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lunedì, 9 novembre 2015

Pasolini, l’omosessualità, la psicanalisi

La nuova puntata de “Il sottosuolo” di Ferdinando Camon è dedicata a Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922 – Roma, 2 novembre 1975) in occasione del quarantesimo anniversario della morte.

Abbiamo ricordato la ricorrenza nel’ambito di questo post.

(Massimo Maugeri)

* * *

Pasolini, l’omosessualità, la psicanalisi

ferdinando-camondi Ferdinando Camon

Pasolini è morto quarant’anni fa. Sono convinto che si può parlare con i morti. I morti non sono morti. «Silvia, rimembri ancora / quel tempo della tua vita mortale…?» cominciava Leopardi: le chiede se si ricorda di quand’era viva, ma possono ricordare qualcosa i morti? e possono rispondere a una domanda? La risposta, per Leopardi, è “sì”. Per questo scrive quella poesia. Per questo è nata la poesia. La prima poesia fu nelle parole che la prima madre rivolse al figlio appena morto. La poesia è il dialogo fra il di qua e l’aldilà. Lorenz racconta di una scimmia a cui era morto il figlioletto appena nato, e lei non lo abbandonò, ma continuò a trascinarselo dietro per due giorni e due notti. Non conosciamo i suoni che la scimmia-madre pronunciava in quei giorni, ma se li avessimo, quelli sono poesia. Nel giorno dei morti i figli vanno a parlare con i padri. Anch’io. Anche con il padre letterario, che fu Pier Paolo Pasolini. Vado a Casarsa della Delizia, che è qui vicino a casa mia, e sto una ventina di minuti davanti alla “tomba coniugale”, che mette insieme Pier Paolo e sua madre. L’idea di metterli insieme fu di Alberto Moravia ed Enzo Siciliano. Idea giusta. La coppia era quella. Pier Paolo lo dice con chiarezza in una poesia bellissima, intitolata “A mia madre”, dice che il suo vero unico amore è la madre, ma la madre è sacra, lui non può toccarla, e per estensione non può toccare nessuna donna, per lui è un tabù. Pier Paolo, e questo è un dato che le sue biografie ignorano commettendo una grave colpa, andò in analisi da Cesare Musatti. Me lo raccontò Musatti stesso. Musatti da vecchio parlava troppo. Mi raccontò che Pasolini dopo 7-8 sedute non si presentò più. Perché era saltata fuori l’omosessualità, e Pier Paolo diceva: «Non ne parlerò, perché è natura». Musatti rispondeva: «Ne parlerà comunque, anche senza volerlo». (continua…)

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giovedì, 3 settembre 2015

MIGRANTI

La nuova puntata de “Il sottosuolo” di Ferdinando Camon è dedicata alla sconvolgente e attualissima problematica legata al fenomeno dei cosiddetti “migranti” (in questi giorni c’è, in particolare, questa notizia orribile sta facendo il giro del mondo).

Di seguito, due articoli dal titolo molto indicativo: “Migranti marchiati come animali“, “Selezione dei migranti, chi vive e chi muore“.

(Massimo Maugeri)

