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martedì, 2 giugno 2009

STRANE COPPIE n. 3: ANNA MARIA ORTESE, INGEBORG BACHMANN

ortese-bachmann.JPGNuova puntata de Le strane coppie di Antonella Cilento.
Stavolta vengono messe a confronto due scrittrici: Anna Maria Ortese e Ingeborg Bachmann. I due libri accoppiati sono: “Il cardillo addolorato” (della Ortese) e “Il caso Franza” (della Bachmann). Le ragioni di questo accoppiamento vengono ben spiegate da Franz Haas nella bella nota che segue.
Ne approfitto di questo post per invitarvi a ricordare e a esprimere le vostre opinioni su Anna Maria Ortese e Ingeborg Bachmann.
Conoscete queste due autrici? Le avete mai lette?
Inoltre, la relazione di Haas mi ha ispirato un paio di domande…

Haas scrive che in ambedue le opere qui considerate una voce femminile esprime il dolore del mondo.
Allora vi domando: secondo voi le voci femminili, nella scrittura, riescono a esprimere meglio il dolore del mondo?
Dalla lettura della suddetta relazione emerge la grande stima della Ortese nei confronti della Bachmann. Un stima immensa, che – al tempo stesso, come capirete leggendo – è indice di una grandissima umiltà.
Così vi domando… che relazione c’è tra arte e umiltà?
La grandezza di un artista può essere collegata alla sua umiltà?

Di seguito, l’introduzione di Antonella Cilento e la relazione di Franz Haas.

Massimo Maugeri

——————-

Introduzione di Antonella Cilento

E’ con vera gioia che vi segnalo il proseguire incessante (e la crescita) del progetto STRANE COPPIE, organizzato da me con Lalineascritta Laboratori di Scrittura, e grazie alla collaborazione attivissima degli Istituti di Cultura napoletani, il Goethe Instut, l’Instituto Cervantes e l’Institut Français de Naples.
Strane Coppie è giunto ormai a buon punto: all’Instituto Cervantes giovedì 21 maggio h 19 si sono svolte le RIVOLUZIONI IMPOSSIBILI, dove Domenico Starnone e Melania Mazzucco hanno raccontato Il resto di niente di Enzo Striano e Il secolo dei lumi di Alejo Carpentier e, giovedì 11 giugno h 18.30 all’Institut Français de Naples, ci saranno RITRATTI DI DONNA, dove Sandra Petrignani e Donatella Trotta racconteranno Claudine di Colette e Il paese di Cuccagna di Matilde Serao.
Nel frattempo, ringrazio infinitamente Franz Haas per averci concesso di pubblicare la traccia del suo intervento avvenuto lo scorso 23 aprile presso il Goethe Institut: Franz Haas ha dialogato con Maria Attanasio intorno a Il cardillo addolorato di Annamaria Ortese e Il caso Franza di Ingeborg Bachmann.
Del perché di questo parallelo leggerete qui, di seguito, dalle stesse parole di Haas, ma occorre ricordare di quanto invece detto da Maria Attanasio, che speriamo presto di ospitare in questo spazio, che in quest’incontro si è rivelato un tema della scrittura di sempre: che un’autobiografia può essere un romanzo storico e che un romanzo storico può diventare una verità autobiografica. Di queste due autrici, fra i più grandi del Novecento, si può senz’altro dire che hanno cercato senza interruzione la loro personale Verità e sono rimaste, come scrive Monica Farnetti in Tutte signore di mio gusto, “fedeli all’invisibile”.
Ringrazio ancora particolarmente Franz Haas per la generosità e la gentilezza con cui ci ha raccontato i suoi personali ricordi relativi ad Annamaria Ortese e offerto sprazzi del loro carteggio privato.

A. Cilento

—————

Anna Maria Ortese e Ingeborg Bachmann –
“Il cardillo addolorato” e “Il caso Franza”

di Franz Haas

Per vari motivi ho suggerito di abbinare il romanzo incompiuto “Il caso Franza” di Ingeborg Bachmann al capolavoro “Il cardillo addolorato” di Anna Maria Ortese: perché in ambedue le opere una voce femminile esprime il dolore del mondo; perché in entrambi i romanzi una giovane donna ha un legame viscerale con un fratello più piccolo; e perché la Ortese stimava la Bachmann in modo quasi smisurato, particolarmente “Il caso Franza”, come mi scriveva in varie lettere che in seguito citerò.
Nel 1993 tornano i miracoli a Milano: dopo il clamoroso insuccesso del romanzo “Il porto di Toledo” nel 1975, il nuovo romanzo di Anna Maria Ortese è più fortunato, e per più ragioni. Primo, perché “Il cardillo addolorato” è la summa di tutta l’opera dell’autrice; ibrido stupefacente, spiritoso e malinconico ad un tempo; libro dell’età matura ma pieno di virtuosismi giocosi. Secondo, perché esce presso la nobile casa Adelphi, il che conta molto in una società devota alle etichette. Terzo, perché i buttafuori della critica non vigilano più con tanta severità sulle mode postmoderne.
Anche questo romanzo, come “Il porto di Toledo” si svolge in una Napoli fantomatica, città che l’autrice non vede da molti anni, davanti alla “fiaccola del Vesuvio” e ad altri accessori vecchi duecento anni. Sull’Europa brillano ancora le stelle dell’illuminismo ma già i primi fantasmi romantici cominciano ad oscurare il cielo. Tre viaggiatori belgi vivono la città nella sua leggerezza scintillante, ma presto la scena si offusca. I tre conoscono un ricco guantaio e sua figlia Elmina; uno dopo l’altro si innamorano di lei e intuiscono che su questa famiglia grava un tremendo segreto. Passeranno gli anni e gli stranieri non capiranno niente – soltanto che la ragazza soffre di qualche amore ridicolo, per un folletto, o per un idiota.
L’autrice si prende gioco della logica narrativa, accumula personaggi strambi che raccontano sempre nuove e strane varianti della disgrazia. Il lettore coscienzioso fatica ad orientarsi fra tanti nomi e fatti, gradi di parentela e chiacchiere da serve; egli insegue orme di fantasmi e date storiche per mezza Europa, ma alla fine nulla quadra, e non si sa se lo gnomo tanto amato ha tre anni, o trecento. Il “narratore” si scusa ogni tanto della grande confusione. Ma in fondo la vicenda è molto semplice: la figlia del guantaio aveva promesso al padre morente di prendersi cura del fratellastro deforme; per questo rifiuta ogni altro legame amoroso.
La giovane Elmina si accanisce nel suo amore sordo per il fratellino e per la solitudine, tanto da non essere più in grado di amare se stessa o alcuno. Uno degli ospiti di suo padre, il principe Ingmar di Liegi, la adora invano per tutta la vita. Lei sposa un altro, senza amarlo, il primo pretendente che capita, un artista dissennato amico del principe, sperando così di poter adottare il piccolo deforme. Quando muore questo marito ad Elmina rimane soltanto una bimba ritardata e il disgraziato fratello, che forse non è neppure un umano, ma un folletto, che a volte sembra una gallina o anche un capretto.
Il principe cerca di dimenticare, si sposa e sua moglie muore. Anni dopo torna a Napoli ed è tutto come sempre. Nell’animo di Elmina sono sopravvissute la freddezza e la pazienza, nella sua voce c’è sempre un’ironia gentile. Morendo il principe spera ancora in una qualche illuminazione. Ma non ci sono più segreti. Il disamore è davvero così sinistramente banale.
In questo romanzo Anna Maria Ortese ha narrato anche una storia autentica che conosceva dai racconti della sua adolescenza; il resto è favola e quella fantasia che viene dalla solitudine e dalla memoria. Il dolore è un’eredità del ricordo e lo si sopporta meglio nell’ironia, nel divertimento, sciogliendolo nell’assurdo. Spesso si fa largo anche la malinconia, ma l’autrice ogni tanto la scaccia con bizzarra comicità: l’adozione della piccola creatura (un trovatello di Colonia, come affermano antichi documenti) sarebbe necessaria per prolungare “il permesso di soggiorno nel Regno di Napoli”. (Qualche stupido crede persino che lo gnometto sia una spia della polizia.) Ma il mondo non è fatto di sola carta timbrata.
La realtà brutta, povera, deforme è onnipresente; le ferite e la disperazione sopravvivono agli umani, e restano. Tanti folletti storpiati se ne stanno accovacciati sui marciapiedi di Napoli, a “Liegi ed altre capitali”, leccando un po’ di latte versato.
Con il suo amore per il fratello, questo figlio sciagurato della natura, Elmina pratica una religione senza Dio né preghiere. “Ama un fantasma e questa disgrazia merita il più grande rispetto.”
Sente per tutta la vita il canto di un cardillo, che la esorta a considerare il dolore un privilegio, e la invoca di non abbandonare mai quella creatura debole; e lei prende sul serio questa vocazione, come altri si dedicano agli affari di borsa o alla poesia. L’autrice ha piena comprensione per tale ossessione. Con una fitta rete di metafore elabora una poetica in difesa del superfluo, del debole e del ridicolo; di ciò che proviene dai gironi più bassi dell’umanità, contro la logica dei vittoriosi, contro l’arroganza profumata delle parrucche nei salotti aristocratici. Oppone loro, con convinzione, il suo racconto e le sue poetiche immagini dell’inanità.
Elmina sopporta la sua sorte con la calma dei forsennati.
Il suo vecchio padre guantaio soffre molto più di lei, per lo strano trovatello e per una moglie che non lo ha amato mai. In una scatola bucata custodisce le “lettere d’amore” di lei (oppure il trovatello?); qualche volta, attraverso i buchi filtra un lamento debole. Il guantaio trascina la scatola attraverso tutta la sua vita; ma in verità il pacco contiene una sola lettera di poche righe – una gelida richiesta di soldi.
In tutta l’opera di Anna Maria Ortese esistono simili creature del dolore, né folli né ottuse abbastanza da poter sopportare in silenzio. A loro l’autrice dà voce: un miscuglio fra il realismo oscuro e “la magia nera delle parole” (Ingeborg Bachmann).
La strategia linguistica del romanzo è semplice e raffinata come l’esibizione di un vecchio clown esperto: dal rococò leggiadro delle descrizioni di certe cianfrusaglie color rosa fino al turbato silenzio esistenzialista di fronte alle cose di cui un poveretto non può parlare. E regolarmente l’ironia simulata si interrompe per fare largo ad un terrore verace. La grande arte di Anna Maria Ortese consiste in questo funambolismo dialettico-stilistico fra ragionevolezza disincantata e irrazionalismo spaventato e spaventoso.
L’autrice mantiene un continuo dialogo con il lettore, catturandolo con spiritosa ambiguità: “É penoso compito del narratore di storie sotterranee (…) preparare il suo ipotetico Lettore a una tranquilla delusione e insieme cauta speranza.”
Si confida con lui per chiedergli, insicura e lusinghiera, se veramente lo interessa questa storia “di bambine dispettose e uccelli infelici”. In ogni capitolo è presente “il narratore” che sospira ammiccando: “Dov’è adesso, per favore, il Lettore silenzioso (…capace di) raccogliere il silenzio glaciale dell’Universo, le liti dei fanciulli del mondo sotterraneo, gli sputi, le lacrime (…)?”
L’eroe maschile dominante di questo romanzo è il principe Ingmar di Liegi; è quasi invulnerabile nella sua innocuità. Avverte il dolore della delusione ma continua la sua vita da diplomatico, illuminato e ingenuo. “La magia non lo turbava, ma le cose del cuore sì.” Non sa cosa lo leghi veramente a Elmina, non conosce i rumori notturni nell’anima di una camiciaia. In fondo la considera sempre “una ruvida capra”, brutta nel suo dolore mediocre, la “capra del Golfo”. Quando egli si corica la sera, per riposare o per morire, il maggiordomo annuncia “un certo Cardillo, da Napoli”. Il principe è contento del canto e tutto intorno a lui diventa calmo, freddo, infinito.

