio di verosimiglianza, perché anche questo elemento è un inganno di fronte a personaggi che si muovono seguiti da farfalle gialle, tengono corrispondenze con medici invisibili, vivono fino a centoquarant’anni, si incielano trasfigurandosi, nascono con la coda di maiale per venire in fasce portati via da enormi formiche rosse e resuscitano addirittura.
La sospensione dell’incredulità è il requisito necessario per godere di un romanzo che allo stesso tempo è storico, perché richiama dal vero la storia della Colombia, ma è anche sociale, fantasy, saga familiare, bildungsroman e d’avventura. Racconta gli immaginifici rivolgimenti di una casa nella quale sette generazioni si susseguono nell’arco di un secolo, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento fino ad arrivare a metà Novecento, a ridosso dell’uscita del libro nel 1961. Da José Arcadio Buendia al neonato Aureliano, mangiato dalle formiche secondo la predizione di Melquiades, che ha scritto l’intera storia dei Buendia prima che essa si compiesse, la casa dove Aureliano Babilonia trova opprimente il peso di un passato tanto pesante e che nessuno ormai conoscerà o ricorderà è lo spazio nel quale il tempo si svolge in vista di una dimensione unificata e giustappunto spaziotemporale, deformazione che è proprio l’obiettivo perseguito da García Márquez. Un disegno ordito con la maestria di un grande conoscitore dei mezzi espressivi.
imageLo scrittore premio Nobel sa bene che per dare al tempo la necessaria inconsistenza capace di rendere il solo modo dell’indicativo presente deve ricorrere al minor numero possibile di scene dove descriva ambienti o dia la parola ai personaggi, per modo che la riduzione quasi al grado zero dei dialoghi, perlopiù epigrammatici, sentenziali, apodittici, insieme con la descrizione limitata al senso di una definizione, conferisce alla narrazione una rilevanza decisiva che dota il racconto di una voce sola, quella del narratore, libero e arbitro non solo dei fatti ma anche dei criteri con cui riferirli. Il lungo e improvviso monologo interiore di Fernanda che assume i toni di un vero stream of consciousness, unico caso di rottura di un impianto stilistico coerente e continuo, sempre tenuto sui toni alti di una voce narrante accordata al più consapevole sentimento lirico, sta proprio a comprovare uno spirito di libertà che può fare apparire lo scrittore anche un constatorie e volgere il testo in un racconto orale. García Márquez vuole in sostanza attestare la sua precedenza sui personaggi e affermare il modello della saga, dove più è lungo il tempo della narrazione e più scorciate si fanno le scene quanto allo spazio e al tempo concessi ai personaggi. Ma c’è dell’altro.
Una sequenza analogica dei fatti compresi nella fabula avrebbe reso il romanzo non più che un rapporto tutto sommato arido quando l’avere scelto un intreccio versicolare e ricco di salti e rimandi giustifica ed esalta l’aria di fiaba che il romanzo vuole senz’altro privilegiare. Prova ne sia lo scioglimento finale che si costituisce come una ipocatastasi che richiama tutti i personaggi facendoli rivivere nella casa, destinata a essere distrutta da un uragano insieme con Macondo, col riepilogare cent’anni di una storia indivisibile nel segno di un precetto: la solitudine. Ma a ben vedere si tratta piuttosto del precetto di un segno, quello che denota il carattere dei Buendia. Aureliano fra tutti: alla nascita si riconosce subito per “i suoi zigomi alti, il suo sguardo di stupore e la sua aria di solitudine”. Il “deserto della solitudine”, come l’autore chiama quello nel quale Remedios la bella “rimane a vagare”, designa invece più precisamente uno stato di desolazione e di derelizione che pesa sul destino dei Buendia, come sulla loro casa e lo stesso villaggio, al pari di una entropica rovina che porta alla perdita soprattutto della memoria futura e della propria identità. Entro questa chiave il contrario dei “privilegi della solitudine”, da conquistare dopo “molti anni di sofferenze e di miseria”, come capita a Rebeca, è visto nella misericordia con i suoi incanti, che sono tuttavia falsi e dunque non preferibili.
imageE tanto più solitudine significa desolazione, non solo del mondo circostante ma anche di quello interiore, che la fuga e l’isolamento dei Buendia non è vocazione al romitaggio e al ritiro ma abbandono e cedimento al proprio destino: Ursula ultracentenaria si apparta nella sua stanza, così anche Rebeca si mura viva dentro una casa in disfacimento, il colonnello Aureliano lascia ogni ideale liberale e si rinchiude a costruire pesciolini d’oro, José Arcadio Buendia si isola sotto il castagno, José Arcadio Secondo si segrega per anni per studiare le pergamene lasciate da Melquiades in una stanza che comincia a disfarsi solo quando egli ne esce, Santa Sofia de la Piedad abbandona dopo tutta la vita Macondo e si perde nel deserto della sua desolazione. Tutti muoiono soli e nel convincimento che “il segreto di una buona vecchiaia non è altro che un patto onesto con la solitudine”, quella soledad la cui accezione migliore evoca un’altra suggestione tutta latino-americana, la saudade, che molto ricorda la dimenticanza e la malinconia. La stessa nuance che come un sortilegio García Márquez imputa alle vicende politiche del suo Paese, preda della violenza di Stato come della natura equatoriale, una natura del tutto speciale.
