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Archivio del 26 febbraio 2008

martedì, 26 febbraio 2008

AVEVO VENT’ANNI: IL RUOLO DEL LIBRO IERI E OGGI

Ah… i bei vecchi tempi.

Eh, sì. Ai miei tempi andava meglio… molto meglio.

Eh… quando avevo vent’anni io…

Oggi non è più come una volta.

Frasi ricorrenti, vero? Luoghi comuni?

Forse.

Di certo c’è un evidente parallelismo tra l’erba del vicino e i bei vecchi tempi.

È così anche per i libri?

Ne parliamo con Stefano De Matteis, direttore editoriale de “L’Ancora del Mediterraneo” e “Cargo” (ricorderete senz’altro De Matteis in questa intervista rilasciata ad Andrea Di Consoli).

De Matteis considera che “fino agli anni Ottanta, il libro (…) oltre al piacere e al divertimento era lo strumento privilegiato per la comprensione del mondo.

È con gli anni Novanta che i libri perdono il contesto. Non costruiscono paesaggio, storico o culturale, non sono più riferimento né disegnano panorama. Cosa è successo?

Il pensiero è diventato così debole da non sostenere il libro?

E i libri, a loro volta, sono diventati insufficienti a capire e a spiegare il mondo?

Oppure è sempre colpa delle famigerate nuove generazioni (di volta in volta trasparenti, mammoni, bamboccioni, sessisti, drogati…)?”

De Matteis pone le domande e fornisce le sue risposte nel pezzo che segue.

Voi che ne dite?

(Massimo Maugeri) 

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AVEVO VENT’ANNI: IL RUOLO DEL LIBRO IERI E OGGI (di Stefano De Matteis) 

“Avevo vent’anni”, il titolo. Formato A4. Niente copertina e, ovviamente, niente colori e patinature. Spartanamente legato con il punto metallico. Sarà stato il settantotto (o il settantanove?). Il titolo era preso dall’incipit di Aden Arabia, lo straordinario romanzo di Paul Nizan (nella foto): “Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”.

Era una rivistina di una sessantina di pagine di bibliografie indispensabili per rendere più responsabili e consapevoli i durissimi vent’anni dei giovani. Gli artefici dell’iniziativa erano Giampiero Brega, direttore editoriale di Feltrinelli, Goffredo Fofi, dell’Universale economica e, ovviamente, Romano Montroni, il grande ideatore di librerie pedagogo stratega e diffusore di cultura. La rivista veniva data in omaggio nelle librerie Feltrinelli. Vi partecipavo come “esecutore materiale” in quanto collaboratore redazionale della casa editrice.

Leggere allora significava conoscere e conoscere voleva dire capire. E infatti si leggeva per capire. Senza lettura non si capiva il mondo. E la vita. E se non capivi non potevi cambiare né l’uno né l’altra.Altri tempi e, forse, stiamo parlando della coda di una storia, cominciata con il dopoguerra e l’alfabetizzazione. Un’epoca in cui un paese analfabeta dava a tante cose, tra cui il libro, un valore e un significato importanti, tanto materiali quanto simbolici.

Solo una decina di anni prima, la letteratura cosiddetta di consumo aveva avuto i gialli (Mondadori in questo caso) come battistrada. Che assieme alla lettura diffondevano i nuovi consumi: le due colonne della serie alternavano pubblicità di libri con offerte di “Cremfix”, “la crema per capelli che non unge”, corsi di jiu-jitsu e di ipnosi, il rimedio del dr. Knapp (“con vitamina B1”) contro il mal di denti. Potevi imbatterti in “strilli” del tipo: “Se il callifugo Ceccarelli usare non vuoi / perdi i denari e i calli restano tuoi”. Un mondo dai rimedi casalinghi era al tramonto e la reclame apriva le porte della modernità.

Ma anche nella sua prima grande diffusione di massa, il libro aveva una sua collocazione precisa nel mondo e, a sua volta, risistemava il mondo. Prendiamo la collana che ha diffuso e promulgato la lettura a livello di massa, gli Oscar. Tutti quelli della mia adolescenza, siamo nei primi anni Settanta, si aprivano con la cronologia (gli occhi della storia come dice Braudel): cominciavi così a prender confidenza con il mondo e a conoscerne l’espansione nel tempo e nello spazio.

Ma non solo. Perché nella cronologia imparavi che, tra gli eventi importanti e significativi c’era sì il Rinascimento ma anche Shakespeare, c’era la Grande guerra ma anche la Recherche.

Fino agli anni Ottanta, il libro ha avuto anche questa funzione: oltre al piacere e al divertimento era lo strumento privilegiato per la comprensione del mondo.È con gli anni Novanta che i libri perdono il contesto. Non costruiscono paesaggio, storico o culturale, non sono più riferimento né disegnano panorama. Cosa è successo? Il pensiero è diventato così debole da non sostenere il libro? E i libri, a loro volta, sono diventati insufficienti a capire e a spiegare il mondo? Oppure è sempre colpa delle famigerate nuove generazioni (di volta in volta trasparenti, mammoni, bamboccioni, sessisti, drogati…)?

No, non credo che ci siano tiempe belle ’e ’na vota e rifuggo ogni idea del passato come età dell’oro e del presente come caduta. Non foss’altro perché allora avevo vent’anni e credo di sapere cosa significa.

Ma allora, perché sprecare pagine e pagine di un libro (economico per giunta) per delle cronologie? Perché buttare carta, stampa e lavoro redazionale per delle bibliografie pensate per i giovani, e che in sovrappiù venivano regalate? Erano solo pazzie di imprenditori scellerati e direttori editoriali maniaci?

Non credo che quei manager avessero le mani bucate o fossero stupidi, furiosi distruttori di foreste. Pensavano in un altro modo. È vero, tutti quegli apparati non portavano guadagno. Immediato. Avevano una funzione pedagogica. Si faceva per seminare. Per far circolare polline. Per far nascere la curiosità, stimolare. Per creare ecologia. Per costruire un habitat dove collocare il libro.

Perché la cultura ha tempi lunghi. È come la terra, che ha bisogno di pause, concimi e lavorazioni faticose. Abituare (o disabituare, come nel nostro caso) alla lettura e al libro richiede tempo e fatica. Se sai seminare, la cultura produce i suoi frutti nel tempo, spesso anche dopo molto tempo.

Niente oggi di più distante, lontano e incomprensibile. Certo, nulla è irrecuperabile ma tutto è irreversibile. E oggi possiamo solo intervenire con degli aggiustamenti, ma non tornare indietro.È indubbio che il mondo è cambiato. Con esso la politica e l’industria culturale. Forse è proprio da qui che bisogna partire, da un’industria culturale che non ha saputo difendere la propria particolarità e differenza, mescolandosi troppo velocemente con l’industria tout court.

Non è un caso che a dirigere molte major ci siano manager provenienti dalla grande industria. (Dove, di un libro che va bene puoi sentirti dire: “è un prodotto che sta facendo buone performance”). Anche per i libri si ragiona oramai nei termini che è meglio un best seller subito, consumato da non lettori di oggi, che costruire una nuova ecologia per avere tanti lettori forti domani.

Stefano De Matteis

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Segnalazioni extrapost

- c’è un interessante articolo di Andrea Amerio sul blog di Marco Minghetti

- questo post di Luca De Biase

Pubblicato in EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI   166 commenti »

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