Ho conosciuto Anna Maria Ortese la primavera del 1990, tramite Fabrizia Ramondino, proprio mentre stava lavorando a questo romanzo per il quale le servivano delle fotografie di quella zona di Napoli dove in parte è ambientato, il Pallonetto di Santa Lucia. Mi assumevo il compito di farle e poi di commentarle durante una mia visita a Rapallo. Nelle nostre conversazioni e nelle lettere che seguiranno Anna Maria Ortese si sofferma volentieri su Napoli, e mi parla con grande fremito del “Cardillo”, la sua creatura napoletana. Quando il romanzo esce, a maggio del 1993, all’autrice rimane l’antica angoscia causata dai suoi naufragi napoletani, e mi scrive: “Il libro è pronto (gliene ho mandato una copia) e dovrebbe essere in vetrina fra pochi giorni. Ma mi aspetto la stessa accoglienza che ebbe ‘Toledo’. Sparirà subito. Vedrà”. (12 maggio 1993)
Questa è pura scaramanzia, perché già si stanno muovendo i tamburi della stampa, è in arrivo una valanga di recensioni favorevoli.
Nell’estate del 1993 faccio un’altra visita ad Anna Maria Ortese, a Rapallo. Orgogliosa, mi regala una copia della traduzione spagnola del “Porto di Toledo”, appena uscita. A dicembre del 1993 mi esprime la sua soddisfazione per il successo economico del “Cardillo”, ma pensa già al futuro, alla rinascita di “Toledo”, il suo libro ingiustamente affondato, la sua creatura più napoletana.
Di Napoli, di “Toledo” e del “Cardillo” la Ortese parla sempre con timoroso entusiasmo, ma volentieri affronta anche altri argomenti. Vuole conoscere le mie letture preferite. Le parlo di Carlo Emilio Gadda, di cui lei ha solo un vago ricordo, e poco dopo mi scrive: “Ho cercato subito “La cognizione del dolore”, e ho cominciato a leggerlo stanotte, sbalordita da tanta grandezza, e mortificata di non averne saputo del tutto – o quasi – nulla, finché Lei non me ne ha parlato.” (23 maggio 1990)
Una reazione simile, persino di maggiore entusiasmo, suscita un mio suggerimento su Ingeborg Bachmann – la Ortese non conosce affatto l’autrice austriaca. Le spiego che la Bachmann ha passato molti anni in Italia, che era approdata ad Ischia e a Napoli proprio quando lei, la Ortese, aveva lasciato per sempre la sua città, che a Roma, per molti anni, avrebbero potuto incontrarsi. In varie lettere la Ortese affronta gli scritti della collega austriaca, è palesemente emozionata: “Ho letto, con grande commozione, “Canti durante la fuga”, di Ingeborg Bachmann. Vorrei leggerne altre poesie. Dove? Chi le ha pubblicate? La neve del cuore rivela una Napoli ignota. Poesia, sì, da brivido: ma assolutamente alto.” (3 luglio 1990)
Nella mia lettera di risposta do le indicazioni bibliografiche, e qualche giorno dopo, ecco la sua ammirazione senza riserva:
“Della Bachmann ho letto, inviati dalla Adelphi, tutti e quattro (credo che siano quattro) i volumi di narrativa. Tutti i racconti sono di altissima qualità, le cose più alte scritte da una donna, in Europa. Non ci sono confronti con altre scrittrici, nel mondo. Come prosa, no. Nessuna donna scrive in un modo così vertiginoso, attento, limpido: e c’è un dolore quasi soprannaturale; il dolore moderno. Non c’è un suono, poi, che non sia puro. Non ci sono tracce di terra. Quando l’ho letta, ho sentito tutti i miei limiti. Ma senza umiliazione. (Di tutti i miei libri, Lei lo sa, ne considero uno solo. Un solo libro ho scritto, e il resto è così così.)” (10 agosto 1990)

“Un solo libro ho scritto” – è questa la sintesi drastica di una lunga vita, di settanta anni di incessante scrittura, il giudizio autocritico e ingiustamente duro, dopo essersi confrontata con Ingeborg Bachmann. Anna Maria Ortese è colpita particolarmente proprio da un’opera che la stessa Bachmann aveva rifiutata e mai pubblicata, il frammento di un romanzo che uscirà postumo con il titolo “Il caso Franza”. In una lettera dell’estate 1990, mentre sta lavorando incessantemente al Cardillo addolorato, la Ortese mi scrive le seguenti parole entusiaste:
“Nel Caso Franza (Adelphi), pag. 50-51, trovo la pagina più innocente, più splendida, di tutta la narrativa del dopoguerra. Quando Franza – e suo fratello – aspettano che il cielo (il mondo) si rassereni – si liberi. E poi arrivano solo delle umili Jeep – e Franza cerca di capire a chi rivolgere il suo benvenuto – la parola di Schiller – e si fa – da sola – capo del paese liberato.
Questo episodio non sopporta confronti con nessun altro della storia umana, visto da una donna – e forse da uomini – di questo secolo.
Lei può essere orgoglioso che l’Austria abbia dato una grazia e una grandezza simili. – Non ci sono confronti.” (26 agosto 1990)

* * *

INGEBORG BACHMANN: Il caso Franza, Milano, Adelphi, 1988.
ANNA MARIA ORTESE: Il cardillo addolorato, Milano, Adelphi, 1993.

54 lettere di Anna Maria Ortese a Franz Haas, scritte negli anni 1990 – 1998, sono accessibili all’Archivio di Stato a Napoli.


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Scritto martedì, 2 giugno 2009 alle 11:16 nella categoria L'OMBRA E LA PENNA (con il contributo di Antonella Cilento). Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.

116 commenti a “STRANE COPPIE n. 3: ANNA MARIA ORTESE, INGEBORG BACHMANN”

Allora… in questa nuova puntata de “Le strane coppie” Antonella Cilento mette a confronto queste due scrittrici: Anna Maria Ortese e Ingeborg Bachmann.

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 11:17 da Massimo Maugeri


Un accoppiamento “inedito”, forse… ma non peregrino… come capirete leggendo il post.

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 11:18 da Massimo Maugeri


Ringrazio sia Antonella che Franz Haas per la bellissima relazione che potrete leggere sul post…

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 11:19 da Massimo Maugeri


E proprio dalla lettura della relazione di Haas mi sono venute in mente un paio di domande che vi rivolgo nella speranza di riuscire ad avviare una discussione “collaterale” a quella connessa alla figura delle due scrittrici…

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 11:21 da Massimo Maugeri


Haas scrive che in ambedue le opere qui considerate una voce femminile esprime il dolore del mondo.
Allora vi domando:
Secondo voi le voci femminili, nella scrittura, riescono a esprimere meglio il dolore del mondo?

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 11:22 da Massimo Maugeri


Dalla lettura della suddetta relazione emerge, poi, la grande stima della Ortese nei confronti della Bachmann. Un stima immensa, che – al tempo stesso, come capirete leggendo – è indice di una grandissima umiltà.
Così vi domando…

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 11:23 da Massimo Maugeri


Che relazione c’è tra arte e umiltà?

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 11:23 da Massimo Maugeri


La grandezza di un artista può essere collegata alla sua umiltà?

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 11:23 da Massimo Maugeri


Infine… a proposito di Anna Maria Ortese e Ingeborg Bachmann…
Conoscete queste due autrici?
Le avete mai lette?
Cosa ne pensate?

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 11:24 da Massimo Maugeri


grazie per questo post. la ortese è una delle mie scrittrici preferite. lo leggerò con attenzione e interverrò in questi giorni

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 12:03 da letizia di giacomo


non conosco la bachmann. ma ora sono curiosa di leggerla

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 12:04 da letizia di giacomo


Sì, per me le voci femminili, nella scrittura , riescono a esprimere meglio il dolore del mondo.Ma non tanto per la forma e lo stile , quanto per i contenuti.

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 12:37 da Angela


@Massimo carissimo, ho letto le intense e splendide relazioni di Antonella Cilento e Franz Haas.
Scriverò un frammento di quando l’esordiente Anna Maria Ortese, si distinse per la sua prosa raffinata con l’opera ” Il mare non bagna Napoli”. E nel lontano 1953, le fu assegnato un Premio Speciale, al Viareggio – Répaci.
Ecco le sue immediate impressioni:-” L’avviso, un foglietto grigio piegato in quattro, stava nascosto dietro il calamaio.” -
” Avviso di conversazione. La S.V. è invitata a recarsi presso questo ufficio per una conversazione telefonica richiesta da Viareggio per le ore 18,30 del 21.8.” – “Se ricordo queste parole con tanta esattezza significa che il rombo con cui riempirono la mia mente fu enorme.
Da quel momento tutto fu movimento,luce, febbre, gioia. Mi ricordo la notte in treno, quel riposo nel moto, quella calma nella stanchezza:
quel rifare i conti della propria vita, adagio, quel vedere che tornano, che la bilancia è risalita.”
(da Storie del Viareggio- Mauro Pagliai Editore, di Gabriella Sobrino)
Commovente vero Massimo? Chi di noi non ha provato un simile
tremore? Spero, come mi scriveva Gabriella in una lettera, che
” il pezzullo” ti sia piaciuto. Un abbraccio festoso.
Tessy

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 12:46 da M.Teresa Santalucia Scibona


La Bachmann mi piace molto. Invito tutti ad approfondirne la conoscenza.
Ottimo post.

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 13:03 da Filippo Ranno


Lascio uno scritto della Bachmann per contribuire a farla conoscere.
***
In Biographisches, scrive:

“Ho trascorso la mia gioventù in Carinzia, nel sud, al confine, in una valle che ha due nomi: uno in tedesco e uno in sloveno. La casa in cui i miei antenati – austriaci e sloveni – hanno vissuto per molte generazioni reca tuttora un nome straniero. Così, si può parlare di due confini, non di uno; il secondo è quello linguistico, e io ero di casa sia di qua che al di là della linea di demarcazione, insieme alle storie di spiriti buoni e di spiriti cattivi di due… anzi: di tre Paesi; perché al di là delle montagne, a un’ora di strada, comincia l’Italia.
Credo che la ristrettezza di questa valle e la consapevolezza del confine onnipresente mi abbiano trasmesso la nostalgia per il mondo. [...] E il fatto che io più tardi sia stata a Parigi e a Londra, in Germania e in Italia, significa ben poco, poiché nei miei ricordi il tragitto più lungo rimane quello che dalla mia valle natìa porta a Vienna. [...] Rimane la domanda degli influssi e dei modelli, dell’ambiente letterario in cui uno si sente a casa propria. – Per diversi anni lessi di tutto; dei poeti moderni prediligevo principalmente Gide, Valéry, Eluard e Yeats, e di sicuro ho imparato parecchio da loro. In fondo, però, sono ancora soggiogata dalla dimensione fantastica e piena di miti della mia patria, che è un pezzo di Austria concretizzata solo in parte, un mondo in cui si parlano svariate lingue e tagliato da molti confini.
Scrivere poesie è per me l’impresa più ardua, in quanto si devono risolvere i problemi di forma, tematici e di lingua. Le poesie obbediscono ai ritmi del tempo, ma devono ugualmente mettere ordine, nel nostro cuore, all’insieme di cose nuove e antiche che comprendono passato, presente e futuro.”
***
(Biographisches, pag. 301 e segg. Scritto tra il maggio e il settembre 1952)

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 13:06 da Filippo Ranno


Bel post. Complimenti.

