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Archivio del 1 luglio 2008

martedì, 1 luglio 2008

L’ACQUARIO DEI CATTIVI. Incontro con Antonella Del Giudice

Trent’anni fa – il 9 maggio del 1978 – moriva Aldo Moro. Se ne è discusso tanto nelle scorse settimane. In maniera più o meno diretta.

Cosa ci rimane di quegli anni? Cosa resta oltre alle ferite non ancora del tutto rimarginate?

Parliamo di quegli anni e di quello che è accaduto dopo: del post terrorismo.

L’occasione ce la fornisce il nuovo romanzo di Antonella Del Giudice (nella foto). Si intitola “L’acquario dei cattivi” (Alet, 2008, pagg. 176, euro 13).

Quattro ex militanti si rincontrano a distanza di trentanni. Un passato di terrorismo li accomuna. Fra loro c’è chi ha pagato con la prigione, chi è riuscito a fuggire all’estero, chi si è integrato nel sistema e oggi è addirittura magistrato. Ma gli scheletri del passato non esitano a riaffacciarsi sul presente quando le trame del destino chiamano al confronto. Il ricordo di un conflitto a fuoco, la morte violenta del capo del gruppo e un regolamento di conti sospetto. Chi fra loro ha veramente tradito?

Vi propongo la recensione di Monica Bardi (pubblicata sulle pagine de L’Indice dei libri del mese), e la lettura di Sergio Pent pubblicata su Tuttolibri.

Di seguito potrete leggere un brano estratto dal libro (l’incipit lo trovate qui).

Chiudo con una domanda posta da Monica Bardi nella sua recensione: è possibile vivere rimuovendo la tragedia?

Massimo Maugeri

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Recensione di Monica Bardi

Per parlare di terrorismo italiano, di un piccolo nucleo di brigatisti meridionali, Antonella del Giudice usa la stessa prospettiva decentrata scelta da Philip Roth in Pastorale americana, in cui il sogno statunitense si rifletteva impietosamente nell’immagine di Merry, ragazza obesa e balbuziente, ex terrorista e barbona, persa nel mondo e seguace di sette esoteriche. Eppure il fenomeno italiano, nell’intreccio tra società e cultura, stili di vita e ideologia, ha i caratteri peculiari che sono stati individuati (grazie al recente interesse per quegli anni, diffuso fra storici e giornalisti) e che mostrano profonde differenze rispetto a quelli del terrorismo americano, legato alla contestazione degli anni settanta e alla guerra nel Vietnam, ma isolato anche nell’esplosione violenta e sanguinosa del movimento dei Weathermen.
La prospettiva decentrata scelta dall’autrice dell’Ultima papessa (Avagliano, 2005), ora al suo secondo romanzo, risponde a quell’esigenza di stacco temporale utile a ogni bilancio e anche, forse, al tentativo di non aderire a quella “superficie rassicurante e piuttosto autoconsolatoria” dei racconti sugli anni di piombo, di cui parla Filippo La Porta nell’introduzione a un bel saggio di Demetrio Paolin, Una tragedia negata, pubblicato recentemente dalla casa editrice Il Maestrale. Analizzando una ventina di libri sugli anni settanta (i romanzi di Baliani, Culicchia, Doninelli, De Luca, Lambiase, Moresco, Villalta, i racconti in prima persona di ex terroristi come Braghetti, Morucci e Peci, le inchieste di Stajano), Paolin svolge in modo conseguente la sua tesi sulla costante rimozione della tragedia; tale negazione si esprime, a suo parere, “proibendo alcune voci, trasformando gli scenari tragici in interni di casa borghese, anestetizzando la violenza agita ed eclissando la figura del nemico”. Il romanzo di Antonella del Giudice si sottrae a questo meccanismo di rimozione proprio operando quello spostamento temporale di cui dicevamo: i membri di un nucleo armato si ritrovano dopo trent’anni, fisicamente manomessi da obesità, malattie, carcere o interventi plastici e con i loro destini disegnati da casi diversi (uno è magistrato di una qualche visibilità).
Per tutti, sommersi e salvati (c’è anche l’ombra di un cadavere e quindi il sospetto, gettato su tutti e legato alla sua morte), vale come contenitore ideale l’acquario, una villetta a schiera, perfetta per una villeggiatura impiegatizia al mare oppure per una base operativa: “Un ambiente come questo è ideale per noi: mobili svedesi a buon mercato, poltroncine di midollino, cuscini ocra stinti, soprammobili casuali, un lampadario a gocce colorate ricettato da uno scarto di arredamento cittadino, un obsoleto televisore a valvole, l’antenna a cerchio, plastificato rosso, lo schermo contro il muro come un occhio in castigo”. Nell’incalzarsi di voci all’interno di un luogo chiuso (che fa pensare a una possibile trasposizione teatrale del romanzo), gli anni settanta vengono ripercorsi attraverso la ricostruzione perfetta di un sistema di valori, di relazioni strettissime e di un linguaggio interno. L’autrice riesce, nell’intrecciarsi dei dialoghi, a stare in equilibrio, tenendo lontana da un lato l’apologia dei migliori di una generazione e dall’altro il compiacimento degli integrati nel mondo.
La domanda che rimane aperta è proprio quella posta da Paolin: è possibile vivere rimuovendo la tragedia? Ma la risposta va ricercata nella ricomposizione (sia pure posticcia) del nucleo originario, nel confronto fra uguali: sovrapporsi di voci in cui tutti sono obbligati a svelarsi, a gettare la maschera, a spiegare come è stato possibile, dopo la militanza e la violenza, stare nel mondo e arrivare integri a quell’appuntamento. Per tutti il senso va trovato insieme; solo il corpo del gruppo può attribuire colpe e fissare responsabilità. Questo il senso politico di un gesto offensivo sulla cui necessità tutti trovano un accordo, come viene spiegato in uno di quegli inserti in corsivo che costituiscono il sottotesto del romanzo, il flusso dei pensieri, il tentativo di riportare l’ordine nel caos dell’acquario, la luce nel buio: “–Ti tengo – sussurriamo l’uno all’altro. E ancora, a vicenda, a fil di fiato, come a proteggere il sonno d’un bambino, con tono di preghiera e panico: – Chi sei? Sei tu? – Ci rinneghiamo, divincolandoci come pesci renitenti all’amo che ci uncina per le branchie: non siamo, non fummo, non ne sappiamo nulla, non ci riguarda. Catalogarci per negazioni è la nostra estrema difesa per un’ultima offensiva”.

