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martedì, 25 maggio 2010

DAL BLOG ALLA RADIO

letteratitudine-radio1Sono davvero grato ad Affari Italiani e ad Antonio Prudenzano per avermi voluto intervistare sulla trasmissione radio “Letteratitudine in Fm” che da qualche mese sto conducendo su Radio Hinterland.
Se avete voglia, vi invito a leggere l’intervista cliccando qui.

Come ho riferito ad Antonio, sono stato diverse volte ospite di trasmissioni radiofoniche. Sono stato intervistato persino da una radio australiana, tempo fa (in merito all’iniziativa Letteratitudine chiama mondo, che ho intenzione di rilanciare tra breve). Ma non mi era mai capitato di condurre uno spazio radiofonico. In tal senso devo essere grato a Gabriele Pugliese, il direttore di Radio Hinterland, il quale (dopo una mia perplessità iniziale) è riuscito a convincermi. Oggi posso dire che, questa della radio, è stata senz’altro un’esperienza entusiasmante e arricchente. Non pensavo proprio… ma mi diverto un mondo.
Ringrazio anche Luca Corte, che mi ha accompagnato all’interno della sua trasmissione Nu poets, che vi invito a continuare a seguire (consigliata soprattutto agli amanti del buon jazz). Ma abbiamo deciso di dare a “Letteratitudine in Fm” uno spazio autonomo e indipendente.
Vi aggiornerò in proposito…

Mentre ci sono ne approfitto per ringraziare Affari Italiani anche per aver voluto dare spazio al progetto narrativo no profitRoma per le strade 2“.

Mi è stato chiesto se era possibile pubblicare il mio racconto “Incontro a Porta Pia“… e io l’ho messo a disposizione.

Potete leggerlo, se volete, cliccando qui.

Visto che parliamo di radio, vorrei proporvi una discussione su questo mezzo di comunicazione che, nonostante gli anni, – e nonostante la concorrenza di Tv, cinema, Internet e quant’altro – continua a riscuotere interesse e consenso.

Cosa ne pensate della radio? La ascoltate?
Se sì, in quali contesti (in quali momenti della giornata)?

Che genere di programmi ascoltate?

Cosa può offrire la radio, oggi, in più (o di diverso) rispetto agli altri media?

Insomma, parliamo della radio in generale… anche della sua storia, se volete.
Massimo Maugeri

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PERUGIA, 27-28 MAGGIO: FESTIVAL RADIO UNIVERSITARIE

fru.jpgNei giorni scorsi ho ricevuto l’invito a relazionare nel corso di un evento molto interessante. Un invito rivoltomi non in quanto scrittore e/o creatore di questo blog… ma con riferimento alla trasmissione radiofonica da me curata e diretta su “Radio Hinterland”: Letteratitudine in Fm.
Un invito che mi ha molto lusingato. Per questo ringrazio Riccardo Cristilli (caporedattore del media universitario perugino Radiophonica), uno degli organizzatori dell’evento.
Purtroppo non avrò la possibilità di essere presente, ma ci tengo moltissimo a promuovere il Festival radio universitarie (FRU) che si terrà il 27-28 maggio prossimi a Perugia.
Un evento importante, dicevo, che prevede la partecipazione di tante belle realtà radiofoniche. Tra gli altri, veri e propri big: Alma Maria Grandin (Giornalista Tg1), Susanna Tartaro (Fahrenheit), Chiara Galli (Il cantiere, Radio3), Stefano Della Casa (Hollywood Party, Radio2), Lucia Cosmetico (Libro Oggetto, Radio 2).
Il programma dell’evento è disponibile qui (per maggiori informazioni cliccate qui).
Ne approfitto per fare complimenti e in bocca al lupo agli organizzatori. Ne approfitto altresì per ringraziare Federico Marin, mio collaboratore fondamentale per il programma Letteratitudine in Fm.

Segue un video appositamente realizzato per il FRU.


Massimo Maugeri

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giovedì, 25 marzo 2010

NAPOLI E L’IRPINIA TRA I LIBRI

Sono molto lieto di avviare questa discussione incentrata su Napoli e l’Irpinia, luoghi entrati nell’immaginario di molti di noi (ma anche luoghi dove sono nati e vivono parecchi amici di questo blog).
Nel farlo tenterò di coinvolgere alcuni scrittori che, attraverso i loro libri, hanno raccontato di queste terre e di tutto ciò che – nel bene e nel male – gravitano attorno a esse.
Credo sia superfluo premettere che la produzione di libri (di narrativa e non) dedicati, in un modo o nell’altro, a Napoli e all’Irpinia (a partire dall’ormai celeberrimo Gomorra di Saviano) è piuttosto cospicua. Per cui, i libri che segnalo in questo post sono solo una piccola rappresentanza della folta schiera disponibile.
Di seguito, come sempre, porrò qualche domanda al fine di agevolare la discussione. Ma prima ci tengo a presentare scrittori e libri coinvolti (li elenco per ordine alfabetico di cognome degli autori e curatori):
- “L’INFANZIA DELLE COSE” di Alessio Arena (Manni)
- “UNA TERRA SPACCATA” di Emilia Bersabea Cirillo (San Paolo)
- “L’IMBROGLIO NEL LENZUOLO” di Francesco Costa (Salani)
- “SCUORNO (Vergogna)” di Francesco Durante (Mondadori)
- “NAPOLI PER LE STRADE“, racconti a cura di Massimiliano Palmese (Azimut)
- “LE FRANE FERME. Quattro racconti sull’Irpinia” racconti a cura di Generoso Picone (Mephite edizioni)

Mi permetto di ricordare, tra gli altri, “Napoli sul mare luccica” di Antonella Cilento (Laterza) di cui avevamo parlato qui. E, per quanto riguarda l’Irpinia, i libri di Franco Arminio.

Gli autori dei suddetti libri, i curatori delle raccolte e gli autori dei racconti, gli amici irpini e napoletani e voi tutti… siete invitati a partecipare al dibattito.

Francesca Giulia Marone e Emilia Cirillo mi daranno un mano a moderare e a coordinare la discussione.

E ora… le domande del post:

1. Che differenza c’è tra Napoli e l’Irpinia (in cosa differiscono due città come Napoli e Avellino)?

2. Quali sono i “tratti” in comune?

3. Come è cambiata (se è cambiata) la Napoli di oggi rispetto a quella di venti, trenta, quarant’anni fa?
E l’Irpinia?

4. Che rapporto c’è tra Napoli, l’Irpinia e il cinema? Come sono state rappresentate nel grande schermo? Tali rappresentazioni sono sempre state aderenti alla realtà?

5. Se doveste scegliere, con riferimento all’intera storia della letteratura, il libro che meglio rappresenta Napoli… quale scegliereste? E perché?

