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martedì, 18 maggio 2021

DI-VERSI IRREQUIETI: Il volo di Franco Battiato

La nuova puntata di “Di-versi irrequieti“, spazio collegato alla rubrica “POESIA” di Letteratitudine, è dedicata a Franco Battiato (che ci ha lasciati oggi, 18 maggio 2021)

* * *

Il volo di Franco Battiato

di Daniela Sessa

All’alba Franco Battiato ha lasciato la vita. Nell’ora in cui la natura si risveglia: il cielo assiste alla fuga del buio e al primo canto e volo degli uccelli. E me lo immagino, Battiato, con la sua esile figura, il naso adunco, le braccia lunghe come ali, il sorriso evanescente e beffardo che si perde nell’infinito. Alla ricerca della sua nuova casa o di una forma diversa.

Volano gli uccelli volano
Nello spazio tra le nuvole
Con le regole assegnate
A questa parte di universo
Al nostro sistema solare

Aprono le ali
Scendono in picchiata, atterrano
Meglio di aeroplani
Cambiano le prospettive al mondo
Voli imprevedibili ed ascese velocissime
Traiettorie impercettibili
Codici di geometria esistenziale

Ha aperto le ali ed è salito in picchiata. La metafisica di Battiato è geometria esistenziale. Se l’universo è il tutto quanto, se è l’infinito che abbraccia il finito, il pensiero e il pentagramma e la parola di Franco Battiato sono quell’abbraccio. Nella sua vicenda di musicista e di poeta, Battiato ha tracciato linee dritte tra il qui e l’altrove. (continua…)

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mercoledì, 21 aprile 2021

DI-VERSI IRREQUIETI: Amelia Rosselli, poeta libellula

La nuova puntata di “Di-versi irrequieti“, spazio collegato alla rubrica “POESIA” di Letteratitudine, è dedicata ad Amelia Rosselli

* * *

Amelia Rosselli, poeta libellula

di Daniela Sessa

Non ne vogliano i pasdaran della grammatica, se questa rubrica chiama Amelia Rosselli (e lo farà con tutte le altre scrittrici di versi che deciderà di raccontare) poeta e non poetessa. Nella fragile e burbera Amelia la poesia s’accampò come assoluto declinare dell’esistenza. Amelia Rosselli fu un’apolide del verso: lo incarnò nella musica (era una studiosa di musicologia) in un mutuo simbolismo dei metri, lo dispiegò tra i gangli della sua malattia (la diversità del suo stare al mondo tra depressione e schizofrenia fu di-versità), lo rese materico e incorporeo assieme quasi per eludere il destino.  “La libellula” è il poema che la rese celebre e cui affidò la metafora biografica e intellettuale. Libertà ed equilibrio, evocati dal leggendario insetto, sono i due confini entro cui si mosse la vita di Amelia Rosselli. Nata a Parigi nel 1930 da Carlo Rosselli e dall’inglese Marion Cave, Amelia assume su di sé una tragedia familiare (l’assassinio del padre e dello zio Nello per ordine di Mussolini nel 1937) senza una precisa consapevolezza della tragedia politica, assente nelle sue poesie. Il piglio di Montale è anche qui, nel metabolizzare la storia dentro la condizione umana. Le sedute di psicoanalisi, l’identificazione con la madre, l’ingombro forse della figura volitiva della nonna (quell’Amelia Rosselli con cui l’adolescente Moravia tenne un carteggio interessante e da riscoprire), la ricerca del padre negli uomini che volle – Carlo Levi e Renato Guttuso -, l’amicizia imberbe con Rocco Scotellaro, la specularità con Sylvia Plath che ne detta forse anche il suicidio a soli 66 anni. (continua…)

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domenica, 21 marzo 2021

DI-VERSI IRREQUIETI: Lucio Piccolo – poeta

La prima puntata di “Di-versi irrequieti“, spazio collegato alla rubrica “POESIA” di Letteratitudine, è dedicata a Lucio Piccolo

