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sabato, 8 maggio 2021

LE ANIME MORTE di Nikolàj Vasìl’evič Gogol’ (Leggerenza n. 23)

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Delle Anime morte di Nikolàj Vasìl’evič Gogol’ non c’è epoca che manchi di parlare di capolavoro e che però sia concorde sul perché della sua grandezza. Sin dalla pubblicazione, il libro fu già in patria oggetto di dispute per via soprattutto dell’immagine che della Russia veniva offerta tra dileggio e denigrazione, fino al lapidario giudizio espresso dal potente critico Vissarion Grigor’evič Belinskij che ne negò – sbagliando clamorosamente – le possibilità di successo fuori dal Paese e ne vide le potenzialità solo in un contesto nazionale unicamente entro il quale fossero comprensibili logiche politiche e dinamiche di un tempo circoscritto e di una società chiusa: proprio alla quale in verità Gogol’ intese rivolgersi chiamandola allo specchio nei modi di un appello alla rinascenza, implicandosi personalmente con l’insistere per esempio in espressioni del tipo “da noi in Russia” e con l’assumere un ricorrente e persino rutilante tono moralista e tirtaico culminante al termine della prima parte nella figura della Russia trasfigurata in un “uccello trojka” che spicca un nuovo volo nel cielo nazionale. Volendo mostrare ai suoi connazionali la Russia messa a nudo, Gogol’ guadagnò invece l’attenzione dell’Europa rivelando all’estero non tanto un mondo poco conosciuto e tenuto in sospetto quanto uno stato sociale e una condizione storica appartenenti all’uomo nuovo nato dopo lo smaltimento della febbre napoleonica. (continua…)

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mercoledì, 22 luglio 2020

ARGO IL CIECO di Gesualdo Bufalino (Leggerenza n. 22)

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Insieme con i temi della malattia, della morte, dell’amore fatale, della memoria, della guerra, già frequentati in Diceria dell’untore (il romanzo inaugurale considerato il suo capolavoro, ma da molti ritenuto inferiore ad Argo il cieco), motivo centrale della ricerca di Bufalino è il tempo. Ed è il tempo che profila Argo il cieco come mezzo di contrasto dei cambiamenti che produce intus et in cute e come carico di mal-aimé. Un terreno questo sul quale ha particolarmente indugiato la cultura decadentista alla quale Bufalino fortemente ha voluto richiamarsi, sottraendosi a quella che Maria Corti chiamava “glaciazione neorealista” e alle illecebre del naturalismo per porsi in assoluto afelio rispetto al mainstream guidato da un suo confrére qual è Sciascia.
Entro questa prospettiva, Argo il cieco segna certamente un maggiore distacco dal realismo rispetto a Diceria dell’untore di cui pure non costituisce che un seguito in termini autobiografici ma soprattutto uno sviluppo in ambito letterario. E ne è superiore non perché accentua i primi ma perché accresce il secondo in una poetica più pura e spirituale. Del resto fu lo stesso Bufalino, richiesto di rivelare il suo titolo preferito, a indicare Argo il cieco, romanzo più decandestico a motivo proprio del ruolo che il tempo vi svolge. (continua…)

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giovedì, 4 giugno 2020

LA PESTE di Albert Camus (Leggerenza n. 21)

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Rileggere La peste dopo il coronavirus è come farlo per la prima volta. Pur ammirando la forte precisione del quadro generale quanto soprattutto agli effetti psicologici sia individuali che collettivi, tali da far sembrare che Camus abbia vissuto una vera epidemia, mentre non si è che documentato su quelle passate, se ne colgono tuttavia lacune che prima sarebbe stato difficile trovare: non tanto le inesattezze scientifiche circa la differenza tra peste bubbonica e polmonare, da Camus confuse nelle manifestazioni fisiche e la seconda posta come complicanza della prima, quanto le misure di contenimento che abbiamo imparato oggi a comprendere in termini di “lockdown”. Benché la peste polmonare si diffonda attraverso saliva, sudore e particelle di sternuto e tosse, le autorità prefettizie di Orano (la città algerina di Camus dove la pestilenza divampa) non prescrivono alcuna quarantena, ma al culmine dei contagi e del conseguente pericolo per l’ordine pubblico ordinano il coprifuoco dopo le ventitré (provvedimento esorbitante dopo aver parlato di semplice febbre perniciosa sui manifesti affissi nelle sole strade secondarie) e intanto dispongono che la città sia chiusa e considerata una “zona rossa” dalla quale non si possa uscire e nella quale sia proibito entrare.
Ma dentro la città blindata “i prigionieri della peste” sono liberi durante il giorno di frequentare bar e ristoranti senza alcun distanziamento, affollare autobus con la sola cautela di darsi le spalle, andare a teatro e magari assistere alla morte sulla scena dell’attore protagonista, gremire i cinema solo per vedere lo stesso film ripetuto ogni giorno. L’isolamento non è degli abitanti di Orano ma della città in sé, priva anche di approvvigionamenti che non siano provento del mercato nero, dove però i giornali continuano ad uscire, i tipografi stampano testi di maghi e santi della Chiesa, le persone circolano senza mascherine sterili né tantomeno guanti, i preti possono evocare dai pulpiti la punizione divina su centinaia di fedeli assembrati al chiuso e la gente può toccarsi, stringersi la mano, accarezzare infettati e abbracciarsi senza  precauzione alcuna. (continua…)