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 13:22 da Maria Citelli


Ho apprezzato in particolare il post di M.Teresa Santalucia Scibona.
Vorrei chiederle se ha dunque avuto modo di conoscere e parlare con la Ortese e se ha qualche aneddoto da riferire.

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 13:23 da Maria Citelli


grande la ortese!!!! prometto di leggere la bachmann, che non conosco.
c’è una sua bella citazione sulla lettura che ho visto da qualche parte. se la trovo, ve la scrivo.

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 13:28 da aldo centamore


preciso che la citazione a cui penso è della ortese, non della bachmann.

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 13:28 da aldo centamore


eccola, l’ho trovata.
“Scrivere è cercare la calma, e qualche volta trovarla. È tornare a casa. Lo stesso che leggere. Chi scrive e legge realmente, cioè solo per sé, rientra a casa; sta bene. Chi non scrive o non legge mai, o solo su comando – per ragioni pratiche – è sempre fuori casa, anche se ne ha molte. È un povero, e rende la vita più povera. (Anna Maria Ortese, da un’intervista del 1977, ora in “Corpo Celeste”, Adelphi, 1997)”

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 13:39 da aldo centamore


Non ho letto la Bachmann. La Ortese la adoro, non solo per la sua scrittura ma in toto per il suo modo di essere, fuori dalle congreghe e dalle mode (che pure le avrebbero fatto comodo). “Una zingara assorta in un sogno” come ebbe a definirla Vittorini. La considero una delle più grandi scrittrici in assoluto per le sue capacità di spaziare, di portare la narrazione oltre ogni confine, quasi a livello di allucinazione, che va ancora oltre la favolistica. Come tanti grandi è morta in disgrazia, sostenuta dalla legge Bacchelli. Un grazie a Calasso per averla riproposta.
@Massimuccio. Un esempio di artista umile? Guarda me.

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 14:21 da Salvo zappulla


concordo con salvo zappulla. è triste che un’artista come la ortese sia sopravvissuta grazie alla bacchelli

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 15:24 da letizia di giacomo


@Grazie Letizia. Pensa anche alla fine che ha fatto Bassani, D’arrigo, Emilio salgari e tanti altri ancora. I grandi spiriti non pensano a curare la loro immagine e le loro finanze. Devo cominciare a batter cassa al titolare del sito per le collaborazioni.

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 16:34 da Salvo zappulla


La Bachmann è anche un’ottima poetessa.
Ecco un esempio:
DIRE COSE OSCURE

Come Orfeo, io canto
la morte sulle corde della vita,
e nella bellezza della Terra,
e dei tuoi occhi che rispecchiano il cielo,
so dire solo cose oscure.

Non scordare che anche tu
quel mattino, quando il tuo giaciglio
era umido di rugiada e il garofano
ti dormiva sul cuore, vedesti d’un tratto
il fiume scuro,
che vicino ti passò.

Con la corda del silenzio
tesa sull’onda del sangue,
afferrai il tuo cuore sonante.
I tuoi riccioli si trasformarono
nel crine d’ombra della notte,
e fiocchi neri d’oscurità
ti nevicarono sul volto.

E io non ti appartengo.
Ora piangiamo entrambi.

Ma, come Orfeo, conosco
la vita sulla corda dell’amore,
e colgo il blu
del tuo occhio chiuso per sempre.

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 16:38 da Amelia Corsi


Bella, vero? Peccato che non sono stati visualizzati gli spazi di interlinea.

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 16:40 da Amelia Corsi


salvo, secondo me il titolare del sito è messo male. sempre con la stessa camicia! :)

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 16:41 da letizia di giacomo


Non è la stessa camicia, si fece rifilare da un rappresentante di passaggio una fornitura di 200 pezzi di camicie celesti. E le deve consumare.

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 16:52 da Salvo zappulla


Provo a rispondere alle domande: secondo voi le voci femminili, nella scrittura, riescono a esprimere meglio il dolore del mondo?
No. Non credo che ci sia differenza tra voce maschile e femminile nella scrittura. Non in quel senso, secondo me.

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 17:41 da Giulia


che relazione c’è tra arte e umiltà?
La grandezza di un artista può essere collegata alla sua umiltà?
Io credo che la grandezza di un uomo e di una donna dipendano anche dal grado di umiltà. Chi è grande, chi è davvero grande, sa che filtrare la propria vita con l’umiltà è un atto di crescita. Questo vale per tutti, anche per gli artisti e per l’arte. Ovviamente in un contesto in cui tutto è apparenza ed esibizionismo di umili non se ne vedono tantissimi in giro.

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 17:44 da Giulia


Non ho letto nè la Ortese, nè la Bachmann. Spero di riuscire a rimediare. Però le parole che la Ortese ha speso per la collega austriaca,lette in questa relazione di Hass, sono davvero belle e lasciano presagire che la Ortese è stata una grande donna prima ancora di essere stata una grande scrittrice.

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 17:46 da Giulia


Complimenti a Massimo per la scelta di questo argormento e ad Antonella Cilento per la sua sensibilita’.
Adoro sia la Bachmann che la Ortese. Sto moderando il forum letterario Flannery su “Il cielo e’ dei violenti” (grazie agli amici che sono gia’ intervenuti su: http://flannery.blog.kataweb.it) e il tempo a mia disposizione e’ veramente poco, ma non potevo certo mancare di fare un salto sulla fantastica Letteratitudine per dire un paio di cose.
Per rispondere a Massimo: sì, le voci femminili sanno raccontare il dolore del mondo, ma non so so se più o meglio degli autori maschi. Comunque nelle donne ci sono delle antenne ricettive molto forti, sanno raccontare il dolore del mondo perche’ sanno incarnarlo, farlo proprio con ogni fibra del proprio essere. E restituirlo purificato.
In modo particolare la Ortese e la Bachmann, due grandi donne fedeli all’invisibile…

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 18:47 da Maria Di Lorenzo


Anch’io credo, come scrive Giulia, che ‘l’umiltà , negli uomini comuni, è un atto di crescita’, chi raggiunge l’umiltà, ha raggiunto la propria infinitesimale dimensione, e la giusta ottica. Questo è ancor più vero per i ‘grandi’, compresi gli artisti.
Non credo, invece, che vi sia differenza tra voce maschile e femminile nell’esprimere il dolore di questo mondo, non, almeno, tra chi ha raggiunto così elevati gradi di sensibilità da sfiorare l’arte.
Un grazie a Giulia, che non conosco, ma di cui ho condiviso i pensieri per un attimo.
E, soprattutto, un ‘grazie ad Antonella’, per i suoi numerosi, costanti, vivacissimi, stimoli di riflessione e dibattito che sono sempre una grande ricchezza! Aggiungerò questi due testi alla lunga lista di testi consigliati da leggere.

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 19:06 da Marina


Non conosco la Bachmann, ma la poesia inserita da Amelia Corsi è davvero bella. Conosco invece la Ortese per aver letto Il cardillo addolorato e altre cose. Vorrei dire di più, ma sono a caccia di notizie strane (lo sapevate che i Beatles ora sono anche un videogioco?: http://strangenews.splinder.com/ ringrazio gli amici che interverranno per esprimere le loro opinioni).
Secondo me ci sono voci che sanno raccontare il dolore del mondo a prescindere dal sesso, non importa se maschili o femminili.
Perdona la mancanza di stile, Maugeri. Ma se lo fa la Di Lorenzo, lo faccio anche mi :)

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 19:59 da Strangenews


Il dolore non ha sesso, appartiene agli esseri viventi e in particolar modo alle persone più sensibili, quelle che assorbono con maggiore violenza gli eventi traumatici. Non tutti sono capaci di tirarlo fuori attraverso un’opera scritta o una tela da dipingere (Munch c’è riuscito in maniera superlativa) o in qualsiasi altra maniera, e sono costretti a tenerlo dentro, imploso, a macerarsi, a espandersi come una metastasi fino ad annientare.

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 20:21 da Salvo zappulla


Massimo, prima di leggere il post sulle due scrittrici scrivo due righe sull’umiltà degli artisti: mi sembra proprio una “conditio sine qua non”…
Non che i veri artisti non abbiano coscienza della loro arte, ma non la mostrano, non ne parlano. Basta guardare e ascoltare un’intervista a Ingmar Bergman, per averne un esempio; oppure un’intervista a Vanessa Redgrave: mai dalla loro bocca escono espressioni quali: ” la mia arte…. io sono un artista…”. Prova, invece, ad ascoltare le interviste a giovani attori famosi dei nostri giorni…… Parlando di se stessi dicono sempre: “noi artisti…” e l’espressione stessa ne nega la verità.

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 20:32 da roberta


Ho conosciuto Franz Haas molti anni fa attraverso comuni amici (conoscevo sua moglie fin da quando si era ragazzini) ed ebbi modo di apprezzare una persona di una grande simpatia, una profonda cultura, una gentilezza squisita. Mi fa un enorme piacere trovare qui un suo scritto e su due scrittrici immense, e poi scoprire che lui ha avuto con la Ortese una frequentazione assidua, e una fitta corrispondenza letteraria.
Il ritratto che ne viene fuori dall’articolo qui pubblicato, ma anche da questo:
http://insonnoeinveglia.splinder.com/tag/franz+haas
è quello di una persona di una grande umiltà, capace di affidarsi con cieca fiducia a un ragazzo, molto più giovane di lei, e ringraziarlo per averle fatto scoprire la Bachman e Gadda. Gustoso invece, come contraltare, l’aneddoto dell’incontro al Caffè Greco con Sartre e la Beauvoir, che la trattarono con freddezza “ferendola molto”.
Essere grandi scrittori e possedere anche una grande umiltà ed umanità (e saperla praticare) credo sia una grande qualità. Ma non poi così diffusa, se ogni volta che la incontriamo un po’ ce ne stupiamo.

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 21:37 da Carlo S.


x maria di lorenzo e strangenews
attenti che chi di autopromozione ferisce, di autopromozione perisce :)

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 21:42 da letizia di giacomo


Pongo una domanda a tutti: cosa ne pensate della solidarietà mostrata dalla Ortese a Priebke? E’ stato un atto di superficialità? O un atto di grande umanità?

Coraggio, si vincono 500 euro.

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 21:57 da Salvo zappulla


A Salvo rispondo che non lo so. Lo sapeva la Ortese, forse, e io non mi sento un giudice di alcuno, tanto più alle intenzioni.
(Ho vinto?)

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 22:15 da Carlo S.


@Salvo
Caro Salvo, prima di andar via ti scrivo: se è vero ciò che scrivi, hai fatto bene a dire della “solidarietà” a Priebke; per me questo già sancisce che non ho intenzione occupare il mio tempo a leggere di questa scrittrice. Mi fa inorridire.
Chiedo scusa per la franchezza.

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 23:04 da roberta


Ps: come può essere “un atto di umanità” la solidarietà a un nazista?
E’ un atto che è in contraddizione con il concetto stesso di “umanità”.

