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domenica, 6 settembre 2009

RECENSIONI INCROCIATE n. 9: Barbara Becheroni, Cinzia Pierangelini

recensioni-incrociate.jpgNuova puntata delle “recensioni incrociate” di Letteratitudine. Gli scrittori/ospiti coinvolti sono due autrici: Barbara Becheroni e Cinzia Pierangelini.

I libri oggetto delle recensioni sono “Pandemia” di Barbara Becheroni, e ” ‘A Jatta” di Cinzia Pierangelini (rispettivamente editi da Zonza editori e da GBM)

Questa è la scheda del libro di Barbara Becheroni (“Pandemia”): Un professore di botanica cade dall’undicesimo piano di un palazzo di San Paolo del Brasile. Un vecchio sbirro rovinato dall’alcol e dai fallimenti indaga sul presunto suicidio del professore. Un giovane ricercatore non vuole accettare quello che è successo. Poi una malattia terribile, il morbo di Chagas, senza rimedio, che uccide di nascosto, lentamente, migliaia di vittime all’anno in America latina. Infine, un’industria multinazionale farmaceutica senza scrupoli e i suoi uomini pronti ad assassinare chiunque cerchi di limitarne gli introiti. E la selva amazzonica come contorno, come tessuto vivente in cui si dipingono gli eventi. Un thriller mozzafiato, capace di tenerci avvinghiati alle sue pagine… Riusciranno i “buoni” ad impedire un disastro di proporzioni mondiali?

E questa è la scheda del libro di Cinzia Pierangelini (‘A Jatta): Alfredo, segretario scolastico in pensione, afflitto da smemoratezza e malinconico pessimismo, single impenitente, incontra Andrea, una transessuale operata che, dopo anni di lontananza, rientra in Sicilia, sua terra natale. I due intrecciano una relazione amorosa. Attorno a loro, gli amici di lui, la sua intrattabile cameriera, il fantasma di vite trascorse, altri affetti, una gatta filosofa e un violoncellista antipatico, Giorgio, che farà di tutto per spezzare l’unione dei due amanti. Sullo sfondo una realtà sociale meschina e provinciale attraverso cui l’autrice mette in luce un universo affettivo su cui l’opinione pubblica continua a dividersi, offrendo numerosi spunti di riflessione circa l’opportunità di restituire dignità e identità sociale a chi vive fuori dalla logica eterosessista.

I due libri affrontano temi diversi, ma ugualmente interessanti. Come al solito tenterò di formulare delle domande per proporre discussioni parallele a quella che verterà sui romanzi protagonisti del post.

Il libro della Becheroni affronta la problematica delle pandemie e del business ad esse legate.
Perché alcune malattie che ancora incombono su varie parti del mondo – come lebbra, dengue, malaria, (oltre alla Chagas di cui si narra nel libro) – sono state dimenticate?
Cosa pensate dell’H1N1? Lo temete? Ritenete che condizionerà le vostre vite? Vi sottoporrete al vaccino? Vaccinerete i vostri figli?

Il libro della Pierangelini affronta i temi della solitudine, della vecchiaia, dell’identità sessuale.
La solitudine è solo fonte di problemi o, in alcuni casi, offre anche opportunità? Ritenete sia vero che la categoria più esposta alla solitudine sia quella degli anziani? Oppure? In che modo è possibile andare incontro alla vecchiaia senza sprofondare nella solitudine? I pregiudizi sulla sessualità si sono effettivamente attenuati, in questi anni?

Ne parleremo insieme alle due scrittrici ospiti. Di seguito potrete leggere le loro recensioni incrociate.

Vi chiedo di interagire con Barbara e Cinzia. Come dico sempre… che ciascuno di voi faccia il giornalista culturale e ponga domande per scoprire (insieme) cosa offrono questi due libri. Chi ha già avuto modo di leggerli è pure invitato a esprimere la propria opinione.

Massimo Maugeri
(continua…)

Pubblicato in RECENSIONI INCROCIATE   169 commenti »

sabato, 24 maggio 2008

RECENSIONI INCROCIATE n. 4: Valter Binaghi e Franz Krauspenhaar

Nuova puntata delle “recensioni incrociate”.

I due autori/recensori invitati sono Valter Binaghi e Franz Krauspenhaar.

I libri oggetto delle recensioni sono Era mio padre di Franz Krauspenhaar e Devoti a Babele di Valter Binaghi.

Due libri diversi che ci vengono qui (reciprocamente) presentati da due scrittori che si conoscono bene e si stimano.