6. E quale libro scegliereste in rappresentanza dell’Irpinia?

Di seguito, un po’ di notizie sui libri sopraccitati (ne approfitto per ringraziare gli autori delle recensioni).
Massimo Maugeri
(continua…)

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lunedì, 26 ottobre 2009

CITTA’ PER LE STRADE. ROMA E ALTRI LUOGHI

citta-per-le-stradeParliamo di città… di città e di strade, di quartieri urbani e letteratura.
L’occasione ce la fornisce questo progetto lanciato dalla casa editrice AZIMUT, a cui ho aderito con piacere ed entusiasmo.
Come prima cosa ci tengo a evidenziare che Città per le strade è un progetto editoriale NO PROFIT: i proventi degli autori, dei curatori, degli agenti, e dell’editore saranno devoluti ad ospedali, associazioni, centri che si occupano dell’infanzia. Il progetto consiste in una serie di raccolte di racconti incentrate su alcune città e le loro strade… sui loro quartieri, sui loro luoghi. Una sorta di stradario, un “Tuttocittà” dei narratori… i quali non hanno alcuna limitazione espressiva se non quella di collocare la propria storia in un quartiere o in una via della città. Prende così corpo un mosaico di avventure e intrecci, di personaggi e situazioni: il tutto per creare la mappa di una città che va svelandosi nella sua topografia attraverso la fantasia di chi scrive.
E – proprio come nelle città nuovi quartieri vanno aggiungendosi a quelli antichi e conosciuti – anche nella collana Città per le strade, narratori esordienti si affiancano a nomi già affermati nel panorama letterario nazionale e internazionale.
Sono già stati pubblicati i volumi Milano per le strade, Napoli per le strade e un primo volume dedicato a Roma. (continua…)

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martedì, 23 dicembre 2008

IL DIFFICILE RUOLO DEI TRADUTTORI (laboratorio di traduzioni)

laboratorio-di-traduzioniNel corso del dibattito, questo post si è trasformato in una sorta di spazio/laboratorio dedicato alla traduzione letteraria animato da Francesca Giulia Marone e altri volontari.
(Massimo Maugeri)

————————————————

Tradurre non è un mestiere facile. Tutt’altro.
Ed è anche un mestiere che si svolge nell’ombra. A volte in pieno buio. Eppure la traduzione di un libro è fondamentale.
Lo sappiamo bene: una buona traduzione è capace di valorizzare un romanzo (e di restituirlo “integro” al lettore che lo legge in una lingua differente rispetto a quella originale), una cattiva traduzione può ucciderlo (il romanzo, ma a volte anche il lettore… nel senso che può uccidere la sua voglia di leggere).
Nonostante ciò il traduttore è spesso visto come un addetto ai lavori “secondario”, che non deve mai superare la soglia del “dietro le quinte”.
Ma è davvero giusto che sia così? Ed è davvero così? Secondo voi?
Ne parliamo con la scrittrice e traduttrice Gaja Cenciarelli che ci offre un articolo già pubblicato su La poesia e lo spirito. Contestualmente ne discutiamo con gli autori (tutti traduttori) del volume “Il mestiere di riflettere- Storie di traduttori e traduzioni” (Azimut, 2008, pagg. 276, euro 12,50) curato da Chiara Manfrinato: Federica ACETO, Susanna BASSO, Rossella BERNASCONE, Emanuela BONACORSI, Rosaria CONTESTABILE, Federica D’ALESSIO, Riccardo DURANTI, Luca FUSARI, Daniele A. GEWURZ, Giuseppe IACOBACI, Eva KAMPMANN, Chiara MARMUGI, Anna MIONI, Daniele PETRUCCIOLI, Laura PRANDINO, Anna RUSCONI, Lisa SCARPA, Denise SILVESTRI, Andrea SIROTTI, Paola VALLERGA, Isabella ZANI.
“Traduttore, traditore, recita un vecchio adagio”.
Noi traduttori non ci sentiamo affatto traditori, però. Semmai traditi, delle volte.
Dietro buona parte dei libri che fanno bella mostra di sé nelle vetrine e sugli scaffali delle librerie ci siamo noi: noi con il nostro lavoro quotidiano, col nostro fare talvolta la guerra e talvolta l’amore con il romanzo di turno.
Già, perché la nostra è una vita agrodolce, una vita segnata dall’invisibilità, condizione che a volte ci sta a pennello e altre volte ci sta un po’ stretta. Bene che ci vada, siamo un nome che fa capolino da un frontespizio.

Anticipo qui alcune domande di Gaja Cenciarelli, estrapolate dal pezzo che potrete leggere di seguito:
- Chi scrive, vive con maggiore insofferenza la traduzione?
- Chi traduce, costretto a ritmi incredibilmente serrati, costretto comunque a trascurare la propria scrittura, non sviluppa forse un profondo rapporto di odio-amore nei confronti della traduzione o questo è indipendente dalle passioni del traduttore?
- Quanti «libri inutili» si traducono?
- Quante ore si passano a cercare, a scegliere, a meditare su «parole inutili» di cui non rimarrà nulla?
- Come può, uno scrittore che traduce, non soffrire di questa «inutilità»?
- E come può a un traduttore – pur non essendo scrittore – risultare tollerabile l’indifferenza con cui viene trattato dagli «addetti ai lavori»?

Gaja Cenciarielli mi aiuterà ad animare e a moderare questo post.
Ospite speciale sarà Katharina Schmidt, traduttrice tedesca (dall’italiano) di opere di autori noti tra cui Niccolò Ammaniti e Roberto Mistretta (spero che Katharina riesca a intervenire nonostante i numerosi impegni per darci la sua testimonianza dalla Germania). In fondo al post potrete leggere la prefazione del libro “Il mestiere di riflettere”, firmata dalla curatrice.

Massimo Maugeri
(continua…)

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venerdì, 24 ottobre 2008

LETTERATITUDINE DIVENTA LIBRO

Vi avevo mai parlato della possibilità di fare di Letteratitudine… un libro?
Sì?
Bene! Ci siamo. Questa “possibilità” troverà concreto riscontro agli inizi di dicembre grazie all’ottima casa editrice Azimut, che darà alla luce “Letteratitudine, il libro – vol. I”.
Sarà un volume che racchiuderà i dibattiti più interessanti che abbiamo condotto insieme nell’ambito di questo biennio, impostati in maniera nuova (e con piccoli brani inediti)… il tutto incorniciato con il supporto di una voce narrante “particolare”.

