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Archivio del 13 aprile 2007

venerdì, 13 aprile 2007

OMAGGIO A KURT VONNEGUT

Un altro grande della letteratura mondiale lascia questa terra. Kurt Vonnegut si è spento lo scorso 10 aprile. Rimangono le sue opere, a testimonianza dello spessore di un autore che non verrà dimenticato.

In verità un grande autore non muore mai. È questo che mi piace pensare.

Kurt Vonnegut

Della dipartita di Vonnegut ne hanno parlato tutti giornali. Mi permetto di segnalarvi gli articoli comparsi sui seguenti quotidiani (cliccate sopra per leggere): Repubblica, La Stampa, Il Corriere della Sera, Il Tempo, Il Giornale.

Segue un brano estrapolato da Wikipedia. La celebre enciclopedia online è già stata aggiornata e riporta la data della scomparsa dell’autore di Mattatoio n. 5.

.

Di origini tedesche (il nonno emigrò negli USA nel 1848), nacque da Kurt Vonnegut ed Edith Lieber a Indianapolis (Indiana), città in cui sono ambientate molte delle sue storie. Dal 1941 al 1943 frequentò la facoltà di biochimica alla Cornell University di Ithaca (New York) lasciandola nel 1943 per prendere parte volontariamente all’esercito alleato (nel ruolo di fante esploratore) durante

la Seconda Guerra Mondiale.

Nel 1944 venne fatto prigioniero durante la battaglia delle Ardenne e successivamente trasferito in Germania, nella città di Dresda. Qui assistette in prima persona al terribile bombardamento alleato che nel febbraio del 1945 rase al suolo la città e causò 135000 vittime civili (V. si salvò poiché rinchiuso in una grotta ricavata sotto il mattatoio della città normalmente utilizzata per l’immagazzinamento della carne). Questo episodio traumatizzante, anni dopo, verrà ripercorso in chiave solo parzialmente fantascientifica nel suo romanzo più famoso, Mattatoio n. 5 o la crociata dei bambini.

Dopo la guerra, di ritorno negli Stati Uniti, sposò l’ex compagna universitaria Jane Marie Cox, e successivamente si trasferì a Chicago, nel ghetto nero. A Chicago riprese gli studi iscrivendosi alla facoltà di antropologia. Nel frattempo, iniziò a lavorare come cronista presso il City News Bureau of Chicago.

Dopo il rifiuto da parte del collegio docente della sua tesi (questo episodio è raccontato in un capitolo di Divina idiozia), si trasferì a Schenectady, trovando impiego come pubblicitario presso

la General Electric Company. Nel 1951 decise di abbandonare il lavoro per dedicarsi totalmente alla scrittura, trasferendosi a Cape Cod (Massachusetts) e guadagnandosi da vivere scrivendo racconti, sia di fantascienza che di altri generi (per esempio, racconti d’amore come Long Walk to Forever).

Il suo primo romanzo fu Distruggete le macchine (Player Piano), pubblicato nel 1952, un’opera fantascientifica che descrive l’anti-utopia di un’America diventata succube della tecnologia. Nel frattempo, Vonnegut trovò impiego presso una scuola per ragazzi con disturbi emozionali. Alla morte della sorella ne adottò i tre figli rimasti orfani.

Nel 1959 pubblicò un nuovo romanzo di fantascienza, Le sirene di Titano, in cui appaiono per la prima volta gli abitanti del pianeta Tralfamadore, che diverranno presenze ricorrenti delle opere successive. Le Sirene di Titano e il successivo Ghiaccio-nove (1963) sono entrambi romanzi di fantascienza, ma rispetto al romanzo d’esordio i contenuti fantascientifici hanno un ruolo minore, servendo essenzialmente come sfondo per trattare temi di altro genere. Ghiaccio-nove, in particolare, è essenzialmente un libro sulle credenze religiose, e valse a Vonnegut (nel 1971) la laurea honoris causa per il contributo al campo dell’antropologia.