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 23:06 da roberta


L’umiltà passa dalla verità e la verità passa dal dolore.
Per questo lo scrittore deve essere umile. Per questo Anna Maria Ortese lo era. Perchè chi scrive cerca la verità. Su se stesso.
Ce ne fa uno struggente ritratto la scrittrice Adelia Battista che per Minimum fax propose, l’anno scorso, “Ortese segreta”.
Un’Ortese conosciuta personalmente dall’autrice (in occasione della redazione della propria tesi di laurea) e colta tra sacchi della spesa e infinite bozze da correggere. Spersa a sorseggiare una solitudine che era dimensione e abbandono. Convinta – fino in fondo – che chi scrive non può che partecipare all’infinita compassione del mondo ( per il mondo) , al destino degli ultimi, dei diversi, degli sfollati.
Chi è poi, lo scrittore, se non uno sfollato con bagagli sempre disfatti, un viaggiatore in sè e fuori di sè, un inesausto consolatore, un ossessionato amante dell’uomo.
Scrive infatti la Ortese che la letteratura è “dono di sé, ispirazione malinconica, scrittura allusiva, turbamento per tutte le tristezze terrene”.
Ma è soprattutto affinità con l’invisibile, e con il limite di dirlo, è condivisione segreta e misteriosa con un palpito stellare e alto,
soprattutto quando è scrittura come respiro, tirata su a pieni polmoni. Soprattutto quando attinge a quel varco che ostinatamente ci restituisce ciò che sta oltre le cose. E che chiamiamo anima.
Ecco. La scrittura non è che questo.
Noi, poveri noi, poveri tutti in questo assedio, in questo abbandono stanco e perplesso. Mai veramente capito, che è la nostra vita.
Non resta che l’invenzione e un refolo di struggente penetrazione, non resta che uno sguardo flebile e trasognato come quello del cardillo, o di chiunque canti per amore. Sapendo, però, che questo amore e la sua memoria sono sfuggenti e inarrivati, sono venti che sfiorano e che il mattino disperde anche sulla carta…
D’altra parte, scrive ancora Anna: “Rievocare i paesaggi del passato non si può, diremo che Dio non vuole; vi è in essi alcunché dell’Eden consentito all’uomo una volta sola”.

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 23:12 da simona lo iacono


A Roberta vorrei dire che sbaglia, e molto. Cade in un difetto che purtroppo è molto comune: non sa nè il perchè nè il percome, ma le basta un brevissimo spunto, riportato telegraficamente da altri, per esprimere un giudizio, netto e definitivo. Senza indagare il contesto, senza cercare di capire , senza che la cosa la incuriosisca (e come se tutto ciò bastasse…). Quasi che avesse lei commesso i crimini di Priebke. E per questo decide che la Ortese non la leggerà mai.
OK, non lo fare, Roberta. Ma non sai cosa ti perdi…

Postato martedì, 2 giugno 2009 alle 23:44 da Carlo S.


@Carlo
Sono andata a “documentarmi”, anche se velocemente, perché mi dispiaceva sentire che una scrittrice potesse non aver preso le distanze da un nazista ( e apposta non scrivo “ex-nazizta”, perché non lo era, un ex, fino all’ultimo). Poi ho letto un pezzetto dell’articolo+ commenti sul Corriere della Sera, in risposta alla “difesa” della Ortese. Se Massimo mi autorizza, si può mettere il link.
Intanto la scrittrice aveva già 82 anni. E questo vuol dire ( se non altro che stava pensando che quando uno è vecchio è anche innocuo. Già, poverino..).
Certo, non si può giudicare uno scrittore a partire da quella sua presa di posizione infelice. Ho letto un commento di Pietro Citati alla sua scrittura. E di Citati mi fido.
Non saprei. Magari lei, la Ortense, non se ne fa nulla della mia lettura.
Ma di questi tempi, tutto ciò che non prende le distanze da nazismo e dintorni mi sembra insopportabile.
Lei ha scritto che “Priebke era come un povero lupo ferito” o qualcosa del genere. Qualcuno le ha risposto che paragonare un lupo a Priebke non andava nemmeno tanto bene ( dico per rispetto ai lupi, ovviamente).
Bisogna leggere l’articolo della Ortense, per capire meglio il suo pensiero. Poi si vedrà.
Ciao, grazie, comunque.

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 00:03 da roberta


Cara rob,stavo giusto per scriverti che mi sembra abbastanza riduttivo giudicare e liquidare una delle più grandi scrittrici del novecento italiano come la Ortese per una polemica nata da una frase estrapolata dal contesto di una lettera che lei scrisse a 82 anni,dove a mio modesto parere,voleva dare un suo significato di giustizia,che per quanto discutibile,guardava non all’ideologia nè alle colpe storiche,ma all’uomo affermando che “civilta’ e’ ridare speranza ai perdenti “,indicando nei perdenti soprattutto coloro che hanno sbagliano.Non voglio entrare nel merito della polemica ampiamente discussa in passato da personaggi più competenti di me,ma confido nella tua sensibilità di donna e di amante della letteratura per non privarti della lettura di una apprezzatissima e complessa autrice della nostra letteratura,fra l’altro stimata e amata anche da Pasolini.Se non hai mai letto le pagine forti e visionarie della Ortese,la sua capacità descrittiva cruda del dolore e della solitudine,la ricchezza delle immagini,io ti consiglio di mettere da parte il pensiero delle polemiche ideologiche per un attimo e cominciare da “Il mare non bagna Napoli” in cui ci sono racconti molto suggestivi e interessanti.Sono sicura che dopo avrai la tua idea della scrittura della autrice e avrai arricchito la tua già grande curiosità letteraria con un elemento imprescindibile della cultura italiana.
un abbraccio

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 00:21 da francesca giulia


Carlo come vedi abbiamo pensato,per fortuna,per amore della buona letteratura di dire le medesime cose alla nostra Roberta,ne sono felice.

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 00:23 da francesca giulia


Ringrazio tutti per i nuovi commenti.
Riappaio un po’ tardi, ma – come si dice – meglio tardi che mai:-)

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 00:44 da Massimo Maugeri


Intanto ci tengo a ringraziare ancora una volta Antonella Cilento e Franz Haas per i contributi che ci hanno offerto.

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 00:45 da Massimo Maugeri


Prima che mi dimentichi…
ne approfitto per ricordare che il prossimo appuntamento de “Le strane coppie” sarà giovedì 11 giugno h 18.30 all’Institut Français de Naples, con RITRATTI DI DONNA, dove Sandra Petrignani e Donatella Trotta racconteranno Claudine di Colette e Il paese di Cuccagna di Matilde Serao.

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 00:46 da Massimo Maugeri


E anticipo che, molto presto, Antonella Cilento sarà protagonista di un ulteriore post dove discuteremo insieme a lei del suo nuovo romanzo “Isole senza mare” (Guanda).

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 00:48 da Massimo Maugeri


Mi piacerebbe replicare a tutti i vostri commenti, ma – data l’ora – ne “riprenderò” solo qualcuno.
Prima, però, vi ringrazio tutti per i vostri interventi: Letizia, Angela, Tessy, Filippo Ranno, Maria Citelli, Aldo, Salvo, Amelia, Giulia, Marina, Roberta, Carlo, Simona, Francesca Giulia.
-
Grazie anche a Maria Di Lorenzo e Strangenews, generosi di link:-)

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 00:52 da Massimo Maugeri


@ M.Teresa Santalucia Scibona
Cara Tessy, bellissimo l’aneddoto! Ma dicci qualcosa di più, se puoi.
Ti abbraccio forte.

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 00:53 da Massimo Maugeri


Filippo Ranno, grazie per la citazione della Biographisches della Bachmann.

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 00:54 da Massimo Maugeri


Allo stesso modo ringrazio Aldo e Amelia per le citazioni.

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 00:55 da Massimo Maugeri


@ Salvo e Letizia
Grazie anche a voi. Se dovessi racimolare tutti i commenti aventi per oggetto la mia camicia potrei farne un libro:-)

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 00:56 da Massimo Maugeri


@ Marina e Giulia
Grazie anche a voi. E’ la prima volta che intervenite?

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 00:57 da Massimo Maugeri


@ Carlo
Mi fa piacere che tu abbia conosciuto Franz Haas. Vediamo se riesco a portarlo qui (on line, intendo).
Poi, scrivi: “Essere grandi scrittori e possedere anche una grande umiltà ed umanità (e saperla praticare) credo sia una grande qualità. Ma non poi così diffusa, se ogni volta che la incontriamo un po’ ce ne stupiamo”.
Concordo, amico mio.

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 00:59 da Massimo Maugeri


@ Simona
Bellissimo commento, il tuo. Grazie. Lo condivido in pieno.
Anch’io avevo pensato ad Adelia Battista e al suo “Ortese segreta” (Minimum Fax). Domani la chiamo e le chiedo di intervenire (anche se – come sai – Adelia non ha molta dimestichezza con Internet).

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 01:01 da Massimo Maugeri


@ Salvo, Roberta, Carlo, Francesca Giulia
Confesso di non essere molto informato sulle dichiarazioni della Ortese sul caso Priebke, dunque non mi pronuncio.
Roberta, lascia pure il link…
In ogni caso, stiamo parlando di una grandissima scrittrice. Su questo non ci sono dubbi.

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 01:03 da Massimo Maugeri


A proposito di arte e umiltà, vorrei riproporre questa frase che la Ortese scrisse ad Haas in merito ai libri della Bachmann:
Quando l’ho letta, ho sentito tutti i miei limiti. Ma senza umiliazione. (Di tutti i miei libri, Lei lo sa, ne considero uno solo. Un solo libro ho scritto, e il resto è così così.)

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 01:05 da Massimo Maugeri


Così vi ripropongo le domande:
Che relazione c’è tra arte e umiltà?
La grandezza di un artista può essere collegata alla sua umiltà?

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 01:05 da Massimo Maugeri


E ancora…
Secondo voi le voci femminili, nella scrittura, riescono a esprimere meglio il dolore del mondo?

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 01:06 da Massimo Maugeri


Una serena notte a tutti.

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 01:11 da Massimo Maugeri


L’umiltà è un valore legato alla grandezza dell’animo umano. Un artista dal grande animo non può che essere umile e pensare alla propria arte come un dono di sé offerto agli altri. Purtroppo, molto spesso, prevale la sterile ostentazione di sé. Segno che i grandi artisti non sono poi tanti.

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 10:01 da Paolo


Forse questo link può essere utile ai fini della discussione : http://www.railibro.rai.it/articoli.asp?id=173

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 10:16 da Rai Libro - i movimenti del pensiero e del corpo di Ingeborg Bachmann - di Francesca Mattia


Alla fine del mio romanzo “Alla corte del nonno masticando liquirizia”nel ringraziare scrivo”Ringrazio i professori che ho avuto nella vita. Mi hanno fatto capire che la via della conoscenza è segnata dalla virtù dell’umiltà”.
Io non so se sono una persona umile e non credo di esserlo però posso affermare con sicurezza che scrivere è un cammino che ti fa scoprire cosa sia l’umiltà. Se non ti “rimpicciolisci” fino ad annientarti l’universo non entra in te, nè nelle creature che incontri “strada scrivendo”.Se non ti commuovi per il loro destino, se non le ami nel loro egoismo e nella loro cattiveria restano anime sconosciute, ossute che si parano davanti ti ossificano. Per me nello scrivere è come nella vita senza l’umiltà il cuore resta muto non conosce mai l’amore, vive una perenne ed inspiegabile solitudine.
La cosa più difficile è capire e definire “l’umiltà”.
Nel “fare”, nel desiderare siamo trascinati a sottometterci alla tirannia di scontri di potere, ma nel pensiero e nell’aspirazione siamo liberi da tutto ciò, liberi dalla costruzione meschina del potere di questo pianeta.Fino a quando mi indigno non sono libero e fino a quando non sono libero non sono umile perchè mi ribello e la ribellione è arroganza.
Premesso questo ritengo che non possa esserci differenza tra scrittura femminile e scrittura maschile nell’esprimere il dolore. Tuttavia personalmente mi tocca le corde del cuore più il dolore maschile che quello femminile. Il dolore dell’uomo è muto, profondo, virile sa di universilità, è senza lacrime:è il dolore. Ho davanti il nostro indimenticabile Voitila.