* * *

MIGRANTI

di Ferdinando Camon

ferdinando-camon1. Migranti marchiati come animali

È al lavoro in Europa, con poteri direzionali, una generazione nata meno di 60 anni fa, che non sa niente di storia. L’altro giorno funzionari di Auschwitz hanno aperto nell’ex campo di sterminio una fila di docce, per rinfrescare i turisti accaldati. Evidentemente non sapevano cosa le docce significano ad Auschwitz. Le proteste d’Israele si son levate altissime, le docce sono state portate via, ma mi domando perché non sono stati rimossi su due piedi anche quegli impiegati. Ieri la polizia ceca, non sapendo come identificare i profughi, adulti e bambini, ha pensato di contrassegnarli con un numero, indelebile, sul braccio. Non sapendo che anche questo sistema era usato ad Auschwitz, e che i sopravvissuti dei Lager si son portati quel numero fino alla morte e oltre. Ad Auschwitz il numero era tatuato sulla carne, mentre la polizia ceca lo scrive su un braccialetto di plastica. Il risultato però è lo stesso: uomini ridotti a numeri, e chiamati con quel numero. Non più persone, ma “pezzi”. A monte di queste operazioni, ci sta una concezione di razza: i migranti sono di razza inferiore. Animali. O cose.
La massa di migranti che preme su Budapest e da lì sulla Germania spaventa tutti. Sono troppi. Hanno bisogno di tutto. Accoglierli è un disastro. Respingerli è una colpa. Che si fa?
Rispondere alzando i muri è una risposta vecchia, razzista, fallita e indegna dell’uomo europeo. I muri sono in contraddizione con lo spirito della Comunità di Stati che si chiama Europa. Al presidente dell’Ungheria, che con la costruzione di un muro lungo quasi 200 chilometri pensa di risolvere il problema dell’immigrazione, viene attribuita una frase orrenda: “Le masse d’immigranti vengono per imbastardire la nostra razza”. Anche in Italia qualcuno parlò così, usando la parola “imbastardire”. Chi usa una parola del genere, dovrebb’essere escluso non dal partito ma dalla politica. La politica è l’arte della relazione con gli altri. Se tu pensi che tu sei puro (o civile) e gli altri sono impuri (o incivili o barbari), e che il contatto con loro ti imbastardisce, non puoi fare politica, puoi fare soltanto guerra. E infatti i muri sono uno strumento di guerra. I muri li costruiva l’Unione Sovietica (la cortina di ferro) o la Germania est (il muro di Berlino), e adesso l’Ungheria, la Bulgaria, e fra poco l’Estonia. Chi si chiude dentro un muro protegge il proprio bene e tiene fuori gli altri, sentiti come un male. Protegge come? “Per ora, i nostri soldati non hanno l’ordine di sparare”, dice il presidente dell’Ungheria, intendendo che possono fare tutto il resto, lanciare gas lacrimogeni, picchiare col manganello, arrestare. O chiudere le stazioni, in modo che non possano partire. È appena successo. Migliaia d’immigrati bloccati nella stazione di Budapest volevano salire sui treni per Vienna e Berlino, ma venivano bloccati. La stazione è stata occupata dai migranti, poi evacuata a forza dalla polizia, poi rioccupata…: è il caos. Da italiano, avrei piacere che questa massa arrivasse a Berlino, per vedere cosa fa la Merkel. Perché la signora Merkel, finché i migranti sbarcavano a migliaia in Italia, ripeteva come un mantra che “il primo paese che toccano se li deve tenere”. Adesso che arrivano in Germania, cambia slogan: “L’ospitalità va divisa fra tutti”. La Merkel non ragiona da europea, ma da tedesca. Io farei notare questa contraddizione, se fossi al posto di Renzi. La farei notare non a lei, ma al mondo.
Che succederà quando gli stati che costruiscono i muri, metteranno sotto il filo spinato le mine? Ci saranno migranti che muoiono? È europeo tutto questo? Noi europei siamo “assassini di affamati”?
Si dice: chi scappa dalla guerra ben venga, chi scappa dalla fame no. E perché? I nostri migranti partivano per fame. Anche la fame è una guerra. Noi occidentali siamo protesi a migliorare il nostro benessere economico, senza pause. Consideriamo il governo che ci guida in questa corsa un buon governo. I disperati che vengono in casa nostra sono un problema, ci rallentano la corsa, ma dobbiamo accettarlo. L’altra scelta è lasciarli morire. Dobbiamo considerare un buon governo quello che non li lascia morire.

* * *

2. Selezione dei migranti, chi vive e chi muore (continua…)

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mercoledì, 30 luglio 2014

VIVERE SIGNIFICA AMMAZZARE

La nuova puntata de “Il sottosuolo”di Ferdinando Camon è dedicata ai seguenti volumi di Ernst Jünger

- La battaglia come esperienza interiore, trad. Simone Buttazzi, Piano B edizioni, 2014, pagg. 140, euro 13

- Nelle tempeste d’acciaio, introd. Giorgio Zampa, trad. Giorgio Zampaglione, Guanda, ristampa 2014

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ferdinando-camonVIVERE SIGNIFICA AMMAZZARE

