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Archivio del 5 maggio 2008

lunedì, 5 maggio 2008

LETTERATURA E OBESITA’: KADDISH di Francesca Mazzucato

La letteratura, soprattutto la letteratura recente, ha affrontato più volte il problema dell’anoressia. Un po’ meno quello dell’obesità.

Eppure l’obesità è un fattore di rischio per la salute. E quando diviene eccessiva può essere causa o aggravante di malattie: tra cui disfunzioni cardiocircolatorie, diabete, problemi alle articolazioni, sindrome da apnea notturna.

Recenti studi hanno dimostrato l’esistenza di predisposizioni genetiche. Ma le cause “vere” sono più che note: alimentazione disordinata (e eccessiva) e stili di vita sbagliati.

Negli Stati Uniti il “problema” si percepisce un po’ più che da noi. Nei giorni scorsi ho appreso, per esempio, che grazie a una decisione della corte federale, per i fast food di New York sarà obbligatorio informare i propri clienti sull’apporto nutrizionale di ogni singolo piatto. Un decisione che non stupisce più di tanto, giacché l’obesità colpisce oltre il 30 per cento degli americani.

Nel 2015, secondo uno studio pubblicato in agosto dalla John Hopkins University, le persone sovrappeso saliranno al 75 per cento, mentre gli obesi rappresenteranno il 41 per cento della popolazione statunitense.

Queste le previsioni negli Stati Uniti.

E da noi?

Certo, il regno della pastasciutta e della pizza è un po’ meno “grasso” di quello delle patatine fritte e degli hot dog. Ma la sensazione è che ci stiamo uniformando anche in questo.

La letteratura recente, scrivevo in premessa, non credo abbia affrontato adeguatamente la questione dell’obesità. Lo ha fatto, invece, Francesca Mazzucato (mia collega e “dirimpettaia” di blog d’autore del Gruppo L’Espresso) con la pubblicazione del suo nuovo romanzo per i tipi della giovane casa editrice romana Azimut.

Il romanzo s’intitola Kaddish profano per il corpo perduto (Azimut, 2008, euro 12,50, pagg. 200). Un romanzo che affronta – appunto –  il tema dell’obesità (la protagonista è una scrittrice obesa), che parla di Budapest e che è in parte ispirato dal premio Nobel per la letteratura Imre Kertész.

Di seguito avrete la possibilità di leggere una nota sul libro e le prime pagine, gentilmente offerte dall’autrice e dalla casa editrice Azimut (che ringrazio).

Organizzerei questo post nel modo seguente. Chiedendovi di:

1. Interagire con Francesca Mazzucato, che parteciperà al dibattito (ponetele domande sul libro)

2. Discutere della piaga dell’obesità (cosa ne pensate? Siete d’accordo sul fatto che qui in Italia non si presta la dovuta attenzione a questo problema?)

3. Budapest (la conoscete? Ci siete mai stati? Provate a verificare se le vostre impressioni su questa città combaciano con quelle della Mazzucato e della protagonista del libro.)

4. Imre Kertész, premio Nobel per la letteratura 2002 (lo conoscete? Lo avete mai letto?)

A voi…

Massimo Maugeri


_____________

Questo romanzo parla di un corpo.
Il corpo di una donna obesa. Di una scrittrice obesa.
Ogni corpo ha una storia e ha una voce. Ma, raramente, hanno una voce i corpi obesi.
E gli scrittori grassi, poi, sono impresentabili.

Con implacabile precisione, con una scrittura potente, Francesca Mazzucato ci porta fra le pieghe di questo corpo perduto, debordante, di questa carne socialmente inaccettabile.
Ci porta fra i suoi desideri, i bisogni, le memorie, gli amanti, e un’assenza mai dimenticata.
Questo romanzo parla anche di Budapest: città sinfonica, lisergica, forse irreale, città dove la protagonista compie il suo necessario viaggio per capirsi meglio, per avvicinarsi ad antiche ferite, a tremendi e sepolti dolori.

