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martedì, 30 novembre 2010

ACCABADORA, di Michela Murgia (Premio Campiello 2010)

AGGIORNAMENTO DEL 30 novembre 2010

Ho riportato in evidenza questo post perché c’è un nuovo contributo: l’intervista che Michela Murgia ha rilasciato a Sergio Sozi (pubblicata su “Il Giornale dell’Umbria” del 22.11.2010).
La trovate alla fine del post.
Massimo Maugeri

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Michela Murgia vince il Premio Campiello 2010

http://4.bp.blogspot.com/_IlEcNXJYuek/S_jOaWZ8S1I/AAAAAAAAAGE/Bc7vhEbF3Yk/s1600/premio%2Bcampiello.jpgHo chiamato Michela venerdì mattina, al cellulare. Era appena atterrata a Venezia. Ed era emozionata. Le ho detto: “ho una sensazione positiva… vincerai il Campiello”. Lei mi ha ringraziato (magari avrà fatto gli scongiuri… chissà). Ma ciò che conta è che il Premio è andato a un libro assolutamente meritevole, di cui – peraltro – avevamo avuto modo di discutere l’estate scorsa proprio qui a Letteratitudine, con la partecipazione della stessa autrice.
Complimenti, Michela! Cento di questi Premi… e di questi libri.

Massimo Maugeri
5 settembre 2010

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Faccio i migliori auguri a Michela Murgia (nella foto) per aver vinto – sabato, 22 maggio – il Premio letterario SuperMondello 2010 e aver ricevuto contestualmente la comunicazione di far parte della cinquina dei finalisti del Premio Campiello di quest’anno (aggiudicandosi, dunque, il Premio Selezione Campiello). Il libro premiato si chiama “Accabadora” (Einaudi) e riconfermo le parole di elogio espresse nel post del 24 agosto 2009. Un libro bello e importante che, ancora una volta, consiglio di leggere.
Di seguito, il citato post pubblicato la scorsa estate.
Massimo Maugeri
24 maggio 2010

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Post del 24 agosto 2009

accabadora«Acabar», in spagnolo, significa finire. E in sardo «accabadora» è colei che finisce. Agli occhi della comunità il suo non è il gesto di un’assassina, ma quello amorevole e pietoso di chi aiuta il destino a compiersi. È lei l’ultima madre.
Sono queste le parole che si leggono sulla quarta di copertina del romanzo di Michela Murgia intitolato, appunto, “Accabadora” (Einaudi); un romanzo che – per quanto mi riguarda – è uno dei migliori che ho letto nel primo semestre del 2009.
Una storia forte, quella della Murgia; impreziosita da una scrittura di alta qualità (lirica, densa, ma molto efficace; da grande narratrice) e dal fascino di un’ambientazione riuscita (quella della Sardegna degli anni Cinquanta). Una storia che affronta tematiche complesse e attualissime quali: l’adozione (o l’affidamento), l’accompagnamento alla morte (eutanasia?), ma anche le contraddizioni e i taciti patti che possono interessare comunità organizzate come un unico organismo.

La giovane protagonista del romanzo, Maria, all’età di sei anni diventa «figlia d’anima» (fill’e anima) dell’anziana Bonaria Urrai. Cosa significa «figlia d’anima»? Significa – nella fattispecie – che la piccola Maria diventa figlia acquisita dell’anziana donna secondo l’uso campidanese che consente alle famiglie numerose di compensare le sterilità altrui attraverso una adozione sulla parola; il patto tacito è che la figlia acquisirà lo status di erede, ma in cambio promette di prendersi cura della madre adottiva nei bisogni della vecchiaia.

Bonaria Urrai fa la sarta. Questo è quello che sa Maria. Ma c’è dell’altro. Nell’oscurità l’anziana donna svolge un ulteriore compito: entra nelle case per porre fine alle sofferenze degli agonizzanti e portare una morte pietosa. È un atto ossimorico, quello dell’ultima madre: ferale e amorevole.
Maria la scopre dopo, questa realtà. E la scoperta la sconvolge, la travolge. Perché la giudica inaccettabile. Perché discende dal crescente scarto tra l’etica millenaria di una società morente e i nuovi valori che l’incalzano. Anche se – alla fine – un monito della stessa Bonaria aleggia nell’aria, penetra nelle orecchie: “non dire mai:di quest’acqua io non ne bevo”.

Vi invito ad approfondire la conoscenza di questo romanzo interagendo con l’autrice (che parteciperà alla discussione).
Contestualmente vi propongo di discutere sulle tematiche affrontate dal libro.
Come sempre, per favorire la discussione, pongo alcune domande.

1. (Maria diventa «figlia d’anima» di Bonaria Urrai)
Fino a che punto l’amore di una madre acquisita può superare o eguagliare quello di una madre naturale?
Siamo più figli di chi ci genera o di chi ci alleva?

2. (Bonaria Urrai pratica la «accabadura»)
Esiste un limite oltre il quale è possibile – o addirittura “giusto”, “auspicabile” – porre fine alle sofferenze di un agonizzante? E chi, eventualmente, dovrebbe stabilire il limite?

Di seguito, potrete leggere la recensione di Bruno Quaranta pubblicata su Tuttolibri del 20 giugno 2009. Consiglio, inoltre, l’ascolto dell’intervista rilasciata alla trasmissione radio Fahrenheit.

Massimo Maugeri

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Da La Stampa, Tuttolibri, del 20 giugno 2009

ACCABADORA di Michela Murgia (Einaudi, 2009)

recensione di Bruno Quaranta

foto di Gianfranco Mura - tutti i diritti riservatiSi può ragionare anche così intorno alla letteratura italiana dei nostri giorni. Le occorrerebbe uno sguardo presbite per raggiungere o, almeno, sfiorare la riva. Là dove guardare, vedere lontano, significa – alla lettera – andare a’ rebours, scavare nel tempo, calare il secchio nel pozzo. Quando sussisteva l’identità geografica e storica, rispetto all’odierno apolide errare. Non si tratta di essere ossessionati dalle tradizioni e dalla storia, come lamenta un musicista di Ishiguro. Ma l’ambizione di approdare a un mondo, sia pure in fieri, e di riconoscerlo, questo sì. Come il Renzo manzoniano, a cui «il lume del crepuscolo fece vedere il paese d’intorno». Il paese è Soreni, in Sardegna (immaginario il paese, reale la Sardegna degli Anni Cinquanta, ammantata di un atavismo su cui già incombevano o volteggiavano i tempi moderni: i jeans, la televisione, il tailleur pied-de-poule a insidiare le lunghe gonne e lo scialle sulle spalle. Il lume lo regge Michela Murgia (nella foto), trentasettenne, originaria di Cabras, al secondo passaggio einaudiano dopo aver modellato Undici percorsi nell’isola che non si vede, il primitivismo che sfarina i paesaggi di cartapesta, spezzetta le cartoline, cestina le megalomanie hollywoodiane. Voce tra le voci che l’isola ha nelle ultime stagioni allevato, Michela Murgia. Ma con un timbro nitido, al riparo del vento imitatorio. Stilisticamente, almeno (e per esempio), la sua officina è assai lontana dalla Barbagia di Salvatore Niffoi. La lingua che cuce Accabadora non è oracolare (o, se lo è, lo è carsicamente), né le si chiede lo spasimo del mimetismo, l’avvoltolamento smisurato nei suoni indigeni. L’Accabadora – una sarta, Bonaria Urrai – è la parca che nottetempo recide il filo della vita con un filo di fumo, mai, o quasi, dubitando «di non essere capace di distinguere tra la pietà e il delitto». Una figura mitica tra le diverse di Michela Murgia (come Chicchinu Bastiu, il vecchio cieco che «sentiva nell’aria l’odore dell’uva pronta a far mosto»), una «musa notturna» di Esiodo, un traghetto acheronteo verso il luogo dei «senza nome». Non c’è peccato nel suo agire, è al di là del bene e del male, semplicemente spalanca la via alla dignità che è il medicamentoso oblio di sé. Di metafora felice in grano sapienziale, verso «le implicanze oscene della verità» avanza Accabadora. Perché, infine, Maria, fillus de anima, figlia adottiva di Tzia Bonaria, vedova di un promesso sposo morto in guerra, capirà quale creatura fatale l’aveva accolta. Inseguendo quindi un’ulteriore vita come bambinaia a Torino, là, dove «nessuno si sarebbe preso la briga di disegnare strade così dritte, se non avesse avuto molta paura», meritando la confidenza di un terribile segreto che la restituirà alla Sardegna. D’altronde, si interrogherà, interrogherà: «Me ne sono andata mai?». Al capezzale di Bonaria Urria colpita da «un’ittus», Maria si scoprirà – diverrà – carnalmente «fillus» , aureolata dalla verità (dalla necessità) «che ci sono cose che si fanno e cose che non si fanno». Leggi scritte e leggi non scritte (come il sofocleo dare sepoltura): un’altalena, una tenzone, una casistica millenaria, sino ad Accabadora. «Quel che deve avvenire – come sapeva (e rispondeva) lo scrittore e giurista Salvatore Satta, conterraneo di Michela Murgia -, avviene senza rimedio, senza che Dio ci possa fare nulla». Si vorrà forse credere che siano onnipotenti, onniscienti, i codici umani?

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Intervista a Michela Murgia

di Sergio Sozi

In genere sono diffidente dei premi letterari famosi, che considero spesso per nulla rappresentativi della qualità di un’opera. Pertanto non ho letto ”Accabadora” di Michela Murgia sulla spinta del Campiello 2010 che il romanzo ha vinto poco fa, ma solo perché l’aveva acquistato mia moglie per sé e un affermato blog letterario mi aveva precedentemente stimolato la curiosità tramite i numerosi consensi dei forti lettori che ivi si erano espressi a riguardo (mesi prima che fosse assegnato il premio veneto).
Ecco, ora devo, alla luce di tutto ciò, ammettere che la giuria del Campiello stavolta ci ha visto bene, scegliendo un romanzo per niente confacente alle mode; un romanzo, ”Accabadora”, dalla lingua estremamente filtrata, i cui lemmi (altrettanto mirati) si fondono ad una sintassi e ad una retorica pienamente letterarie. Insomma si tratta di un romanzo vero, ossia di un’opera d’arte letteraria che ignora qualsiasi compromesso, sia con l’oralità televisiveggiante adottata dai piú che con la contorta letterarietà delle operazioni di nostalgico recupero delle tradizioni. Niente a che fare, poi, fortunatamente, con la vulgata postmodernista o con quella inconsapevolmente globalizzata degli antiglobalisti e degli odierni strapaesani – fenomeni spesso affratellati, ohibò, da un comune spregio delle nostre tradizioni letterarie nazionali.
Murgia, appunto, riesce ad essere stilisticamente personale e appieno romanzesca senza cadere in nessuna imitazione, altresí evitando di intortarsi in uno qualsiasi dei generi attuali o di cedere alla tentazione del gaddismo – con questo termine mi permetto di definire lo slancio innovativo e al contempo espressivo di chi dia un’estetica linguistica stravolta, sibillina o addirittura oracolare ai propri inimitabili sentimenti (e proprio il plurilinguismo gaddiano, sappiamo, con la sua furia espressionistica, diede la stura ad uno sdoganamento degli inserti dialettali nelle opere narrative in lingua). Gadda, appunto, se fa sentire la propria ombra, resta comunque fuori dall’orizzonte di questo romanzo, parlando da un punto di vista linguistico, poiché la sarda Michela Murgia punta alla purificazione e alla disambiguazione della lingua italiana senza voler rinunciare alla verità del proprio messaggio – affidato a dei personaggi che non potrebbero nascere in altro luogo che non sia la Sardegna ove la storia in buona parte si svolge ma che, essendo latori di messaggi forti, non temono di indossare i panni, perfettamente credibili, di un italiano ammirevole per precisione e vastità terminologica, morfologica e, come già dicevamo, retorica. Il tutto con, qua e là, pennellate di gradevoli costrutti poetizzanti.
Ciò nonostante, la storia di Maria e di Bonaria Urrai raccontata in ”Accabadora” non lesina punti concettuali oscuri o irrisolti, sufficienti per motivare l’intervista di chiunque, come il sottoscritto, desideri parlare con un autore per acclarare ipotesi interpretative nonché dubbi vari, sorti in itinere o posteriormente rispetto alla lettura.
Questo colloquio, dunque, sarà incentrato solo su ”Accabadora”, evitando tutto quel che non concerna direttamente il libro stesso, per cui ritengo utile fornire al lettore qualche cenno aggiuntivo sul romanzo – a iniziare dal titolo.
Per farlo, riportiamo un breve estratto della quarta di copertina:
«Acabar», in spagnolo, significa finire. E in sardo «accabadora» è colei che finisce. Agli occhi della comunità il suo non è il gesto di un’assassina, ma quello amorevole e pietoso di chi aiuta il destino a compiersi. (…) Maria e Tzia Bonaria vivono come madre e figlia (…), la vecchia sarta ha visto Maria rubacchiare in un negozio, e siccome nessuno la guardava ha pensato di prenderla con sé.
La storia del romanzo, ambientata negli anni Cinquanta nel paese sardo (inventato) di Soreni, è appunto quella della convivenza fra la madre adottiva Bonaria e la ragazzina Maria, la quale, per via dell’adozione, ha acquisito la definizione popolare sarda di fill’e anima dell’anziana e benestante vedova.

Questo romanzo contiene una gran messe di spunti, pur ruotando attorno ad un pugno di questioni derivate da quella principale del rapporto fra l’uomo e la vita – e non dico del rapporto fra l’uomo e la morte perché in Accabadora dopotutto, a vederla con gli occhi della piccola Maria, la morte non è altro che un nemico della vita umana, ossia un convitato di pietra che a volte sta a capotavola senza che nessuno ce lo abbia messo, non una presenza costante ed ovvia come per Bonaria, la quale sembrava che «fosse invecchiata d’un balzo per sua decisione e ora aspettasse paziente di esser raggiunta dal tempo in ritardo»: ed aspettava tranquilla, Bonaria, forse anche perché «era vecchia da quando era giovane».
La diversa percezione della morte fra Bonaria e Maria, mi chiedo, è questione che potrebbe essere approfondita in un colloquio come il nostro, signora Murgia?

Per Bonaria la morte è presenza, è il prolungamento della presenza che in quel tipo di comunità accompagna ogni individuo dalla culla alla tomba, passando per tutti gli snodi della vita. Per Maria la morte è il contrario, è assenza costante, percepita con la certezza che dell’assenza possono avere solo i figli nati orfani e segnati da una infanzia in cui l’assenza di chi è già andato conforma la vita di chi è rimasto. Negli anni 50 i figli delle vedove crescevano associando la morte non solo alla sventura, ma soprattutto alla povertà.

Molto raffinate, soprattutto dal punto di vista della formulazione linguistica, sono anche le considerazioni riguardanti la sensibilità – per molti versi comune – delle due donne: per esempio, da quando ebbe preso con sé Maria, «Bonaria Urrai non fece mai l’errore di invitarla a sentirsi a casa propria, né aggiunse altre di quelle banalità che si usano per ricordare agli ospiti che in casa propria non si trovano affatto», piuttosto «si limitò ad aspettare che gli spazi rimasti vuoti per anni prendessero gradualmente la forma della bambina». Questa del lasciare ambientare da sola la persona amata è una legge capitale della pedagogia, ma anche e soprattutto dell’amore profondo e perciò delle persone che veramente concedano spazio intimo a chi il cuore comandi loro di concederlo…
Bonaria cosí, in quanto donna che ama profondamente, può permettersi di svolgere le proprie vere mansioni senza troppi crucci etici?

Non è l’amore la chiave di un rapporto riuscito, ma il rispetto. L’amore è un sentire ambiguo che ha spesso a che fare con l’aspettativa di una contropartita, o con il possesso. Gli assassini che hanno ucciso per amore non si contano nelle cronache, mentre non se ne ricorda uno che abbia ucciso per rispetto della vittima. Bonaria ha un altissimo concetto del rispetto per l’altro, ed è questo che la rende capace di allargare la casa come una madre naturale farebbe con il ventre, che cresce al crescere della sua creatura. È sempre la dimensione del rispetto che la fa agire sull’agonia di perfetti estranei, in un gioco di rapporti in cui l’amore nemmeno viene nominato.

Un particolare importante mi sfugge: la tipologia in cui si potrebbe inquadrare la religiosità di Bonaria che, si precisa nel romanzo, possedeva in casa un’«acquasantiera con santa Rita disegnata dentro e l’agnello mistico di gesso, riccio come un cane randagio, feroce come un leone», un sacro cuore «col dito puntato», dei «quadretti a soggetto religioso» ed una «palma benedetta della settimana santa»… oltre a dei paganissimi nastri verdi e pezzi di corno posti «a guardia degli spiriti» i quali forse faranno la differenza con l’ortodossia cattolica post-Concilio di Trento…

Il cristianesimo ha sempre avuto l’intelligenza politica di affiancarsi ai culti che trovava, preferendo risemantizzarli piuttosto che espiantarli violentemente. La religiosità di Bonaria è il frutto di questa riprogrammazione del simbolo, dentro alla quale il volto di un santo assume il carattere amuletico che prima poteva avere un corno di capro o una pietra intagliata con simboli di culti precedenti. Chi guardasse con superiorità a questo processo di adeguamento delle risposte religiose alle domande esistenziali rischierebbe di dimenticare che a tutt’oggi insospettabili borghesi laureati continuano a recarsi dal mago a farsi togliere i malocchi.

L’episodio torinese del rapporto fra Piergiorgio e Maria è una piccola ed intensa storia incastonata nel fiume principale del binomio Maria-Bonaria, ma non è particolare da poco in Accabadora, poiché ci riporta un’interessante disamina della diversa immagine che di un sentimento condiviso possa avere chi lo senta in prima persona e chi lo osservi dall’esterno. Una profonda condivisione, appunto, lega a filo doppio i due giovani: è sentimento di solidarietà, è unione di solitudini, è patto fra brutalizzati (in diversa maniera ma sempre brutalizzati)? O trattasi di altro che mi è sfuggito?

Maria proviene da un mondo rigido ma non chiuso, che per il singolo è tanto rassicurante quanto condizionante, con così pochi modelli vivibili che basta la minima infrazione a fare di te un emarginato. In quel mondo Maria poteva vivere solo rapporti passivi: figlia, ma sempre per scelta altrui, amata, ma non amante. Varcare il mare le da l’opportunità di scoprire ruoli di sé che non supponeva, invertendo il suo rapporto con l’altro. Lei per Piergiorgio sarà madre e amante allo stesso tempo, perché ne avrà cura come se ne ha di un figlio e, pur sublimandolo, scoprirà in sé il potere dell’attrazione naturale tra uomo e donna. Senza questo essenziale passaggio di consapevolezza, non sarebbe mai stata capace di tornare a casa con le forze necessarie per decidere che posto prendere nell’economia della sua comunità. Dopo il mondo in cui tutti sapevano tutto degli altri e la presenza del vicino era cosa scontata, l’incontro con la Torino dei silenzi familiari e delle piccole ipocrisie borghesi le permette la scelta del rientro consapevole.

Perché Maria rubava sin da piccola? Cosa rubava? O meglio: è legge ineluttabile che il mondo sottragga alle persone piú sensibili, cioè ai bimbi (o ai bambini dentro), delle cose per riavere le quali i derubati non possono fare altro che prenderle in giro nascostamente?

In quella pagina è scritto che le colpe sono come le persone: cominciano ad esistere solo se qualcuno se ne accorge. Che Maria abbia capito che nella sua stessa esistenza è inscritta una colpa non perdonabile è evidente: la madre non la chiama nemmeno per nome quando la presenta, e negare il nome proprio di qualcuno equivale a negarne l’esistenza. La morte del padre mentre lei era ancora nel ventre della madre ha tramutato la sua vita in un errore permanente, la cui evidenza è percepibile solo se colpa e bambina si presentano insieme nel gesto del furto. Rubare è il solo modo che Maria conosca per dire: io esisto.

Nicola Bastíu… un approfondimento della sua inquietudine e magari anche del patto che lui riesce a far accettare a Bonaria – meglio se parlando di entrambi i personaggi.

Nicola interpreta al massimo livello il modello virile della sua comunità. È un uomo che potremmo definire di qualità eccellente rispetto al contesto: forte, deciso, autosufficiente, volitivo. Almeno in apparenza, perché quando le condizioni in cui il modello si esercita si modificano, Nicola rivela la fragilità degli stereotipi troppo rigidi, incapaci di trovare risposte creative a domande inattese. In quella rigidità il modello che non evolve è destinato a spezzarsi, ed è esattamente questo il senso della richiesta che il ragazzo fa alla vecchia: sancire la già avvenuta morte sociale del suo modello virile con la morte fisica, richiesta consapevolmente come supremo atto volitivo. Bonaria non dovrebbe mai accettare una richiesta simile, non ci sono i criteri perché il suo operato possa venire messo in atto. Eppure accetta, perché ha un morto insepolto nell’anima e lo riconosce negli occhi di quel giovane che le chiede una fine complice. Lui morirà con l’idea irreformabile di sé, lei seppellirà il suo morto. Ma non senza conseguenze.

Avrebbe qualche fondamento compiere una lettura delle figure di Maria e di Bonaria osservandole secondo le evidenti differenze generazionali…

La scelta di collocare la narrazione degli anni 50 è volutamente legata alla necessità di mettere in scena la crisi non solo dei personaggi, ma di due generazioni che sono state conflittuali come poche altre. In quegli anni i mondi lenti del secolo precedente si muovono con una accelerazione impressionante, determinando nella stessa generazione differenze culturali che prima si accumulavano nell’arco di secoli. Inevitabile il conflitto tra le nuove domande e le vecchie risposte.

