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venerdì, 17 settembre 2021

GIOVANNI VERGA e la “SCUOLA AMERICANA”

Portrait of Giovanni Verga.jpgIl nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine “Saggistica Letteraria” è dedicato alla figura di Giovanni Verga con questo contributo dell’omonimo giornalista bergamasco, pronipote del grande scrittore verista, che ci ragguaglia sugli studi statunitensi e, in particolare californiani, dedicati all’autore de “I Malavoglia”.

* * *

GIOVANNI VERGA e la “SCUOLA AMERICANA”

di Giovanni Verga

Può sembrare strano che un autore così profondamente legato alla sua terra come Giovanni Verga possa avere avuto degli ammiratori e abbia suscitato interesse in un Paese e in una cultura lontani come l’America. Specificamente in California, dove lo scrittore verista è stato in tempi  passati al centro degli studi di un importante gruppo di studiosi, specificamente all’University of California Los Angeles (UCLA). Anche se non si può parlare di una vera e propria scuola, in quella università si formò un gruppo di lavoro negli anni Sessanta molto attivo nella traduzione e nella diffusione delle opere di Verga, come anche di altri classici della letteratura italiana, in particolare Leopardi e Dante.  Quella scuola evidentemente ora non esiste più, ma ha lasciato un segno ancora ben vivo tra gli studiosi. La conoscenza dei classici della letteratura italiana ha senz’altro una limitata diffusione in California e probabilmente in genere in America. E’ una materia di nicchia, ma viene  mantenuta viva probabilmente anche  per la presenza di una significativa comunità di origine italiana in quella terra. E’ indicativo che a Los Angeles ci sia  una prestigiosa Istituzione  locale di diffusione della cultura italiana, Italian American Museum of Los Angeles (IAMLA) che organizza mostre, convegni, omaggi e cura pubblicazioni con il consueto  rigore anglosassone. Soprattutto UCLA però è attiva,  con un dipartimento di letteratura italiana che ha un numeroso corpo docente e diversi corsi annuali. Sono gli eredi di quegli studiosi degli Anni Sessanta che diedero un forte impulso e soprattutto un’idea innovativa alla ricerca e alle traduzioni, riscoprendo tra i primi  Verga e il suo mondo.  Un lavoro che vale la pena togliere dall’oblìo anche per capire le ragioni dello scarso seguito di Verga all’estero e, secondariamente, quale sia la percezione della sua opera fuori dai nostri confini. Il risultato più importante è stata la prima traduzione integrale e soprattutto fedele, de I Malavoglia. grazie alla volontà e alla determinazione di uno specialista che aveva vissuto in Italia appassionandosi alla sua letteratura e a Verga in particolare,  Raymond  Rosenthal.  Esistevano già almeno due traduzioni in lingua inglese de I Malavoglia, ma erano ormai molto datate e soprattutto lacunose e che in molte parti travisavano fortemente l’ispirazione e la lingua del romanzo. Il suo The house by the medlar tree, (La casa del nespolo), lo stesso titolo delle precedenti traduzioni, è ormai assolutamente fuori commercio e irreperibile. Ne esiste però una diversa e successiva edizione che non ha la sua originale introduzione, ma solo una sua nota sulla traduzione. Nella quale si mette subito in evidenza l’aspetto più importante per Rosenthal, cioè il fatto che la prima traduzione in inglese de I Malavoglia, dell’inglese Mary A. Craig, pubblicata in America nel lontanissimo 1890 (con un’introduzione di William Dean Howells), conteneva tagli molto estesi, che ammontavano a più di cinquanta pagine, e che sembravano essere dettati “da pruderie vittoriana e molte cautele. Tutti gli evidenti o anche celati riferimenti alla sensualità, tutti i toni particolarmente selvaggi o ironici, per non parlare di tutte le espressioni che rivelano sentimenti anticlericali o antigovernativi, furono rigorosamente eliminati. Abbastanza stranamente, sostiene sempre Raymond Rosenthal,  la seconda traduzione molto più tarda di Eric Mosbacher negli anni Cinquanta usa la stessa edizione “mutilata” in italiano nelle edizioni scolastiche.