***

Budapest è una musica tzigana, una messinscena, un fondale da teatro. Budapest è una città lisergica e cangiante, è splendore e grumi di rabbia. Budapest brilla, ipnotizza e trabocca di incontri, di visi, di storie. Soprattutto quelle. Lei è una scrittrice, una donna realizzata, benestante, occidentale, colta, che ha vissuto con furia, passione e fretta. Troppa fretta. A Budapest ci è andata per caso con un ex amante rimastole amico negli anni. È partita in un agosto troppo caldo per restare in città.A Budapest le accade qualcosa. A Budapest lei si ferma. Si ferma sul serio, capisce, si arrabbia. A Budapest fa i conti con cose che aveva lasciato in sospeso, e soprattutto col suo corpo.

È obesa. Lei è una donna obesa di mezza età. La vita le sta scorrendo come sabbia fra le dita, il tempo si accorcia. Lo capisce lì, lo dice, lo ripete, lo urla. Il suo corpo adesso pretende di essere visto, la mistificazione è finita. Il riflesso sulle vetrine la imbarazza, il riflesso è quello di un corpo spento, ingombrante, un corpo perduto, grasso, diverso, infelice.Ha 42 anni e per tanto tempo ha portato maschere e offerto la sua carne. Si è sentita protetta da quei chili, da quella pancia, da quel seno enorme che ha usato per sedurre e catturare uomini. Uno dietro l’’altro, l’’aiutavano il tempo di una brutta notte in un motel. Adesso riconosce quel disagio remoto che arriva dall’’infanzia e da ricordi sofferenti e rassegnati. Una donna, un corpo grasso e diverso, una città traboccante di nuove e vecchie seduzioni, un possibile amore che torna, o che definitivamente va via.Con un debito e un omaggio al premio Nobel Imre Kertész, questo romanzo è un kaddish (una delle più antiche preghiere ebraiche) carnale e dolente, un indecente ed eccitante viaggio fra luoghi, seduzioni, amori e antichi dolori seppelliti con violenza nel corpo, tanto da permetterne la perdita. Chissà dove, chissà come.

Francesca Mazzucato
scrittrice, giornalista free-lance e traduttrice, è editor e consulente di case editrici.
Ha scritto per il teatro e tiene corsi di scrittura creativa.
Ha pubblicato tra gli altri: Hot Line (Einaudi 1996), Relazioni scandalosamente pure (Marsilio 1998), Amore a Marsiglia (Marsilio 1999), Diario di una blogger (Marsilio 2003), Enigma veneziano (Borelli 2004), L’’Anarchiste (Aliberti 2005), Confessioni d’’un alcolista (Giraldi 2007), Magnificat Marsigliese (Creativa 2007).
Ha vinto il premio Fiuggi. Fa parte del Who’’s Who Italy 2007.
È tradotta in Francia, Germania, Grecia e Spagna.
Sulla sua opera sono state scritte alcune tesi di laurea.

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________________

Le prime pagine del romanzo

 

ORLO

Le mie labbra danzano un twist inutile e ripetitivo, bisbigliano e ritmano frasi, incastrano ritornelli, parole dette così, per riempire.

Parlare a vanvera serve da doppiaggio per i movimenti sgraziati della mia ondeggiante impalcatura. Verso me stessa vivo un’odissea di avversione.

Mattine in cui maledico la mia immagine prima ancora di lavarmi il viso. Giorni così.

Cosa resta a parte il disagio di questo corpo trascurato e straniero?

Poco. Sdraiata sul tappeto guardo le stelle adesive che formano una costellazione sul soffitto. Mi abbandono a emozioni depravate e inquiete.

Mi rimane questa esagerazione fisica che pare cemento. Vertigine di ciccia. Piramide di adipe smagliato. Vergognosa, patetica fisionomia in controluce che tutto ha perduto tranne vaghi filamenti, un brandello in più del niente.