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giovedì, 30 aprile 2020

MOBY DICK di Herman Melville (Leggerenza n. 20)

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Dopo l’esperienza fatta dieci anni prima come baleniere, Herman Melville scrive Moby Dick perché scopre – e lo precisa nel romanzo – che la caccia ai cetacei ne minaccia l’estinzione, sebbene a metà dell’Ottocento l’illuminazione pubblica e domestica vada sempre più servendosi non più dell’olio di balena ma del gas e presto a New York arriverà anche l’elettricità: ma specifica che la balena “non avrà una fine ingloriosa come i bufali dell’Illinois e del Missouri”, essendo essa immortale. Deificando così quello che pure molte volte chiama “mostro” e “Leviatano”, Melville lascia supporre che il suo capolavoro (tale verrà considerato però solo nel Novecento giacché all’uscita non riscuote il successo di Taipi e delude il mercato americano e inglese) nasca nell’intento non tanto di ricordare la disgrazia nel 1820 dell’Essex, affondato da un capodoglio, quanto soprattutto di affermare il primato della balena sull’uomo con l’esaltarne lo spirito di specie e dotandola di un’intelligenza non diversa da quella dei suoi cacciatori, se non maggiore. (continua…)

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sabato, 11 aprile 2020

I PROMESSI SPOSI di Alessandro Manzoni (Leggerenza n. 19)

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È in quella età “lurida e sfarzosa” del Seicento in cui nascevano le prime versioni di fiabe quali La bella addormentata e Cenerentola, dove un nobile si innamora di una bella popolana, invertendo così l’ordine sociale costituito, che Alessandro Manzoni pensò di adattare una storia che quell’ordine restaurava nel suo pieno regime: la storia, che egli chiamava “cantafavola” nelle lettere agli amici, di un signorotto tanto gentiluomo quanto prepotente che pretende di mettere letteralmente le mani su una povera villanella non perché invaghito di lei ma per via di una scommessa stabilita con un cugino della stessa pasta, perpetrando perciò un sopruso e affermando il primato medievale del signore padrone di terre e terricoli.
Come Verga mezzo secolo dopo nei Malavoglia e come presto faranno in Francia Balzac, Dumas e Zola, in Inghilterra Dickens, l’autore dei Promessi sposi, portando in Italia il romanzo moderno, non è delle classi dominanti che intende rappresentare la dispettosa condizione di superiorità, volta pure a giustificare una volgare scommessa tra il conte Attilio e don Rodrigo sulle sorti di Lucia Mondella, perché è a quelle più umili che volge lo sguardo, volendo esplorare per primo il “ventre” di una società che però, a differenza che in tutti gli altri autori di interessi sociali, non è la sua, né lo è il tempo narrato. Sua è invece la città che fa da sfondo, insieme con il territorio del ducato di Milano e parte della repubblica veneziana, a una vicenda che è “un misto di storia e invenzione” e che sostiene un romanzo storico ma nello stesso tempo sociale e anche intimo, così soddisfacendo i tre principali generi letterari dell’Ottocento romantico. (continua…)

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martedì, 17 marzo 2020

CENT’ANNI DI SOLITUDINE di Gabriel García Márquez (Leggerenza n. 18)

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L’incipit di Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez è oggi un crisma della letteratura di ogni tempo: “Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendia si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio”. Un repentino balzo temporale in avanti seguito da un vertiginoso salto nel passato tra prolessi e analessi entro un’antinomia di sorpresa e nonsenso che accosta inopinatamente il plotone di esecuzione e il ghiaccio.
Una delle tante sorprese, in un romanzo nato in stato di grazia nella sola culla possibile, il Sudamerica del realismo magico, arriva quando l’autore dapprima rivela che Aureliano Buendia sarebbe morto di vecchiaia e successivamente narra come il colonnello fosse invece riuscito a scampare alla fucilazione. Si tratta di un andamento attentamente e argutamente studiato. In tutto il romanzo infatti l’ordine cronologico degli avvenimenti lascia sempre il posto a quello diacronico in un vorticoso rovesciamento diegetico nel quale non solo l’esito di una vicenda anticipa anche di molto il suo svolgimento, ma la stessa successione degli eventi risponde agli scarti propri di una mossa del cavallo, favorendo svolte impresagite e risultati d’effetto. Quando per esempio Aureliano Buendia dichiara che non sono tempi per pensare ai matrimoni, il lettore non immagina quali siano i tempi certamente drammatici che facciano da impedimento agli eventi più lieti fin quando García Márquez non dà conto dell’adesione di Aureliano al partito dei liberali in guerra contro i conservatori: ponendo peraltro in questo modo la questione pubblica come prioritaria rispetto a quella privata e offrendo altresì una ulteriore bipolarità che sotto traccia lega la storia di una famiglia e di una comunità che cresce attorno ad essa ai destini di un Paese travagliato dai torbidi della guerra civile. (continua…)

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lunedì, 24 febbraio 2020

SE QUESTO È UN UOMO di Primo Levi (Leggerenza n. 17)

