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venerdì, 6 luglio 2018

HELENA JANECZEK vince il PREMIO STREGA 2018

HELENA JANECZEK con “La ragazza con la Leica” (Guanda), vince il PREMIO STREGA 2018.

Helena Janeczek vince il Premio Strega 2018

Di seguito lo speciale di Letteratitudine con la lunga conversazione radiofonica con  Helena Janeczek e l’Autoracconto d’Autore dedicato a La ragazza con la Leica” (in chiusura di post, alcune immagini della serata).

Helena Janeczek, autrice di “La ragazza con la Leica” (Guanda), vincitrice del Premio Strega 2018 e del Premio Selezione Campiello 2018, ospite del programma radiofonico Letteratitudine trasmesso su RADIO POLIS (la radio delle buone notizie)

In streaming e in podcast su RADIO POLIS

trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia e postproduzione: Federico Marin

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PER ASCOLTARE LA PUNTATA CLICCA SUL PULSANTE “AUDIO MP3″ (in basso), O CLICCA QUI

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Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, giovedì 5 luglio 2018. Si è appena concluso, lo spoglio della seconda e ultima votazione che ha proclamato Helena Janeczek, con il romanzo La ragazza con la Leica, (Guanda), vincitore della LXXII edizione del Premio Strega, promosso dalla Fondazione Maria e Goffredo Bellonci e da Liquore Strega .

Come da tradizione gli Amici della domenica si sono riuniti nel giardino del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia dove Paolo Cognetti, vincitore del Premio Strega 2017, ha presieduto il seggio di voto.

La somma dei voti elettronici e delle schede cartacee ha portato alla vittoria il romanzo di Helena Janeczek, La ragazza con la Leica, (Guanda) con 196 voti. Seguono Marco Balzano con Resto qui, (Einaudi), 144 voti; Sandra Petrignani con La corsara. Ritratto di Natalia Ginzburg, (Neri Pozza) con 101 voti; Carlo D’Amicis con Il gioco, (Mondadori) con 57 voti; e Lia Levi con Questa sera è già domani, (Edizioni e/o) con 55 voti; per un totale di 554 voti espressi.

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HELENA JANECZEK racconta il suo romanzo LA RAGAZZA CON LA LEICA (Guanda)

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di Helena Janeczek

Ogni libro ha una storia che può essere facilmente ripercorsa e una storia sotterranea di cui l’autore riesce a vedere alcune tracce. Entrambe cominciano nel 2009, con una visita al Forma di Milano che ospitava la prima retrospettiva di Gerda Taro accanto a una mostra di Robert Capa. In quel periodo lavoravo a Le rondini di Montecassino, dove Capa è menzionato per una foto dei funerali degli studenti del liceo Sannazaro caduti nel 1943 durante le “Quattro giornate di Napoli”. Però tutto il suo lavoro a seguito delle truppe americane mi aveva permesso di toccare con gli occhi la realtà della guerra che stavo raccontando. Erano quelle foto della “Campagna d’Italia” che volevo vedere in uno spazio espositivo. Questo significa che, sul versante della storia sotterranea, Robert Capa era già una presenza interiorizzata quando uscii dal Forma con il desiderio di approfondire la conoscenza di Gerda Taro. Comprai il catalogo a cura di Irme Schaber e poco dopo andai a procurarmi Gerda Taro, Una fotografa rivoluzionaria nella guerra civile spagnola (DeriveApprodi, 2007), la biografia con cui la studiosa di Stoccarda poneva fine al lungo oblio della sua concittadina morta a nemmeno ventisette anni nella Guerra di Spagna.
Ma soltanto sul finire del 2011 si affacciò l’ipotesi che quella lettura potesse fungere da base per un lavoro di scrittura. Non pensavo a un romanzo, bensì a un racconto da affiancare a altri due che componessero un trittico dedicato a tre donne reporter di guerra. Le rondini di Montecassino, uscito nel 2010, aveva suscitato spesso la domanda come mai avessi scelto un tema così maschile come la guerra. In realtà, non mi sentivo molto svantaggiata rispetto a uno scrittore, bastava solo studiare un po’ di più. Però restava vero che narrare qualcosa che travalica le esperienze di noi figli e figlie del dopoguerra comporta un rischio di inadeguatezza sia etica che estetica. Mi colpiva, perciò, che esistessero donne disposte a mettere a rischio la propria vita per testimoniare con le parole o con le immagini la realtà delle guerre ancora in corso. Avevo già scritto un contributo per un’antologia (I persecutori, Transeuropa, 2007) che riconvocava la figura di Anna Politkovskaja nella cornice della fiera del libro di Francoforte agitata dalla notizia del suo assassinio. Durante le ricerche per quel racconto, avevo scoperto che tra i pochissimi giornalisti presenti a Grozny nei giorni della caduta ci fosse un’altra donna. Già inviata a Gaza e Sarajevo e in molti altri conflitti (in italiano è stato tradotto Il giorno che vennero a prenderci; dispacci dalla Siria, La nave di Teseo, 2017), Janine di Giovanni ha scritto anche il memoir Ghosts by Daylight (2011), dove racconta come la scelta di mettere al mondo un figlio avesse attivato i traumi che lei e il suo compagno, un fotoreporter francese, avevano subito.