Franz ci racconta la storia di suo padre: un tedesco nato in Italia negli anni Venti, combattente della Wehrmacht, l’armata di Hitler, durante la seconda guerra mondiale.

Valter, nel suo nuovo romanzo, ci presenta uno personaggio molto peculiare: Arvo. Chi è Arvo? Lo scopriremo insieme. 

Vi invito a dialogare con entrambi gli autori (che parteciperanno al dibattito).

Massimo Maugeri

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ERA MIO PADRE di Franz Krauspenhaar, Fazi Editore, 2008, pagg. 281, euro 16,50  di Valter Binaghi 

Franz Krauspenhaar, scrittore milanesissimo eppure di origine tedesca, al suo quarto romanzo. Ma sarà poi un romanzo, un libro interamente dedicato alla memoria del padre dell’autore (“un uomo ormai maturo che ha nel suo cuore ancora questo lutto scosceso che passa per il suo sterno, e talvolta prova ancora dolore”)? Sì che lo è. Ed è il romanzo di ogni uomo, se è vero come è stato detto che la vita spirituale è una lunga, inesausta ricerca del Padre. Non che qui si stia raccontando di uno qualunque: Krauspenhaar senior, combattente tedesco nella seconda guerra mondiale, imprenditore in Italia, ostinatamente onesto come solo certi tedeschi sanno essere, morto in circostanze drammatiche che hanno sconvolto la vita dei familiari superstiti, è in realtà soprattutto per noi un grande personaggio, le cui memorie s’intrecciano a quelle del figlio in uno di quei dialoghi tra vivi e morti che furono impossibili nella vita ma che l’immaginario della vera letteratura restituisce, all’autore e attraverso lui a tutti noi, ché abbiamo nell’Ade i nostri fantasmi senza pace. Krauspenhaar lo sa bene, sa che in questa inestinguibile smania di dipanare le nostre origini, di seguire la polla vitale che è scorsa dal genitore a noi, di riconoscerne la continuità e insieme affermare rabbiosamente la differenza, sta la cifra simbolica di ogni ricerca: “Sì, questo libro è un salvataggio estremo. Un mio bisogno che spero attiri altri bisognosi”. Qui si tratta di evocazione, niente di meno, e di una scrittura che torna ad ammettere la propria origine sciamanica: “scrivo con la matita dell’improvvisatore, ho gli occhi bendati, vago per la notte della scrittura”. E senza tanti fronzoli, prende il lettore per la collottola e lo attira a sé: “Voglio che ti prendi una vacanza dall’intrattenimento, dalle storielle sordide di morti ammazzati di carta, dallo stile ben temperato, dalle passioni inventate di sana pianta, in interni borghesi indecenti di sozzura e pulizie di primavera. …Il romanzo è diventato un genere di conforto, non d’indagine. Io qui sperimento me stesso, io sono il topo da laboratorio che corre drogato per la gabbia, io sono il topo di fiume che viene colpito dai Flobert dei ragazzacci sporchi di dura terra”.

Come si scrive un libro del genere, con questa spudorata fragilità (lo sai, Franz, c’è chi dirà che non sai più cosa inventarti, che ti spogli in pubblico: ma io dirò a questi che ci vuole grande cuore per un grande canto, la falsa modestia è solo dei mediocri), come riescono a convivere la tenerezza del figlio e la freddezza del cronista e creditore? “Papà… non credeva più di tanto nel mio talento. Credo avesse ragione, perchè allora di talento ne avevo davvero poco o punto. Quella dose di talento che detengo come un piccolo premio alla carriera l’ho acquistata dal centro di me stesso dopo la sua morte. E’ allora che ho cominciato a fare un po’ più sul serio, con la scrittura. Come se mi fossi liberato di un testimone scomodo: lui”.

Una cosa è certa: Franz Krauspenhaar ci è riuscito, regalandoci un romanzo che non può entrare in uno dei cassetti del merchandising letterario, e pertanto vi consiglio di ritenere per quello che è: un viaggio lucido e febbricitante nell’anima, a spiare lo stato nascente dell’emozione che si fa offerta di canto, della parola che evoca le fiere del dolore per renderle mansuete con la cetra di Orfeo, un’allegoria pagana dei dialoghi nell’Ade, che si apre alla cristiana rivelazione dell’amore che giunge al perdono: l’unica salvezza possibile. “Io ora cammino con te, mio perduto amore. Ti porto alle giostre ma sei troppo piccolo per salirci. Hai caldo, sudi tutto. Sei stanco. Ti prendo in braccio, bambino mio. Ti guardo negli occhi. Mi sorridi. Ti sorrido. Io oggi, papà piccolo, papà bimbo mai visto… io oggi vorrei tanto che tu fossi mio figlio”.