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Scomparsi quasi tutti i sopravvissuti della Shoah, non resta che la memoria scritta a ricordare lo sterminio nazista, per modo che Se questo è un uomo di Primo Levi appare sempre più quello che il suo autore voleva che fosse: una testimonianza documentale di denuncia degli orrori dell’olocausto, un libro di storia dal vivo del Lager che, inteso a far conoscere al mondo il suo inferno, risulta autonomo rispetto al secondo titolo di venti anni dopo, La tregua, che contiene il racconto del ritorno e ne costituisce il seguito, quando il Lager è ormai alle spalle: giacché è proprio il Lager il motivo di interesse di Levi, che rivelandone le atrocità combatte la sola battaglia che il popolo ebraico abbia ingaggiato contro il Reich. Vincendola e continuando tutt’oggi a vincerla.
In un recidivante clima di negazionismo qual è quello attuale, questo libro così poco saggio e così poco romanzo, originale per l’estemporaneità del dettato che narra e riflette allo stesso tempo, adduce infatti una tale mole di dati di fatto da formare l’atto di prova più inattaccabile circa l’esistenza dei forni crematori e l’atto di accusa più granitico sulla vita quotidiana all’interno della Buna, il campo di concentramento nazista di Monowitz sorto da una fabbrica di gomma dove Levi fu tenuto prigioniero per un anno prima della liberazione. (continua…)

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venerdì, 17 gennaio 2020

LE AVVENTURE DI PINOCCHIO di Carlo Collodi (Leggerenza n. 16)

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La storia di un burattino (primo titolo delle Avventure di Pinocchio) appare a puntate sul supplemento per bambini del “Fanfulla” nel biennio in cui, tra il 1881 e il 1882, è ambientata l’altra storia scolaresca a sfondo pedagogico raccontata anni dopo da Edmondo De Amicis in Cuore. Il periodo è quello della deprecatio temporum che coglie la cultura nazionale di fronte all’Italietta postunitaria chiamata a darsi un futuro e ad offrirlo innanzitutto alle generazioni più giovani ammaestrandole al bene e istruendole al rispetto della legge e dello Stato. Carlo Lorenzini (che una distorsione storica ha mutato, benché fiorentino dalla nascita, in Carlo Collodi, derivando il cognome dal paese della madre alla quale era morbosamente legato) scrisse quelle che in volume sarebbero diventate nel 1883 Le avventure di Pinocchio in preda a un doppio risentimento: generale per le deludenti sorti dell’Italia ben poco magnifiche e progressive, nonché di Firenze non più capitale da dieci anni, e personale per la misera vita solitaria condotta da celibe a stecchetto, tra grandi ubriacature, insuccessi di scrittore e sfortunate serate al tavolo di gioco. (continua…)

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sabato, 21 dicembre 2019

L’ULTIMO DEI MOHICANI di James Fenimore Cooper (Leggerenza n. 15)

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All’origine del western c’è James Fenimore Cooper, che non inventò il Far West né il mito della frontiera ma inaugurò un’epopea, quella dei pellirossa e dei visi pallidi, durata fino a quando il politically correct non ha equiparato quelli a questi e decretato il tramonto non solo dei film spaghetti western ma di un modello culturale ispirato a un mondo wilderness figlio dell’uomo di natura rousseauiano. Cooper (del tutto ignorato da Elio Vittorini nella sua antologia Americana, disprezzato da Mark Twain e considerato tutto sommato un malriuscito Walter Scott americano frammisto al più facilone Honoré de Balzac) pubblica il suo principale romanzo nel 1826, quando nessun autore si è ancora accorto in America dei pellirossa se non chi, come Washington Irving, ne ha tratteggiato i costumi osservandoli però con gli occhi antropologici dei coloni europei, olandesi in particolare. Quando Cooper scrive L’ultimo dei Mohicani, il West è ancora una frontiera non molto lontana dal Mississippi, una terra fatta di trail per carovane guidate da settlers puritani ancora poco addentro alle sconfinate praterie dell’Ovest. Eppure – ed ecco il fatto veramente nuovo – in Cooper il West c’è già come oggi lo conosciamo, ma innestato nell’Est, lungo l’Hudson, tra lo Stato di New York e il Canada. (continua…)

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lunedì, 2 dicembre 2019

I TRE MOSCHETTIERI di Alexandre Dumas (Leggerenza n. 14)

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Il più tradotto romanzo francese di sempre, del genere cappa e spada ma prima ancora storico e sociale, costituisce il migliore modello sul quale misurare il feuilleton, che nell’Ottocento serviva gli scopi dell’attuale serie Tv e che in Alexandre Dumas toccava anche punte spaghetti western. Capolavoro di ingegno letterario e di superficialità narrativa, I tre moschettieri è l’esempio di romanzo di consumo e intrattenimento che oggi diremmo del tipo di Camilleri. Diverte, annoia, emoziona, spinge ad abbandonarlo e poi a riprenderlo, ma di certo non lascia indifferenti. È un libro che letterati del passato e del presente, da Massimo Bontempelli a Benedetto Croce, da Umberto Eco a Pietro Citati, per restare in Italia, hanno amato rileggere anche a distanza di molti anni, attratti dal suo mistero che generazioni di critici di tutto il mondo non sono riusciti a svelare e che fonda forse la sua grandezza. (continua…)

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lunedì, 25 novembre 2019

IL PROCESSO di Franz Kafka (Leggerenza n. 13)