I rumori del nulla, dentro. Che angosciano, stridono, segnano; per questo parlo da sola, avanti la tiritera. Sono un enorme involucro che contiene un cratere. Negli interni ripeto parole infantili, catechesi filastrocche rimbrotti, rime e quant’altro per celare la mia paura, il terrore di percepire la pena degli occhi che guardano il grasso debordante, che osservano i fianchi e il doppio mento, che pesano e provano schifo: ripeto, a memoria, a manovella, storpio mezze frasi, le rimo, le lancio come stelle filanti. Affogata di grasso, soffocata di inerzia e paura, non bella, non leggera. Parlo per confondere e divagare e lascio che la mia vita sia tutta testa, tutta cervello, tutta mistificazione e finzione, seppellisco il cuore, magari in giardino.

Vorrei urlare il mio disagio che sale come un calore inatteso e poi invade la casa, le cose, le mie tracce, le impronte che lascio, le azioni maldestre composte di gesti inadatti, voraci e sconvolti: urlando svuoterei di ben poco questo contenitore che si riempie adagio preparandosi a debordare, a raggiungere l’orlo. Ci sono sull’orlo? Ci sono vicino, arrampicata a cavalcioni pronta per la discesa? Non lo so.

La mia vita? Una questione gonfia e sbalorditiva. Una cosa tipo schiuma. Realtà capovolta, crepe, sfilacciature. Cerco di riparare, di aggiustare, di mimare una soddisfazione che non esiste, una felicità che non conosco. Posso farlo. I grassi devono: irritano, disturbano ma all’occorrenza mostrano buona volontà, imbottiscono, agiscono.

Tirano fuori l’energia possente del loro BMI esagerato. È nemesi e dovere. FINE

* * *

Rileggo.

Un altro racconto per mistificare e scompaginare le cose. Se fossi capace di mettermi a nudo, se fossi in grado di non nascondermi dietro la sintassi artefatta, se sapessi rendere la verità con le parole, dovrei raccontare della prima volta che li vidi. Quei dadi di carne rosea e gigante. Ero in bagno, lasciai scivolare la schiuma e mi feci avvolgere dall’accappatoio morbido e profumato: ogni cosa era coperta dal vapore, non volevo guardare ma lo feci. Sapevo che non erano come quelli delle mie amiche, come quelli intravisti sui giornali. Piccoli e uniformi puntini rosei piacevoli al tatto e allo sguardo. Capezzoli perfetti. O almeno giusti, proporzionati. Nel mio caso tutto era molle e cadente, tutto era striato e deforme e loro erano smisurate forme con escrescenze laterali. Anormali, troppo evidenti.

Non ce la faccio a scriverlo, ci provo da tanto, ho detto e non detto, e questa volta mi sono nascosta come al solito. Ripasso la scritta fine in grassetto. Allego il racconto alla mail e invio alla rivista letteraria che lo attende. Mi hanno commissionato una storia da far uscire il prossimo mese e da scrivere in tempi rapidi. Pagata pochissimo. Il solito niente che non riesce più a diventare lusinga, a farmi sentire appagata, a proiettarmi scenari futuri di riconoscimenti creativi. Tutta carta destinata a logorarsi e ingiallire. Polvere e ancora polvere.

Me ne frego.

* * *

Scrivere e tradurre sono attività ingrate e in fondo ingiuste.

Siamo tarlati e maldestri noi che lo facciamo, che l’abbiamo creduta una sfida possibile, spendibile ed esplorabile. Che continuiamo a farlo nella fatica e nell’oblio dei più, tranne quei pochi fortunati che aggrappano ribalte di prestigio e le mantengono.

Avremmo dovuto correre altrove fino a far esplodere i polmoni e ridimensionare le speranze, noi che con pervicacia scriviamo dopo anni di parole che hanno conosciuto fortune migliori, fortune mediocri e sfortune neanche troppo tragiche.

Siamo incerti e squilibrati. Lo squilibrio è evidente nel decidere comunque, al di là di ogni coraggio e ragionevolezza, di ricominciare ogni mattina oppure ogni notte, di chinarsi a riempire pagine e far stare in piedi le storie (quando non sono racconti inediti dove si utilizzano lemmi in equilibrio rapsodico per stupire i redattori più giovani di una rivista che paga poco e di scarsa diffusione).