Abbandonai quel progetto per vari motivi, anche per il desiderio di non addentrarmi subito in un lavoro troppo impegnativo. Quando prese forma quello che sarebbe diventato La ragazza con la Leica, pensavo di aver trovato la materia congeniale per un libro di gestazione meno difficile. Dopo aver cominciato a documentarmi meglio, scovai su internet l’indirizzo mail della biografa di Taro. Finalmente, il 2 marzo 2012, le scrissi per esporle il mio progetto e chiedere se fosse disponibile a darmi una mano con le mie ricerche.

“Gentile signora Schaber,

ho scoperto Gerda Taro, visitando la mostra da lei curata a Milano, città nelle cui vicinanze vivo da quasi trent’anni (…)
Ciò che mi ha subito attratta verso Taro è il fatto che sono nata anch’io in una famiglia ebreo-polacca e sono nata e cresciuta in Germania. (…) Taro per me non è una figura con cui identificarmi, ma penso che abbia una certa facilità a comprendere il suo contesto.
In sintesi, ho in progetto di imbastire un racconto lungo intorno a Gerda Taro. Non un romanzo, tantomeno un melodramma di amore e morte. Pensavo di non mettere direttamente in scena Taro e Capa, ma di procedere per episodi, in maniera non cronologica. Vorrei dare spazio alle fasi della sua vita meno esplorate, come il periodo di permanenza a Lipsia. Per me sarebbe rilevante cogliere lo sfondo politico e sociale che ha trasformato una ragazza mondana con aspirazioni di ascesa sociale in una militante di sinistra, senza che Gerda avesse mai smesso di somigliare a quella che era sempre stata.
Così mi è venuta l’idea di farla rinascere negli occhi di coloro che l’hanno conosciuta meglio e più a lungo, sopravvivendo a lei e a Capa (…) – i suoi amici ed ex fidanzati Willy Chardack e Georg Kuritzkes (…)” [1]

