lunedì, 8 settembre 2008
IL CENTENARIO DELLA NASCITA DI CESARE PAVESE
Il 9 settembre decorre il centenario della nascita di Cesare Pavese. Mi piace ricordarlo qui, sulle pagine di questo blog, proponendovi gli interventi di Raffaele Manica e Raffaele La Capria – pubblicati sulla pagina cultura del quotidiano Il Mattino del 7 settembre – e quello di Raffaele Liucci – pubblicato sul Domenicale de Il Sole 24Ore del 31 agosto.
(Questo post potrebbe anche intitolarsi: “un triplo Raffaele per Pavese”).
Vi invito a leggere i suddetti interventi e a dire la vostra per ricordare la figura di questo grande intellettuale: scrittore, poeta, traduttore, editore (per Einaudi).
E a proposito del rapporto di collaborazione di Pavese con la Einaudi, vi segnalo l’uscita di un’antologia delle sue «lettere editoriali» fra il 1940 e il 1950 (Officina Einaudi, a cura di Silvia Savioli, con introduzione di Franco Contorbia, pp. 433, euro 22). Il libro è stato presentato domenica a Santo Stefano Belbo in un convegno organizzato dal premio Grinzane Cavour. Su Tuttolibri di sabato, per gentile concessione di Einaudi e degli eredi, sono stati anticipati alcuni brani tratti dalle lettere.
Riporto qui questo stralcio di lettera (“Meno imprese sceme”) che Pavese scrisse a Giulio Einaudi, da Roma, il 28 febbraio 1946
Caro Giulio,
sono costretto a ricordarti che la repubblica sociale di Mussolini cominciò a perdere veramente il credito e a essere condannata da tutti i benpensanti il giorno che i suoi impiegati non ricevettero più regolarmente gli stipendi, e un po’ alla volta li si ridusse a contentarsi di acconti. Per una volta passi, ma quando di mese in mese lo stesso fatto tornò a ripetersi, allora fu finita. Devo dirti che dal mese di ottobre u.s. io non ho più ricevuto regolarmente tutto in una volta lo stipendio; e passi. Ora mi accorgo che la stessa cosa si minaccia agli altri impiegati, specialmente quelli d’ordine, e allora dico basta, per me e per tutti. (…)
Se i soldi non ci sono, si facciano meno imprese sceme – si spediscano meno lampi; si aboliscano sedi – ma insomma si provveda. E soprattutto smettetela coi giornali che in altri tempi servivano a mandarci in prigione, e adesso tutt’al più a mandarci in fallimento. Ho pazientato tutto l’inverno perché la situazione era tale che nessuno pareva averci colpa; ora le cose cambiano. Se come primo risultato della tua politica di risanamento e ripresa, gli impiegati romani – compreso io – devono rimandare a domani il pranzo e la cena, allora ti consiglio di cambiare mestiere e lasciare il campo a gente dalla testa sul collo.(…)
Pavese
E ora, vi invito a dire la vostra.
Massimo Maugeri
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da IL MATTINO del 7 settembre 2008
di Raffaele Manica
Scrittore dai molti volti, sorretti da uno stile unificante con poche eccezioni, Cesare Pavese sembra occupare un posto sicuro nella percezione che si ha del Novecento italiano. Legato a un solo editore, Einaudi, è sempre stato in catalogo, segno di un pubblico anch’esso sicuro, come dice anche il prestito agli Oscar mondadoriani: ha avuto un paio di edizioni complete (la prima, degli anni Settanta, in volumetti dalle copertine grigie; l’ultima, nella Pléiade, in due volumi) e ora una silloge intitolata I capolavori ( Tascabili Einaudi, a cura di Mariarosa Masoero e Giuseppe Zaccaria, pagg. 687, euro 17,80), aperta da Paesi tuoi, scritto nel 1939, e chiusa da La luna e i falò, scritto nel 1949, pubblicato nel 1950 e premiato a luglio allo Strega, qualche mese prima del suicidio: dieci anni nei quali l’attività in prosa si consumò tutta, con quel ritmo scandito come computando i ciottoli delle sue colline, che aveva trovato forma nei versi con Lavorare stanca, nel 1936. Era nato il 9 settembre 1908, e dunque tutta la sua opera si chiude nel decennio che va dai suoi 30 ai suoi 40 anni. Eccezioni a quel ritmo che era la sua sigla, i Dialoghi con Leucò e i versi postumi di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (postuma apparve anche la raccolta di saggi sulla letteratura americana). Eppure, nonostante si tratti di uno scrittore morto giovane, nulla in Pavese ha