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 10:30 da Mela Mondi


Credo alla scrittura di alcune donne come a una forma di approfondimento istintivo e naturale della realtà. Non è l’unico modo, ma sicuramente a me è congeniale. Cerco questo nei libri. Una storia ma anche uno spaccato sociale, psicologico, esistenziale. Non amo la letteratura di intrattenimento, che per questioni numeriche, credo, è soprattutto condotta (a volte magistralmente) dagli scrittori maschi. Ma questo è generalizzare. Quanto alla modestia e all’umiltà non sempre è un dono dei grandi. Ne abbiamo avuti di presuntuosi che hanno segnato la storia della letteratura, senza nulla togliere, con il loro pessimo modo di essere persone, alla grandezza delle loro pagine. meglio sarebbe leggere e non domandarsi chi ha scritto.
questa è la scusa per madarti un saluto caro Massimo!
un abbraccio
Elisabetta

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 10:40 da elisabetta


cara mela mondi, perché dici che il dolore dell’uomo è senza lacrime? io non sono molto d’accordo. non pensi che sia un po’ un luogo comune? ci sono donne le cui lacrime sono state seccate dall’asprezza della vita, e uomini che sanno piangere senza vergognarsi. ma c’è vergogna nelle lacrime? ciao

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 10:44 da letizia di giacomo


@ Mela Mondi che dice (giustamente) che la cosa più difficile da definire è l’umiltà, vorrei proporre la definizione di Santa Teresa di Lisieux, dottore della chiesa.
Per Teresina l’umiltà è, sì “convinzione del proprio nulla”, ma anche abbandono fiducioso nelle mani del Padre. La fiducia nell’Altro prende il sopravvento su quella disistima che porta alla pusillanimità e non all’umiltà cristiana. Il vero modo di umiliarsi sta nel “sopportare con dolcezza le nostre imperfezioni”, rimanendo nella pace, perché amati da Dio.

E’ bello ricordare – in assoluta aderenza al cardillo di Anna Maria Ortese – che il simbolo con il quale Teresa descrive il suo concetto d’umiltà è “l’uccellino” che, pur consapevole della propria debolezza, ardisce confrontarsi con le “aquile”, perché ha, con loro, la medesima meta: il sole = Dio (MA 261-264).

Amare Dio con umiltà è lasciarci amare da Lui, così come siamo, con le nostre debolezze e miserie. “Quello che piace a Dio è di vedermi amare la mia piccolezza e la mia povertà, è la SPERANZA cieca che ho nella sua misericordia. Ecco il mio solo tesoro”.

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 10:58 da simona lo iacono


post bellissimo. Complimenti. LA Ortese e la Bachmann sono due grandi scrittrici

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 11:41 da Luisa


Il cardillo addolorato
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Romanzo organizzato in cinquanta capitoli divisi in sette parti, “Il cardillo addolorato” è il pannello centrale del trittico del fantastico, delle “bestie – angelo”, che include “L’iguana” e “Alonso e i visionari”. Favola metafisica d’ambientazione vagamente storica (siamo in una Napoli di fine Settecento), l’opera è animata da una pluralità di voci e di personaggi le cui vicende si svolgono in una dimensione onirica tale da fondere i momenti reali e quelli sognati. I punti di vista del racconto sono molteplici e si sovrappongono in una struttura narrativa complessa che poggia su una lingua letteraria elegante, appena connotata d’elementi dialettali.
Un gruppo di viaggiatori “di genere fantastico, viaggiatori nelle nuvole” giunge da Liegi nella città partenopea, “la città dal golfo fatato”: il principe Ingmar Neville, uomo dal carattere duro e malinconico, principale protagonista della storia; lo scultore Albert Duprè; il commerciante Alphonse Nidier. I tre stranieri sono ospiti del guantaio di Santa Lucia, don Mariano Civile, la cui famiglia ha una storia misteriosa. La figlia Elmina nasconde un segreto legato al ricordo di un uccellino morto a causa sua. Il cardillo Dodò era la passione di Floridia, sorella di Elminia che, da bambina, per farle dispetto, l’aveva lasciato morire. Per il dolore, la piccola Floridia morì ed Elminia diventò fredda e ruvida “come una pietra”. La giovane risveglia nel principe sentimenti contrastanti: egli è consapevole che la sua bellezza cela “un mistero non buono” e tenta di opporsi al matrimonio della ragazza col suo giovane amico scultore che se ne è subito invaghito. Gli sforzi di Neville saranno vani e i due giovani sposi convoleranno a nozze senza amore. Il contegno di Elminia sarà sempre più strano, come “una giovane capra” la donna non fingerà nemmeno di amare il marito. Taciturna e cupa, ossessionata dalla presenza – assenza del cardillo, entità fantastica che diventa “padrone malinconico” delle vite dei personaggi, la donna causerà anche la morte del figlio Alì Babà per “l’orrore di ombre” che infligge al piccolo. Dopo molti anni, il principe di Neville farà ritorno a Napoli dove troverà Elminia vedova, provata dalla solitudine e dall’indigenza, che si aggira tra i vicoli di Napoli “luogo di pena” insieme alla figlia Sasà e ad un piccolo deforme, muto e cieco, su cui riversa un amore insensato.
http://www.italica.rai.it/argomenti/grandi_narratori_900/ortese/cardilloaddolorato.htm

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 11:42 da Il cardillo addolorato - Italica Rai


Approfitto della riapertura, suppongo momentanea, della piccola polemica intorno alla mia lettera a “Il Giornale” (del 12 gennaio), per chiarire due punti.
Primo: il titolo della lettera, che ha dato avvio alla polemica, non e’ mio, ma del quotidiano che ha pubblicato la lettera. Io avevo scritto semplicemente: Il lupo nella neve. La pieta’ non c’entrava affatto. Del resto, mai mi sarei permessa di invocare questo sentimento in una questione che consideravo giuridica, e dove l’imputato mostrava il coraggio che si conviene (questa la dignita’ a cui accennavo) a chi ha sbagliato gravemente. La pieta’ (e la condividevo con Joyce, ma e’ conosciuto in Italia?) era dovuta semmai alla considerazione dei tempi atroci, a cui non tutti gli uomini, nemmeno oggi, sanno opporre resistenza critica e risoluzioni che si stacchino dalla media del loro paese. (Qualche tedesco, tuttavia, ha pagato con la mannaia). Il tempo scorre, e, alla fine, societa’ e intere generazioni si trovano ribaltate, esposte a situazioni nettamente invernali, amare, di separazione dal proprio mondo. Prendevo in considerazione – ecco il secondo punto – solo questo momento, in cui l’uomo civile deve, assolutamente deve, essere vicino al perdente, ridargli speranza. Se questa e’ metafisica, o morale da streghe, o comunque sentimento che non si addice alle donne, non so. Io non chiedo mai se un’azione mi sara’ utile o meno, e quanto ne ricevero’ in compenso. Si vive una volta sola. E il profitto ognuno e’ libero di cercarlo dove piu’ gli e’ naturale, in terra, in cielo, o anche in mare. Per significare: nel rischio, nella perdita, dove e’ posta tutta la impopolare dignita’ di alcuni scrittori.
["Civiltà è ridare speranza ai predenti" - Corriere della Sera - 22 gennaio 1997]

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 11:44 da Anna Maria Ortese


Cara Roberta,
la polemica del rapporto tra la Ortese e Priebke va inquadrata esattamente.
Proprio l’anziana età della Ortese fa luce sull’episodio in cui Antonio Tabucchi volle vedere un’adesione ai valori del nazismo, ma che non era che uno degli atti più alti che un intellettuale (giunto alla maturità e all’assenza di giudizio per l’uomo) possa tributare alla pietà umana in assoluta libertà, senza temere i (prevedibili) attacchi e le (ancor più prevedibili) polemiche.
Per la sola commozione di dire che il male – anche il più atroce ed estremo – può trovare redenzione. E che la solitudine è già un contrappasso.
Come tutti sappiamo la polemica che ne nacque fu forte e odiosa. Tabucchi ritenne “oltraggioso e deplorevole” l’intervento della Ortese, altri se la presero con “l’intenerita coetanea del nazista”. Ma lei non si scompose e reagì con coraggio scrivendo un pezzo significativamente intitolato “Quest’Italia che mi è straniera”: “La terra sta diventando una fossa atroce per i deboli e quell’uomo è vecchio e solo e abbiamo torto ad identificare questa idea con il vecchio nazismo. No, il nazismo è oggi un altro ed è universale e, in qualche modo, perché universale, invisibile”. È il vecchio e nuovo conformismo.

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 11:46 da renata


@Robertina.
A volte sei troppo impulsiva. Ti lasci sopraffare dai sentimenti a discapito del raziocinio. Però va bene anche così, sei genuina e autentica. Hai fatto scomodare la Ortese in persona dall’aldilà per risponderti. Mica poco! Gli uomini quando si aggregano in nome degli “ismo” diventano pericolosissimi: il fascismo, il comunismo il nazismo, il cazzismo, il berlusconismo e qualsiasi genere di estremISMO. Quando sanno di poter agire impuniti, di avere diritto di vita e di morte sugli altri, diventato lupi assetati di sangue. Ogni cosa va inquadrata nel proprio contesto storico e analizzata con serenità. Priebke in quel momento era un lupo che aveva perso il branco, un lupo sdentato, vecchio e morente. Un minimo di pietà si può concedere anche al più malvagio degli uomini in prossimità della morte.
Robertina devi 500 euro a Carlo e leggere tutti i romanzi della Ortese per farti perdonare.

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 13:09 da Salvo zappulla


Trovo molto “alte” le parole della Ortese, postate non so da chi, ma lo/la ringrazio, e necessiterebbero di profonda riflessione (basti la frase “Io non chiedo mai se un’azione mi sara’ utile o meno, e quanto ne ricevero’ in compenso. Si vive una volta sola.”
E ringrazio poi Ranata per ciò che riporta anche lei e per come conclude, con le parole della stessa Ortese (“No, il nazismo è oggi un altro ed è universale e, in qualche modo, perché universale, invisibile”) e con le sue ” È il vecchio e nuovo conformismo”, che condivido in pieno.

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 13:17 da Carlo S.


E ringrazio Salvo per i 500 Euro che mi farà avere da Roberta. Alla quale va comunque (nonostante la breve diatriba) tutta la mia simpatia (specie se mi farà avere le “palanche” che a questo punto mi deve: son genovese io). :-)

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 13:21 da Carlo S.