Valter Binaghi 

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DEVOTI A BABELE di Valter Binaghi, Perdisa Editore, 2008, pagg. 122, euro 12 

di Franz Krauspenhaar 

Chi è Arvo, il protagonista del nuovo romanzo di Valter Binaghi, Devoti a Babele, Perdisa Editore, pagg. 122 euro 12,00? Un ragazzo del ‘77, un sopravvissuto al piombo che cadeva sugli omonimi anni, che noi ragazzi nati all’inizio dei Sessanta o ancor meglio verso la fine dei Cinquanta, come il nostro autore, abbiamo assaggiato a lingua protesa, come cani masochisti affamati di quei tempi duri.

Arvo è un piccolo borghese della grande metropoli del nord, una Milano dove alle undici di sera c’è il coprifuoco e per il resto della giornata, se vai in centro, vi trovi più mezzi della celere che taxi, soprattutto nella molto armeggiata Piazza San Babila dei ragazzi nazi dalle scarpe a punta. E’ un ragazzo del suo tempo che tiene in camera i poster dei Rolling Stones e dei Police (siamo all’inizio degli Ottanta e il rock, con la morte di John Bonham dei Led Zeppelin, è per molti ufficialmente morto assieme alla sua epoca) e per il resto si tira in vena appena può la droga dei tempi, l’eroina della botta e via, la “roba” che non ti fa pensare, la droga di chi vuol rallentare le proprie pene e pure il resto fino a rallentarsi anche gli anni di vita; non certo la polvere bianca d’oggi, la cocaina divenuta per tutti i cani e tutti i porci, che ti ingloba ancor di più nel sistema dell’arrampicata mobile e liquida e ti fa accelerare la corsa verso il successo, fino al bang a testa sotto nel solito baratro, all’ultimo capitolo della tua tragicommedia d’un uomo ridicolo. Arvo lo seguiamo attraverso i suoi buchi, le sue colazioni a base di caffelatte e krumiri rubate alla povera madre vedova, lo seguiamo nei suoi accampamenti a Piazza Vetra alla ricerca della maledettissima roba in cambio di stereo “zanzati”. Nella seconda parte, il ragazzo finisce finalmente in una comunità terapeutica, Castalia. Se prima, all’inizio degli ‘80, siamo alla fine di un’epoca fotografabile tra il multicolor della psichedelia di massa e il nero buco di una Vermicino dove si consuma una morte in diretta del tutto simile a quella che troviamo in uno dei  capolavori “neri” di Billy Wilder, L’asso nella manica (1951) e si prospetta a larghe falde di spot ramazzotteschi fighettismo e berlusconismo strafottuto da bere, deglutire e -perdio- vomitare, ora siamo arrivati alla fine di questo decennio buggerone e  corto, in una succursale fantastica ma anche parecchio brianzola di quel farabuttificio globalizzato che è Dianetics. A seguire il Programma, del quale Arvo diventa sostenitore e in seguito, uscito dal megatraforo della dipendenza, istruttore. Un Programma di normalizzazione ma anche di risucchio dell’anima, cosicchè è vero che si esce dalla schiavitù della droga, ma pagando il prezzo di un abbandono totale della propria indipendenza psicologica, della propria effettiva libertà di scegliere. La terza parte, trattata intelligentemente e abilmente da Binaghi con altro passo stilistico, perchè i tempi lo richiedono per via di un’accelerazione del ritmo della comunicazione, trova Arvo, nel frattempo sposato e inquadrato nella vita piccolo borghese di quasi tutti, alle prese con una nuova, potentissima dipendenza: quella della Rete, delle ossessioni psicodrammatiche del virtuale. Una caduta, la sua, dal virtuale dell’endovena cosmica al virtuale della comunicazione illusoriamente totale, con Arvo – personaggio  simbolico di una generazione di figli dei figli della guerra che in una sorta di effetto rebound hanno sconfessato gli sforzi e il sudore e le lacrime dei loro padri – che chiede amore ed erotismo via blog a una sconosciuta che sempre tale rimarrà, ectoplasma danzante nel liquido fintamente amniotico di una blogosfera megafono di semplici, banali sospiri di desiderio. Sarà la famiglia, banalmente ma realisticamente, a raddrizzare la via del protagonista verso una grigia ma solida salvezza dall’ultima dipendenza.