di Ferdinando Camon

L’oscena bestemmia sta a pagina 57 e spande una luce lugubre sul resto del libro e sugli altri libri di questo grande autore. Suona così: “Vivere significa ammazzare”. Se non ammazzi non vivi. La gioia dell’esistenza si ha nel corpo-a-corpo col nemico, quando lo infilzi con la baionetta o gli tagli la gola o lo sbricioli con una bomba a mano. La gioia del soldato sta nel “vedere” il nemico mentre muore, o nel contemplare il suo corpo appena morto. Non devi odiarlo per questo. L’odio è umano, ma il soldato che uccide è super-umano, è un dio. Quando il nemico esce di notte dalla sua trincea e protetto dal buio striscia fin sotto i tuoi reticolati, e con la pinza li taglia facendo quel rumore secco, clic clic, che pare un topo che rode, i tuoi soldati si stringono intorno a te e godono di sentire quegli scricchiolii come il gatto gode nel sentire i topi a portata di unghie. D’improvviso tutti sparano sul rumore, fucili mitragliatrici e bombe a mano, tu ami le bombe a mano perché sono un prolungamento del tuo pugno, e dopo la sparatoria è bello esaminare i morti sbrindellati, tu controlli i loro stivali, se qualcuno ha gli stivali eleganti e puliti quello è un ufficiale, e la tua gioia raddoppia. Fai delle scoperte. A volte un proiettile s’infila tra i sacchetti di sabbia e trapassa un cranio, dal cranio esce sangue all’infinito, come mai? Ci sono così tante vene nella testa? La guerra è l’habitat del vero uomo, e nella guerra il momento-clou è l’assalto. Se l’assalto è lungo 100 metri, in quei 100 metri succede questo: “Corriamo. I colpi si fondono l’uno con l’altro sempre più in fretta, sempre più furiosi, affondando in un ruggito crescente. Il terreno ondeggia, l’aria soffocante impregnata di gas e putrefazione ci arriva in faccia a ondate. Zolle di terra si schiantano contro gli elmi, le schegge risuonano contro le armi. Si ode forte e chiaro ogni volta che un pezzo di ferro stacca un trancio di carne umana. Ai nostri piedi, ai bordi del sentiero giacciono i morti, spettrali bambole di cera nella luce fioca, gli arti stranamente slogati. Una cassa toracica affonda, tenera come un mantice, sotto il mio stivale chiodato”. Tu non uccidi perché eseguì un ordine, ma perché sei nato per uccidere. La pace camuffava il tuo istinto, la guerra lo rivela. La pace è menzogna, la guerra è verità. Dalla tua trincea, spii e ascolti la trincea nemica, è la tua ossessione, prenderla e sterminarla: “Nelle notti silenziose il vento ci portava voci, colpi di tosse, battiti, martellate e un lontano, sconnesso rumore di ruote. Al che ci coglieva un sentimento singolare, tristo e bramoso, come quello di un cacciatore che, in una radura della giungla, fa la posta a una bestia oscena ed enigmatica”. Finalmente tradotto in italiano, da un piccolo meritevole editore, questo smilzo libretto di meditazioni rivela il lato profondo e oscuro di Jünger, ammirabile ma disamabile. Per lui non è importante “perché” si combatte, ma “come” si combatte. La guerra è nostra madre e nostra figlia. Ci forgia come vuole, e noi la forgiamo come vogliamo. Guardando i soldati che scavano fosse senza far rumore, sincronizzano gli orologi fosforescenti, individuano i punti cardinali dalla posizione degli astri, pensi: “È questo l’uomo nuovo, il pioniere della tempesta, il fior fiore della Mitteleuropa”. Nato per vincere, anzi per trionfare. Per segnare un’epoca. Dominarla. A cominciare dalla Grande Vittoria in questa Grande Guerra. (continua…)

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sabato, 31 maggio 2014

DRIEU LA ROCHELLE, grande scrittore, grande canaglia

La nuova puntata de “Il sottosuolo”di Ferdinando Camon è dedicata al volume La commedia di Charleroi di Pierre Drieu La Rochelle (Fazi editore).

“Sono partito, non sono più ritornato, questa volta”. Così chiude l’ultimo racconto di questa raccolta, scritta nel 1934, che ci svela il senso della guerra per Drieu La Rochelle: l’impossibilità di fare ritorno alle commedie della vita civile dopo aver provato il disgusto e l’ebbrezza del grande conflitto del ‘14-’18, che la tecnica ha reso ancor più disumano. Eroismo e viltà, esaltazione e disincanto, ideologia e cinismo si confondono nei personaggi della “Commedia, che narrano la loro esperienza sapendo di non poter essere creduti da chi nella pace è ansioso di ritrovare soprattutto le proprie illusioni. Come la signora Pragen, la borghese arricchita del primo racconto, che cerca le tracce del figlio sul campo di Charleroi, ma fugge la realtà di una guerra che, nei massacri di massa, ha perso anche le sue retoriche e le sue finzioni romantiche. E gli uomini che hanno vissuto il furore delle trincee sono già quelli che, incapaci di abbracciare una condizione diversa dallo stato d’eccezione, andranno a popolare le grandi mobilitazioni totalitarie del Novecento. In questo senso “La commedia di Charleroi”, con la sua lingua intensa, oscillante tra lucidità e follia, è emblematica di uno scrittore che, al di là di ogni etichetta politica, ha fatto della propria opera e della propria sofferenza la testimonianza tragica del disagio di un’intera generazione. Introduzione di Attilio Scarpellini.