Fra la metà degli anni sessanta e gli anni settanta Vonnegut pubblicò una serie di romanzi che vengono generalmente considerati il suo apice e che ebbero grandissimo successo di pubblico e di critica; il più celebre è certamente Mattatoio n. 5 (1969), opera largamente autobiografica in cui Vonnegut, forse catarticamente, affronta lo spettro del suo ricordo del terribile bombardamento di Dresda. Di questo libro venne anche realizzata una trasposizione cinematografica. Fra le altre opere di quest’epoca si possono ricordare Dio la benedica, Signor Rosewater (1965) La colazione dei campioni (1973, un altro libro in seguito trasposto sul grande schermo), e Un pezzo da galera. Con questa serie di romanzi Vonnegut abbandonò il genere fantascientifico, cui era molto legato, salvo poi tornarvi di quando in quando (per esempio con Galapagos del 1985 e Cronosisma del 1997). Il rapporto fra Vonnegut e la fantascienza è oggetto di una celebre citazione, con cui Vonnegut si rivolge agli scrittori di questo genere:

Vi amo, figli di puttana. Voi siete i soli che leggo, ormai. Voi siete i soli che parlano dei cambiamenti veramente terribili che sono in corso, voi siete i soli abbastanza pazzi per capire che la vita è un viaggio spaziale, e neppure breve: un viaggio spaziale che durerà miliardi di anni. Voi siete i soli che hanno abbastanza fegato per interessarsi veramente del futuro, per notare veramente quello che ci fanno le macchine, quello che ci fanno le guerre, quello che ci fanno le città, quello che ci fanno le idee semplici e grandi, quello che cí fanno gli equivoci tremendi, gli errori, gli incidenti e le catastrofi. Voi siete i soli abbastanza stupidi per tormentarvi al pensiero del tempo e delle distanze senza limiti, dei misteri imperituri, del fatto che stiamo decidendo proprio in questa epoca se il viaggio spaziale del prossimo miliardo di anni o giù di lì sarà il Paradiso o l’Inferno.

Nel 1971, separatosi dalla prima moglie, Vonnegut si trasferì nella città di New York. Nel 1972 divenne vicepresidente del PEN (un club newyorchese di scrittori e poeti) e prese a insegnare scrittura creativa alla università di Harvard. Nel 1979 si sposò per la seconda volta con la fotografa Jill Krementz, dalla quale si separerà nel 1991. Nel 1992 venne nominato membro della American Academy and Institute of Arts and Letters; è stato inoltre nominato "artista dello stato di New York" per l’anno 2001-2002.

Muore il 10 aprile 2007 a seguito dei traumi cerebrali conseguenti un incidente domestico avvenuto nella sua casa di New York.

L’opera di Vonnegut è caratterizzata da una prosa piuttosto semplice, diretta, che proprio nella immediatezza trova i più efficaci spunti sia sentimentali che umoristici. Vonnegut è stato spesso paragonato a Mark Twain, ed egli stesso ha più volte dichiarato la propria smisurata ammirazione per lo stile e l’opera di Twain. Anche la narrazione fantascientifica di Vonnegut non ha nulla a che vedere con il sense of wonder; alieni, invenzioni e paradossi fisici servono semplicemente da pretesto per osservare l’umanità dei personaggi da angoli inconsueti, soprattutto allo scopo di aggirare ogni pregiudizio e tornare in questo modo all’essenza delle cose, con una semplicità che è al tempo stesso la più feroce delle satire. Paradigmatico in questo senso è

la Colazione

dei Campioni, in cui la voce narrante sembra rivolgersi a un alieno o a un ascoltatore del lontano futuro, a cui occorre spiegare ogni cosa, persino cosa sia un hamburger; e per l’occasione, in onore di correttezza e semplicità, i coloni americani diventano "pirati venuti dal mare" e la piramide mozza rappresentata sui dollari, di cui neppure il Presidente conosce il significato, serve a dire ai cittadini: "nel nonsense è la nostra forza".

Il critico Daniele Brolli ha scritto: «In un paese civile Madre notte di Kurt Vonnegut dovrebbe essere diffuso nelle scuole al pari di Se questo è un uomo di Primo Levi. Le osservazioni sulla vita mascherate da filosofia spicciola concentrate nei romanzi di Vonnegut sono una forma di sapienza naturale che una volta tanto nega che tutto debba risalire ad un’ancestralità sorda e bestiale [...] Solo James Thurber e Salinger possono vantare la stessa leggerezza nel parlare delle cose del mondo senza emettere giudizi» (Segrete identità, p. 222 Baldini & Castoldi, 1996).