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Sorprende come nel 1915 un giovane praghese di 32 anni possa sentire più urgente la questione della giustizia che non l’orrore della guerra e scrivere un romanzo che non completa e non pubblica a ridosso di un altro appena uscito su un motivo ancora più elusivo qual è la perdita d’identità fino alla mutazione genetica. Il processo, uscito solo nel 1925, è un romanzo più escapista che disforico: l’autore sfugge il suo presente per sottrarsi alla realtà ma si ferma nei dintorni inestricabili e omologhi di un tema che tuttavia sottende un significato di giustizia da intendersi anche nel senso di giustizia umana, quindi di pace sociale. Nell’arresto immotivato e senza un perché di Josef K. (dove l’iniziale adombrerebbe l’autore) traluce l’insensatezza di una “guerra europea” che viene sostenuta e combattuta con lo stesso animo dell’accusato sottoposto a un processo privo di un’accusa, da vincere ma senza chiedersi il motivo per cui battersi e le cause che lo hanno determinato. Epperò invece della vittoria prevale via via la rassegnazione nel cui ambito la lotta contro la sopraffazione non è che una volontaria discesa agli inferi, tra disperazione e disumanità, non diversamente dal corso degli eventi bellici che culminano nella perdita di venti milioni di vite umane.
Il tisico Franz Kafka ingaggia la sua guerra personale e solitaria contro l’ingiustizia nel mondo immaginando non più un uomo che improvvisamente e irrazionalmente si trasforma una mattina in un ragno come Gregor Samsa in La metamorfosi, metafora delle incognite della vita e delle prospettive angoscianti che essa tende, ma supponendo un uomo – l’uomo contemporaneo messo di fronte all’assurdità di una guerra mondiale – al quale una mattina qualunque viene notificato un ordine di arresto (dunque, nel traslato, di sequestro della coscienza) per una colpa che però gli è taciuta, per modo che il fatto nuovo che cambia di colpo la vita non arriva più da un fenomeno naturale, quanto si voglia metafisico, bensì da una volontà umana ispirata a un criterio altrettanto stocastico di sorte funesta ma da comprendere anch’essa nell’ordine degli accadimenti possibili e quindi fisici. (continua…)

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martedì, 5 novembre 2019

LA COSCIENZA DI ZENO di Italo Svevo (Leggerenza n. 12)

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Si potrebbe per La coscienza di Zeno ripetere il famoso incipit di Giovanni Macchia nel commento alla Recherche, definita «la grande opera di un malato». Come Proust, anche Italo Svevo appartiene infatti a quella temperie primonovecentesca che scopre la malattia come tema letterario assieme alla morte, al mito dell’adolescenza, alla memoria, al transeunte del tempo, all’introspezione psicologica. Sono questi tutti motivi presenti nel romanzo triestino che con l’Ulisse di Joyce e appunto Alla ricerca del tempo perduto ha introdotto il “monologo interiore” e nel caso dello scrittore irlandese (amico peraltro di Svevo) il “flusso di coscienza”, quali mezzi stilistici ed espressivi più aggiornati per portare l’uomo del nuovo secolo al superamento del realismo ottocentesco e porlo davanti a se stesso dove scoprirsi preda di un mal-aimé da indurlo al cupio dissolvi e all’amor fati, sull’orlo dell’abisso aperto dalla perdita dell’identità personale e dell’aderenza alla realtà e davanti ai mostri della Grande guerra e alle illecebre freudiane dell’inconscio.
E La coscienza di Zeno è certamente l’opera di un malato: immaginario, si crede il narratore autodiegetico e tuttavia reale negli effetti, non tanto corporali quanto psicologici, che conseguono a uno stato di déracinément. Nel 1923, quando il libro esce, Joyce ha pubblicato da un anno il suo capolavoro mentre Proust è giunto al quinto volume della Recherche: è il tempo pieno in cui l’autore europeo del nuovo credo lascia al narratore di esprimersi in prima persona come se fosse sdraiato sul lettino dello psico-analista, la figura di medico che la nuova scienza ha proposto come deputata a indagare il lato sconosciuto della mente umana, seguendo la lezione di Freud che invita il paziente a non osservare, com’è stato in passato, nessi di causalità e regole di autocontrollo ma a dare libero corso al flusso dei pensieri affidandosi al precetto della spontaneità. Lo stream of consciousness nasce dunque in medicina e arriva in letteratura, dove La coscienza di Zeno si costituisce come un diario autobiografico che lo psico-analista prescrive al cinquantasettenne Zeno Cosini quale terapia al suo “male oscuro” (forse la depressione, la nuova malattia del secolo), rivolgendogli la famosa frase «Scriva! Vedrà come riuscirà a vedersi intero». Non gli chiede espressamente di fare uno sforzo di memoria per recuperare i ricordi dell’adolescenza e metterli per iscritto in salvo – la scrittura servendo nel nuovo clima culturale proprio a salvaguardia della memoria -, ma soltanto di scrivere liberamente di sé: cosa che Zeno fa cominciando da una tara inopinata e a confessare i tanti tentativi di liberarsi del fumo che giudica non un vizio ma una malattia. (continua…)

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mercoledì, 2 ottobre 2019

I FRATELLI KARAMAZOV di Fedor Dostoevskij (Leggerenza n. 11)