Vi dico la verità. Non è che di questo progetto ne sappia tantissimo. Per esempio, l’esistenza di questa voce narrante “particolare” mi lascia – come dire – un po’ perplesso.
Tanto per cominciare… da dove viene fuori ?
Vi faccio leggere l’incipit del libro:

Mettiamola così. Io esisto perché devo esistere, e non perché lo devo a qualcuno. Considero questa premessa essenziale e la espongo a scanso di equivoci. Se qualcuno ci resterà male mi dispiace… ma nemmeno tanto, per la verità. Mi riferisco in particolare all’uomo con la camicia celeste.

Ecco, non è che il senso di quest’incipit mi sia molto chiaro…
Che vuol dire “io esisto perché devo esistere”? Chi è che “esiste perché deve esistere”?
Cosa significa “se qualcuno ci resterà male mi dispiace”?
E quel riferimento a… l’uomo con la camicia celeste?
No, no. Qui c’è qualcosa che non mi convince.

Comunque… il libro si farà e ci sarete anche voi con i vostri commenti/interventi (opportunamente selezionati e – in qualche caso – accorciati per esigenze editoriali).
State tranquilli, non saranno inseriti e pubblicati commenti dai quali poter desumere dati “sensibili” ai fini della tutela della privacy. Tuttavia, chi non desiderasse comparire attraverso il proprio nome o nick name all’interno del suddetto libro, è pregato di farmene pervenire disdetta alla mail che conoscete ( letteratitudine at gmail.com) entro e non oltre la data del 29 ottobre 2008.
Insomma, ci siete dentro anche voi.

Ve l’aspettavate?
Cosa ne pensate?

Un’altra cosa…
Ho dato ad Azimut carta bianca per quanto concerne la realizzazione della copertina, e la bravissima Adriana Merola si è divertita a giocare un po’ con la mia immagine.
Così vi propongo, di seguito, le immagini di tre possibili copertine.
Qual è quella che vi piace di più (la prima, la seconda, o la terza)?
Dite la vostra, anche se la scelta finale spetterà comunque ad Azimut.

Dimenticavo… sia i diritti d’autore che i proventi dell’editore saranno interamente devoluti in beneficienza.

Io esisto perché devo esistere, e non perché lo devo a qualcuno.

Ma che vuol dire?
Mah!
Massimo Maugeri

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copertina_letteratitudine_1.jpg

copertina_letteratitudine_2.jpg

copertina_letteratitudine_3.jpg

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lunedì, 5 maggio 2008

LETTERATURA E OBESITA’: KADDISH di Francesca Mazzucato

La letteratura, soprattutto la letteratura recente, ha affrontato più volte il problema dell’anoressia. Un po’ meno quello dell’obesità.

Eppure l’obesità è un fattore di rischio per la salute. E quando diviene eccessiva può essere causa o aggravante di malattie: tra cui disfunzioni cardiocircolatorie, diabete, problemi alle articolazioni, sindrome da apnea notturna.

Recenti studi hanno dimostrato l’esistenza di predisposizioni genetiche. Ma le cause “vere” sono più che note: alimentazione disordinata (e eccessiva) e stili di vita sbagliati.

Negli Stati Uniti il “problema” si percepisce un po’ più che da noi. Nei giorni scorsi ho appreso, per esempio, che grazie a una decisione della corte federale, per i fast food di New York sarà obbligatorio informare i propri clienti sull’apporto nutrizionale di ogni singolo piatto. Un decisione che non stupisce più di tanto, giacché l’obesità colpisce oltre il 30 per cento degli americani.

Nel 2015, secondo uno studio pubblicato in agosto dalla John Hopkins University, le persone sovrappeso saliranno al 75 per cento, mentre gli obesi rappresenteranno il 41 per cento della popolazione statunitense.

Queste le previsioni negli Stati Uniti.

E da noi?

Certo, il regno della pastasciutta e della pizza è un po’ meno “grasso” di quello delle patatine fritte e degli hot dog. Ma la sensazione è che ci stiamo uniformando anche in questo.

La letteratura recente, scrivevo in premessa, non credo abbia affrontato adeguatamente la questione dell’obesità. Lo ha fatto, invece, Francesca Mazzucato (mia collega e “dirimpettaia” di blog d’autore del Gruppo L’Espresso) con la pubblicazione del suo nuovo romanzo per i tipi della giovane casa editrice romana Azimut.

Il romanzo s’intitola Kaddish profano per il corpo perduto (Azimut, 2008, euro 12,50, pagg. 200). Un romanzo che affronta – appunto –  il tema dell’obesità (la protagonista è una scrittrice obesa), che parla di Budapest e che è in parte ispirato dal premio Nobel per la letteratura Imre Kertész.

Di seguito avrete la possibilità di leggere una nota sul libro e le prime pagine, gentilmente offerte dall’autrice e dalla casa editrice Azimut (che ringrazio).

Organizzerei questo post nel modo seguente. Chiedendovi di:

1. Interagire con Francesca Mazzucato, che parteciperà al dibattito (ponetele domande sul libro)

2. Discutere della piaga dell’obesità (cosa ne pensate? Siete d’accordo sul fatto che qui in Italia non si presta la dovuta attenzione a questo problema?)

3. Budapest (la conoscete? Ci siete mai stati? Provate a verificare se le vostre impressioni su questa città combaciano con quelle della Mazzucato e della protagonista del libro.)

4. Imre Kertész, premio Nobel per la letteratura 2002 (lo conoscete? Lo avete mai letto?)

A voi…

Massimo Maugeri


_____________

Questo romanzo parla di un corpo.
Il corpo di una donna obesa. Di una scrittrice obesa.
Ogni corpo ha una storia e ha una voce. Ma, raramente, hanno una voce i corpi obesi.
E gli scrittori grassi, poi, sono impresentabili.

Con implacabile precisione, con una scrittura potente, Francesca Mazzucato ci porta fra le pieghe di questo corpo perduto, debordante, di questa carne socialmente inaccettabile.
Ci porta fra i suoi desideri, i bisogni, le memorie, gli amanti, e un’assenza mai dimenticata.
Questo romanzo parla anche di Budapest: città sinfonica, lisergica, forse irreale, città dove la protagonista compie il suo necessario viaggio per capirsi meglio, per avvicinarsi ad antiche ferite, a tremendi e sepolti dolori.

***

Budapest è una musica tzigana, una messinscena, un fondale da teatro. Budapest è una città lisergica e cangiante, è splendore e grumi di rabbia. Budapest brilla, ipnotizza e trabocca di incontri, di visi, di storie. Soprattutto quelle. Lei è una scrittrice, una donna realizzata, benestante, occidentale, colta, che ha vissuto con furia, passione e fretta. Troppa fretta. A Budapest ci è andata per caso con un ex amante rimastole amico negli anni. È partita in un agosto troppo caldo per restare in città.A Budapest le accade qualcosa. A Budapest lei si ferma. Si ferma sul serio, capisce, si arrabbia. A Budapest fa i conti con cose che aveva lasciato in sospeso, e soprattutto col suo corpo.