Un romanzo compatto e molto ben riuscito, dalla scrittura – tipica di quest’autore – che s’imbeve di una religiosità affannata e del senso di colpa di un’intera generazione che si è fin troppo stordita con cose che meritavano certamente meno attenzione, e nessuna passione; così che i libri di Binaghi, sempre più lontani, passo dopo passo, cioè libro dopo libro, da qualsiasi “genere” codificato, diventano ben strutturati apologhi di una generazione cardine e certamente più interessante di altre, nella quale si trova successo pieno in una società opposta a quella vagheggiata in anni ben distanti, e al contempo continue ricadute nel bisogno di stordimento, nella vecchia droga, sul filo di un istinto di autodistruzione divenuto purtroppo di massa, in certo senso seminato a rattrappite mani alle nuove generazioni.

Franz Krauspenhaar 

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lunedì, 7 aprile 2008

RECENSIONI INCROCIATE. Laura et Lory, Sabrina Campolongo

Vi è mai capitato di leggere una recensione e pensare: “e se il critico è un amico dell’autore recensito”?

Vi è mai capitato di pensare: “va be’, magari si sono messi d’accordo”?

Potrebbe accadere.

Non sarebbe molto corretto, vero? Bene. Letteratitudine, va oltre.

Inauguro, oggi, una nuova rubrica che si intitolerà, per l’appunto, Recensioni incrociate. Di volta in volta chiederò a due autori di recensirsi reciprocamente. Nella maggior parte dei casi l’oggetto delle recensioni saranno i loro libri, in altri casi potrebbero essere “le loro rispettive… figure“.

Saranno credibili, queste recensioni?

Lo giudicherete voi!

Intanto, dopo quelle di Enrico Gregori e Vito Ferro, ho il piacere di presentarvi le recensioni incrociate di Sabrina Campolongo e Laura et Lory (Laura Costantini e Loredana Falcone).

Naturalmente siete tutti invitati a interagire con le “autrici/critiche”. Ponete domande sulle loro opere e sulle loro recensioni incrociate.Ovvero… tartassatele.

Massimo Maugeri

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Sabrina Campolongo, “Il cerchio imperfetto“, Edizioni Creativa, 2008, pagg. 182, euro 12
recensione di Laura et Lory

Un libro sulle donne, scritto da una donna e scelto da un’altra donna per una collana che si dichiara Declinata al Femminile. Sono caratteristiche, queste, salienti per analizzare Il cerchio imperfetto, eppure vorremmo evitare la catalogazione nella cosiddetta letteratura femminile perché il romanzo di Sabrina Campolongo è soprattutto un viaggio all’interno di un universo che ci riguarda tutti, uomini e donne. Si parla di paura di vivere, dei sensi di colpa, del sentirsi inadeguati. Di più, imperfetti.
Sabrina usa i suoi personaggi per tratteggiare la difficoltà di relazione che caratterizza il nostro mondo. Tra Marga, Francesca, Viola, Massimo, nessuno ha la capacità di gestire serenamente un rapporto con l’altro, sia esso d’amicizia o d’amore. Nessuno riesce a trovare il coraggio di accettare l’altro come un dono, perché troppo forte è la paura di doversi dare fino in fondo, fino al confine tra il donarsi e il perdersi. Eppure tutti, indistintamente, hanno un disperato bisogno di amore.
Ha bisogno d’amore Margherita, Marga per le amiche. Lei che colleziona scopate come alcune donne fanno con le scarpe, o con le borsette. E’ spinta verso il sesso da una fame compulsava, non molto diversa da quella che da ragazzina la trascinava in ginocchio, davanti al frigorifero aperto, nel cuore della notte, a ingollare tutto ciò che le capitava sotto tiro.
Marga che ha gli occhi come pozzi verde cupo quando nella sua bulimia erotica incappa in un uomo violento. Un uomo che non ha capito.
Di uomini che non hanno capito ce ne sono molti nelle pagine di Sabrina.
C’è il marito di Francesca, Carlo, che non riesce a capire il bisogno di una madre di macerarsi nel senso di colpa per un figlio imperfetto. Un figlio che l’ha abbandonata alla solitudine, come tutti coloro che sono stati importanti nella sua vita. Francesca è un’artista, ma il linguaggio dei colori non basta a dissipare il buio che si porta dentro quando la giornata si svuota di colpo. Davanti solo un deserto spaventoso, incolmabile. Poter tornare a letto… E’ impossibile dipingere, è impossibile uscire di casa, lavarmi i capelli. Impossibile sollevare il ricevitore del telefono, impossibile sostenere una qualunque conversazione.
E’ la depressione il demone di Francesca. Un’ombra scura che la insegue e la precede schiacciandola in devastanti crisi di panico. Eppure a sconfiggere il mostro basta poco.
- Ciao, ti ho svegliata?
La sua voce, la voce di Massimo.
Vuoto nello stomaco, cuore che sbatte contro le sbarre della sua gabbia d’ossa, cercando di schizzarne fuori. E quel nodo implacabile che si scioglie, restituendomi lo spazio per gonfiare i polmoni.

