Otto anni dopo il successo di Le avventure di Tom Sawyer, Mark Twain pensa a un seguito e nel 1884 pubblica Le avventure di Huckleberry Finn, il ragazzino orfano e analfabeta già comprimario nella precedente opera. Il romanzo supera il primo e sarà considerato il capolavoro dello scrittore del Missouri, ma soprattutto – secondo Hemingway – quello dal quale nasce tutta la narrativa americana, giudizio condiviso anche da Scott Fitzgerald. Ma non è un libro per ragazzi, come pure ancora oggi (già a partire dal titolo, che designa un orizzonte esclusivamente ottocentesco) viene proposto, giacché il suo sottotesto integra il senso di una forte denuncia sociale.
Il tema principale – l’aiuto offerto da un adolescente qual è Huckleberry a uno schiavo di colore in fuga e dunque la spinosa questione razziale americana, di primissimo piano all’indomani della Ricostruzione e dell’abolizione della schiavitù (ma non del razzismo) – è del tutto inappropriato nella sua matrice mascherata a un pubblico giovanile reduce dalle gioiose malefatte di Tom Sawyer e la sua banda.
In un’epoca pesantemente condizionata dal puritanesimo, al tramonto dell’epopea del West e al sorgere delle Leggi di Jim Crow, i teen-agers che leggevano le peripezie di Huckle in compagnia di uno schiavo fuggiasco non potevano che fermarsi a un’interpretazione letterale e all’aspetto giocoso e scanzonato del racconto, ma il pubblico più adulto, artefice invero della fortuna del libro, si trovava (giusto il principio che di lì a poco avrebbe stabilito Freud secondo cui il contrario del gioco non è il serio ma la realtà) davanti alla traumatica ipotesi, del tutto inammissibile, di un bianco complice di uno schiavo ricercato, condizione inaudita e neppure sfiorata in Tom Sawyer, decisamente dirompente nel sospettare in capo all’autore l’intento di fare dell’esempio di un ragazzino lo sprone a un cambiamento epocale della coscienza collettiva.
Sicché, giunti al decisivo XXXI capitolo, mentre il giovane lettore vede, nel dubbio di Huck se fare sapere a Miss Watson dov’è il suo negro, l’adolescenziale titubanza di chi non vorrebbe tradire un compagno di sventura, essendo entrambi degli esclusi, o commettere peccato mortale e finire all’inferno tacendo la verità a chi ha il diritto di conoscerla, il lettore più avvertito coglie piuttosto il drammatico conflitto interiore di un tredicenne, trasposizione di uno spirito umanitario che pure alberga nella coscienza americana o quantomeno è presente in Twain, che si mostrerebbe a contrario un “bravo ragazzo” violando la legge naturale che lo richiama al rispetto della dignità umana oppure un “cattivo ragazzo” a tenere segreta l’informazione su Jim.
Questo ribaltamento di una morale agonale che deve fare i conti con un tempo dominato dal maggioritario pensiero calvinista a favore della schiavitù (entro il quale l’uomo nero è proprietà privata se è schiavo) investe di petto la condizione sociale nell’America dell’Ottocento, in particolare quella degli anni Quaranta nei quali la storia è ambientata (con una strategica regressione operata da Twain di circa quarant’anni rispetto al tempo della scrittura), finendo al centro della stagione precedente alla Guerra di secessione e dunque di maggiore stabilità dell’istituto della schiavitù nelle regioni del Sud prima della sua abolizione.
Twain rende Huckleberry Finn il solo portatore di questa clamorosa istanza facendo sì che Tom Sawyer, che pure prende addirittura l’iniziativa nel piano di fuga di Jim, si convinca a fare scappare il nigger ricercato non in nome di un ideale solidaristico ma per l’occasione che gli viene offerta di tradurre in realtà gli insegnamenti ricevuti dai libri d’appendice di cui è appassionato lettore, novello don Chisciotte in cerca di res gestae e mirabilia piuttosto che di giustizia sociale e buone azioni.