È obesa. Lei è una donna obesa di mezza età. La vita le sta scorrendo come sabbia fra le dita, il tempo si accorcia. Lo capisce lì, lo dice, lo ripete, lo urla. Il suo corpo adesso pretende di essere visto, la mistificazione è finita. Il riflesso sulle vetrine la imbarazza, il riflesso è quello di un corpo spento, ingombrante, un corpo perduto, grasso, diverso, infelice.Ha 42 anni e per tanto tempo ha portato maschere e offerto la sua carne. Si è sentita protetta da quei chili, da quella pancia, da quel seno enorme che ha usato per sedurre e catturare uomini. Uno dietro l’’altro, l’’aiutavano il tempo di una brutta notte in un motel. Adesso riconosce quel disagio remoto che arriva dall’’infanzia e da ricordi sofferenti e rassegnati. Una donna, un corpo grasso e diverso, una città traboccante di nuove e vecchie seduzioni, un possibile amore che torna, o che definitivamente va via.Con un debito e un omaggio al premio Nobel Imre Kertész, questo romanzo è un kaddish (una delle più antiche preghiere ebraiche) carnale e dolente, un indecente ed eccitante viaggio fra luoghi, seduzioni, amori e antichi dolori seppelliti con violenza nel corpo, tanto da permetterne la perdita. Chissà dove, chissà come.

Francesca Mazzucato
scrittrice, giornalista free-lance e traduttrice, è editor e consulente di case editrici.
Ha scritto per il teatro e tiene corsi di scrittura creativa.
Ha pubblicato tra gli altri: Hot Line (Einaudi 1996), Relazioni scandalosamente pure (Marsilio 1998), Amore a Marsiglia (Marsilio 1999), Diario di una blogger (Marsilio 2003), Enigma veneziano (Borelli 2004), L’’Anarchiste (Aliberti 2005), Confessioni d’’un alcolista (Giraldi 2007), Magnificat Marsigliese (Creativa 2007).
Ha vinto il premio Fiuggi. Fa parte del Who’’s Who Italy 2007.
È tradotta in Francia, Germania, Grecia e Spagna.
Sulla sua opera sono state scritte alcune tesi di laurea.

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Le prime pagine del romanzo

 

ORLO

Le mie labbra danzano un twist inutile e ripetitivo, bisbigliano e ritmano frasi, incastrano ritornelli, parole dette così, per riempire.

Parlare a vanvera serve da doppiaggio per i movimenti sgraziati della mia ondeggiante impalcatura. Verso me stessa vivo un’odissea di avversione.

Mattine in cui maledico la mia immagine prima ancora di lavarmi il viso. Giorni così.

Cosa resta a parte il disagio di questo corpo trascurato e straniero?

Poco. Sdraiata sul tappeto guardo le stelle adesive che formano una costellazione sul soffitto. Mi abbandono a emozioni depravate e inquiete.

Mi rimane questa esagerazione fisica che pare cemento. Vertigine di ciccia. Piramide di adipe smagliato. Vergognosa, patetica fisionomia in controluce che tutto ha perduto tranne vaghi filamenti, un brandello in più del niente.

I rumori del nulla, dentro. Che angosciano, stridono, segnano; per questo parlo da sola, avanti la tiritera. Sono un enorme involucro che contiene un cratere. Negli interni ripeto parole infantili, catechesi filastrocche rimbrotti, rime e quant’altro per celare la mia paura, il terrore di percepire la pena degli occhi che guardano il grasso debordante, che osservano i fianchi e il doppio mento, che pesano e provano schifo: ripeto, a memoria, a manovella, storpio mezze frasi, le rimo, le lancio come stelle filanti. Affogata di grasso, soffocata di inerzia e paura, non bella, non leggera. Parlo per confondere e divagare e lascio che la mia vita sia tutta testa, tutta cervello, tutta mistificazione e finzione, seppellisco il cuore, magari in giardino.

Vorrei urlare il mio disagio che sale come un calore inatteso e poi invade la casa, le cose, le mie tracce, le impronte che lascio, le azioni maldestre composte di gesti inadatti, voraci e sconvolti: urlando svuoterei di ben poco questo contenitore che si riempie adagio preparandosi a debordare, a raggiungere l’orlo. Ci sono sull’orlo? Ci sono vicino, arrampicata a cavalcioni pronta per la discesa? Non lo so.

La mia vita? Una questione gonfia e sbalorditiva. Una cosa tipo schiuma. Realtà capovolta, crepe, sfilacciature. Cerco di riparare, di aggiustare, di mimare una soddisfazione che non esiste, una felicità che non conosco. Posso farlo. I grassi devono: irritano, disturbano ma all’occorrenza mostrano buona volontà, imbottiscono, agiscono.

Tirano fuori l’energia possente del loro BMI esagerato. È nemesi e dovere. FINE

* * *

Rileggo.

Un altro racconto per mistificare e scompaginare le cose. Se fossi capace di mettermi a nudo, se fossi in grado di non nascondermi dietro la sintassi artefatta, se sapessi rendere la verità con le parole, dovrei raccontare della prima volta che li vidi. Quei dadi di carne rosea e gigante. Ero in bagno, lasciai scivolare la schiuma e mi feci avvolgere dall’accappatoio morbido e profumato: ogni cosa era coperta dal vapore, non volevo guardare ma lo feci. Sapevo che non erano come quelli delle mie amiche, come quelli intravisti sui giornali. Piccoli e uniformi puntini rosei piacevoli al tatto e allo sguardo. Capezzoli perfetti. O almeno giusti, proporzionati. Nel mio caso tutto era molle e cadente, tutto era striato e deforme e loro erano smisurate forme con escrescenze laterali. Anormali, troppo evidenti.

Non ce la faccio a scriverlo, ci provo da tanto, ho detto e non detto, e questa volta mi sono nascosta come al solito. Ripasso la scritta fine in grassetto. Allego il racconto alla mail e invio alla rivista letteraria che lo attende. Mi hanno commissionato una storia da far uscire il prossimo mese e da scrivere in tempi rapidi. Pagata pochissimo. Il solito niente che non riesce più a diventare lusinga, a farmi sentire appagata, a proiettarmi scenari futuri di riconoscimenti creativi. Tutta carta destinata a logorarsi e ingiallire. Polvere e ancora polvere.

Me ne frego.

* * *

Scrivere e tradurre sono attività ingrate e in fondo ingiuste.

Siamo tarlati e maldestri noi che lo facciamo, che l’abbiamo creduta una sfida possibile, spendibile ed esplorabile. Che continuiamo a farlo nella fatica e nell’oblio dei più, tranne quei pochi fortunati che aggrappano ribalte di prestigio e le mantengono.