Rileggo questa mail e mi domando come sia possibile che da un lato avessi già le idee così chiare sull’impostazione narrativa e dall’altro non mi fosse balenato che non potesse che venirne fuori un romanzo?
Lo scoprii poco dopo, cominciando l’esperienza di scrittura più complicata con cui mi sia finora cimentata. Presto mi si chiarirono due nuove esigenze. Volevo iniziare e concludere il libro con delle foto, dando la prima e l’ultima parola al mezzo con cui si esprimeva Gerda Taro. Dovevo in più aggiungere un personaggio narrante femminile a cui sarebbe spettata la parte centrale del romanzo. L’amica Ruth Cerf conosceva degli aspetti della vita di Gerda preclusi all’ex-spasimante e all’ex fidanzato (per esempio gli aborti di cui ha parlato a Irme Schaber) e la sua testimonianza era, nel complesso, più aperta di quella reticente di Willy Chardack o quella brillante d’ironia e ammirazione di Georg Kuritzkes.
Volevo infatti che il libro avesse una struttura simmetrica, una composizione a specchi dove ciascun narratore aggiungeva dei tasselli per ricreare la figura sfuggente di Gerda Taro.
Ero consapevole che una narrazione attraverso tre terze persone focalizzate (Willy, Ruth, Georg) comportasse la rinuncia a intervenire in prima persona, come avevo fatto nei libri precedenti, vale a dire poter disporre di un filo metanarrativo per spiegare, descrivere, riflettere, fornire appigli interpretativi. Ma questa volta non volevo indagare cosa Gerda significasse per me, non volevo acchiapparne l’alone mitico e nemmeno decostruirlo. Mi misuravo con il fatto che Capa e Taro si fossero letteralmente inventati per realizzare i loro sogni: i loro pseudonimi, la falsa identità di un americano milionario trapiantato a Parigi, la possibile messa in posa della foto Il miliziano colpito a morte. Suona paradossale, forse, ma pensavo che il modo più adeguato per affrontare due personaggi che hanno mescolato realtà e finzione, stesse nell’allestire un testo dove realtà e finzione non fossero nettamente distinguibili, sebbene le prospettive dei narratori consentissero, al contempo, di mettere in risalto quella problematica. Ma il problema maggiore di La ragazza con la Leica stava nel fatto che tutti i personaggi di qualche consistenza, a cominciare da Willy, Ruth e Georg, sono ricavati dalle biografie di persone realmente esistite. Infatti il lavoro di documentazione più complesso l’ho dedicato a ricostruire le loro tracce biografiche, non quelle di Gerda Taro e Robert Capa. Devo un enorme ringraziamento a Irme Schaber per le lettere e le interviste che mi ha messo a disposizione, materiali che ho completato con quelli scoperti nel corso delle mie ricerche, per esempio le memorie del fratello di Ruth Cerf o la cartella su Georg Kuritzkes e Mario Bernardo trovata negli archivi di Vittorio Somenzi, a Roma.
Mi ha creato parecchie remore appropriarmi delle vite di tre persone che non fossero di dominio pubblico. Ho provato a dare a Willy, Ruth e Georg dei nomi d’invenzione, ma c’era un’incoerenza insolubile nel metterli accanto ai nomi autentici di pressoché tutti gli altri personaggi. Alla fine decisi che dovevo assumermi sino in fondo i miei rischi, di cui il più azzardato, a mio modo di vedere, stava nell’attribuire pensieri ed emozioni a quelle “persone vere” trasformate nei protagonisti di un romanzo.
Eppure avevo bisogno che fossero soggetti “a tutto tondo”, visto che, come avevo scritto a Irme Schaber, Gerda doveva risorgere attraverso la soggettività dei loro ricordi. Volevo raccontarla come una presenza che restava viva, malgrado la sua morte e gli anni terribili a cui i suoi amici sono sopravvissuti, sparpagliandosi tra l’America, la Svizzera e l’Italia. A partire da Lezioni di tenebra la mia scrittura è sempre stata un lavoro sulla memoria che include l’oblio e la rimozione, ma grazie a questo assolve il suo compito vitale. La trama memoriale che affiora alla mente di Willy, Ruth e Georg doveva seguire un criterio di plausibilità psicologica, conducendo dai ricordi più spensierati a quelli che toccassero le zone più dolorose del senso di perdita e di colpa. A questo si aggiungeva il bisogno di reinterpretare una sensibilità estetica vicina all’epoca di Gerda Taro, un approccio modernista che a tratti evocasse le commedie sofisticate che lei prediligeva al cinema, ma si ispirasse anche alla nuova oggettività e nuova visione (“Neues Sehen”) influenti per il suo lavoro di fotografa. L’invenzione, limitata al verosimile, si poneva al servizio della resa narrativa di ciò che nei documenti emergeva come dato d’informazione, mentre tutto ciò che appare decisamente “romanzesco” (non solo nelle biografie di Taro e Capa: p.e. la nascita di Georg a ridosso di una visita della madre a Lenin o la sua scampata fucilazione come “spia fascista”) è sempre supportato dalle fonti.
L’aspetto più difficile era comporre l’andirivieni dei ricordi legati da un filo associativo non cronologico. Dovevo trovare il modo per fornire dei punti d’orientamento nei ricorrenti salti spazio-temporali, appigli che non fossero incoerenti con il punto di vista dei narratori. Lo spaesamento trasmesso dalle prospettive di Willy Ruth e Georg era, al tempo stesso, un effetto necessario: vuoi perché rispecchiava le loro storie di profughi ed esiliati, vuoi perché erano catapultati altrove dalla forza dei ricordi. Gerda era il centro verso cui la diaspora dei suoi amici convergeva, la “Gerusalemme ritrovata” capace di ricomporre la mappa degli affetti e ideali di un mondo distrutto.
Gerda e i suoi amici erano inoltre le figure-guida tramite cui inseguire delle domande che, nei sei anni di gestazione del romanzo, divennero sempre più pressanti. Come nasce e si propaga il fascismo? Cosa significa opporvi resistenza? Come allacciarsi a una tradizione antifascista che non sia un rito retorico? Mentre scrivevo, l’Europa veniva investita dalla peggiore crisi economica dopo quella degli anni ’30 e dalla più grande ondata di profughi dal secondo dopoguerra. L’unica alternativa alla politica tradizionale incapace di raddrizzare la rotta verso un progetto di società libera equa e solidale che aveva ispirato le costituzioni democratiche e la nascita dell’Unione Europea, veniva da una destra che riattivava ultra-nazionalismo, razzismo, persino neofascismo e neonazismo. In quel corpo a corpo tra passato e presente, Gerda Taro mi faceva da antidoto. Era una luce in tempi vieppiù cupi perché aveva molto amato una vita in cui lottare in nome della libertà e della giustizia era altrettanto desiderabile che andare a ballare, fare l’amore, avere successo come fotografa.
Prima di occuparmi di Gerda Taro, la mia conoscenza della fotografia era essenzialmente quella di chi ama guardarla e ha letto alcuni “sacri testi” di riflessione teorica. Possedevo delle reminiscenze di un corso di fotografia frequentato al liceo dove avevo imparato a sviluppare i rullini, però restava il fatto che non avevo mai maneggiato una fotocamera che non fosse una scatoletta con cui fare clic. Così mi feci aiutare da due amici che, per una fortunata coincidenza, lavorano uno con una Leica e l’altra con una Rolleiflex. Inoltre mi sembrava importante che la fotografia si facesse veicolo della narrazione; vuoi perché una foto invita chi la guarda a completare il “racconto” fissato nell’istante dello scatto, vuoi perché le vecchie fotografie sono oggetti dotati di una storia. Ho concepito il prologo come un percorso con cui Gerda e Capa si affacciassero a partire da due foto di cui sono artefici, mentre l’epilogo disarticola l’evidenza di un’istantanea che li ritrae assieme, per ricomporre nel finale una diversa immagine della coppia. Ma anche nel corpo del romanzo ho spesso imperniato il testo su alcune foto che non vi sono riprodotte. Così, dopo aver consegnato l’ultimo giro di bozze, mi sono concessa di realizzare un sito (www.helenajaneczek.com) che ospita quelle immagini mancanti, di modo che chiunque ne abbia voglia, possa “sfogliarle” come un album fotografico da affiancare alla narrazione. In più, ho selezionato dei materiali video e audio significativi per la stesura del romanzo che mi sembravano belli da condividere. Tra questi spicca un cinegiornale sovietico girato a Valencia, il 4 luglio 1937, durante l’inaugurazione del “2° Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura”, la prima fonte che mi ha segnalato Irme Schaber. Nella pausa creata da un applauso, Gerda Taro, minuta, agile, molto aggraziata nella sua camicetta e gonna chiara, si alza per scattare. Sarebbe morta ventidue giorni dopo, ma in quei pochi secondi resta viva e inafferrabile.