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L’ultimo grande romanzo di Fedor Dostoevskij, il più ambizioso, il più ricco e articolato, I fratelli Karamazov, richiede un lettore molto esperto e preparato, che sia il perfetto “lettore modello” immaginato da Umberto Eco. La complessità è tale che anche un’autrice avvertita come Elena Ferrante in L’amica geniale commette l’errore di considerare la parte relativa al processo la più avvincente perché aperta a entrambe le ipotesi di colpevolezza e innocenza, secondo se parli la pubblica accusa o la difesa dell’imputato, mentre in realtà il lettore sa già che l’assassino è stato Smerdjakov il cuoco e arriva al processo solo per aspettare il verdetto dei giurati. Che peraltro lo stesso Dostoesvkij anticipa quando all’inizio del dibattimento parla di «esito doloroso e fatale».
A ben vedere Dostoevskij non ha voluto un giallo, dove il responsabile si scopra canonicamente alla fine, ma un romanzo sociale e pure intimistico che poi diventa nella seconda parte, dopo l’arresto e con l’interrogatorio preliminare nella taverna di Mokroe, un legal thriller psicologico. Anziché il whodunit Dostoevskij ha cercato il whydunit, il perché del delitto invece di chi lo ha commesso. Il romanzo è di fatto una lunga interrogazione sul perché delle cose. Il giallo non c’è, altrimenti non si sarebbe avuta la confessione di reità del cuoco di Fedor Pavlovic, il padre ucciso, resa a Ivan Karamazov e soltanto a lui due giorni prima che metta in atto il proposito di suicidarsi. Morto il vero colpevole, Smerdjakov, rimane come unico testimone e depositario della verità il solo Ivan Fedorovic, dapprima convinto come la gran parte della responsabilità del fratello Dimitrj, ma poi pronto a riferire ai giurati quanto ha appreso da Smerdjakov, tanto da consegnare loro come prova i tremila rubli rubati in casa della vittima. (continua…)

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lunedì, 2 settembre 2019

ROBINSON CRUSOE di Daniel Defoe (Leggerenza n. 9)

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Il naufragio di Robinson Crusoe è il più desiderabile, tale da poter essere considerato l’antecedente storico delle odierne trasmissioni Tv di survival dove i concorrenti sono chiamati ad affrontare prove di sopravvivenza nella certezza di ogni comfort. Robinson capita in un’isola lussureggiante, ricca di acqua e di risorse, priva di belve feroci e di ogni tipo di insidia naturale, dotata di un clima tropicale che la preserva dal freddo, tanto grande da potere essere percorsa a piedi e comodissima per le numerose opportunità che offre, compreso un terreno dove coltivare addirittura il grano. Non solo: ha l’impagabile fortuna che la nave naufragata si areni con tutto il suo carico a portata di zattera e che una seconda nave faccia la stessa fine e gli consenta così nuovi approvvigionamenti. Ha armi e polveri con cui cacciare, derrate alimentari, conserve, liquori, utensili, tessuti, vestiti e ogni altro mezzo necessario a chi debba vivere in un luogo non antropizzato: ciò che non riesce ai naufraghi spagnoli finiti in un’isola vicina e, perché privi di tutto, soggetti al dominio dei selvaggi in un impronosticato rovesciamento di poteri.
Un naufragio tipicamente inglese quello di Robinson che piacque infatti molto ai connazionali di Daniel Defoe, determinato a mettere i lettori di fronte alla natura meno minacciosa e oscura, anzi la più irenica ed edenica, testimoniale della creazione divina. L’autore che, esattamente trecento anni fa, inaugurò il romanzo moderno come oggi lo conosciamo intese non terrorizzare i lettori britannici rappresentando l’incubo di una morte lenta e inesorabile che giungesse per le privazioni indotte dalla forza primordiale della natura, ma al contrario volle dimostrare loro quanto la stessa natura risulti benigna all’uomo che si affidi alla Provvidenza. Il tema al centro del dibattito filosofico settecentesco circa lo “stato di natura” nel quale l’uomo sia visto agire senza i condizionamenti moderni viene da Defoe affrontato con un romanzo che, indulgendo a un tono a volte predicatorio e un po’ quaresimalista, più esattamente intriso di quel puritanesimo che l’autore professò in atteggiamento anti-cattolico, dà una risposta soterica nella prospettiva di una salvezza celeste e di una regolazione cosmica del destino umano che guarda non allo stato di natura illuministico come esperimento teista delle qualità innate nell’uomo, ma alla natura dell’uomo nel rapporto di scambio con Dio. «Invocami nel giorno del dolore e io ti libererò e tu mi glorificherai» è il passo biblico che Robinson assume come un credo nelle proprie azioni e motivo della sua condizione.
(continua…)

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martedì, 13 agosto 2019

IL GRANDE GATSBY di Francis Scott Fitzgerald (Leggerenza n. 8)