l’aria della gioventù, e tutto sembra invece visto attraverso una maturità precoce – acquisita anche grazie al magistero culturale e morale, di Augusto Monti – ma mai sicura di sé, e perciò spesso scivolante all’indietro, verso le età senza tempo dell’adolescenza e dell’infanzia, momenti di fioritura del mito e di tutti i miti individuali. Di ciò, Il mestiere di vivere, il suo diario, dà tracce costanti; e lo shakespeariano «la maturità è tutto» fu l’esergo posto alla Luna e i falò come si trattasse di un desiderio; come se la sua, dai passi così incerti, non gli sembrasse maturità vera. I vari volti. A cominciare da quello politico, praticato controvoglia, assecondando le esigenze del tempo. Sotto, il volto vero: dell’etnografo, dell’antropologo della civiltà contadina e piccolo borghese delle Langhe, che agiva con gli strumenti del letterato (al quale non fu ininfluente l’ampia ricerca sul Mondo magico di Ernesto De Martino): benché in mezzo ai fatti, preferiva piuttosto leggerli e interpretarli che viverli. Sotto ancora, il terzo volto: di un lirico che reprimeva di se stesso gli esiti di visionarietà più sospetta, costringendo la propria poesia, pur così impigliata in zone buie, a farsi capire. Se si manteneva in penombra, ebbene, che la poesia parlasse di quell’essere in penombra, ma senza compiacersi della penombra. Intere generazioni di lettori si sono abituate a Pavese fin dagli anni scolastici. Ciò, nella fortuna di uno scrittore, non è mai dato trascurabile, perché aiuta ad andare in memoria: ogni figura di scuola è per sempre acquisita, anche quando ad essa ci si rivolti: una presenza che le antologie furono pronte ad accogliere, anche se ciò non basta a spiegare il motivo di una perduranza di giudizio con poche incrinature e sempre rispettosa. È che il percorso di una letteratura tutta svolta tra mito ed esistenza ha una sua presa ineludibile negli anni delle domande grandi, che per tutti sono gli anni dell’adolescenza, e dunque delle prime letture adulte. Non solo Pavese sembra sempre tramutare un dato favolistico in un mondo senza favole e già di dura realtà, ma l’effetto del suo scrivere è una specie di luogo dove Omero ed Hemingway si trovano a praticare lo stesso linguaggio: si incontrano e si parlano, con l’ausilio di quel sottofondo morale e anche schiettamente moralistico che in Pavese il mito sempre presuppone. Quanto poi a dire che si capiscano, è un altro discorso. E in quest’altro discorso sta non la difficoltà letteraria incontrata da Pavese, ma la sua difficoltà esistenziale. Una specie di blocco tra due mondi separati da un vetro, che disperatamente vorrebbero toccarsi e non ce la fanno. Di qua il vivere e il suo mestiere, di là il mondo dei morti e dei miti. Il vetro dà, di lontano, l’illusione che siano, quei due mondi, sullo stesso piano, come se il tempo non contasse. Ma, avvicinandosi, e non potendo frantumare il vetro la vita stessa si blocca, e non sa più dove andare. Così se ne dilegua il portato. Deve essere questo il motivo dell’apparenza stranita che Pavese ha sempre nelle foto che lo ritraggono. Su quei tratti che è indecidibile se siano di giovane o vecchio, si vede scontare un disagio, un essere e un voler essere sempre da un’altra parte, dove si intuisce salvezza. Solo una fede potrebbe intervenire. Ma Pavese, del mondo mitico, benché solo lì riponesse attesa, fu esploratore distaccato. Benché laboratorio del suo pensiero, il mondo dei miti non poteva essere materialmente raggiunto né poteva diventare una categoria o un esercizio per il mestiere di vivere, tra gli inciampi che la realtà procura ed esige. «Non fate pettegolezzi», lasciò scritto prima di togliersi dal mondo. Si riferiva ai suoi amori, e alle delusioni maturate fino ai suoi quarantadue anni. Ma «non fate pettegolezzi», forse, voleva dire anche di queste altre ragioni: un invito a guardare oltre l’accidente del momento. Lasciò da parte la ventina di libri da lui scritti, si mise di fronte alla nuda vita, e il disincanto su sé si trasformò nella fretta di consegnarsi pure lui al passato, diventando così, per tanti, un piccolo e intenso mito novecentesco da incontrare nell’età difficile.