@Salvo: è molto bello quello che dici sugli “ISMI”.
Ti riporto uno stralcio interessante:
- La Fiera Letteraria: Che cosa intende per libertà di pensiero?
- Anna Maria Ortese: Mi sembra essere la facoltà di osservare le cose, misurarle e trarne un giudizio senza tener conto di precedenti e anche aurorevoli giudizi che possano pensare siu di esse, ma solo badando che il nostro giudizio coincida con una verità di fatto: Non nostra, non personale, e priva perciò di ogni servitù a interssi o passioni personali, o di parte.
- La Fiera Letteraria: Ritiene che tutti i pensieri debbano essere espressi senza che chi li esprime corra rischi di sorta?
- Anna Maria Ortese: Tutti i pensieri concernenti una verità o la ricerca di una verità, dovrebbero essere espressi senza rischio. Ma bisogna tener conto della effettiva maturità di un paese.
- La Fiera Letteraria: Sarebbe disposta a battersi per difendere la libertà di pensiero degli altri?
- Anna Maria Ortese: Distinguere un pensiero libero da un pensiero asservito, è molto difficile quando i pensieri si siano organizzati in parti. Riconoscerei perciò un pensiero libero dalla sua solitudine, e dall’essere ugualmente osteggiato da parti tra loro contrarie. Lo aiuterei, se possibile. Ma ritengo che il meglio sia aiutare tutti i pensieri di una comunità o una nazione, a tornare liberi. A considerare legittimi, quindi, non solo i propri giudizi, e le loro ragioni, ma pure i giudizi e le ragioni degli altri, quando anche si oppongono ai nostri.

[Anna Maria Ortese, Dibattito: Che cos'è la libertà di pensiero, La Fiera Letteraria, aprile 1973]

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 13:27 da simona lo iacono


Simona Lo Iacono? Non mi suona nuovo questo nome.

Spesso la libertà di pensiero, la giustizia, la democrazia, diventano termini privi di contenuto, di cui facciamo abuso, per infarcire i nostri discorsi di belle parole e di significati vacui. Il nostro pensiero, anche quando riteniamo di esprimerlo liberamente, in realtà è condizionato da fattori esterni, dal nostro stato d’animo del momento, dai sentimenti che ci trasmette la persona a cui è rivolto, dalla convenienza spicciola che più ci fa comodo, dai preconcetti, dai nostri limiti a capire le ragioni degli altri, dalla mancanza di coraggio. Ecco perchè è importante che determinati equilibri nelle sorti di un Paese non vengano mai a mancare, affinchè non si instauri un pensiero dominante capace di sopraffare tutti gli altri. In realtà il peggior nemico della democrazia, ancora più subdolo, non è quello che ci impedisce di esprimere il nostro pensiero, ma lo lascia cadere nel vuoto,

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 14:16 da Salvo zappulla


post bellissimo. Complimenti. La Ortese è una grande scrittrice,putroppo,non conosco la Bachmann
Eccovi un mio art.su Anna Maria Ortese

“Alonso e i visionari di Anna Maria Ortese”acura di Maria Allo
Data: Giovedì, 05 febbraio 2009 ore 16:31:51 CET

Una ciotola di acqua freschissima per la salvezza del
mondo:

«Il personaggio che seguivo era una creatura “fatata”, di pace e di gioia
fanciullesca. Per questo, Alonso è nato come una favola. […] La sua figurina di
“piccino”, di “beato”, mi si inseriva in un tempo tremendo […] Il puma
rappresenta tutta la terribile miseria del mondo»:
Romanzo conclusivo della trilogia fantastica di Anna Maria Ortese, che consolida la scelta poetica della scrittrice per la rarefazione del linguaggio e le suggestioni oniriche (“…ritengo che l’Universo non sia circolare come si tende a definirlo, ma ellittico, ed esso perde di là, da quella sua deviazione – ancora, fortunatamente, splendente – tutto il suo sangue o sostanza, tutto ciò che chiamiamo tempo”), “Alonso e i visionari” s’incentra su un piccolo puma dell’Arizona intorno al quale ruotano le vicende dei personaggi, “i visionari”, cui tocca in sorte di incontrarlo.
La vicenda si sviluppa per rivelazioni che ogni volta sembrano negare le verità precedenti, tra poliziesche e metafisiche, in merito ad un delitto accaduto, in una certa notte, in una casa vicino Prato.
Tremenda storia “di assassini, di visionari e di complici”, l’opera narra “una vera storia italiana” di cui la narratrice è testimone. I protagonisti sono tutti legati da una sorta di pazzia che è come “un buco nell’intelligenza, nell’azzurro, dal quale entrano il freddo e la cecità degli spazi stellari”. Un noto professore d’italiano ispiratore di terroristi e di altri “uomini del lutto”, i suoi figli circondati dal mistero, un professore americano segnato dalla debolezza di voler capire e compatire, seguono le tracce del puma Alonso, oggetto ora di un odio irragionevole, ora di un amore inerme, in una storia intricata, un giallo che sorge sull’incessante “sgarbo agli dei” da cui ogni altro delitto ha origine, quel peccato molto comune agli uomini che è “il più grave di tutti i peccati: il disconoscimento dello Spirito del mondo”.

ll valore dell’opera di Anna Maria Ortese, ’scrittrice di visione’, si impone oggi dopo la dimenticanza e l’intolleranza subita in vita.

Sulle difficoltà di comprendere la storia la Ortese è ben cosciente: «“è un libro,
forse, oscuro, e cercare di chiarirne tanti aspetti, è stata la mia vera fatica. Ma non
direi di esservi riuscita (non è chiarissimo)” […] “Secondo lei si capisce?” chiederà la
Ortese a Paolo Mauri a lavoro concluso. “Io stessa ho faticato per venirne a capo, per
ricucire tutti i nessi della storia” […] “Non capivo più niente. Questa è la parte
dolorosa del mio scrivere. Spesso non so che cosa sto scrivendo. Scrivo perché ne
sento l’esigenza. Il lavoro diventa un’avventura bellissima, inventare ogni giorno che
cosa fanno, che cosa diranno i miei personaggi. E quando ho finito, non capire più
nulla”» (L. Clerici, Apparizione e visione, pp. 615-616). Il concetto sulla difficoltà di
comprensione della realtà è ribadito anche lungo la narrazione: Op avvisa l’amica
Stella: «se vuole sapere qualcosa di più sull’uomo, ricordi che all’ultimo momento,
quando sembra di vedere, capire tutto, le lampade più perfette si spengono» Anna Maria Ortese, figura per scelta personale appartata e schiva delle nostre scene letterarie, rischiava di scomparire del tutto se non fosse intervenuto il generoso repêchage dell’Adelphi. La casa milanese, accogliendola nel proprio prestigioso catalogo, le ha dato così non solo maggiore visibilità, ma ha contribuito notevolmente a una ripresa di vigore creativo (due romanzi nel volger di tre anni)

ll tratto saliente della scrittura di Anna Maria Ortese è quello della visionarietà. Visione quale memoria e premonizione che, sparpagliate nell’intera opera, con intelligenza sottile e sguardo attento all’inesauribile profondità del mondo, si condensano in una sorta di invito a una sosta contemplativa circa la bellezza e l’evanescenza di tutto quanto quotidianamente irrompe nel minuscolo universo esistenziale di ognuno.
Il realismo non tiene conto che il reale è a più strati e l’intero creato, quando si è giunti ad analizzare fin l’ultimo strato, non risulta affatto reale, ma pura e profonda immaginazione.
Siamo mutevoli come nuvole, il mondo non è materia, è sogno, apparizione. La mite e umiliata Ragione è tutt’uno con l’invisibile.
L’espressività ortesiana si colloca dunque in quello spazio assolutamente libero che è la letteratura, considerando il reale non come riflesso del mondo, ma come secondo mondo o seconda realtà, un’immensa appropriazione dell’inespresso, del vivente in eterno, da parte dei morituri. Offrendo così al lettore uno spazio meraviglioso e un tempo estatico e sfuggente. Poiché è possibile entrare molto bene in contatto con ..tale inespresso finalmente rivelato, come una seconda irreale realtà, non tanto irreale, poi, se… la realtà vera… si disfa… continuamente al pari di un vapore d’acqua e la realtà irreale… domina… l’eterno. (da Il porto di Toledo)
Tale concetto, che è il perno della poetica di Ortese, si impone al lettore oltre che per la mappa dei sentimenti umani tessuta con impronta religiosamente laica, tramite un insolito vai e vieni da un registro all’altro, nonché per l’uso della lingua, anch’esso visionario, essendo imprevedibile e anche scombinatorio delle regole. Scrittura fluttuante, sontuosa e arbitraria, in funzione del trasporto di quell’universo invisibile che però costantemente incide nella fenomenologia stupefacente del vivere e del sentire. Di modo che il costante snodarsi di ragionamenti e riflessioni, sotteso dall’esaltazione del valore di ogni singola esistenza (la scrittura di Ortese è sovente un ibrido tra saggio e affabulazione) unitamente a forme svariate di ricerca stilistica, fanno sì che la risultanza sia la cifra trasognata. Anche se nel complesso se ne ricava una sorta di concretezza dell’invisibile. In quanto il talento dell’autrice, un libro dopo l’altro, disegna un territorio meditabondo che favorisce la percezione piena della complessità del sentire, improntato da veemente energia vitale.
Una prosa antirealistica condotta quindi con lucidità.
Quasi che una forza misteriosa, producendo una costante pressione su ogni aspetto del reale, lo delinei prepotentemente. Ma con la singolarità di trasformare la pena in bellezza e le lacrime in canto. Poiché la spiccata vocazione estetica di questa zingara assorta in un sogno, come l’ebbe a definire Elio Vittorini, è costantemente permeata da un respiro pubblico che in virtù dello spessore morale mai incorre in inciampi apologetici, seppure fortemente connotato da schietto anticonformismo, da carica animalista, ecologista, e dall’identificazione con la parte sociale più negletta.
Sarà perché, come per Cristina Campo, biografia e opere avanzano congiunte e sospese tra memoria e visione, trasmettendo l’incertezza e la precarietà della vita?
Sta che Ortese non dimentica mai la propria condizione di nomade e di randagia, riuscendo a stabilizzare stretto legame tra biografia e scrittura. Infatti, la sua intera opera somiglia a un lunghissimo monologo assorto che, seppure incanta, graffia, assicurando al lettore un’esperienza non comune. Anche per via di una forza immaginativa, stemperata, nei punti in cui la visionarietà raggiunge l’acme, da una sorta di distacco progressivamente ironico.
Senza meno un doppio sguardo quello di Ortese, tramite il quale la rappresentazione della realtà assume caratteri di coscienza vigorosa e l’immaginazione vasta e duttile immette in un tempo ricco di partecipazione emotiva. Per l’abile tessitura di metafore, similitudini, paragoni deformanti, prolissità dell’ossimoro quale rappresentazione della contraddittorietà della vita.
Verità-finzione, reale-fantastico, ottenuti a mezzo di visioni strepitose, ideazioni inaspettate di luoghi e di immagini allo scopo di favorire il superamento della perdita, del compianto, dell’assenza, della nostalgia. In definitiva una lettura amorosa che introduce alla meravigliosa sfera del sogno dolcemente, naturalmente, senza eccitare il sentimento dell’enigma dentro il chiaroscuro della coscienza.
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Cordialmente

Maria Allo

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 14:44 da maryline


@ Maria Civitelli e Massimo caro, per ora nelle mie scartoffie non ho trovato altro. Continuerò a cercare però.
@ Dolce Simo, col paragone di S. Teresina, chi ha più il coraggio di parlare di umiltà dello scribacchino? I tuoi inserti sono, come dicono gli scrittori laureati,… molto molto esaustivi, a parte gli scherzi, non sarebbe il caso di farti clonare per migliorare la cultura imperante di molti studenti e professori?
@ Salvo, mio caro, sarebbe l’ora che non si pensasse solo alla convenienza dello scrivere in un determinato modo o di favorire i rapporti interpersonali che ci potrebbero avantaggiare nella carriera.
Abbiamo una sola vita, una sola credibilità e se ormai per troppi di noi, l’onestà intelletuale è in completo disfacimento, per quel rimasuglio di etica che ciascuno ancora sbandiera, cerchiamo almeno di non nuocere…
con le parole di pietra. Il sermone amico mio, è rivolto in prima persona a me. Senza l’umiltà di capire che siamo delle povere cose, in balia del vento e ora come mai, anche degli eventi, qualsiasi sgradito imprevisto riuscirà ad abbatterci.
Scusami lo sfogo, conosco la tua intelligenza e sensibilità e certamente
percepirai l’oltre che preferisco tacere. Oso invece dire :- Vi voglio bene.
Tessy rientra nei ranghi

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 17:17 da M.Teresa Santalucia Scibona


Caspita! Un bel post davvero. ho appreso molte cose. Complimenti anche da parte mia.