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venerdì, 13 aprile 2007

“NUDI E CRUDI” e “ORO DI TRINACRIA” di Alfio Patti (recensioni di Elio Distefano)

Canzuneri_ppi_rusidda_copertina

Alfio Patti è uno di quelli che potrebbe essere definito “artista poliedrico”: poeta, scrittore, musicista e aedo. C’è n’è per tutti i gusti. Vi propongo qui di seguito le recensioni di Elio Distefano alle più recenti opere di Patti: Nudi e crudi (poesie, ediz. Prova d’Autore, 2006) e Oro di Trinacria, Canzuneri ppi Rusidda (poesie, ediz. Boemi, 2006). Quest’ultimo libro sarà presentato Sabato 14 aprile 2007 alle ore 17,30 a Viagrande (CT) nella Sala conferenze del Centro Sociale e Culturale – Via della Regione, 25

La rapsodia della vita

Spunti per una lettura di “Nudi e crudi” di ALFIO PATTI (Prova d’Autore, 2006)

                        

                             La seconda raccolta di versi di Alfio Patti presenta una struttura tripartita: si parte dai ricordi della “carusanza” e, passando attraverso la “matelicheria” del presente, si approda alla “saccurafa”, ideale ago per ricucire il tessuto lacero dell’esistenza umana con il filo della memoria. L’inizio è segnato da una dichiarazione doppia, di argomento e di poetica, e questo ne fa una sorta di proemio: in “Arrivau a negghia” si disegna lo scenario che dominerà i versi con tocchi rapidi e densi, non impressionistici ma, per la loro intrinseca forza, capaci di farsi linee portanti dell’opera dal punto di vista tematico: i “carusi/scausi e nudi” sono assoluti protagonisti di una ideale giornata vissuta su quelle strade  che diventano il teatro (reso quasi sacro dalla memoria) in cui si svolge l’umana commedia dell’infanzia. La nebbia, con la sua caratteristica di elemento che impedisce di vedere, e quindi isola, allora “non c’era”, e questo dato visivo rimanda immediatamente ad una dimensione in cui si comunica senza schermi. Il nume tutelare di quel tempo così caro e dolce è “don Tanu, mastru d’ascia”, che resta sullo sfondo poiché non è una figura chiaramente connotata: questo è molto bello perché lo introduce “’nta sta favula antica” lasciando la fantasia dei lettori libera di spaziare e d’immaginarselo ora vicino di casa, ora nonno premuroso e dolce, ora infine –ed è l’immagine che in chi scrive è affiorata per prima alla memoria- come una sorta di Geppetto intento a dirozzare un pezzo di legno che diverrà poi il più discolo dei bambini, curioso , bugiardo e assetato di vita tanto da assurgere ad emblema di ogni bambino e-perché no- di questi “carusi” fra cui si adombra la figura del protagonista. In “Parola” l’accento si sposta sul mezzo con cui si dipingerà questo grande affresco : la parola, appunto. Anche qui curiosamente ritorna lo schema della prima lirica, che racchiude emblematicamente entro i confini di una giornata l’esperienza e le potenzialità della parola, capace di cantare “’u suli autu” dell’età verde con la forza delle emozioni che vi sono connesse e di divenire com’esso “forti e chiara”, e “u suli aggiuccatu” di ciò che finisce, quando essa, “rauca”, “muzzica ‘u silenziu”. E ancora, quando il silenzio ha divorato forma e confini, essa si erge con il suo potere eternatore e diventa “cuntu”, cioè racconto, canto, rapsodia che ricuce ed eterna la vita dell’uomo. Nella ricchezza delle suggestioni che evoca, questa lirica può essere paragonata all’oraziano “exegi monumentum aere perennius”, ripreso poi dal Foscolo dei “Sepolcri”.   Si evidenzia, nella chiusa di questa lirica, uno schema che  ricorrerà altre volte , specie nella prima sezione della silloge (schema che non è solo esteriore, retorico, strutturale, ma è legato ai meccanismi della memoria): quell’aura di sogno che domina il dolce, elegiaco canto dell’infanzia lontana e preziosa, viene a un tratto bruscamente spazzata via, come in un risveglio improvviso, dal ritorno al presente, che irrompe con la sua urgenza. Il senso del cambiamento viene trasmesso ai lettori con una  gravitas che solo noi siciliani, pur nella nostra solarità (anzi, direi proprio in virtù di quella!) sappiamo avere, senza sentimentalismi e compiacimenti di sorta, ma con la  solennità di un sipario che cala improvviso sugli uomini e sulle loro vicende (anche qui, a proposito di chiuse e ideali “sipari”, gli echi classici si sprecano: dal virgiliano “maioresque cadunt altis de montibus umbrae”(Verg., Ecl. I, 83) al foscoliano “finchè splenda il sol su le sciagure umane” (Sepolcri, 295).   