Quando, dopo aver parlato con Andría, Maria inizia a sospettare qualcosa della faccenda fra Nicola e la matrigna, a pagina 112, cioè all’inizio del dialogo risolutorio fra la ragazza e Bonaria, Maria osserva Bonaria percependola cosí: «le parve vecchia nel senso comune che le persone dànno alla parola, vicina al suo termine come le promesse mantenute». Lo trovo un passo oscuro: cosa avrebbe promesso Bonaria che starebbe per realizzarsi?

Immagino che nel parlato moderno si direbbe che Bonaria è una donna “risolta”, che non si porta appresso quella scia di incompiute – consapevoli o meno – che fanno sembrare la morte non un compimento, ma una prematura interruzione.

Sergio Sozi (15 – XI – 2010)

[pubblicato su Il Giornale dell'Umbria del 22.11.2010]


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Scritto martedì, 30 novembre 2010 alle 22:00 nella categoria EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, SEGNALAZIONI E RECENSIONI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.

224 commenti a “ACCABADORA, di Michela Murgia (Premio Campiello 2010)”

Sono lieto di poter ospitare Michela Murgia, che ho conosciuto nello scorso mese di maggio alla Fiera del libro di Torino (dove abbiamo avuto modo di farci una bella chiacchierata).

Postato lunedì, 24 agosto 2009 alle 22:17 da Massimo Maugeri


Ma veniamo subito a questo romanzo: Accabadora.
«Acabar», in spagnolo, significa finire. E in sardo «accabadora» è colei che finisce. Agli occhi della comunità il suo non è il gesto di un’assassina, ma quello amorevole e pietoso di chi aiuta il destino a compiersi. È lei l’ultima madre.
Questo, come ho scritto in premessa, è quanto riportato in quarta di copertina.

Postato lunedì, 24 agosto 2009 alle 22:19 da Massimo Maugeri


Ribadisco che la storia narrata in questo libro è davvero “forte”, dura.
Una storia che affronta tematiche complesse e attualissime quali: l’adozione (o l’affidamento), l’accompagnamento alla morte (eutanasia?), ma anche le contraddizioni e i taciti patti che possono interessare comunità organizzate come un unico organismo.

Postato lunedì, 24 agosto 2009 alle 22:22 da Massimo Maugeri


Ho scritto “accompagnamento alla morte” (in corsivo). Poi tra parentesi ho scritto “eutanasia”, con un punto interrogativo…

Postato lunedì, 24 agosto 2009 alle 22:23 da Massimo Maugeri


Prima domanda per Michela Murgia:
Che differenza c’è tra “accabadura” e “eutanasia”?

Postato lunedì, 24 agosto 2009 alle 22:24 da Massimo Maugeri


Per Wikipedia Italia, l’eutanasia – letteralmente buona morte (dal greco ευθανασία, composta da ευ-, bene e θανατος, morte) – è il procurare intenzionalmente e nel suo interesse la morte di un individuo la cui qualità della vita sia permanentemente compromessa da una malattia, menomazione o condizione psichica.
http://it.wikipedia.org/wiki/Eutanasia

Postato lunedì, 24 agosto 2009 alle 22:28 da Massimo Maugeri


Mi rifaccio ancora a Wikipedia Italia per definire l’accabadora.
Con il termine sardo femmina accabadora (s’accabadóra, lett. “colei che finisce”, probabilmente dallo spagnolo acabar, finire, terminare) si soleva indicare una donna che uccideva persone anziane in condizioni di malattia tali da portare i familiari a richiedere questo servizio di “eutanasia”. La pratica non doveva essere retribuita dai parenti dell’anziano poiché il pagare per dare la morte era contrario ai dettami religiosi e della superstizione.
http://it.wikipedia.org/wiki/Femmina_accabadora

Postato lunedì, 24 agosto 2009 alle 22:30 da Massimo Maugeri


Wikipedia Italia, definendo l’accabadora usa il termine eutanasia… ma lo mette tra virgolette.

Postato lunedì, 24 agosto 2009 alle 22:31 da Massimo Maugeri


Perché sto accennado a questo argomento?
Lo si evince dalla trama:
La giovane protagonista del romanzo, Maria, all’età di sei anni diventa «figlia d’anima» (fill’e anima) dell’anziana Bonaria Urrai. Cosa significa «figlia d’anima»? Significa – nella fattispecie – che la piccola Maria diventa figlia acquisita dell’anziana donna secondo l’uso campidanese che consente alle famiglie numerose di compensare le sterilità altrui attraverso una adozione sulla parola; il patto tacito è che la figlia acquisirà lo status di erede, ma in cambio promette di prendersi cura della madre adottiva nei bisogni della vecchiaia.

Bonaria Urrai fa la sarta. Questo è quello che sa Maria. Ma c’è dell’altro. Nell’oscurità l’anziana donna svolge un ulteriore compito: entra nelle case per porre fine alle sofferenze degli agonizzanti e portare una morte pietosa. È un atto ossimorico, quello dell’ultima madre: ferale e amorevole.
Maria la scopre dopo, questa realtà. E la scoperta la sconvolge, la travolge. Perché la giudica inaccettabile. Perché discende dal crescente scarto tra l’etica millenaria di una società morente e i nuovi valori che l’incalzano. Anche se – alla fine – un monito della stessa Bonaria aleggia nell’aria, penetra nelle orecchie: “non dire mai:di quest’acqua io non ne bevo”.

Postato lunedì, 24 agosto 2009 alle 22:34 da Massimo Maugeri


L’altro argomento “forte” del libro sfiora il tema dell’adozione o dell’affidamento.
Ma «figlia d’anima» (fill’e anima), in verità, è un’altra cosa ancora.
Anche di questo avremo modo di discuterne con Michela Murgia.

Postato lunedì, 24 agosto 2009 alle 22:36 da Massimo Maugeri


A proposito, non ho ancora presentato l’autrice.
Vi ricopio, di seguito, la sua autobiografia:
Sono nata in Sardegna, e per quanti indirizzi abbia cambiato in questi anni, dentro non ho mai smesso di abitarla, sognandola indipendente in ogni accezione del termine. Mi sono diplomata in una scuola tecnica e dopo ho fatto studi teologici, ma questo non ha fatto di me una teologa, almeno non più di quanto studiare filosofia faccia diventare la gente filosofa. Non mi piace essere definita giovane, a 37 anni essere considerati adulti dovrebbe essere un diritto. Non fumo, non porto gioielli preziosi, detesto i graziosi cadaveri dei fiori recisi, i giornalisti che mi chiedono quanto c’è di autobiografico e gli aspiranti pubblicatori che mi mandano da valutare romanzi che non leggerò mai, perché preferisco di gran lunga i saggi. Sono vegetariana, ma so riconoscere le occasioni in cui si può fare uno strappo. Per etica politica mi definisco di sinistra, e nel mio ordine interiore quella parola ha ancora senso. Sono sposata, e questo mi ha resa una persona più trattabile, anche se mi rendo conto che a leggere questa biografia non si direbbe. C’è tempo.
Sono nata in Sardegna, e per quanti indirizzi abbia cambiato in questi anni, dentro non ho mai smesso di abitarla, sognandola indipendente in ogni accezione del termine. Mi sono diplomata in una scuola tecnica e dopo ho fatto studi teologici, ma questo non ha fatto di me una teologa, almeno non più di quanto studiare filosofia faccia diventare la gente filosofa. Non mi piace essere definita giovane, a 37 anni essere considerati adulti dovrebbe essere un diritto. Non fumo, non porto gioielli preziosi, detesto i graziosi cadaveri dei fiori recisi, i giornalisti che mi chiedono quanto c’è di autobiografico e gli aspiranti pubblicatori che mi mandano da valutare romanzi che non leggerò mai, perché preferisco di gran lunga i saggi. Sono vegetariana, ma so riconoscere le occasioni in cui si può fare uno strappo. Per etica politica mi definisco di sinistra, e nel mio ordine interiore quella parola ha ancora senso. Sono sposata, e questo mi ha resa una persona più trattabile, anche se mi rendo conto che a leggere questa biografia non si direbbe. C’è tempo.

http://michelamurgia.altervista.org/content/view/15/29/

Postato lunedì, 24 agosto 2009 alle 22:42 da Massimo Maugeri


Aggiungo che Michela Murgia è nata a Cabras nel 1972. Nel 2006 ha pubblicato con Isbn “Il mondo deve sapere”, il diario tragicomico di un mese di lavoro che ha ispirato il film di Paolo Virzì “Tutta la vita davanti”. Per Einaudi ha pubblicato nel 2008 Viaggio in Sardegna. Undici percorsi nell’isola che non si vede.

Postato lunedì, 24 agosto 2009 alle 22:43 da Massimo Maugeri


Su Fahrenheit potete ascoltare la radiointervista:
http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/archivio_libri.cfm

Postato lunedì, 24 agosto 2009 alle 22:44 da Massimo Maugeri


Cliccando qui potrete leggere il primo capitolo del libro:
http://www.einaudi.it/var/einaudi/contenuto/extra/978880619780PCA.pdf

Postato lunedì, 24 agosto 2009 alle 22:45 da Massimo Maugeri


Come sempre, per favorire la discussione, ho posto (o meglio, proposto) alcune domande.
Ve le riporto di seguito, invitandovi a dire la vostra.

Postato lunedì, 24 agosto 2009 alle 22:46 da Massimo Maugeri


1. (Maria diventa «figlia d’anima» di Bonaria Urrai)
Fino a che punto l’amore di una madre acquisita può superare o eguagliare quello di una madre naturale?
Siamo più figli di chi ci genera o di chi ci alleva?

Postato lunedì, 24 agosto 2009 alle 22:46 da Massimo Maugeri


2. (Bonaria Urrai pratica la «accabadura»)
Esiste un limite oltre il quale è possibile – o addirittura “giusto”, “auspicabile” – porre fine alle sofferenze di un agonizzante? E chi, eventualmente, dovrebbe stabilire il limite?

Postato lunedì, 24 agosto 2009 alle 22:47 da Massimo Maugeri


Sono argomenti piuttosto “spinosi”.
L’invito generale è quello di esprimere il proprio parere con serenità, cercando di rispettare quello altrui (anche se opposto al proprio).

Postato lunedì, 24 agosto 2009 alle 22:49 da Massimo Maugeri


Per stasera chiudo qui.
Auguro a tutti una serena notte.

Postato lunedì, 24 agosto 2009 alle 23:13 da Massimo Maugeri


Del romanzo della Murgia ne ho sentito parlare bene. Ed il dibattito che proponi è interessante. Prima di intervenire preferisco leggere tutto con calma. A domani.

Postato lunedì, 24 agosto 2009 alle 23:48 da Amelia Corti


E’ esistita, con buone probabilità in Sardegna, l’accabadora una figura che si faceva carico,all’interno di una comunità che la riconosceva,di liberare coloro che ormai giunti al termine della loro esistenza restavano impigliati nelle maglie di un’atroce quanto vana sofferenza, spesso era la stessa vittima a pregare si chiamasse l’accabadora. La donna si faceva ombra e agiva nell’ombra. Giusto o sbagliato, allora era una forma di PìETAS che nulla aveva a che vedere con l’attuale civiltà, quando Bonaria UCCIDE il giovane uomo menomato, la vita di Bonaria, del paese , di Maria fìglia d’anima,(ignorava l’attività di Bonaria e si era sentita tradita dalla stessa) cambia e solo il perdono potrà dare a Bonaria, questa volta con l’aiuto di Maria, la libertà di morire. Non vedo cosa sia meglio: trattare i vecchi come o peggio dei cani, o rispettarli viverli accudirli con amore sino alla fine e aiutarli là ove fosse neccessario a morire dignitosamente. Una grandissima Michela Murgia è riuscita dipingere un quadro intenso e sofferto di grande realismo senza avere la pretesa di dare soluzioni, ma di fare pensare. C’è riuscita benissimo.

Postato martedì, 25 agosto 2009 alle 05:54 da lisetta defenu


Ho letto questo romanzo della Murgia.Davvero notevole. complimenti all’autrice

Postato martedì, 25 agosto 2009 alle 07:48 da Antonio


Forse una differenza non secondaria tra il mondo ricordato-immaginato-costruito del romanzo e le pratiche di eutanasia c’è. La rete, sociale e di senso, in cui si inseriscono. Nel sistema descritto da Michela la morte, per mano dell’eventuale accabadora o naturale che fosse, era risultato e compimento di un processo e di un cammino. In genere, quantomeno nei piccoli paesini, quando si sapeva che qualcuno stava male, c’era una rete sociale che si attivava. Nel bene e nel male. Per accudire e trovare le eventuali colpe-cause della malattia. Però venivano messe in atto una serie di pratiche le quali consentivano almeno in parte di elaborare il proprio stato e di prepararsi alla fine. La morte o l’accabadora mi sembra che fossero naturale coronamento.
Non so se nell’anonimità dei pochi parenti o nella istituzionalizzazione della malattia in un letto ospedale si possa parlare dello stesso processo, anche se l’azione terminale, a prima vista, può sembrare simile. Invece della creazione di una rete viene spesso messo in atto un processo di isolamento di chi è ammalato, con visite sempre più rade oppure c’è la sistematizzazione del proprio status di escluso in un ospedale. In ogni caso il risultato mi sembra rischi di essere la trasformazione della propria dimora in una eterotopia, un letto che fisicamente è dimora ma di fatto è simbolo del fatto che sei più di là che di qua. Spesso l’eutanasia mi sembra diventi coronamento di tale solitudine sociale.
Anche se scorgo delle eccezioni rilevanti in chi ha fatto del proprio stato strumento politico e quindi ha recuperato una propria dignità e la malattia ha acquisito una particolare ragion d’essere (Welby, mi viene in mente). In questo caso intravvedo di nuovo un incontro tra chi stacca la spina e l’accabadora: la morte è un amen.

Postato martedì, 25 agosto 2009 alle 08:47 da dorian


Questo è un link ad una scena molto significativa del film “Mare Dentro”. E’ la scena finale, ci si interroga sul senso della dignità.
E’ il mio umile contributo alla discussione.
http://www.youtube.com/watch?v=vl2SNzBh6×4

Postato martedì, 25 agosto 2009 alle 08:50 da Francesca Cerasoli


Caro Massimo, grazie anzitutto per l’attenzione e l’ospitalità.
Premetto che eviterò con ogni cura di entrare in un ipotetico dibattito sull’esistenza storica dell’accabadora, alla quale – e tutti gli antropologi sardi su questo sono concordi – ci sono ottimi motivi per non credere. Come narratore mi interessa invece l’accabadora delle storie, luoghi che per fortuna non necessitano dell’imprimatur accademico per avere dignità.

La differenza che mi chiedi è anzitutto nel contesto sociale: l’accabadora delle storie non agiva solo per liberare l’agonizzante dalle sofferenze, ma poteva intervenire anche per “liberare” la famiglia dall’agonizzante, dato che in una economia di sussistenza accudire un morente sottraeva risorse indispensabili alla sopravvivenza dei sani. Quest’ultima variante dell’atto, oltre a non potersi in nessun modo chiamare “dolce morte”, rivela che la pratica anche nel narrato obbediva a criteri di necessità, assai più che di etica: persino Maria nel romanzo è costretta a riflettere sul fatto che “ci sono cose che si fanno e cose che non si fanno, e le cose che si fanno, si fanno così”.

L’altra differenza con l’eutanasia riguarda il concetto di comunità, dato che l’accabadora ci viene descritta nelle storie come una figura delegata collettivamente a quel compito. Nel contesto in cui la sua leggenda è maturata la rete di relazioni che teneva in piedi le piccole comunità sarde era fortissima, e il concetto di autodeterminazione – che noi oggi cerchiamo di affermare come diritto anche valutando strumenti come il testamente biologico – non solo non esisteva, ma auspicarlo sarebbe stato considerato socialmente folle. Era del tutto estranea a quel mondo anche l’idea di privacy: niente era “sottratto” alla sfera collettiva, nemmeno le scelte che noi oggi rivendichiamo private, quando non intime. Nascita, morte, malattia, carcere… tutto era vissuto in una dimensione di relazione molto estesa , in cui anche l’accabadura a livello ideale poteva venir elaborata come risposta a una domanda posta da un soggetto plurale, da un “noi” che andava oltre il singolo agonizzante e la sua famiglia. Nel contesto moderno, dove le comunità sul piano relazionale (ma anche etico) si sono trasformate in confederazioni di regni individuali, generare un immaginario come quello dell’accabadora sarebbe del tutto impossibile. Al massimo si può concepire l’eutanasia, dove l’estraneità può esprimersi anche attraverso la medicalizzazione estrema, o la gestione sterile del fine vita.

Postato martedì, 25 agosto 2009 alle 09:11 da michela murgia


Rispondo alla domanda: “Siamo più figli di chi ci genera o di chi ci alleva?”
Penso che siamo più figli di chi ci alleva e penso anche che l’ amore di una madre acquisita possa uguagliare o addirittura superare l’ amore di una madre naturale. Quanto all’ “eutanasia” per me è davvero un argomento spinoso. Ogni volta che mi si pone provo una forte angoscia,
combattuta tra un’ opzione positiva e una negativa. Sono decisamente
contraria all’ accanimento terapeutico che vanifica le parole del saggio Epicuro: “Non bisogna temere la morte. Quando c’ è lei noi non ci siamo
e quando ci siamo noi lei non c’ è”. Cito a memoria, scusatemi se sbaglio. Ora ti attaccano alle macchine e la morte perde la sua “bella” naturalezza. Ho un’ amica infermiera professionale. Una volta mi disse:
“La scorsa notte ho aiutato una vecchietta a morire” . “E che hai fatto? -
le chiesi. “Niente- rispose lei- le ho detto di lasciarsi andare, di non fare resistenza. Non credo che mentisse. Buongiorno a tutti. Franca

Postato martedì, 25 agosto 2009 alle 09:13 da Franca Maria Bagnoli


Questo post è bellissimo! Sono affascinata dall’accabadura. Confesso che ne sconoscevo l’esistenza. Michela Murgia precisa che tale esistenza non va ricercata dal punto di vista storico, ma in riferimento a luoghi e modi di pensare, di percepire la vita e la morte.
Benissimo. Rientriamo perfettamente nei compiti della letteratura per come la intendo io.

Postato martedì, 25 agosto 2009 alle 09:23 da Valeria


Voglio provare a rispondere alle domande.
Fino a che punto l’amore di una madre acquisita può superare o eguagliare quello di una madre naturale?
(Secondo me dipende dall’amore, non dalla “genitorialità”. L’amore di una madre acquisita che ama di più supera quello di una madre naturale che ama di meno. Banale, ma vero).
Siamo più figli di chi ci genera o di chi ci alleva?
(Di chi ci alleva).

Postato martedì, 25 agosto 2009 alle 09:26 da Valeria


Esiste un limite oltre il quale è possibile – o addirittura “giusto”, “auspicabile” – porre fine alle sofferenze di un agonizzante?
(Una domanda terribile. Forse il limite è dettato dalle condizioni dell’agonizzante. Ma confesso di non avere le idee chiare).
E chi, eventualmente, dovrebbe stabilire il limite?
(Di certo non un singolo individuo)

Postato martedì, 25 agosto 2009 alle 09:29 da Valeria


Complimenti alla Murgia per l’interessantissimo libro.

Postato martedì, 25 agosto 2009 alle 09:44 da Alessandro Terrazzi


Per quanto riguarda le domande per ora rispondo solo a quelle del primo blocco, alle altre mi riservo di rispondere in seguito.
Fino a che punto l’amore di una madre acquisita può superare o eguagliare quello di una madre naturale?
Allora, è ovvio che di fronte ad una madre naturale degenere ( e ce ne sono ) è meglio una madre adottiva. Però se immaginiamo in teoria due donne che hanno pari capacità d’amore nei confronti di un figlio, non c’è dubbio che l’amore della madre naturale ha in più il legame del sangue. Un legame che niente e nessuno può recidere.

Postato martedì, 25 agosto 2009 alle 09:47 da Alessandro Terrazzi


Siamo più figli di chi ci genera o di chi ci alleva?
Di chi ci genera, a prescindere da chi ci ama di più. Secondo me l’essere figli non può prescindere dalla consanguineità.

Postato martedì, 25 agosto 2009 alle 09:49 da Alessandro Terrazzi


mi incuriosisce la consuetudine dei “figli d’anima”. è un’usanza tipicamente sarda? esiste ancora? un figlio d’anima si sente più figlio di chi lo ha generato o di chi lo ha cresciuto? insomma, conta più l’anima o il corpo?

Postato martedì, 25 agosto 2009 alle 11:57 da luca testa


invece di rispondere ho formulato domande.
rimango alla finestra osservando questo bel dibattito. in bocca al lupo a michela murgia per il suo romanzo.

Postato martedì, 25 agosto 2009 alle 11:59 da luca testa


Mi incuriosisce l’immagine della copertina. Chi è la ragazza? La protagonista del libro? Cosa rappresentano le candele? E’ un rituale dell’accabadora?

Postato martedì, 25 agosto 2009 alle 12:35 da Terry


@Luca Testa: non è una usanza tipicamente sarda, proprio nell’intervista su Fahrenheit che ha postato Massimo c’è un intervento di una persona friulana che testimonia come anche nella sua regione fosse una pratica diffusa e si chiamasse esattamente come in Sardegna. Non è un’usanza fuori dal ricordo, esistono ancora figli d’anima, io stessa lo sono, e ne conosco alcuni più giovani di me che lo sono. La domanda che poni, sul sentirsi figlio di uno o figlio di un’altra, credo occorra uscire dalla logica di sottrazione a cui siamo abituati noi, ed entrare in quella di una comunità dove la genitorialità era uno stato diffuso, condiviso o condivisibile. Un figlio d’anima non è un figlio diviso, è un figlio moltiplicato.

