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sabato, 1 dicembre 2007

EH… QUANDO C’ERA LUI! (di Sergio Sozi)

Vi è capitato mai di assistere a “scenette” divertenti o tragiche o grottesche o paradossali mentre eravate in fila in banca o alla posta? Sicuramente sì.

Bene! Vi invito a raccontare qui i vostri aneddoti “da coda”. Lo spunto ce lo offre l’incipit di questo inedito di Sergio Sozi (nella foto) che ho il piacere di proporvi.

Sozi è l’autore della raccolta “Il maniaco e altri racconti” (ne avevamo già parlato qui e qui).

Leggete il racconto e commentatelo. Poi raccontate i vostri aneddoti “da coda”.

Non ne avete? Inventateli!

A volte la fantasia è così ricca che diventa più vera della realtà.

Massimo Maugeri

P.S. Si precisa che il racconto che segue non è “integrale”, ma uno stralcio abbondante.

_________________________

_________________________

 

A Franco Franchi e Ciccio Ingrassia (in memoriam)

Quando in banca si radunano i vecchietti che depositano le pensioni ritirate la mattina stessa alle Poste, si forma un assembramento paro paro a quello dantesco sulla riva dell’Acheronte, soltanto più loquace: tra malanni sempre incurabili, nipoti sempre degeneri, sciagure stradali e varianti di queste amenità, potremmo affermare l’assoluta salubrità della narrativa orale contemporanea. Peccato che spesso, in siffatte occasioni, manchino le qualificate orecchie di un qualche scrittore per trascrivere il tutto e così smentire platealmente quei critici letterari, inveterati pessimisti, affermanti il disfacimento del romanzo moderno.

Il giorno sedici dicembre del Duemilaotto, però, verso mezzogiorno, Euterpe Santonastasio non è che si divertisse troppo a seguire la borbottante fila del Credito Nazionale, nonostante l’acida vedova dietro a lui e relativa giovane accompagnatrice:

<<Mamma… hai preso le pillole verdi e gialle delle undici?>>

<<Quelle rosse e blu, intendi, vero? Sì le ho prese, anche se sono affari miei.>>

<<No, mamma: alle undici ti toccano quelle verdi e gialle. Le altre dopo pranzo. Va be’: per oggi invertiremo l’ordine, ma non ti ci abituare, che fa male.>> E la scruta con severità.

<<Invece mi fa bene portare a spasso i tuoi figli mentre stai in ufficio tutti i santi giorni, domenica compresa.>>

<<Ti sei offerta tu…>>

<<Che diavolo c’entra: un tempo mi offrivo spesso anche a tuo padre, la sera, ma questo mica voleva dire che poi fossi obbligata a restare incinta ogni nove mesi!>>

<<Paragone insostenibile, mamma.>>

<<Direi che qui d’insostenibile ci siano i tuoi tre divorzi con quattro figli a tuo carico. Oops! Scusa: a mio carico.>>

Santonastasio, i bimbi li considera un po’ oleograficamente quasi partoriti dalle cicogne o dai cavoli a primavera, dunque si guarda bene dal mettere il dito nella piaga delle due donne, sebbene immaginiamo quanto dentro di sé si divida fra il sorriso e la riprovazione. A complicare la faccenda ci pensa invece lo scheletrico matusalemme che lo precede nella coda, uno dall’evidente accento laziale:

<<Bella famigliola, non c’è che dire!>> Altisòna costui con uno sguardo neronero come neanche Ulisse mentre infilzava i Proci. Mezzo branco si volta e, tacendo ovviamente il bersaglio di tale commento, una nervosa tizia sugli ottanta chili alza la mano in stile declamatorio (Augusto in cotta d’arme alla plebe) e, alle spalle delle due incriminate, scandisce:

<<Ha parlato sant’Ignazio di Loyola. Ma torna a zappare, che ancora mando i soldi ogni mese ai tuoi figli, fallito!>>

<<Questi sono affari privàti.>> Replica lo sdentato laziale alzando minacciosamente il bastone.

<<Privàti un corno.>> La voce maschile proviene da qualche indefinibile punto della ressa, verso la porta d’ingresso della banca. <<Lo sanno tutti nel palazzo che avete otto creature date in adozione da Palermo a Milanomarittima! Vergogna!>>

<<A Milanomarittima>> dice tempestivamente un altro uomo <<io ci butterei te agganciato ad un siluro. Così magari vai a far compagnia agli albanesi che non s’aspettano altre sventure. Pensa piuttosto a pagare il condominio.>>

Una palla di carta vola fino a colpire la spalla destra di Santonastasio: <<Tié!>> enuncia in perfetto calabrese l’ugola della distante lanciatrice <<prenditi anche la mia pensione, Carlo Poropat! Basta che la pianti di scassare la macchina di mia figlia ogni volta che parcheggi.>>

<<Ma fammi il piacere, pazza da legare: io le macchine dei terroni manco le sfioro, che m’inquinano l’anima al solo vederle.>>

<<Bello tu, invece: spècchiati!>> Osserva chissà chi nella fila affianco, quella dove si nota una maggior presenza di clienti in età da matrimonio. La voce è triestina, giovanile e muliebre, e starebbe per continuare con qualche ulteriore particolare descrittivo non troppo edificante, ma viene interrotta da un vero e proprio ultimatum:

<<Egregi signori… Ecco: adesso che vi siete sfogati tutti, alzate le mani e chiudete le gentili fauci, per favore.>>

La accompagna un’indiscutibile bocca di fuoco détta pistola a tamburo, levata al soffitto come la torcia di un tedòforo.

Primo capitolo

<<E questo cosa cavolo c’entra, scusi?>> Ardisce comunque polemizzare un incosciente tizio da un altro angolo della vasta sala.

Un qualche brusio di ghignate serpeggia tra la folla, oramai in procinto di far mente locale sebbene ancor divertita da tal insperato carosello – tipica doppiezza italiana ironico-drammatica.

<<Il mio collega c’entra perché entrambi vorremmo rapinare questa banca. E se non ve ne state quieti un attimo, mi sa che butto la bomba.>> Precisa timidamente un’ennesima lingua maschile. Questa volta gli si fa il vuoto attorno, poiché costui agita una borsa nera ben poco promettente.