         Esempi ne sono “ ‘u scuru” che “m’abbrazzò” dopo che la parola divenne racconto, il “poi/ m’arrusbigghiai, all’antrasatta” nella lirica “Santu e riccu” (bellissimo e antico, qui, il gesto benedicente della nonna, segno di autentica fede e di amore profondo, interpretato dal piccolo nipote come una mera captatio benevolentiae), che segna lo stacco fra il racconto dell’infanzia beata e la doccia fredda della notizia della morte, e la chiusa stessa della lirica, in cui, a completare il gioco oppositivo passato-presente in termini di passato=gioia(illusione)/presente=dolore (disillusione), si pone in campo l’infanzia del figlio del protagonista-autore, protetto dal padre che non lo sveglia e “tira dritto” per recarsi al funerale. Sulla medesima linea si collocano l’immagine del cortile antico dove il protagonista è cresciuto, che “non smamma cchiu’ carusi”, e ancora l’inizio e la fine dell’ultima lirica di “carusanza”, contrassegnati da due versi-sipario: all’inizio “t’affacciasti/e ppi mia agghiurnau” e alla fine “non mi vidisti arrivari/e ppi tia scurau”, dove l’improvviso cambio di scena è dovuto all’azione dell’amore che sconvolge tutto , e fa “agghiurnari” quando arriva e “scurari” quando tarda: è l’antico potere dell’amore (l’Amor omnia vincit di ovidiana memoria). Il soprassalto è presente pure in “Stasira”, espresso con un bel termine siciliano, “arrisatari”, cioè “sobbalzare”: qui si tratta di un sentimento profondo, oscuro, non ben definito, che si presenta al cuore del protagonista e lo spinge ad entrare in una chiesa, da adulto (e quindi disilluso) per impostare una preghiera con Dio, sicuramente da Lui stesso sollecitato a questo dialogo, che però si ferma laddove il protagonista riconosce che , pur stando vicino a Dio, non è facile non fare il male, mentre un desiderio di cambiamento, suscitato da Dio stesso ma vissuto come se fosse venuto da dentro, si fa strada nel cuore .

              Passando a “matelicheria”,  nella prima lirica , “ ’A rrunna ”, l’opposizione fra passato e presente si fa schema per approcciare temi che sono più vicini agli ideali del protagonista-autore: il ragazzo scalzo e nudo di una volta è diventato un giovane adulto che sogna di cambiare il mondo.

La vita associata è concepita sempre come una sorta di militanza: da bambini si stava in fila nelle situazioni in cui l’ordine era probabilmente imposto dai grandi, mentre da adulti si sta in cerchio , facendo fronte comune per piantare un seme nuovo nel mondo – un mondo da cambiare con la forza rivoluzionaria dei sogni. Qui si adombra chiaramente la militanza politica giovanile dell’autore e il suo mondo di ideali non ancora spenti al modo delle “fole” leopardiane, ma vivi pur in un presente non maturo per accoglierli e che aspetta ancora “tempi scammisati”. Qui è notevole il fatto che l’immagine della nudità si riferisca all’ambito politico-ideologico: essa è un vero e proprio leit-motiv che percorre la silloge, dall’immagine iniziale dei “carusi scausi e nudi” fino a qui, tracciando un percorso segnato dalla nuda essenzialità, da una crudezza che si applica tanto all’ambito della propria infanzia quanto al modo di concepire gl’ideali più elevati. Il pessimismo che accompagna la presa di coscienza della realtà non riesce a spegnere la fede nell’uomo e nella sua dignità, la sete ardente di vita adombrata nei numerosi riferimenti al desiderio di rinascere non in un’altra, ma in questa medesima dimensione.    

