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lunedì, 17 settembre 2007

“IL CAPPELLO DEL DIAVOLO” – ricordando Emilio De Marchi e il suo primo grande successo narrativo (di Sergio Sozi)

Un manzoniano in odor di Scapigliatura, Emilio De Marchi (Milano, 1851 – 1901), ma ben ancorato ai dettami del romanticismo milanese, tanto da far scrivere a Cesare Cantù (uno della vecchia guardia romantica lombarda) una favorevole critica de ”Il cappello del prete” (1888), romanzo sul quale ci concentreremo in questo articolo. Eccellente il fondo. Interessante l’intreccio. Schietta la forma. Scacco ai romanzatori vecchi, così si espresse, telegraficamente e netto, appunto Cantù – l’autore di ”Margherita Pusterla”, il romanzo storico che gli diede il successo.

Poi di De Marchi parleranno in molti, Benedetto Croce in primis (egli ne ”La Letteratura della Nuova Italia” lo posiziona fra i manzoniani un po’, diremmo, scapigliati) ma anche critici come Titta Rosa, Luciano Nicastro (quest’ultimo allievo di Valgimigli e Guglielmino), più di recente Toni Iermano e Antonio Palermo, e in generale ogni buona Storia della Letteratura Italiana.

E se per Titta Rosa, De Marchi fu ”il Gogol’ della bassa”, forse un riuscito bilancio complessivo ci proviene da Luciano Nicastro. Vale la pena riportarlo per esteso:

Quando si è conosciuto il sentimento delle pagine più impegnate, rimane tuttavia nella mente, prima di ogni altra nota, la visione desolata e lo sconforto che la poesia del De Marchi esprime in prosa o in versi, consolata ora dal senso della natura ora da un concetto panteistico e romantico, confidente nell’opera redentrice della bontà operosa e nel sacrificio umano con cui l’anima sembra unirsi allo spirito divino. Emilio De Marchi ha pure qualche accento mistico e, nelle sue rappresentazioni angosciate e dolenti, l’esigenza spirituale di una concezione religiosa, che però si afferma in modo diverso da quello voluttuoso del Fogazzaro. (Dalla Presentazione ne ”I capolavori di Emilio De Marchi”, Mursia, Milano 1967, p. XXI).

Ma cos’è ”Il cappello del prete”, romanzo d’esperimento e non sperimentale (parole dell’autore e soprattutto direi del suo desiderio di distanziarsi dal contemporaneo Émile Zola), uscito a puntate come racconto d’appendice nel Corriere di Napoli durante il 1888 (lo stesso anno di ”Mastro don Gesualdo” del Verga, oltretutto buon amico di De Marchi) e poi pubblicato in volume dall’editore Treves, oltre che all’epoca vendutissimo e ampiamente pubblicizzato come reazione italiana al romanzo naturalista francese?

Io direi che ”Il cappello del prete” sia un esemplare romanzo-sintesi della sensibilità letteraria generale agitante la fine dell’Ottocento italiano ed europeo, nel quale l’escavazione psicologica di Dostoevskij si unisce al naturalismo di Zola e al verismo verghiano, mentre si vedono emergere fra le righe le premesse di un Pirandello e uno Svevo. Il tutto a sprazzi, a tratti, a pennellate: un collage d’epoca non sottovalutabile, in quanto sintesi e premonizione.

L’opera, inoltre, non disprezza una coloritura ”gialla”, poiché dopotutto tratta e narra di un omicidio, quello del prete Cirillo, e dell’omicida, il barone Carlo Coriolano di Santafusca. Il tutto nel contesto di Napoli e dintorni.

Ma ora vediamone i protagonisti e rintracciamo lo svolgimento della trama, sempre grazie alla penna dell’autore stesso (ogni estratto dall’edizione Mursia, ”I capolavori di Emilio De Marchi”, Milano 1967).

Dunque, prendiamo subito un ritrattino del barone Santafusca:

Il libertino prese la mano sul frate e sul nichilista, e dalla fusione di questi tre uomini uscì «u barone» unico nel suo genere, gran giuocatore, gran fumatore, gran bestemmiatore in faccia all’eterno. (…) Oggi l’uomo aveva quarantacinque anni, una gran barba nera, un volto abbruciato dal sole e dai liquori, una gran voglia di godere la vita e una miseria profonda. (…) Al frate, al nichilista, al libertino si aggiungeva ora un pitocco disperato, costretto a quarantacinque anni a mendicare dieci lire alla sua guardarobiera, se voleva pranzare e bere un cognac. (p. 5 e segg.)

Ed ecco il prete Cirillo:

Prete Cirillo era un uomo pieno di denari, che egli aveva radunati un poco con l’usura, prestando ai pizzicagnoli, ai pescivendoli, ai galantini della Sezione, e molto colle vincite al lotto. Si diceva che «u prevete» avesse i numeri e, coll’aiuto di certi calcoli cabalistici trovati da lui su un libro vecchio, vincesse al lotto ogni volta che gli piacesse di vincere. (p. 7 e segg.)