Quindi salta su una giunonica babbiona ingioiellata che recita trionfante: <<Bravi! Portategli via tutto, a ’sti ladri di banchieri!>>

Il rapinatore cólla pistola la abbassa involontariamente ad altezza d’uomo; ha l’aspetto d’un coleottero: secco inguastito e mezzo curvo, moro ardesia tinto; età apparente, oltre i sessant’anni. E tace. Il suo compagno, all’incirca coetaneo, posa la borsaccia letale davanti a sé e intanto commenta: <<Un po’ di contegno, per Dio…>> È meno esile di corporatura, anzi si direbbe ben in carne, ma flebile nel tono vocale.

Lo smilzo ha un baritonale sussulto di realismo e <<Strani questi signori>> commenta. <<Abbiamo detto mani in alto!>> Non arriva ad urlare per pochi decibel.

Finalmente si vede un’alberaglia di dita artritiche, incomplete, pingui, insomma multiformi ma comunque tese verso il soffitto. Il magro pistoluto si appressa allo sportello, dove una piacente cassiera ha appena smesso di scrivere qualcosa su di un foglio, e constata:

<<Stavolta attingo alle pensioni di tutti quanti e pure alle non-pensioni, purché in contanti. Sia così gentile da sistemare le banconote in questa busta sùbito, altrimenti il mio compagno farà esplodere la bomba che ha nella borsa, o io, diciamo, scusi la volgarità, manderò all’Oltretomba qualche osso da sepoltura fra i quippresenti.>> Poi, rivolto all’altro che gli sta vicino, sottovoce: <<Fai mettere tutti costoro a sedere, Aligio: non vedi che stanno scomodi?>>

<<Giusto.>> Osserva il cicciottello. <<Abbiate la compiacenza di accovacciarvi, signori.>>

<<Che? Non si capisce un’acca quaggiù!>> Replica la matrona ingioiellata di prima con accento un po’ meno gaudente ma sempre altero.

<<Uff… Mentre svaligiamo la banca, ci piacerebbe vedervi seduti, dice il collega!>> Ripete il ciccio oscillando la borsa senza volere. Ognuno si accuccia. Sporadiche chiacchierette quasi inavvertibili.

<<Aligio: io ho da fare qui allo sportello… ti prego: dì loro di piantarla con le grane, che abbiamo fretta. Magari… ecco: intrattienili con qualche facezia orrorifica e intanto fatti consegnare il… valsente che hanno in tasca, eccetera eccetera: ori, preziosi…>>

Aligio si volta e, vista la platea seduta: <<La sapete quella storia che avvenne, nella notte dei tempi, in un bosco qui vicino? In… Istria?!>> Quasi balbetta.

Silenzio glaciale. Poi uno suggerisce: <<La storia di Casimiro della Torre, dice?>>

<<Casimiro… hem… un attimo, scusi.>> Replica Aligio nell’avvicinarsi all’altro bandito, in piena riscossione, così chiedendogli ansiosamente: <<Che accipicchia ne so, io? Dimmi Favonio: c’è una tradizione locale su tal Casimiro?>>

<<Cosa vogliono?!>> sussurra acido il pistoluto in risposta <<Cappuccetto rosso andrà benissimo. E non chiamarmi per nome, ch’è sconveniente se nessuno ci ha presentati ufficialmente. Ti sei rimbecillito, Aligio? Vogliamo far la figura dei cafoni?>> Poi, rivolto a tutti, prosegue un po’ rude: <<Facciamola breve: zitti e mosca! La pazienza ha un limite. Io incasso e lorsignori godranno della fiaba di Cappuccetto rosso secondo quanto tramandato dai fratelli Grimm. O Andersen, o Calvino. Perrault magari.>>

<<Sì… Mamma oca!>> Provoca un impertinente in sala.

<<Si qualifichi!>> Riponde piccato Favonio il magro.

<<Voglio dire:>> prosegue il provocatore <<sono cinque minuti abbondanti che rapinate. Non sarebbe meglio sbrigarsi? Parlo da addetto ai lavori.>> Si tratta della voce raucosmollata del nostro ex carabiniere. Qualcuno se la ride sottoibaffi. <<Oltretutto…>> continua Euterpe <<…alla vostra età…>>

<<Alla NOSTRA età>> constata Favonio <<mica tutti si rassegnano a crepare con stretto fra i denti (finti) l’ultimo assegno di quiescenza, caro l’amico mio.>>

<<Ma io quello lo conosco,>> interloquisce serio serio uno stravecchissimo seduto ad un paio di metri da Favonio e Aligio, <<è il poeta! Il professor Favonio de Brutti! Come sta la signora, commendatore barone, tutti bene a casa?>>

Un buonumore stravolgente, presa la bocca dello stomaco a ognuno dei presenti, erutta fuoricontrollo, contagiando persino la cassiera piacente. ”Settanta persone che ridono in banca: roba mai vista! Vediamo come faranno a rimettere la situazione nei binari della storia poliziesca.” Medita Santonastasio, il quale comunque si associa di buon grado al delirio senil-collettivo.

Il menzionato commendatore barone, nel diluvio degli scompisciamenti, prende per il collo Aligio e lo sprona: <<Non dovevi pensare tu alle tasche dei clienti? Che razza di consuocero sei, fannullone e debole di carattere!? Io debbo sparecchiare gli uffici e la cassaforte, a te sta il controllo della guardia giurata e della plebe. Oltretutto la guardia oggi manco c’è, vedi che fortuna? Avanti: appoggia la borsa con l’ordigno su quel bancone>> ed indica la cassa numero uno vicino a sé <<e passa fra ’sti rincretiniti a ripulirli. Intanto vai con Cappuccetto rosso: e sii crudele con il lupo, capito? Viviamo nel ventunesimo secolo, ragazzo!>> L’altro, diligentemente, sbatte senza troppi complimenti la valigetta ove indicatogli.

Secondo capitolo

Sedatosi spontaneamente il tumulto, anzi diremmo l’ilarociclone: <<Mo’ basta! Consegnate tutto quel che avete al mio amico e con sveltezza!>> Proclama il segaligno nobiluomo mentre si affaccenda alla cassa numero due. Aligio inizia dunque a ritirare borsellini, orologi e gioie. Suda con costanza da quando son cominciate le danze e, impacciato com’è, deve costargli molto abbassarsi e alzarsi di continuo e al contempo parlare:

<<Grazie, signora: Dio glie ne renda merito.>> Farfuglia ad una specie di rancida famfatàl, mentre insacca un paio di anelloni zingareschi; <<Scusi, eh…>> Si giustifica agli occhi di un trippone incravattato dall’aria ingegnerile; <<Molto obbligato.>> Ringrazia dimessamente un tizio antipatico sulla trentina per il portafogli. E via dicendo.