Il presente è vissuto come aridità e isterilimento, come un incombere della notte. Perfino lo “sciusciamaccu”, cioè lo sciocco, riesce ad essere triste, abbandonando la sua incosciente allegrezza. Le lacrime come un balsamo bagnano la pietra inaridita su cui cadono , le ossa sono rotte e il cuore “agguttatu”. Nella sezione finale “saccurafa”, si rivela l’intento del poeta di usare la parola e la memoria come strumenti privilegiati per ricostruire “i punti persi/di sta vita ca si scusi/jornu dopu jornu”. Il poeta  è artigiano-artista, che recupera e attualizza il passato fissandolo con l’ago della memoria e il filo del dialetto, pregnante e vivido come una ferita sulle carni, da cui spurga un perenne salasso d’umanità.

Notevole è l’uso del dialetto. Patti qui combatte con quella che i Latini chiamavano “patrii sermonis egestas”: anch’egli, come il romano Lucrezio, si affida ad una lingua antica, che ha sapore di latte materno e profuma della ruvida saggezza dei padri, ma si accorge che essa, ai tempi nostri e a causa dell’elaborazione letteraria cui è sottoposta, non ha parole per dire alcuni concetti che appartengono al lessico scientifico, quali “endometrio”, “ossidiana”, “selenio” ed altri, i quali vengono lasciati come sono, salvo adattarne le desinenze e il vocalismo a quelli del siciliano (l’endometrio citato sopra diventa “endometriu”, il selenio “sileniu”). Alle volte sono presenti dei sorprendenti conii di composti come “jocafocu” per dire “kamikaze”, in cui l’inventiva verbale dell’autore riesce ad esiti geniali che coniugano culture distanti e questo, insieme con l’universo d’immagini che si piega a cantare, rende la lingua di Patti aristotelicamente “straniata” e quindi estremamente letteraria.

Alfio Patti è un temperamento passionale, graffiante e profondamente malinconico, e questo emerge  anche quando piange composto, quasi in silenzio, la fine della “carusanza” con le sue ruvide innocenti gioie.

Nudi e crudi non sono solo i versi di Alfio, ma anche gli uomini che popolano il suo mondo di ricordi, con le ginocchia facilmente sbucciate su strade pietrose e assetate d’acqua che non sono meno “nude e crude” esse stesse dell’umanità cui fanno da teatro; e “nudi e crudi” sono infine i ricordi stessi, che affiorano alla mente dell’adulto con la freschezza diafana di un acquerello le cui tinte si fanno d’un tratto forti nel momento in cui, per il confronto con il presente, essi escono dalla dimensione del sogno e della visione e palesano la loro natura di brandelli d’anima, ancora grondanti di sangue, di quel sangue che si sparge ogni giorno idealmente in ingrato sacrificio al dio cattivo della fatica, che nega agli uomini il diritto a godere e li costringe a traslocare sempre da una casa all’altra. Emerge l’attaccamento sanguigno e quasi carnale ad una vita piena d’affanno, la cui unica religione sono i ricordi della “carusanza”, vissuta anch’essa su strade scomode, aspre e accidentate, ma riscattata comunque dal sogno che accompagna l’età verde. Nudo e crudo è il dialetto con la sua caratteristica di strumento comunicativo immediato, forte, pregnante, sanguigno come questi ricordi, un modo di esprimersi in cui è impresso a fuoco il marchio atavico e ancestrale dell’umano, spoglio di ogni orpello retorico eppure carico di sogno come non ci si aspetterebbe da un popolo come quello siciliano  in cui anche le donne sono forti e in grado di essere delle vere “matriarche”. Eppure questo mondo è soffuso di una dolcezza, di una sensucht che scaturisce, come sempre quando è autentica, dal dolore, di cui è raro e prezioso distillato.

