
L’americano più depresso della letteratura novecentesca è Holden Caulfield, il diciassettenne protagonista di quel “racconto del collegio” – come Jerome David Salinger, per tutti “Jerry”, chiama il suo romanzo quando comincia a elaborarlo già a cavallo degli anni Trenta e Quaranta – che nel 1951 diventa “The catcher in the Rye”, arrivato in Italia nel 1961 (ma uscito nel 1952 in una edizione di sole mille copie da Gherardo Casini Editore con l’infelice titolo “Vita da uomo”) e da Italo Calvino ribattezzato Il giovane Holden. Einaudi che lo pubblicò fu costretta, per volontà dello scrittore newyorkese, contrario a qualsiasi forma di apparizione (che rifuggì sempre ma che segnò la sua fortuna anche economica), a modificare la copertina illustrata con una del tutto bianca che diventerà un brand della casa editrice torinese.
Holden si afferma come archetipo letterario del mal di vivere individuale che la generazione del suo tempo riconosce come proprio male oscuro e si fa, nei due decenni successivi e oltre, simbolo dell’insofferenza generale contro ogni convenzione, a partire da quella familiare e scolastica, sulla quale i giovani americani non beat né hippie né yippie fonderanno il loro spirito di rivolta assumendo il romanzo a loro manifesto. Passando da un originario registro di introspezione e malcontento personale a una condizione sociale rivoluzionaria, Il giovane Holden sarà un libro proibito e nello stesso tempo un testo adottato nelle università, e si troverà perciò nelle mani dell’assassino di John Lennon al momento del delitto e in casa dell’attentatore di Reagan. Da romanzo per sacco a pelo diveniva accessorio da eskimo.
Oggi è un book cult che continua negli Usa a esercitare un fascino costante, di gran lunga maggiore tuttavia di quello che sin dal primo momento ha avuto in Europa, dove la poetica della depressione, del giovane inetto e insofferente, è ben nota sin dagli ottocenteschi de Esseintes di Huysmans e Oblomov di Gončarov ed è stata materia in Inghilterra di Dickens e in Italia di Svevo. Su di tutti ha altresì pesato la lezione di Conrad con Linea d’ombra che ha anticipato Holden nella rappresentazione del passaggio dall’età giovanile a quella adulta.
Holden non ricerca una transizione esistenziale di questo tipo perché è già dotato, come tutti i personaggi di Salinger, di una intelligenza così viva e di una coscienza talmente rigorosa da apparire già maturo nella critica che oppone ai comuni modi di fare e di essere, agli istituti sociali, ai costumi imperanti, alle usanze più di moda, alla prassi conformista. Il clima statunitense nel quale smania Holden ha di fatto un altro cielo rispetto a quello europeo. Ci sono stati Jack London e Mark Twain con il suo Huckleberry Finn e soprattutto con Tom Sawyer – più fratello d’inchiostro perché proveniente da una famiglia bene come Holden – mentre si annunciano due anni dopo Le avventure di Augie March di Saul Bellow, ricalcato su Twain, e nel 1957 l’altro totem del tempo, Sulla strada di Kerouac, pronto da sette anni e rimasto in attesa di editore, dunque compagno di strada di Il giovane Holden. E ci sono stati anche Faulkner ed Hemingway che hanno obbligato gli autori emergenti quali appunto Salinger a guardarsi attorno anziché dentro, come succede in Europa, portando la loro sindrome adolescenziale nel crudo della realtà circostante e dunque dei problemi collettivi anziché dei disagi individuali.
Peraltro, con Di qua dal Paradiso, Scott Fitzgerald ha da tempo plasmato il modello di giovane intemperante che a differenza dei coetanei europei forgiati già da un secolo da Balzac e Stendhal non si arrampicano nel bel mondo per conquistarlo ma ne subiscono il dominio rimanendo inermi. Holden arriva sulla scena americana proponendosi nel sembiante non del monello o del ribelle, ma del giovane dimesso e passivo che contesta ogni propria circostanza ma non fa nulla per cambiarla. Si impegna a ideare continue iniziative per poi rinunciarvi e accontentarsi solo di immaginarle. Progetta ma non costruisce anche quando si tratta di fare una telefonata. Pensa di chiamare questo e quella, o magari di andare a trovare qualcuno, ma desiste quasi sempre.
Unanimemente considerato il praetor maximus della Beat generation, Il giovane Holden, invero il solo romanzo scritto da Salinger, gli altri essendo tutti racconti più o meno lunghi, si è piuttosto tenuto molto distante dai rivolgimenti giovanilisti del Dopoguerra. Mentre Kerouac, Ginsberg, Burroughs, Ferlinghetti, Cassady inseguono ideali di cambiamento e propugnano nel segno dell’eccesso ogni tipo di libertà se non di licenza, da quella sessuale a quella sull’uso e abuso di droghe, Salinger affida a Holden la sola funzione di osservatore dei guasti della società, nella quale egli cerca un senso di appartenenza, ancor meglio un ruolo, e non un modo per rifuggirla.