Siamo, noi che scriviamo, va detto, malati. Lo siamo tutti in qualche forma, se la patologia non si trova sui manuali, occorrerà segnalarlo anche se una diagnosi precoce non porterebbe nessun vantaggio. Alle nostre paure improvvise, all’insicurezza e allo sbandamento siamo affezionati, attaccati, quasi incollati.

Non abbandoneremmo i sintomi, il malessere e la fatica per nessuna terapia di provata efficacia, consapevoli che curerebbe e cancellerebbe anche la manifestazione del nostro problema, la scrittura, come si fa con le pustole della varicella, con lo sfogo di una dermatite. E senza scrittura non potremmo vivere e lo sappiamo. Sappiamo che è così e basta.

Nel mio caso poi. La malattia è doppia e ambigua. Con un corpo che deborda da tutti gli schemi, tre cifre sulla bilancia, che non mutano, che non fluttuano, non oscillano, tre cifre

grosse e grasse che sanciscono una condanna emarginante.

* * *

Io sono malata a prescindere, la parola che mi definisce ha tante vocali ed è grassa anch’essa, nominandola sgocciola unto come quando si mangia un kebab. Obesa. Credere di poter essere una scrittrice obesa e continuare a farlo è stata una folle rapina a tutte le scrittrici magre capaci di scivolare leggere nel mondo patinato che circonda e seduce, che si inchina e che per qualche manciata di istanti promette e concede una notorietà da raccontare al vicinato e, più tardi, ai nipoti. Le pattinatrici scrittrici magre e adatte boicottano le scrittrici obese in appositi forum carichi di veleno dove, nascoste da nickname riconoscibili, esprimono forte il loro disgusto partendo dal corpo e sul corpo, non lesinano nomi e cognomi e sottolineano implacabili che una grassa è anche brutta e pesante e noiosa ed inutile, facendo combaciare i lembi dilatati del corpo obeso con le copertine dei libri, con le pagine scritte. Qualcuna afferma che una grassa dovrebbe occuparsi della sua sciatteria evidente e disturbante invece di fare critica letteraria e addirittura scrivere romanzi. Ma guarda che audacia, che imperdonabile errore.

Mi sconcertano. Non ho un complesso di persecuzione, non mi sento lapidata dalle parole degli altri quando già ci pensa il mio corpo a lapidarmi, ogni chilo una pietra, ogni sbirciata allo specchio una frustata che lascia la pelle segnata di rosso.

Eppure il rispetto non è un’opzione variabile anche se lo sembra, a volte. Tanto che importa, a chi frega? Il tempo dei magri e lindi, dei platinati e perfetti, dei denti impiantati, della vecchiaia sparita, delle rughe riempite di cerone, delle labbra giganti e dei ventri piatti come il marmo, dei corpi di cellophane, dei capelli estesi, delle pelli tirate e della perfezione ostentata dà ragione a loro e forse ce l’hanno, chissà.

Ho avuto momenti di visibilità esagerata alternati a momenti più calmi e il tutto ha seguito le fluttuazioni della bilancia. Mi hanno invitato a trasmissioni di prima serata, ho esibito scollature per mostrare la cosa migliore di questo corpo budinoso e massiccio, la parte voluttuosa, inattaccabile e persino invidiabile, il seno così felliniano, gigantesco e materno: ho sedotto e mi sono lasciata sedurre sentendomi viva. Ho il ricordo di stanze d’albergo dove spargevo tracce per sentirmi a casa, dell’attrito violento di corpi ansiosi di ritornare bambini baloccandosi con queste mie tette smisurate e invitanti. Durante questi amplessi rapidi e affamati pensavo ai libri che avevo tenuto in mano e mostrato alla telecamera. Oggetti, di carne o di carta, che permettevano di dimenticarmi, di sorvolare sulle mie scontentezze, sulle insicurezze, sul veloce oblio in cui finiva ogni riconoscimento, ogni soddisfazione. Avevo dieci anni di meno. Se sei abbondante, grossa e formosa, il tempo che scorre gioca a tuo sfavore con violenza inaudita, ti travolge e ti sfregia con intensità potenziata.