@Terry: la foto è di un anonimo, ma l’abbiamo scelta affascinati dai significati che poteva contenere. Ci sono le candele e lo sguardo verso l’alto, quindi fa venire in mente una chiesa, un atto di preghiera, ma l’espressione della ragazza non è devota, nemmeno docile, anzi perplessa e inquieta. Mi piacevano le candele perché hanno un effetto straniante: nonostante loro infatti la scena resta complessivamente in ombra, come a dire che esistono comunque spazi che non possono essere illuminati completamente, per quante luci uno voglia accendere.

Postato martedì, 25 agosto 2009 alle 13:00 da michela murgia


Grazie per la risposta :)
La copertina è molto bella. Mi ha colpito, è come se quel volto fosse sospeso nel nero, come se navigasse in un’oscurità temperata dalla sola luce delle candele.

Postato martedì, 25 agosto 2009 alle 13:08 da Terry


ecco, ho appena comprato il libro e mi accingo a questo viaggio su due tematiche che mi prendono l’anima: maternali e rispetto per la morte (e di conseguenza, anche se assurdo, per la vita).
Della accabadora ho sentito parlare per la prima volta da una grande campidanese, la cantante Clara Murtas, mia cara amica che conosce le regole di un mondo ancestrale e magico del quale tutti abbiamo immenso bisogno.
Il mio pensiero, prima della lettura del libro di Michela Murgia per quanto riguarda i figli d’anima, è che visceralmente si ama chi ti ha allevato perchè la trasmissione dei valori e della cultura plasma assai di più di un parto.
Per quanto riguarda il dare la morte io credo sia doveroso poterla dare. E non riesco a nascondermi dietro nessun buon sentimento (se soffre troppo, se non ha più dignità…). Questi sono modi (legittimi, certamente) per assolversi di fronte ad un pensiero tabu.
Ma la morte solo recentemente ha assunto questa aura di inavvicinabilità, nelle culture antiche è sempre stata parte della vita e nelle culture orientali, adddirittura un mezzo per aiutaer o glorificare lo spirito.
Il pasasggio è comunque un rito e la accabadora un rito officiava, per quanto fuori dalla morale tutti noi nel momento del trapasso abbiamo bisogno di qualcuno che ci consenta di passare la soglia con un funerale, con un tacitare il pianto ed il rimorso, oppure con un officiante che ci porti al di là, nelle cui mani rimettere il nostro spirito.
Ecco questo è lo spirito col quale mi immergo nella lettura di Michela Murgia.
Ci ritroviamo fra qualche giorno :-)

Postato martedì, 25 agosto 2009 alle 14:19 da isabella


Che piacere trovare questa discussione, i cui punti da discutere, proposti dal moderatore, ho tentato di affrontare nel mio blog.
Andiamo al romanzo!
Non è un saggio, partiamo da qui, tuttavia può essere motivo di riflessione.
I temi sono vari e corposi e si prestano all’attualizzazione problematica: il valore affettivo che lega madre e figlio può essere inverato da un’eredità che è soltanto “biologica”? Esiste la possibilità di una relazione di affiliazione che supera le barriere naturali e sociali? Concepibile, in un sistema sociale rigido, concedere spazio agli ultimi? Ai “diversi”? Almeno quelli considerati tali o che si sentono tali.
In quale spazio mentale l’uomo di oggi ha relegato il momento della morte? Si nasce, nella società contemporanea, sempre più assistiti da figure professionali di alta specializzazione, si nasce, insomma, sempre più in compagnia. E quando si muore? Possiamo autorizzare qualcuno a farci morire dignitosamente? Quali i limiti? Quali le prospettive di orizzonte?
Il romanzo non dà risposte, non sarebbe un romanzo, ma suggerisce, sussurra, illumina, destabilizza le incrollabili certezze di un tempo attuale sempre più disumanizzante.

Postato martedì, 25 agosto 2009 alle 15:17 da melchisedec


Il libro mi intriga, ci riconosco delle cose anche se le parole e i sapori e il lessico sono diversi, di altre zone italiane. Ci riconosco il mondo della campagna romana, che se vai a vedere non è ancora profondamente cambiato. Quella spietata saggezza che impone un certo contesto, e anche la sensazione di un baricentro etico che rimane intatto.
Sulla questione mamme naturali vs madri adottive. Boh. Sono altre le cose che intessono l’amore. Sono le strutture psicologiche che gli sono dietro. Per amare bisogna arrivarci. Ci sono madri adottive o affidatarie che sono solide e amano, madri naturali che sono troppo giovani psicologicamente o troppo infelici per farlo. La continuità del sangue è un buon ponte, molto poetico. Tuttavia, non è in grado di sostenere quello che deve fare l’animo e il cuore.

Postato martedì, 25 agosto 2009 alle 16:33 da zauberei


Il libro intriga molto anche me. Infatti domani andrò a comprarlo. Mi intrigano le tematiche affrontate, l’ambientazione, e mi è piaciuta la scrittura dal quel che ho letto on line sulla pagina Einaudi segnalata da Massimo Maugeri.

Postato martedì, 25 agosto 2009 alle 17:13 da dario m.


mi cimento anch’io con le risposte alle domande.
Fino a che punto l’amore di una madre acquisita può superare o eguagliare quello di una madre naturale?
Siamo più figli di chi ci genera o di chi ci alleva?
- Paradossalmente l’amore di una madre acquisita può essere superiore a quello di una madre naturale proprio perché manca il legame del sangue. Anzi, è probabile che una madre acquisita ( a meno che il figlio le venga imposto) compensi l’assenza del vincolo di sangue amando di più il proprio figlio.
- Siamo più figli di chi ci ama e di chi si occupa meglio di noi

Postato martedì, 25 agosto 2009 alle 17:17 da dario m.


Per la domanda n. 2: passo…. almeno per ora

Postato martedì, 25 agosto 2009 alle 17:18 da dario m.


Eccomi qui.
Intanto ringrazio tutti per i numerosi commenti: Amelia, Lisetta, Antonio, Dorian, Francesca, Franca Maria, Valeria, Alessandro, Luca, Terry, Isabella, Melchisedec, Zauberei, Dario…
Tra di voi credo che ci sia qualcuno che interviene per la prima volta: benvenuto/a a Letteratitudine!:-)

Postato martedì, 25 agosto 2009 alle 23:22 da Massimo Maugeri


E, naturalmente, un grande benvenuto alla cara Michela Murgia – protagonista di questo post – che è già intervenuta con commenti molto interessanti.
Grazie, Michela.

Postato martedì, 25 agosto 2009 alle 23:24 da Massimo Maugeri


@ Isabella Moroni
Dài, Isabella. Leggi il libro e torna qui… e metti in comune le tue impressioni.:-)

Postato martedì, 25 agosto 2009 alle 23:26 da Massimo Maugeri


@ Michela Murgia
Cara Michela, desideravo chiederti… come nasce questo libro? In che modo è sorta l’idea?

Postato martedì, 25 agosto 2009 alle 23:27 da Massimo Maugeri


Sempre per te, cara Michela…
per telefono mi hai accennato a un progetto che la Regione Lombardia (se non ricordo male) sta portando avanti… ispirata dal tuo libro e – in particolare – da alcune tue dichiarazioni rilasciate in un’intervista.
Ce ne vorresti parlare?

Postato martedì, 25 agosto 2009 alle 23:29 da Massimo Maugeri


Caro Massi…bellissimo post, commovente e vero.
Lo trovo al rientro delle vacanze e mi colpisce l’apparente contraddizione tra l’accoglienza della vita e il dono della morte.
Inizio e fine nelle mani di una donna.
Credo che sia il mistero dell’esistenza stessa.Mani di donne. E tra le loro dita, la vita che affiora e quella che si inabissa.
La pratica dei tribunali mi insegna che le madri adottive sono coraggiose, fantasiose, ostinate. Che sono nutrici per vocazione e per destino, amorevoli e forti. Audaci come tutte le madri.
Non ricordano mai di non avere portato il figlio nel ventre. Sanno che è stato in loro ancor prima del suo concepimento quando lo hanno chiamato silenziosamente per nome e lui ha risposto.
Da quel silenzio credo passino tutti i misteri.
Quello del giorno e quello della notte. Quello del primo vagito sul mondo. E quello dell’ultimo.
Bravissimo come sempre, Massi.
Complimenti alla delicatezza dell’autrice e un bacio di bentrovati a voi tutti.

Postato martedì, 25 agosto 2009 alle 23:30 da simona lo iacono


Ehilà!!!
È tornata Simona!
:)
-
Grazie a te per il bellissimo commento, Simo. Dalle aule del tribunale che presiedi hai la possibilità di posare uno sguardo sul mondo da una posizione particolarissima.
Ti ringrazio di cuore per la condivisione di questo tuo sguardo.

Postato martedì, 25 agosto 2009 alle 23:42 da Massimo Maugeri


Per oggi chiudo qui.
Auguro a tutti una serena notte.

Postato martedì, 25 agosto 2009 alle 23:53 da Massimo Maugeri


Ciao, Massimo.
Post interessantissimo, questo, e coinvolgente, seppure “spinoso”, che tocca le sensibilità individuali. Oppure “spinoso” perché interessantissimo.
Certo che Michela Murgia è una scrittrice dal viso dolce ma dalla tempra, dal vigore letterario forti e nel contempo lirici, che scavano in profondità tra “l’etica millenaria morente, incalzata dai nuovi valori”, alla ricerca di una risposta accettabile da dare comunque ai nostri dettami interiori (imposti da noi stessi o – forzatamente – dalla società in cui siamo inseriti o incasellati) e perfino alla natura (Madre Natura).
Di risposte credo che Michela ne dia, letti i commenti, dato che il libro non l’ho ancora letto. A proposito, me ne ha parlato molto bene il critico letterario Alessandro Zaltron, che presenterà lei e “Accabadora” nella mia Vicenza, sabato 29 agosto.
Mi permetti, poi, di fare anche mio il commento di Simona Lo Iacono (bentornata!) là dove parla dell’apparente contraddizione dell’accoglienza della vita e del dono della morte. Inizio e fine nelle mani di una donna. Già, della donna, ovvero (non se ne abbiano i maschi) l’emblema della vita e dell’umanità. Ossia: inizio e … sì, anche fine del mondo (si veda, parlando del libro, l’atteggiamento di Bonaria Urrai).
Riguardo, infine, alla domanda – posta da Massimo – se ci sia un limite oltre il quale è possibile – o addirittura “giusto”, “auspicabile” – porre fine alle sofferenze di un agonizzante, beh, se l’agonizzante desidera morire secondo natura, e senza sofferenze, perché negarglielo? Io non amo né amerò soffrire e morire quando lo vogliono gli altri, difatti auspico che il mio Dio, scaduto il tempo, mi faccia morire pacificamente, senza che mi accorga di nulla.
Ma continuiamo a parlare del romanzo di Michela Murgia, suvvia!
Un caro saluto.

Postato mercoledì, 26 agosto 2009 alle 01:28 da ausilio bertoli


Avevo letto già di questo libro e della sua autrice sulla rivista “Mucchio”. Ne rimasi incuriosito e oggi la curiosità aumenta grazie all’ospitalità di Massimo. Credo, a questo punto, che leggerò Accabadora.
In assenza di parametri che possano farmi esprimere un’opinione, posso solo manifestare interesse e approvazione per la scelta della “location”.
Io non sono mai stato di quelli (editori compresi) che ritengono che un autore italiano debba ambientare i suoi romanzi per forza in Italia.
D’altro canto, però, è anche vero che le nostre regioni offrono scenari suggestivi e adattissimi alla costruzione di storie. Tutto questo, poi, diventa imprescindibile se la storia si basa su tradizioni, leggende e/o superstizioni che fanno parte del patrimonio di una terra.
La Sardegna è indubbiamente una terra che regala suggestioni. Gli abitanti, che chiamano il resto dell’Italia “continente”, già ti fanno pensare a quanto ci tengano alla peculiarità di quell’habitat affascinante e ricco di patrimoni ancestrali.
La mia personalissima opinione, però, è che la terra e le tradizioni debbano essere spunto e pretesto per poter raccontare storie che colpiscano lo stato emotivo del maggior numero di persone. Narrativa quindi, e non folclore il quale, il suo valore enorme ce l’ha, ma è un’altra cosa.
Da quello che leggo qui sopra, mi sembra di capire che Michela Murgia abbia centrato il bersaglio raccontando una storia caratterizzata da ambiente, tempi e personaggi dell’isola, ma ticcando corde che suonano nell’anima di tutti.

Postato mercoledì, 26 agosto 2009 alle 10:19 da enrico.gregori


Ho letto questo romanzo della Murgia e ne sono rimasto ipnotizzato.
Complimenti all’autrice.

Postato mercoledì, 26 agosto 2009 alle 12:31 da Fausto


Le domande.
1) non credo che l’amore di una madre naturale sia superiore a quello di una madre acquisita. Però è anche vero che il legame del sangue un suo valore ce l’ha. E questo vale sia per la madre che per il figlio.
Nel romanzo della Murgia la piccola Maria non perde i contatti con la famiglia d’origine. Semplicemente va ad abitare con questa anziana donna, che chiamera zia (tzia), in seguito a questo patto informale stipulato con la famiglia d’origine. Da questo patto, come si è detto, discendono diritti e doveri.

Postato mercoledì, 26 agosto 2009 alle 12:34 da Fausto


La morte…
Forse la questione è una. Forse dovremmo abituraci, o riabituarci, a considerare la morte come una fase della nostra esistenza: composta anche dalla nascita, dalla crescita, dall’invecchiamento.
Se riuscissimo a recuperare il concetto di “naturalità” della morte sarebbe più semplice accettare di buon grado l’idea di un amorevole accompagnamento verso la fine del nostro ciclo-vita. E’ questo che fa un’accabadora.

Postato mercoledì, 26 agosto 2009 alle 12:37 da Fausto


A mio avviso l’eutanasia o “un amorevole accompagnamento verso la fine” non dovrebbe essere considerata un tabù. Anzi dovrebbe essere una pratica comunemente accettata, al fine di evitare inutili sofferenze a chi si ama. Tempo fa un’amica mi disse: “In una sola occasione gli animali sono dei privilegiati rispetto agli umani: al termine della vita, quando il medico si rende conto che rimane ben poco da fare, se non nulla.”

Postato mercoledì, 26 agosto 2009 alle 13:41 da Barbara X


Fino a che punto l’amore di una madre acquisita può superare o eguagliare quello di una madre naturale?
Siamo più figli di chi ci genera o di chi ci alleva?
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Una donna che adotta una creatura ha un forte senso della maternità e quindi penso che il suo amore sia sempre uguale, se non addirittura superiore a quello della madre naturale.
Se poi consideriamo che molto contribuiscono al carattere e alla personalità i primi anni di vita, ne discende che si è più figli di chi alleva, che non di chi genera. Certo, se la mettiamo in termini di DNA, tutto cambia, ma sappiamo che l’educazione della famiglia è basilare per ogni nuovo essere umano e quindi questi ne riceverà un’impronta duratura e definitiva nel tempo.

Postato mercoledì, 26 agosto 2009 alle 17:05 da Renzo Montagnoli


Esiste un limite oltre il quale è possibile – o addirittura “giusto”, “auspicabile” – porre fine alle sofferenze di un agonizzante? E chi, eventualmente, dovrebbe stabilire il limite?
*******
La vita è propria di ognuno, che pertanto la conduce come vuole. Non si vede allora il perché l’eutanasia non sia praticabile. Resta invece un altro problema: nel caso che il soggetto sia incapace di intendere e di volere, è possibile praticare l’eutanasia? Penso che se ha lasciato scritto chiaramente in questo senso non dovrebbero sorgere ostacoli.
Dimenticavo: sono favorevole all’eutanasia attiva (purché ben delineata nei requisiti e nelle caratteristiche) e ampiamente sostenitore di quella passiva, che non definirei eutanasia, ma semplice rinuncia all’accanimento terapeutico. Quest’ultima, per quanto di mia conoscenza, viene frequentemente praticata in Italia, anche se senza clamori.

Postato mercoledì, 26 agosto 2009 alle 17:05 da Renzo Montagnoli


Caro Massi,
in riferimento anche agli interessanti spunti offerti da Renzo (che distingue in modo opportuno tra eutanasia passiva e attiva), rispondo alla tua domanda : chi dovrebbe stabilire il limite oltre il quale è da ritenere giusto porre fine alle sofferenze di un agonizzante.
La risposta è delicatissima perchè affonda le sue pietosissime ragioni nella morale, nella spiritualità, nella norma.
Inoltre, non tutti gli stati tendono a dare risposte univoche.
Il limite oltre il quale consentire di porre fine a una vita umana, dovrebbe essere il campo della norma. Anche se la legge lascia scoperte le mille e dolenti ragioni del cuore, i dubbi e l’inafferrabilità del soffio vitale che fugge.
Tuttavia è l’unico baluardo che possa regolamentare una condotta a livello collettivo.
Per sgombrare il campo da molta confusione sul tema (acuitasi dopo il caso Eluana) e dalla commozione che suscita avere tra le proprie mani i palpiti di un altro uomo, bisogna fare alcune distinzioni:
- Si parla di eutanasia passiva quando il medico si astiene dal praticare cure volte a tenere ancora in vita il malato; di eutanasia attiva quando il medico causa, direttamente, la morte del malato; di eutanasia attiva volontaria quando il medico agisce su richiesta esplicita del malato.

- Nella casistica si tende a far rientrare anche il cosiddetto suicidio assistito, ovvero l’atto autonomo di porre termine alla propria vita compiuto da un malato terminale in presenza di – e con mezzi forniti da – un medico.
- Il notro ordinamento a differenza di altri (vedi quello tedesco) fa una valutazione giuridica negativa del suicidio: non viene punito il suicida, nell’ipotesi in cui un suo gesto non raggiunga l’obiettivo, ma viene sanzionata l’istigazione al suicidio in base all’art. 580 del c.p.
- Invece, in base al cosiddetto “consenso informato”, chiunque ha diritto di decidere se vuole essere curato per una malattia o sottoposto a una determinata terapia o esame diagnostico, dopo essere stato informato dal medico sugli effetti degli stessi; tale diritto è garantito dall’art. 32 della Costituzione secondo cui “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.

- In Commissione Sanità al Senato è iniziato l’esame di vari disegni di legge aventi a oggetto le cosiddette “dat” – dichiarazioni anticipate di trattamento; al momento, non è stato ancora adottato un unico testo di riferimento e si sta procedendo ad audizioni di tecnici o di rappresentanti di associazioni. Il quadro appare a volte confuso in quanto si fanno coincidere le “dat” con il rifiuto dell’accanimento terapeutico, per il quale non è necessaria una legge, essendo possibile, e anzi garantito già oggi.

-L’eutanasia attiva non è assolutamente normata dai codici del nostro Paese: ragion per cui essa è assimilabile all’omicidio volontario (articolo 575 del codice penale). Nel caso si riesca a dimostrare il consenso del malato, le pene sono previste dall’articolo 579 (omicidio del consenziente) e vanno comunque dai sei ai quindici anni.

-Anche il suicidio assistito è considerato un reato, ai sensi dell’articolo 580.

-Nel caso di eutanasia passiva, pur essendo anch’essa proibita, la difficoltà nel dimostrare la colpevolezza la rende più sfuggente a eventuali denunce.

Postato mercoledì, 26 agosto 2009 alle 17:58 da simona lo iacono


@Ausilio Bertoli: bentrovato a te! Un caro abbraccio!

Postato mercoledì, 26 agosto 2009 alle 17:59 da simona lo iacono


è un tema molto difficile, mi rendo conto, e averlo trattato con sensibilità acuisce il mio interesse. Leggerò il libro, anche perché ho un’amica sarda che mi aveva parlato a lungo di questa figura caratteristica e già mi aveva incuriosita.
Conosco anche persone che, malgrado siano state adottate e amate in maniera eccellente, sono comunque alla ricerca della loro madre naturale.
Per quanto riguarda il discorso sull’eutanasia, io credo che si sia sempre praticata, fin dai tempi primitivi. Che sia stato un impulso di pietà estrema accelerare la morte di un altro essere umano risparmiandogli ulteriori sofferenze.
Oggi sarebbe auspicabile il rispetto per le volontà del singolo, se ha espresso in vita la volontà di non essere sottoposto ad accanimento terapeutico e che abbia lasciato precise disposizioni in tal senso.
Un argomento , questo, che ci tocca tutti e che dovrebbe essere sviscerato a fondo, in ogni senso.
Personalmente sono per l’eutanasia attiva, qualora fossi in condizioni anche di non poter più decidere, e le sofferenze insopportabili.
Soprattutto se fossi ormai avviata a morte sicura.
Unica condizione, imprescindibile, essere liberata dal dolore.