<<Lenti come i treni delle Effeesse. Secondo me finite al Coroneo.>> C’è bisogno di commento? Questa è la raucedine bassa e obliqua del nostro capitàno in congedo!

<<Dove finiamo??>> Rimanda il ciccio bloccando a mezz’aria una catenina di similoro.

<<Stiamo freschi: il carcere di Trieste. Almeno ci intrattenga come promesso, no? Che, tiene le corde vocali malate, rapinato’?>>

<<Rapinatore sarà lei. Io ho la laurea in Lettere. C’era una volta, in una solitaria casetta incatramata di rosso e con le piastrelle rosse sul tetto a capanna – mentre invece… uff!… l’unico comignolo era gialloinvidia…>>

<<Ma solo le rapine, è capace a fare, scusi, lei.>> Lo interrompe Santonastasio con tono di constatazione tecnica: <<Dove stanno mai i catrami rossi… e le piastrelle sui tetti a doppio spiovente. Se desidera elargirci un sottofondo musicale come quello degli ascensori amerrecani lasci perdere: io sto meglio in silenzio, mentre perdo la pensione. La laurea all’università della terza età non conta, durante un delitto che sia un evento speciale, elegante e fatto comesideve, mi consenta. Sforzi la fantasia, su.>>

<<Bravo!>> Si associa una signora nella calca che, repentina quanto un lampo, si alza e acchiappa la borsabomba del dinamitardo, levandola a due mani sopra di sé. <<Dài, delinquente: prova a prenderlo, il tuo tritolo!>> E la passa a un signore, che agilmente la dà indietro a un altro e via di séguito, senza pausa.

<<Macché siete matti?! Fermi! Boni, state bboni! Mi sgualcite la cartella di papà…>>

<<Ah! Ah!>> Ironizza una ragazzotta. <<Rischia di fare il botto con noi e pensa alla borsa. Apriamola, forza!>> E se la fa passare senza curarsi dei tentativi di Aligio, il quale goffamente tenta d’intercettare l’oggetto investendo senza risultati – patapùmfete! – qualcuno di a lei distante.

Aligio, a terra bocconi, con il sacco della refurtiva semivuoto stretto nella mano destra e orecchini, brillanti, segnatempo e braccialetti sparsi a corona d’intorno, accenna un moto di pianto: <<Però… la pistola di Favonio, il professor de Brutti, è caricata con pallottole vere, capito, maramaldi, dispettosacci?! E ridatemela, sennò lo chiamo e quello vi spara di sicuro.>>

Invece la valigetta in cuoio, nera, piena strabordante di qualcosa d’inusuale, viene sottoposta all’impietoso vaglio della ragazzotta triestina che l’ha catturata:

<<Ma… queste sono… cambiali!>> E le estrae ad una ad una sparpagliandole, fra lo sbigottito silenzio del cronicario. <<Tutte a suo nome: c’è scritto Aligio Carmentieri di Quintavalle. È lei, no?>>

<<L’ultimo principe di Quintavalle, così brutto?>> Infierisce bonariamente una anziana piccoloborghese forse napoletana. <<Mi ricordo quando, nel Sessantatré, sposò la figlia del re di Danimarca… come si chiamava…>>

<<D’accordo: lasci stare.>> Echeggia un’anima pia.

L’uomo intanto tace, col muso stretto fra dieci polposi ditini e sempre all’in giù, pavimentobaciante.

<<Signore e signori,>> continua la ragazza <<osservino: seicentodieci euro… trecentotré… milleottanta. E… Oddio…>> e rovescia un mare di foglietti vuotando la borsa. <<Con chi ha lei questi debiti? Non sarà mica proprio questa banca?>> Sarà stata almeno una mezza migliaiata di pagherò.

<<Con me. Soddisfatta la vostra curiosità da rotocalco? E adesso basta con gli scherzi.>> La tenorile, perfida voce di Favonio de Brutti convinse ciascuno. Teneva in una mano una busta per l’immondizia colma di biglietti di banca e nell’altra la rivoltella, provenendo dagli uffici che stanno sul retro. Poi cambia registro: <<Sursum corda, gentili signore e onorevoli signori: aiutate Aligio a raccogliere il bottino in quattro e quattr’otto e pensate che il mio povero compare nonché consuocero, grazie a questo audace colpo, conserverà intatte le proprietà ipotecate. Io, d’altro canto, con questi soldi potrò a malapena pagare a questa banca i miei debiti. Tutto viene e tutto torna agli istituti di credito, in Italia: la patria degli strozzini.>> Altro divertito cicaleccio in sala, sempre sotterraneo.

<<Però… i debiti li avete fatti voi. Se aveste speso meno… eh… I lussi costano.>> Osserva Santonastasio, il quale, pur non disdegnando qualche arretrato conticino, aborra gli oneri finanziari veri e propri.

A tale rimprovero, Aligio rialza la testa: <<Mica giochiamo a carte come i nostri progenitori, noi!>> Contesta lamentosamente ad Euterpe, mentre il pubblico impietrisce. <<Ci hanno mangiato tutto gli industrialotti dopo la guerra. La Prima dico. Verso il Ventinove. Be’: non proprio tutto… almeno la metà.>>

<<Ciò non spiega un cappero verdeverde: come mai state in queste condizioni?>> Rilancia una spietata pugliese con occhiali alla Wertmüller e un terzo dell’età apparente di quest’ultima.