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di Daniela Sessa

Il Novecento in poesia è il luogo della rarefazione della parola. L’osso di seppia montaliano non è solo scarnificazione del verbum ma condensa in sé ogni rivolgimento e stravolgimento del rapporto suono e senso, verità e simbolo. La lirica novecentesca fu antilirica e liricissima assieme: sferzò il tempo con parole crude e fissò il tempo nella ungarettiana “quiete accesa”. Un poeta del ‘900 fu Lucio Piccolo. Poeta riservato e coltissimo, relegato in una nicchia fatta di diffidenza verso i suoi spettri e le sue manie, mai davvero entrato nel consesso dei letterati con la maiuscola. Seppure pare lo desiderasse. Di Lucio Piccolo si raccontano la stirpe nobiliare, le ironie del cugino Tomasi di Lampedusa verso quel poeta strambo e filosofo, la passione per lo spiritismo (condiviso con il fratello Casimiro) e per la relatività di Einstein. Lucio Piccolo si rifugiò nel Barocco (Villa Piccolo è assieme scrigno e materia di quella scelta) quando esplodevano le avanguardie e rievocò un crepuscolarismo di ritorno. Lo studio della musica si riversò nei suoi versi come attenzione alle pause e agli inarcamenti, a una sonorità che mai si mischiò con la tradizione del fonosimbolismo. Perché i suoi simboli, arcaici e ancestrali, scaturivano dall’oscurità e così si consegnavano alla pagina. (continua…)

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domenica, 21 marzo 2021

DI-VERSI IRREQUIETI

Inauguriamo questo nuovo spazio collegato alla rubrica “POESIA” di Letteratitudine. Si intitola “Di-versi irrequieti” e sarà curato da Daniela Sessa: «la rubrica si intitola così perché vuole raccontare la poesia come forma diversa ossia varia per autori, ispirazione e forme. La poesia è irrequieta come lo sciame di un verso di Montale (il mio poeta preferito) e sarà irrequieta questa rubrica che a volte ospiterà recensioni, a volte versi e basta, a volte darà la parola ai poeti. Seguiteci e siate irrequieti con noi».

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giovedì, 12 luglio 2018

MARCO TULLIO GIORDANA. UNA POETICA CIVILE IN FORMA DI CINEMA

Nella nuova puntata di Letteratitudine Cinema ci occupiamo del volume “Marco Tullio Giordana. Una poetica civile in forma di cinema” di Marco Olivieri e Anna Paparcone (Rubettino). Di seguito, un’intervista all’autore

* * *

L’intervista. Fare cinema, fare letteratura. Intervista a Marco Olivieri sul libro Marco Tullio Giordana. Una poetica civile in forma di cinema

di Daniela Sessa

Marco Olivieri scrive di cinema, quello cosiddetto d’impegno civile e, se è concesso, anche estetico. Di Roberto Andò il cui cinema incarna il mistero di esistenze e di memorie risolte da una macchina da presa raffinata e suggestiva. Di Marco Tullio Giordana che ritrae “Pezzi di storia densi di ambiguità e dal fascino perverso, spesso rimossi da una realtà nazionale che tende a rifiutare ciò che appare sgradevole o non pacificato”. Un giudizio, questo, su “Sangue pazzo” da estendere a tutta la concezione della scrittura e della regia di Giordana. Marco Olivieri ha pubblicato un saggio sul cinema di Roberto Andò, “La memoria degli altri. Il cinema di Roberto Andò” ora in ristampa per Kaplan, ed è in libreria con “Marco Tullio Giordana. Una poetica civile in forma di cinema” (Rubbettino), scritto con Anna Paparcone della Bucknell University negli Stati Uniti (ha scritto saggi anche su Pasolini, Garrone, Pif e Quatriglio) e con i suggerimenti di Christian Uva, direttore della Collana Cinema di Rubbettino. Il libro di Olivieri ripercorre la cinematografia di Giordana dagli esordi nel 1980 con “Maledetti vi amerò” fino a “Lea” -film per la televisione-, passando attraverso i capolavori del cinema d’impegno: “I cento passi”, “Romanzo di una strage”, “La meglio gioventù”, “Sanguepazzo”, “Quando sei nato non puoi più nasconderti”, solo per citarne alcuni. Dal lavoro di Olivieri e Paparcone emerge tutta la cifra del cinema di Giordana teso tra memoria e letteratura, volto a indagare i misteri della storia italiana, a filmare la storia di una nazione molto spesso racchiusa dentro conformismo e ideologie asfittiche, un Paese (come si legge nella premessa) “condannato all’incompiutezza”. Al centro Pasolini, un personaggio che portava in sé il dramma: di uomo, di poeta, di regista, di intellettuale. Interessante nel libro è il rapporto tra il regista e Pasolini, un rapporto ambivalente fatto anche di tensioni e prese di distanza. Non è solo l’analisi su “Pasolini, un delitto italiano”, il film del 1995 che ricostruisce le indagini sul delitto e la risonanza mediatica dello stesso come “scatenamento dell’interpretazione”. Pasolini è il coprotagonista del libro: recuperarne la memoria è per Giordana, e forse per gli stessi autori, “una forma di resistenza…rispetto a un clima di anestesia politica e morale”, è riflettere sulla morte come “montaggio della vita”. Il libro di Olivieri e Paparcone ha il pregio di una scrittura lucida, talvolta didascalica come si addice a un lavoro saggistico, rigorosamente analitica e precisa nell’idea di fondo che il cinema di Giordana -come quello di Andò- sia letteratura per immagine, storia per immagine. Due citazioni letterarie per tutte: la bambina pascoliana del film di esordio e la citazione di “Supplica a mia madre” di Pasolini. Le immagini della storia sono quelle dalla Resistenza di “Notti e nebbie” (da un romanzo di Carlo Castellaneta) alle mafie e ai  testimoni di giustizia. E’ qui che il cinema di Giordana rivela il significato del suo impegno “dar voce non tanto alla Storia, ma alle storie, quelle dei vincitori ma anche dei vinti, perché è solo in questo modo che si può rimettere in moto la possibilità della convivenza”. Abbiamo posto a Marco Olivieri alcune domande sul libro.