C’era probabilmente una qualche affinità o simpatia ideologica oltre che letteraria che spinse Rosenthal a cimentarsi nell’impresa. Lo spiega la figlia Margaret Rosenthal che vive a insegna a Los Angeles, alla University of Southern California, dove è preside del Dipartimento di letteratura francese e italiana. Ricorda l’ammirazione del padre per Verga. «Era affascinato dalla smisurata passione che aveva per la sua gente e dal suo progetto di dare voce e dignità letteraria alle classi più svantaggiate. Verga è una figura di grande complessità, che è molto difficile far comprendere all’estero, non solo per l’ambientazione regionale dei suoi romanzi, ma perché aveva adattato alla realtà italiana e siciliana del suo tempo teorie letterarie e di scrittura nate in un contesto diverso. Ha pagato il fatto che quelle teorie erano state elaborate in altre società più evolute come quella francese, e trasportate in una realtà molto più arretrata. Il realismo europeo era stato concepito per raccontare la condizione proletaria e urbana della nuova società industriale, invece la Sicilia di Verga era ancora contadina. Questo all’estero non era stato capito, ancor meno in America». Riguardo ai tagli delle traduzioni precedenti, mancava secondo Rosenthal metà dell’intero capitolo in cui, dopo il naufragio della Provvidenza, si focalizza l’attenzione sugli scandali, i pettegolezzi e gli intrighi del paese. E poi entra nel cuore del problema, la traduzione del linguaggio  popolare, dei proverbi, dei modi di dire, che il verista Verga tanto spesso usava per restare il più possibile fedele a quel mondo che per primo, dopotutto, ha  raccontato. Anche chi l’aveva preceduto nell’impresa di cimentarsi con lui, soprattutto il celeberrimo scrittore, critico e viaggiatore David H. Lawrence – che aveva fatto conoscere all’estero con la sua traduzione de il Mastro don Gesualdo e le Novelle rusticane -,  non se la sentì di prendere in mano I Malavoglia. Troppo lontani da lui probabilmente quei proverbi, quella lingua di pescatori semi analfabeti, quella religione della famiglia e quell’idea di fatalità così poco anglosassone che tutto pervade e guida e contro cui è invano opporsi. Secondo Rosenthal, la maggior parte dei proverbi sono locali o varianti personali di antichi detti e massime; quindi ritiene che sia meglio restare il più possibile fedele all’autore piuttosto che tentare di trasformarli in qualcosa di equivalente, per loro più familiare di certo, ma che rischierebbe di travisare il significato.

E nel fare un esempio, ritroviamo un elemento che ricorre spesso quando gli anglosassoni e i nordeuropei si accostano alla cultura italiana e in particolare siciliana. E’ la fascinazione per l’esotico., inteso in quel significato caro al Romanticismo nordico, di natura incontaminata e selvaggia. Parlando dei personaggi verghiani,  Lawrence dice che “sono oggettivi, senza rimorso e senza remissione, come tutti coloro che vivono nelle terre del sole. Al sole si è oggettivi, nella nebbia e sotto la neve si è soggettivi. Quando si va a Ceylon, ci si rende conto che per i bruni cingalesi anche il buddismo è una faccenda puramente oggettiva”. Ancora Rosenthal, citando uno di quei modi di dire travisati, riferisce quello pronunciato da don Silvestro  quando si vanta che obbligherà Barbara Zuppidda a “cadere ai suoi piedi come una pera matura” (una frase, aggiunge, che è stata presa da qualche romanzo sentimentale tardo romantico o da qualche libretto d’opera). “Questa immagine esotica è stata dapprima ripresa (da Verga, ndr) con precisione dagli abitanti di Trezza, ma poi improvvisamente è stata, per così dire, naturalizzata nell’assurda frase <cadere con i suoi piedi>, che trasforma l’iniziale, sottile e indiretto concetto di infatuazione per una persona in un rude atto fisico, come qualcuno a cui si sta facendo uno sgambetto”. Un non sense.

Ma fu Giovanni Cecchetti la vera anima organizzativa e il fondatore della “scuola verghiana” di Los Angeles. Italiano di origine a differenza di Rosenthal, era diventato in quegli anni direttore del dipartimento di Italiano a UCLA, dedicandosi alle sue passioni, Dante e il Verismo. Anche lui, proprio come  Lawrence, tradusse il Mastro don Gesualdo e le Novelle rusticane e fece pubblicare per la University of California Press la traduzione de I Malavoglia di Rosenthal, ma con una sua prefazione. Nella quale è subito evidente il suo forte interesse per Verga e in particolare per la sua innovativa tecnica narrativa che definisce “una delle prime e più spontanee forme narrative sviluppate dai maggiori scrittori europei ed americani del suo tempo”. Rispetto ai quali, tuttavia, non ne raggiunse la fama fuori dai confini. Si spinge a dire che tutto il romanzo è costruito con un supremo senso di equilbrio, che ogni capitolo è magnifico in se stesso, ma non può essere separato dal resto, come le cinque dita della mano di Padron ‘Ntoni. “L’interazione tra eventi raccontati e stile è prodigiosamente unita. Leggere è come seguire i movimenti della vita  stessa mentre questa raggiunge le più lontane ramificazioni. Tutto è ovvio, quel difficilissimo ovvio che solo i grandi artisti possono raggiungere. Con I Malavoglia Verga arriva quanto più si possa  concepire a creare il romanzo perfetto”.