(Riproduzione riservata)

© Helena Janeczek

[1] la traduzione dal tedesco è mia

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La scheda del libro

Questo libro racconta la vita di questa ragazza ribelle, l’amore con Robert Capa, l’avventura di fotografare e la gioia di vivere nella Parigi degli anni Trenta.

Il 1° agosto 1937 una sfilata piena di bandiere rosse attraversa Parigi. È il corteo funebre per Gerda Taro, la prima fotografa caduta su un campo di battaglia. Proprio quel giorno avrebbe compiuto ventisette anni. Robert Capa, in prima fila, è distrutto: erano stati felici insieme, lui le aveva insegnato a usare la Leica e poi erano partiti tutti e due per la Guerra di Spagna. Nella folla seguono altri che sono legati a Gerda da molto prima che diventasse la ragazza di Capa: Ruth Cerf, l’amica di Lipsia, con cui ha vissuto i tempi più duri a Parigi dopo la fuga dalla Germania; Willy Chardack, che si è accontentato del ruolo di cavalier servente da quando l’irresistibile ragazza gli ha preferito Georg Kuritzkes, impegnato a combattere nelle Brigate Internazionali. Per tutti Gerda rimarrà una presenza più forte e viva della celebrata eroina antifascista: Gerda li ha spesso delusi e feriti, ma la sua gioia di vivere, la sua sete di libertà sono scintille capaci di riaccendersi anche a distanza di decenni. Basta una telefonata intercontinentale tra Willy e Georg, che si sentono per tutt’altro motivo, a dare l’avvio a un romanzo caleidoscopico, costruito sulle fonti originali, del quale Gerda è il cuore pulsante. È il suo battito a tenere insieme un flusso che allaccia epoche e luoghi lontani, restituendo vita alle istantanee di questi ragazzi degli anni Trenta alle prese con la crisi economica, l’ascesa del nazismo, l’ostilità verso i rifugiati che in Francia colpiva soprattutto chi era ebreo e di sinistra, come loro. Ma per chi l’ha amata, quella giovinezza resta il tempo in cui, finché Gerda è vissuta, tutto sembrava ancora possibile.

* * *

Helena Janeczek, nata a Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da oltre trent’anni. È autrice dei romanzi Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), finalista al Premio Comisso e vincitore del Premio Napoli, del Premio Sandro Onofri e del Premio Pisa, e Lezioni di tenebra (Guanda, 2011). Il suo sito internet è: www.helenajaneczek.com

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Scritto venerdì, 6 luglio 2018 alle 00:46 nella categoria EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, LETTERATITUDINE RADIO (trasmissione radiofonica curata e condotta da Massimo Maugeri). Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.

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