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da IL MATTINO del 7 settembre 2008
di Raffaele La Capria
Riaprire i libri di Cesare Pavese in occasione del Premio Grinzane Cavour a lui intitolato e del seminario che si terrà domani al Teatro Gobetti di Torino, è stato per me una grande emozione, perché ho ritrovato intatto quel rapporto di pensieri e di sentimenti che a suo tempo la sua presenza aveva suscitato in me e in quelli della mia generazione, che vissero la loro gioventù negli ultimi anni del fascismo. E perciò quando parlo di lui non posso accostarmi a lui con lo sguardo distaccato del critico ma sempre interviene l’autobiografia, i ricordi, lo stato d’animo di quando per la prima volta mi arrivarono nelle mani i libri americani da lui tradotti, quelli attraverso i quali lui conduceva la sua battaglia culturale per rinnovare i contenuti e le forme della letteratura italiana aprendola a nuova orizzonti. Leggere allora Moby Dick di Melville o Winesburg Ohio di Sherwood Anderson non era come leggerli oggi, era un’avventura spirituale, era come scoprire il mondo mitico della libertà in un momento in cui la libertà da noi non era di casa. Oggi, in occasione del Premio Grinzane, riaprendo Il mestiere di vivere ho ritrovato quel «fratello maggiore», che pur così diverso per origini e cultura – lui del nord io del sud – ho sentito così vicino quando mi ha fatto intravedere la sua dolorosa e tragica intimità, la sua natura ipercritica ed autodistruttiva, la sua tensione spirituale e la sua speranza nella funzione salvifica della poesia e della letteratura. E poi un’altra considerazione, col senno di poi: se metto in rapporto la segreta profondità e l’austero senso morale di queste pagine e di questo modo di dialogare con sé stesso, con il rumore e l’enfasi di quegli anni (siamo all’inizio del ’35, fascismo trionfante, e Pavese al confine per aver tentato di proteggere una donna iscritta al partito comunista, ma in realtà perché l’ambiente torinese da lui frequentato era inviso al regime), se faccio questo confronto mi accorgo meglio oggi che accanto all’Italia fracassona e altisonante ce n’era un’altra, minoritaria e ancora nascosta, forte e tenace, ma negata all’azione violenta, che è appunto quella di Pavese. Lui, Pavese, non è mai tenero con sé stesso, e quando dice di contentarsi «dell’umiltà con cui mi sottopongo al mio destino» poi aggiunge dubbioso; «se non è pigrizia o vigliaccheria». Un dubbio che in un super-cosciente come lui affiora sempre e in un certo senso lo perseguitò anche negli anni che seguirono, quando suo malgrado fu costretto ad impegnarsi dall’incalzare degli avvenimenti che portarono alla Resistenza. Rileggere oggi Il mestiere di vivere è stato diverso che la prima volta, quando uscì postumo nel ’50. Adesso ho potuto meglio addentrarmi nella dolorosa vicenda umana e letteraria ivi narrata con scrupolosa e a volte perfino imbarazzante sincerità, c’è proprio il suo cuore e la sua anima messa a nudo in queste pagine, sono un libro ma anche un documento, uno zibaldone, con osservazioni che rimangono impresse e che in un certo senso hanno anche influito sul mio modo di scrivere. Per esempio quando Pavese dice che «lo stile non deve influire nella formazione della storia: ad essa preesiste un nucleo di realtà che sono accadute. Letteratura è quando lo stile preesiste al nucleo fantastico»: ecco, qui a «letteratura» si dà un senso limitativo che ha la sua importanza polemica in un periodo in cui la bella pagina e i fautori dello stile prevalevano. O quando insiste sull’importanza nella propria opera del legame col Piemonte, con Torino, con la propria terra e con la propria origine: «Il parallelo tra me e il Piemonte – lo scriveva già nel ’35 – nella mia poesia futura questo elemento non dovrà più mancare» e comunque «saprei bene come assorbirlo in un’immagine e dargli un significato». Un legame che diventa mitico ed entra anche nella scrittura narrativa utilizzando la lingua locale e le sue forme per inventarsi una lingua nazionale. Tutto questo era già presente nel lavoro che Pavese andava facendo sugli americani negli anni Trenta e Quaranta, quando spiegava quali erano gli interessi italiani che lo guidavano nelle sue ricerche: Twain, Lewis, Anderson erano partiti dall’autenticità della provincia americana e avevano fatto diventare America ognuna delle province da cui erano partiti. Essi avevano insomma creato il «volgare americano», cioè un linguaggio nazionale parlato, diverso dallo slang e dal dialetto, ma altrettanto efficace ed espressivo, e soprattutto adatto a scrivere romanzi che rispecchiavano una realtà oggettiva, dove fatti e personaggi parlavano da sé, senza la continua mediazione di un autore. E non era questa l’aspirazione di quanti in quegli anni, in modi diversi, desideravano uscire dalla perfezione della prosa d’arte per colmare il distacco tra letteratura e vita nazionale? E per liberarsi dalla tutela di quei letterati che «troppo francamente avevano confessato il loro rispetto per i carabinieri a cavallo?». Un’ultima considerazione, molto personale, visto che ricevo oggi il Premio Grinzane per il mio libro L’Amorosa inchiesta, un libro sull’immaturità, sull’infantile inadeguatezza che permane anche nell’età adulta e rende la vita una somma di errori, facendocene sognare un’altra possibile. Questa immaturità, questa inadeguatezza che non è intellettuale (anzi il contrario), ma esistenziale, appartiene a parer mio all’eterno problematico adolescente che fu Pavese, al Pavese che scrive: «Nove anni sono passati e io rispondo ancora tanto infantilmente alla vita? E quella virilità che pareva cosa mia duramente conquistata negli anni di lavoro, era tanto inconsistente?». Ecco, anche per questo ho sentito Pavese come un «fratello maggiore» oltre che come un maestro.