“Cosa ci sarebbe di eroico in tutto questo?” chiede Tom a Huck che gli propone semplicemente di fare scappare Jim scavando una buca. Tom sa che Jim è stato già reso libero dalla sua padrona ma tace per il solo gusto dell’avventura da vivere seguendo le regole scritte: “Non ti viene in mente” incalza Tom l’amico “che i tizi che hanno fatto i libri sanno quali sono le cose giuste da fare?”. Una goliardata rocambolesca e da Gran Guignol che stinge la natura ideologica nella quale invece Huck è profilato.
Ma, per un ulteriore rovesciamento di parti – che sono parti sociali a un occhio attento – è Tom il “ragazzo rispettabile, educato come si deve, con un buon nome e una famiglia per bene”, nel cui seno è impensabile fare fuggire un negro. Eppure Tom è pronto a farlo e mettersi fuori legge, ma per trasgredire alle convenzioni sociali e non per profanarle come invece si propone Huck, che è già fuori dalla legge e vuole esserlo ancora di più nel suo progetto di stare vicino a Jim anche dopo la fuga, ritenendo l’amicizia un valore più alto dell’ordine costituito.
A differenza di Tom, è mancata a Huck “l’educazione adatta” che avrebbe ricevuto in oratorio, cioè dalla Chiesa, dove avrebbe imparato, come gli rimprovera la coscienza, che “la gente che fa come hai fatto tu con questo negro finiscono diritti nel fuoco eterno”. Un’antifrasi che rileva come per Huck essere vissuto lontano dall’oratorio, dai canoni ufficiali della buona educazione, gli sia piuttosto valso un sentimento di partecipazione umana che è soltanto suo nella folta platea di personaggi del romanzo, e meglio ancora della sua epoca, tutti convinti dell’enormità di un negro fuggitivo aiutato da un bianco.
Per marcare la distanza tra i due monelli, Twain lascia che sia Tom a prendersi nel finale tutta la scena e riduce Huck in un ruolo scorciato e laterale, dove può anche scappargli di bocca, all’idea di Tom del buco sotterraneo che giunga fino in Cina, la sciocca osservazione che “Jim non conosce nessuno in Cina”: spia questa di un affetto personale più che di un interesse strumentale, ma segno di una posizione di subalternità. Che serve però, dopo l’arrivo di Tom Sawyer in casa Phelps in una cui dependance è tenuto prigioniero Jim, per riportare il romanzo realista a farsi di nuovo commedia, gioco a ricercare la trovata buona per il pubblico adolescente, che sia iperbolica e perciò inverosimile nell’ideazione di progetti di fuga che fanno di Tom persino un grande benché improbabile esperto di araldica.
Del resto quanto Twain vuole comprendere nel suo grido di dolore e di rabbia è nella precedente decisione di Huckle di commettere peccato e andare all’inferno strappando la lettera destinata a Miss Watson, vincendo così i pregiudizi che in un primo momento lo hanno indotto a pensare di poter “fare una cosa che per tutti è vergognosa e che porta il disonore alla sua famiglia”.
Visto in questa chiave, Le avventure di Huckleberry Finn è una bomba piazzata da Twain nel mezzo della società bianca perbenista e sovranista pronta ad esplodere e ridurre in macerie quasi tre secoli di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Una bomba che però non scoppia, perché Huckleberry è capziosamente protagonista di un innocuo e disincantato “romanzo per ragazzi”, ma che tuttavia emette radiazioni, ovvero gli effetti che il suo successo produce nel tempo, instillando sin dal suo apparire i primi elementi di un nuovo modello civile e culturale che nel gioco sorprende il vero e si aprirà molte strade.