<<Avete mai sentito che un poeta latino o greco abbia vangato i campi per obbligo e non per semplice mantenimento del vigore fisico?>> Provoca altezzosamente il commendator Favonio, posando il sacco a terra. <<No, vero? Ebbene: noi due, pur avendo prole e moglie, abbiamo scommesso la testa sulla letteratura: sono trent’anni che siamo costretti a scrivere gratis su tutti i giornali italiani – e i periodici, eccetera. È il nostro unico lavoro ma nessuno ci dà un soldo, perché la gente pensa: questo, se mette l’ingegno nello scrivere e basta, vuol dire che è ricco sfondato, mica lo vado a pagare, fossi scemo. Dunque, finché ci siamo potuti mantenere coi possedimenti – e noi i lavoranti dei campi li paghiamo, sapete? – la cosa è andata. Poi… Aligio s’è indebitato con me, che ho qualche ettaro in più di lui ed io, senza mai dirgli niente per non preoccuparlo, ho cominciato a prendere soldi da questa benedetta banca. Ma non abbiamo mai, dico mai, licenziato un contadino e mai abbiamo sgarrato di un centesimo di lira dalla paga sindacale… anzi… più che sindacale, di solito. Oltre il massimo, vanno pagati coloro che ci nutrono a forza di braccia!>>

Si leva qualche timido applauso. Un decrepito occhialuto però non concorda affatto: <<Ma non li vedete i nostri figli, voi signorotti decaduti che vi permettete anche di rapinare le banche? Che valore hanno, per voi, i figli della gente comune che devono rassegnarsi ad un lavoro alienante e opprimente, senz’altra prospettiva se non quella di sprecare il fior fiore degli anni dentro un ufficio moderno con le luci al neon, in una orrenda città come la nostra Trieste o anche Roma, Napoli, Milano? Noi piccoloborghesi, oggi, riempiamo di menti sfruttate i palazzoni delle periferie italiane, non voi scrittori e aristocratici. Sia ben chiaro. Noi diamo la carne a macellai bancari e speculatori borsisti. L’alta finanza si nutre del sangue nostro.>>

<<E perché non vi ribellate, allora? Perché accettate…>> replica con calore Favonio de Brutti, incurante d’uno strano brusio <<… Perchè accettate meschinamente il lavoro nero e le paghe inadeguate, la vita assurda, blindata, che siete costretti a portare avanti nelle vostre città o nei vostri paesi delinquenziali e mafiosoidi? Unitevi e chiedete giustizia, no? Siete il popolo! La democrazia l’avete fatta voi, o almeno la godete ora voi, dopo che i partigiani ci hanno lasciato la pelle negli anni Quaranta. E vi ritrovate ancora nel Duemilaotto a far la solita figura dei borghesucci ottusi ognun per sé e Dio per tutti! Suvvia! Se è vero – ma mica troppo, eh! – che noi aristocratici siamo tutt’ora dei privilegiati, voi restate le teste di legno che eravate duecent’anni fa. Voi non meritate la democrazia. Anzi: tutti noi italiani non la meritiamo, perché siamo degli immaturi e degli egocentrici, dei burini infantili che abbisognano della frusta e delle minacce per rispettare la cosa pubblica. Siamo dei sottosviluppati europei. E pensare che l’Europa l’avremmo fatta noi con le mani dei nostri antenati! Eppoi l’abbiamo svenduta: ai diavoli americanacci che abbiamo dentro di noi, alla sete di commercio di noi stessi, all’istinto autodistruttivo e decadente che ci propone il sangue del nostro sangue antico, eterno.>>

<<Eh… Quando c’era Lui!>> Ammette con sincerità un ragazzo moro sulla ventina scarsa con accento lombardo e naso a promontorio.

<<E che, pensi che il Duce potesse contrastare da solo la nostra bastardaggine? In vent’anni mica si dànno antidoti sufficienti allo scorrere dell’anarchia, sai, giovincello? Ne servono almeno sessanta, come in Iugoslavia. Anzi no… forse ne servirebbero duecento… mille, di anni.>> Risponde Favonio de Brutti pacatamente.

<<Serve un solo principe illuminato e filosofo, credetemi.>> Vedete? È Santonastasio. <<Anzi, preciserei: urgerebbe qualche dio che concedesse le condizioni terrene acché un filosofo illuminato oggi potesse riportare noi italiani ad un regime di condotta complessiva – morale, fisica, intellettiva, onirica – quale esso era nella latinità dell’epoca monarchica. Ma.>> E l’ex milite fa una pausa significativa. <<Ma adesso bisogna risolvere questo macello: scusate… Vedo i miei colleghi fuori dalla porta della banca. Siamo circondati, immagino.>>

<<I… suoi colleghi?>> Interviene Aligio con evidente maremoto di sudore.

<<Ex colleghi: sto in pensione. Carabiniere a riposo.>>

<<Ah… grazie: li ha chiamati lei col telefonino.>> Insinua gaudendo la matrona ingioiellata.

<<Il telefonino io non lo tengo, draga gospà.>>

<<Drago femmina a me? Screanzato. E chi gospò: io non ho mai gospato.>>

<<In sloveno vuol dire cara signora.>> Precisa Euterpe.

<<Scusate>> s’intromette Favonio tesuccio <<ho inteso male o siamo accerchiati dai tutori dell’ordine?>>

Alla conferma collettiva – un annuimento – dei settantaerotti clienti, lo stesso Favonio gesticola senza risparmiar fiato: <<Controlla le porte, Aligio! Serra tutto. Entriamo nella pellicola merrecana!>> Esplode.

Terzo capitolo

<<Ma non poteva tenerla per sé, ’sta notizia?>> Sussurra un tizio sveglio ad Euterpe. <<Così i rapinatori sarebbero usciti e i carabinieri li avrebbero beccati in un soffio, no? Invece adesso… questi due suonati ci prendono in ostaggio. E finisce a carneficina.>>

<<Ué, Apocalisse: ma li ha visti in faccia? Questa è gente da Monte di Pietà, altro che sangue. Non si preoccupi. Meglio tenere sotto controllo la polizia.>> bisbiglia Santonastasio. Intanto, dai finestroni della banca, si intravvedono i movimenti sulla strada: tante logore fisionomie da sbirri in borghese e mucchi di autocivette blindate. ”Con il solo loro nervosismo, innescherebbero una carica di plastico da un chilometro… altro che prudenti agguati.” Pensa ancora il Nostro.

<<È tutto chiuso?>> Domanda Favonio al consuocero, ricevendone un immediato annuimento. Entrambi stanno posizionati in piedi, Favonio l’arma in mano, al centro della vasta sala: come degli scalcinati guitti, fra i titubanti spettatori di un teatrino parrocchiale che attendono la prima battuta per fischiarli a ragion veduta. Un troppo indifferente silenzio regna nell’ambiente per qualche striminzito secondo, finché il direttore del Credito Nazionale non chiede: <<Allora?>>

A trovare il coraggio per una risposta è il solito Favonio dal barocco eloquio:

<<Quantunque l’imprevisto ci ponga un po’ in difficoltà, io direi che… eh… come fare altrimenti? Dovremo presto comunicare telefonicamente con quei signori là fuori, spiegando che adesso siete tutti sotto la minaccia di questa pistola. Lei cosa farebbe nei miei panni, direttore?>> Adesso suda anche lui.