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Da “Domenica” de IL SOLE24ORE del 31 agosto 2008
La tentazione della «casa in collina». Cesare Pavese di fronte alla Storia
di Raffaele Liucci
«Brutta cosa esser nelle grinfie della storia», scrisse Cesare Pavese a un amico nel dicembre ’44, quando s’era imboscato nel Monferrato. Partigiani e fascisti si contendevano il territorio, i bombardieri alleati non davano tregua, ma lui aveva preferito scegliere di non scegliere. Come dirà l’io narrante della Casa in collina (1948): «Si direbbe che la guerra io l’attendessi da tempo e ci contassi, una guerra così insolita e vasta che, con poca fatica, si poteva accucciarsi e lasciarla infuriare, sul cielo delle città, rincasando in collina». L’apatia e il disimpegno, del resto, erano sempre stati radicati in lui, a ogni latitudine. Qualche anno prima, il 3 luglio ’40, probabilmente turbato dalla propaganda bellica fascista, Pavese aveva bersagliato nel proprio diario l’imperante «saturazione di storicismo», cui si doveva «tutto questo parlare di rivoluzioni, questa smania di vedere accadere avvenimenti storici, questi atteggiamenti monumentali», dai quali discendeva la pretesa «di udire in ogni raglio d’asino lo squillo dell’avvenire».
Il Pavese «antistoricista» è stato a lungo rimosso. S’è preferito coltivare l’immagine d’un uomo fragile e schivo, certo, ma comunque allineato all’aura progressista di Casa Einaudi. Una vulgata zuccherosa che Norberto Bobbio, con il senno di poi, definirà «del tutto aberrante». In fondo, nel ’35 Pavese era stato condannato al confino soprattutto a causa del suo maldestro amore per Tina Pizzardo, la «donna dalla voce rauca» già compagna di Altiero Spinelli (Cesare s’era offerto di far da tramite nella corrispondenza clandestina fra lei e l’antifascista Bruno Maffi). Mentre il romanzo Il Compagno (1947) e gl’impacciati articoli scritti per «l’Unità» nel dopoguerra avevano rappresentato soltanto un imbarazzante pedaggio pagato al clima culturale dominante. Più rivelatrice invece era stata, il 23 marzo ’38, una sua annotazione diaristica: «non c’innamoreremo mai di una di quelle idee per cui si accetta di morire». Quasi una filosofia perenne.
Qualcuno obietterà: e lo sconcertante «taccuino segreto» 1942-43, reso pubblico soltanto nell’estate del ’90, nutrito di lodi alla Germania di Hitler, aperto alle ragioni della RSI e così astioso verso gli antifascisti? Carlo Dionisotti intravide in quelle carte la silhouette «minuscola e grottesca di un Céline italiano». Ma Lorenzo Mondo, che svelò per primo il taccuino sulla «Stampa», ha poi giudicato quei pensieri delle «schegge impazzite, di breve durata e nessuna esposizione pubblica». Zampilli umorali che, fra l’altro, non tradiscono una particolare consuetudine col linguaggio della politica. Forse influì la vicinanza a Giaime Pintor, all’epoca ancora ammaliato dalla cultura tedesca più «tenebrosa». E forse giocò anche l’insofferenza di Pavese per un certo antifascismo borioso e inconcludente. Una critica del resto condivisa pure dagli esuli della prima ora. Scriverà per esempio Gaetano Salvemini a Ernesto Rossi nel ’49: «Ti confesso che è il disgusto, non per i fascisti, ma per molti antifascisti, che mi rende sempre più restìo a tornare in Italia».
