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venerdì, 5 maggio 2017

YORO di Marina Perezagua (intervista all’autrice)

La nuova ospite dello spazio di Letteratitudine dedicato alla letteratura straniera (e all’inconto con gli autori) è la scrittrice spagnola Marina Perezagua, autrice del romanzo “YORO(La nave di Teseo ,traduzione di Pino Cacucci).

* * *

YORO” di Marina Perezagua (La nave di Teseo) - intervista all’autrice

di Massimo Maugeri

* * *

Sebbene l’eco delle immani catastrofi di Hiroshima e Nagasaki – veri e propri “scandali” della storia dell’umanità – dovrebbe continuare a risuonare nelle orecchie di tutti, il rischio che l’insorgenza di una guerra nucleare possa di nuovo devastare il genere umano rimane presente e aleggia sulle nostre teste come una perenne spada di Damocle. Lo dimostrano le recenti “scaramucce” tra Donald Trump e Kim Jong-un.
È questa la riflessione che mi viene in mente mentre mi accingo a pubblicare l’intervista alla brava Marina Perezagua, scrittrice spagnola che ha pubblicato di recente il romanzo intitolato “Yoro” (La nave di Teseo, traduzione di Pino Cacucci). Un romanzo fortemente incentrato sulla bomba atomica che, sul finire della seconda guerra mondiale, devastò il Giappone.
La storia di H comincia proprio il 6 agosto del 1945, quando il lancio di Little Boy su Hiroshima la colpisce ancora bambina e la sfigura… devastandola nel profondo.
Ho deciso di chiamare me stessa H“, scrive la protagonista della storia in una lettera indirizzata dalla Repubblica Democratica del Congo, “perché mi è sempre stata negata la voce e uno spagnolo mi ha detto che nella sua lingua la h è una lettera muta. La userò come nome, considerando che è anche il nome di tanti altri muti che forse troveranno qui la propria voce“.
È l’inizio di un racconto, l’inizio della sua storia, e di un viaggio che – nel corso degli anni – la porterà dall’America al Giappone, dalla Namibia al Congo…

- Marina, raccontaci qualcosa sulle origini di questo tuo romanzo (Yoro). Quale idea, esigenza, o ispirazione ti hanno spinto a scriverlo?
Risultati immagini per Marina PerezaguaHo sempre lavorato utilizzando paradossi e mi interessano particolarmente quelli che hanno un certo grado di difficoltà. In questo caso volevo immaginare un personaggio che, tra tutte le vittime della prima bomba atomica, potrebbe sentirsi in qualche modo beneficiato dall’esplosione, una bomba che ha preso la sua città, la sua gente, parti del suo corpo, e che tuttavia ha contribuito a costruire un’identità che la nascita gli aveva negato. D’altra parte, ero interessata alla sfida di scrivere in prima persona la testimonianza di un personaggio di una cultura diversa alla mia, tutto è diverso: l’età, il contesto storico… Sarebbe stato più facile scrivere sulla Guerra Civile Spagnola, la mia famiglia è molto longeva, ho conosciuto due bisnonni e due trisnonni, anche i miei nonni mi hanno raccontato tante storie della guerra, ma trovo più interessante scrivere di un dramma che non mi ha influenzato direttamente. E infine c’è il fatto di aver vissuto in Giappone e negli Stati Uniti per un lungo tempo (abito a New York da quattordici anni), questo mi ha permesso di accedere a testimonianze dirette o indirette delle due parti: vincitori e vinti.

- Cosa puoi dirci sulla tragedia della bomba atomica su Hiroshima? Che tipo di eredità o ammonimento ci ha lasciato, oggi, a distanza di tanti anni, il ricordo di quella terribile tragedia?
Purtroppo, in Giappone non c’è ancora una consapevolezza reale della memoria storica. Il tema degli attacchi atomici è un argomento tabù e molti giovani d’oggi non sanno nemmeno quando è successo. In Europa c’è una maggiore coscienza storica, e anche se questo non garantisce il rispetto per la vita, è una condizione senza la quale l’evoluzione etica non è possibile. Negli Stati Uniti, con o senza memoria storica, quello che conta è la conservazione della supremazia economica, e se per questo fosse necessario ricorrere di nuovo alle armi atomiche non credo che il ricordo di Hiroshima e Nagasaki freni qualsiasi attacco. Nel libro scrivo che “ciò che un albero respira esce dai polmoni di un altro albero”. Siamo tutti interconnessi, e una guerra è una ferita profonda nella dignità dell’essere umano, è una tara, una deformazione congenita che dimostra un altro fallimento dell’umanità. Una guerra è tutte le guerre.

- Hai svolto una attività di studio e ricerca prima di scrivere il romanzo? Cosa puoi dirci a riguardo?
Ho letto dai classici rapporti di John Hersey ai testi di fisica sul progetto Manhattan, o biografie di Robert Oppenheimer. Mi interessava non solo il necessario per scrivere un libro preciso in termini storici, ma entrare nell’atmosfera del momento per raccontare la storia principale, che è finzione assoluta. Ero particolarmente interessata al fatto che la formula atomica è stata ottenuta in gran parte da fisici che si opponevano al suo utilizzo e che, comunque, avevano bisogno di raggiungere l’elaborazione della formula come una sfida intellettuale.