* * *

ferdinando-camonDRIEU LA ROCHELLE, grande scrittore, grande canaglia

di Ferdinando Camon

Ora che l’ho letto, il libro è zeppo di note a matita, a bordo pagina, che dicono: “Acuto”, “Sincero”, ma anche: “Canaglia”, con riferimento all’autore. Chi mi legge vorrà sapere subito quand’è che dico “canaglia”. Beh, spesso. Questo è un libro sulla guerra, la prima guerra mondiale, testimonianze, rievocazioni, ragionamenti. Le testimonianze sono grandiose e inobliabili: l’autore è un testimone personale, ha visto tutto, a Charleroi, in Belgio, quando noi italiani non eravamo ancora entrati in guerra, e a Verdun, che sta alla prima guerra mondiale come Stalingrado sta alla seconda. Ha visto le carneficine preannunciate dai colpi di obice, poi meticolosamente realizzate quando i reparti andavano all’assalto scoperti e venivano centrati dalle due armi-regine: i cannoni e le mitragliatrici. Ha camminato sulle trincee coperte di pezzi di soldati, braccia, gambe, teste. Dunque, “sa” cos’è la guerra. Non la guerra teorizzata dagli Alti Comandi sulle carte topografiche, o quella sterile e asettica dei bollettini: no, lui sa, per averla vista e toccata, cos’è la guerra di prima linea, lo sbranamento dei reparti, il vegliare-dormire-morire con l’incubo di non sapere mai in quale dei tre stadi ti trovi. E allora dà ribrezzo sentirlo dire che lui “ama la guerra”, che “l’uomo è fatto per la guerra”, che “l’uomo ha bisogno della guerra come di una donna”, “l’uomo non può fare a meno della guerra, più di quanto possa fare a meno dell’amore”, “una persona civile mostra il suo amore per la civiltà aderendo a tutto il contenuto di questa espressione, aderendo allo stato di guerra permanente, se si accetta la patria si accetta la guerra, chi ama la patria ama la guerra”. È vero, c’è guerra e guerra. L’autore ama la guerra, ma non quella che sta combattendo, e quella che sarebbe venuta dopo. Non ama le guerre “meccaniche”, dove la vittoria non dipende dai soldati e dalla loro volontà di andare fino in fondo, ma dalle industrie e dalla loro capacità si sfornare cannoni e mitragliatrici. Ama la guerra degli eroi, non la guerra delle economie. Ma c’è qualcosa di fascista, in questo amore. Qualcosa di nazista. Molto più tardi, come tutti sapete, finita la seconda guerra mondiale, l’autore morirà suicida, mentre si preparavano a processarlo per adesione al nazismo. Ma il suicidio era una subliminale tentazione perenne in lui. È suo Fuoco fatuo, racconto di un suicidio come gesto che dà un senso retroattivo alla vita, libro-capolavoro da cui Luis Malle trasse il film-capolavoro omonimo. (continua…)

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martedì, 4 marzo 2014

ROMA SPROFONDA IN ITALIA, MA VINCE NEL MONDO

La nuova puntata de “Il sottosuolo”di Ferdinando Camon riguarda il film “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino, fresco vincitore dell’Oscar come miglior film straniero (qui, l’omaggio di Letteratitudine) e…
…la città di Roma.

Di seguito, l’opinione di Camon.

Massimo Maugeri

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ferdinando-camonROMA SPROFONDA IN ITALIA, MA VINCE NEL MONDO

di Ferdinando Camon

Romano-napoletano al 100 per 100, “La Grande Bellezza” ha vinto il più mondiale dei premi, l’Oscar, e adesso tutti quelli che non l’han visto correranno a vederlo. E questa è decadenza, ignoranza artistica, mancanza di autonomia culturale, di cervello. Proprio quello che il film denuncia. Non si va a vedere un film perché ha vinto un premio, ma perché è un grande film o tratta un grande tema. “La Grande Bellezza” non è un grande film, ma tratta un grande tema, e il grande tema è Roma. Non è il film che ha vinto l’Oscar, è Roma. La capitale più gloriosa e corrotta, splendida e lurida, mistica e postribolare, piena di storia e di miseria ad ogni metro. Esci dalla stazione Termini e dopo 80 metri t’imbatti nelle mura di Tarquinio e Servio, sei secoli prima di Cristo, ma se non stai attento sbatti le scarpe sulla testa dei barboni insaccati dentro i cartoni, gli sbucci il cranio e loro non protestano, non sanno neanche se sono vivi o morti. L’umanità variopinta che incontri dalla stazione Termini al Colosseo o a San Pietro riunisce tutto il peggio e una particella del meglio dell’umanità. Ricchi sfondati che non hanno mai lavorato per nessuno e hanno sempre fregato tutti, puttane moleste che si offrono di sera e di mattina, politici che sono razzialmente diversi dagli umani, lavoratori dei ministeri e delle partecipate, dipendenti o impiegati che non hanno mai visto un padrone, una fabbrica, un orario, un cartellino da timbrare. Per questa umanità che sembra discesa pari pari dalla decadenza di un impero mondiale morto 1500 anni fa, tutto ciò per cui il resto dell’umanità vive soffre o gode è diverso, da Dio al sesso, dal denaro alla morte, dalla santità al puttanesimo. La vita è “dolce” se è senza etica, senza Dio, senza valori, se tu uomo animato vivi come un animale senz’anima: lo sapeva Fellini e la sua “Dolce vita” è un film disperato e straziante, un pianto o un urlo, lo sa Sorrentino e la sua “Grande Bellezza” è un film cinico e irridente, ateo e miscredente, bello di una bellezza di plastica, che oggi è l’unica vera natura. Perfino Sabrina Ferilli sembra di plastica, (continua…)

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mercoledì, 16 ottobre 2013

DOVE SEPPELLIRE PRIEBKE?