Postato mercoledì, 26 agosto 2009 alle 18:01 da cristina bove


Sicilia e Sardegna hanno molto in comune: la loro insularità fa definire l’Italia “il continente”…
Anche in siciliano accabari vuol dire finire, per la comune influenza spagnola.
Non so se esista o sia esistita in Sicilia la figura dell’accabadora. E neanche se si sia mai parlato di figli dell’anima… anche se credo che, biologia a parte, la maternità sia qualcosa di spirituale.
Il libro sembra intenso e stimolante.
Certi nodi della vita sono duri da sciogliere. La morte e la sofferenza ci riguardano tutti ma nell’era dell’apparenza e del consumismo meglio nasconderle, meglio le case di riposo, la dolce morte, l’ospedalizzazione del trapasso.
Credo che l’accabadora facesse parte di un mondo in cui la morte era un evento rituale e ritualizzato.
Non mi pronuncio sulle domande di Massimo. Credo che mi opporrei all’accanimento terapeutico ma non so se al momento decisivo potrei decidere di porre o far porre fine alle mie sofferenze.
Stamattina è morta una cara zia di mia madre. Ha sofferto moltissimo e in qualche momento ha chiesto che si ponesse fine alle sue sofferenze. Ma l’ha aiutata l’accompagnamento dei figli, delle sorelle, che la incoraggiavano, pregavano insieme a lei che non poteva più parlare, fino a quando non si è lasciata andare.
Ben vengano infermieri e medici professionali e umani insieme, che sappiano aiutare i pazienti e i loro familiari.
Una suora dell’ospedale, anni fa, venne alle prove di coro con le lacrime agli occhi. Ci raccontò che aveva fatto compagnia ad un vecchietto che stava per morire.
- Sorella, non voglio morire da solo.
Non voleva accanto a sé l’infermiera o la caposala, ruoli che suor Domenica ricopre eccellentemente. Voleva che qualcuno gli facesse compagnia.

Postato mercoledì, 26 agosto 2009 alle 19:01 da Maria Lucia Riccioli


Considerata la notoria incapacità dei nostri politici, l’influsso della chiesa cattolica e un governo che fa dell’insensibilità il suo motto penso che la soluzione, ammesso che si arrivi a una soluzione, sarà la peggiore possibile.
Comprendo le difficoltà della materia, acuite dal fatto che i casi possono essere i più svariati, ma comunque una dichiarazione di principio sarebbe già un buon avvio dell’iter.
Mi sembra che almeno l’eutanasia passiva dovrebbe essere accettata, pur con con le dovute misure; più problematico è il caso del suicidio assistito, per non parlare di quello dell’eutanasia attiva.
Tuttavia, nutro non pochi dubbi che anche la più diffusa eutanasia passiva possa trovare una sua regolamentazione, vista anche l’opposizione in tal senso della chiesa, per quanto, mi pare, il diritto canonico la contempli.

Postato mercoledì, 26 agosto 2009 alle 19:11 da Renzo Montagnoli


Ringrazio tutti per i nuovi commenti pervenuti: Ausilio Bertoli, Enrico Gregori, Fausto, Barbara, Renzo, Cristina, Maria Lucia.

Postato mercoledì, 26 agosto 2009 alle 21:57 da Massimo Maugeri


Un ringraziamento speciale a Simona per i suoi contributi tecnici con i quali impreziosisce le nostre discussioni (mettendo in comune con noi la sua esperienza di giurista).

Postato mercoledì, 26 agosto 2009 alle 21:58 da Massimo Maugeri


@ Maria Lucia
Cara Mari, sentite condoglianze per la morte della zia di tua madre.

Postato mercoledì, 26 agosto 2009 alle 22:01 da Massimo Maugeri


Michela Murgia, in questi giorni è itinerante, ma interverrà al più presto per rispondere alle nuove domande (e alle varie sollecitazioni pervenute).

Postato mercoledì, 26 agosto 2009 alle 22:02 da Massimo Maugeri


Auguro una serena notte a tutti.

Postato mercoledì, 26 agosto 2009 alle 22:11 da Massimo Maugeri


La prima domanda mi spinge a scrivere subito di getto la mia esperienza personale e, pur non avendo letto il libro, mi complimento con l’autrice per aver trattato due temi così difficili e controversi.
Sono madre naturale ed ho avuto sette bambini in affidamento familiare, alcuni per brevi periodi o a part-time, altri disposti dal Tribunale dei Minori e dai Servizi Sociali per periodi più lunghi, uno addirittura della durata di oltre dieci anni (la bimba ci fu affidata all’età di 11 mesi), alcuni avuti anche contemporaneamente.
L’affido è stata una scelta della nostra famiglia durata circa quindici anni, non so se più o meno difficile dell’adozione ma, in alcuni casi, senz’altro più dolorosa.
Pur non avendo partorito questi bambini, li ho attesi, comunque, con ansia e trepidazione, li ho amati dello stesso amore e con la stessa intensità con cui ho amato mia figlia, di un amore viscerale e completo, pur sapendo che un giorno sarebbero tornati nella loro famiglia d’origine.
Li ho aiutati a crescere (crescendo insieme a loro), educandoli e cercando di trasmettere i miei valori, nel rispetto delle loro culture e religioni. Sono stati al centro della mia e della nostra vita familiare ed ho lasciato da parte con gioia, in quegli anni, i miei interessi personali e artistici perchè questi bambini erano la “mia vita” e la vita della nostra famiglia.
Ovviamente, erano sempre bambini che provenivano da situazioni di disagio familiare o da paesi colpiti dalle guerre, ecc. ecc., bambini che portavano con sè un pesante bagaglio di dolore e di sofferenza, una sofferenza che mi lacerava e che avrei voluto carpirgli per renderli sereni.
Ho sofferto e gioito insieme a loro. Li ho vegliati con la febbre alta, ho esultato per i loro progressi a scuola, ho pianto per i loro dolori, mi sono emozionata ai primi passi e per le prime parole.
Ho affrontato, insieme alla mia famiglia, i problemi che di volta, in volta, si presentavano cercando di risolverli unicamente con l’amore.
Alcuni bambini provenivano dall’Africa, una bambina in particolar modo, soffriva tremendamente per il colore nero della sua pelle e per i suoi ricciolini . Mi sentivo quasi colpevole per avere i capelli biondi e lisci e la pelle chiara.
Sono state storie d’amore reciproco, alcune continuano ancora, nonostante il rientro del bambino nella famiglia d’origine (alcuni sono già maggiorenni).
Posso affermare con certezza che quegli anni sono stati i più belli della mia vita, in assoluto, quelli in cui ho ricevuto molto di più di quanto ho creduto di poter dare.

Postato mercoledì, 26 agosto 2009 alle 23:23 da mara faggioli


che bello quest’ultimo commento di mara faggioli!!! così come tutta questa discussione. sono d’accordo con chi sostiene che non c’è differenza tra l’amore di una madre naturale e quello di una madre acquisita.
trovo il discorso sull’accabadura molto suggestivo e affascinante, per cui acquisterò il libro. auguri a michela murgia.

Postato giovedì, 27 agosto 2009 alle 08:53 da sara langella


sulla morte assistita il discorso è complesso. io sono contraria all’accanimento terapeutico, ma sono altrettanto contraria all’insofferenza di coloro che non ci penserebbero due volte a favorire lo spegnimento di anziani parenti malati che costituiscono una “rogna” da portare avanti. credetemi, di questa gente ce n’è.

Postato giovedì, 27 agosto 2009 alle 08:56 da sara langella


Ritengo che ogni essere umano debba essere sempre libero di decidere della propria vita e della propria morte, soprattutto nei casi in cui le sofferenze siano insopportabili e le aspettative di un ritorno ad una vita pressochè normale divenute nulle. Sono contraria, pertanto, all’accanimento terapeutico e credo che tutti dovremmo, comunque, riflettere sulla conclusione di Massimo Maugeri quando sottolinea: ALLA FINE DEL LIBRO UN MONITO ALEGGIA NELL’ARIA : “NON DIRE MAI DI QUEST’ACQUA IO NON NE BEVO”.

Postato giovedì, 27 agosto 2009 alle 09:44 da mara faggioli


Perdonatemi la saltuarietà della presenza, dovuta agli spostamenti molto rapidi di questi giorni, come ha già detto Massimo. Comincio dalla sua domanda: Come è nata l’idea.

Più che nata è arrivata da sola, e in via embrionale riguardava solo la questione della filiazione affettiva, un tema che per motivi anche biografici mi è particolarmente caro. La qustione dell’accabadora mi si è imposta come chiave di sviluppo solo in un secondo momento, perché l’ho vista ricca di sfumature simboliche che potevano accordarsi con il concetto di maternità che stavo sviluppando nella linea principale. Nel romanzo è esplicito che per Bonaria il suo lavoro di accabadora è una delle declinazioni della maternità, e il libro in ordine a questo avrebbe dovuto intitolarsi nelle mie intenzioni iniziali proprio “L’ultima madre”.

Per questo mi ha fatto molto piacere venire in questi giorni a conoscenza del fatto che si stia pensando di battezzare con il nome di Accabadora un progetto – ancora embrionale e relativo alla Lombardia – di affido di ragazze adolescenti a donne adulte senza distacco dalla madre naturale.

Ringrazio Mara di cuore per la testimonianza della sua esperienza di affido, anche se la pratica de su fill’e anima le è assimilabile solo in parte, perché òa situazione di partenza del figlio d’anima non è quasi mai una situazione di disagio socio-familiare, e la filiazione ha carattere permanente, quindi ha i tratti giuridici (almeno nella prassi) di un’adozione stabile, più che di un affido. Inoltre non si realizza mai tra estranei, ma tra due nuclei familiari che hanno già rapporti di stima e frequentazione, quindi il passaggio della potestà sul figlio è molto meno traumatico, e la decisione viene condivisa con il figlio stesso. Più che applicargli i canoni dell’affido o dell’adozione, tenderei a spiegarlo meglio con un’idea di famiglia allargata, di cogenitorialità che – pur mantenendo ben chiari i ruoli di chi riveste la potestà – continua a considerarsi “multipla”.

Postato giovedì, 27 agosto 2009 alle 12:49 da michela murgia


Invece sulla questione dell’affetto è un campo minato, non mi azzarderei mai a fare dei distinguo qualitativi tra l’amore di una madre naturale e quello di una madre adottiva. Sicuramente però se ne possono fare di puramente tecnici, e li fa anche il libro quando dice che “anima e fill’e anima è un modo meno colpevole di essere madre e figlia”. La dimensione della scelta, e della scelta reciproca tipica dell’uso del fill’e anima, sicuramente pone i rapporti su un piano potenzialmente meno conflittuale, eliminando tutte le rabbie più o meno esplicite che la nascita naturale, (quindi casuale, in qualche misura imposta dagli eventi) può mettere alla base del legame di sangue.
In qualunque momento il figlio d’anima può dire: io sono stato scelto. Non in quanto figlio e basta, ma in quanto IO, con nome, carattere, identità già definita. Difficile che un figlio d’anima abbia dubbi sul suo essere amato da un genitore adottivo, perchè il vincolo di obbligatorietà presunto dal sangue non è nemmeno messo in conto: nessuno adotta figli che non vuole.
Vale ovviamente anche il reciproco, ma sono certa che quella sia la posizione più complessa, perché entrano in gioco altri fattori. La madre adottiva e il padre adottivo hanno ansie da prestazione genitoriale molto più acute di quelle che potrebbe avere un genitore naturale, perché devono dimostrare continuamente che la volontà è più forte del sangue. Certo nel superamento di questo complesso non sono di nessun aiuto frasi come “il sangue non è acqua” che continuamente i sentenziatori della domenica si prodigano a ripetere.

Postato giovedì, 27 agosto 2009 alle 13:08 da michela murgia


Sono molto contento di questo spazio su Letteratitudine (Massimo sei sempre più prezioso) dedcato a Michela.
Il libro è davvero incredibile nella sua “semplicità”, credo che sia la riprova della bravura di alcune nostre scrittrici.
Non ci è voluto molto per amare i personaggi e le ambientazioni che sono visceralmente legate ad uno stile appassionante e davvero coinvolgente.
Ho dato le miei impressioni di Accabadora (http://www.paradisodegliorchi.com/cgi-bin/pagina.pl?Tipo=recensione&Chiave=632) e le confermo nuovamente, convinto che questi sono libri che hanno il pieno merito di essere letti e consigliati, perché libri Vivi, pulsanti e che affermano l’esistenza di un cuore pulsante di giovani autrici.
Un abbraccio a tutti e in bocca al lupo a Michela e un Ad Maiora a Massimo.

Postato giovedì, 27 agosto 2009 alle 14:35 da Alex Pietrogiacomi


anch’io ho letto il libro e confermo l’entusiasmo che si percepisce nel precedente commento di alex pietrogiacomi.

Postato giovedì, 27 agosto 2009 alle 16:26 da lorena


Ringrazio tutti per i nuovi commenti.

Postato giovedì, 27 agosto 2009 alle 21:19 da Massimo Maugeri


@ Mara Faggioli
Cara Mara, grazie per averci donato il bel racconto della tua esperienza. E benvenuta a Letteratitudine!

Postato giovedì, 27 agosto 2009 alle 21:20 da Massimo Maugeri


Un ringraziamento e un benvenuto anche a Sara e a Lorena.

Postato giovedì, 27 agosto 2009 alle 21:21 da Massimo Maugeri


Al mitico Alex Pietrogiacomi, oltre ai saluti e un grazie vanno tanti complimenti per la bella recensione.
Bravo, Alex!

Postato giovedì, 27 agosto 2009 alle 21:22 da Massimo Maugeri


Cara Michela, ti ringrazio per i nuovi ottimi interventi e ti pongo una domanda…
Questo tuo romanzo che tipo di riscontro ha avuto in Sardegna?

Postato giovedì, 27 agosto 2009 alle 21:24 da Massimo Maugeri


Auguro una buona serata a voi tutti.

Postato giovedì, 27 agosto 2009 alle 21:28 da Massimo Maugeri


Contrariamente al detto che vuole nessuno profeta in patria, ogni mio libro precedente è stato oggetto di interesse e benevolenza nell’isola, e credo possano dirlo del proprio lavoro anche tutti gli altri scrittori sardi: la Sardegna ama i suoi bardi. Ma non lo fa in maniera indiscriminata, e per questo Accabadora – anche se mentre scrivevo non ne ho minimamente tenuto conto – una volta edito costituiva per me un rischio, e non solo per il cambio di registro rispetto al primo romanzo.

Presi ad intuito dalla copertina, i due temi forti del libro (soprattutto quello dell’accabadora) da un lato potevano solleticare gli amanti del realismo magico-folk che nell’isola è un filone aureo, dall’altro potevano invece respingere i lettori desiderosi di affrancarsi dall’immaginario un po’ liso della Sardegna deleddiana, o presunta tale. Lo ammetto: ho cercato di deludere i primi in tutti i modi possibili, per esempio rifiutando di servirmi gratuitamente di marcature linguistiche come supporto alla narrazione, oppure evitando con cura di dettagliare la funzione dell’accabadora secondo leggenda. Ma ho dovuto deludere anche quanti tra i secondi restano convinti che lo specchio in cui potersi riconoscere sia sempre e solo appeso davanti. Io ho scritto molto del nostro presente, ma per capirlo meglio non ho paura di guardarmi anche alle spalle.
La risposta anche numerica a questo lavoro di ricerca è stata altissima in tutta la Sardegna, segno che a volte il timore di deludere è infondato, le persone capiscono più di quel che si spera (o si teme).

Postato venerdì, 28 agosto 2009 alle 01:13 da michela murgia


complimenti a michela murgia.
una curiosità: che rapporto ha con gli altri autori sardi contemporanei? penso a niffoi, fois, todde.
ce n’è uno che predilige?

Postato venerdì, 28 agosto 2009 alle 09:07 da alessandro


e ancora. la letteratura sarda, a suo giudizio, che posto occupa a livello nazionale?

Postato venerdì, 28 agosto 2009 alle 09:48 da alessandro


Questo libro l’ho iniziato a leggere stamattina, incuriosito dai vostri post. Vi saprò dire nei prossimi giorni.

Postato venerdì, 28 agosto 2009 alle 14:26 da Aldo Morello


Ho un rapporto di qualità con la maggior parte degli scrittori sardi, dove per qualità si intende non solo l’amicizia, in qualche caso fraterna, ma anche quella sottile complicità di mestiere che ti porta a chiedere un consiglio su una scelta narrativa, a mostrare una pagina inedita o a condividere un progetto culturale più impegnativo, come un festival o una collaborazione su testi. In Accabadora c’è traccia di questo nei ringraziamenti a Fois e Angioni per i consigli, ma i casi sono tanti. Questo processo di riconoscimento e contaminazione non è possibile con quegli scrittori, per fortuna pochissimi, che si considerano figli unici dell’isola e negano ogni parentela con la cosiddetta nouvelle vague.

In Sardegna c’è anche una scuola poetica con una impressionante tradizione, in lingua e non, il cui influsso si riverbera continuamente anche sulla narrativa. Il mio riferimento in quell’ambito è Alberto Masala, la voce che tra i poeti sardi viventi si è rivelata più capace di coniugare l’antica scuola con i percorsi della poesia moderna. Non mando nulla a un editor prima che lo abbia letto lui.

Postato venerdì, 28 agosto 2009 alle 17:39 da michela murgia


Grazie per la segnalazione. Le pagine on line sono molto belle, dunque farò una visita in libreria :)
saluti all’autrice

Postato venerdì, 28 agosto 2009 alle 18:00 da Giorgia Parente


La domanda su che posto occupi la narrativa sarda “a livello nazionale” non la comprendo fino in fondo, o forse non me la sono mai posta in questi termini; mi verrebbe da chiederti a mia volta: “domanderesti mai a uno scrittore umbro che posto occupano gli scrittori umbri a livello nazionale?”. Lo dico perché la domanda, così come è posta, rivela in partenza una percezione di “alterità” degli scrittori sardi, o forse dei sardi tout court, rispetto all’Italia. Dal mio punto di vista potrebbe essere una domanda comprensibile solo perché ho a mia volta la convinzione che quella sarda sia una produzione “altra” sin dai tempi di Grazia Deledda, una che non mise mai d’accordo i critici che tentavano di spiegarla sub specie italianitatis.

Quindi, mentre mi sono sempre chiesta che contributo dia la mia scrittura all’interno dello scenario sardo, che per me è nazionale in tutti i sensi possibili, una volta varcato il mare qualunque collocazione sperabile supera di molto l’orizzonte espressivo strettamente italico. Non credo sia un caso che tutti gli scrittori sardi, anche quelli più marcati nell’ambientazione e nelle scelte linguistiche, siano molto tradotti all’estero: la Sardegna nelle sue espressioni artistiche – che poi sono le sole in cui ha avuto spazio di autodeterminazione – resta strutturalmente un altrove.

Postato venerdì, 28 agosto 2009 alle 18:06 da michela murgia


Ringrazio Alessandro, Aldo e Giorgia per i loro commenti.

Postato venerdì, 28 agosto 2009 alle 21:01 da Massimo Maugeri


E, ovviamente, Ringrazio Michela per gli ulteriori interventi.

Postato venerdì, 28 agosto 2009 alle 21:02 da Massimo Maugeri


Cara Michela, immagino che Alessandro faccia riferimento alla “letteratura sarda” in quanto dotata di una valenza regionale particolarmente forte (in riferimento al territorio, all’insularità e alla tradizione letteraria)… così come, del resto, si parla di “letteratura siciliana”.
Ma attendiamo l’intervento dell’interessato.

Postato venerdì, 28 agosto 2009 alle 21:05 da Massimo Maugeri


Questo romanzo di Michela sta riscontrando parecchio successo, sia in termini di pubblico che rispetto alla critica.
Nell’ultima classifica di Tuttolibri (8 agosto) Luciano Genta, nel suo articolo introduttivo, evidenzia come “Accabadora”, sia piazzato in dodicesima posizione:
http://www.lastampa.it/_WEB/_RUBRICHE/libri/default_classifica.asp

Postato venerdì, 28 agosto 2009 alle 21:08 da Massimo Maugeri


Anche la critica, dicevo, si è espressa in maniera favorevole.
Trovate la rassegna stampa sul sito di Michela (colonna a destra):
http://michelamurgia.altervista.org/

Postato venerdì, 28 agosto 2009 alle 21:09 da Massimo Maugeri


@ Michela Murgia
Alberto Masala è un grande. Un ribelle. Poeta e letterato raro.
Mi rammarico di non aver letto il Suo romanzo “Accabadora”, al quale auguro tanta buona fortuna. Le invio un caro saluto.

Postato venerdì, 28 agosto 2009 alle 21:09 da Subhaga Gaetano Failla


E grazie a te Massimo! E buona notte!
Gaetano

Postato venerdì, 28 agosto 2009 alle 21:11 da Subhaga Gaetano Failla


Cara Michela, desideravo domandarti questo: tra le tante cose che sono state dette (e scritte) su questo tuo libro, qual è la cosa che ti ha fatto più piacere? E perché?

Postato venerdì, 28 agosto 2009 alle 21:11 da Massimo Maugeri


Ehilà, caro Gaetano. Grazie per il tuo intervento. Ti consiglio, se puoi, di leggere questo romanzo di Michela Murgia. Sono certo che ti piacerà.

Postato venerdì, 28 agosto 2009 alle 21:13 da Massimo Maugeri


Sempre per Michela…
(viceversa) le tante cose che sono state dette (e scritte) su questo tuo libro, c’è qualcosa che ti ha dato fastidio? E perché?

Postato venerdì, 28 agosto 2009 alle 21:14 da Massimo Maugeri


Per oggi chiudo qui augurando una serena notte a tutti.

Postato venerdì, 28 agosto 2009 alle 21:19 da Massimo Maugeri


Caro Massimo, grazie a te per aver proposto il libro di Michela Murgia e per questo interessante dibattito.
Complimenti anche per il sito Letteratitudine.

Postato venerdì, 28 agosto 2009 alle 22:17 da mara faggioli


Massimo, non so se non sia un equivoco collettivo quello della letteratura sarda caratterizzata regionalmente, nel senso che è letteratura sarda a tutti gli effetti anche quella di Nicola Lecca, che scrive romanzi non ambientati in Sardegna e senza cedimenti stilistici a qualsivoglia regionalismo; sono letteratura sarda anche le opere di Bianca Pitzorno, dove niente farebbe intuire sardità varie ed eventuali, se uno non andasse a leggersi la biografia dell’autrice. Che cosa determina la “sardità” di un romanzo? Esistono stilemi riconoscibili per il romanzo sardo che possano spingere a farne un filone interno alla letteratura italiana? Io sono convinta di no, ma sarei curiosa di conoscere posizioni diverse.