 

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Recensione di Sergio Pent

Nel romanzo di Antonella Del Giudice «L’ACQUARIO DEI CATTIVI» (Alet, pp. 165, e13) i personaggi sono emblematici, assoluti. Su un palcoscenico ideale, rappresentano – ciascuno a suo modo – il dilemma della nostra coscienza collettiva. Quattro persone mature, ex-militanti del terrorismo, si incontrano a distanza di trent’anni per fare i conti col passato e con il segreto della morte di un loro compagno. In una villetta di vacanza presso un mare agitato da un violento uragano, il momento dei resoconti e delle confessioni diventa l’arma di un’autoanalisi spietata, senza vincitori, in una beffarda messa in scena che determinera’ l’ultima scelta, quella forse piu’ grottesca e impensabile, ma necessaria. In un aspro delirio di umanita’ mai uscite dalla memoria di quegli anni, Antonella del Giudice mette in scena una piece impietosa e sarcastica, con personaggi tanto assurdi quanto credibili. L’avvocato Eligio Di Fiore – Floreligio – divenuto emblema di una legalita’ sempre piu’ provvisoria; Giangiorgio Scotto – Giancio – divo delle soap opera sudamericane dopo un opportuno lifting; Milo Osci – Mosci – condannato da un cancro devastante; e Terri. Terri l’Apache, la donna di tutti, il figurino esile ora tramutato in una scostante matrona infossata nel lardo. Chi di loro causo’ la morte del compagno Giulio, in una disperata azione di trent’anni prima? Gruppo terrorista in un interno: il romanzo non risponde a verita’ determinanti, ma diventa il perfetto gioco di ruolo di una generazione sconfitta.

 

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Brano estratto dal libro

Ma Milo la rintuzza: «Siamo tutti un po’ acciaccati, Terri, però possiamo ancora farcela. Siamo in tempo. E sono convinto che legioni di scontenti e delusi di buona volontà non aspettano che un esempio per reagire. Noi non dovremmo che attizzare il fuoco mai spento dell’indignazione, della brama di giustizia. Lo dobbiamo, Terri».