<<Io avrei evitato di ridicolizzarmi.>> Replica Euterpe al posto dell’interpellato. <<Cosa crede di trarre da un rapimento a scopo di rapina fatto così – scusi – coi piedi? E anche se riusciste (per assurdo) a filarvela senza farvi bucherellare dai tiratori scelti dell’Arma, rifletta: sappiamo tutti come vi chiamate… mica crederete di andare a godervi i soldi a Cuba come negli anni Settanta.>>

<<Ha ragione lui, Favonio.>> Ammette Aligio guardando il collega per la prima volta dritto negli occhi. <<Diglielo, su… è meglio che sappiano tutto tutti, a questo punto: se no qui finisce in tragedia.>>

<<D’accordo, Aligio. Dopo però, cioè entro un minuto, dobbiamo chiamare la polizia prima che decida di entrare a forza. Ecco, signore e signori…>> Tituba cercando di organizzare i pensieri. <<Devo confessare che quanto avete capito della nostra situazione patrimoniale, del nostro esser pensionati come voi e del fatto che non faremmo male a una mosca è tutto vero… eccetto un particolare, che vi rivelerò solo se prometterete di aiutarci a risolvere insieme la situazione con il minimo danno per tutti quanti. Coraggio, esprimetevi, che il tempo scarseggia. Proponete delle soluzioni.>>

<<Soluzioni?>> Commenta acida una trentenne. <<A noi, le chiede? Ma vada a quel paese, imbecille! In galera, dovete finire voi. Bravo chi è riuscito ad avvisare la polizia di nascosto.>>

<<Bravo un corno: se la cosiddetta rapina fosse riuscita, i miei colleghi, tempo ventiquattr’ore, avrebbero recuperato il maltolto e arrestato i colpevoli… per quanto colpevole possa considerarsi questo sudaticcio resto di nobiltà.>> discorda Santonastasio, che non s’era perduto un fotogramma della scena, cogliendo la nera disperazione dei due improvvisati delinquenti. <<Piuttosto, oramai che lo scemo zelante ha fatto il casino, cerchiamo di porgere una mano a ’sta coppia di sprovveduti senza rimettere un soldo di tasca nostra. Io avrei un’ideuzza.>>

<<Sì>> lo scongiura il ciccioprincipe Aligio <<Faccia presto.>>

<<È semplice ma dobbiamo impegnarci tutti, impiegati compresi. Chiaro?>> Puntualizza Euterpe, pertanto distraendo l’uditorio dalla sconvolgente rivelazione che i banditi erano in procinto di fare.

<<Non so… sentiamo.>> Temporeggia il direttore. Il pubblico sembra, in buona maggioranza, disponibile.

<<A voi della banca cosa importa se sparisce qualche migliaia di euro? Siete consci di sfruttare la gente abitualmente, no? Nel giro di un giorno di lavoro rifate il malloppo. Inoltre siete assicurati contro gli atti criminali.>>

<<Bene: vada al sodo, Santonastasio.>> Sprona un altro anziano. È quel vanesio del rigattiere che ha la bottega vicino a casa sua.

<<Adesso,>> prende ad illustrare Euterpe <<mentre il principe Aligio andrà a telefonare a quelli là fuori, noi tutti, in fretta…>>

Pubblicato in EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, RITORNO AI CLASSICI   317 commenti »

venerdì, 14 settembre 2007

I CAPPUCCINI DEL MARE (racconto di Dora Albanese)

dora-albanese.jpgVi propongo un inedito di Dora Albanese (nella foto).

Leggetelo, se potete. Io l’ho trovato delizioso: una piccola pennellata narrativa sospesa tra sguardi e pensieri.

Vi anticipo una cosa. Vi ricordate il precedente racconto di Dora: Portare il pane a casa? L’abbiamo pubblicato qui.

Raccogliendo la proposta di un commentatore ho chiesto a Dora: “E se fosse il primo capitolo di un romanzo?”

Lei mi ha detto: “Non ci avevo mai pensato”.

E io: “Secondo me è il primo capitolo di un romanzo.”

Da qui è nata l’idea e la proposta: pubblicare un romanzo online a puntate; un romanzo che ancora non esiste, che deve essere scritto (ad eccezione del primo capitolo).

Dora ha accettato con entusiasmo.

Ma sapete qual è la particolarità? Il romanzo sarà interattivo, nel senso che VOI – con i vostri commenti – indirizzerete Dora sull’evoluzione dei personaggi e della storia. Naturalmente l’autrice sarà libera di seguire un’indicazione piuttosto che un’altra, o – se capita – di non seguirne nessuna. Insomma, una concezione modernissima di romanzo interattivo che prenderà corpo tra gli impulsi dei commentatori e la penna di Dora.

Vi piace l’idea?

E ora il racconto. Leggete e commentate, please.

(Massimo Maugeri)