La nuova puntata deIl sottosuolodi Ferdinando Camon riguarda la attualissima e scottante “questione Priekbe” e le problematiche a essa collegate.

Di seguito, l’opinione di Camon.

Massimo Maugeri

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DOVE SEPPELLIRE PRIEBKE?

ferdinando-camondi Ferdinando Camon

Su Priebke corrono molti equivoci, ed è bene chiarirli subito. Non era un soldato. Le SS non erano soldati, erano una milizia del nazismo. Che il nazismo nascesse con intenti criminali, era chiaro prima che nascesse, perché prima di prendere il potere Hitler aveva pubblicato in un libro il suo programma. Nel libro c’è tutto. Distruzione degli ebrei, divisione dell’umanità in razze, soppressione delle razze inferiori, guerra all’est, cancellazione del Cristianesimo e del suo amore per i deboli e i perdenti, imposizione del diritto del più forte… Tutto. Priebke lo sapeva? Ma certo. Priebke fu tra i primissimi a iscriversi al neonato partito nazista. Faceva il cameriere a Rapallo quando sentì nascere il partito nazista, mollò tutto e corse in Germania a iscriversi. Fu un iscritto della primissima ora. Come mai in tanti anni diventò soltanto capitano? Per chi non lo sa, capitano è un grado bassissimo, appena sopra il tenente. Evidentemente, Priekbe era stupido. La sua qualità era l’obbedienza. Ma che cos’è l’obbedienza? È la dote di chi rispetta gli ordini? Tutti dicono così, ma non è così. Un tribunale italiano ha perfino assolto (o scarcerato) Priebke su questa base, ma ha sbagliato. La perfetta obbedienza sta nel condividere l’ordine prima che venga impartito, e nell’eseguirlo con volontarietà, non recalcitrando. Priebke era così ben disposto a massacrare i prigionieri delle Ardeatine, che doveva ammazzarne 330 e arrivò a 335. Lui ripeteva: “Personalmente, non ho ucciso nessuno”. È falso. Anche se non fosse falso, sarebbe inaccettabile lo stesso, perché dare l’ordine di uccidere significa uccidere. Ma poi dentro le Fosse successe questo: molti soldati tedeschi, al momento di sparare in testa ai prigionieri legati col fil di ferro e urlanti, vomitavano o tremavano o svenivano. Bisognava che l’ufficiale desse l’esempio e sparasse lui. Priebke lo fece. Visto l’esempio del loro capitano, i soldati prendevano coraggio e ammazzavano per alcuni minuti. Poi di nuovo tremavano e vomitavano. Bisognava ridare l’esempio. Il capitano Priebke lo ridiede. Quante volte? Lui dice: “Solo due”. Con ogni probabilità furono molte di più. Ma che importanza ha? (continua…)

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lunedì, 15 aprile 2013

VUOI ESSERE UN UOMO? AMMAZZA UN ORSO

ferdinando-camonLa nuova puntata de “Il sottosuolo” di Ferdinando Camon abbraccia un argomento legato al romanzo “La pelle dell’orso” di Matteo Righetto (Guanda). Da domani, su LetteratitudineNews, sarà disponibile uno stralcio tratto da questo libro.
Massimo Maugeri

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Vuoi essere un uomo? Ammazza un orso