«A chi?» Terri sta a ravanare nella borsa alla ricerca di sigarette e accendino. Ma non è disattenta.

«Alla Storia.» Il tono solenne di Milo le fa il solletico per quanto le suona grottesco. Rovescia impaziente il contenuto della borsa sul tavolino mentre replica, sfigurata da una risata che le si ritorce dentro e contro: «Ma che dici? Della Storia noi non fummo che una malconcia retroguardia: fattene una ragione».

Milo tace. Si guarda le mani. Gialle zolfo. Le unghie a teschio dissotterrato.

Terri non ha tregua. Mentre ristipa in borsa – senza ricordare cosa cercasse – chiavi, biro, ricevute fiscali, caramelle sfuse, pile scariche, cicche, spiccioli, un borsellino, il cellulare dalle dimensioni fuori moda, qualche molla, tre accendini a perdere, un pacchetto di sigarette quasi vuoto, una scatolina di mentine in latta acciaccata – attacca greve: «Siamo stati sfortunati, noi, Milo, a nascere in questa era imbelle, in questo emisfero da limbo. Con tutta la forza d’amore bruto che ci bruciava in corpo, in altri tempi, avremmo fatto epica, ci avrebbero eretto statue nelle piazze e dedicato scuole. Avremmo guidato la carica, avremmo centrato, lancia in resta, il bianco degli occhi dei nemici. Invece? Eccoci qui, caro il mio Mosci: pensionati del partito armato, a giocare a rimpiattino coi ricordi, intrappolati da una pioggia di fine stagione, con una vogliaccia sorda e indefessa di linciaggi e incendi. Ma piove, Milo, e l’acqua spegne, infradicia e affoga. Nemo non c’è e non ci sarà mai più. E l’unica soddisfazione è che il responsabile delle nostre rovine, Nino Meo, ha avuto il fatto suo. Te lo immagini? Io sì, come se ora, in questo preciso momento, stesse annegando sotto i miei occhi. Lo vedo: stordito ma cosciente quanto basta, sudato freddo, incaprettato. Il tuffo.

L’acqua negli occhi. Più si dibatte e più affonda.

La morte grigioverde, ghiacciata, entra dal naso, perché Nino Meo, quella boccaccia da Giuda infame, stavolta la deve inchiavare. La lingua è un nodo, il collo contratto, il capo rovesciato indietro per istinto di conservazione, la spina dorsale tesa ad arco. Invano. Perché Nino va giù, va giù e vomita quel che inghiotte e inghiotte quel che vomita, e sa che se lo merita di morire così. Però non vuole ancora arrendersi al nulla in cui scende.

Ancora, per quella scintilla di consapevolezza che lo fa espiare, non ci crede. Resiste. E perdeil controllo delle viscere. L’amaro acido della bile gli infiamma la trachea. Gli si scioglie l’anima in acque di vergogna e orrore. Ma nessuno lo salverà.

Non c’è niente da fare, potrebbe anche squagliarsi tutto, tanto tutto è liquido e dannatamente scorre.

Panta rei, Mosci, panta rei».

Una risata da iena stravolge Terri.

«Insomma, Terri: ti va o no di tornare a combattere?» domanda ingobbendosi Milo, preparandosi a una delusione che, proprio da Terri, non prevede.

Terri si compiace di contraddirsi e di sorprenderlo.

«Sicuro che mi va di combattere. Ho una foia addosso che potrei farmi esplodere sotto la statua equestre che mi hanno negato. E non soffro di mal di testa. E non ho il cancro. E nemmeno una pubblica rispettabilità. E sono viva. Non ho mai pensato di aver torto, mai. Se penso alle mie vittime, una a una, le beccherei tutte senza esitare, come se loro dal purgatorio me lo chiedessero sbavando.

Sono cattiva, Milo, e non ho che questo rancore sordo, radicato, da offrire a una causa di cui ho perso la ragione, ma che pur doveva averne una, se a essa ho votato la mia esistenza. Tutto, tutto pur di non essere la rotellina anonima di un ingranaggio fermo. Dammi l’abbrivio, Milo, e ancora una volta girerò all’incontrario per inceppare la macchina

immobile dell’ordine.»

Milo sorride appagato, la bragia in fondo alle pupille.

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