Elio Distefano

ORO DI TRINACRIA

“Canzuneri ppi Rusidda” edito da Boemi Catania 2006

Giuseppe Nicolosi Scandurra al microscopio poetico di Alfio Patti

Il rapporto che si stabilisce fra il filologo e la sua edizione di un testo è sempre particolare, e ha la sua ragion d’essere nelle motivazioni che hanno spinto l’editore del testo a vestire i panni del filologo e del critico testuale.

Queste motivazioni Alfio Patti le chiarisce bene nella “premessa” che precede l’opera: l’occasione di occuparsi di Nicolosi Scandurra si genera dietro lo stimolo di un amico poeta, Salvatore Camilleri, e si radica in un contesto di studi appassionati e di sodalizi culturali, scaturendone come naturale conseguenza fra le tante, salvo poi diventare oggetto privilegiato, vagheggiato e amato di riflessione a posteriori, dopo l’incontro con la parola del poeta studiato: allora dall’occasione meramente “libresca” nasce , quasi inaspettato  forse, l’afflato lirico che immette calore e vita nel freddo lavoro tecnico. Il filologo sente una particolare consonanza fra il proprio mondo espressivo e quello dell’autore èdito:e se alla poesia, e alla poesia dialettale in particolare,  si chiede soprattutto suono ed espressione, oltre che una carica evocativa che la lingua ufficiale non può avere, ecco che la musica del dialetto siciliano del poeta ottocentesco tocca le medesime corde della sensibilità di Alfio Patti, il quale vi scopre qualcosa che da un lato sazia il suo bisogno di strappare all’atra notte dell’oblio una parola che squarcia un mondo, e dall’altro rivela di contenere qualcosa di universalizzabile, che può essere esteso a patrimonio comune. Di qui il limae labor sul dialetto, onde sfrondarlo di quella patina di eccessivo carattere locale per poterlo proporre a tutti i siciliani e perché tutti possano riconoscersi in quella lingua e dire “qui c’è qualcosa del mio mondo”. La ricerca di una koinè siciliana, come felicemente la definisce lo stesso Alfio Patti, corrisponde al bisogno di diffondere il più possibile longe lateque questa poesia. Dicevamo del brivido che accompagna il contatto con  un autore che è anche, suo malgrado, araldo e sentinella  di un mondo e di un’umanità da salvare, e di come esso aggiunga senso all’operazione meramente filologica. C’è di più: il modo di cantare l’amore di questo autore può divenire simbolo di un sentire siciliano che supera le barriere temporali  e si erge a monumentum aere perennius, modello culturale ed espressivo da esportare conferendogli quella dignità cui raramente la poesia dialettale  riesce ad assurgere. Di ciò ci informa il curatore del testo raccontando brevemente di un viaggio in Messico, in cui il “Canzuneri” è stato realmente veicolo della sicilianità nel mondo ed ha suscitato un interesse specifico per la poesia siciliana. D’altra parte, come ci ricorda la prof.ssa Verdirame nella sua chiarissima introduzione, operazioni culturali come questa rendono possibile mostrare come ancora oggi si possa dire con Dante che ciò che si compone di poetico in Italia si chiama siciliano.