- una cosa che non mi è piaciuta è stata la lamentela sulla brevità del romanzo, spesso rafforzata con il riferimento al prezzo di copertina, una scelta che chiunque sa non competere l’autore. Mi ha dato la brutta impressione che qualcuno acquisti i libri a peso.
- la cosa che mi è piaciuta sono state le email dei librai, che sono arrivate a decine, piene di cose che mi resteranno nel cuore per un pezzo. Sono un pubblico difficile i librai indipendenti, leggono e sanno leggere: riuscire a conquistarseli è un’impresa che renderebbe orgoglioso qualunque scrittore.

Postato sabato, 29 agosto 2009 alle 01:14 da michela murgia


oh yeaaaaaaaah
il regionalismo il visibìlio dell’ invisibile
il prodotto editoriale
il costumbrismo
atzeni/borges
niffoi/màrquez
murgia/i.allende

e quando toccherà ai valdostani…

molto molto deprimente

ah ma non è marketing

e negare ma si sa i librai….eh i librai……..indipendenti poi…….eh

e annegare nella sardità

ma no ma sì ma dài

Postato sabato, 29 agosto 2009 alle 07:21 da Jorge Czysterpiller


che repubblica
delle letterine
sardità
camorrità
terzaetà
padanità
taratatatà
wuminchità

maaldilà
delgesto
tuttidilà
etvoilà
eticità
datempi
nanity-fair
scribacchini
chinichini dell’etichetti-età
lapubblicità
maaldilà
chèdiqua
v’èl’arte
lasardità
lacamorrità
et cetera
et cetera
et cetera

maaldilà

Postato sabato, 29 agosto 2009 alle 07:33 da Jorge Czysterpiller


@Michela: hai avuto qualche commento o critica di famosi scrittori sardi che non si abbassano a leggere queste modernità? (per il lettori di Letteratitudine: non spaventatevi, non sto insultando il romanzo e sono certo che Michela coglie l’ironia). Penso ad articoli simili a quello di P. Pillonca su Sedilo.
In tal caso che dicono? Che apprezzano e che criticano?
Merci, spero a stasera
d.

Postato sabato, 29 agosto 2009 alle 07:57 da dorian


Un saluto a tutti scusandomi in anticipo se non ho seguito qualche procedura prevista per poter scrivere questo mio primo messaggio.Sono un lettore sardo quindi ho seguito con molta attenzione Michela Murgia e il suo romanzo.Michela ha perfettamente ragione quando dice che in Sardegna la nazionale sarda degli scrittori è molto seguita dai corregionali.Tendiamo a privilegiare i loro romanzi perchè per decenni non abbiamo trovato niente sulla Sardegna e adesso ci abbuffiamo.E’ vero, i romanzi degli scrittori sardi hanno una caratterizzazione regionalistica che probabilmente non si riscontra per gli scrittori di altre regioni.Penso che sia giusto perchè ognuno deve scrivere di ciò che vede, che sente, che odora.Ed è questo il vero problema : quando si parla di letteratura sarda, da parte di chi fa questa considerazione, non si vuole accennare esclusivamente ad ambientazione sarda ma alla caratterizzazione in salsa sarda dei personaggi e qui non mi ci ritrovo piu’ con chi si permette di dissentire da questa generalizzazione.Non solo, mi permetto di dissentire da Michela Murgia quando afferma che la Letteratura Sarda con i recenti successi si è autodeterminata.Penso invece che siamo in presenza di un processo di neocolonialismo letterario.Chiedo a tutti i lettori e a Michela Murgia in particolare di consentirmi di usare questa terminologia senza pensare che a tutti i costi arriva l’ultimo provocatore che vuole usare frasi ad effetto…ma è una mia convinzione da cui non riesco a separarmi.A me sembra che gli scrittori sardi scrivano di Sardegna e di personaggi sardi secondo tante inclinzioni diverse , però quelli che raggiungono il successo che sono poi i romanzi che le case editrici decidono di pubblicare e sostenere hanno delle caratteristiche particolari, cioè rispondono a quei modelli di sardità che un romanzo scritto in Sardegna deve avere per il mercato italiano, per l’immaginario collettivo nazionale.Forse è per questo che i romanzi sardi piu’ letti sono quelli di Deledda, o il Padre padrone o i Romanzi di Niffoi, mentre invece identica sorte non è toccata a capolavori come “Quelli dalle labbra Bianche di Masala o Bellas mariposas di Atzeni, o i personaggi di Soriga di Nurajò che ritengo siano pietre miliari della letteratura sarda. Ecco nascere il mito della letteratura sarda che per forza deve avere accenti particolari rispetto alle altre letterature. Quando gli “altri”, intendo i non sardi, ci parlano di letteratura sarda e di sardità noi da un lato questa presunta specificità la reclamiamo e dall’altro invece ce ne lamentiamo.Ma hanno perfettamente ragione “loro” perchè esiste una letteratura sarda diversa da tutte le altre ed è caratterizzata da una falsa visione che hanno gli “altri” e “noi” della nostra esistenza sarda e che noi alimentiamo continuamente perchè ci pace sentiri diversi.Perchè i personaggi sardi dei romanzi devono essere per forza sempre tutti d’un pezzo, senza tentennamenti,assistiti continuamente da un grande codice morale e etico, che fanno filosofia dalla mattina alla sera, che sanno sempre come devono andare le cose?.Perchè i personaggi sardi anche quando si muovono in ambienti degradati come possono essere il mondo pastorale e quello agricolo di sussistenza dei nostri paesi (non distinguo assolutamente tra i paesi dell’interno e da quelli del Campidano perchè in fondo anche su quegli aspetti non penso ci sia differenza) sono sempre sorretti da una grande forza d’animo in cui riesono sempre a distinguere tra il bene e il male, a consolarsi sempre con grandi azioni rimuginate dentro ed elaborate secondo canoni esistenziali, senza essere mai travolti dall’esistenza ma devono comunque dominarla anche quando si esaurisce in modo tragico?. Perchè i ragazzini sardi dei romanzi rispetto agli altri ragazzi delle altre letterature che vivono la loro infanzia spesso come punti deboli delle loro famiglie, con tutte le insicurezze del loro status, devono nascere già grandi e invece di giocare con le figurine i nostri ragazzini pensano già alla filosofia di vita, ragionano già da possidenti di campagna , pensano già a non farsi mettere sputo nel naso da chiccessia, e invece i ragazzini “altri” vengono descritti come bambini pieni di complessi e afflitti da mille problemi? . L’essere soli dei ragazzini exra Sardegna è sintomo di problemi familiari e di adattamento, i bambini della letteratura sarda sono sempre soli, isolati, ma per loro è un valore positivo, di formazione, perchè la diffidenza deve par parte dell’essere sardo.Perchè le nostre donne sono anch’esse tutte d’un pezzo, parlano poco se non per sparare sentenze esistenziali, vivono come ombre fuggenti da una parte all’altra, non cicaleggiano mai in giro come invece immaginiamo che facciano le donne napoletane? Personalmente ho vissuto in parecchie zone della Sardegna e non mi sembra che le persone sarde siano poi così tanto diverse dal resto delle persone di identico status socio eonomico.Ho conosciuto tanti muratori alla Nick Molise, di cui nella letteratura sarda non c’è traccia, ho conosciuto tante donne che vivevano la loro condizione di mogli di uomini gretti e ignoranti che si adattavano a vivere in modo subalterno e sofferente con ben poca dignità come tutte le altre donne del mondo che subiscono angherie e violenze nell’ambito familiare.Ho conosciuto tanti ragazzini sardi che avevano paura della loro stessa ombra, come capita a tutti i ragazzini del mondo.Ho vissuto in paesi i cui abitanti potevano sembrare gli stessi di Pian della Tortilla.. Allora mi chiedo, e qui torniamo al discorso del neocolonialismo letterario:siamo sicuri che quello di cui scriviamo è realmente Sardegna oppure scriviamo, o quanto meno ha successo, solo quella letteratura che risponde ai canoni di cui ai personaggi sopra descritti?.Perchè non c’è niente di male ad essere etichettati come letteratura sarda.Basta che si riconosca che ha delle sue specificità comunque validissime e che risponda a determinati canoni,( letterari e commerciali) senza adombrarci quando il tutto ci viene fatto notare. Spero che Michela non si adombri e non la prenda come una polemica inutile, perchè la mia stima e il mio apprezzamento nei suoi confronti è grandissima e in considerazione del rapporto di affiliazione alla stessa agenzia letteraria…
Un saluto a tutti e grazie per la possibilità che mi è stata offerta

Postato sabato, 29 agosto 2009 alle 09:09 da ilario carta


@Ilario Visto che Michela è in giro ne approfitto per scrivere due righe al tuo messaggio. La questione dei canoni mi sembra molto interessante.
Penso a Masala (non Alberto, parlo del Masala di “Quelli dalle labbra bianche”). Da un lato i toni nostalgici della sua narrazione mi sembra siano comprensibili in una autobiografia che parte dalla campagna di russia. Penso ad esempio (da http://www.sardegnacultura.it/documenti/7_87_20060717173309.pdf) a “Ma noi, i compagni di Sciarlò, i richiamati di Arasolè, eravamo molto lontani. Dai cieli oscuri di una terra di neve, i nostri pensieri, come uccelli in migrazione, volarono verso la nostra isola, i nostri luoghi di incredibile luce, i prati di asfodeli e di ferule dei salti di Oddorài, le vigne sassose dei salti di Caràde, i campi di grano dei salti di Biduvè, gli orti a secco e i fichidindia intorno alla casa delle Fontane Rosse, le querce contorte e sanguinanti dei salti di Ucanèle, le tanche di mirto e di lentischio dei salti di Ovorèi, i pascoli verdi di Soliàna.”

D’altro lato anche la nostalgia mi pare sia diventato un canone. Il fatto che nonostante tutte le sfighe possibili ci sia la terra o ci siano dei principii immortali tramandati in modi di dire. Ho l’impressione che rischi di essere un canone figlio della sensazione di essere dominati. Della serie: strapazzami, massacrami, ma tanto ciò che mi interessa è solo questa cosa piccola piccola che non mi puoi toccare. Utilissimo in periodi in cui dominati fummo davvero. Pericoloso adesso perché funzionale ad un sistema che spesso ci vuole solo terra di vacanze.

Non so quindi se certe specificità locali (ho letto pure il testo di Atzeni ma troppi anni fa per farvi riferimento, mentre quelli dalle labbra bianche un periodo lo conoscevo a memoria per l’80% perché ne avevo recitato una riduzione per teatroo) siano meno canone di quello per cui va bene una letteratura un po’ diversa e adatta ad un pubblico nazionale. Questa letteratura rischia di perdere delle specificità per essere solo “commerciale” (non parlo di Michela che sa benissimo cosa pensi del suo romanzo).

A me sembra che entrambe le tendenze possano essere un tentativo di ricostruirsi, vivendo nel presente, senza perdere ciò che di buono ci arriva dal passato. Masala più verso il “senza perdere ciò che di buono”, altri più verso “vivendo nel presente”. Io sarei più su questa seconda strada perché la prima mi sembra che a volte sia più figlia di un bisogno di riconoscimento, per cui bisogna vedere e leggere qualcosa di familiare, così da avere uno specchio e poter dire: mi posso riconoscere, qualcun altro mi conferma che ciò che sento è qualcosa di sensato.

Postato sabato, 29 agosto 2009 alle 10:35 da dorian


Cari amici, buona giornata e buon sabato a tutti.
Ringrazio Michela per il nuovo commento.
Saluto Mara (di nuovo grazie a te!), E Jorge, Ilario e Dorian ringraziandoli per i loro interventi.
Forse tra voi c’è qualcuno che scrive qui per la prima volta. In tal caso: benvenuti a Letteratitudine!

Postato sabato, 29 agosto 2009 alle 11:09 da Massimo Maugeri


La questione del “regionalismo” nella letteratura italiana è molto interessante. L’estate scorsa il quotidiano “Il Mattino” dedicò una serie di articoli in tema (io ne scrissi uno sui nuovi percorsi della letteratura siciliana).
Sto pensando che potrebbe essere il caso di dedicare un post apposito per discutere di questo argomento (anche per evitare di andare fuori argomento rispetto ai temi di “Accabadora”).
Vedremo.:-)

Postato sabato, 29 agosto 2009 alle 11:15 da Massimo Maugeri


Intanto attendiamo i nuovi interventi di Michela (so che stamattina era in viaggio).
Per il momento, da una calda Catania, vi rinnovo i saluti e gli auguri per un buon fine settimana.

Postato sabato, 29 agosto 2009 alle 11:16 da Massimo Maugeri


@Massimo: sarà interessante la questione del regionalismo in letteratura, ma non vorrei che questo portasse poi ulteriore acqua al mulino della Lega. Certo, ci sono caratteristiche letterarie che accomunano gli scrittori siciliani, nonchè quelli sardi, ma al di fuori di queste due regioni non noto caratteristiche analoghe. Forse il fatto che si tratti di due isole ha il suo peso, ma sinceramente vedere un regionalismo per i lombardi, per i veneti, per i piemontesi o per gli umbri mi sembra un “tanticchia” azzardato.

Postato sabato, 29 agosto 2009 alle 12:11 da Renzo Montagnoli


et cetera
et cetera
padanità

ma va là
*
se l’acqua alla lega
dei mulini
la portasse *il regionalismo in letteratura*,
io, ne sarei lieto (e assaje assaje),sarebbe
post-post-tutto un punticino per
chi padanista nunn’è…

Postato sabato, 29 agosto 2009 alle 13:01 da Jorge Czysterpiller


Michela: gli scrittori umbri son pochini – e in compenso i quattro mori sono fantasticamente ovunque:) per non parlare del fatto che, io ho letto Niffoi, e se leggevo l’autibiografia di un nepalese in lingua me veniva più facile:)
A parte questo. La domanda di Massimo ci ha un senso, per delle connotazioni culturali che hanno le regioni italiane, e soprattutto certe regioni italiane – ci sono letterature regionali: per dire, questa è una roccaforte del ramo siculo (Massimo non fa er vago) ma per esempio anche la zona emiliana ci ha una sua roccaforte (Ugo Cornia, Paolo Nori..) io ora abito in casa di mia nonna, e in eredità ho ricevuto la sua biblioteca: un terzo è roba sovietica, un terzo è roba mondiale, il rimanente deh! è livornese:)
Non posso parlare della Sardegna in particolare perchè non è ho le competenze, e questo lo chiediamo noi a te. Posso dire che le specificità storiche e culturali delle singole regioni prducono delle originali soluzioni letterarie e linguistiche, che sarebbe provinciale etichettare come provinciali. … Sono soluzioni culturali di esperienza umana, tutti poi ci si possono riconoscere, e quello è il sale della lett(erat)ura.

Postato sabato, 29 agosto 2009 alle 13:01 da zau


Cari amici, vicini e lontani, caro Massimo,
gli ultimi due/tre mesi sono stati un po’ pesanti, ma sono qui e passeggio sulla cara Letteratitudine ogni tanto, come se andassi a Mergellina di notte, per scrutare il mare calmo e nero e sentire il respiro di chi dorme.
I temi di Massimo sono sempre “speciali”, questo in particolare, insieme col libro della brava Michela Murgia, e’ un dibattito che sto seguendo in silenzio, con passione, ma che, per la mia incapacità, a decidere persino quanto zucchero voglio nel caffé o se lo voglio di canna, non mi permette di esprimermi.
La morte degli altri, dei cari prossimi, anche del mio gatto, mi fa’ paura più della mia.
Sono sopravvissuto a mio padre, che è morto prima di compiere i 50 e spesso mi domando cosa avrebbe fatto a 51,52,53 anni, visto che io ora ne ho 55 e mi sento, essendo più adulto, padre di mio padre.

Ho un figlio dell’anima, lo abbiamo, mia moglie ed io, ed i miei figli lo hanno come fratello.
E’ un congolese. Non lo abbiamo adottato perchè povero – è figlio di intellettuali di Kinshasa – ma perchè ci siamo innamorati, perchè lui in Italia aveva bisogno di affetto più che di soldi e di una madre, visto che la sua l’ha persa da un pezzo.
E’ mio figlio. Quando è a casa (lui vive in un istituto religioso di Brescia e l’anno prossimo sarà sacerdote) è come se tornasse il terzo figlio.
Lo sgrido come un figlio se non mangia, e se lo sento tossire vado in ansia, e mia moglie piange le stesse lacrime quando lo vede andar via.
I figli sono pezzi di core, chiunque li abbia partoriti.

Postato domenica, 30 agosto 2009 alle 10:12 da Francesco Di Domenico Didò


Grazie per i nuovi commenti,
Michela Murgia (che, come accennato, è in viaggio) tornerà a intervenire quanto prima.
-
p.s. @ Renzo e Jorge
In verità ho anche in mente di organizzare un post sulla “questione dialetti” (non subito, però). Per il momento… shhh ;) … non ditelo a nessuno.

Postato domenica, 30 agosto 2009 alle 10:54 da Massimo Maugeri


Caro Didò,
grazie per il bellissimo e toccante commento. Come sai, Letteratitudine è sempre casa tua…

Postato domenica, 30 agosto 2009 alle 10:55 da Massimo Maugeri


Più tardi vorrei tornare sul libro e sui temi che tratta.
A dopo!

Postato domenica, 30 agosto 2009 alle 11:11 da Massimo Maugeri


@Massimo: all’introduzione del dialetto nella scuola, ha dedicato un bell’editoriale Ferdinando Camon, che ha dato luogo a un dibattito a cui ho partecipato volentieri e che ha visto anche l’intervento del ministro delle politiche agricole Zaia. Personalmente non sono contrario allo studio del dialetto, soprattutto in funzione storica etnografica; quello che non mi va è che sia obbligatorio l’apprendimento e fine a se stesso, e non tanto in un quadro di approfondimento culturale volto al recupero e alla conservazione delle tradizioni di una comunità.

Postato domenica, 30 agosto 2009 alle 11:40 da Renzo Montagnoli


Ringrazio tutti per le domande e la partecipazione al dibattito, che si estende molto oltre il blog: ieri sera a Vicenza il dibattito si è fatto fisico nell’auditorium cittadino, dove durante la presentazione di Accabadora qualcuno dal pubblico ci ha fatto riferimento e lo ha riproposto. Bellissimo!

@Didò: testimonianza commovente, che mi conferma una volta di più come le presunte specialità sarde siano invece molto meno tipiche di quel che piacerebbe credere ai “regionalisti”, compresi quelli sardi.

@Zau: certo che la domanda di Massimo ci ha un senso, ma solo se si dà per scontata l’esistenza della categoria “letteratura regionale”. In tal caso mi piacerebbe che ne fossero definiti i canoni, e a quel punto il mio primo libro, per non citare altri, ci rientrerebbe, considerato che parla di call center e molti mi hanno “accusato” o “lodato” per non aver scritto un libro “abbastanza sardo”? Non essendo stato sufficiente in entrambi i casi evidenziare che la Sardegna è piena di call center, immagino che gli stereotipi del “romanzo sardo” debbano per forza essere altri. L’ambientazione?
Una volta mi capitò di leggere, a chi sollevava la questione per la centesima volta, uno stralcio di un testo d’ambientazione pastorale, e di chiedere poi ai presenti di riconoscere l’autore: da Grazia Deledda ad Atzeni ci passarano tutti i sardi di qualche notorietà, e non ti descrivo lo stupore sconcertato dei volti quando quelle righe si sono rivelate come l’incipit di … Brokeback Mountain, a cui erano stati semplicemente cambiati i nomi americani di persone e di luoghi in nomi sardi. Et voilà, tutti ci vedevano il romanzo sardo. Per contro penso di traverso a Marco Missiroli, che ci ha dato prova in “Bianco” di come uno scrittore italianissimo possa scrivere un ottimo “romanzo americano”.
Allora è la lingua? E’ l’esotico delle parole attinte al pozzo della parlata regionale?
Certo nessuno nega che l’italiano declinato localmente abbia un peso nella creazione del mito della letteratura regionale, ma resta una scelta stilistica dell’autore, come ce ne sono altre: in realtà qualunque scrittore degno di questo nome può scrivere, se vuole, in un italiano da dizionario, e anche tra i sardi ce ne sono alcuni che lo hanno fatto.
Non è polemica, ma credo che quella della letteratura regionale sia una questione di lana caprina tutta italiana, che ad alcuni magari sarà servita per seguire il trend di mercato, ma che alla lunga non si tiene in piedi. O la Deledda dovrebbe restituire il Nobel. ;)

Postato domenica, 30 agosto 2009 alle 15:53 da michela murgia


Alla fine l’uomo è sempre uguale a se stesso, così come le vidende che gli capitano. Dipende dalla prospettiva con cui si guardano: l’uomo e le vicende. Se prendiamo un passo di Deledda senza riferimenti specifici al territorio e trasformiamo i nomi dei personaggi in nomi americani ecco che – et voilà – avremo un romanzo americano. Ma se questo è vero, allora è vero che non esiste nemmeno una “letteratura nazionale”, o europea. A meno che non si dia per scontata l’esistenza della categoria “letteratura nazionale”.
In fin dei conti stiamo parlando di segni su una superficie piana. Potremmo arrivare a sostenere che non c’è alcuna differenza tra le parole di un romanzo e un geroglifico sulla parete di una caverna. Sempre comunicazione è.

Postato domenica, 30 agosto 2009 alle 16:08 da Claudio


vidende = vicende

Postato domenica, 30 agosto 2009 alle 16:09 da Claudio


@ Renzo
Grazie, Renzo. Darò un’occhiata all’editoriale dell’ottimo Camon.
E sì, la “questione dialetti” potrebbe essere oggetto di un’iniziativa letteratitudiniana (ho un’ideuzza in mente).