Avremmo dovuto correre altrove fino a far esplodere i polmoni e ridimensionare le speranze, noi che con pervicacia scriviamo dopo anni di parole che hanno conosciuto fortune migliori, fortune mediocri e sfortune neanche troppo tragiche.

Siamo incerti e squilibrati. Lo squilibrio è evidente nel decidere comunque, al di là di ogni coraggio e ragionevolezza, di ricominciare ogni mattina oppure ogni notte, di chinarsi a riempire pagine e far stare in piedi le storie (quando non sono racconti inediti dove si utilizzano lemmi in equilibrio rapsodico per stupire i redattori più giovani di una rivista che paga poco e di scarsa diffusione).

Siamo, noi che scriviamo, va detto, malati. Lo siamo tutti in qualche forma, se la patologia non si trova sui manuali, occorrerà segnalarlo anche se una diagnosi precoce non porterebbe nessun vantaggio. Alle nostre paure improvvise, all’insicurezza e allo sbandamento siamo affezionati, attaccati, quasi incollati.

Non abbandoneremmo i sintomi, il malessere e la fatica per nessuna terapia di provata efficacia, consapevoli che curerebbe e cancellerebbe anche la manifestazione del nostro problema, la scrittura, come si fa con le pustole della varicella, con lo sfogo di una dermatite. E senza scrittura non potremmo vivere e lo sappiamo. Sappiamo che è così e basta.

Nel mio caso poi. La malattia è doppia e ambigua. Con un corpo che deborda da tutti gli schemi, tre cifre sulla bilancia, che non mutano, che non fluttuano, non oscillano, tre cifre

grosse e grasse che sanciscono una condanna emarginante.

* * *

Io sono malata a prescindere, la parola che mi definisce ha tante vocali ed è grassa anch’essa, nominandola sgocciola unto come quando si mangia un kebab. Obesa. Credere di poter essere una scrittrice obesa e continuare a farlo è stata una folle rapina a tutte le scrittrici magre capaci di scivolare leggere nel mondo patinato che circonda e seduce, che si inchina e che per qualche manciata di istanti promette e concede una notorietà da raccontare al vicinato e, più tardi, ai nipoti. Le pattinatrici scrittrici magre e adatte boicottano le scrittrici obese in appositi forum carichi di veleno dove, nascoste da nickname riconoscibili, esprimono forte il loro disgusto partendo dal corpo e sul corpo, non lesinano nomi e cognomi e sottolineano implacabili che una grassa è anche brutta e pesante e noiosa ed inutile, facendo combaciare i lembi dilatati del corpo obeso con le copertine dei libri, con le pagine scritte. Qualcuna afferma che una grassa dovrebbe occuparsi della sua sciatteria evidente e disturbante invece di fare critica letteraria e addirittura scrivere romanzi. Ma guarda che audacia, che imperdonabile errore.

Mi sconcertano. Non ho un complesso di persecuzione, non mi sento lapidata dalle parole degli altri quando già ci pensa il mio corpo a lapidarmi, ogni chilo una pietra, ogni sbirciata allo specchio una frustata che lascia la pelle segnata di rosso.

Eppure il rispetto non è un’opzione variabile anche se lo sembra, a volte. Tanto che importa, a chi frega? Il tempo dei magri e lindi, dei platinati e perfetti, dei denti impiantati, della vecchiaia sparita, delle rughe riempite di cerone, delle labbra giganti e dei ventri piatti come il marmo, dei corpi di cellophane, dei capelli estesi, delle pelli tirate e della perfezione ostentata dà ragione a loro e forse ce l’hanno, chissà.

Ho avuto momenti di visibilità esagerata alternati a momenti più calmi e il tutto ha seguito le fluttuazioni della bilancia. Mi hanno invitato a trasmissioni di prima serata, ho esibito scollature per mostrare la cosa migliore di questo corpo budinoso e massiccio, la parte voluttuosa, inattaccabile e persino invidiabile, il seno così felliniano, gigantesco e materno: ho sedotto e mi sono lasciata sedurre sentendomi viva. Ho il ricordo di stanze d’albergo dove spargevo tracce per sentirmi a casa, dell’attrito violento di corpi ansiosi di ritornare bambini baloccandosi con queste mie tette smisurate e invitanti. Durante questi amplessi rapidi e affamati pensavo ai libri che avevo tenuto in mano e mostrato alla telecamera. Oggetti, di carne o di carta, che permettevano di dimenticarmi, di sorvolare sulle mie scontentezze, sulle insicurezze, sul veloce oblio in cui finiva ogni riconoscimento, ogni soddisfazione. Avevo dieci anni di meno. Se sei abbondante, grossa e formosa, il tempo che scorre gioca a tuo sfavore con violenza inaudita, ti travolge e ti sfregia con intensità potenziata.

Adesso ho 42 anni. La tv tentenna nei miei confronti, la capacità dialettica è stata importante all’inizio ma l’obesità ha battuto la buona volontà dei miei argomenti dieci a zero: a volte mi invitano ancora a talk show stantii non certo in prima serata, spese non rimborsate, niente trucco, studi introvabili alla periferia di Milano, o in qualche quartiere di Roma affogato nel cemento. Studi da raggiungere con ascensori simili a tombe dove mi attendono prime assistenti platinate e distratte, alle quali per un tempo lunghissimo non risulta il mio cognome (e adesso che fanno, chiamano la sicurezza?) e, infine, lo trovano e con un sospiro e un dito laccato mi indicano l’angolo dove mi sistemo, seduta accanto a vecchie cantanti con la permanente color topo che adesso reclamizzano padelle e paiono davvero passarsela alla grande. Non sono obese ma grassocce e a volte il presentatore, frustrato dall’audience minore di quando televendeva doghe in legno su una qualsiasi delle tivù generaliste, tenta qualche battuta del tipo: vi piace, eh, mangiare?

Sono televisioni locali, Abbiategrasso TV, Badia Polesine TV, posti così. Probabilmente non le guarda nessuno se non qualche anziano con l’artrite e il telecomando puntato come una pistola, casalinghe stanche pronte a cambiare canale o qualche studente svogliato: penso alla fatica di questo lavoro ingrato, alla popolarità in caduta libera, non trattenibile ma così facilmente modificabile mentre un po’ cupa scendo dal treno e cerco la metropolitana. Tutto fa, ti dici quando accetti, e poi ti penti se alla battuta maldestra non puoi alzare il tuo pur voluminoso culo e lasciare il palcoscenico alla ex cantante rotonda e appagata fra le sue padelle che risponde di sì con foga, che dice di essere davvero felice del fatto di non negarsi niente, del fatto di mangiare bene e di cuocere tutto nelle sue superfonde in acciaio inox.