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La sala da pranzo dell’albergo di Maratea è poco distante dal mare. Si ferma proprio sulla spiaggia, come fa la libellula rossa d’estate. Quella momentanea sospensione, quell’impercettibile distacco da terra, rende tutto così feribile, così fragile, che a stento riesco a guardarlo il mare, seduta da qui. Mi sembra così profondo e infinito, che i miei occhi si fermano a riva, non vanno oltre. Credo che è solo da lontano che si percepisca esattamente la profondità del mare, e il suo pericolo. Il sapore di morte che ogni onda lascia sulla spiaggia. Invece, quando si è dentro, si smette di tremare, di guardare lontano; lo guardi dritto negli occhi il mare, i mille occhi, dei mille pesci azzurri che lo vestono, e si vedono le alghe, che gli sfiorano le gambe. Tutto è zumato, ha senso solo ciò che è efficace. Il mare è il riassunto di ogni vita, dalla paura più grande che ci rappresenta, alla pisciata di ogni uomo e di ogni cane. Il mare siamo noi: gente umida, uomini d’acqua, impastati con carne di sabbia. Il mare è il figlio che nasce e nuota, lasciando alle spalle il suo passato da feto, e pezzi di placenta galleggiante. Ieri notte, un uomo dell’età di mio nonno, è annegato nella sua piscina. “Aveva i pesci nella piscina, forse a guardarli gli è girata la testa ed è caduto dentro, o forse gli avranno cantato una melodia strana”. Ha detto così mia nonna, quando le ho telefonato, per chiederle come andava la salute. Le volevo dire che è troppo facile dare la colpa ai pesci, dire che sono degli assassini, le volevo dire che quell’uomo forse si è suicidato, che aveva una depressione inguaribile, che la moglie lo tradiva con un ragazzino di diciotto anni. Ho lasciato stare, le ho risposto: “sì, nonna forse è proprio come dici tu… che dobbiamo fare, pazienza”. Perché mia nonna è anziana, perché è convinta che ci sarà la fine del mondo, perché crede che gli occhi bruciano per colpa del vento dell’Africa, che arriva fino qua, in Basilicata. Le onde continuano a poggiarsi sulla spiaggia, a solcarla, senza tregua. Anche una ragazza della mia città è stata solcata da otto onde minorenni, senza tregua. L’hanno trasformata in tanti piccoli granelli di sabbia. Da allora, è scomparsa, nessuno più riesce a vederla. La immagino in camera sua, rannicchiata nel letto, ancora dolorante, mentre aspetta, aspetta come una farfalla, il soffio del vento, per essere trascinata via, per morire, per non volare più, e il solo pensiero mi provoca i brividi. Anche la sala è rossa, come la libellula. Il pavimento è fatto di tanti quadrati rossi e larghi, con gli interstizi neri. Neri di sporco. Di anni di sporco. Di anni di piedi passati a fare colazione o a cenare, di piedi che avevano tutti nel passo una decisione da prendere; se andare al mare o tornare in camera a dormire un altro po’, se restare seduti a leggere il giornale aspettando che la turista della duecentosei scendesse, o tornare dalla propria moglie lasciata a dormire. Sono tutti piedi “belli di giorno”, quelli che vivono nell’indecisione; non sapranno mai, alla fine, se salirle le scale, o scenderle per sempre. Quanti piedi decisi e innamorati incontriamo per strada e nella vita, anche se non lo sapremo mai, perché i piedi non parlano, ma si fanno capire.

I piedi di Adriana, la signora della centonove, sono allegri e frettolosi. Si fanno vedere poco, preferiscono nascondersi dentro stivali a punta, nonostante il caldo. Ma il loro passo, quello di certo non possono nasconderlo. Il piede destro tende a scappare verso l’esterno, anche se il piede sinistro, lo raggiunge in fretta; passano pochi attimi, e poi subito si coordinano; decidono che passo prendere; se scalpitante e fiero, o addomesticato e umile.

Oggi Adriana ha preferito non prendere l’ascensore. Scende le scale di corsa con gli stivali, assumendo un’ andatura animalesca. Scalpita come fosse un cavallo da doma. Alza i tacchi da terra, e prova gusto a ritmare il passo e a dargli una cadenza, a far sentire a tutti noi che siamo già seduti, in attesa che l’ordinazione venga servita, che lei c’è, anche oggi. Ha i capelli sciolti stamattina, biondi un po’ arruffati alle punte; forse non li ha ancora pettinati. Anche gli occhi sono quelli della sera passata; la matita è ancora lì, secca; la toglierà dopo aver fatto colazione, forse si tufferà direttamente in piscina, o forse farà una doccia in camera, restituendo il giusto candore alla sua pelle. Ha addosso una sottana ricamata, di lino verde oliva, che con l’abbronzatura, le dona un certo significato. Adriana significa qualcosa, stamattina. Credo che poche donne riescano ad avere un proprio significato. E’ bella, di una bellezza da ammirare, da approvare, e pure io che sono donna, resto a guardarla, imitando la sua compostezza e il suo naturale piacere nel farsi guardare, senza vergogna.Il cameriere la raggiunge e l’accompagna a sedere.

“Buongiorno signora, come è andata la notte… dormito bene?”

“Sì, sì… bene. Mi porterebbe un cappuccino? Grazie, e…”

“Certo signora, mi scusi, diceva… ?”

“E un caffè… un caffè da portare via, grazie.”

“Grazie a lei signora. Il numero della stanza?”

“Perché, a cosa le serve?”

“Per verificare se tutti riescono a fare colazione signora… se tutti i clienti dell’albergo hanno usufruito del servizio incluso nell’ospitalità, signora.”

“Ah, sì certo, certo… mi scusi, credevo voleste salire a portare il caffè… ”

“Come preferisce signora”.

“La 109… il numero è 109”.

“Grazie signora… le porto subito il cappuccino”

“D’accordo, grazie”.

Finalmente anche il mio cappuccino è arrivato. Il cameriere me lo serve accompagnandolo con un mazzo di buganvillea.

“Sono i fiori del mare, madame, per lei”.

Lo ringrazio, un po’ imbarazzata, poi mi guardo attorno, cercando di capire se ci sono altre buganvillea sui tavoli di chi ha ordinato la colazione, ed è proprio così. Sorrido, quando vedo altre donne girare la testa, alla ricerca di un qualche ammiratore segreto, e poi sbuffano un poco, o abbassano lo sguardo, quando scoprono che non c’è nessun bell’uomo dietro l’angolo, pronto a distrarle dalla noia del matrimonio. Sorrido nel vedere come è facile incantare una donna, illuderla di essere al centro del mondo, come fosse una sirena in mare aperto.

Anche Adriana ha ricevuto il mazzo di fiori; ma a fianco ai fiori c’è un telefono.

“Signora abbiamo suo marito in linea, vuole sapere cosa ha ordinato per colazione… quante colazioni ha ordinato cioè… vuole che glielo passi?”

“No, la prego… gli dica che sono salita in camera” risponde Adriana a voce bassa, con il panico in gola.

“La signora è salita in camera, spiacente signore, io non posso dirle altro… il numero della camera?”

Il cameriere posa la mano sul microfono della cornetta, poi si rivolge a Adriana: “Signora, suo marito vuole sapere il numero della sua camera…”

“Dica che non lo sa, che non mi ha servito lei, inventi una scusa, la prego”. Risponde agitata.

“Spiacente, signore, ma non ho servito io la signora, non conosco il numero della camera in cui alloggia… se vuole, provo a chiedere alla reception se la possono aiutare…”

“Bravo, bravo” dice Adriana, sussurrandogli un complimento.