Ai beatnik seguiranno gli hippies da cui nasceranno i più radicali yippies. La sola persona che ha compreso perfettamente quanto Salinger fosse lontano dal loro mondo, che era anche il suo essendone la massima interprete, è stata Fernanda Pivano, la quale ha ignorato bellamente Salinger, bollando sia lui che Pynchon come “scrittori perduti” per via del loro isolamento, arrivando a definirlo, per tenerlo lontano, cioè estraneo alla rumorosa temperie beat, “di gusto europeizzante”.
Il Salinger non di Il giovane Holden, che fa da boa alla sua parabola, ma dei racconti successivi è invece americano anche nello spirito, tra esaltazione e fanatismo, della professione di fede esercitata prima da buddista Zen e poi da cristiano più intransigente. In Seymour. Un’introduzione chiamerà i beatnik “una banda di sordi” e “sicari dello Zen”. Criticando velenosamente i critici letterari, Buddy li stigmatizzerà col marchio di “schiavi della Beat generation”. Il biografo di Salinger, Kenneth Slawenski, autore di Salinger (Newton Compton, 2019) è chiaro quando scrive che “mentre Salinger dava fede e speranza, i beatnik offrivano soltanto condanne e cecità spirituale”.
La spiritualità, entro l’eterno conflitto con l’ego materiale, proprio anche di Kerouac & Co., diverrà dopo Il giovane Holden l’ossessione di Salinger che di questo must appesantirà tutta la sua produzione (bocciata dalla critica e osannata dal pubblico, affascinato da queste oltranze tipicamente americane), finendo per dichiarare che nulla poteva più scrivere che prescindesse dalla soluzione del dualismo tra spirito e materia, sentito persino come macerante problema personale.
Il giovane Holden arriva prima e fa dunque gioco a sé anche nella sfera letteraria di Salinger oltre che nel panorama americano e internazionale. Innanzitutto non offre né fede né speranza, perché la gaiezza dei racconti a seguire, innanzitutto Franny, è del tutto assente nel Giovane Holden pervaso com’è da un’aria di cupezza che sarebbe apparsa più evidente senza il tono ilare, il linguaggio scanzonato e analogico che la stempera. Concepito già da oltre vent’anni e nato dall’integrazione di vecchi racconti, di cui risente per la sua natura compilatoria, il romanzo si costituisce come l’opera autografa di un malato: un giovane affetto da severe turbe psichiche di carattere depressivo, probabilmente un disturbo bipolare, che lo portano in una clinica della California nell’estate appena successiva ai fatti narrati e ambientati sotto Natale.
Salinger si guarda dal fare di Holden un caso da manuale di medicina psichiatrica, perché lo vuole alfiere di istanze nelle quali da trentenne riconduce le proprie, appena vissute, di giovane introverso e disadattato con problemi di stress post-traumatico dovuti agli effetti determinati dalla drammatica e mai elaborata esperienza bellica in Europa. Ricoverato in un reparto psichiatrico, Holden si addice a scrivere, alla maniera di Zeno Corsini e perciò a scopo terapeutico, le vicende che ne sono state la ragione: intendendo cercare le cause del proprio malessere, si rende nondimeno testimone di una condizione generazionale che coglie per primo all’indomani della Seconda guerra mondiale nella coscienza giovanile: una coscienza nella quale. non tanto negli anni Cinquanta quanto a partire dal decennio successivo, non ci sarà giovane soprattutto americano che non si vedrà nello stesso letto d’ospedale e con la stessa diagnosi.
L’autore è volutamente vago, ma il testo offre precisi indizi, che figurano non a caso solo nel primo e nell’ultimo capitolo. Nel primo l’io narrante, lo stesso Holden, scrive che è sua intenzione narrare “le cose da matti” che gli sono successe prima di ridursi “così a terra da dovermene venire qui a grattarmi la pancia” e poi che suo fratello sta a Hollywood e “non è tanto lontano da questo lurido buco e viene qui a trovarmi praticamente ogni fine settimana. Mi accompagnerà a casa in macchina quando ci andrò il mese prossimo. Chi sa”. Apprendiamo dunque che Holden ha fatto delle mattane ed è finito in un posto non lontano da Hollywood da dove suo fratello, quando e se sarà dimesso, lo riporterà a casa, cioè a New York. Immaginiamo dunque che Holden sia in California, secondo l’interpretazione della maggioranza della critica, ma può essere in uno Stato vicino.
Nell’ultimo capitolo, Holden fornisce poi i chiarimenti necessari circa il suo stato: “Potrei dirvi cosa feci quando andai a casa [ma non è tornato ancora a casa, nda] e come mi sono ammalato e via dicendo e a che scuola dovrei andare in autunno quando sarò uscito da qui [dove infatti si trova e dove scrive, nda]” e poi: “Un sacco di gente, soprattutto questo psicanalista che c’è qui, continuano a domandarmi se quando tornerò a scuola a settembre mi metterò a studiare”. Abbiamo finalmente notizia che si è ammalato ed è stato internato in una clinica psichiatrica. Quello che sembrava un gurgite rivoluzionario in forza del quale Holden anticipasse di quasi una generazione la contestazione giovanile e nel cui spirito il romanzo si è di fatto presentato altro non è che il risultato di uno stato mentale alterato che ha condotto il giovane a compiere appunto “cose da matti”. Sembra quasi uno scherzo tirato da Salinger, ancor più avvalorato dal senso di preterizione che profila l’intero romanzo, fatto di avvenimenti tutti interamente riportati ma dati come ancora da raccontare, laddove l’autore aprendo l’ultimo capitolo scrive: “Ecco tutto quello che sono disposto a raccontarvi”. A volere precisare che la parte edificante, protagonista il suo Holden, deve ancora venire.