Adesso ho 42 anni. La tv tentenna nei miei confronti, la capacità dialettica è stata importante all’inizio ma l’obesità ha battuto la buona volontà dei miei argomenti dieci a zero: a volte mi invitano ancora a talk show stantii non certo in prima serata, spese non rimborsate, niente trucco, studi introvabili alla periferia di Milano, o in qualche quartiere di Roma affogato nel cemento. Studi da raggiungere con ascensori simili a tombe dove mi attendono prime assistenti platinate e distratte, alle quali per un tempo lunghissimo non risulta il mio cognome (e adesso che fanno, chiamano la sicurezza?) e, infine, lo trovano e con un sospiro e un dito laccato mi indicano l’angolo dove mi sistemo, seduta accanto a vecchie cantanti con la permanente color topo che adesso reclamizzano padelle e paiono davvero passarsela alla grande. Non sono obese ma grassocce e a volte il presentatore, frustrato dall’audience minore di quando televendeva doghe in legno su una qualsiasi delle tivù generaliste, tenta qualche battuta del tipo: vi piace, eh, mangiare?

Sono televisioni locali, Abbiategrasso TV, Badia Polesine TV, posti così. Probabilmente non le guarda nessuno se non qualche anziano con l’artrite e il telecomando puntato come una pistola, casalinghe stanche pronte a cambiare canale o qualche studente svogliato: penso alla fatica di questo lavoro ingrato, alla popolarità in caduta libera, non trattenibile ma così facilmente modificabile mentre un po’ cupa scendo dal treno e cerco la metropolitana. Tutto fa, ti dici quando accetti, e poi ti penti se alla battuta maldestra non puoi alzare il tuo pur voluminoso culo e lasciare il palcoscenico alla ex cantante rotonda e appagata fra le sue padelle che risponde di sì con foga, che dice di essere davvero felice del fatto di non negarsi niente, del fatto di mangiare bene e di cuocere tutto nelle sue superfonde in acciaio inox.

Ci resto e annuisco sembrando sostenuta e un po’ snob in un ambiente dove essere snob è letale, risulta patetico e assurdo, imperdonabile a livello di immagine.

Un tempo, diciamo cinque anni fa, durante le notti solitarie negli alberghi, fra una trasferta e l’altra, riuscivo a rilassarmi, a toccarmi e a provare un piacere solitario e potente accompagnandomi a fantasie reali, rammentando episodi vissuti in quelle escursioni nei salotti veri, le ospitate per presentare i libri in quel breve periodo di visibilità nazionale. Adesso ho poche cose su cui fissare le mie fantasie: invento e fatico ad arrivare all’orgasmo. Resto ferma. Assaporo l’odore di pulito delle lenzuola.

Il corpo è distante, pare volare via. Aspetto. Cos’altro puoi fare in certi casi? La vita si trasforma in una interminabile attesa. Aspetti fatti reali su cui fantasticare. Aspetti una mail

da qualcuno che ti ha cancellato dai suoi contatti. Aspetti un bonifico che tarda e che devi sollecitare. Aspetti chiamate di altro genere per rinverdire una fama che tende a sbiadire come lenzuola troppo colorate dopo tanti lavaggi. La tv nazionale però latita. Chiama scrittrici fotogeniche e snelle che inquadrate risultano adatte, più credibili, più belle e quindi comprabili. È successo questo ai miei libri? Sono diventati come me, un affare in perdita? Un mucchio di cocci poco attraenti? No, quelli si vendono a prescindere. Non tanto ma abbastanza, più di altri, meno di certi volumi massicci e ambiziosi che affollano classifiche e scaffali di ipermercati: i miei libri hanno una loro considerazione e un loro posto, fluttuante, certo, in quel gioco di pesi e misure che appartiene alla vita e ai suoi rischi. Li vedo nelle librerie, li sfioro, mi si stringe il cuore un istante immaginandoli perduti in un territorio così affollato poi non li prendo neanche in mano ed esco ma i rendiconti parlano (se la loro parola è sincera, o se lo è fino a un certo punto). Ho lettori che scindono il prodotto dall’autore. Rari e preziosi, in un tempo che invece li vuole uniti, autore e prodotto, incollati, in un tempo in cui spesso si compra l’autore mentre il prodotto rimane indietro, obliquo. Guscio vuoto di un niente abusato, etilico, strangolato.