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Considerato, secondo i diversi aspetti, un romanzo sentimentale (dell’amore inesausto e inappagato), utilitaristico (del bene individuale che si ottiene col successo economico), fatalistico (del caso che decide il destino comune), sociale (degli scontri di classe in un tempo di insorgenza del socialismo), oblomoviano (dell’inettitudine esistenziale), libertario (della licenza dei costumi e della permissività etica), Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald è tutto questo insieme, ma la sua vera natura letteraria rimane un rebus. Trattandosi anche di un poliziesco, giacché conta un suicidio, due morti ammazzati e qualche altro solo ipotizzato (l’omicidio misterioso imputato a Gatsby), il romanzo uscito nel 1925 – con un modesto riscontro di pubblico invero, a motivo forse della sua poliedricità – sembra echeggiare un genere americano, l’hard boiled, che è di largo seguito negli anni Venti, e nello stesso tempo evoca il gusto per l’introspezione interiore, retaggio del Primo Novecento europeo e modello portato alla massima espressione da Henry James, del quale infatti Fitzgerald è ritenuto il legittimo successore, anche per la sua vita divisa tra un continente e l’altro.
Sospeso perciò tra psicologismo e crudo realismo, Il grande Gatsby si serve di un fondo evanescente e ancipite che è forse il suo elemento costitutivo e nel quale si riconoscono, in un’epoca che ha appena superato i traumi della Grande guerra, da un lato l’amor fati proprio della coscienza europea di inizio secolo e da un altro, in un ben diverso spirito, l’età del jazz e dei telefoni bianchi, del benessere sociale e del banausismo sfrenato di un’America che corre ignara verso la crisi del ’29. Il romanzo si situa a metà e sembra tenersi come in bilico tra due crinali, sottendendo uno stato di precarietà nel quale va anzichenò visto un miracolo di equilibrismo. (continua…)

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domenica, 26 maggio 2019

CONVERSAZIONE IN SICILIA di Elio Vittorini (Leggerenza n. 7)

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Non si comprende oggi Conversazione in Sicilia se non si torna al 1937 quando Elio Vittorini comincia a scrivere il suo capolavoro che dall’anno dopo uscirà a puntate su “Letteratura” e nel 1941 in volume, costituendo con il concomitante Don Giovanni in Sicilia di Brancati il primo romanzo che mira al cuore del fascismo. Sono gli anni ruggenti del consenso di massa al regime, sebbene all’orizzonte comincino a profilarsi nubi di guerra, e in Spagna è appena cessata la guerra civile. Vittorini ha 29 anni ed ha interamente completato quello “scarico di coscienza” avviato nel ’29 e durato fino al ’36, quando rompe con il fascismo e viene espulso dal partito, decisiva rivelandosi proprio la guerra franchista.
Il 1936 è l’anno nel quale Vittorini ripudia Il garofano rosso, romanzo ispirato a un sentimento del “fascismo di sinistra” – del fascismo inteso come aggettivo e non ancora come sostantivo – che lo ha portato, attraverso Alessio Mainardi, a sentirsi rivoluzionario, ma anche a vagheggiare di essere màs hombre. Scaricata finalmente la coscienza anche delle influenze strapaesane di Malaparte, dal quale era rimasto soggiogato, non si libera però da una febbre che lo smania. Sente di essere chiamato a “nuovi doveri”, diversi da quelli che hanno infiammato la sua adolescenza, e avverte l’aria di un’offesa portata al mondo alla quale si addice a dare riparo scrivendo appunto Conversazione in Sicilia, il libro che su tutti gli altri riconoscerà come il suo più proprio. (continua…)

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domenica, 5 maggio 2019

L’ISOLA DEL TESORO di Robert Louis Stevenson (Leggerenza n. 6)

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Per essere un romanzo destinato ai ragazzi, L’isola del tesoro conta troppi morti ammazzati e molti in circostanze volute per suscitare impressione. Il fondo splatter non aduggia tuttavia un libro che, come gli omologhi ambientati in un Settecento aperto alla conoscenza e alla Wilderness (da Robinson Crusoe a I viaggi di Gulliver a L’isola misteriosa, tutti intesi a esplorare il mondo, trovare terre nuove e isolate, mettere alla prova il coraggio e lo spirito di avventura), è un classico che offre ad ogni età e ad ogni rilettura nuove suggestioni. Letto da ragazzi, ci si identifica con Jim Hawkins, il giovane protagonista e io narrante, impavido e simpatico, mentre da adulti sono altri i motivi di interesse: i rapporti di forza tra il “partito della cabina” e quello della tolda, i rovesciamenti di ruolo, la condotta dei pirati, la caccia al tesoro sepolto, la morfologia dell’isola che Robert Louis Stevenson descrive nei dettagli, in ogni anfratto e ansa, nelle caverne e nelle colline, tanto da farsi a volte dispersivo e stucchevole solo per riuscire più credibile.

(continua…)

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domenica, 28 aprile 2019

IL GATTOPARDO di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Leggerenza n. 5)