Quando a Macondo arriva la peste dell’insonnia, per cui tutti rimangono svegli senza però essere per niente stanchi, il male maggiore degli abitanti è la mancanza non del sonno ma dei sogni, ragione per cui si riuniscono per raccontarsi storie, allo stesso modo che nei campi di concentramento nazisti i detenuti si affideranno all’invenzione letteraria, vista come il solo mezzo di evasione. Un “giocattolo” chiama l’autore la letteratura, “il migliore che si fosse inventato per burlarsi della gente”: proprio ciò che egli stesso si propone in linea con un gusto tutto latino-americano di dire il vero e di confutarlo subito dopo, lasciando di crederci o riderci: quello che è appunto il realismo magico il cui maggiore risultato è di gran lunga proprio Cent’anni di solitudine, valso non a caso il Nobel.
García Márquez gioca come un funambolo con la letteratura, abbandonandosi alle volute della fantasia e della memoria infantile ereditata dai racconti sempre effervescenti ed icastici che formano il patrimonio più cospicuo della tradizione sudamericana. Ci gioca per fare profetare a Melquiades il futuro di Internet quando ancora nemmeno lui può averne un’idea: “La scienza ha eliminato le distanze. Fra poco l’uomo potrà vedere quello che succede in qualsiasi luogo della Terra senza muoversi da casa sua”. Ci gioca quando il colonnello Aureliano Buendia sentenzia che “non si muore quando si deve, ma quando si può”, quando stabilisce che la saggezza a Macondo “non valeva la pena se non era possibile servirsene per inventare un nuovo modo di cuocere i ceci”, quando ancora José Arcadio Buendia non sfida a dama padre Nicanor “perché non capisce come due avversari possano ingaggiare una contesa se sono d’accordo sui principi”, quando Aureliano non capisce “come si potesse arrivare all’estremo di fare una guerra per cose che non si potevano toccare con mano”.
La letteratura è allora per García Márquez un gioco di scomposizione della realtà e di ricomposizione del mondo nei modi di un incantamento dei sensi che rende a Macondo possibile ogni cosa. Macondo è dunque la Mekone della mitologia classica, la città aurea dell’armonia, della convivenza irenica tra uomini e dèi, della felicità incondizionata. Ma come Mekone, spazzata per gli effetti della violenza insorta tra Titani e Olimpici, anche Macondo è destinato a sparire per le conseguenze di una violenza non diversa, sia naturale che umana. Come nelle fiabe, nasce dal nulla e nel nulla muore, edificata solo per misurare le possibilità della letteratura quando viene portata al massimo grado di ebollizione dove diventa una sfera di cristallo o uno speculum in aenigmate, un nuovo modo non tanto per cuocere i ceci ma per attraversare lo specchio dell’umano divenire e scoprire una dimensione nella quale persone e cose sembrano reali ma sono frutto di uno sogno da non potersi ripetere, giacché “le stirpi – conclude il romanzo – condannate a cent’anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla Terra”.
Nemmeno Cent’anni di solitudine, nonostante le decine di tentativi di imitazione, è più ripetibile. Rimane il solo caso nel quale un autore ha raccontato una lunga storia di uomini soli e desolati facendo di tutto per farla credere vera e al contempo dimostrare che non può esserci nulla di vero. È la prima e unica fiaba per adulti cui sia dato di rimanere attoniti di fronte alla chiusura del romanzo: Aureliano Buendia, persa la moglie e il figlio con la coda di maiale, finalmente decifra le pergamene che Melquiades ha scritto cent’anni prima e scopre qual è il suo destino mentre un uragano biblico comincia a devastare Macondo. Legge freneticamente l’intera storia dei Buendia e salta undici pagine per arrivare al momento della propria morte “come se si stesse vedendo in uno specchio parlante”, ma si rende conto che non potrà leggere mai il verso finale “perché era previsto che la città degli specchi (o degli specchietti) sarebbe stata spianata dal vento e bandita dalla memoria degli uomini nell’istante in cui Aureliano Buendia avesse terminato di decifrare le pergamene; e che tutto quello che vi era scritto era irripetibile da sempre e per sempre”.

© Gianni Bonina

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[il nuovo romanzo di Gianni Bonina è: "Ammatula" (Castelvecchi) - di recente in libreria anche il volume: "Fatti di mafia" (Theoria)]

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Scritto martedì, 17 marzo 2020 alle 09:12 nella categoria LEGGERENZA (a cura di Gianni Bonina). Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.

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