Le donne amano così.
Eppure Massimo, il ragazzo che ha aperto uno spiraglio nella vita sentimentalmente irrisolta di Francesca, non capisce. O meglio, non vuole capire. Perché anche qui il rischio è il passaggio tra ciò che si ha e ciò che si potrebbe avere.
Lo sa bene Viola, che è nata con il corpo di un uomo, si è venduta per rendere visibile al mondo la femminilità della sua anima, ma non può accettare un amore vero. Un amore da donna. Perché lui non capisce. Pensa solo di fare un grande gesto romantico, non capisce e non gli interessa nemmeno di capire. Non sa cosa ci succederà. Non può capire, come te. Te lo ripeto Francesca: non posso andare a vivere nelle case popolari. I poveri non hanno pietà per quelle come me.
La pietà, la capacità di accettarsi per ciò che si è, manca a tutti i protagonisti di questo cerchio imperfetto.
Il libro di Sabrina Campolongo ha il pregio di descrivere, con la naturalezza del vissuto, stati d’animo che difficilmente vengono raccontati da chi ha la sfortuna di provarli. E’ un libro che scava in zone buie e forse, proprio per questo, il quadro che ne esce racconta di un’umanità fragile e dolente. Un’umanità che non riesce a trovare una rivincita, che non lotta fino in fondo, che si accontenta di un non detto.
Ti amo. Potrei dirti.
Potrei dire ti amo e non cambierebbe nulla.
Non aggiungerebbe nulla.
Posso dirtelo, non credo che lo farò mai.

E’ la sanzione di una sconfitta. Accettata con la strana gioia di una saggezza che, ancora una volta, parla della nostra profonda incapacità.

Laura et Lory

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Laura Costantini e Loredana Falcone, “Roma 1944 – lo sposo di guerra“, Maprosti & Lisanti editore, 2007, pagg. 480, euro 15
recensione di Sabrina Campolongo