di Ferdinando Camon

Son tornate le linci, le volpi, le aquile, i lupi, e gli orsi. Prima 5-6 coppie di Orso Bruno liberate nei boschi del Bellunese e del Trentino, a ridosso dell’Austria; adesso si calcola che ce ne siano alcune decine. Vai per i sentieri della Val Zoldana, e sai che a destra e a sinistra ce n’è qualcuno: tu non vedi lui, ma lui vede te. Andar per monti non è più come vent’anni fa. Allora eri padrone dispotico, potevi perderti in un bosco e dormire tranquillo sotto gli alberi, sapevi che tutto ciò che si muoveva e respirava intorno a te aveva paura di te: intorno a te si stendeva il creato, così com’era uscito dalla mani del Creatore, e tu eri il re del creato. Beh, non lo sei più. Prendiamo proprio la Val Zoldana: esci dall’autostrada, arrivi a Forno, e lì un orso ha sbranato un asino; arrivi a Dont, e lì s’aggira un orso piccolo, chiamato perciò “orsetto”. Un altro, sopra Trento, ha tagliato la strada statale e ha sbattuto contro un’Alfa Romeo. Danni all’Alfa, ma lui è morto. La Val Zoldana è vicina all’area che il mondo conosce per la catastrofe del Vajont: la catastrofe avvenne di notte, al mattino i giornali nazionali non avevano la notizia, il “Gazzettino” sì, a caratteri mastodontici, mai visti caratteri così grandi, sembravano tagliati con lo scalpello. In stazione, all’alba presto, era un via-vai di lettori che correvano in edicola a cambiare i loro giornali nazionali col “Gazzettino”. Passo spesso di lì, e ogni volta mi domando: nascerà un nuovo scrittore, capace di raccontare la nuova Natura, la paura dell’uomo detronizzato, la grandezza del piccolo uomo che affronta la Grande Bestia? E la dolcezza materna di questi monti e di queste valli, dove ci sono uomini che parlano con i cani in lingua tedesca? Cani che sono lupi, allevati da piccoli.
D’improvviso, in silenzio, eccolo il romanzo della nuova Natura, delle bestie selvagge, degli orsi e specialmente del Grande Orso, soprannominato El Diàol. Il centro del racconto sta a Colle Santa Lucia, uno di quei paesi bellissimi che però t’ispirano un senso di allarme: visiti il cimitero, delizioso, e dalle epigrafi capisci che le due guerre mondiali per loro non sono cominciate nel ‘15 e nel ’40, ma nel ’14 e ’39. Nel ’15 erano i nostri nemici. È un’oasi di lingua ladina. L’orso Diàol sta nel cuore del bosco, assalta caprioli e nella furia di sbranarli li scaraventa tra i rami degli abeti. Il romanzo ha un impianto apparentemente hemingwayano, padre e figlio che vanno a uccidere il Diàol per intascare una maxi-scommessa, ma in realtà Hemingway sta troppo in superficie, qui il testo scende più in profondità, non lo senti derivare da qualcuno dei “Quarantanove racconti” di Ernest, ma dalla “Linea d’ombra” di Conrad. La “linea d’ombra” segna l’uscita dell’uomo dall’età dell’innocenza e l’entrata nelle grandi sfide, la furia dell’oceano, i mostri della natura e dello spirito, fuori di te e dentro di te. Oltrepassi quella linea, e non sei più lo stesso. Qui la grande sfida sta nel cercare, trovare e uccidere il Grande Orso, El Diàol. La scommessa l’ha lanciata il padre, ma se a uccidere l’orso fosse il padre, sarebbe uno dei tanti racconti d’avventura a quota simbolica zero. Qui la quota simbolica è alta: è il figlio, 12 anni, che uccide la Bestia, su quella linea d’ombra avviene il passaggio delle consegne, il figlio è un vincente che vince la vita, il padre esce dalla vittoria e dalla vita. Lo scontro avviene nel cuore del bosco dove il padre, quand’era ragazzo, aveva una capanna segreta, per sé e per la sua ragazza. Il figlio studia bene il posto. Diventerà il suo posto segreto. Righetto sposta indietro la vicenda, al tempo della catastrofe del Vajont, ma la spinta a scrivere gli viene oggi dal ritorno delle bestie feroci. È da queste che è eccitato. Un tempo avremmo detto “ispirato”.
(continua…)

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martedì, 19 marzo 2013

PAPA FRANCESCO PORTA TRE RIVOLUZIONI

ferdinando-camonQuesta nuova puntata de “Il sottosuolo” di Ferdinando Camon punta verso il Cielo… con un articolo dedicato a Papa Francesco.
Massimo Maugeri

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PAPA FRANCESCO PORTA TRE RIVOLUZIONI

di Ferdinando Camon

Il primo impatto rivela tutto: fu così con Wojtyla, con Ratzinger, è così con Bertoglio. La fumata è bianca da tanti minuti, nessuno viene al balcone a presentare l’eletto, i maligni sospettano che s’attenda l’ora del tg. Poi la tenda oscilla, ecco il drappello, l’annunciatore dice: “… habemus papam, … Jorge (chi?) Marium (ma quale papabile si chiama così) Bergoglio”. La folla non capisce e non applaude, cerca di raccapezzarsi. Noi, in teleascolto, pure. Abbiamo in mano i nostri giornali, i papabili ci son tutti, e questo non c’è. Dunque lo Spirito Santo non legge la stampa? Poi il cervello qualcosa si ricorda: è un argentino, Argentina e Brasile hanno la più alta quantità di cattolici nel mondo, se votassero direttamente i cattolici continente per continente avrebbero votato questo. “Qui sibi nomen imposuit Franciscum”: s’è dato il nome di Francesco. Ci sono tre novità inaudite in questa elezione. Il prescelto è un latinoamericano, è un gesuita, vuol chiamarsi Francesco. Tre rivoluzioni. Eccolo, appare, altissimo, imponente, autorevole. Esordisce: “Fratelli e sorelle…”. Non dici “figli”, usa il linguaggio francescano, infatti è un francescano. Breve pausa, sta cercando la parola memorabile? Storica? Eterna? L’ha trovata: “Buonasera”. Si presenta come un ospite che viene a trovarci. Per prima cosa, come ogni ospite, parla del viaggio: “I miei fratelli cardinali dovevano scegliere un nuovo vescovo di Roma, e l’han scelto dall’altra parte del mondo”. Dunque un viaggio lungo, viene con altre esperienze, altra vita, altri insegnamenti. La mattina dopo si reca in Santa Maria Maggiore, e si avvicina alla Madonna portando in mano una ciotola di fiori, come si fa con la padrona di casa. Wojtyla e Ratzinger non hanno mai fatto così. Neanche Wojtyla era tra i papabili previsti, e anche per il suo nome (Uo-tì-ua) la folla in San Pietro ammutolì, disorientata, e qualcuno sussurrò: “Un negro!”. Ma il corrispondente dell’”Unità”, che lo conosceva, esclamò: “Il peggiore!”. Ratzinger non stupì nessuno, neanche l’autore di queste righe: i votanti eran quasi tutti cardinali di fresca nomina, quand’eran stati fatti cardinali nella curia c’era Ratzinger, ogni lettera da Roma era firmata Ratzinger, le esequie di Wojtyla eran guidate da Ratzinger, al momento di votare non avevano altri nomi in testa che quello. Era una scelta obbligata. Bergoglio è una scelta spiazzante. (continua…)