Postato domenica, 30 agosto 2009 alle 19:10 da Massimo Maugeri


@ Michela
Grazie per il nuovo intervento e per… il suo incipit.
Mi fa sempre piacere constatare che Letteratitudine è seguito un po’ ovunque. Ne approfitto per salutare tutti gli amici di Vicenza :)

Postato domenica, 30 agosto 2009 alle 19:13 da Massimo Maugeri


Grazie anche a te, Claudio. Evidentemente la supposta esistenza (o inesistenza) di una letteratura regionale in Italia, fa discutere.
Prima a poi dedicherò all’argomento un post specifico.

Postato domenica, 30 agosto 2009 alle 19:15 da Massimo Maugeri


Torniamo al libro.
Qualcuno, nei commenti precedenti, faceva notare come – in alcuni casi – l’accompagnamento alla morte, o l’eutanasia, possano essere strumentalizzati dai parenti della persona malata.
Riporto, nel commento successivo, un brano tratto da “Accabadura”.
Tzia Bonaria viene chiamata dalla famiglia di un malato agonizzante per praticare il pietoso e amorevole gesto dell’accabadura…

Postato domenica, 30 agosto 2009 alle 19:42 da Massimo Maugeri


Da “Accabadora” di Michela Murgia
Einaudi, 2009
Pagg. 52 – 53
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Rimasta sola con il vecchio, lo esaminò. Gli occhi spalancati di Tziu Jusepi Vargiu avevano l’immobilità senza ritorno delle cose rotte. Bonaria gli prese la mano scarna tastando con attenzione il polso e l’avambraccio, e qualcosa in quel contatto le strappò un sussulto. Il vecchio emise un verso rauco.
- Chiamata ti hanno, alla fine…
Con la presa scheletrica trasse a sé la mano dell’accabadora, costringendo l’alta figura scura ad assecondarlo e chinarsi. Malgrado la sua debolezza, il sussurro del vecchio non si perse nella piega dello scialle, e Bonaria Urrai lo udì perfettamente. Fuori c’era la famiglia che attendeva pregando, ma l’accabadora non ci mise nemmeno il tempo di un Pater ave gloria a uscire dalla camera del vecchio, avendo cura di lasciarsi aperta la porta alle spalle. I parenti dell’uomo si alzarono nuovamente in piedi. Quando Bonaria Urrai si rivolse alla donna e al marito, rimpiansero di non essere nati sordi.
- Antonia Vargiu, per avermi chiamata senza motivo, siate maledetti voi tutti presenti.
In tanti anni non era mai stata costretta a dire quelle parole, ma ora che erano necessarie arrivarono alla lingua dritte come fiato.
- Per avermi mentito dicendomi che non parlava, siano maledetti i vostri figli, quelli che avete e quelli che verranno.
- No! – La donna che l’aveva accolta gridò per interromperla, mentre gli altri arretravano pronunciando scongiuri a mezza voce. – Stava morendo… lo ha detto anche il dottore!
L’accabadora non mutò espressione, né tono.
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© Michela Murgia, Einaudi
Diritti riservati

Postato domenica, 30 agosto 2009 alle 19:44 da Da “Accabadora” di Michela Murgia - Pagg. 52 - 53


Ecco, trovo che questo passaggio sia particolarmente forte e faccia riflettere…

Postato domenica, 30 agosto 2009 alle 19:44 da Massimo Maugeri


No, non credo che sia questione di lana caprina, e per altro non credo che sia questione solo linguistica – penso che la regionalità sia una specie di costellazione di temi e atmosfere, una sensibilità di fondo, collettiva che poi può declinarsi in infinite variazioni. E’ un mondo che parla.Mi viene il sospetto che te Michela intendi la specificità territoriale come una diminutio in qualche modo. Secondo me non lo è affatto: e non vuol dire certo che chi scrive nel centro di quella certa costellazione poi non sia in grado di uscirne, e sceglierne un’altra sia per linguaggi che per percorsi intellettuali. Io sono domestica, diciamo così per dire che è il mio territorio emotivo, di letteratura ebraica. Ecco che ne so: Werfel è una colonna della letteratura ebraica, ma questo non gli ha impedito di scrivere di fantascienza – un romanzo assolutamente esterno a quella sensibilità quei temi – quella costellazione. Certi altri invece li nascono e li muoiono, perchè lo vogliono o anche perchè non sono capaci di uscire. Ora la sarditudo non è il mio forte, e la Sardegna non è uno dei miei luoghi dell’anima, ma se lo fosse, mi piacerebbe trovare un canone. Che è pur sempre un cerchio nell’aria, mobile evanescente e dissolvibile – ma non più inutile di altri tanto blasonati “la letteratura dell’800″ “il romanzo russo” “le avanguardie del 900. Addensamenti.
Ps. Ma in Sardegna, non c’era quella storia della tettonica a zolle, per cui ci aveva l’aria di un posto tanto diverso dall’Italia, essendo che era la zolla dell’Ammeriga, laonde per cui ci giravano gli spaghetti western?
Che in effetti l’unica volta che ci sono andata pareva er gran Canion
:)

Postato domenica, 30 agosto 2009 alle 21:07 da zauberei


Ringrazio Zauberei per il nuovo intervento (non sapevo ci fosse il Gran Canyon in Sardegna :) ).
Ho rimesso in primo piano il post con il Letteratitudine Book Award:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/08/30/letteratitudine-book-award-2009/
Siete tutti invitati a partecipare.
-
Ma qui la discussione continua…

Postato domenica, 30 agosto 2009 alle 23:59 da Massimo Maugeri


@ Michela
A Vicenza hai “superato te stessa”. Sei un’autrice acutissima e una dotta, brillante conferenziera. Ne apprifitto per rinnovarti la mia ammirazione (ho accennato io a Letteratitudine e ai commenti a “Accabadora”) e il mio saluto.
@ Massimo
Da vicentino, ricambio il saluto anche a te.
@Renzo Montagnoli
Riguardo al dialetto da insegnare nelle scuole, penso anch’io che lo si debba studiare soltanto in funzione storico-etnografica. Facoltativamente.

Postato lunedì, 31 agosto 2009 alle 02:34 da ausilio bertoli


Michi ne approfitto per farti una domanda che ti avrei fatto a Vicenza ma appunto mi partiva il treno. Introduco il tema anche qui e poi vado con la domanda.
Il romanzo è ambientato nella Sardegna tra gli anni ‘50 e gli anni ‘70 del secolo scorso. Un periodo di crisi. Di passaggio per certi versi, se non ti ho capito male, da una comunità governata da leggi, sedimentate nei secoli, che erano per lo più in funzione di una migliore perpetuazione, protezione e conservazione della comunità paesana. Appunto: “Ci sono posti dove la verità e il parere della maggioranza sono due concetti sovrapponibili, e in quella misteriosa geografia del consenso, Soreni era una piccola capitale morale”. (pag. 62)
Poi rimando ad uno dei tuoi post precedenti, su questo sito, in cui sostieni che non esisteva il concetto di autodeterminazione.
Poi la frattura sessantottina, dove questo concetto diventa centrale. Se ne vedono dei segni anche nel romanzo. Bonaria per certi versi si autodetermina. Maria pure, va a Torino.
A me però la frattura non pare risolta in una delle due direzioni da nessuno dei personaggi. Bonaria procede col suo lavoro e dalle sentenze che spara a Maria capiamo che non ha cambiato opinione. Mentre Maria è a Torino sua sorella non le scrive qualcosa tipo: ‘Carissima, se la tua autodeterminazione te lo dovesse consentire, ti prego di vagliare l’opportunità di rientrare in Sardegna ed eventualmente accudire la signora Bonaria gravemente inferma’, bensì, molto più direttamente: “Mariedda mia, torna prima che puoi: Bonaria Urrai ha avuto un ittus, e forse muore” (pag. 143).
E ora le domande:
- E’ solo una mia impressione che questa frattura non è risolta in una delle due direzioni, non c’è una risposta, o mi sono perso qualcosa?
- Nel caso ci abbia azzeccato: pensi che sarà risolta o no? Cioè: possiamo aspettarci un seguito del romanzo?
- Tu che ne pensi? Tu, personalmente, la risolveresti?

merci

Postato lunedì, 31 agosto 2009 alle 07:25 da dorian


Zau, non sarei onesta se non ammettessi che ci sono alcuni “temi”, quelli che a scuola ci avrebbero fatto chiamare pomposamente “i capisaldi della poetica”, che nei romanzi scritti dai sardi ricorrono con una certa continuità, e riappaiono anche quando si ambienta la narrazione in Danimarca (esempio non casuale). Se dovessi analizzarli ti direi che per me alcuni potrebbero essere questi:
- un certo fatalismo negli eventi, l’idea che le cose succedano perché devono succedere, la tendenza a considerare il Destino come un personaggio occulto (in questo ci aveva colto alla grande chi aveva visto nella Deledda l’eco dei grandi russi, e Fois e Angioni sono perfettamente in quella scia).
- i temi dello sradicamento o del radicamento forzato, declinati nel rapporto di amore-odio con il mare e il suo doppio, la terra, con tutti i loro simbolismi (la Giacobbe, ma anche Soriga).
- il rapporto del tutto personale con la storia e con la geografia, che si declina – senza una sola eccezione – nella tendenza a generare macondi, geografie dell’anima, e a sovrapporre tempi ed eventi secondo percezione, propria o dei personaggi. Oppure ad astrarre del tutto la storia da un qualsiasi contesto geostorico, come fa Niffoi nella maggior parte dei suoi romanzi.
Ce ne sarebbero altri, ma non sono sicura che chi cerca in libreria il “romanzo sardo” seguendo le suggestioni della classifica abbia in mente queste filigrane. Sono più propensa a credere che molti inseguano l’esotico primordiale, il naïf sonoro di una lingua comunque “straniera”, l’altrove, ma vicino a casa, l’indigeno che li confermi come civili, lo stereotipo che faccia il paio con il loro pre-giudizio. Sono quelli che poi arrivano e cominciano le frasi con “voi sardi…”, e la barbagia dei sequestri, e il codice della vendetta, e il carattere schivo e orgoglioso, e le usanze che avete solo voi etc etc. E’ la gente che si sente tradita se arriva in Sardegna e scopre che i figli dei sardi mangiano i sofficini esattamente come i suoi, e che i call center sono quasi più degli ovili. Non ho problemi a dirti che sono questi i casi in cui considero la qualifica di “regionale” come diminutio, e la mia personale statistica attesta che si tratta della stragrande maggioranza.

Ho poi una resistenza di principio verso il concetto di regionale, perché lo considero etnocentrico dal punto di vista culturale, mi pare appartenga a una visione dell’Italia fatta di centri e di periferie, con visioni urbane dominanti a dettare i canoni. Fermo restando che per me la Sardegna è nazione di suo, quindi non è regione di niente, non troverei accettabile la prospettiva nemmeno se stessimo parlando della Basilicata.

p.s.
per coincidenza sto leggendo proprio in questi giorni gli scritti politici di Yeoshua sull’identità ebraica.

Postato lunedì, 31 agosto 2009 alle 09:14 da Michela Murgia


@Dorian, quando dico che il concetto di autodeterminazione è estraneo a quel contesto, il senso non è così ampio come lo stai impostando. Non vuole assolutamente dire che ciascuno non possa farsi le sue scelte; piuttosto significa che un comunità che percepisce tutti i suoi appartenenti come strettamente interlacciati non concepirà un privato individuale (come lo intendiamo noi oggi) su cose come la vita, la morte e i passaggi intermedi, se non in termini molto blandi.

Mi incuriosisce che tu veda irrisoluzioni nel percorso dei personaggi, perché mi pare che il romanzo abbia invece una struttura circolare dove “tutto torna”. Per questo, ma non solo per questo, non penso sia credibile la tentazione di un sequel.

Postato lunedì, 31 agosto 2009 alle 09:25 da Michela Murgia


@Michela. Non sono sicuro del fatto che lo intendessi (esplicitamente, in qualsiasi modo) ma in effetti, per come ti ho fatto la domanda, essa implicasse la concezione che dici tu. Le irrisoluzioni le vedevo partendo da quella concezione che non coincide con la tua. Da un lato Andria stravolte il compito dell’Accabadora (quindi sembra in qualche modo rompere con ciò che si deve fare); d’altro lato questo suo stravolgerlo, come hai detto anche tu a Vicenza, è all’interno di un contesto per cui l’uomo era il balente, il forte, eccetera. Provando a tradurre: non è buono per andare in campagna, è già morto. Quindi comunque lo stravolgimento di Andria è fondato su una concezione che ha le sue radici nella conservazione della famiglia e della comunità.
Maria. Mi chiedo. Maria va Torino e vede dell’altro. L’andare a Torino era stato in qualche modo un gesto di autodeterminazione, a seguito della visioen di Bonaria Urrai come “traditrice”, rispetto a quanto Maria si aspettava. A questo punto mi chiedo: Maria avrebbe potuto rompere a sua volta il patto, non rispettarlo e non tornare neanche in punto di morte, non considerarsi più filla ‘e anima? Sua sorella non lo prende manco in considerazione, giustamente non si fa idee troppo strane. Ma neanche Maria mi pare, comunque rimane al gioco, continua ad essere filla ‘e anima.
Se focalizzerò meglio ne parleremo magari in futuro

Postato lunedì, 31 agosto 2009 alle 11:48 da dorian


Caro Massimo, il passo del libro della Murgia che hai inserito è davvero bello e FORTE. Grazie per la segnalazione. Leggerò il libro con sana avidità.

Postato martedì, 1 settembre 2009 alle 10:39 da Loretta


Ringrazio Dorian e Michela per gli interventi di ieri.
Sì, Loretta. Leggi “Accabadora”. Sono certo che non rimarrai delusa.

Postato martedì, 1 settembre 2009 alle 22:50 da Massimo Maugeri


pensavo che si sarebbe svolto tutto come da copione ed invece non e’ andata esattemente cosi’. nella mia ingenuita’ ero insomma convinta, che mia madre, in virtu’ della sua vita onesta ed integerrima, sarebbe morta in un alone di santita’: senza pena, senza affanni ma, soprattutto, senza agonia. dimenticavo che i santi sono tali in virtu’ della loro sofforenza e che piu’ e’ grande piu’ sono santi. ci siamo parlate a giugno. come stai, ho chiesto, lei mi ha risposto con un ” BENE” cosi’ nitido e squillante da sembrare una stella cadente.E’ stato dopo, quando ha cominciato a chiedere notizie di me, dei miei figli, che la sua voce si e’ persa in rantoli, ingarbugliandosi in suoni gutturali neanche paragonabili al balbettio incerto della prima infanzia. Ho capito che era tempo di andare.
Guarda chi c’e', dice mia sorella;lei apre gli occhi e li richiude come se non avesse visto nessuno. Verso sera invece, quando il suono della mia voce insunuandosi sotto il derma e raggiungendo fasci di capillari e percorrendo sentieri interni e’ andato finalmente a toccare qualche corda nella corteccia cerebrale, mi ha guardato con l’occhio di chi ha preso coscienza di chi ha di fronte. l’ho baciata e lei ha ricambiato con una suono da fumetto “smack ” con quel mento da punto interrogativo al contrario e con il labbro inferiore totalmente scomparso all’interno della bocca, senza dentiera. quando il labbro superiore si abbassava andava a toccare a meta’ del mento, producendo appunto questo suono da ” smack “. Attimi, in ore passate con la bocca aperta, i tubi dell’ossigeno, la lingua ispessita e nera, le chiazze bianche di infezione all’interno della bocca. una cosa disgustosa, disumana, indegna e vergognosa, lo spettacolo di mia madre. Rantolava ed ogni tanto emetteva suoi di dolore con tonalita’ molto piu’ acute e strazianti con il viso contorto dalla sofferenza, la bocca chiusa in una smorfia e gli occhi strizzati. con una mano spesso si torceva il fiacco ventre oppure andava a contenere il battito del cuore che le scuoteva il petto scarno. Spesso deglutiva a fativa chissa’ quali miasmi biliosi come se anche lo stomaco si fosse trasformato in un laboratorio chimico ad esalazioni di acido cloridrico.Cosi’ sabato 11, domenica 12, lunedi’ 13 martedi’ 14 luglio. Io ho sempre creduto nel valore catartico della preghiera, ma adesso ripetevo formule prive di ogni potere ed a queste formule si affiancava l’istinto omicida di chi vuole porre fine ad uno spettacolo indegno. Con i cani, quando arriva il loro momento, li portiamo dal veterinario per la puntura di rito. e se loro non si lasciano morire da soli, e’ solo per non darci un dolore in piu’ ma anche loro dicono, a loro modo addio alle cose con quegli occhi che solo il dolore affettivo turba ma mai quello fisico. Per gli uomini non si fa’. eppure io per mia madre l’avrei fatto e sarebbe stato anche facile in virtu’ della sua fragilita’. io volevo toglierla da quella miseria dove anche le piaghe da decubito, dopo aver atteso a lungo, ora si facevano dappresso e cominciavano a lacerare le carni in quei punti dove l’attrito tra l’osso ed il materasso si faceva piu’ forte. e mentre questo orribile mostruoso pensiero affiorava, la preghiera si faceva piu’ intensa ma non apportava ne’ sollievo ne” conforto ne’ a me, ne’ tanto meno a mia madre. La sacralita’ dell’agonia e’ una chimera al vento e solo chi non la conosce puo’ ancora crederci. Mia madre d’un tratto era come un albergo a fine stagione. le luci si spegnevano ad una ad una nelle camere lasciate vuote e le porte si chiudevano ad una ad una ad ogni partenza. Vedevo il corpo di mia madre come un puzzle dove le tessere, tutte nere, fossero state sparse alla rinfusa. e vedevo la morte, qualla con il mantello nero penetrare sotto la pelle di mia madre e rimanere li’ in silenzio, tra uno spasimo e l’altro, per poi avanzare a ritmo sempre piu’ incalzante. ma ho anche visto il volto della madonna, un’immagine minuta del suo viso nella pupilla acquosa di mia madre, in una lacrima, o forse una goccia di umore, affiorata all’angolo interno dell’occhio sinistro. Arriviamo al 14 luglio, martedi’. la preghiera, la mia, si intensifica. non mi muovo da vicino a letto. mi viene in mente una preghiera di mia madre bambina e gliela dico: a capo al letto mio ci sta’ l’angelo di Dio, a capo a pee ( piede ) l’angelo Gabriele eppoi non me ne ricordo piu’. mia madre apre gli occhi, come se fosse infuriata dalla mia dimenticanza o dal tono un po’ scherzoso con cui l’ho detta. il suo sguardo ha ancora il potere di gelarmi anche se fingo un controllo che non c’e’. Riprendo a pregare in silenzio per non disturbare mia sorella che accarezza la mano di mia madre e le parla come si parla ad un bambino che abbia smarrito, alla fiera, i propri genitori. Lascia stare mamma, dice mia sorella, fai la brava, non puoi tardare, tua madre ti aspetta, lei vuole prenderti in braccio ed anche il tuo papa’ e li’ ed i tuoi fratelli che si stanno chiedendo come mai ci metti tanto. sono tutti cosi’ contenti di vederti che non vedono l’ora. Il viso di mia madre lentamente si rasserena. l’espressione perde la durezza della sofferenza ed il respiro si fa’ regolare, ma qui, come da copione, pronuncia il nome di mio fratello, quello che non e’ ancora arrivato. Vado a letto. non riesco a dormire e d’un tratto sono spaventata da tutta questa folla di ombre che entra da ogni parte della stanza. ma non sono ne’ buone ne’ contente, ne’ felici. un asciugamano da bagno cade dalla balaustra della scaletta che porta verso il bagno, con un rumore di roccia. Vado nel letto di mia sorella. La notte mia madre riposa con questo respiro regolare che quasi ritma i nostri sonni. e’ stato al mattino nell’intervallo, tra la sostituzione della bambola ad ossigeno piena, con la vuota che mia madre e’ spirata, lasciando cadere lentamente il mento sul petto con due lacrime quasi cristallizzate, sul ciglio esterno degli occhi. Quelle lacrime mi sono entrate nel petto come due lame e ancora sono li’ per questo mistero in cui e’ racchiuso il loro significato. La pragmaticita’ di mia sorella, ha trovato la via giusta per accompagnare mia madre verso un cammino che non voleva ssolutamente affrontare. Aldila’ del fatto che le mamme non dovrebbero morire mai, la morte e’ prematura a qualsiasi eta’ perche’ viene a privarci dell’unica certezza che ci pare di conoscere bene: la vita. Mia madre e’ morta all’eta’ di 99 anni e 4 mesi. ciao a tutti

Postato mercoledì, 2 settembre 2009 alle 12:55 da NICOLETTA MORRICO


Cara Nicoletta, questo tuo intervento è bellissimo.
Grazie per aver condiviso con noi la tua esperienza…

Postato mercoledì, 2 settembre 2009 alle 21:53 da Massimo Maugeri


Faccio i migliori auguri a Michela Murgia per aver vinto – sabato, 22 maggio – il “Premio letterario SuperMondello 2010″ e aver ricevuto contestualmente la comunicazione di far parte della cinquina dei finalisti del “Premio Campiello” di quest’anno (aggiudicandosi, dunque, il Premio Selezione Campiello).
Il libro premiato si chiama “Accabadora” (Einaudi) e riconfermo le parole di elogio espresse nel post del 24 agosto 2009.

Postato lunedì, 24 maggio 2010 alle 01:14 da Massimo Maugeri


Però non mi limito agli auguri e rimetto in primo piano il post.
Brava, Michela!