Due donne, al centro di questo romanzo, due sponde dello stesso fiume. Da una parte Camilla, ruspante ragazza del popolo, impegnata a tempo pieno a “risolversi la giornata” (vedi mettere assieme un pasto almeno al giorno), dall’altra Ottavia, la contessa Visconti-Parini, assediata nel suo stesso palazzo dalle truppe americane che ne hanno preso possesso, con suo malcelato fastidio.
Due binari, due destini, quello della popolana rimasta sola al mondo, e quello della nobildonna abbandonata da un marito fascista e puttaniere, che in un altro momento storico non si sarebbero mai incrociati, limitandosi a guardarsi dalle due opposte, seppur vicine, tribune: quella dei servi e quella dei padroni.
Ma, in questo particolare dove e quando, tutto, forse, può accadere: Roma, giugno 1944.
Siamo nel cuore di una “città eterna” ferita e umiliata, che deve piegare la testa e accogliere nella sua carne truppe straniere che la proteggano da se stessa, una città costretta ad accettare di farsi salvare a colpi di coprifuoco e restrizioni, siamo in una Roma alla fame, che piange i suoi morti e i suoi palazzi distrutti, e si interroga su un futuro ancora incerto.
In questo sbando totale, non sorprende che i ruoli diventino elastici. Attraverso le pareti sbrecciate, le cuciture che cedono, che si sfilacciano, ecco che Camilla e Ottavia si trovano a essere prima di tutto due donne sole, e poi, solo sullo sfondo, una serva e una padrona.
Pur nella paura del futuro, pur nelle difficoltà, queste due donne, fino ad allora chiuse dentro due vite cucite loro addosso, rigide come gabbie da cui non si può scappare, si trovano tra le mani, quasi loro malgrado, l’occasione unica e irripetibile di essere se stesse.
Non ci sono madri, mariti, o fratelli a controllarle da vicino, nella lotta per la quotidiana sopravvivenza come nelle notte solitarie nella roccaforte del palazzo, non ci sono uomini a imporre, a vietare, a proteggere, a salvare.
Sono sole, sole come si può esserlo quando si è sopravvissuto a una guerra, sole come dopo l’abbandono di tutti, sole come chi non ha più nulla, a parte se stesso, da perdere.
Sole, all’apparenza, finché si innamorano (eh già) di due uomini, due dei “salvatori” americani. Ma sole, mi sembra di poter dire, anche, e dolorosamente, dopo.
Perché, se Camilla e Ottavia sono cresciute, nella consapevolezza di sé, durante questi mesi di solitudine e lotta per la sopravvivenza (materiale e/o spirituale), lo stesso non si può dire degli uomini di questa storia, il giovane Michael che ama Camilla in buona fede, ma, alla fine come un bell’oggetto da possedere e riportarsi in patria intatto, e il colonnello Samuel Kilpatrick, che si concede il diritto di vivere con Ottavia quell’amore totale che il rispetto delle convenzioni gli ha fino ad allora negato, ma senza mai dubitare nel profondo che sarà di nuovo in quella direzione, in quella degli obblighi familiari, che i suoi piedi volgeranno, alla fine della guerra.
Nemmeno il finale (che non svelerò) se pur con un avvicinamento, riesce a sanare la frattura, tra queste donne che lottano per la propria integrità e il proprio diritto a essere se stesse, e questi uomini che non riescono ad amare alla pari, uomini mossi da onesto desiderio, ma anche da ansia di “salvare”, di controllare, di imporre le proprie decisioni.
Il che è indubbiamente coerente con il momento storico. Difficile credere nella possibilità di un vero rivolgimento, è corretto quanto inevitabile il finale “convenzionale” di queste storie. Alla fine, la libertà selvaggia e pericolosa sperimentata in quei giorni lascerà segni profondi, nelle vite dei protagonisti, ma non stravolgerà il paradigma.
Gli uomini continueranno a prendersi la libertà come un diritto sacrosanto, e le donne continueranno ad accettare gli addii, e ad accogliere, e a perdonare.
Eppure, si intuisce che la consapevolezza è diversa: le donne, le sopravvissute, quelle che hanno lavorato nelle fabbriche, quelle che hanno dato da mangiare ai figli quando i mariti erano al fronte, quelle che hanno preservato la propria anima sottraendola alle violenze del corpo, cominciano a mostrare insofferenza, verso quelle figure maschili che vorrebbero tornare a decidere delle loro vite. Ma i tempi, nel 1944, non sono ancora maturi. Forse di questo Laura Costantini e Loredana Falcone ci racconteranno in un prossimo romanzo.
Intanto, quello che resta, dopo la lettura di questo “Roma 1944”, al di là delle vicende individuali e sentimentali dei protagonisti, è l’affresco dolente ma anche vitale (a tratti decisamente divertente) di una città e dei suoi abitanti, sanguigni e beffardi, violenti e disarmanti, acciaccati, ma mai disposti a chinare la testa, ironici anche mentre si svendono, capaci, li si direbbe, di prendere in giro persino la morte.

Acconciarle i capelli in morbidi riccioli era sempre stato il compito di sua madre, fin dalla prima volta, il giorno della Prima Comunione. Sentì le lacrime pungerle gli occhi mentre la nostalgia per Assunta le scavava un dolore sordo nello stomaco, le sembrò quasi di vederla alle sue spalle, riflessa nello specchio della toeletta, con i suoi capelli grigi annodati in una crocchia sulla nuca, la sopravveste bianca quando andava a servizio da donna Matilde, la madre della contessa Ottavia. Le sembrò di sentire la carezza delle sue dita sui capelli e la sua voce che le sussurrava: “Sta’bbona fija mia, nun piagne…ce n’avrai de tempo pe’ disperatte nella vita…”

Sabrina Campolongo

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mercoledì, 26 settembre 2007

RECENSIONI INCROCIATE (di Enrico Gregori e Vito Ferro)

Ho incontrato Enrico Gregori e Vito Ferro in maniera rocambolesca.

Stavo per eliminare le mail raccolte nella cartella spam del mio account quando, tra una promozione del viagra e una missiva in cui mi informavano che avrei vinto un milione di euro se (non ho continuato la lettura), scorgo – uno sull’altro – i messaggi di posta elettronica dei due suddetti individui.

Mi accorgo che le mail sono state inviate quasi contestualmente (a distanza di pochi minuti) e contengono informazioni sui libri di cui parleremo in questo post.