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Senza il pregiudizio ideologico apposto dalla critica di sinistra, sia accademica che militante, Il Gattopardo non sarebbe stato ricordato in chiave politica ma unicamente come romanzo storico, secondo le intenzioni del suo autore. Invece continua a gravare su di esso una doppia ipoteca reazionaria e riduzionista: la prima voluta da un’ottica aristocratica che non vede né il progresso né i proletari, ma solo la conservazione di un retaggio di casta; la seconda imposta da un gurgite sicilianista che, secondo Sciascia, porta Tomasi a comprendere i mali della Sicilia come “vizio di astrazione geografico-climatica” che ne ricondurrebbe la causa essenzialmente al tormento del caldo torrido, indicato invero dall’autore quale “autentico sovrano della Sicilia”, “collera divina”, “grande lutto”, “maledizione annuale”, segno di cattiva giornata.
Astrazione che è però anche storica nella rappresentazione della Sicilia che il principe (offrendo la miglior prova di sicilianismo) fa a Chevalley, da un lato con l’imputare alle dominazioni straniere le gravi condizioni sociali dell’isola e da un altro con il deplorare le caratteristiche endemiche dei siciliani che amano il sonno, condannano il fare e si credono il sale della terra. In questo quadro le critiche al romanzo sono fondate, perché Il Gattopardo non concede scampo alcuno alla “irredimibilità” (termine coniato da Tomasi e fatto proprio da Sciascia) della Sicilia, strozzata in un’impossibilità di sviluppo che è anche un arroccamento volontario. Il romanzo storico cui per anni, almeno dal referendum costituzionale, pensa l’autore palermitano è inteso a celebrare i fasti di una classe sociale per millenni al potere allo scopo di intonarne il de profundis: alla ricerca delle cause del declino, Tomasi trova che i primi segni di cedimento della aristocrazia siciliana si siano avuti in occasione della campagna di Garibaldi: evento al quale la Sicilia assiste in un’accidiosa insipienza, incapace anche di formarsi un’opinione condivisa. (continua…)

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domenica, 14 aprile 2019

LO STRANIERO di Albert Camus (Leggerenza n. 4)

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Alberto Moravia nel 1929 con Gli indifferenti, Jean-Paul Sartre nel ‘34 con La nausea e Albert Camus nel ‘42 con Lo straniero hanno interpretato, lungo una stessa stagione e rilanciando temi sveviani e joyciani primonovecenteschi, l’inquietudine esistenzialistica nelle forme rispettivamente dell’insensibilità, dell’isolamento e dell’assurdo. Il romanzo di Camus richiama quello di Moravia per l’insensatezza di un omicidio qui solo maldestramente tentato e lì consumato senza ragione, mentre si accorda a quello di Sartre per il fondo di diario filosofico condiviso con quello narrativo.
L’incipit – «Oggi è morta mamma. O forse ieri, non so» – è spia infatti di un diario quotidiano che però diventa subito racconto, reso al passato prossimo, di fatti ricordati anziché annotati, ma mantiene la sua natura di riflessione filosofica sul significato delle azioni umane anche quando, all’inizio dell’ultimo capitolo, il tempo della narrazione coincide di nuovo con quello della scrittura – sicché leggiamo dell’incontro con il prete: «Non ho niente da dirgli, non ho voglia di parlare e dovrò comunque vederlo presto» – e quando soprattutto nell’intensissimo desinit così l’autore si congeda: «Perché tutto sia consumato, perché io sia meno solo, mi resta da augurarmi che ci siano molti spettatori il giorno della mia esecuzione e che mi accolgano con grida di odio». (continua…)

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domenica, 7 aprile 2019

IL NOME DELLA ROSA di Umberto Eco (Leggerenza n. 3)

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Quasi quarant’anni dopo, in una stagione letteraria che ha voltato le spalle al postmoderno sotto la cui stella fu concepito, Il nome della rosa di Umberto Eco conserva ancora la sua fragranza, ma si offre a uno sguardo diverso in ciò, che è stato non soltanto artefice del ritorno del romanzo storico in Italia dopo I promessi sposi e Il Gattopardo, le due prove più significative, ma propugnatore soprattutto di un genere inusitato qual è il romanzo storicistico: non più l’ambientazione in un determinato periodo assunto come scenario, bensì la compenetrazione in esso negli effetti che i rivolgimenti storici causano sulle vicende umane e sulle altre discipline, a cominciare dalla teologia.
Eco non si limitò a calare i fatti narrati in un contesto d’epoca, operando – come scrisse nelle “Postille” del 1983 – alla “costruzione del mondo”, ma si impegnò da  medievalista a ricostruirli, lavorando quindi anche alla “progettazione” dello stesso mondo: nella durata di sette giorni spiegò l’anno 1327 interpretando un’intera stagione e – portando il macrocosmo della storia euopea sul piano del microcosmo di un’abbazia montana posta in un’imprecisata zona del Novarese – illustrò come lo spirito del tempo influenzasse le dinamiche umane. Un’operazione storicistica di alta chirurgia letteraria perché, per tenersi rinserrato nella cinta dell’abbazia, Eco non si fece tentare dalla facile centrifuga dei grandi eventi del momento, rappresentati dalle gesta dei Templari, solo da quindici anni messi al bando e ghiotta materia esoterica lasciata appena in filigrana, né dalla febbre riviviscente delle Crociate e neppure dalla morte cinque anni prima di Dante Alighieri. E volle immaginare un’abbazia benedettina, cluniacense perché autonoma da tutte le altre, per tenersi a ridosso della congregazione dei post-dolciniani, da una ventina d’anni sterminata ma rimasta fomite di associazioni ereticali storicamente attive nella zona tra Novara e Vercelli, dei “fraticelli”, l’ala fondamentalista e massimalista dei francescani “spirituali”, come pure dei “patarini”, dei “bogomili” e dei vicini “catari”. (continua…)

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domenica, 31 marzo 2019

MADAME BOVARY di Gustave Flaubert (Leggerenza n. 2)