Ma veramente sconvolgente è il preludio dell’assassinio:

Come sul momento d’accostarsi a un intimo colloquio d’amore freme il sangue e par che gorgogli a fiotti nel corpo, e la vita si mesce già con un’altra vita, così man mano che la vittima si accostava al suo letto, il barone sentiva crescere la ferina voluttà. (p. 32)

Dopo il fattaccio, una prima reazione del barone:

Poi, sentendosi mancare le forze, usci (…) e venne in un prato pieno d’erbe folte e di sole, dove stavano pascolando le capre di Salvatore. Qui si fermò coi piedi sprofondati nella terra molle e cominciò a guardare stupidamente il muso delle capre, che guardavano lui stupidamente, ruminando. (p. 33)

Seguono lunghe serie di meditazioni rifiutate o sotterrate nell’anima come la seguente:

Era una brutta vita… Perché non s’ammazzava? (…) Se un uomo val l’altro, perché non aveva fin da principio accoppato sé in luogo del prete? (…) – Oh! i grandi imbecilli che siamo – mormorò a mezza voce, e si mosse per uscire. (p. 132)

Finché… davanti al giudice, in un confronto tremendo al palazzo di giustizia napoletano, inizia la conclusione del dramma vero e proprio, sia intimo che estetico, letterario, iniziato sin dal primo post-delitto con un incessante dialogo interiore filosofico a cui il barone non sa sfuggire:

La mente non connetteva più, si spezzavano le formule logiche, e la pazzia, la furia vendicatrice della superba ragione, scendeva a rompere la testa del barone di Santafusca, come egli aveva spezzata, con una sbarra di ferro, la piccola testa di prete Cirillo. Ciò che seguì da questo momento non fu più interrogatorio nelle forme, ma la lotta estrema di una ragione contro un rimorso. (p. 155)

Le ultime pagine sono terrificanti, per la resa realistica della scena (vi sono il giudice, i poliziotti, l’interrogato, tutti in un grigio ufficio del palazzaccio) e soprattutto per la descrizione della forza esplosiva che la verità della coscienza emette nel suo prorompere fuor dal dominio razional-istintivo del barone assassino, il quale infine non può più disgiungere da sé la figura del ”cacciatore”, personaggio prima fittizio da cui lui stesso si era veramente travestito per parlare con un presunto possessore del famoso ”cappello” (oggetto che infine cosituisce la sua condanna), al fine di riprendere il cappello in mano per farlo sparire. Il ”cacciatore” insomma fuoriesce dalla cinica finzione teatral-difensiva del barone per divenire platealmente l’anima nera di Santafusca (e qui, certamente, c’è in De Marchi il tocco vistoso di Gogol’):

Gli veniva meno la forza di tener separato nettamente il cacciatore da sé, di non attribuire all’uno pensieri ed atti che appartenevano, pur troppo! soltanto all’altro. Non sapeva più discernere il fatto da’ suoi particolari, e, per la foga di conciliare il prete col suo cappello e di voler credere troppo nel cacciatore, non si accorgeva che poco a poco andava esponendo e accusando se stesso. La sua testa era una fornace. I mille fantasmi cacciati, respinti, costretti, flagellati dalla sua scienza e dalla sua logica, uscivano sbucando ora tutt’insieme dai tenebrosi spechi della coscienza (…). (p. 155)

Ed avviene il crollo di un’anima da sempre scissa (allegoria, credo, della modernità) che, direi, si spacca tragicamente in due, come la sottile scienza delle dottrine positivistiche: il barone Santafusca vuole distruggere la religione annientando il cappello del prete, ossia confonde il simbolo con la fede vera e profonda del cristianesimo. Appunto in lui, fino alla crisi finale, convivono un frate, un libertino, un nichilista e… un accattone senza dignità, schiavo dei propri vizi. La vita di noi moderni, in fondo, in un solo personaggio, che dal 1888 ci raggiunge a mo’ di… ritratto collettivo. E qui, per adesso, mi fermerei.

Sergio Sozi

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Sergio Sozi collabora con il quotidiano L’Unità ed il settimanale Avvenimenti, con il mensile triestino Trieste Arte e Cultura, il mensile lubianese Nova revija, il quotidiano sloveno Dnevnik, la Radio Tre slovena e la casa editrice Studentska Zalozba – per la quale ha curato nel 2005 il volume antologico di racconti italiani (1989-2003) ”Carta e carne” (”Papir in meso”, SZ-Beletrina, Ljubljana 2005). Suoi pezzi culturali sono presenti su diversi siti letterari. Da ricordare la pubblicazione di colloqui con Dacia Maraini, Sebastiano Vassalli, Diego Marani e Claudio Magris.Ha pubblicato “Il maniaco e altri racconti” (Valter Casini Editore, 2007)

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