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 17:20 da Giuseppe


Un’altra poesia della Bachmann che mi piace molto:
Tutti i giorni

La guerra non viene più dichiarata,
ma proseguita. Le assurdità
sono diventate normali. L’eroe
non si lancia nella lotta. Il debole
combatte in prima linea.
L’uniforme di oggi è la pazienza,
e la medaglia appuntata sul cuore
è una misera stella di speranza.

La conferiscono
quando non succede più niente,
quando gli spari si spengono,
quando il nemico si è dileguato
e il cielo si ricopre
dell’ombra del riarmo permanente.

La conferiscono
per la diserzione dalle bandiere,
per il mostrarsi coraggiosi con l’amico,
per il tradimento di foschi segreti
e l’inosservanza
di tutti gli ordini.

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 18:40 da Amelia Corsi


@Francesca Giulia+ Carlo+ Renata+ Salvo
Vi ringrazio per gli affettuosi consigli. Ma vi risponderò in modo più “articolato” sulla camera accanto, non appena ne avrò il tempo materiale, perché qui temo che, se prendessi altro spazio su questo argomento, mi arriverebbe il “monito” di Massimo a riprendere le tematiche principali di questo post. Che poi il “monito” dovrebbe prenderselo Salvo, ché io mica c’entro nulla..ho solo “abboccato” alla sua provocazione.
Cari saluti.

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 21:11 da roberta


@Tessy Cara, se non sapessi che sei già in cattiva salute, sarei tentato di venire a Siena per strozzarti. Mi fai pure i sermoni!!! A me, un moribondo. Il mio discorso sopra poco aveva a che fare sulla convenienza dello scrivere e sui rapporti che favoriscono le carriere. Chi mi conosce sa bene quanto sia spigoloso e quanto critico sia stato con intellettuali siciliani, anche di grosso nome, di cui non condivido l’operato. E quanto sia duro con un certo tipo di editoria poco seria. Il mio discorso era ispirato da certi manifesti politici che mi capita di leggere in questo periodo di campagna elettorare, da troppi appelli alla democrazia, alla libertà, a una società migliore. Parole che finiranno nel nulla, come sempre. Quando parlo di libertà di pensiero in qualche modo traviato, mi riferisco a tutti quegli interventi mediatici in grado di manipolare le coscienze. Il mio era un discorso squisitamente di natura politica più che culturale. Sono molto preoccupato per la situazione anomala che si sta verificando in Italia. Potrai ribattermi che c’entra poco con il post, ma ho voluto prendere spunto dalle parole della Ortese postate da Simona, (che in fondo sono di natura politica) per esternare la mia amarezza.
A proposito della Simo: meglio non clonarla se no si inflaziona. Ne abbiamo una sola e ce la teniamo ben stretta qui a Siracusa. Anzi, vi mando un bacione a tutte e due.

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 21:13 da Salvo zappulla


Pure la Roberta mi striglia!!! Non è proprio serata, stasera me ne vado in ritiro spirituale a fare ammenda dei miei peccati.

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 21:19 da Salvo zappulla


Per raggiungere la sfera dell’arte, l’umiltà è una conditio sine qua non. Andare verso l’arte, è come dovere attraversare le tenebre di una caverna dove ci sei e vorresti uscire, ma non puoi perchè l’uscita è sbarrata da un masso. Per uscire da lì “l’io” deve morire. Lì la brama dell’indomito desiderio del potere e la paura che l’accompagna devono essere soffocate e seppellite. Quando lo avrai fatto il masso si sposterà da solo ed entrerai nel mondo della saggezza e della libertà. Il cuore sarà inondato dalla tenerezza e palpiterà di gioia e solo allora comprenderai che è possibile rimodellare il roprio mondo interiore nel crogiuolo della immaginazione, dove l’intuito creativo può trovare il riflesso della bellezza che cerchi e diventa “ALONZO” dopo avere incontrato il PUMA
E’ dalla libertà dei nostri pensieri,ossia del nostro intelletto, sgravati dai dal peso dei nostri desideri personali, soggetti alla relatività storica, che puoi farti cooperatore di bellezza, contemplarla e vederla brillare.
CARA SIMONA LO JACONO, grazie per aver citato Santa Teresa di Lisieux.
Il Cristianesimo è l’unica religione che alla filosofia prometeica della ribellione ha contrapposto quella della rinuncia e dell’umiltà. Io ho voluto rendere in modo laico il nostro bellissimo e difficile messaggio cristiano per cui non ho detto che l’umiltà è l’l'unico strumento per vanificare le forze del male. Ed allora dico a LETIZIA DI GIACOMO che le lacrime maschili sono importanti e commoventi perchè le lacrime sono liberatorie par tutti.Smuovono i massi che sono nella caverna del nostro cuore.

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 22:42 da Mela Mondi


Conosco più la Bachmann della Ortese, ho letto Invocazione all’Orsa Maggiore e alcune sue poesie tempo addietro, ho molto apprezzato. A mio parere, rispondendo a una delle domande del post, la grandezza di un artista non può e non deve essere misurata con la sua umiltà: non ci vedo il nesso. Molti, oggi (non dico artisti, ma in generale), sono umili per posa, fingono di essere umili per avere elogi dagli altri: e gli altri, puntualmente, ci cascano. Se l’umiltà è una posa, non va bene; se la mancanza di umiltà fa parte di un carattere genuino, non è e non deve essere considerata una pecca.

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 22:58 da Barbara X


Vi ringrazio tutti per i numerosi commenti.
Mi pare che la discussione abbia preso una piega interessante

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 23:42 da Massimo Maugeri


Sono pervenuti parecchi contributi. Grazie davvero.

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 23:42 da Massimo Maugeri


Un saluto a Mela Mondi, Elisabetta Bucciarelli, Letizia, Simona, ecc.

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 23:43 da Massimo Maugeri


Grazie a chi ha postato l’articolo della Ortese pubblicato sul Corriere nel ‘97. Mi pare una bella testimonianza.

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 23:44 da Massimo Maugeri


Mi sento vicino alle opinioni di Renata, Carlo, Fran e Simona.
Ma penso anche che l’opinione di Roberta sia comprensibile e motivata.

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 23:46 da Massimo Maugeri


@ Maria Allo
Grazie per il corposo contributo!:-)
E grazie ad Amelia Corsi per la nuova poesia della Bachmann

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 23:47 da Massimo Maugeri


@ Barbara
Cara Barbara, hai scritto: “Molti, oggi (non dico artisti, ma in generale), sono umili per posa, fingono di essere umili per avere elogi dagli altri: e gli altri, puntualmente, ci cascano. Se l’umiltà è una posa, non va bene”.
Hai perfettamente ragione. Aggiungo, peraltro, che in tal caso sarebbe una “umiltà” vicina alla “falsità”.
-
Ci parleresti delle Invocazione all’Orsa Maggiore della Bachmann?
Di cosa tratta quest’opera?

Postato mercoledì, 3 giugno 2009 alle 23:51 da Massimo Maugeri


Buona giornata a tutti.
A breve pubblicherò un nuovo post, ma spero che la discussione qui possa continuare.

Postato giovedì, 4 giugno 2009 alle 08:54 da Massimo Maugeri


Grazie a te Massimo

Postato giovedì, 4 giugno 2009 alle 10:11 da Amelia Corsi


Quesiti e risposte molto interessanti. Due grandi scrittrici a confronto. Un commento molto bello. Quanto alla maggiore capacità di una donna che scrive di esprimere il dolore del mondo, non credo si possa affermare questo. Certo, se penso a Etty Hillesum, al suo diario, alle sue lettere, sarei tentata di dire di sì. Ma sarei ingiusta verso Leopardi, Manzoni, Primo Levi e tanti tanti altri grandissimi scrittori che hanno saputo rappresentare il dolore con una forza e una sensibilità uniche.
Ho apprezzato di più la Bachmann, ma sono entrambe grandi, ciascuna a suo modo. È solo una questione di gusti. Della Bachmann apprezzo molto le poesie. È stata forse una delle poetesse più vitali del 900. Il dibattito potrebbe continuare all’infinito anche per quanto riguarda il concetto di umiltà. Sì, l’umiltà in un uomo e ancora di più in un artista è una grandissima qualità, ma esistono, sono esistiti, anche scrittori grandi e superbi. O meglio: consapevoli della loro grandezza. Dante, per esempio… Come la mettiamo?

Postato giovedì, 4 giugno 2009 alle 10:27 da Desi


SALVO, sei il più simpatico moribondo del mondo, ma non pensi che dopo tanta carta, telefonate, suppliche e promesse da marinaio, ben poco cambierà? Tu rimarrai vegeto e vitale nella sonnolenta Trinacria a roderti il fegato. La povera tapina con la miserrima pensione statale del 1977, si arrovellerà la tarda mente su cosa ancora tagliare per arrivare col groppo in gola, al fatidico, grandioso 27!
A Siena, costano care pure le acciughe, figurati il resto.
Comunque se decidessi di venire a strozzarmi…, una corposa ribollita o salutare panzanella la troveresti comunque e non solo via! Mi rovinerei con un Dievole ( per capello? NOOOOO)- “Dievole Rinascimento” per- Bacco. Da
Tessy nella fossa come il formaggio!…..

Postato giovedì, 4 giugno 2009 alle 12:26 da M.Teresa Santalucia Scibona


Massimo, io non sono in grado di farti una recensione di Invocazione all’orsa maggiore, semmai posso dirti cosa ricordo di quelle poesie, di quel libro che, fra l’altro, nemmeno era mio. La prima cosa che ricordo è lo stile a tratti “maschile” della Bachmann, e questo vuole essere un complimento. Ricordo anche una grande tensione intellettuale che sfociava sovente nella ribellione. Nel commento precedente ho sbagliato a scrivere: non posso certo dire di “conoscere la Bachmann” a fondo. Però una cosa devo dirla: a volte mi capita di leggere qualcosa di autori e autrici che non fanno parte della “mia cerchia”, e pochissimi sono quelli di cui serbo un certo ricordo anche a distanza di anni. Ecco, Ingeborg, con quel libro, pur non facendo parte della “mia cerchia” (passatemi quest’espressione orrenda), è una che ricordo, che mi piace ricordare.

Postato giovedì, 4 giugno 2009 alle 17:52 da Barbara X


Cari blogger di LETTERATUDINE, mi fa molto piacere che sia nato un dibattito così vivace intorno a Bachmann/Ortese.
Sul caso Priebke: sono stato un po’ perplesso all’epoca e non ho mai parlato con Anna Maria Ortese di questo argomento. Oggi vedo la sua presa di posizione a favore di un criminale di guerra semplicemente come una parte della sua immensa umiltà nei confronti di tutti gli esseri viventi.
Ringrazio Antonella Cilento e Massimo Maugeri per aver postato il mio contributo. Un saluto speciale a Carlo S. che ricordo benissimo e con piacere.
Ci sarebbe una piccola cosa da correggere: nel post, in alto accanto alle foto di Bachmann/Ortese, c’è un errore: il titolo del romanzo della Ortese è “Il cardillo addolorato” (non “innamorato”, lapsus che capita anche agli ortesiani più afferrati).