“D’accordo, signore… comunicheremo alla signora che chiamerà più tardi… arrivederci, buona giornata”.

Adriana tira un respiro di sollievo.“Grazie, grazie davvero, lei… lei mi ha salvata… grazie”.

“Si immagini, signora, questo è il mio lavoro… allora, vuole che le salga il caffè in camera… vuole aggiungere altro?”

“Sì, grazie mi porti una colazione completa”.

“Certo, signora”.

Il cameriere, un uomo anziano con i capelli bianchi come la panna, non si è scomposto affatto, ha sostenuto la conversazione con un distacco quasi professionale, come se nella vita avesse fatto solo questo, coprire i clienti infedeli, magari avrà in cambio una mancia importante, penso alzando le sopracciglia. Adriana è immersa nel cappuccino, tira su la tazza, fino a coprirsi l’intero naso, lasciando fuori solo gli occhi. Pare una bizantina. E’ triste, e pensierosa. Chissà per chi è l’altra colazione, se per un ragazzo giovane, o per un uomo anziano, o forse per una donna.

Mentre penso alla scena vista, mi accorgo che il cappuccino che sto bevendo è ancora bollente; l’odore del latte a lunga conservazione emerge con il fumo, e dà un sapore sgradevole alla bevanda. Getto uno sguardo al mare, che si è scurito, il tempo oggi non è dei migliori. Adriana sorride al cameriere amico e con un cenno del capo gli dice che può salire a portare la colazione. Anche io vorrei salire, entrare in quella camera e soddisfare il mio desiderio voyeuristico. Peccato, peccato che sia tutto finito, che il mare è mosso, e che il cappuccino, come tutti i cappuccini degli alberghi di mare, sia troppo caldo, e senza sapore.

Dora Albanese

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Dora Albanese è nata a Matera nel 1985. Studia lettere moderne e pubblica racconti su giornali e riviste. Vive a Roma.

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venerdì, 31 agosto 2007

ACLAS (racconto inedito di Massimo Maugeri)

Pronto?

Ehiiii. Sono io.

Sto bene. Tu?

Ottimo. È sempre un piacere sentirti.

Certo che c’è un motivo per cui ti chiamo! Ovvio, no? Volevo parlarti di qualcosa.

Sì, mi ricordo della riunione.

No, non credo che potremo parlarne stasera. Ecco… penso di non venire stasera.

Hai sentito bene. Penso di non venire alla riunione.

Penso di non venire alla riunione significa penso di non venire alla riunione. È chiaro, no?

La motivazione è più che valida. Era proprio di questo che volevo parlarti.

Senti, lo so che vai di fretta. Tu vai sempre di fretta. Comunque… non ci vorrà molto.

Ho detto che non ci vorrà molto.

N-o-o… stasera non vengo.

Senti, è inutile che insisti. Se ho detto che non vengo non vengo.

D’accordo. Sarò breve, anzi brevissimo. Allora… hai presente la barca che tengo al porticciolo? Bene, l’altro ieri avevo una giornata libera e ho deciso di scendere in mare. Sai, così, giusto per fare un giro e magari pescare qualcosa.

Sì, lo so che il tempo non era dei migliori. Ma…

Aspetta, fammi completare. Hai presente quella falla sullo scafo che avevamo riparato il mese scorso? Bene. L’abbiamo riparata di merda.

Esatto, ho cominciato a imbarcare acqua.

Senti, non sto dicendo che è colpa tua. Perché sei sempre sulla difensiva?

Mi fai completare?

Mi fai completare?

Ho cominciato a imbarcare acqua così ho cercato di rientrare e…

Senti, ho capito che hai fretta. Ti chiedo solo un paio di minuti, va bene?

C’entra. C’entra perfettamente con la riunione di stasera. E se mi fai completare ti spiego il perché.

Allora… provo a rientrare ma il mare è sempre più agitato. E continuo a imbarcare acqua. Così, a un certo punto, decido di tuffarmi. Mi tuffo e… sai che succede?

Indovina?

No. Non vinco la medaglia d’oro alle olimpiadi. Ti ho mai detto che sei il mago della battuta?

Sicuro. Sei divertente quasi come un’infiammazione alle emorroidi.

Senti, mi fai completare? Allora… mi tuffo e non mi accorgo che la fune dell’àncora mi si era annodata al piede destro. Capisci? Immagina la scena. Mi sono visto perso. Così provo a nuotare ma non posso perché le onde sballottano la barca e la fune mi tira il piede. Provo a liberarmi dalla fune e non ci riesco. Allora mi metto a gridare e nel frattempo ingurgito acqua e…

Cosa? Ma davvero? È sempre sconsigliabile scendere in mare con le acque agitate? Ma sai che sei una persona veramente saggia?

Che vuol dire che a te non sarebbe mai successo?

No. Silenzio. Non me ne frega niente delle tue strategie di sopravvivenza.

Senti, mi fai finire il racconto?

Allora… mi metto a gridare come un pazzo. Solo che nel frattempo la barca continua a prendere acqua e comincia a scendere giù. Capisci? A quel punto… guarda, non so neppure se dirtelo perché so che poi mi prenderai per il culo.

Ecco… mi è venuto in mente l’angelo custode.

Sapevo che avresti riso. Comunque è così.

Ma ce la smetti di ridere?L’hai capito che ci stavo restando fottuto o no?

Comunque… a un certo punto credo di essermi messo a pregare.

Sì, credo all’angelo custode, va bene? Sei contento così?

No. Non penso sia ridicolo credere all’angelo custode.

A Babbo Natale ci crederai tu, okay? E anche alla befana!

Senti, ora basta.

Mi fai completare?

MI FAI COMPLETARE?

Allora… mi metto a pregare l’angelo custode e, ci crederai o no, a un certo punto arriva un tizio.

Sì, arriva un tizio.

Non ho detto che arriva l’angelo custode. Ho detto che a un certo punto arriva un tizio.

Be’, per me è stato una specie di miracolo, va bene?

Allora… il tizio prova a liberarmi il piede, ma non ci riesce. Nel frattempo ingurgito altra acqua e vedo che metà barca è già affondata. Poi al tizio viene un’idea. Va sulla barca e nel mezzo della baraonda si mette a cercare qualcosa. Io lì per lì non capisco, così mi metto a gridare di nuovo. Dopo un po’ il tizio riprova a liberarmi e stavolta ci riesce.