Ma gioco e realtà non sono gli elementi costitutivi soltanto di Le avventure di Huckleberry Finn, perché formano le fondamenta di una cultura letteraria, quella americana dell’Ottocento, ispirata a due estremi: l’umorismo tentato dal comico e il pessimismo più angosciante. Mark Twain ne è stato l’interprete maggiore, certamente il più felice, ma non si può apprezzare al meglio Le avventure di Huckleberry Finn senza calare l’autore nell’ambito dottrinale che lo ha forgiato.
Gioco e realtà rispondono ai capisaldi della letteratura nordamericana, risospinta tra civiltà e barbarie: da un lato la cultura europea, in principal modo di lingua inglese, che culla il protestantesimo nelle forme dell’anglicanesimo dal quale prende vita il puritanesimo (religio dei cosiddetti “bramini” della costa est, gli intellettuali della civilizzazione dell’Ovest sull’esempio inglese); da un altro lato la wilderness della frontiera che impone una vita durissima e regole che ammettono l’imbroglio, la vendetta, la sopraffazione.
Per vincere dentro sé stessi il richiamo della civiltà e adattarsi a condizioni di assoluta brutalità, gli uomini della frontiera si trovano infatti a dover esercitare l’inganno come valuta di scambio, da volgere in scherzo se diventa necessario minimizzare la frode. L’inganno è peraltro sostanziale nel racconto sia orale che scritto, genere che sin dall’età coloniale si è precisato nei modi dei tall tales, i racconti esagerati e incredibili che spopolano nel West e si alimentano alla sola fonte dell’umorismo. Basti il caso del famoso scout Kit Carson che trova in un carro assalito dagli indiani un romanzo che narra le imprese di un pellerossa con il suo nome: a tal punto è spinta la mistificazione insieme con la dissimulazione. Ma a pari grado c’è anche la dissacrazione dei sacri valori della vita patriottica, a cominciare dal puritanesimo che è feroce contro i narratori del West, tanto che il critico letterario scozzese John Nichol scrive di essi: “L’ansia di essere nazionali ha indotto molti autori minori a rendersi ridicoli. Per non camminare come gli inglesi, si sono messi a quattro zampe”.
Negli anni Sessanta del Novecento scrive dal canto suo Francesco Mei: “Era la durezza spietata della repressione del puritanesimo a scatenare nel pioniere americano, a contatto con l’ambiente selvaggio del West, la molla assurda del riso”.
Il superamento del conflitto barbarie-civiltà è dunque dato dalla possibilità di volgerlo in humour. Ancora Nichol così definisce tale stato di contrasto: “L’umorismo transatlantico è la rozza fioritura di un popolo abitualmente serio: si affida soprattutto all’esagerazione, a un misto di serio e giocoso che, come nei canti negri, accorda parole comiche a una melodia triste”.
E Mark Twain esordisce proprio con un tall tale: La famigerata ranocchia salterina della contea di Calaveras, arrivando a Tom Sawyer e Huckleberry Finn percorrendo con decisione la via dell’umorismo. Entrambe le opere in realtà non sono che una raccolta intrecciata di episodi, dunque di racconti, che è la misura più congeniale ai narratori nordamericani, influenzati come sono dal gusto tutto western e popolare di raccogliersi in piazza e nei saloon ad ascoltare attori, autori, preti, politici, ciarlatani e chiunque abbia qualcosa da raccontare.
Senonché Twain fa di più: mutua le forme del parlato comune in un regionalismo (che, come scrive ancora Mei, “nasce da una grande sintesi poetica dello spirito del West”) che si distingue per la sua personalissima cifra: il rilancio dell’umorismo nel comico. In un clima nel quale, scrive l’inglese Marcus Cunliffe, “l’ottimismo del West diventa talora obbligato, sino a prendere il sapore della disperazione”, storie come quelle di Tom e Huck, pur mantenendo il loro tono di ilarotragedia, dovevano fare ridere il pubblico, giovane e non, molto più di quanto avvenga oggi.