Dal breve scambio epistolare intuisco che Enrico e Vito sono accomunati, oltre che dall’essere riconosciuti come “spam” dal mio account di posta elettronica, da uno spiccato senso dell’umorismo.

Così ho pensato bene di metterli in contatto.

Volete che parli dei vostri libri? Facciamo così: spediteveli reciprocamente e recensitevi a vicenda.

Così ho detto, così hanno fatto.

Insomma, quelle che vi propongo sono recensioni incrociate. Vito recensisce il libro di Enrico e viceversa.

Saranno recensioni credibili? Si saranno messi d’accordo?

Leggete e giudicate.

E poi parlatene con gli interessati.

(Massimo Maugeri)

P.s. Guarda cosa si deve inventare uno per parlare di libri in maniera alternativa!

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Un tè prima di morire (di Enrico Gregori) – Editore Bietti, 2007, euro 10, pagg. 138

recensione di Vito Ferro

In un albergo americano che sarà la sede di un importante summit di potere e finanza, un probabile attentatore sanguinario è pronto a colpire il suo bersaglio, un uomo spregevolmente ricco, odiato da tutti. L’albergo, il prestigioso Manovar, diventa così una fortezza presidiata da poliziotti e cecchini, artificieri e agenti antiterrorismo. C’è tensione nell’aria e tutti gli ospiti dell’albergo, gli inservienti, gli abitanti della cittadina attendono un qualcosa che di tragico e devastante dovrà avvenire. E’ questo, in sintesi, l’incipit del bel romanzo di Enrico Gregori, giornalista e scrittore di Roma, che pubblica con Bietti (il libro è acquistabile tramite il sito della casa editrice www.bietti.it) questo avvincente noir (ma vedremo presto quanto l’etichetta stia stretta, molto stretta…) composto da ampie finestre narrative, squarci di vita narrati con lucidità, immediatezza, incisivo fervore. Il libro è, come dicevamo, difficilmente inscrivibile nel genere di thriller canonico: sembra anzi che la vicenda primaria della storia (l’attesa lunga della strage), sia quasi soltanto pretesto e stimolo per mostrarci, vivisezionata alla perfezione, l’esistenza delle singole persone che abitano l’albergo e le pagine del libro, tasselli e ingranaggi di un puzzle o di un meccanismo che mostra e scandisce il tempo verso l’ineluttabile (?), verso l’apoteosi. Si muovono come esseri umani veri, questi personaggi di carta, con le loro ansie, le loro paure, le gioie preservate nell’intimo e le loro missioni: ognuno di loro ha infatti una missione particolare, un senso da dare alla sua immediatezza, uno scopo profondo. C’è chi deve portare a compimento l’attentato, chi deve impedirlo, c’è chi è destinato a subirlo in quanto vittima sacrificale nel gioco dei poteri e della ricchezza, chi si trova nel luogo e sente di essere costretto a dovervi partecipare senza averne ragione o colpa. Dopo l’undici settembre, una vicenda come quella narrata da Gregori, acquista uno spessore e un valore di verità decisiva: figlia dei tempi ormai giunti, la paura e l’attesa (spesso risolta nel dramma, nel sangue) da Deserto dei Tartari, è l’aura che circonda la nostra consapevolezza, ormai certi di poter essere tutti bersaglio della follia terroristica e pagare colpe più grandi, avviluppati nella scacchiera sporca di una politica senza scrupoli, deviata e criminale. Ma il libro va oltre, e la metafora a cui rimanda è quella dell’eterno gioco tra la vita e la morte, la dinamica propria ad ogni esistente che cerca con il proprio particolare agire (e con la rimozione volontaria della consapevolezza che la fine di tutto sia in agguato, dietro l’angolo, dentro ogni passo, movimento, scelta), di scacciare il senso di inevitabile che ci condiziona e marchia tutti. Dentro l’albergo della storia quindi, soggiorniamo tutti noi. Chiunque di noi, che sia povero o ricco, abbia scopi nobili o perversi, provenga da un passato oscuro o abbia condotto la sua vita irreprensibilmente, che sia in fuga o in ricerca, è accumunato dall’avere una stanza nel Manovar (il nome del’albergo che ricorda l’espressione Man on War: uomo in guerra: uomo in guerra costante con se stesso e la vita). Lo scrittore riesce così, grazie ad un linguaggio diretto, franco, vivo, di mostrarci l’intima reazione di ognuno alla paura, a quella paura atavica che ci costringe a guardare al fondo di noi stessi e a fare i conti con una certezza che si preferisce evitare. Densi di un’umanità in affanno, capace di inventarsi manovre e speranze diverse, i personaggi del libro, ci sembrano così vicini, così veri: i poliziotti che maledicono il rischio che devono correre compiendo il loro dovere, l’uomo che sogna un amore e lo coltiva nel suo silenzio, la coppia adulterina sospesa tra desiderio e rimorso, il musicista che insegue la sua passione al di sopra di tutto, la poetessa in cerca del dialogo più intimo, più sincero, gli attori di teatro persi dentro la confusione di un ruolo, e ancora i magnati potenti invischiati nelle lotte per la supremazia disumana, il magnate, Colin Mallory, il bersaglio, lo spietato squalo che odiano tutti e che sembra destinato a scontare la pena accumulata in un vivere amorale, senza regole. E c’è anche, come personaggio aggiunto, il senso di pericolo incombente di cui si ignora quale faccia abbia, quale strategia. In un collage da reality veritiero sono i gesti, i tic, le ansie, le parole cariche di sospiro e trepidazione a connotare questi soggetti come ben altro da semplici comparse. Sono loro il libro, sono le loro interazioni, lo scorrere metodico di tante vicende che si accavallano, sino a sfumare e forse risolversi una volta finita la storia. Bene o male? Non lo dirò mai, ovviamente. Ma solo ricordo e ribadisco quanto il bene e il male, in questa vicenda, si smarriscano uno dentro l’altro, fino a perdere i netti contorti, fino a confondere alibi, ragioni, sentimenti, certezze. Proprio come nella vita di tutti i giorni, dove una colpa è spesso soltanto l’altra faccia di una ingenuità portata all’estremo. Ottima prova del Gregori, quindi, libro avvincente e tagliente, frutto di una capacità di resa narrativa che gli viene sicuramente dal suo lavoro di giornalista e dalla sua esperienza di conoscitore d’uomini. Ma sa anche giocare, e bene, Gregori con questa sua capacità, stravolgendo caratteri e cliché, infarcendoli di un ironia, a volte amara, a volte esilarante: crea un genere a sé che sta a metà strada tra la commedia umana e il noir più tradizionale. E questo grazie ad un linguaggio che non gira attorno alla sua materia in una costante rincorsa narcisistica, ma da essa proviene e ad essa si attiene: la materia dell’amore, del sesso, della morte, della ricerca, della violenza. Sono tutte con l’iniziale minuscola. Sono tutte le cose di cui ci circondiamo, e che, alla resa dei conti, abitano la nostra esistenza. E così come sono ce le presenta l’autore offrendoci questo Tè prima di morire.