Ma non è uno scherzo, inimmaginabile in un tipo malmostoso come Salinger, bensì una vasta allegoria intinta nella realtà. Già il titolo originale suggerisce simbolicamente l’immagine di una presa, sequestro o salvataggio che sia, di qualcuno che attraversa un campo di segale. Holden dà alla canzoncina il secondo significato elevandosi a salvatore di bambini che giocando in un campo di segale rischiano di finire in un dirupo sul cui orlo lui si figura di attestarsi per afferrarli. È una delle tante visioni che ghermiscono il giovane flâneur in giro anche nottetempo per New York, preda di ricordi e di sogni nella ricerca senza meta di una tappa e dentro un vortice di passato, presente e futuro che fa da contrappunto all’immobilità in cui lo stesso giovane finisce qualche mese dopo per ritrovarsi.
Di tenace forza allegorica è anche il giro di giostra che la sorellina fa mentre Holden la guarda dabbasso vedendone rappresentata l’innocenza e la serenità. Ancora allegorici sono gli incontri con i due professori Spencer e Antolini, il primo surrogato della figura paterna pronto a vaticinare rovesci futuri, il secondo più amabile e compagnone ma anche equivoco e ipocrita. Carattere simbolico hanno ancora i due compagni di college, Stradlater, bello e farfallone, e Ackley, lurido e ficcanaso, modello da invidiare ed emulare il primo, come pure da temere, ed esempio umano da rifuggire il secondo, ma da sentire più vicino e affidabile: entrambi contrapposti all’ex compagno Carl Luce, divenuto “qualcuno” e come tale degno dell’acuta perfidia di Holden che lo sottopone a un interrogatorio intimo al quale l’amico si sottare dicendo di non volere rispondere “a qualsivoglia domanda alla Caulfield”.
E allegorico è certamente il refrain più noto del romanzo: quello del dubbio che Holden nutre circa le “anitre” (così nella traduzione più nota e più libera di Adriana Motti rispetto all’altra più fedele di Matteo Colombo del 2014: tanto libera che la prima base in baseball diventa l’area di rigore e “goddam” viene tradotto sempre “vattelapesca”) del lago del Central Park se d’inverno vengono portate via essendo il lago gelato. Lo chiede a chi può, arrivando a ingaggiare un battibecco con un tassista perché trova assolutamente sensato il dilemma e integrando così i valori della conoscenza e della comunicazione al di là dei paradossi stabiliti dalle convenzioni. Forrest Gump ante litteram, Holden Caulfield non è autistico, ma tradisce un deficit che si traduce in iperattività e impulsività. Non è un asociale perché cerca con insistenza i rapporti umani, fino a pagare una prostituta e frequentare bar di ogni tipo. Non è un perfettino perché beve e fuma, ma non si droga. Ama le ragazze, ma non per il sesso. Non gli piacciono i film, anche se va a vederli, parole come “struttura”, “eccezionale” È un obiettore di coscienza che non protesta pubblicamente né cerca solidarietà, piazze o appartenenze ideologiche. In definitiva è un ragazzo depresso, convinto che “non c’è bisogno di essere un cattivo diavolo per deprimere la gente, puoi riuscirci anche se sei una bravissima persona”. Così Holden condanna tutti e li accomuna a sé. Non è solo lui depresso, ma lo è potenzialmente il mondo.
“Quando ti decidi a crescere?” gli ha chiesto Carl Luce, non vedendo quanto quel suo coetaneo sia già maturo, anche se piuttosto sopra le righe. Quel che gli detta Salinger, da riportare nel suo diario di ospedale, può essere bene intestato a Holden come lo abbiamo conosciuto. Si tratta di una citazione di Wilhelm Stekel, psiconalista freudiano che il professore Antolini dà a Holden in un biglietto perché ne faccia tesoro: “Ciò che distingue l’uomo immaturo è che vuole morire nobilmente per una causa, mentre ciò che distingue l’uomo maturo è che vuole vivere umilmente per essa”. Ecco, nemmeno il professore Antolini si avvede che Holden è proprio il secondo tipo di uomo. Né santo né eroe. Holden cerca la normalità e trova ovunque l’eccezione e l’eccesso. Facile vedere in lui lo stesso Salinger, che non ha mai dopotutto negato l’accostamento. Talché sembra di sentire lo scrittore più misantropo di sempre quando Holden scrive: “Io sono il più fenomenale bugiardo che abbiate mai incontrato nella vostra vita”.
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