Resta da capire perché proprio Verga. Il gruppo californiano poteva scegliere fra tanti per i suoi studi e invece puntò  su Verga, uno tra i meno conosciuti in America e tra i più lontani dalla loro cultura. Le ragioni possono essere diverse, ma di certo l’ispirazione veniva dal solco già aperto da Lawrence e forse anche da un’attrazione di tipo ideologico per quel mondo di diseredati che era stato elevato da Verga a dignità di protagonista della sua opera e, in fondo, della storia. Un tema quindi che andava ben oltre i limiti regionali e siciliani, come del resto già Lawrence aveva ben capito e chiarito. Cecchetti dice che a Verga interessava raccontare la lotta per la sopravvivenza, non certo delle classi superiori, e questa doveva essere esplorata dentro i confini della società che conosceva meglio, quella siciliana, una scelta inevitabile che lo confinerà però entro i limiti del suo Paese. E per farlo doveva inventare una lingua.  E quindi è sulle scelte linguistiche di Verga che si focalizza l’approccio innovativo del gruppo alla traduzione rispetto ai precedenti. Scrive Cecchetti che «Verga rifiutò di lasciare che i suoi braccianti e pescatori parlassero la stessa lingua della borghesia, ma doveva scrivere in italiano. Perciò ha creato un mezzo linguistico (“medium”, ndr) col quale quel popolo povero e analfabeta pulsava di vita con tutta la sua “freschezza” emotiva. Ha adottato molte espressioni locali e le ha trapiantate nel vecchio solco dell’italiano tradizionale. In realtà, pur usando un vocabolario piuttosto limitato, ogni parola suonava nuova e originale». Cecchetti prenderà posizione anche sulle stesse traduzione di Lawrence, in vari suoi studi, tra cui la raccolta di saggi Il Verga maggiore.  In sostanza, lo rimprovererebbe di avere tradotto troppo alla lettera o, peggio ancora, di avere spesso “stranierizzato” il suo inglese per avvicinarsi alle frasi idiomatiche originali, facendo quindi autoconcessioni che si possono spiegare col fatto che era uno scrittore creativo, ma finendo a spingersi troppo oltre. Un mix di scelte volute e no che avrebbero profondamento fatto confusione rispetto allo spirito delle opere di Verga. E’ vero che il dibattito è poi andato avanti tra gli esperti, che in alcuni casi hanno a loro volta censurato le critiche di Cecchetti, rivalutando la creatività delle traduzioni di Lawrence, fors’anche condizionati dalla statura e dal prestigio del suo nome nel mondo anglosassone.

Nonostante sia passato tanto tempo, resta molto vivo il ricordo del metodo della scuola californiana tra gli studiosi. Thomas Harrison, direttore del dipartimento di Italiano di UCLA e anch’egli traduttore, osserva che Cecchetti «ha lasciato una solida sapienza accademica e una capacità di organizzare nuovi programmi nello studio dell’italiano e di rivitalizzare quelli vecchi, che sono poi state portate avanti dai suoi allievi». Tra i suoi illustri predecessori alla guida del dipartimento di Italiano nella prestigiosa ed elegante Royce Hall, la sede in stile vittoriano a UCLA, c’è anche un altro studioso Charles Speroni, fondatore del dipartimento e del periodico trimestrale Carte Italiane (Italian Quaterly) e a cui è intitolata la biblioteca e il centro di ricerca. E tuttora esiste un premio accademico intitolato a Cecchetti (Giovanni Cecchetti Graduated Award), istituito da UCLA e presieduto da Harrison, per giovani laureati in letteratura italiana, utilizzato per finanziare ricerche sulla materia sia in America che all’estero. Un premio che “vuole ricordare il pioniere degli studi e delle traduzioni dei classici italiani in America, soprattutto i più difficili, come Leopardi e Verga – sottolinea Harrison- che sono conosciuti tra i cultori, ma ancora troppo poco dai lettori americani”.

* * *

Giovanni Verga, dopo anni e anni passati come cronista in quotidiani locali, ha deciso di dedicarsi al reportage dall’estero, ovunque ci fossero storie meritevoli di essere raccontate. Quindi è stato in Israele e Palestina, Afghanistan, Siria, Caucaso ed Est Europa. Da queste esperienze sono nati anche due libri reportage. Ma nello stesso tempo ha continuato a coltivare l’altra passione, quella per la cultura, il teatro, il cinema e i viaggi. In sintesi, è giornalista professionista, amante della letteratura e  grato pronipote del grande verista.

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Scritto venerdì, 17 settembre 2021 alle 15:00 nella categoria SAGGISTICA LETTERARIA. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.

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