Postato giovedì, 4 giugno 2009 alle 20:21 da Franz Haas


E il bello è che nessuno se ne era accorto.
:-)
Ciao Franz, e grazie per essere intervenuto. Spero di riuscire a reincontrarti presto (sto tramando in tale proposito insieme a Lena…)
Carlo

Postato giovedì, 4 giugno 2009 alle 21:34 da Carlo S.


Ciao Carlo, allora a presto, spero.
Franz

Postato giovedì, 4 giugno 2009 alle 23:43 da Franz Haas


@ Franz Haas
Caro Franz, grazie per essere intervenuto.
E grazie per la segnalazione del lapsus (che ho prontamente corretto). “Il cardillo innamorato” è una mia invenzione.:-)

Postato venerdì, 5 giugno 2009 alle 00:41 da Massimo Maugeri


@ Barbara
Cara Barbara, grazie per l’ulteriore spunto sulla Invocazione all’orsa maggiore della Bachmann.

Postato venerdì, 5 giugno 2009 alle 00:42 da Massimo Maugeri


Carissimi amici e amiche di Letteratitudine, carissimo Massimo, grazie dell’abbandonate messe di commenti! Sono felice che l’iniziativa riscuota anche on line come dal vivo tanto consenso. Strane Coppie è un progetto cui tengo moltissimo e mi rallegra scoprire che il dibattito ferve, nonostante il cattivo clima generale intorno alla cultura in Italia. Portare nuovi lettori (critici e non) verso Ortese e Bachmann mi sembra già una conquista fuor di misura e ringrazio molto Massimo di aver anticipato il nostro prossimo e ultimo (per quest’anno) incontro del ciclo (giovedì 11 giugno al Grenoble, h 18.30) con Sandra Petrignani e Donatella Trotta, che narreranno di Colette e Matilde Serao (altre due donne, altre due visioni del mondo). Ci sono stati momenti in quest’anno di incontri che saranno ricordati: l’appassionata requisitoria di Giuseppe Montesano intorno alle Affinità elettive, la summa di Mariolina Bertini su Proust, la gentile difesa “inglese” di Fogazzaro di Francesco Costa, il dibattito fra Ivan Cotroneo e Antonio Pascale su Calvino e Borges, tanto amati e idolatrati nei decenni scorsi e ora quasi dimenticati se non attaccati… Ringrazio ancora Franz Haas per averci portato un’Ortese viva nel suo ricordo e Maria Attanasio per l’appassionata recensione alla Bachmann, dove in trasparenza ho rivisto lei e la sua scrittura e mi sono rivista anch’io (sì, le donne hanno alcune peculiarità in comune, difficili da catalogare e qui lo eviterò). E poi l’occasione creatasi con Domenico Starnone e Melania Mazzucco: durante il loro incontro, dedicato a Il resto di niente di Striano e Il secolo dei lumi di Carpentier, abbiamo scoperto, grazie alla presenza emozionata e emozionante di Apollonia Striano, che questa coppia, concepita rischiosamente da me e da José Vicente Quirante, direttore del Cervantes, era reale. Striano aveva in biblioteca il libro di Carpentier (leggetelo, è edito da Sellerio) e lo amava e era stata sua fonte di ispirazione. Starnone ha anche estrapolato una frase che richiamava il “nada de nada”, il resto di niente di Lenor, presente nel romanzo di Carpentier.
Il prossimo anno è già in programmazione e spero di potervi proporre altrettanti confronti carichi di stimolo.
Delle molte cose dette nei post torno rapidissimamente sulla questione “politica” di Ortese a proposito di Priebke, solo per porvi una domanda: leggete Verga pensando che era un conservatore che si espresse contro i Fasci siciliani? Leggete Cèline pensando che era un filo-nazista? I libri contano assai più di noi che li scriviamo: scriviamo proprio perchè i libri restino e non noi. La nostra umanità e variabile, i libri dovrebbero ( aspirano ) ad essere il meglio di ciò che esperiamo nel mondo. La nostra personale Verità. Ortese e Bachmann hanno da raccontare grandi Verità. Di questi tempi ci confondiamo troppo con la realtà: la letteratura non fa politica, produce pensiero e sogni, interpreta il mondo con scopi diversissimi dalla politica. Restiamo fermi nei nostri impegni ( e certo leggiamo Primo Levi per ricordare e non smettere di indignarci, ma lo amiamo oltre misura anche perchè è riuscito a sognare dove era impossibile farlo), ma scrivendo andiamo lontano e parliamo dell’oltre.
Devo a Ortese la mia scrittura, ho scoperto Bachmann leggendo Tondelli: vite diversissime, scelte lontanissime, pure assai più simili di quanto non sembri. Tutte sono state votate totalmente alla scrittura.
Un abbraccio a tutti/e e grazie
Antonella

Postato venerdì, 5 giugno 2009 alle 10:16 da antonella cilento


Cara Anto,speravo proprio che tu intervenissi sulla questione Ortese,sapevo in cuor mio che avresti trovato le parole giuste per dire ciò che avevo tentato di esprimere anch’io,ricordo lo stage al PAN di Napoli con te e nell’ambito del convegno sulla Ortese con grandissimo piacere,devo dire che sei stata tu a farmi apprezzare più intimamente questa grande scrittrice.Un bacione e spero vengano molte altre persone alle strane coppie anche da fuori città,accorrete è una delle tante iniziative culturali portate avanti con passione e competenza da Antonella!!

Postato venerdì, 5 giugno 2009 alle 11:00 da francesca giulia


Per rispondere alle domande di Massimo, non credo che le donne siano più capaci di esprimere il dolore del mondo rispetto agli autori maschi. Dipende dalla sensibilità di chi scrive. Molti autori maschi lo hanno espresso altrettanto bene, tanti sudamericani, ma non solo. Riguardo all’umiltà, beh, temo che sia una specie di utopia. Fa parte del carattere umano ostentarla, ma sotto sotto… Comunque preferisco avere a che fare con persone umili, ma capaci. Se poi non lo sono, affari loro.
Bello l’intervento di Antonella Cilento. La vita degli scrittori, a volte, non corrisponde con i nostri ideali. Ciononostante i loro libri sono belli. In fondo, perché dovremmo sempre guardare la pagliuzza? Sarebbe anche ora di cominciare a leggere le opere.

Postato venerdì, 5 giugno 2009 alle 11:38 da Barbara Becheroni


Cara Antonella,
sono io che ringrazio (ancora una volta) te, per avermi messo a disposizione la bella realtà de “Le strane coppie”. E ti ringrazio anche per questo tuo corposo intervento.

Postato venerdì, 5 giugno 2009 alle 15:55 da Massimo Maugeri


Un saluto a Fran e alla cara Barbara Becheroni.

Postato venerdì, 5 giugno 2009 alle 15:56 da Massimo Maugeri


Ho allestito più spettacoli intorno alla scrittura della Bachmann, tra cui poesie, Il Caso Franza e molto altro. Ho scritto un testo teatrale dove in un incontro ipotetico I. Bachmann incontra E. Hillesum, era il 1992. Credo, occupandomi di femminile, che chiunque a cui sia stata negata la parola per millenni possegga maggiori strumenti (più diversità) per raccontare il dolore. Inoltre, ritengo che la scrittura delle donne abbia un andamento molto più verticale (interiorità) e meno orrizzontale (lo sguardo del di fuori) di quella degli uomini sempreché, ovviamente, vi sia prepotente interrogazione. Il dolore, dunque, si colloca e si definisce diversamente. La Bachmann, che ebbe successo in vita, non era, da quanto credo di aver capito una persona umile, ma una persona consapevole dei limiti umani. E della possibilità che ogni essere umano (lei dichiarò in un’intervista l’uomo) possa costruire danno. Bachmann era ben consapevole del suo notevole talento che fece conoscere al mondo e cercò di difendere in tutti i modi. La condizione del dolore è precoce in chi intuisce, come lei intuì, l’impossibilità a sanare un dolore a cui rimane quasi difficile dare nome. Il discorso si farebbe molto lungo, ma volendo spendere qualche parola sull’altra meravigliosa scrittrice che è la Ortese, direi che esse sono, poiché straordinariamente originali, incomparabili. Il punto di vista della Bachmann circa l’opera d’arte è che essa non deve rivelare nulla della biografia dell’autrice o dell’autore (nessun pensiero forte nasce a caso) e tale è anche nell’Ortese nella cui scrittura mi è difficile poter riconoscere un qualsiasi episodio della sua vita. O quell’episodio che derminò (come nella Bachmann) più che altri, la condizione del dolore non sanabile a cui mi sono riferita in queste righe. Anni fa chiesi a Calasso (Adelphi) incrociandolo, se la Bachmann aveva teso a stare da sola o addirittura a isolarsi. Mi rispose che se fosse stato in me sarebbe stato molto attento a dire una cosa del genere. L’andare verso, creare spostamento di sé, dà carattere alla scrittura. Le scritture di Ortese e Bachmann, secondo me, dicono modi molto diversi di stare al mondo e inoltre, nelle opere della Bachmann il dato di realtà è molto più leggibile che in quello della Ortese. Con l’anima in gioco, sempre, in ambedue. Così credo. Maria Inversi

Postato sabato, 6 giugno 2009 alle 17:31 da Maria Inversi


Ho avuto il piacere di conoscere, grazie a Luigi La Rosa, Adelia Battista, scrittrice e donna piacevolissima che ci ha incantati parlandoci della Ortese, che ha conosciuto personalmente (ho avuto modo di vedere alcune cartoline e lettere che si sono scambiate… e a proposito: leggete il libro “Ortese segreta”, scritto da Adelia per Minimum fax).
Sto leggendo “Il porto di Toledo”… scrittura visionaria, grandissima.

Postato sabato, 6 giugno 2009 alle 23:26 da Maria Lucia Riccioli


Un caro saluto ad Antonella e a Barbara Becheroni…
:-)

Postato sabato, 6 giugno 2009 alle 23:33 da Maria Lucia Riccioli


@ Maria Inversi
Bello, il tuo commento. Grazie.
(Un saluto e un ringraziamento anche a Maria Lucia).

Postato domenica, 7 giugno 2009 alle 02:48 da Massimo Maugeri


Arte e umiltà?L’agire poietico deve necessariamente essere umile, investire l’humus che costituisce l’essenza dell’UOMO.Dato che l’uomo é nato dalla terra(humus-xamài)torna nella terra e si nutre dei prodotti della terra.E da ciò l’umiltà, l’essenza che ac-comuna.
Il confronto fra le due “artiste”?Concordo con Giovenale sull’impossibilità di confrontare due artisti(Omero-Virgilio).Il mondo di ciascuno é”ALTRO”, e solo la “differenza”rivela l’”arte”, ossia la specificità del sublime.
Caro Massimo come va?Un affettuoso saluto e grazie perché ci coinvolgi nella riflessione o-culta, ci dirigi nella vera dimensione culturale.

Postato domenica, 7 giugno 2009 alle 07:36 da Lucia Arsì


dimenticavo una c…..oc-culta, dato che per me la cultura é scavo nella profondità.Interessantissimi tutti gli interventi. Lucia

Postato domenica, 7 giugno 2009 alle 07:39 da Lucia Arsì


Complimenti per l’idea e le idee conseguenti…ma un apprezzamento particolare per Franz Haas….mio grande Maestro nei miei umili studi universitari

Postato martedì, 30 giugno 2009 alle 10:36 da Silvio Pellicanò



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