Non solo l’uso dell’argot, che pure rende ogni traduzione italiana soprattutto dell’Huckleberry Finn una variante lessicale, ma anche le sit-com create per suscitare il riso attraverso il paradosso e l’iperbolico sono intenzionali in Twain. Con una netta differenza rispetto al modello europeo: i tipi assunti come personaggi per fare da mimi del riso non sono in Mark Twain – e non soltanto in lui, ma anche in autori suoi coetanei quali Artemus Ward, Bret Hart, Josh Billings – figure di cui ridere com’è nel vecchio continente ma caratteri con cui ridere. Non c’è denigrazione, né potrebbe essercene se il proposito dell’autore è di suscitare la risata e indurre la riflessione.
C’è sempre un’arrière-pensée con un fondo querelatorio negli episodi che vedono Huck protagonista. Si veda quando capita, dopo una tempesta sul Mississippi durante la quale perde Jim, nella terra dei Grangerford, famiglia aristocratica impegnata in una pluriennale faida a colpi di omicidi con i vicini altrettanto altolocati degli Shepherdson: Huck ne rimane coinvolto e sconvolto, fuggendo infine da tanta violenza che vede scatenata senza fondati motivi da una borghesia insensata e cruenta. L’ultimo scontro a fuoco tra le due casate ritiene che sia stato colpa sua per avere favorito la fuga di Harney Shepherdson e Sophia Grangerford, Romeo e Giulietta in modalità West: come sarà per Jim, avere incoraggiato il bene dell’amore nonché una possibile pace diventa per lui motivo di scoramento nel convincimento che la faida sarebbe stata meno devastante dal momento che ha provocato una carneficina a causa proprio del suo spirito anticonvenzionale. Spirito che si rivale però nei confronti di un’altra famiglia, i Wiks, truffati dal “Duca” e dal “Re”, fanfaroni, truffatori, campioni di “storie esagerate” e alla fine anche cacciatori di taglie volendo consegnare Jim. Huckle riesce a fare riavere ai legittimi eredi la somma di cui i due furfanti si sono impossessati, rendendosi artefice di un’azione contraria alla prassi comune basata sull’imbroglio, ma è del tutto consapevole stavolta di aver fatto la cosa giusta.
Alla fine, quando zia Sally lo vuole tenere in casa per educarlo alle buone maniere, come hanno provato a fare la vedova Douglas e Miss Watson, Huckleberry si oppone e decide di fuggire in direzione del Far West, verso quindi più remoti backwoods, incontro a una libertà mista a licenza che significhi ancora di più lo snaturamento delle regole comuni ma senza più i dubbi e le incertezze su ciò che è ben fatto e quanto invece è sbagliato.
La decisione di Mark Twain di lasciare disperdere il bagaglio di acquisizioni – le “opinioni corrette”, avrebbe fatto dire Platone a Socrate – maturate da Huck sottende infatti la preferenza a favore dell’eterodosso rispetto al canone. La morale, girata tutta dal lato dell’America che deve nascere, è intesa a stabilire la priorità del primordiale genuino sul progresso artificioso: meglio un’America della barbarie che l’Europa della civiltà.
Le ultime parole del libro e di Huckle costituiscono allora una dichiarazione di intenti che farà da statuto alle generazioni di metà Novecento votate anche in Europa alla ricerca delle nuove frontiere on the road: “Credo che andrò nel Territorio indiano prima degli altri, perché zia Sally ha intenzione di adottarmi e civilizzarmi e io una cosa così non la posso sopportare. Ci ho già provato una volta”.
Ma c’è una spia a segnalare in Twain la coscienza che il suo principale romanzo possa essere letto non per quanto dice ma per ciò che intende. L’“avviso e avvertenza” iniziale, quasi una diffida a non alimentare significati traslati, è chiaro e nello stesso tempo illuminante: “Le persone che in questa narrazione cercassero di trovare dei fini saranno perseguite legalmente; quelle che cercassero di trovarvi una morale saranno esiliate; quelle che cercassero di trovarvi una trama saranno giustiziate”. Gioca, ma esprime una preoccupazione reale.

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