Ci resto e annuisco sembrando sostenuta e un po’ snob in un ambiente dove essere snob è letale, risulta patetico e assurdo, imperdonabile a livello di immagine.

Un tempo, diciamo cinque anni fa, durante le notti solitarie negli alberghi, fra una trasferta e l’altra, riuscivo a rilassarmi, a toccarmi e a provare un piacere solitario e potente accompagnandomi a fantasie reali, rammentando episodi vissuti in quelle escursioni nei salotti veri, le ospitate per presentare i libri in quel breve periodo di visibilità nazionale. Adesso ho poche cose su cui fissare le mie fantasie: invento e fatico ad arrivare all’orgasmo. Resto ferma. Assaporo l’odore di pulito delle lenzuola.

Il corpo è distante, pare volare via. Aspetto. Cos’altro puoi fare in certi casi? La vita si trasforma in una interminabile attesa. Aspetti fatti reali su cui fantasticare. Aspetti una mail

da qualcuno che ti ha cancellato dai suoi contatti. Aspetti un bonifico che tarda e che devi sollecitare. Aspetti chiamate di altro genere per rinverdire una fama che tende a sbiadire come lenzuola troppo colorate dopo tanti lavaggi. La tv nazionale però latita. Chiama scrittrici fotogeniche e snelle che inquadrate risultano adatte, più credibili, più belle e quindi comprabili. È successo questo ai miei libri? Sono diventati come me, un affare in perdita? Un mucchio di cocci poco attraenti? No, quelli si vendono a prescindere. Non tanto ma abbastanza, più di altri, meno di certi volumi massicci e ambiziosi che affollano classifiche e scaffali di ipermercati: i miei libri hanno una loro considerazione e un loro posto, fluttuante, certo, in quel gioco di pesi e misure che appartiene alla vita e ai suoi rischi. Li vedo nelle librerie, li sfioro, mi si stringe il cuore un istante immaginandoli perduti in un territorio così affollato poi non li prendo neanche in mano ed esco ma i rendiconti parlano (se la loro parola è sincera, o se lo è fino a un certo punto). Ho lettori che scindono il prodotto dall’autore. Rari e preziosi, in un tempo che invece li vuole uniti, autore e prodotto, incollati, in un tempo in cui spesso si compra l’autore mentre il prodotto rimane indietro, obliquo. Guscio vuoto di un niente abusato, etilico, strangolato.

Funzionano certe tipologie. L’autore o l’autrice quasi mai over 30 coi capelli lunghi e luminosi, una taglia XS, abbigliamento da copertina di Vanity Fair, linguaggio da Rolling Stone mischiato alle Invasioni barbariche con qualche voluta e sapiente puntata nel kitsch dei reality e dei grandi fratelli per essere subito cool. Un passato di mediattivismo o di selezionate collaborazioni con prestigiose riviste. Pochissimi racconti in quelle antologie da recensioni a grappoli, tutte positive.

Perfetti esempi di cacciatori alla ribalta. Sono tanti, autori o autrici con l’agente giusto e i giusti interessamenti di chi poi farà il film o la fiction e darà lustro al prodotto e moltissimo

lustro splendente al conto corrente non più in caduta libera (il loro, non certo il mio).

Io somiglio al mio estratto conto ridicolo e sussultorio come un rivelatore di terremoti impazzito. Io non sono comprabile, non sono plausibile, come si fa nel 2008 a essere grassi, enormi, giganteschi ammassi di adipe non solo trascurato ma anche alimentato con carboidrati dopo cena, con pane, toast e schiacciatine?

Me li infilo letteralmente in bocca aiutata dal dito e morbidamente si disfano in un istante.

Il racconto per la rivista non è perfetto. Non ho altro da fare e rileggo. Rileggo ad alta voce, mi fisso su ogni dettaglio. Non mollo la presa anche se potrei. Lasciare che le cose siano pasticciate, sciatte. Nessuno ci farebbe caso. Adesso riscrivo dicendo che devo cambiare, ho trovato un refuso causato dalla fretta.

Vado sempre di fretta, una fretta impetuosa, come se rincorressi qualcosa che non c’è, che non c’è ora e non c’è mai stato, ma io rincorro smarrendo lucidità a ogni passo, contraendo le labbra per lo sforzo, io dietro al nulla piena di patetiche speranze e aspettative, sudando e seminando una scia di qualcosa che non somiglia a sudore normale ma a un rivolo purulento.

Forse lo producono solo gli obesi ed ancora da studiare e analizzare, tanto la ricerca se ne frega.

Quanti libri sull’anoressia. Vanno per la maggiore. Ragazze anemiche e bianche, magrissime e infelici. Quell’infelicità è rappresentabile. Si trova su cartelloni e sulle passerelle di moda. Per questo si può definire infelicità modello. Giovinette che piangono all’improvviso, compatite e compatibili, piccole principesse con corpicini tutti ossa e maglie che a stento coprono i fianchi. Attillate nella mente e nel look. Perseguono un controllo totale, un preciso svuotamento, incolpano società e famiglia, narrano il loro raro piacere enfatizzando il pathos della loro scarna narrazione, indugiano sulle ossa sottili, quella

pelle talmente priva di grassi che quasi combacia, che le rende bambole di plastica intercambiabili, asessuate e inconsapevoli.

Si sono messe a scrivere tutte insieme, i loro libri hanno creato un filone privo di contrappasso, agli obesi niente. Non c’è traccia di parola data. Di narrazione diventata moda.

L’obesità è l’assedio ai codici a barre della forma perfetta.

L’obesità è circondata da un simbolico fosco e colpevole. Anzi, raccontarla, persino se ha radici ereditarie e quindi con una piccola attenuante generica, è un azzardo.

 

 

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venerdì, 14 dicembre 2007

FACCIAMO SILENZIO di Vladimir Di Prima

Cari amici, come sapete Letteratitudine è sempre dalla parte dei librai indipendenti e della piccola editoria di qualità. Nel post precedente ho avuto modo di presentarvi la Cadmo. Oggi vi presento Azimut, giovane case editrice romana nata nel 2005. L’occasione ce la fornisce il nuovo libro del giovane scrittore siciliano di Zafferana Etnea Vladimir Di Prima, “Facciamo silenzio”; libro uscito proprio per Azimut in questi giorni. Mi fa molto piacere potervelo presentare, perché Vladimir – oltre a essere mio conterraneo – è stato mio compagno di scuderia a Prova d’Autore. Ce ne parla Serena Chiarion, firma de “La Voce d’Italia”. Seguono: un estratto del romanzo (come al solito, per farvelo assaggiare) e il booktrailer.