Postato lunedì, 24 maggio 2010 alle 01:14 da Massimo Maugeri


Se qualcuno volesse riprendere la discussione, ovviamente è il benvenuto.

Postato lunedì, 24 maggio 2010 alle 01:16 da Massimo Maugeri


mi fa piacere che questo libro di Michela Murgia abbia ricevuto questi riconoscimenti. Lessi Accabadora mesi fa e ne rimasi molto affascinato. Davvero un bel libro.

Postato lunedì, 24 maggio 2010 alle 10:17 da Alberto


Un abbraccio forte a Michela, brava davvero!!!
Liz

Postato martedì, 25 maggio 2010 alle 15:10 da Liz


Un saluto ad Alberto e a Liz.
E ancora complimenti a Michela.

Postato martedì, 25 maggio 2010 alle 21:23 da Massimo Maugeri


letto….ve lo consiglio!

Postato martedì, 25 maggio 2010 alle 23:13 da Patrizia Piras


Complimenti a Michela Murgia anche da parte mia.

Postato mercoledì, 26 maggio 2010 alle 09:17 da Amelia Corsi


Ho chiamato Michela venerdì mattina, al cellulare. Era appena atterrata a Venezia. Ed era emozionata. Le ho detto: “ho una sensazione positiva… vincerai il Campiello”. Lei mi ha ringraziato (magari avrà fatto gli scongiuri… chissà). Ma ciò che conta è che il Premio è andato a un libro assolutamente meritevole, di cui – peraltro – avevamo avuto modo di discutere l’estate scorsa proprio qui a Letteratitudine, con la partecipazione della stessa autrice.

Postato domenica, 5 settembre 2010 alle 02:07 da Massimo Maugeri


Complimenti, Michela! Cento di questi Premi… e di questi libri.

Postato domenica, 5 settembre 2010 alle 02:07 da Massimo Maugeri


GRANDE, VERAMENTE GRANDE, MICHELA!
un abbraccio
Liz

Postato domenica, 5 settembre 2010 alle 09:39 da Liz


Carissima Sig. ra Murgia
poche volte ho provato una simile soddisfazione per la vincita di un autore! Bravissima. Il suo libro meritava questo riconoscimento! …e mi permetta di esternarle tutta la mia gioia anche per quella sua risposta diretta, leale, vera e giusta alle osservazioni del dott. Vespa…Dire che anche lui è un precario…Nessuno, se non uno scrittore che fa dell’arte uno strumento di umile e santa ricerca della verità, poteva avere un simile coraggio. Una simile – e serena – voglia di precisare.Senza arroganza, senza intemperanza. Semplicemente palesandosi con la propria dignità di essere umano.
Grazie di tutto: della scrittura e del bellissimo esempio.
Professor Emilio

Postato domenica, 5 settembre 2010 alle 11:32 da Emilio


mi ero persa questo interessantissimo dibattito, lo leggo ora con grande soddisfazione, perché Accabadora è un libro di grandi contenuti ma soprattutto di bella e nitida scrittura. un premio davvero meritato!

Postato domenica, 5 settembre 2010 alle 12:01 da Gloria


grazie Massimo,
a Michela Murgia, dalla Sardegna,da
marlene

Postato domenica, 5 settembre 2010 alle 12:25 da Marlene Carboni


Cultura
04/09/2010 – IL PREMIO LETTERARIO FINISCE ALL’EINAUDI
Michela Murgia vince il Campiello
“Il mio libro per l’eroina Sakineh”

Michela Murgia ha esordito nel 2006 con “Il mondo deve sapere”
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La scrittrice sarda stacca i favoriti Premiata la sua storia ambientata nella Sardegna Anni Cinquanta
-
VENEZIA
Ha vinto la Sardegna degli Anni Cinquanta, la Sardegna delle donne e dei dolori. Il premio Campiello, a sorpresa, va a Michela Murgia, trentottenne al secondo romanzo che con il suo Accabadora (Einaudi) ha staccato Gad Lerner, Antonio Pennacchi, Gianrico Carofiglio, Laura Pariani. Per lei 119 voti su 300. «Non dedico questo premio alla Sardegna perchè la Sardegna è capace di sollevarsi da sola, ma lo dedico a Sakineh, la donna iraniana che rischia la lapidazione perchè è una donna forte che sta lottando», ha detto la Murgia dopo la vittoria. «Questo libro – ha spiegato parlando di Accabadora – esprime il mio sguardo precario sul mondo, è un doppio sguardo, sulle cose serie e su quelle divertenti. Forse è segno di schizofrenia o di eclettismo».

Il libro della Murgia racconta la vita di Maria, bambina, che abita in casa dell’anziana sarta Bonaria Urrai a Soreni dove tutti sanno che, pur non essendo parenti, la piccola è destinata diventare la sua erede. E se dapprima Maria è spaventata dalle uscite notturne della vecchia vestita di nera, infine capirà che la sua è una pazienza quasi millenaria delle cose della vita e della morte. il suo compito è quello di entrare nelle case per portare una morte pietosa: il gesto finale e amorevole dell’accabadora, l’ultima madre, l’eutanasia.

In attesa del verdetto finale, sul palco della Fenice si sono alternati momenti istituzionali e di spettacolo: protagonisti, accanto a Bruno Vespa, l’attrice Andrea Osvart e il cantautore Simone Cristicchi. Oltre all’assegnazione del premio alla Avallone e a Pietro Grossi, vincitore del Campiello Europa – celebrato lo scorso maggio in Inghilterra – e al vincitore del Concorso Campiello Giovani, italiano ed estero, c’è stato l’omaggio a Carlo Fruttero, insignito dalla Fondazione Il Campiello (guidata dall’imprenditore Andrea Tomat e il Comitato di Gestione, presieduto da Alessandra Pivato). Un nuovo riconoscimento per «un’insigne personalità della cultura letteraria italiana contemporanea».

Postato domenica, 5 settembre 2010 alle 12:27 da da LA STAMPA del 4/9/2010


Complimenti a Michela Murgia.
Per completezza di informazione…
Michela Murgia, autrice dello splendido romanzo d’esordio “Accabadora” (Einaudi) ha vinto il Premio Campiello 2010, con 119 voti su 300, battendo Gad Lerner, Antonio Pennacchi, Gianrico Carofiglio e Laura Pariani. La scrittrice sarda è sempre stata in testa durante lo spoglio. Il suo principale avversario, il favoritissimo della vigilia Antonio Pennacchi, reduce dal trionfo nel premio Strega con “Canale Mussolini” (Mondadori), ha avuto 73 voti. Gianrico Carofiglio con “Le Perfezioni provvisorie” (Sellerio) ha totalizzato 62 voti. A seguire Gad Lerner con “Scintille” (Feltrinelli) fermo a 21 voti, ultima Laura Pariani con “Milano è una selva oscura” (Einaudi) con 13 voti.

Postato domenica, 5 settembre 2010 alle 12:40 da Jo Vanni


Grazie mille per i commenti. E ancora complimenti a Michela!

Postato domenica, 5 settembre 2010 alle 12:49 da Massimo Maugeri


Grande Michela! il tuo romanzo ha una scrittura spettacolare e merita tutti i premi del mondo.
Sono felicissima per te e un po’ anche per la letteratura italiana ed ovviamente.. ad majora!

Postato domenica, 5 settembre 2010 alle 12:58 da isabella


anche per me si tratta di un ottimo libro. Campiello strameritato

Postato domenica, 5 settembre 2010 alle 13:15 da enrico gregori


Complimenti a Michela… in siciliano usiamo anche noi “acabar” che è divenuto ACCAPARI, nel senso proprio di finire. Anche ACCABARI, ACCABBARI sono usati moltissimo.
Mi è piaciuta molto la dedica del premio.

Postato domenica, 5 settembre 2010 alle 14:44 da Maria Lucia Riccioli


[...] Il premio Campiello 2010 se lo aggiudica Michela Murgia con il suo libro ‘Accabadora’ (edito da [...]

Postato domenica, 5 settembre 2010 alle 20:34 da Premio Campiello 2010, per salvare Sakineh | Storia Continua


Meraviglioso tema e autrice indimenticabile. Il palco del Campiello brillava e la letteratura, la sua magia, il suo valore, pareva farsi creatura vera e viva, rotolante, festosa, non oltraggiata.
Bravissima! E’ una gioia nel mondo dei libri e dei sogni.

Postato domenica, 5 settembre 2010 alle 20:53 da simona lo iacono


Quando ho assistito su RAI UNO in diretta all’assegnazione del Campiello, ho pensato: ”Adesso di sicuro Massimo aggiorna il post su Michela Murgia”. E cosi’ e’ – giustamente – stato. Complimenti sinceri e vivissimi all’autrice e all’editore che ci ha scommesso su!
Sergio Sozi

Postato domenica, 5 settembre 2010 alle 22:56 da Sergio Sozi


Anch’io sono contentissima per questo premio! Very proud. Complimenti a Michela Murgia.

Postato domenica, 5 settembre 2010 alle 22:57 da roberta


Michela è bravissima, ha una bellissima prosa.
non c’è paragone co quaa morta de sonno che ha vinto l’anno scorso.
Sono contentissima:)

Postato domenica, 5 settembre 2010 alle 23:02 da zauberei


… a questo punto compro il libro. E non perché ha vinto il Campiello ( anche se mi fa piacere sia andato ad una scrittrice, e per giunta meritevole. Roba rara, di questi tempi) ma perché il tema mi affascina. Meno di un mese fa sono stata in Gallura e ho visto con i miei occhi il martello di legno usato da una accabadora in un museo di storia locale. Si tratta di un arnese pesante. Pare che l’angelo della morte sapesse usarlo a dovere, nel modo giusto. Bastava un colpo secco per porre fine alla sofferenza del malato che chiedeva riparo definitivo al suo immenso dolore . Eutanasia? Credo proprio di si. Mi sono ripromessa che al ritorno ne avrei dovuto capire di più. Inizierò dal romanzo di Michela. Congratulazioni!

Postato lunedì, 6 settembre 2010 alle 01:06 da Rosa Maria


Auguri a Michela Murgia per questo premio meritato. Avevo letto Accabadora tempo fa e confermo che si tratta di un gran bel romanzo.

Postato lunedì, 6 settembre 2010 alle 09:18 da Alfredo


mi unisco al coro degli auguri. non ho letto questo libro della Murgia ma, ancha grazie a quello che ho letto in questo post, credo proprio che lo farò in tempi brevi.

Postato lunedì, 6 settembre 2010 alle 09:21 da giacomo tessani


Bravissima, Michela! Complimenti! E complimenti anche per aver dedicato a Sakineh questa vittoria.
Ho comprato il libro appena è uscito, affascinata dal titolo suggestivo, dall’immagine di copertina (anche questa conta, quando ignori tutto dell’autore). Un romanzo bello in tutti i sensi: temi, trama, qualità di scrittura.
Ho letto con estremo piacere e godimento il dibattito qui su. Una domanda: quando proponi questi “capisaldi”:

- un certo fatalismo negli eventi, l’idea che le cose succedano perché devono succedere, la tendenza a considerare il Destino come un personaggio occulto (in questo ci aveva colto alla grande chi aveva visto nella Deledda l’eco dei grandi russi, e Fois e Angioni sono perfettamente in quella scia).
- i temi dello sradicamento o del radicamento forzato, declinati nel rapporto di amore-odio con il mare e il suo doppio, la terra, con tutti i loro simbolismi (la Giacobbe, ma anche Soriga).

non pensi che siano specifici di tutta l’area mediterranea? E che in qualche modo caratterizzino l’espressività artistica dei popoli mediterranei? Mi sembra così restrittivo etichettare le letterature in ambiti geografici così piccoli… Anch’io sto facendo la stessa cosa ampliando appena gli orizzonti. Abbiamo bisogno di mettere un’etichetta su ogni cosa, di incasellarla a dovere. Ci dà un senso di sicurezza, l’illusione di aver finalmente capito. Ma la letteratura ha un altro compito, quello di condurci per mano verso i grandi temi del nostro vivere attraverso le storie che ci racconta. Tutto il resto è contorno. Più o meno piacevole o straniante, ma decisamente secondario.

Postato lunedì, 6 settembre 2010 alle 12:30 da Marinette


[...] così, grazie a Letteratitudine, che il libro di Michela Murgia è ambientato nella Sardegna degli anni ‘50 e tratta temi [...]

Postato lunedì, 6 settembre 2010 alle 12:44 da Michela Murgia con Accabadora vince il Campiello 2010


[...] Michela Murgia, con il suo romanzo Accabadora (Einaudi) ha vinto il Premio Campiello 2010 [...]

Postato lunedì, 6 settembre 2010 alle 12:57 da Letteratitudine. Michela Murgia vince il Premio Campiello 2010


Pur non avendo letto ”Accabadora”, una domandina mi piacerebbe porla all’autrice:
nel 2011 ci sara’ la celebrazione del 150o anniversario dell’Unificazione Italiana. Come vede Lei questa ricorrenza? Quale significato le attribuisce ed attribuisce all’Unificazione stessa?
Grazie
Cordiali Saluti
Sozi

Postato lunedì, 6 settembre 2010 alle 13:46 da Sergio Sozi


Mi è istintivamente simpatica Michela Murgia,è accattivante quel sorriso intelligente e mi piacciono le cose che dice nei commenti, ho seguito con interesse il post che pubblicò Massimo su di lei e il suo libro, che non ho ancora letto, ma che mesi fa prima delle vacanze rigiravo fra le mani in libreria e mi dicevo”prima o poi devi leggerlo!”. E’ arrivato il momento!
i migliori complimenti all’autrice!

Postato lunedì, 6 settembre 2010 alle 16:36 da francesca giulia marone


grande Michela Murgia. sono felicissima della sua vittoria. Complimenti!

Postato lunedì, 6 settembre 2010 alle 18:24 da tiziana


Grazie a tutti.
Interverrò più tardi.

Postato lunedì, 6 settembre 2010 alle 20:17 da Massimo Maugeri


A me invece sfugge completamente – al di la dei commenti su ‘e zinne – perchè un premio letterario deve essere condotto da Bruno Vespa?
Perchè non un divulgatore culturale?
Massimo ce stavi mejo te.

Postato lunedì, 6 settembre 2010 alle 23:10 da zauberei


[...] Guarda Originale:  ACCABADORA, di Michela Murgia, vince il Campiello 2010 [...]

Postato lunedì, 6 settembre 2010 alle 23:11 da ACCABADORA, di Michela Murgia, vince il Campiello 2010


@ Zauberei
Non c’è dubbio, cara. Vuoi mettere la mia camicia celeste mai lavata, con la giacca e cravatta di Vespa?
;)

Postato martedì, 7 settembre 2010 alle 01:25 da Massimo Maugeri


Grazie mille a tutti per i vostri commenti: Isabella, Enrico, Maria Lucia, Simona, Francesca Giulia, Jo, Zauberei, Rosa Maria, Tiziana, Marinette, Alfredo, Giacomo, Roberta, Sergio, Marlene, Liz, Emilio, Gloria, Patrizia… e tutti gli altri.
Scusate se dimentico qualcuno.

Postato martedì, 7 settembre 2010 alle 01:27 da Massimo Maugeri


@ Marinette e Sergio
Grazie di cuore per le vostre domande, ma non so se Michela avrà la possibilità di rispondere. In questo momento credo sia “presa d’assalto” dai vari media…

Postato martedì, 7 settembre 2010 alle 01:29 da Massimo Maugeri


Va be’… dopotutto non importa se ADESSO la signora Murgia non mi rispondera’, Massimo, pero’ prima o poi la trascinerai nuovamente qui, vero? Eh eh eh… o la trascinero’ io in Slovenia…
Intanto le mando nuovamente le mie migliori congratulazioni per il Campiello (e tra parentesi: conto di incontrare il suo corregionale Salvatore Niffoi entro i prossimi mesi, per una delle mie solite ”interviste slovene a scrittori italiani”…).
Abbracci sentiti a entrambi

Postato martedì, 7 settembre 2010 alle 02:44 da Sergio Sozi


Massimo la tua camicia azzurra non lavata è si certo indubbiamente meglio:)

Postato martedì, 7 settembre 2010 alle 08:13 da zauberei


Ho avuto il piacere di leggere il bellissimo libro della Murgia già da un po’, in tempi non sospetti e devo dire che il premio è meritatissimo.

Postato martedì, 7 settembre 2010 alle 09:56 da Cristina Marchi


Lavata o non lavata la camicia di Massimo non avrebbe mai avuto cadute di stile e macanza di classe con le signore della letteratura….

Postato martedì, 7 settembre 2010 alle 10:01 da Francesca Giulia Marone


Mi unisco agli auguri di Massimo e formulo altri nuovi sccessi.
Gli amici di Letteratitudine sono anche miei!
Armando
http://www.circoloculturaleluzi.net

Postato martedì, 7 settembre 2010 alle 16:25 da Santoro Salvatore Armando


Cara Michela, sono una piccola scrittrice (ho infatti solo 13 anni) e desidero mandarti un grandissimo bacio per il successo ottenuto.
Durante quest’anno ho scritto il mio primo libro (pubblicato dal Foglio Letterario) ed ho scoperto quanta può essere la gioia che ti trasmette una persona o un riconoscimento che attesta la bontà di quello che hai fatto.
Se tu ci sei riuscita significa che sei veramente in gamba, brava!
Un piccolo grande abbraccio,
Diletta Rosestolato

Postato martedì, 7 settembre 2010 alle 18:42 da Diletta Rosestolato


La mia domanda è formulata a tutti. Certo m’interessa in particolar modo l’opinione di Michela, ma mi piacerebbe sentire anche gli altri.

Postato martedì, 7 settembre 2010 alle 19:19 da Marinette


Grazie mille ai nuovi amici intervenuti: Diletta, Cristina e Salvatore Armando.

Postato martedì, 7 settembre 2010 alle 22:59 da Massimo Maugeri


@ Marinette
Cara Marinette, rilanciamo allora le tue domande e i tuoi spunti.
La riporto di seguito, in corsivo…
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Ho letto con estremo piacere e godimento il dibattito qui su. Una domanda: quando proponi questi “capisaldi”:

- un certo fatalismo negli eventi, l’idea che le cose succedano perché devono succedere, la tendenza a considerare il Destino come un personaggio occulto (in questo ci aveva colto alla grande chi aveva visto nella Deledda l’eco dei grandi russi, e Fois e Angioni sono perfettamente in quella scia).
- i temi dello sradicamento o del radicamento forzato, declinati nel rapporto di amore-odio con il mare e il suo doppio, la terra, con tutti i loro simbolismi (la Giacobbe, ma anche Soriga).

non pensi che siano specifici di tutta l’area mediterranea? E che in qualche modo caratterizzino l’espressività artistica dei popoli mediterranei? Mi sembra così restrittivo etichettare le letterature in ambiti geografici così piccoli… Anch’io sto facendo la stessa cosa ampliando appena gli orizzonti. Abbiamo bisogno di mettere un’etichetta su ogni cosa, di incasellarla a dovere. Ci dà un senso di sicurezza, l’illusione di aver finalmente capito. Ma la letteratura ha un altro compito, quello di condurci per mano verso i grandi temi del nostro vivere attraverso le storie che ci racconta. Tutto il resto è contorno. Più o meno piacevole o straniante, ma decisamente secondario.

Postato martedì, 7 settembre 2010 alle 23:01 da Massimo Maugeri


E ci siamo.

Il Campiello è a centro tavola e io non mi sono ancora stancata di dire grazie a tutti quelli che chiamano, scrivono, bussano alla porta, commentano su facebook e mi fanno arrivare la loro gioia e soddisfazione tramite amici e conoscenti.
Grazie, davvero.

Grazie agli amici che mi hanno salutato all’aeroporto di Venezia con i fiori e quelli che mi hanno accolto all’aeroporto di Elmas con le vuvuzelas, il lancio di gueffus e i cartelli di benvenuto come fossi la nazionale al ritorno da una trasferta vittoriosa: le uniche lacrime di questo Campiello le ho versate con voi. Grazie alle persone che lavorano nel supermercato dietro casa, che stamattina alle otto e mezza quando sono entrata a comprare il latte sono scoppiate in un’ovazione di saluto. Grazie al mio paese intero, che ha salutato questa premiazione come un fatto comune, come sempre, come tutto.

Grazie anche al segretario di iRS, che stamattina ha scritto una nota pubblica per manifestare la soddisfazione degli amici indipendentisti per questo premio. Ma grazie a tutti gli uomini e le donne di ogni colore politico che in questo momento difficile per la Sardegna hanno messo da parte le lotte civiche che spesso ci vedono antagonisti per leggere in questa mia soddisfazione una cosa che onora tutti noi. In particolare ringrazio il mio sindaco e il presidente della mia provincia per le loro telefonate di congratulazioni e per la scelta di farmi festa con la convocazione speciale delle rispettive giunte.

Grazie agli scrittori che privatamente mi hanno chiamato e scritto: l’ho apprezzato oltre ogni spiegazione; ai librai e ai bibliotecari che ci hanno creduto per primi e che hanno tutto il diritto di considerare questo premio una vittoria condivisa: decine le loro email! Alla piazza di Cabudanne de sos poetas a Seneghe che ha acclamado il risultato, gli amici del festival di Gavoi, ai circoli dei sardi che dall’universo mondo hanno manifestato a vario titolo il loro affetto, allo staff di Altervista che ormai si comporta come uno spudorato fan club, alla redazione di Smemoranda, agli amici del Salone del Libro, del circolo Crakeras, dell’associazione Isperas, a quelli di Viadana, di Reggio Emilia, ai presìdi del libro di Turi e di Bari e le associazioni Donne di Carta e Paese delle Meraviglie. Grazie anche ad Antonio Marras, che ha voluto farmi omaggio del vestito da lui disegnato che ho indossato alla premiazione alla Fenice.