-Il libro su Giordana è scritto a quattro mani. Racconta la genesi del libro?
Ho conosciuto Marco Tullio Giordana in occasione della presentazione del mio volume dedicato alla filmografia di Roberto Andò. Subito maturò in me l’idea di avviare un nuovo progetto che esplorasse i capitoli più noti e quelli meno conosciuti realizzati. È stato proprio lui a segnalarmi una studiosa che stimava, Anna Paparcone, che insegna alla Bucknell University negli Stati Uniti, era in procinto di dedicarsi a un’analisi approfondita delle sue opere. Ci siamo trovati d’accordo di scrivere un libro sul cinema di Giordana che ne esplorasse gli aspetti tecnici, estetici e tematici e capace di diventare punto di riferimento sia in Italia sia negli Stati Uniti. Il lavoro insieme, grazie ai continui confronti via Skype, è stato proficuo e ci siamo avvalsi dei suggerimenti di Christian Uva, direttore della Collana Cinema di Rubbettino.

-Tra le tante definizioni e riflessioni sul cinema di Marco Tullio Giordana vi è quella di Giovanni Grazzini che sul modo di esporre la storia da parte di Giordana afferma “Giordana non vuole scordarsi di essere un cinefilo”. Concorda con quest’affermazione? Chi è il cinefilo Giordana? (continua…)

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martedì, 15 maggio 2018

LADRI DI BICICLETTE di Vittorio De Sica

Dedichiamo questa nuova puntata di Letteratitudine Cinema al film “Ladri di biciclette” di Vittorio De Sica: un grande classico del cinema italiano restaurato per la presentazione nella sezione Classici del festival di Cannes (71° edizione dall’8 al 19 maggio)

* * *

LADRI DI BICICLETTE di Vittorio De Sica: se il restauro è memoria  del presente

di Daniela Sessa

Pedinamento: con questa parola il grande Cesare Zavattini sintetizzò il senso dei movimenti della macchina da presa del cinema del Neorealismo e così anche di “Ladri di Biciclette” (1948), il film di Vittorio De Sica, vincitore di un Oscar e restaurato per la presentazione nella sezione Classici del festival di Cannes  (71° edizione dall’8 al 19 maggio).
Risultati immagini per festival cannes 2018 ladri di bicicletteIn “Ladri di biciclette” avviene un pedinamento cioè il rincorrere a piedi, seguire i passi di un altro, cercare di catturarlo.  Nel film chi rincorre sono un padre e un figlioletto che cercano di recuperare la loro bicicletta. Il film è esile nella trama ma complesso nelle suggestioni, di temi e di soluzioni di regia. Quel pedinare quando si parla di cinema del Neorealismo (ancora considerato dai cinefili l’espressione massima e irraggiungibile del cinema italiano: a torto o a ragione?) è metaletteratura o metacinema. È stare alle calcagna dell’oggetto di rappresentazione, è farlo muovere in uno spazio proprio e ristretto (dalla miseria, dall’infelicità, dall’inadeguatezza all’etica del boom economico che il prestito americano pareva garantire oltre che promettere), è preferire la panoramica dal basso nelle scene d’insieme o indietreggiare col carrello fino a cogliere lo scoramento e la disperazione nel piano americano dell’imbianchino Antonio Ricci e del piccolo Bruno, cui De Sica concede più di un primissimo piano, e dettagli sugli occhi, sulle sue lacrime di vergogna asciugate con la manica della giacchetta da finto uomo o dettagli sulle mani che rabbiosamente spolverano il berretto da vero monello, fino a quel taglio sulla mano che stringe d’avvilita alleanza proletaria quella del padre. (continua…)

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