Su Vladimir aggiungo che, oltre a essere scrittore, è un talentuoso illustratore e ha una grande passione per il cinema. Ha girato parecchi cortometraggi: in uno di questi è riuscito a coinvolgere personaggi del calibro di Lucio Dalla, Lando Buzzanca e Giancarlo Majorino. Il booktrailer del libro è opera sua ed è molto… “forte” e provocatorio: simboleggia il prolasso intestinale che subisce il personaggio tratteggiato nel libro. Secondo me farà discutere parecchio.

Il tema del libro, come avrete modo di appurare dalla recensione di Serena, è legato al concetto di silenzio.

Le domande che vi propongo per un eventuale dibattito sono le seguenti.

Quante parole non dette si celano dietro i nostri silenzi?

Quando il silenzio è utile? Quando, invece, diventa nocivo?

(Massimo Maugeri)

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Vladimir Di Prima, Facciamo Silenzio, Azimut Editore, pp 144, euro 10,00

Recensione di Serena Chiarion

Facciamo silenzio: ma sarà davvero silenzio?

Ognuno di noi si trova spesso a pensare cose strane mentre qualcuno ci parla, cose che non centrano nulla con quello che stiamo ascoltando o, perlomeno, sembrano non centrare.

A chi non capita, mentre il capo parla, di pensare alle conseguenze ed alle problematiche legate a ciò che ci sta dicendo, senza avere il coraggio di esprimerlo?

A chi non succede di avere pensieri strani e bizzarri quando ci troviamo davanti ad un interlocutore particolare e un po’ ridicolo?

Quanti pensieri nascosti rimangono in noi dopo un incontro… dopo aver interagito con qualcuno che amiamo, che ci è amico, che è importante per noi.

Ognuno di noi ha dei momenti in cui riflette sulle sue parole e sulle persone che ha incontrato, sui rapporti che ha vissuto e su quanto questi gli abbiano cambiato la vita.Vladimir Di Prima, nel suo nuovo romanzo Facciamo Silenzio, sceglie di sviluppare il tema dei silenzi che nascondono un’infinità di parole non dette, pensate e rielaborate attraverso un particolare dialogo-monologo con il computer che diviene il testimone degli ultimi significativi momenti del trentenne protagonista.

L’incipit del romanzo è davvero d’impatto: un malato terminale, dopo la fuoriuscita dei suoi intestini, disperde gli organi per la stanza in cui si trova…. Ed è così che si libera di tutto ciò che ha dentro, in senso fisico e metaforico: tutto ciò che si trova nelle sue viscere che, un tempo, si credeva fossero custodi dei nostri sentimenti, delle nostre emozioni e delle nostre sensazioni.

Il resto del libro segna la liberazione del protagonista da tutto ciò che per sempre ha tenuto nella testa e nel cuore, di quelle parole dette e non dette, di quei momenti di profonda riflessione che egli ha vissuto, soprattutto grazie agli incontri che lo hanno segnato indelebilmente.Ma, in alcuni momenti, il computer gli parla semplicemente di lui, della sua infanzia, dell’attenzione con cui è riuscito ad osservare il mondo.

Ed il linguaggio usato è quasi trascinante: un fiume in piena che travolge ogni concetto razionale trasformandolo in qualcosa di intimo e personale che ci sconvolge ed affascina perché, in qualche modo, fa parte di ognuno di noi.

Pensate a cosa accadrebbe se tentassimo di trascrivere i nostri pensieri che nascondiamo dietro a brevi o lunghi silenzi… Per noi sono chiarissimi ma, in realtà, per gli altri, avrebbero davvero un senso?

Il protagonista è spesso cinico nell’analizzare sé e gli altri: crudi, ma incredibilmente realistici, i momenti della sua infanzia e della sua adolescenza. E il suo modo di vivere l’amore: tutto un decidere se chiamarla o meno… Ed i nomi che dà alle persone che ha incontrato nella vita: Fata Brevetti, gemelle Chewig-Gum, il padre Fidel, l’autistico e l’impiegato delle poste; il “dialogo” con quest’ultimo esprime in pieno il suo malessere nei confronti del mondo che lo circonda.

Meravigliosi i momenti in cui emerge una profondità concettuale e linguistica davvero toccanti:“Del resto i segni sono quelli: non vivi, non godi, non speri, addirittura non riesci più a leggere qualcosa che non sia la tua stessa cosa. Anche l’etichetta del pollo, o del pane, o di quello che tu hai sollevato per aiutarla nella spesa, ti reca un terribilissimo senso di incomprensione. Sei pieno. Marcio di tutti quegli orribili principii che la vita e i suoi fedeli impostori ti hanno fatto credere indispensabili, ma che in realtà servono solo a complicare il resto. Sono le piccole crisi che rovinano perché di quelle grandi il mondo neanche se ne accorge.”

Decisamente è un libro affascinante ed intrigante, anche se, in qualche modo, il finale lo conosciamo subito.Il linguaggio usato è crudo, pesante, forte; poca è la punteggiatura a significare la continuità, a volte non evidente, dei concetti espressi.

Ma questo romanzo testimonia quanto significativa sia la fine di ognuno di noi solo se la rapportiamo a ciò che è stato il nostro percorso di vita. E la liberazione del protagonista è totale e appagante perché ciò che doveva essere detto è stato detto.

Sicuramente è un libro da leggere anche se non rispecchia il classico romanzo con inizio, parte centrale e fine, che non ha dei personaggi che ci fanno sognare od innamorare. Ma è un romanzo vero, in cui bisogna immergersi profondamente e che, in fondo, parla proprio di noi.

Serena Chiarion

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Vladimir Di Prima è nato a Catania nel 1977. Laureato in legge, attualmente si sta specializzando in criminologia. Ha realizzato il cortometraggio Shalev hu haiam con la partecipazione di Lucio Dalla, Lando Buzzanca e Giancarlo Majorino. Ha pubblicato La teoria della donna fumante (Greco, 1999); Gli Ansiatici (2002), Catania 48ore (2003), Sessso Senso (2004), per le edizioni Prova d’Autore.

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Un estratto del romanzo “Facciamo silenzio”

(…) Quell’ultima sera avete parlato d’infanzia. È una cosa che più o meno hanno avuto tutti. Lei ti ha chiesto della tua, e tu gliel’hai sbattuta in faccia come quelle torte che volano nei film. Hai detto di aver frequentato asilo e scuole medie a Torino. Che a quel tempo lo chiamavano ricongiungimento alla madre. Lei ha detto, allora ti chiamavano terroncino? Tu hai detto che sì, che può essere che fosse per tua madre. Per tua madre cosa? lei ha detto.

Che tu avessi fatto le scuole medie a Torino, hai detto. Ancora una volta non vi siete capiti. Lei voleva sapere se ti chiamavano terroncino e tu perché avessi fatto le scuole al nord. Dopo un po’ hai risposto che sei stato il miglior terrone della sezione D alla scuola media Arnaldo Fusinato, poeta della patria e di ’sta minchia.