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lunedì, 4 febbraio 2013

LE GIOIOSE VENDETTE DI TARANTINO: i “Bastardi” e “Django”

ferdinando-camonNuova puntata de IL SOTTOSUOLO – di Ferdinando Camon

Le gioiose vendette di Tarantino: i “Bastardi” e “Django”

In questi giorni il film Django Unchained tocca l’apice della diffusione, e dunque questo è il momento buono per ragionare sulla polemica aperta da Spike Lee quando il film stava per uscire. “La schiavitù è per i neri quel che l’Olocausto è per gli ebrei”, dichiarò Lee, “non si può fare un film comico sull’Olocausto, e non si può fare un film western sulla schiavitù. Sono profanazioni”. Ho visto il film: Tarantino disonora gli schiavi?
Li chiama sempre “negri”, e anche questo offende Spike Lee. Ma non è una scorrettezza storica. Il negro è il nero schiavo, e questi sono neri schiavi. Sulle due condizioni che sono due tabù, l’Olocausto e la Schiavitù, credo che noi, che non siamo neri e non siamo ebrei, dobbiamo metterci in testa una cosa: “non possiamo capirle”. Se leggiamo un romanzo o vediamo un film fatto da qualche autore ebreo, non possiamo capirli, come li capisce l’autore. Prendiamo Kafka, La metamorfosi, prima riga: “Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto”. Per noi cristiani è fantasia o inconscio, per l’autore ebreo è realismo. Perché l’ebreo prima si sentiva un uomo, poi avverte intorno a sé l’odio razziale e si sente un insetto. Lo Sterminio è il corpo del reato della storia euro-occidentale, come la Schiavitù è il corpo del reato della storia nord-americana. Parlandone o scrivendone, non dobbiamo mai dimenticare che furono colpe, le massime colpe. Ora, si dà il caso che Quentin Tarantino, che fa girare adesso questo film sulla schiavitù, abbia fatto girare l’anno scorso un film sul Nazismo, “Bastardi senza gloria”. Sono due profanazioni, una dello Sterminio e l’altra della Schiavitù?
Sono due massacri, nei “Bastardi” vengono massacrati, con le raffiche e col fuoco, tutti i gerarchi nazisti rinchiusi in un cinema, Hitler in testa. Tarantino gira la strage con goduria, e con goduria lo spettatore la guarda. È quanto di più anti-storico si possa immaginare, perché purtroppo le cose non sono andate così, e gli ebrei non si sono vendicati dei loro carnefici trucidandoli. Ma inventando quella scena Tarantino soddisfa un bisogno inconscio dell’umanità: maciullare i carnefici. Questa operazione in Aristotele ha un nome: catarsi. In Django fa la stessa cosa. (continua…)

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martedì, 8 gennaio 2013

COSA PERDONO QUELLI CHE NON VOGLIONO FIGLI (di Ferdinando Camon)

camon-a-padova-2007.jpgRiprende la rubrica di Letteratitudine curata da Ferdinando Camon intitolata “Il sottosuolo“.