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Mezzo secolo dopo l’affermazione dei princìpi della Rivoluzione francese, l’idea di libertà – perlomeno riferita a quella di espressione – era ancora in discussione se un romanzo come Madame Bovary doveva affrontare un processo per oltraggio alla morale pubblica e religiosa oltre che ai buoni costumi. Il romanzo di Gustave Flaubert venne assolto solo per insufficienza di prove, più precisamente perché i brani sotto accusa costituivano una parte molto ridotta rispetto alla mole del romanzo, tuttavia il tribunale imperiale comminò “un biasimo severo” all’autore richiamando la letteratura e gli artisti in genere al dovere di non rappresentare il vizio ai fini di una buona educazione sociale. Vizio che specificamente era da vedere nell’adulterio: da parte almeno del potere giudiziario di uno Stato nondimeno rifondato sui crismi della massima libertà anche di giudizio, epperò convinto che «missione della letteratura debba essere quella di ornare e ricreare lo spirito elevandone l’intelligenza ed epurandone i costumi più ancora che di divulgare il disgusto del vizio offrendo il quadro dei disordini che possono esistere nella società». (continua…)

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domenica, 24 marzo 2019

I MALAVOGLIA di Giovanni Verga (Leggerenza n. 1)

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Com’è facile intuire, il titolo di questa rubrica mutua il verbo “leggere” e il sostantivo “gerenza”, che indica l’assunzione di responsabilità da parte del direttore di un giornale: per dire che, trattandosi di libri (in questo caso di romanzi, dove l’opinione conta più del postulato), i giudizi espressi non saranno che miei, quindi del tutto discutibili. Il proposito è di leggerne alquanti (più esattamente si tratta di rileggere, riguardando sempre capolavori ben noti), scegliendoli – anche questo personalmente e dunque discrezionalmente – dalla mia libreria: dove non c’è stato mai verso di ordinarli secondo qualche criterio, districati in quella confusione che tuttavia procura il sottile piacere di ritrovare libri dimenticati. Per modo che sarà un po’ il caso a scegliere i libri tra quelli che ho amato, a formare così un mio canone. Ognuno ha il suo, s’intende, e nessuno è preferibile a un altro, ma dal momento che molti libri figurano in molti canoni, ne deriva che per somme linee condividiamo un’unica grande biblioteca. La nostra: di contemporanei, di occidentali e perché no di italiani.

Un romanzo che vale riaprire e dal quale vale certamente partire è I Malavoglia, magari dopo una visita ad Acitrezza e una capatina a Casa Verga, a Catania. Se ne avrebbe motivo per chiedersi lì perché Acitrezza e qui quali libri lo scrittore leggesse. Una duplice domanda intrecciata che sbriga la questione se I Malavoglia fu davvero il frutto di una geniale ispirazione che improvvisamente colse Verga. Non lo fu. Già Carmelo Musumarra, italianista catanese e autorevole verghiano, scriveva che «Verga non dev’essere considerato come un fenomeno, ma soltanto come il risultato di un lungo processo evolutivo». Il fenomeno riguarda ovviamente I Malavoglia. Che Natalino Sapegno definisce «la scoperta più intelligente e feconda della nuova letteratura italiana» mentre Pietro Citati parla di «scoperta intellettuale» e del paradosso che coglie Verga: «Non aveva mai conosciuto l’intelligenza e fu salvato dall’intelligenza». Un’intelligenza ben poco feconda, in verità, perché il capodopera verghiano rimase un episodio mentre il verismo infiammò le lettere il tempo che sulla scena nazionale, voltando lo sguardo dalla società ai salotti e su sé stessi, apparissero i modelli decadentistici di Pirandello, Svevo e D’Annunzio. (continua…)

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sabato, 23 marzo 2019

LEGGERENZA – Tutte le puntate

imagen. 1: “I Malavoglia” di Giovanni Verga

n. 2: “Madame Bovary” di Gustave Flaubert

n. 3: “Il nome della rosa” di Umberto Eco

n. 4: “Lo straniero” di Albert Camus

n. 5: “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa

n. 6: “L’isola del tesoro” di Robert Louis Stevenson

n. 7: “Conversazione in Sicilia” di Elio Vittorini

n. 8: “Il grande Gatsby” di Francis Scott Fitzgerald

n. 9: “Robinson Crusoe” di Daniel Defoe

n. 10: “Don Chisciotte della Mancia” di Miguel de Cervantes

n. 11: “I fratelli Karamazov” di Fedor Dostoevskij

n. 12: “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo

n. 13: “Il processo” di Franz Kafka

n. 14: “I tre moschettieri” di Alexandre Dumas

n. 15: “L’ultimo dei Mohicani” di James Fenimore Cooper

n. 16: “Le avventure di Pinocchio” di Carlo Collodi

n. 17: “Se questo è un uomo” di Primo Levi

n. 18: “Cent’anni di solitudine” di Gabriel García Márquez

n. 19: “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni

n. 20: “Moby Dick” di Herman Melville

n. 21: “La peste” di Albert Camus

n. 22: “Argo il cieco” di Gesualdo Bufalino

n. 23: “Le anime morte” di Nikolàj Vasìl’evič Gogol’

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martedì, 5 febbraio 2019

LEGGERENZA: i grandi libri da riaprire (a cura di Gianni Bonina)

imageA partire dal 24 marzo 2019, una nuova rubrica dedicata ai grandi classici della letteratura curata da Gianni Bonina

[Tutte le puntate di Leggerenza sono disponibili cliccando qui]

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