- Parlaci del personaggio di H. Che tipo di donna è?
H. è una donna giapponese che è nata con un’anomalia biologica che noi oggi conosciamo come intersessualità, oppure come ermafroditismo fin dal XIX secolo. Questa volontà provoca un grave problema di identità che inizia a risolvere dopo l’attacco nucleare. Tutto il libro è una ricostruzione di quella identità e la ricerca di un bambino molto particolare, il cui mistero sarà risolto pezzo dopo pezzo fino alla conclusione del romanzo. Ma soprattutto H. è una donna coraggiosa, che non è disposta ad accettare il destino che altri le hanno imposto. Credo che in questo senso sia un personaggio con cui chiunque, nelle difficoltà del mondo di oggi, possa identificarsi.

- Come ha reagito H alla tragedia della della bomba atomica e alle ferite, fisiche e spirituali, che essa ha causato?
In una parte del libro H. dice che, tra tutti componenti della sua famiglia e tutti i suoi amici, la bomba era l’unica in grado di vedere e riconoscere come lei fosse in realtà. Ecco il paradosso. Come può essere miserabile la vita di una persona a causa della società, fino al punto di sentirsi riconosciuta da un atto così crudele, qualcosa che le fa toccare il fondo per poi farla finalmente emergere, non fino a qualsiasi superficie… ma fino a quella che lei aveva sempre cercato.

- L’incontro tra H e Jim, durante gli anni Sessanta, è fondamentale. Cosa puoi dirci su questo incontro? E cosa puoi dirci sulla successiva ricerca di Yoro?
Lei è giapponese, vittima, e Jim è un soldato americano, carnefice. Ho deciso di creare questo rapporto perché non volevo una storia manichea, una realtà ridotta a bianco e nero, e nemmeno che i giapponesi fossero visti sempre come vittime. Introdurre Jim come personaggio mi ha permesso dare voce a qualcuno che una volta è stato anche vittima dei giapponesi. La figlia perduta del soldato è ciò che unirà inaspettatamente entrambe le destinazioni, e la loro ricerca porterà la protagonista a seguire un percorso di vita che si concluderà in Africa, l’Africa di oggi, vale a dire la Repubblica Democratica del Congo, e l’abuso delle forze di pace delle Nazioni Unite, coloro che dovrebbero proteggerci.

- Ti chiedo, in chiusura, di mandare un messaggio ai lettori italiani di “Yoro”. Che cosa vorresti dire loro?
Direi che Yoro è un romanzo che si occupa dei problemi, delle paure o dei desideri che condividiamo come individui, ma anche delle soluzioni e della forza che possiamo raggiungere collettivamente. Penso che non ogni speranza è perduta, e Yoro è un romanzo duro, ma soprattutto luminoso.

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La scheda del libro

H si fa chiamare con una lettera muta, come mute sono le vittime della storia, la stessa lettera che nella tavola periodica indica l’idrogeno, l’elemento alla base della bomba atomica. La sua storia comincia proprio il 6 agosto del 1945, quando il lancio di Little Boy su Hiroshima la colpisce ancora bambina e la sfigura nel profondo, lì dove risiede la storia di un corpo e la promessa di una maternità.

Da quel giorno, di cui H ha minuziosamente ricostruito dati, orari e numeri per colmare il vuoto dei pochi e assurdi ricordi, inizia il suo racconto: una lettera urgente e totale, un’eterna dichiarazione d’amore e di colpevolezza. H, ormai donna cresciuta e sanata nel corpo, vive a New York ed è qui che negli anni ’60 incontra Jim, un marine sopravvissuto agli orrori della guerra, e a cui, solo per pochi anni, era stata affidata Yoro, un’orfana giapponese appena nata alla fine del conflitto. Nell’incontro fra Jim e H, la ricerca di Yoro – la figlia perduta e quella mai avuta – diviene il fondamento di un legame indistruttibile e l’inizio di un viaggio negli anni, dall’America al Giappone, dalla Namibia al Congo, fino alle radici della colpa e alla scoperta di una verità impossibile e semplicissima, che solo l’amore più grande può racchiudere.

Yoro è un indimenticabile romanzo sulla scoperta del corpo e della sua identità, sulla sofferenza e la sua riparazione, sulla forza incorruttibile e universale che muove ogni idea di madre e padre.

* * *

Marina Perezagua (Siviglia, 1978) è considerata da pubblico e critica una delle più importanti scrittrici della nuova scena letteraria spagnola. Ha pubblicato le raccolte di racconti Creature dell’abisso e Latte. Yoro è il suo primo romanzo, accolto con grande entusiasmo dalla stampa e vincitore del prestigioso Premio Sor Juana 2016. Vive a New York, dove insegna presso la New York University.

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Scritto venerdì, 5 maggio 2017 alle 15:00 nella categoria L'AUTORE STRANIERO RACCONTA IL LIBRO. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.

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