( )

Be’, non dici nulla?

Te l’ho spiego io come ha fatto. È riuscito a scovare la cassettina degli attrezzi e a tirare fuori un cacciavite con il quale ha fatto leva per sciogliere il nodo della fune.

Che vuol dire che ti sembra fantascienza.

Certo che è andata proprio così! Come avrebbe potuto liberarmi dalla fune sennò? Con i denti?

Sì, la storia è questa e…

Aspetta, ci sto arrivando. Se non mi dài il tempo!

Allora… il tizio con un po’ di fatica riesce a portarmi a riva. Io mi sento mezzo rincoglionito, però la prima cosa che mi viene in mente è di ringraziarlo. Ovvio no? Così lo guardo in faccia. Per la prima volta lo guardo in faccia e mi accorgo che… be’, sì… è un negro.

Hai sentito bene. Un negro.

La vuoi smettere di ridere?

Senti, l’angelo custode negro lo fai sposare a tua sorella, va bene?

No, non me ne sono innamorato. La vuoi smettere?

Comunque… a quel punto ho preso il portafoglio, che era inzuppato come il resto, e ho estratto due carte da cinquanta. Sai, volevo sdebitarmi in qualche modo. Così gli allungo le banconote ma lui alza il palmo della mano e dice, no amico. Io dico, perché no? Be’, per farla breve lui mi dice che non vuole soldi da me. Mi spiega che lui avrebbe bisogno di soldi, ma non può accettarli. E mi racconta la sua storia. Dice che un suo fratello è morto annegato nel corso di uno sbarco a Lampedusa e quando ha visto che stavo annegando è come se avesse rivissuto quella scena. Così si è buttato senza pensarci due volte. Allora gli chiedo cosa posso fare per sdebitarmi. Lui mi guarda, mi sorride e mi dice qualcosa tipo: ogni volta che incontri un fratello che ha la pelle diversa dalla tua ed è nel bisogno, se puoi, aiutalo.

( )

Pronto?

( )

Pronto? Ci sei ancora?

Bene. Mi fa piacere che adesso cominci a capire.

Esatto. Questo è il motivo per cui stasera non parteciperò alla riunione dell’Aclas.

Per il futuro non lo so. Ci devo pensare.

Senti, non è una stronzata. Non è affatto una stronzata!

Va bene. Lo ammetto. Sto pensando di tirarmi fuori dall’associazione.

Cosa? Guarda che bastardo ci sarai tu, va bene?

Ehi, si può sapere perché ti scaldi tanto? L’associazione contro i lavavetri ai semafori può sopravvivere anche senza di me, no?

E allora? Non credo sia rilevante il fatto che io sia uno dei soci fondatori.

Senti… lo so perfettamente.

Lo so che sono aggressivi e costituiscono una piaga sociale.

Lo so che siamo costretti a intervenire perché il Governo se ne lava le mani.

Lo so che guadagnano anche cento euro al giorno… esentasse.

La vuoi finire? So benissimo che alle spalle c’è la malavita organizzata. Sono tutti miei cavalli di battaglia, questi!

Senti, non ho intenzione di trovare nessuna soluzione. Semplicemente l’associazione andrà avanti senza di me perché un negro mi ha salvato la vita e io ho promesso a me stesso che me ne sarei tirato fuori.

‘Affanculo ci andrai tu.

Non credo proprio che mi sentirò in colpa.

Ho detto di no.

Va bene. Se un giorno un negraccio con la pistola minaccerà mio figlio davanti a un semaforo per ottenere il permesso di lavare il parabrezza sarà colpa mia. Sei contento così?

Va bene. Pensa pure che sono uno che non si prende le sue responsabilità. Va meglio ora?

Senti, non è una cosa che meditavo da tempo. Te l’ho spiegato com’è andata.

Va bene, scrivi pure una lettera a tutti i soci. Non me ne frega niente. Non riuscirai mai a coprirmi di ridicolo.

Cosa? Ah sì? Farai partire la manifestazione proprio sotto casa mia? Brrr… tremo al solo pensiero.

Senti, ora stai cominciando proprio a rompermi le palle, eh? Sai che ti dico? Che tutta questa storia dell’Aclas è una vera buffonata.

Certo, è facile dare addosso ai poveri disgraziati. E sai una cosa? Tutte le tue idee strampalate e irrealizzabili, tipo tenere in macchina monete arroventate o impiastricciate con l’Attak… be’, sai dove puoi infilartele? Proprio lì. E ti dico un’altra cosa. Sai che farò? Fonderò una nuova associazione.

Già, la chiamerò Aflas. Associazione a favore dei lavavetri ai semafori. Qualcuno dovrà pur pensare a tutelare questi poveracci che hanno abbandonato la loro terra e rischiato la vita solo per sperare di sopravvivere.

No. Non sono diventato il paladino dei negri. La vuoi smettere di usare la parola negro? È incivile. Gente di colore, semmai. È così che si chiamano. E comunque la maggior parte dei lavavetri è gente mulatta. E a volte ci sono anche bianchi nel mezzo.

Slavi, per esempio. Gente dell’est. Hai presente?

Cosa? Quand’é che avrei detto che i lavavetri sono una feccia e che feccia è sinonimo di negro?

Ah sì? Per te sono negri punto e basta? E se ti dicessi che tu sei uno sporco terrone?

E allora? Che m’importa se anch’io sono meridionale.

Sai che faccio? Fondo l’Aflas e poi mi piazzo al semaforo vicino casa tua.

Esatto. Ti aspetterò al varco per lavarti il parabrezza. E quando ti rifiuterai di fartelo lavare te l’insozzerò con la schiuma. E poi ci sputerò sopra.

Ho detto che ‘affanculo ci andrai tu!

No, tu!

NO, TU!

( )

Pronto?

( )

Pronto?

( )

Ci sei ancora?

Pronto?

Nota di Andrea Di Consoli:

Nel suo racconto “teatrale” e iper-realista, Massimo Maugeri tenta la strada dei buoni sentimenti. Letteratura e buoni sentimenti sono spesso inconciliabili. Maugeri, invece, tenta questa strada.

In questo racconto si parla dei famigerati lavavetri. Il tono è grottesco ed esagitato. Ma la domanda sui buoni sentimenti rimane.

Voi cosa ne pensate?

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