Cosa perdono quelli che non vogliono figli

di Ferdinando Camon

Si sta diffondendo il pensiero che è bello non avere figli: i figli sono una disgrazia, rovinano la vita e il pianeta. Il pensiero diventa un movimento, il de-natalismo, e prende piede in Francia, Italia e soprattutto in Belgio. Qui i de-natalisti hanno inventato una festa annuale, a Bruxelles, dove si trovano, cantano canzoni e alzano boccali di birra. E citano uomini illustri senza figli.
Ma citano male. Moravia non era un senza-figli. Era un mancato-padre circondato da mancati-figli. Quando andavano a trovarlo, Dario Bellezza, Achille Serrao e gli altri, toccavano tutto, spostavano tutto, come fanno i cattivi figli di un padre scrittore. Uno sgattaiolava fuori dalla porta, Alberto lo inseguiva col bastone: “Cos’hai preso?”, “Ma niente Alberto, poi te lo riporto”. Sono gli aspetti vischiosi e fastidiosi della famiglia, che fanno una falsa famiglia. Pasolini dice in una poesia di aver amato una prostituta ma non è nato un figlio, e di questo era contento. Non ha mai affrontato il problema se la sua omosessualità fosse una fuga dalla paternità. Quando esplose la domanda, era in analisi da Musatti. Smise subito. Troppa angoscia.
Sì, certo, senza figli si lavora meglio. “Tu hai dato degli ostaggi alla vita”, mi ammoniva Meneghello, qui nello studio dove sto scrivendo. L’aveva già detto Bacone: “Se hai dei figli, non farai più grandi azioni, né virtuose né vituperose”. I figli ti bloccano nella mediocrità. Sono ostaggi del nemico, in una vita che è guerra. Ma se noi, padri, siamo un esercito in guerra, i figli sono l’avanguardia e la retroguardia: la protezione. Riempiono i vuoti del passato e vanno in avanscoperta sul futuro che non vivremo. Io non so come ho capito i primi film che vedevo, da bambino. Ma mi si spalanca una luce quando vedo la nipotina che guarda incantata il risveglio di Biancaneve, poi Biancaneve sparisce ed appare la matrigna, la piccola osserva in giro sbalordita e domanda: “Dov’è Biancaneve?”. È convinta che, se non è più nel televisore, è uscita dal televisore e cammina nella stanza. Qualcosa del genere dev’essere capitato al mio cervello, quand’ero piccolo, perché a questa ri-scoperta si eccita. Senza figli e nipoti avrei un cervello non eccitato, che vuol dire piatto. A 6 anni il primo dei miei figli fece un sogno: “I monti mi dicevano: quando morirai, crescerai”. Significa che ogni conquista passa attraverso una morte? Al fondo del mio cervello c’era questo concetto, non ero sicuro che fosse la verità, ma il sogno del figlio me lo confermava. Lui amava il cinema. Un giornale mi mandava un tesserino perché andassi alla Biennale, lui me lo rubava e ci andava lui. Sul tesserino c’era la mia foto, lo lasciavano passare perché lui era identico a me. Questo resta in me l’esempio di cosa vuol dire rinascere in un altro: quando la burocrazia controlla quell’altro e lo scambia per te. A volte mi càpita di cercare un libro che non ho mai letto, lo apro e lo vedo pieno di segni a matita. Sono segnate le frasi giuste con i giusti segni, asterischi, cerchi, punti interrogativi o esclamativi. Ma se non ho mai letto quel libro, chi ha fatto quei segni? Un figlio. Dunque, io ho letto quel libro non come io, ma come figlio. E allora, continuerò a leggere libri, segnandoli con i miei simboli, anche quando non ci sarò. I bambini si ammalano, come tutti, e finiscono in Pediatria. L’ospedale vuole che di notte stiano soli, se c’è bisogno ci sono gl’infermieri. Ma le madri non vogliono lasciarli, e si nascondono negli armadi. Il primario prima di andarsene apre gli armadi e scaccia le madri, allora queste si nascondono nei bagni. Le ho viste. I figli sono il sancta sanctorum della famiglia, non si possono lasciare senza sentinelle. Quando andavo a prendere un figlio all’asilo, o adesso una nipotina, la maestra lo chiama e gli chiede: “Chi è questo signore per te?”, perché ci sono i ladri di bambini, i bambini sono un valore e hanno un mercato. Diciamo sempre che non ci sono più valori: eccolo, un valore. Una madre mi ha raccontato che un giorno passeggiava con la figlioletta, questa si nascose, lei non la vedeva più, due pensieri le traversarono il cervello come fulmini, il primo: “Me l’hanno rubata”, il secondo: “Mi uccido”. Ho sentito una madre friulana cantare una canzone al figlio ricoverato in ospedale: “Signor del Cielo ascoltami, / non farlo mai soffrire, / se c’è dolor per lui, / ti prego dallo a me”: voleva soffrire e morire al posto del figlio. È difficile che chi non ha figli attraversi quest’esperienza, voler morire al posto di un altro. Per chi li ha, è un’esperienza perenne. Essere umani vuol dire questo. A Bruxelles alzano boccali di birra per la gioia di non avere figli? Avranno, come tutti, disgrazie nella vita, ma nessuna più grave di questa.
www.ferdinandocamon.it (continua…)

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