Oggi Pavese ci appare come la voce più cristallina della «zona grigia», di quel mondo per lo più contadino che subì le guerre, il fascismo, l’antifascismo, senza mai aderirvi. Dopo l’8 settembre ’43, quest’area s’allarga e si dilata oltre misura, plasmando l’identità d’un paese ormai sfibrato, disamorato del duce e tuttavia diffidente verso i partigiani e desideroso soltanto che la guerra finisca al più presto: per ricominciare a vivere, ma senza quel «lavacro morale» che sognavano i più intransigenti nemici di Mussolini.
I personaggi di Pavese tendono sempre a sfuggire ogni complicazione ideologica, a difendere il loro modesto benessere, al riparo dal rullo compressore della Storia. Lo scrittore piemontese sembra trovarsi a proprio agio soltanto nelle alture rarefatte del mito, dove «non esiste il prima e il dopo perché non esiste il tempo» e «l’attimo equivale all’eterno, all’assoluto». Quando viceversa la Storia irrompe brutale nella vita degli uomini comuni, scatta immediata la ricerca d’un rifugio, in attesa che passi la tempesta e il cielo torni a schiarirsi. La collina, scrive ancora Pavese, «non è un luogo fra gli altri, ma un modo di vivere». Perché soltanto se restiamo in disparte possiamo osservare le cose lontane come se fossero vicine, percepirne l’essenza metafisica. In questo quadro, i «repubblichini» smarriscono ogni sfumatura moralistica, per essere elevati a paradigma della guerra, di ogni guerra, dove nessuno potrà mai dirsi innocente: «anche vinto il nemico è qualcuno, dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. Guardare certi morti è umiliante».
Il suo ultimo romanzo, La luna e i falò (1950), è un groppo di nodi tuttora irrisolti. Ad esempio, nel cap. XXIX, le poche righe dedicate a un aborto clandestino finito in tragedia valgono più d’un trattato sulla condizione della donna prima della legge 194. Ma questo volume, soprattutto, anticipa l’odierno dibattito sul «sangue dei vinti». Il protagonista è anch’egli un fuggiasco. Trovatello cresciuto sulle Langhe, poi antifascista in un gruppo clandestino di Genova, è infine emigrato in California per sottrarsi a un ordine d’arresto. Quando però nel dopoguerra fa ritorno al suo paese natale ha ormai rimosso la trascorsa militanza. Il vento della Storia, del resto, ha smesso di soffiare, lasciando ovunque case bruciate, atroci vendette e cadaveri frettolosamente seppelliti che la terra restituisce alla luce. Commenta acido un mezzadro: «se tutti quegli uomini se ne fossero invece tornati a casa – i tedeschi a casa loro, i partigiani sui beni –, sarebbe stato un guadagno. Che facce, che gente – tanta gente forestiera non s’era mai vista». L’elegia della Casa in collina è dunque rimasta lettera morta. Il sangue delle vittime non è stato placato. L’odio e il rancore, anzi, persistono anche dopo la fine della guerra, che ancor di più appare come un evento insensato, incapace di riscattare quel sangue chiesto in sacrificio.
Uno dei primi, entusiasti lettori della Luna e i falò sarà Piero Calamandrei. Figura di spicco dell’Italia antifascista, il giurista fiorentino aveva nondimeno scansato la Resistenza, restando nascosto a Colcello Umbro, in un «larvato esilio», ove riempirà il suo diario di meditazioni sconsolate sulle illusioni della Storia. Forse proprio per questo, scrivendo a Pavese, Calamandrei potrà cogliere il carattere impolitico eppure universale della sua ultima opera: «Di fronte a pagine come queste, dove il dolore della vita è filtrato attraverso la serena contemplazione del ricordo, le polemiche sui fini dell’arte e sulle relazioni tra arte e politica non hanno più senso. Gli artisti veri, senza proporselo, toccano sempre le ferite della loro società» (14 agosto 1950).
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Scritto lunedì, 8 settembre 2008 alle 16:38 nella categoria EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, OMAGGI, RICORRENZE, ANNIVERSARI E CELEBRAZIONI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.
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