Questo lavoro è come il poeta, il filologo e la loro (la nostra) terra: appassionato, ricco di intima vitalità, mosso da un’energia che si apre il varco a tutti i costi come può esserlo solo ciò che è per sua natura effusivo ed ha l’urgenza di riversarsi in tutta la sovrabbondante ricchezza, forza e varietà delle proprie nuances. Questo lavoro è anche figlio dell’esigenza , per l’uomo Alfio Patti, di riconquistare un tempo che rischia di perdersi e di salvare da certo naufragio una dimensione che, a parte la sua intrinseca validità di modello culturale da opporre a tutto ciò che vorrebbe cancellarne l’identità profonda, è  anche cara al cuore. Con formula omerica si direbbe “kecaristo qumw”, con tutte le implicazioni che questa radice car comporta, e che sono insieme di grazia, bellezza, dono, favore, gratuità e gratitudine. Non a caso l’ultima opera poetica del Patti si concludeva invocando la necessità di ricucire la vita che si scuce giorno dopo giorno. E’ un paziente lavoro di ricucitura degli strappi che non è rammendo ma restauro, capace di restituirci, in tutta la forza e la vivezza della propria espressività, il grande affresco di un mondo che ha gli splendori e la solennità di ciò che nella repubblica delle Lettere suole definirsi “classico”, ma anche la intima energia di ciò che affonda le proprie radici nella vita del popolo,in un sentire pienamente umano che conosce ben pochi filtri.  Nicolosi Scandurra è figlio di un’epoca che ha conosciuto da tempo il positivismo e i suoi fervori progressisti, con tutto quello che ciò comporta al livello della scrittura letteraria ,e cioè il risveglio del naturalismo e la sua volontà di rappresentare ambienti e personaggi in maniera più o meno oggettiva e distaccata. La particolarità di Nicolosi Scandurra è che egli è poeta illetterato, e quindi forse con lui più che con altri autori coevi si scopre una capacità di dar vita ad un mondo il cui cantore è talmente partecipe da essere quasi un pezzo di Sicilia stessa che parla, che canta. Ne scaturisce una restituzione di ambienti, persone e situazioni straordinariamente aderente al vero, radicata com’è in quella sapienza popolare che fa sempre da sfondo alle liriche, sebbene mista ad un’aura di letterarietà che non è assolutamente accademica (non poteva esserlo!) bensì spontanea, naive (nativa, originaria e autentica come acqua che scaturisce da pura fonte e non certo improvvisata!), residente nelle latebre del cuore di quest’uomo in cui la poesia si manifesta come modo peculiare di sentire prima ancora che di pensare la realtà. E’ per questo che leggere il Canzuneri significa compiere un viaggio, un viaggio in parallelo nel mondo del poeta e in quello del suo filologo, tanto lontano nella pratica della propria vita dal mondo del suo poeta quanto vicino a quel mondo nei sacrari della memoria, che conservano gelosamente scenari agresti, paesani, luogo ove riposano le intatte memorie degli avi, scenari della propria infanzia che ritornano in alcuni momenti di limpido lirismo nell’opera poetica di Alfio Patti : mi riferisco in particolare a  “Nudi e crudi” e al ricordo di quella carusanza che è presente ancora nel cuore dell’uomo adulto, un’età felice vissuta fra strade ancora polverose, in quella piana di Catania che è caleidoscopio rutilante di colori vivi, accesi, malinconici, pieni di pathos, intrisi di quella dolceamara sicilianità che è nel sangue di entrambi, del poeta e del suo editore. C’è un itinerario che si traccia davanti al lettore di questi versi, e che ha una sua intima coerenza. Si parte da un dato concreto, che resterà sempre sullo sfondo del Canzuneri: la condizione sociale del poeta-amante, sentita sin dall’inizio come inferiore a quella della sua amata. Il poeta è un umile contadino al soldo del padre di Rusidda, e sente il bisogno di riscattare in qualche modo la sua condizione, giustificandola nel canto con un sentimento impastato di siculo orgoglio ma anche venato profondamente di un carattere elegiaco che, per noi fruitori “letterati” della poesia, riecheggia  quello che ci suscitano alcune figure limpidamente, icasticamente disegnate dal Leopardi , quali quella di Saffo nell’”Ultimo canto”, in cui si riprende la tematica della natura nobile nascosta sotto un corpo vile. Il nostro poeta , in quanto innamorato, sente il bisogno di essere trovato bello dalla sua amata, e prova dolore del suo abito rattoppato e delle sue scarpe inzaccherate, e con un moto di orgoglio afferma (o meglio immagina di affermare) a testa alta davanti all’oggetto del suo amore che egli è ancora “caruso” ma si sente già uomo e inoltre di rivendicare l’incolpevolezza della propria condizione con quel fatalismo che è di marca squisitamente siciliana (“nun è difettu mai la puvirtati/zoccu tocca ad ognunu si lu pigghia”, scrive in “Pirchì”). Il poeta si pone nei confronti di Rusidda come maestro che le insegna i piccoli grandi doni del mondo agreste e bucolico, atteggiandosi in questo ad adulto. La presenza della donna è tuttuno con la natura e con l’ispirazione poetica stessa, ed essa  è l’interlocutrice silenziosa di un infinito dialogo d’amore che il poeta intreccia con tutti gli elementi naturali. Vivissimo è il ricordo del Petrarca di “Chiare,  fresche e dolci acque…” che chiede “udienza insieme” alle “dolenti sue parole estreme” a tutti gli elementi che hanno avuto la grazia di ospitare Laura, vicino nell’elegia e nel soliloquio ma lontano nel temperamento, poco incline alla malinconia e piuttosto pronto alle accensioni passionali. Il mondo bucolico stesso che è il teatro di questa storia d’amore non ha la letterarietà stilizzata dei grandi modelli classici, Teocrito e Virgilio, ma ha piuttosto il nitore pronto a macchiarsi di sangue delle vicende della “Cavalleria rusticana” cui è vicino per un certo andamento melodrammatico del canto e non certo per gli esiti della vicenda, che riesce piuttosto alle luminose plaghe di una solitudine sublimata dalla presenza della donna-musa, una donna che appare non differente nel suo essere diafana da una fata morgana.