Grazie allo staff organizzativo del premio, che ha saputo unire alla straordinaria cura dei dettagli tecnici un’attenzione alle relazioni che non era per niente scontata. Mi dicono che questa edizione del Campiello è stata particolarmente ben riuscita, ma io non riesco a credere che qualcosa venga meno che bene con dietro quella passione.

Grazie soprattutto a Gianrico Carofiglio, Laura Pariani e Antonio Pennacchi: la loro ironia, intelligenza e umanità ha resto questa avventura qualcosa di prezioso, un viaggio degno di essere intrapreso a prescindere dal capolinea. Grazie infine a Gad Lerner, la cui passione civile sulle battaglie per il rispetto non ha smesso di brillare anche nella vicenda un po’ surreale che ne è seguita.

Grazie alle centinaia di persone che mi hanno intasato due volte la casella di posta, ribaltato la bacheca di FB, fatto saltare il server mail del sito e sfondato lo spazio sms del telefonino con la loro incontenibile voglia di dire anche solo WOW! Non risponderò a tutti, non è umanamente possibile, ma ho letto tutto e ho sorriso sempre, anche quando ero così stanca che non mi reggevo in piedi, cioè sempre.

Adesso si torna alla normalità, infatti sto già facendo la valigia per Mantova.

-
Michela Murgia
http://www.michelamurgia.com
(6 settembre 2010)

Postato mercoledì, 8 settembre 2010 alle 09:46 da michela murgia


@Gentile Scrittrice Michela Murgia,
ieri ero a Compiano (Parma), per il ventennale del Premio PEN Club Italiano.
Già nella doppia votazione, l’avevo scelta come preferita, sia per l’innegabile talento e la qualificata scrittura, sia per solidarietà femminile. Non Le nascondo che speravo tanto di poterla
incontrare. Mi permetto di farle un sintetico resoconto delle liete giornate trascorse.
Venerdì sera alle 20,00, è stato bello ritrovarsi, con i soci , i premiandi, gli ospiti, i giornalisti già arrivati, alla festosa cena di Benvenuto, nel tipico ristorante “Vecchia Compiano”, circondato dal verde cupo dei boschi. Andrea, dirigeva il personale, instancabile come sempre con un impeccabile servizio ai tavoli.
Ancora non sapevo della Sua assenza. Ho appreso della meritata vittoria al Campiello, la mattina dopo.
Sabato, 4 settembre, alle ore 11, abbiamo ascoltato il meraviglioso Concerto, ( musica di Maurice Ravel) “ Quartetto in Fa Maggiore” , eseguito mirabilmente dai giovani “ Solari”, nella piccola Chiesa barocca di San Giovanni Battista .
Alle ore 12, il fitto programma prevedeva la visita nella Sala convegni del Castello, dove era allestita la pregevole Mostra dello scultore aretino, M° Gianfranco Giorni, che da quest’anno ha realizzato per il vincitore del Premio P .E. N, la scultura-trofeo “ Calliope e l’alloro.”
Dopo il gustoso pranzo nella Corte del Castello, alle 15,30 siamo scesi nella piazza di Compiano, per i rituali saluti del Presidente Onorario Lucio Lami del P. E. N Club Italia e l’ intervento di Sebastiano Grasso, Presidente del PEN Club. Italia
Alle 16,00 alla presenza del notaio Dr. Franco Vincenzo è iniziato, in pubblico, l’emozionante scrutinio delle schede, votate da noi soci e lette da Paola Lucarini. Tra un conteggio e l’altro dei voti, l’ottima presentatrice Lucia Bellaspiga, con esemplare professionalità, ha intervistato in ordine cronologico gli scrittori finalisti.
Quando Lucia è arrivata al Suo nome, ha elaborato una simpatica intervista come se Lei fosse realmente presente, ponendo acute domande e pertinenti risposte. La brava giornalista, ha dimostrato una approfondita conoscenza del suo stile scritturale , del sapienziale, arcaico alone di mistero tessuto nella densa trama di “Accabadora”. Inoltre Lucia, si è soffermata, con particolare riferimento, nei delicati argomenti sulla maternità, sulla vita e sulla morte.
Alle 17, 30 abbiamo festeggiato il Vincitore Manlio Cancogni, (classe 1916) per “La sorpresa” – Racconti 1936-1993 (Elliot Ed).
Lo scrittore vivace e veritiero come sempre, era amorevolmente sorretto dall’Editore Simone Caltabellota.
Poi è continuata la ressa per avvicinare anche gli altri finalisti.
Alle 20,30, ci siamo ritrovati nel Salone del Castello, per una raffinata cena di gala.
Alla Signora Francesca Lami sono state offerte venti rose rosse e a Suo marito Presidente Lucio Lami, un piatto d’argento, per la loro assidua, appassionata attività, svolta durante il ventennale.
La piacevole serata si è conclusa con un allegro brindisi augurale.
Gentilissima Michela Murgia, come vede è stata idealmente sempre con me.
Non voglio però perdere la speranza di poterla incontrare, per potermi
complimentare con Lei, per l’abbondante mietitura di successi.
M.Teresa Santalucia Scibona
******
@ Caro Massi, ho saputo tue notizie da Salvo che ieri mi ha telefonato.
Domani parto per il Premio Camaiore, con il nostro libro, sono solo nella prima rosa dei finalisti, ma va bene ugualmente, poiché all’Hotel Dune incontrerò tanti cari conoscenti, con i quali ci incontriamo tutti gli anni.
Ho segnalato sul mio sito ( in Freschi di stampa) la discussione sul romanzo “ Accabadora”, della nostra pluripremiata scrittrice.
Mi farò viva quando torno. Se come al solito, ho scritto troppo tardi, ti
prego di far pervenire all’autrice M. Murgia il mio messaggio.
Grazie e scusa.
Un caro abbraccio a Te e ai fedeli amici del blog.
M. Teresa Santalucia (Tessy)

Postato mercoledì, 8 settembre 2010 alle 12:33 da M.Teresa Santalucia Scibona


Duro ma onesto: non so se sia meglio la Murgia o la Avallone. Il perché è nel mio blog, non riporto stralci onde evitare discussioni. ;-)

Direi che non ho altro da aggiungere, tranne che un gran romanzo come “Lulù Delacroix” di Isabella Santacroce è stato preso poco in considerazione, perlomeno in Rete.

Postato mercoledì, 8 settembre 2010 alle 21:01 da Iannozzi Giuseppe


Ognuno ha i suoi gusti, Giuseppe… ci mancherebbe. Il mio è quello espresso sul post dell’estate 2009.
(La Santacroce ha una bella penna).

Postato mercoledì, 8 settembre 2010 alle 23:20 da Massimo Maugeri


@ Tessy
Dolcissima Tessy, grazie per il tuo commento. Incrociamo tutti le dita per te e ti facciamo tanti in bocca al lupo.:-)

Postato mercoledì, 8 settembre 2010 alle 23:22 da Massimo Maugeri


E faccio tanti in bocca al lupo a Michela anche per il Festival della Letteratura di Mantova.
Ci sarà un simpatico duetto con Elisa Ruotolo, che avevamo incontrato qui:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/06/09/ho-rubato-la-pioggia-di-elisa-ruotolo/
Di seguito i riferimenti dell’evento, per chi fosse interessato…

Postato mercoledì, 8 settembre 2010 alle 23:29 da Massimo Maugeri


ore 10:30
Palazzo D’Arco
letture vintage
Michela Murgia, Elisa Ruotolo
CANNE AL VENTO DI GRAZIA DELEDDA
-
Canne al vento come Cime tempestose; il rapporto tra Grazia Deledda e Giovanni Verga: tanti i punti di vista e le provocazioni per parlare di un’autrice che i narratori italiani, ma non solo, non possono ignorare, come ci raccontano l’esordiente dell’anno Elisa Ruotolo (Ho rubato la pioggia) e l’affermata autrice di Accabadora Michela Murgia.

Postato mercoledì, 8 settembre 2010 alle 23:29 da Massimo Maugeri


Di certo ognuno ha i suoi gusti. La mia posizione è quella che Giulio Ferroni ha espresso nel suo illuminante saggio in “Scritture a perdere”: se il romanzo è morto, allora è forse il caso di rivolgersi ad altre forme narrative. Un peccato però perché chi sa scrivere c’è, da Vassalli a Busi.

Le polemiche sulla scollatura sono a dir poco ridicole. Si è parlato della scollatura e non dei libri, sempreché tali li si possa dire. Questo ci fa capire come una consistente parte di una critica sia sempre più versata nel gossip.

ciao

Postato giovedì, 9 settembre 2010 alle 09:01 da Iannozzi Giuseppe


ho amato questo libro della Mugia. premio meritato. complimenti!

Postato giovedì, 9 settembre 2010 alle 09:31 da federica


oooooops. della Murgia (sorry)

Postato giovedì, 9 settembre 2010 alle 10:05 da federica


@ Sergio Sozi
Sergio, scusa… mi ero dimenticato di risponderti.
Avevi scritto: “dopotutto non importa se ADESSO la signora Murgia non mi rispondera’, Massimo, pero’ prima o poi la trascinerai nuovamente qui, vero? Eh eh eh… o la trascinero’ io in Slovenia…”.
-
Ma certo, Sergio. Michela – se vorrà – sarà sempre a casa sua qui a Letteratitudine… come tutti gli altri miei ospiti del resto.

Postato giovedì, 9 settembre 2010 alle 21:57 da Massimo Maugeri


Un saluto a Federica.

Postato giovedì, 9 settembre 2010 alle 21:57 da Massimo Maugeri


Sardegna, anni Cinquanta.
Maria ha sei anni quando diventa “fill’e anima” di Bonaria Urrai.
“Fillus de anima. E’ così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra.”

E’ attraverso lo sguardo attento e sensibile di Maria che Michela Murgia ci guida attraverso il mondo di emozioni, di tradizioni, di disagio eppure di grande ricchezza interiore che caratterizza Soreni, il paese in cui la storia è ambientata.

E’ attraverso l’apparente distacco dalle “cose umane”, la profonda saggezza che ne anima gli intenti e la ricostruzione di una vita di rinunce e di solitudine che Tzia Bonaria ci pone di fronte al dilemma che, negli ultimi anni, sta scuotendo la coscienza degli uomini e infiammando l’opinione pubblica: un malato terminale ha il diritto – se consapevole – di decidere della sua vita e di porvi fine, quando la sofferenza fisica e interiore diviene un oltraggio alla sua dignità di persona?

L’eutanasia è il tema centrale del romanzo e l’accabadora è la donna che, avvolta in uno scialle nero, il viso coperto, giunge di notte al capezzale del malato e, dopo un suo cenno di assenso, pone pietosamente termine alla sua sofferenza.

La narrazione composta e lineare unita a un linguaggio asciutto e scorrevole rendono la lettura gradevole, ma soprattutto, grazie alla sensibilità dell’autrice, ci offrono sia un interessante spaccato della vita rurale nella Sardegna degli anni Cinquanta, sia motivo di riflessione su uno dei momenti più cruciali dell’esistenza: la morte, interpretata non soltanto come dolore e distacco da temere, ma come l’ineluttabile conclusione della vita ed essa stessa, quindi, parte della vita e del suo quotidiano dipanarsi ed evolversi.

———————–

Il termine “accabadora” ha probabilmente origine dallo spagnolo “acabar” (finire).

L’ultimo episodio noto di “accabbadura” sembra essersi svolto a Orgosolo nel 1952.

Postato domenica, 12 settembre 2010 alle 22:46 da Ines Desideri


Grazie per il tuo intervento, Ines.

Postato domenica, 12 settembre 2010 alle 23:42 da Massimo Maugeri


I miei complimenti! Conosco la figura di “S’accabadora”, anche se in molti ne hanno perso memoria negli anni. Ho recitato in una commedia che vedeva rappresentata, fra le altre, questa figura. Spero di leggere il libro prima possibile!

Postato lunedì, 13 settembre 2010 alle 17:29 da Alex


ho un dubbio leggendo il libro di Michela Murgioa l’accabadora e’ morta naturalmente o la figlia l’ha soffocata con il cuscino?

Postato lunedì, 20 settembre 2010 alle 15:51 da gegio


Grazie ad Alex e a Gegio per i loro interventi.

Postato lunedì, 20 settembre 2010 alle 21:34 da Massimo Maugeri


@ Gegio
Benvenuto a Letteratitudine, ma… shhhhhhhhhh… meglio non fornire ulteriori indicazioni sul finale del libro (per non rovinare il piacere della sorpresa a chi sta iniziando a leggerlo).
;)

Postato lunedì, 20 settembre 2010 alle 21:35 da Massimo Maugeri


Sarà che ho gusti di genere letterario diversi, sarà che la Sardegna la conosco molto molto bene…ma mi dispiace dire che non ho ben capito questo libro…forse un po’ “forzato” e volutamente d’atmosfera…
Sono sicuro che fra i finalisti del Campiello abbia meritato la vittoria ma ormai da anni non dò più peso ai premi..
Resto in attesa di ulteriori prove d’autrice per cambiare idea.
Ad ogni modo congratulazioni.

Postato martedì, 21 settembre 2010 alle 11:56 da Eugenio


Bello, bellissimo, emozionante, profondo senza scadere mai nella banalità, ti accompagna in un viaggio verso una terra antica piena di storie e tradizioni che non esistono più di cui puoi sentire i profumi, i rumori e tutte le sensanzioni dei personaggi che incontri. L’unica nota negativa è che il libro è troppo breve e questo viaggio in cui ci si perde completamente dura troppo poco, meraviglioso: ho pianto

Postato martedì, 21 settembre 2010 alle 12:03 da Giorgia


Un bel libro “Accabadora” sia per la trama, per l’ambientazione e per lo stile ( o linguaggio ) così curato, limpido e brillante. A volte folgorante per la rapidità ed il buon gusto delle similitudini e delle immagini nitide come belle fotografie. Ho letto anche ” viaggio in Sardegna ” con grande interesse. Sono stato una decina di volte in Sardegna ( anni 70 e 80 ) sia per lavoro che per Turismo ( a piedi ed in bici ) . Ora sono vecchietto ed un po’ invalido ma avrei avuto piacere di leggere questa opera prima dei miei viaggetti. Forse avrei guardato tutto con altri occhi, ed avrei scelto qualche percorso diverso. Comunque percorrendo un sentiero a nord di Golfo Aranci nel 1980 mi sono trovato di fronte improvvisamente un bellissimo muflone. Grazie di tutto Giovanni ( Bodio L. Varese)

Postato giovedì, 21 ottobre 2010 alle 11:57 da Giova Pagliaro


Ringrazio Eugenio, Giorgia e Giova.

Postato martedì, 30 novembre 2010 alle 22:02 da Massimo Maugeri


Ho riportato in evidenza questo post perché c’è un nuovo contributo: l’intervista che Michela Murgia ha rilasciato a Sergio Sozi.
La trovate alla fine del post.
L’intervista è stata pubblicata su “Il Giornale dell’Umbria” del 22.11.2010

Postato martedì, 30 novembre 2010 alle 22:04 da Massimo Maugeri


Nel ringraziare Massimo Maugeri, Michela Murgia e la collaboratrice di questa, Francesca Piras, per la disponibilita’ e la squisita gentilezza, vorrei precisare che questo mio articolo-intervista riporta il medesimo colloquio del Giornale dell’Umbria ma un’introduzione diversa da quella che ho posto a mo’ di introduzione nel suddetto giornale. Inoltre va ricordato che questa intervista e’ esclusiva, pertanto, dopo esser stata pubblicata sul Giornale dell’Umbria il 22 novembre 2010, oggi appare solo su Letteratitudine.
E adesso un’ultima ma importante specificazione per i letteratitudiniani tutti: chiunque intervenga ponendomi direttamente e personalmente delle domandeo proponendomialtri pensieri, sappia che rispondero’ personalmente e in tempi ragionevoli per favorire un clima di colloquio e confronto amichevole e sereno.

Saluti cari
Sergio Sozi

Postato martedì, 30 novembre 2010 alle 23:15 da Anonimo


[...] Fonte Articolo:  ACCABADORA, di Michela Murgia (Premio Campiello 2010) [...]

Postato mercoledì, 1 dicembre 2010 alle 02:18 da ACCABADORA, di Michela Murgia (Premio Campiello 2010)


Molto bella la tua intervista, Sergio Sozi.
Bravo.

Postato mercoledì, 1 dicembre 2010 alle 09:38 da Amelia Corsi


Egr. Sig.ra Corsi,
grazie: evidentemente vent’anni di pubblicazioni mi son servite almeno ad ammettere – come avra’ visto dall’intervista – di non aver compreso alcune parti di un’opera letteraria…
Saluti cari
Sozi

Postato mercoledì, 1 dicembre 2010 alle 23:59 da Sergio Sozi


Mi associo ai complimenti di Amelia per Sergio, interessante e ricca di spunti la tua intervista.Inoltre vorrei dirti, per quello che conta la mia personale opinione a riguardo, che non è delle certezze che avrebbe bisogno la letteratura ma dei punti di domanda, come i tuoi, anche dei dubbi che solo lo sguardo amorevole può donarci.
Ho terminato un mese fa Accabadora e mi è piaciuto moltissimo, sei subito dentro l’atmosfera della storia, i personaggi sono tratteggiati con precisione senza mai togliere alla passione del proprio sentire, è originale e amara da accompagnarti dopo che hai chiuso le pagine.MI è piaciuto quello che la Murgia ha detto nell’intervista sul rispetto nelle relazioni umane, elemento raro e difficile da conquistare e mantenere ma necessario. Penso di farlo leggere anche a mia figlia.
un caro saluto

Postato giovedì, 2 dicembre 2010 alle 11:27 da Francesca Giulia Marone


Cara Francesca Giulia Marone,
grazie. La tua competenza da traduttrice letteraria (mia moglie e’ una tua collega francesista ed italianista slovena) e’ un elemento che avvalora ulteriormente il tuo consenso, poiche’ cio’ che generalmente sfugge al lettore comune, pur anche letterato, non sfugge ad un linguista.
Naturalmente – anche se questo non si nota dall’intervista – non sempre io sono d’accordo con Murgia su certi principi e definizioni.
Per esempio il fatto che l’amore non conti ai fini della riuscita di un rapporto umano e’ convinzione dell’autrice che mi vede del tutto discordante. Penso infatti che l’amore sia il basamento SUL quale costruire il rispetto, ma senza amore anche il rispetto resta cosa superficiale e sterile. Tuttavia, in assenza di amore, e’ importante che almeno il rispetto ci sia.
Saluti cari
Sergio

Postato giovedì, 2 dicembre 2010 alle 13:53 da Sergio Sozi


Tra qualche giorno uscirà la ristampa di Accabadora con allegato.
Accabadora, romanzo, 164 pag
Allegato,
Accabadora dibattito, 1544 pagine.
E’ brava la Murgia, ha una dialettica che se l’avessi io (che trovo i sinonimi di cazzo troppo effeminati) scriverei un romanzo per Einaudi e vincerei il Campiello.
Non so se avete visto gli spezzoni dell’audiolibro su youtube, lei è affascinante quanto la Sardegna, divertente, e bastano due tre frasi per farti capire che è un libro che di certo non ti apre le porte, ma ti indica la maniglia. Ne ho letto poche pagine, era nella libreria di una mia cara amica, ma giuro, sarei voluto rimanere in casa piuttosto che andarmi a spaccare in un pub. A leggere la Murgia l’indomani ti senti più intelligente, a bere birra e ascoltare blues l’indomani semplicemente ti fischiano le orecchie e vorresti dormire per giorni, ma non ci riesci perchè ti sale su in refusso tutto quello che hai bevuto.
Bel pezzo Sergey Soz.
Un applauso.
E un abbraccio grande a Massimo che si prodiga tanto per farci conoscere le cose buone.

Postato giovedì, 2 dicembre 2010 alle 18:05 da Alessandro Cascio


Non so se sono in tempo, ma ho una domanda per Michela.
Quando scrivi un romanzo così intenso, dove le frasi sembrano farti sudare al contrario, le tossine entrano, non escono: quanto impieghi per recuperare sia fisicamente che mentalmente. Cosa fai per riprendere la tua vita lasciando che quella dei tuoi personaggi facciano finalmente la loro?
Un abbraccio a te.

Postato giovedì, 2 dicembre 2010 alle 19:03 da Alessandro Cascio


Ciao, Alessandro,
non so se la Murgia interverra’ qui, bisognerebbe chiederlo a Massimo. Per quanto mi riguarda, grazie dei complimenti.
Chiunque abbia domande da rivolgermi otterra’ presta risposta, garantito.

Postato giovedì, 2 dicembre 2010 alle 19:09 da Sergio Sozi


Grazie mille a Sergio, AMelia, Francesca Giulia e Alessandro per i loro interventi.

Postato giovedì, 2 dicembre 2010 alle 22:24 da Massimo Maugeri


Caro Alessandro, grazie a te.
Non so se Michela avrà modo di intervenire ancora su questo post.
Credo che sia alle prese con il nuovo libro… ;)

Postato giovedì, 2 dicembre 2010 alle 22:26 da Massimo Maugeri


Ho visto l’e-mail di Sozi troppo tardi. Comunque una brava scrittrice, non banale. E’ stato un modo per salutarti Massimo, con Sergio ci siamo sentiti ogni tanto. Buon lavoro.

Postato venerdì, 3 dicembre 2010 alle 15:21 da Alessandro Cascio


Ancora grazie, caro Alessandro. E’ stato bello ritrovarti.
Un saluto affettuoso a te.

Postato venerdì, 3 dicembre 2010 alle 22:24 da Massimo Maugeri



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