Vito Ferro

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L’ho lasciata perché l’amavo troppo (di Vito ferro) – Coniglio Editore, 2007, euro 6,50, pagg. 93

recensione di Enrico Gregori

Un libro di circa 100 pagine pieno di pretesti per lasciare lei o per farsi da lei lasciare. Tale codardo volumetto non poteva che essere pubblicato dall’editore “Coniglio”(www.coniglioeditore.it). Sotterfugi, giustificazioni incredibili, situazioni paranormali. Tutto questo, forse, per non dirsi semplicemente “è finita”.

Vito Ferro ci regala questo manuale che, epidermicamente, pare un libro di barzellette sui carabinieri oppure un diario scolastico d’ultima generazione.

Io, ritenendo che la fantasia può rendere gradevole anche l’orario dei treni, dico che Vito di fantasia ne ha usata a profusione. Quindi, tra battute, monologhi, dialoghi e fandonie, “L’ho lasciata perché l’amavo troppo” è un esercizio cerebrale affrontato con cura e intelligenza. Volendo si ride, volendo si riflette.

Chi ne ha voglia potrebbe anche spulciare nelle psicologie, nelle timidezze, nei diversi approcci che maschietti e femminucce hanno nei confronti dell’abbandono. Io, esprimendo a Vito la mia ammirazione, vorrei semplicemente dire che non è facile, non è affatto facile costruire 100 pagine su un unico concetto.

Fantasia, dunque, e tanto di cappello al giovane autore. Anche con un pizzico di invidia perché se, ad esempio, avessi affontato io il medesimo cimento, avrei scritto un libro di tre sole righe.

Io: “Chi ha composto Eleonor Rigby”?

Lei: “George Michael?”

Io: “Vaffanculo!”

Enrico Gregori

Pubblicato in RECENSIONI INCROCIATE   115 commenti »

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