Funzionano certe tipologie. L’autore o l’autrice quasi mai over 30 coi capelli lunghi e luminosi, una taglia XS, abbigliamento da copertina di Vanity Fair, linguaggio da Rolling Stone mischiato alle Invasioni barbariche con qualche voluta e sapiente puntata nel kitsch dei reality e dei grandi fratelli per essere subito cool. Un passato di mediattivismo o di selezionate collaborazioni con prestigiose riviste. Pochissimi racconti in quelle antologie da recensioni a grappoli, tutte positive.

Perfetti esempi di cacciatori alla ribalta. Sono tanti, autori o autrici con l’agente giusto e i giusti interessamenti di chi poi farà il film o la fiction e darà lustro al prodotto e moltissimo

lustro splendente al conto corrente non più in caduta libera (il loro, non certo il mio).

Io somiglio al mio estratto conto ridicolo e sussultorio come un rivelatore di terremoti impazzito. Io non sono comprabile, non sono plausibile, come si fa nel 2008 a essere grassi, enormi, giganteschi ammassi di adipe non solo trascurato ma anche alimentato con carboidrati dopo cena, con pane, toast e schiacciatine?

Me li infilo letteralmente in bocca aiutata dal dito e morbidamente si disfano in un istante.

Il racconto per la rivista non è perfetto. Non ho altro da fare e rileggo. Rileggo ad alta voce, mi fisso su ogni dettaglio. Non mollo la presa anche se potrei. Lasciare che le cose siano pasticciate, sciatte. Nessuno ci farebbe caso. Adesso riscrivo dicendo che devo cambiare, ho trovato un refuso causato dalla fretta.

Vado sempre di fretta, una fretta impetuosa, come se rincorressi qualcosa che non c’è, che non c’è ora e non c’è mai stato, ma io rincorro smarrendo lucidità a ogni passo, contraendo le labbra per lo sforzo, io dietro al nulla piena di patetiche speranze e aspettative, sudando e seminando una scia di qualcosa che non somiglia a sudore normale ma a un rivolo purulento.

Forse lo producono solo gli obesi ed ancora da studiare e analizzare, tanto la ricerca se ne frega.

Quanti libri sull’anoressia. Vanno per la maggiore. Ragazze anemiche e bianche, magrissime e infelici. Quell’infelicità è rappresentabile. Si trova su cartelloni e sulle passerelle di moda. Per questo si può definire infelicità modello. Giovinette che piangono all’improvviso, compatite e compatibili, piccole principesse con corpicini tutti ossa e maglie che a stento coprono i fianchi. Attillate nella mente e nel look. Perseguono un controllo totale, un preciso svuotamento, incolpano società e famiglia, narrano il loro raro piacere enfatizzando il pathos della loro scarna narrazione, indugiano sulle ossa sottili, quella

pelle talmente priva di grassi che quasi combacia, che le rende bambole di plastica intercambiabili, asessuate e inconsapevoli.

Si sono messe a scrivere tutte insieme, i loro libri hanno creato un filone privo di contrappasso, agli obesi niente. Non c’è traccia di parola data. Di narrazione diventata moda.

L’obesità è l’assedio ai codici a barre della forma perfetta.

L’obesità è circondata da un simbolico fosco e colpevole. Anzi, raccontarla, persino se ha radici ereditarie e quindi con una piccola attenuante generica, è un azzardo.

 

 

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