Sin da piccolo tu ripetevi un sogno. Ti sdraiavi sul prato oramai smunto, volgevi una mano sugli occhi, la mano che diventava lenzuolo e cominciavi a lievitare. Pian piano un paio di ali ti si allargava sulla schiena. Non scherzo, ci riuscivi davvero in quel volo d’incanto a lato di farfalle, api e altri insetti da giardino.

Poi però, all’improvviso, arrivava il calabrone nero come uno scoglio che precipita dall’alto rompendo la resistenza del cielo; le ali spiumavano rinsecchite da una vampa atroce e di colpo ti ritrovavi sopra il vagone di un treno, in braccio alla tua mummy che salutava con la mano Fidel, i nonni e quelli che c’erano da salutare, pure il solito capostazione, che come tanti si inteneriva e come tutti, alla prima curva, scompariva. Non era un addio, certo, solo un lungo, interminabile arrivederci.

La tua mummy irretiva gli occhi di rosso confondendoli nel bavero del cappotto abbottonato un quintale di volte. Il fischio del treno serrava il finestrino e il controllore cominciava a vidimare i biglietti muovendosi con lo stesso vento di un carabiniere.

Fidel mischiando tenerezza al suo vocione da generale diceva, non ti preoccupare bambino mio, tu sei grande no? due o tre mesi passano in fretta e poi lo sai che ti vengo a trovare.

Cosa vuoi che importasse, tu a malapena distinguevi il giorno dalla notte, il pranzo dalla cena, e non capivi mai quanto fosse inesauribile quell’intervallo per un bambino.

Guardali oggi i tuoi occhi, nel profondo stagliano ancora la sagoma zuccherata del vecchio traghetto. Dentro, infeltrito dai lavaggi del tempo, c’è un pezzo di te a salutare l’isola. La tua terra galleggiante. A sradicare le radici che in qualche punto restano sempre attaccate.

Il viaggio per l’umida terra dei lombrichi era lungo e appiccicoso.

Così chiamavi il Piemonte, l’umida terra dei lombrichi. Il cielo di quelle parti si allargava basso e sgoccioloso, pareva il coperchio di una pentola quando vi si rimane intrappolati all’interno.

Non c’era la tua montagna spannata di neve e fumo, e non c’era il mare a darti la sensazione di un orizzonte avvicinabile. Ma questo, a parte tutto lo smantellarsi di elementi familiari non aveva alcuna importanza. Lì c’era un lavoro, assemblaggio componenti plastiche, e la tua mummy doveva lavorare. Un giorno le avresti pure detto grazie per una fiammante macchina color grey mamalook.

Per migliore memoria ti ricordo che abitavate in uno scantinato senza finestre e che ogni settimana avevi le tonsille a pois e la febbre che faceva fionda lungo la colonnina del termometro.

Non ti puoi lamentare, sei stato un bambino fortunato, avevi molti giocattoli e un orso di peluche. Era bravo l’orso, ti proteggeva dagli orchi neri della notte, diventando esso stesso, a volte, l’orco che ti rubava il sonno.

Il viale di selciato che portava all’asilo Manzoni era pieno di bimbi pallidi, allineati, con nugoli di lentiggini disordinatamente disseminati sul naso e la scriminatura che sembrava venuta fuori da mezzo giro di compasso. Non era questo che ti colpiva o ti raccapricciava più di qualche lombrico agonizzante dopo aver perso l’intestino sotto la spinta sgarbata di qualche tacco; quei bambini erano stretti ai polsi da un padre e da una madre, da un maschio e da una femmina. Li ricordi sorridenti, ancora un po’ intorpiditi dal sonno e mezzi scemi per il troppo freddo.

Tu credo non facessi lo stesso. Tu, dentro quel freddo vivificante, ti ripiegavi a mezz’asta come una bandierina di carta. Una delle tue microbiche mani rimaneva orfana e, per evitare che morisse gelata, la tuffavi dentro la tasca di un giubbino verde oliva, carezzando meccanicamente con le dita il cappello di un puffo a cui per solidarietà avevi tagliato una mano.

Ogni tre giorni la tua mummy ti portava in una piovosa cabina di periferia. Dalla borsa tirava fuori un sacchetto di gettoni. Te li ricordi i gettoni, vero? Quei dischi a doppio solco, aspri e puzzolenti che se li mettevi in bocca sputavi per cinquant’anni. Di solito la tua mummy ne scaricava quindici, sedici; dal rumore parevano affondare in un pozzo profondo, l’eco era qualcosa di impressionante; poi componeva il numero, emetteva strani versi gutturali come da primate dell’era quaternaria e con un fazzoletto di carta ti poggiava la cornetta all’orecchio, un modo come un altro per proteggerti dai ruttastri degli ubriaconi che poco prima avevano sorseggiato alle loro puttane. Dall’altra parte del mondo Fidel rompeva l’indugio della linea attraverso un incoraggiante salto di voce lungo mille e cinquecento chilometri. Il resto erano quattro zoppicanti minuti frammezzati da silenzi spaziali.

Le maestre dell’asilo Manzoni, quelle irsute zitelle stagnate di naftalina, ti strappavano di mano i pennarelli nuovi e li davano agli altri bambini senza spiegarti il perché. Né che potessi capirlo, tu, un perché così grande.

Poi Fidel per le scuole elementari ti riporta nell’isola galleggiante mentre la tua mummy rimane a Torino a moltiplicare ore di straordinario per pagare l’affitto e mettere qualcosa da parte quando un giorno si deciderà la tua università. Alla deriva è il tempo della tua gestazione feticista, che senza doglie di femmina e con voglie da bambino partorisci a otto anni quando le gemelle chewing-gum sbatacchiano fumi pomeridiani in luogo di congetture post liceali. Una mattina come tante, mentre la maestra ti ha in braccio per farti attaccare un cartellone titolo festa dell’albero, le rompi nel polpaccio la spilla difettosa che regge il risvolto dei pinocchietti. Lei non si accorge di niente, fa caso solo a un piccolo rivolo di sangue che le macchia le calze e che lei asciuga come tutte quelle ferite che se ne vanno dopo una notte di sonno. Tre anni dopo, la scheggia trascurata completa il suo viaggio attraverso i muscoli, si ferma al cuore, prima glielo indurisce e poi glielo frantuma. Oggi la maestra Ciclamini ha un bellissimo appartamento di marmo, con tanti fiori freschi e almeno trecento mesi di vita mai svelati. Passandoci, ci giurano un po’ tutti: sì, sei stato il suo migliore alunno di sempre.

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Il booktrailer del romanzo “Facciamo silenzio”

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OMAGGIO A ZYGMUNT BAUMAN

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