Il mondo di Nicolosi Scandurra ha una sua organicità e una intima coerenza spiegabili dall’interno o al massimo con il ricorso al confronto con il melodramma coevo. La figura dei due innamorati mi fa subito pensare a Nemorino e Adina del donizettiano “Elisir d’amore” prima che a Francesco e Laura: la convenzione letteraria cede il passo a un animo in cui tutto è poesia, e la realtà e l’immaginazione si fondono in una simbiosi che è già greca, compresa in quel concetto di “physis” che lega indissolubilmente l’uomo alla natura per essere tutto frutto di un medesimo “Chaos”, tanto indistinto quanto ricco di concentrata energia vitale. La campagna, gli animali, il poeta e Rusidda stessa sono varie facce di uno stesso poliedro, fatto di un’energia che si può manifestare come armonia o come discrasia, ma che è vulcanica, effusiva, magmatica, ed ha bisogno di solidificarsi per poter assumere una forma definitiva. La campagna siciliana di Scandurra è un contenitore, un vaso ideale che dà forma ai sentimenti e alle passioni, quasi liquidi che per loro natura invadono tutti gli angoli e prendono la forma di ciò che li contiene. La campagna di Nicolosi Scandurra non è stilizzata come quella dei bucolici antichi, ma viva, palpitante, carnale e sanguigna e a volte rarefatta e angelica come può esserlo soltanto la terra di Sicilia. I pastori che popolano gli idilli teocritei e le ecloghe virgiliane sono in fondo dei poeti dottissimi che ingaggiano spesso gare di canto: il povero protagonista del “Canzuneri” non arriva a tali altezze, ma propone un grumo vitale che non è solo suo, ma lascia affiorare un mondo di saggezza antica che lo fa, suo malgrado, ai nostri occhi, “archeologo” di quel mondo, e con lui anche Alfio Patti.

Il fil rouge che lega tutto il canto è la Poesia, che rinasce prepotente in mille modi anche dopo che la morte ha sottratto per sempre l’amata agli occhi del poeta .La morte dunque, creata insieme con  Amore secondo antiche tradizioni mitologiche greche : e proprio l’amore e la morte formano un nucleo indissolubile, come due facce della stessa medaglia, che l’opera mette in campo prepotentemente, con tutta la carica di intenso e disperato pathos che ne deriva, e che si può generare solo quando il divino oggetto della propria passione contiene in sé l’inganno del transeunte e quindi è pronto a cadere e a tradire involontariamente. Il canto scaturisce da un’unica fonte, quella dell’ispirazione poetica che Rusidda veste di amore : anche quando l’amata non c’è più la sua assenza è parimenti generatrice di poesia, una poesia parimenti elegiaca, perché anche in vita l’oggetto del desiderio è sempre lontano. La natura, dopo la morte di Rusidda, non ha più vita, non ha armonie da poter suggerire al poeta che le canta, e tuttavia parla per lei la sua assenza, che sottrae vita al paesaggio ma aggiunge nuove sfumature al canto poetico di cui è unica Musa.

Elio Distefano

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